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ESCLUSE DALL’ART.49 LE MATERIA DISCIPLINATE DAL CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO

Italia Nostra, prendendo atto che è stata accolta la propria richiesta di escludere dal dispositivo dell’art. 49 della “Manovra” (ddl 2228) - S.C.I.A. (segnalazione certificata di inizio attività) - le materie disciplinate dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio, ringrazia i parlamentari di tutti gli schieramenti che si sono adoperati per arginare lo smantellamento del sistema della tutela, come garantita dall’art. 9 della Costituzione.

Italia Nostra ribadisce la propria ferma opposizione all’introduzione dell’istituto della S.C.I.A, che ulteriormente indebolisce la funzione pubblica di governo del territorio e della città e si rivela l’ennesima aggressione al Paese perché lascia indifeso il nostro patrimonio di fronte alle peggiori speculazioni. La S.C.I.A. è una minaccia gravissima e incivile.

Roma, 14 luglio 2010

Edilizia, proteste contro il silenzio-assenso. Bondi si dice «sorpreso» della norma, con cui oltre la Dia viene eliminato anche il Durc che attesta la regolarità contributiva delle imprese. E spunta l’«archeocondono»

Il Pdl approfitta della manovra per accelerare sul «fai da te». Monta la protesta contro la deregolamentazione in materia edilizia, che con l’abbandono dei permessi ambientali per costruire fa svanire anche il Durc, l’unico documento delle imprese di regolarità contributiva. E spunta pure l’archeocondono. Qualcuno nel Pdl (un’anima interessata?) l’ha preparato con cura: una sanatoria sotto forma di emendamento per chi possiede reperti archeologici illegittimamente. Al Belpaese mancava solo questa. Il relatore di maggioranza, Antonio Azzollini, nega recisamente la sua esistenza, il Pd (che ne è in possesso) si appella al presidente Napolitano e annuncia: «Continueremo a vigilare affinché qualche manina non lo inserisca», dice Manuela Ghizzoni della commissione Cultura della Camera, che allega anche il testo dell’emendamento circolato in questi giorni dal titolo «Disposizioni in materia di emersione e catalogazione di beni archeologici, nonché revisione delle sanzioni penali». Perché è chiaro: «Così si autorizza il saccheggio delle necropoli e dei siti archeologici italiani».

Archeocondono ed Evasione

Se l’archeocondono resta un’ipotesi devastante, in materia edilizia e dintorni quello che al momento non è stato ritirato è l’emendamento che trasfigura la Dia nella Scia, che non è più un’autorizzazione vera e propria con tanto di sanzioni per iniziare a costruire, ma una semplice comunicazione di avvio del cantiere. E che non prevede per i lavori privati, come invece faceva la Dia, l’obbligo di allegare il Durc, che il committente deve trasmettere all’amministrazione comunale, uno dei pochi strumenti in mano allo Stato per accertare la regolarità contributiva delle imprese edili. Tradotto: non solo sarà possibile costruire senza avere i permessi ambientali, ma pure evadendo allegramente (in qualche modo legittimamente) il fisco. Altro che lotta all’evasione fiscale sbandierata da Tremonti. I sindacati ne chiedono l’immediato ripristino, e lo fa anche l’Ance, l’Associazione dei costruttori edili, che tra l’altro domani si riunisce in assemblea davanti a Berlusconi. Le domande per lui da un settore continuamente mortificato saranno tante.

«È fondamentale ripristinare l’obbligo del Durc per contrastare il sommerso dice una nota dell’Ance Va mantenuta alta la guardia sulla regolarità delle imprese, con ogni azione necessaria a prevenire e combattere fenomeni di lavoro sommerso, soprattutto nell’attuale fase di crisi» in cui, ancor più di prima, le imprese fanno incetta di lavoratori rumeni, polacchi, africani di cui non resta mai traccia. Un dato per inquadrare il fenomeno: nel 2008 l’evasione ed elusione fiscale e contributiva nel settore era stimata intorno ai 6 miliardi di euro, e oggi è salita a 10 miliardi, ovvero poco meno della metà dell’intera manovra economica.

Eliminare il Durc, insomma, equivale a fare un passo indietro rispetto alle disposizioni oggi in vigore, «frutto della condivisione di tutte le associazioni datoriali di settore insieme ai sindacati di categoria». Proprio quest’anno, ad aprile, col rinnovo del contratto edile, il documento era stato migliorato, legando il suo rilascio ad una verifica della congruità del numero di lavoratori impegnati, dichiarato dall’impresa per ciascun cantiere di lavori pubblici e privati. Ma, con l’avvento della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività, in sostanza il silenzio-assenso sull’avvio dei cantieri) al posto della Dia (Dichiarazione d’inizio attività), arrivata con un emendamento presentato da Azzollini venerdì sera in Commissione Bilancio al Senato, l’esistenza stessa del Durc viene messa in discussione.

Anche la Scia, comunque, resta molto controversa, osteggiata anche da molti nella maggioranza e nello stesso governo: «Desta sorpresa dice il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi l’approvazione di un emendamento che estende la Scia anche per gli interventi sui beni culturali e paesaggistici, senza che il ministero sia stato informato». La Scia ha scatenato le proteste dell’opposizione, degli ambientalisti (che parlano di «scempio»), del direttore della Normale Salvatore Settis, ma anche del Fai e del Wwf, che si sono appellati proprio a Bondi perchè respinga l’emendamento.

«Un grande regalo alle imprese senza regole né legge»

Intervista a Walter Schiavella. Il segretario della Fillea denuncia la «deregulation» contenuta nella manovra E i costruttori dell’Ance concordano

Le risposte che la manovra offre sono l’esatto opposto di quello che il settore chiede da tempo. Rappresentano un regalo alle imprese irregolari, affondano ancora di più quelle regolari, e permettono il lievitare di evasione ed elusione fiscale. Perché, ricordiamolo: quello edilizio è uno dei terreni prediletti in cui le mafie reinvestono». L’allarme è forte, di quelli che una società civile dovrebbe raccogliere. Lo lancia Walter Schiavella, segretario degli edili Cgil, ma concorda anche l’Ance, l’Associazione delle imprese, che domani riunisce la sua assemblea nazionale cui dovrebbe partecipare anche Berlusconi. Su un settore già sfiancato dalla criminalità organizzata e dalla crisi (a marzo 2010 registrate 7mila imprese in meno rispetto all’anno prima, -9%, e circa 100mila lavoratori in meno), piomba con la manovra la nuova deregulation del Pdl: basta autorizzazioni per costruire, e con esse basta Durc, il Documento che attesta la regolarità contributiva dell’azienda di cui la stessa Ance chiede la reintroduzione, e che ha permesso l’emersione di migliaia di posizioni lavorative. «Per noi sicurezza, legalità, regolarità sono aspetti legati a doppio filo, e quel filo è il Durc, sperimentato nel post terremoto in Umbria, dove permise la ricostruzione senza che un solo cantiere fosse irregolare».

Il mantra del Pdl è “troppa burocrazia, semplifichiamo”.

«Paradossale. In edilizia non c’è nulla da semplificare, semmai il contrario: bisogna definire nuove regole per accedere ad una professione che oggi non necessita di alcun requisito, costruire soglie d’accesso che leghino qualità e minimi criteri. Infatti in Italia le imprese edili sono il doppio rispetto a Francia, Germania, Spagna: circa 600mila, cui si aggiunge l’esercito delle partite Iva, che solo tra il 2006 e il 2008 sono aumentate del 208%, tra stranieri e italiani. Un quadro che ha prodotto l’aumento esasperato della concorrenza, e un’impennata degli sconti nelle gare d’appalto: ribassi del 50-60% non sono più casi rari. Ma un’impresa sana, regolare, quando mai può vincere un appalto al massimo ribasso?».

Lavoro nero ed evasione fiscale: qual’è la situazione nei cantieri?

«Sono in costante crescita part-time, che nei cantieri non ha alcun senso, sottoinquadramento, la riduzione delle spese per la sicurezza e il ricorso al lavoro nero (300mila persone stimate nell’edilizia), con cui le imprese cercano di ridurre i costi. Oggi siamo a circa 10 miliardi di evasione ed elusione fiscale e contributiva. Quasi la metà della manovra. È chiaro che la presunta battaglia all’evasione di cui parla il governo è solo uno specchietto per le allodole: perché proprio là dove l’evasione si annida, si eliminano i già pochi strumenti per farla emergere».

Torniamo alla manovra: oltre all’abbandono delle autorizzazioni e del documento di regolarità, quali altri punti coinvolgono il settore?

«I tagli a Regioni ed Enti locali, che rappresentano oltre un terzo del mercato pubblico. La conferma del patto di stabilità blocca tutte le opere sotto la soglia dei 5 milioni di euro. E lo stop al turn over significa ridurre i già pochi ispettori (tra ministero e Asl non arrivano a 3mila), quindi i controlli nei cantieri. Questo governo non ha fatto nulla per l’edilizia, a parte portare a 52 settimane la richiesta massima di cassa integrazione, come previsto per gli altri settori. Del resto, il dato del ricorso alla cig è in diminuzione: i lavoratori non hanno più nemmeno quella, sono solo disoccupati».

«Digli a tuo fratello di non preoccuparsi perché tra due giorni gli facciamo un bel regalo». È la frase che il killer del clan dei Casalesi Giuseppe Setola dice a Luigi Ferraro fratello di Nicola Ferraro dirigente dell´Udeur e all´epoca dei fatti, presidente della Commissione permanente della Regione Campania, l´organismo che controlla la trasparenza degli affari istituzionali regionali.

Il regalo a cui fa riferimento Setola è tappare la bocca a un imprenditore che sta raccontando tutti i rapporti tra camorra e politica, tutti gli affari. Tappargliela per sempre. Ammazzarlo. E così la camorra fa il regalo a Nicola Ferraro uccidendo con 18 colpi Michele Orsi, 17 al corpo l´ultimo in faccia. Lo ammazzano nel giugno del 2008 impedendo così che Orsi imprenditore che la camorra aveva reso potente potesse - come aveva iniziato a fare - raccontare come funziona la politica italiana, come funzionano gli appalti, come le banche decidano di dare credito in base alle volontà dei loro maggiori clienti: i boss. Come i voti siano soltanto pacchi da spostare su un nome piuttosto che un altro e prescindano da qualsiasi programma politico.

Eppure di questa inchiesta della Dda di Napoli realizzata da Antonello Ardituro e Leandro Del Gaudio coordinati dal Pm Cafiero De Raho e le cui indagini per anni sono state fatte dai Ros di Napoli non se n´è parlato. I media l´hanno ignorata. Un cenno al telegiornale come soliti ed ennesimi arresti di criminali. Mentre invece queste indagini sono la dimostrazione oggettiva che la democrazia italiana sia completamente avvelenata dai capitali criminali, che migliaia di persone per garantirsi uno stipendio vendono il proprio voto a ras politici che si spostano da una parte o dall´altra a seconda di quanta disponibilità agli affari abbia lo schieramento politico di turno. Una inchiesta che mostra i meccanismi, le logiche, i poteri veri. Attraverso la gestione delle provincie i clan arrivano a mettere le mani su bottini milionari e a governare l´intero paese.

La Campania fu regione fondamentale assieme alla Calabria sia alle elezioni che videro vincere il centrosinistra sia alle ultime che hanno visto l´egemonia del centrodestra. Di chi furono i voti fondamentali? Chi li ha dati? Dov´è caduto il governo di centrosinistra? A Caserta. Il sottosegretario allo sviluppo che secondo le accuse della Dda di Napoli è un uomo del clan dei casalesi Nicola Cosentino è casertano. Attraverso la ferita di questa provincia passano gli affari più grossi e marci che se si percorrono sino infondo portano direttamente a Roma, a Milano, ai grandi affari nazionali e europei. Questa inchiesta è una delle più sconvolgenti dimostrazioni di come la camorra comanda su impresa e politica riuscendo letteralmente a determinare equilibri elettorali e gestione dei posti di lavoro. Il meccanismo è rodato e immutabile.

Il clan gestisce gli appalti attraverso la potenza economica delle proprie imprese e coordinandosi con politici. che loro stessi creano. L´assegnazione degli appalti in gran parte della Campania viene decisa dal clan a tavolino con un meccanismo che si chiama "rotazione". Ossia assicurata alle varie imprese compiacenti, per cui di volta in volta si sceglie chi vincerà. Un meccanismo che non permette il monopolio: una azienda che vuole vincere gli appalti può farlo se decide di entrare in rotazione, paga una serie di quote al clan, assume persone, sceglie materiali del clan e a qual punto può partecupare alla rotazione, entra nel sistema. Il clan con la complicità dei pubblici funzionari si fa indicare le imprese che hanno "preso visione"del bando: se ci sono imprese non del sistema, vengono avvicinate e allontanate.

L´Udeur di Clemente Mastella è lo strumento non solo attraverso cui le organizzazioni criminali cercano di entrare direttamente nella disputa politica ma l´interfaccia attraverso cui poter incontrare anche politici Nicola Ferraro infatti tratta anche con esponenti del Pd come racconta il pentito Di Caterino:

«Nicola Ferraro, infatti, era molto legato al sindaco di Villa Literno, Enrico Fabozzi (ora consigliere regionale Pd) e quindi era in grado, per quanto a nostra conoscenza, di incidere nella aggiudicazione di questo appalto del valore di circa un milione di euro. La trattativa ha visto, poi, successivi incontri nei quali Luigi Ferraro ha dato la disponibilità per far vincere questo appalto alla persona da noi indicata. Ci ha detto, quindi, di recapitargli la busta con l´indicazione del nominativo della ditta rassicurandoci che non ci sarebbero stati problemi. Ho saputo, successivamente, che effettivamente l´appalto era stato aggiudicato alla persona da noi indicata e che i lavori poi sono stati effettivamente svolti».

Le intercettazioni di questa inchiesta che - se passasse la legge bavaglio questo giornale non potrebbe mostrarvele - sono davvero esplicative più di qualsiasi analisi o descrizione. Questa di seguito è l´intercettazione avvenuta nella Mercedes di Nicola Schiavone cugino dell´omonimo Nicola Schiavone figlio di Sandokan, parla con la sua fidanzata Raffaella.

NICOLA = no lunedì devo andare su un Comune là?

RAFFAELA = eh...

NICOLA = perché... dovremmo incominciare a lavorare noi, dovrei lavorare io... tutto sta a conoscere questo Sindaco qua, e vedere un po´ come funziona no? poi quando ci sta qualche cosa... dato che ci sta uno di Casale, che ha l´amicizia con il Sindaco, questo di Casale dice, è un politico no? dice qua, questo ehhh ti presento a mio nipote, questo e quello là che deve lavorare, dato che è la stessa corrente politica inc.. questo di Casale è assai più forte del Sindaco, hai capito? Allora è grosso capito? Nicola, Nicola Ferraro. Come non sta nella politica, alla faccia del cazzo….. insieme a Mastella… sta

La fidanzata non capisce chi è questo politico che presenta Schiavone ai sindaci dei paesi e gli fa vincere gli appalti e allora Schiavone gli cita il soprannome Focone, ogni persona in provincia è nota per il soprannome non per il nome.

La camorra sa benissimo su chi puntare. E quindi sceglie tra i politici quelli più scaltri, ambiziosi, furbi, capaci di saper intrattenere relazioni e di voler crescere. Di Luigi Ferraro, Nicola ha una pessima considerazione lo considera un animale incapace. Ma poi continua. Qui li giovane figlio del boss spiega esattamente il modo di costruire un politico

NICOLA = bravissima, mo´ cosa succede, succede che quando tu diventi Sindaco no? la politica è come una carriera... giusto? tu incominci a candidarti come consigliere, poi ti candidi come Sindaco, poi ti candidi alla provincia, poi ti candidi alla Regione e poi ti candidi al Governo, o no... è una scaletta...

RAFFAELA = è una scala dai...

NICOLA = mo´ il Sindaco... il Sindaco ha, sta nello stesso partito di Focone, mo´ Focone sta candidato alla Regione, ha vinto, hai capito o no?

NICOLA = eh, che lavorano per lui, perché Nicola Focone ha l´immondizia a tutte le parti, il camion che viene a prendere l´immondizia a Casapesenna..

RAFFAELA = tutti di Focone sono...

NICOLA = sono tutti di Focone vengono tutti da Casale

RAFFAELA = inc..

NICOLA = sempre... ma non li ha solo qua, lo ha presente a 30-40 comuni...

Tutte le gare sono corrette formalmente ma gli appaltatori sanno già quanto devono offrire per vincere. Tutte le imprese hanno il certificato antimafia, tutto formalmente in regola. Tutto gestito dai clan. Le elezioni del 2003, 2004 e 2005 in terra di camorra sono state gestite dal clan Schiavone ed anzi direttamente da Nicola Schiavone il figlio di Sandokan. L´inchiesta dimostra questo. Il fallimento della democrazia in territorio campano. Il personaggio chiave di tutto continua ad essere Nicola Ferraro tratto in arresto dai carabinieri ieri.

La campagna elettorale di una parte del centrosinistra (e poi del centrodestra alle ultime elezioni) la gestisce direttamente la camorra. Essere un politico del clan ha i suoi vantaggi e Nicola Schiavone lo spiega sempre mentre non sa di essere intercettato.

NICOLA= Focone(Nicola Ferraro) può mai essere che se ci può fare un piacere non ce lo fa a noi?!...

RAFFAELA= eh... certo...

NICOLA= il fratello si è sposato la cugina di mio padre, gli siamo compagni, lo facciamo venire a casa, sa che lo votiamo, sa che gli facciamo gli altri voti...

RAFFAELA= inc..

NICOLA=per la faccia di Sandokan, la che.... Sandokan lo ha fatto arricchire...

Quando il clan riesce a far vincere Ferraro si incontrano a festeggiare. Tutti i camorristi si confrontano, ognuno aveva il suo candidato, ma ha vinto quello della famiglia Schiavone. Il giorno precedente alla citata festa elettorale, Nicola Schiavone commentava con la propria fidanzata l´organizzazione approntata per omaggiare il candidato e gli esatti motivi per i quali il convivio era stato organizzato col consenso della famiglia del capo clan Sandokan. I ros pedinano Nicola Ferraro e scoprono che si incontra con il clan Schiavone. Notano persino che il clan quando lui arriva a Casal di Principe gli fornisce dei guardiaspalle.

Tutto passa per i casalesi. Anche l´ospedale. Decidere gli infermieri, i medici, i macchinari, la mensa. Tutto passa per le loro decisioni. E la borghesia cittadina casertana che da anni finge di non avere a che fare con i casalesi si rivolge a loro. Il 7 febbraio 2006, alle ore 18.56, veniva registrata una telefonata tra Ferraro e Federico Simoncelli, ex assessore all´ambiente della Regione Campania: Simoncelli chiedeva a Ferraro di potersi interessare per dare seguito ad una richiesta dell´avvocato Franco Schiavo, di Caserta, il quale aveva un´esigenza connessa al futuro professionale del proprio figlio medico. Tale soggetto - a dire del Simoncelli - aveva una raccomandazione personale dell´onorevole Mastella.

L´avvocato Schiavo aveva un figlio medico, provvisoriamente assunto presso l´Azienda Ospedaliera San Sebastiano di Caserta, quale dirigente del reparto di Urologia. Nel mese di marzo 2006 il contratto di lavoro sarebbe scaduto e l´avvocato Schiavo chiedeva a Ferraro di interessarsi affinché il proprio congiunto fosse assunto a tempo indeterminato tramite il già preannunciato e non ancora determinato concorso pubblico. Ferraro se ne occupa, chiama il direttore dell´ospedale di Caserta e come se fosse un suo dipendente gli impone il nome di Maurizio Schiavo come urologo dell´ospedale di Caserta. La camorra decide anche le carriere sanitarie. Ferraro alza ancora il tiro e non teme ostilità da Annunziata il direttore dell´ospedale di Caserta che gli aveva detto di essere stato contattato da diversi soggetti, alcuni dei quali definiti testualmente: «massoni.. delinquenti.. mascalzoni.. cornuti e ricchioni». Ferraro e quindi i casalesi vogliono gestire direttamente l´Azienda Ospedaliera di Caserta. Tenta di imporre alla direzione sanitaria un altro medico di propria fiducia: Carmine Iovine già direttore medico di presidio dal 2003 è il cugino del boss latitante Antonio Iovine e fratello di Riccardo Iovine arrestato per aver dato ospitalità al killer in latitanza Giuseppe Setola.

Ferraro contattava il Direttore Generale Annunziata per concordare un appuntamento e promuovere la candidatura del cugino del boss. Annunziata assicurava la propria collaborazione e sottolineava la propria volontà a non contrastare l´orientamento dei vertici del partito. Ma arrivano i guai, sta per nascere il conflitto tra la moglie di Mastella e Annunziata che porterà alla caduta del governo di centrosinistra. Carmine Iovine non viene più messo al suo posto, resterà a lungo capo del personale. Troppa luce nazionale, troppa attenzione. E quindi si ferma il progetto.

Ma la domanda che viene da tutto questo è: com´è possibile che tutto questo lasci indifferente un paese? Com´è possibile davvero che si blateri che raccontare queste storie sia un modo per diffamare il territorio? Quando gli affari, la corruzione estrema ha ormai eliminato la possibilità di sviluppare una politica sana. Una impresa libera dai clan. Quando non sembra esserci altra alternativa che o corrompersi o emigrare. Non sembra altra soluzione che pensare alla possibilità che le istituzioni politiche campane siano tutte commissariate, dalla provincia alla regione sino a quando non riusciranno a garantire un minimo sufficiente di legalità. I casalesi hanno un´espressione per giustificare la loro ossessione di comandare "il mondo è di chi se lo merita" sarebbe bellissimo se il merito smettesse di essere questa dannata capacità di corruzione e violenza. E merito potrebbe essere interrompere questi meccanismi. Ma per interromperli bisogna conoscerli e continuare a raccontarli e contrastarli rompendo questa gigantesca omertà che si declina tra chi ha paura di raccontare e chi non vuol sapere. Solo così rimane accesa una speranza di cambiamento.

«E' una deregulation pericolosa, che ostacola una reale e necessaria semplificazione. Anziché semplificare, il nuovo atto contenuto nella manovra Tremonti apre una prospettiva di contenzioso notevole, e costringe le Regioni e gli enti locali a rincorrere affannosamente le cosiddette "innovazioni" che generano solo incertezza, distogliendole dall'applicarsi a introdurre plausibili e effettive semplificazioni , come già previsto dalla Regione Toscana». Così l'assessore regionale all'urbanistica Anna Marson definisce l'articolo 49 della manovra finanziaria del Governo, da oggi in aula al Senato, che prevede l'introduzione della "Scia", cioè la "Segnalazione certificata di inizio attività" che vale per tutte le autorizzazioni, e quindi anche per le autorizzazioni edilizie. 

In ambito edilizio con la "Dia" ("Dichiarazione di inizio attività") è già prevista da tempo una procedura semplificata per gli interventi sul patrimonio esistente, ferma restando l'autorizzazione paesaggistica. Il recente Dl 40/2010 ha ulteriormente semplificato il quadro prevedendo per alcune tipologie d'intervento l'attività edilizia libera o la semplice comunicazione di inizio lavori.
«Tra gli aspetti preoccupanti della "Scia" - aggiunge Marson - c'è il fatto che il controllo può esercitarsi per via ordinaria solo entro 30 giorni (a posteriori rispetto all'inizio dei lavori, che possono essere avviati contestualmente all'invio della segnalazione) e, dopo tale termine, solo in presenza di "danni gravi e irreparabili" al patrimonio "previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi". Si tratta di un vero colpo di mano rispetto a tutte le procedure e le tutele vigenti che espone alle peggiori azioni speculative il nostro patrimonio territoriale».

La "manovra" del governo che in nome del federalismo mette in ginocchio le Regioni, e senza affrontare i nodi della corruzione e dell'evasione fiscale taglia selvaggiamente sanità, ricerca, scuola sta facendo un'altra vittima: il nostro paesaggio. 
Un'ecatombe annunciata già nel decreto-legge, che prevedeva (come ho scrittoil 31 maggio in queste pagine) una forma aggressiva di silenzio-assenso sulle autorizzazioni paesaggistiche, annullando di fatto le garanzie del Codice dei Beni Culturali (varato nel 2004 da un governo Berlusconi). In sede di conversione in legge, com'era prevedibile, la sbandierata necessità di un voto di fiducia si traduce anche su questo tema in licenza di uccidere, che prenderà posto nel maxi-emendamento "omnibus".
La Commissione Bilancio al Senato ha emendato, su proposta del presidente Azzollini (Pdl), l'art. 49 della "manovra" (ddl 2228), prevedendo di declassare la d.i.a. (dichiarazione di inizio attività) in s.c.i.a ("segnalazione certificata di inizio attività"), di fatto un'autocertificazione a cura dell'impresa o di un tecnico di sua fiducia, che elude ogni successivo controllo («l'attività oggetto della segnalazione può essere iniziata alla data della presentazione della segnalazione»). Si annienta in tal modo il sistema vigente invitando a edificare, anche in zone vincolate, senza alcuna autorizzazione, e lasciando alle pubbliche amministrazioni solo l'opzione di tentare un blocco dei lavori, purché entro 30 giorni o «in presenza di un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l'ambiente, la salute», e comunque sempre negoziando con l'impresa-committente (e autocertificante).


Questa norma è destinata a devastare il sistema, non a migliorarlo. Essa calpesta il principio (sempre confermato dalla legge 241 del 1990 ad oggi) secondo cui i meccanismi di accelerazione come il silenzio-assenso o la d.i.a. non possono mai riguardare beni e interessi di valore costituzionale primario come il patrimonio storico-artistico e il paesaggio. Principio riaffermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell'Amministrazione preposta non può aver valore di assenso» (sentenze 26 del 1996 e 404 del 1997). La nuova norma, se non fermata in tempo, avrebbe natura francamente eversiva: essa non solo capovolge la gerarchia fra un principio fondamentale della Costituzione (art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione») e la libertà d'impresa di cui all'articolo 41, ma dà per approvata una modifica dellarticolo 41 che le Camere non hanno ancora discusso.


È solo di un mese fa l'ipotesi Tremonti-Confindustria di modificare l'articolo 41 della Costituzione, che oggi garantisce la libertà d'impresa purché non sia «in contrasto con l'utilità sociale»: secondo la proposta di modifica «gli interventi regolatori dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali che riguardano le attività economiche e sociali si informano al controllo ex post». In questa proposta di controllo postumo, che equivarrebbe di fatto all'azzeramento di ogni controllo, è la radice del silenzio-assenso elevato a principio assoluto, della metamorfosi della d.i.a. in s.c.i.a.: in una Costituzione immaginaria, non nella Carta vigente.
Nell'emendamento che il voto di fiducia intende imporre brutalmente al Paese, la libertà d'impresa viene sovraordinata al pubblico interesse, e viene cestinato l'articolo 9 che prescrive la tutela del paesaggio legandola a un sistema di valori incentrato sull'utilità sociale, la dignità della persona umana (art. 3), i limiti imposti alla proprietà privata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (art. 42). Il pubblico bene viene calpestato, la tutela messa in sottordine rispetto all'unico diritto sovrano, quello di fare impresa a qualunque costo, anche inondando il territorio di cemento e di brutture, anche proseguendo lo spietato consumo di suolo già in corso (13 ettari al giorno cementificati nella sola Lombardia).
Al di sopra del paesaggio, che è bene comune di tutti, vien posta la fatturazione delle imprese, la cui pretesa autoresponsabilità spodesta tutti i poteri delle pubbliche amministrazioni. I controlli ex post, secondo i dettami di un "nuovo" articolo 41 della Costituzione di Lorsignori (opposta a quella vigente), occasionali e a campione, sarebbero del tutto inutili una volta arrecato il danno. Sulla base di semplici autocertificazioni, migliaia di pale eoliche devasteranno sull'istante anche i paesaggi più pregevoli, anche dove siano in corso azioni di tutela sinora efficaci, come è nel Molise ad opera della benemerita Direzione regionale dei Beni culturali: basterà una s.c.i.a. per rendere irriconoscibili l'antica città sannita di Sepino o il monte Caraceno, importante area archeologica, boschiva e paesaggistica con vista sul parco nazionale d'Abruzzo. Basterà una s.c.i.a. per evitare anche in futuro ogni controllo antisismico, preparando di fatto disastri futuri, pur di costruire (sempre mediante s.c.i.a.) "città nuove". Del resto, secondo il deputato Pdl Giorgio Stracquadanio, «L'Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile; il Governo avrebbe voluto fare una nuova università, una Harvard italiana, e ci è stato detto che volevamo cementificare». Menzogne come questa risuonano impunemente nell'aula di Montecitorio; una perversa Costituzione-fantasma, e non quella vera, detta l'azione di governo. Se non si corre velocemente ai ripari, muore il bene comune, muore l'etica della Costituzione, muore la legalità, la storia e l'identità del Paese.

Nei film più neri di Claude Chabrol, sono personaggi di infima origine - una governante analfabeta, una postina, una spogliarellista, un maestro alla deriva - a scombussolare d’un tratto i finti equilibridell’alta borghesia precipitandola nell’orrore o nella morte. Nel Buio nella mente, la governante analfabeta Sophie governa perfettamente la villa, ma l’umiliazione l’ha come prosciugata e i suoi sogni li sfama trangugiando cioccolata e Tv. I tenutari della villa sono serviti con la massima meticolosità fino al momento in cui ogni cosa barcolla e si rovescia: il padrone frana nella soggezione; il servo insorge e si fa padrone dell’universo. L’ignorante-analfabeta ha come un occhio in più; il colto e ricco borghese si scopre cieco. Non ha visto che la storia, quando i rapporti di potere s’immiseriscono, sono i domestici a farla.

È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt, multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera divenuta malsana». Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane, François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre. Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.

Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage), la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli, gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».

Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di correggersi, di scarse difese immunitarie.

Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.

In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia, addirittura di affossarla.

Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori. Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio, prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi, l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in secondo piano il diritto alla privacy».

Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve, stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione. Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti, magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.

Lo sciopero della stampa pone al paese una domanda ancor più generale: è possibile continuare in questo modo? E´ possibile continuare a subire un deterioramento così accentuato e rapido del rapporto fra potere politico e cittadini? Una violazione così esplicita di regole consolidate, di norme essenziali, di principi costitutivi? Una violazione, va aggiunto, che il governo ha deciso di imporre anche se le sue argomentazioni erano sin dall´inizio poco credibili, spesso intessute di falsificazioni aperte (si pensi alle cifre sul numero degli intercettati). È ben difficile credere che la legge-bavaglio abbia a cuore la privacy dei cittadini: è quasi più facile convincersi che un anonimo benefattore abbia segretamente pagato la casa dell´ex ministro Scajola. O che ci fosse davvero bisogno di un ministero senza nome né ragione per l´imputato Aldo Brancher, la cui condotta ha illuminato bene il senso di impunità di questo ceto di governo. Più ancora, come ha scritto Stefano Rodotà, quella «legalità speciale» (o illegale) che il governo persegue per consolidare l´eversione quotidiana, lo stravolgimento quotidiano delle istituzioni.

Libertà di stampa, autonomia della magistratura, etica della politica: l´intreccio fra questi nodi viene alla ribalta ormai da tempo, assieme all´uso spregiudicato del potere come schermo e scudo. Ed è evidente il cemento che lega nello stesso progetto la legge sulle intercettazioni, il lodo Alfano – nelle sue rinnovate versioni – e lo svuotamento progressivo di un Parlamento in cui il premier pur godeva di una larga maggioranza. Al centro della scena si erge da tempo un potere sempre più delegittimato, con una «politica del fare» andata in pezzi: lo denuncia in modo drammatico la sofferenza aquilana, che anche ieri gli abruzzesi hanno portato all´attenzione degli italiani.

C´è un nesso fortissimo non solo fra questi aspetti ma anche fra essi e il clima caotico che ha accompagnato e accompagna una legge finanziaria di grande importanza: la necessaria gravità e serietà delle argomentazioni è stata sostituita da un clima confuso, via via oscillante fra l´ultima spiaggia e l´assalto alla diligenza. Con l´irrisione del federalismo e al tempo stesso dell´equità sociale.

Nell´alternarsi di decisioni e di controdecisioni, di «refusi» e di smentite, l´elemento di rigidità è stato sin dall´inizio uno solo, l´impegno a non introdurre nessuna forma di tassazione. Nella demagogia del premier le tasse sono solo un modo per metter le mani nelle tasche degli italiani, ma la stretta economica rende ancor più chiare le conseguenze di questa deformazione (che è anche stravolgimento etico). Evitando scelte fiscali generali, dai parametri definiti, si finisce in realtà con il metter davvero le mani nelle tasche dei cittadini, e nella maniera più ingiusta: colpendo ulteriormente quella parte del paese che già paga realmente le tasse e lasciando sostanzialmente indenne la galassia dell´evasione. A questo rimandano le ipotesi variamente avanzate di riduzione degli stipendi nel pubblico impiego, con il blocco degli aumenti concordati o automatici (per non parlare del maldestro balletto sulle tredicesime). A questo rimandano i tagli alle Regioni, che mettono in difficoltà servizi essenziali. A fronte, intangibili, i 60 miliardi che costituiscono la annuale «tassa della corruzione», secondo le stime della Corte dei Conti: cioè la cifra sottratta alla legalità e ai cittadini dalle «cricche», dalle loro articolazioni e dai loro referenti politici. Più del doppio della manovra che sta lacerando la maggioranza e che graverà sugli italiani.

In questo quadro più ampio la mobilitazione contro la legge-bavaglio si è fatta realmente sentire. È stata, ed è destinata ad essere ancora, un punto di riferimento salutare e importante, e non accadeva da tempo. Eppure si ha l´impressione che vi siano ancora freni, afasie e incertezze che impediscono un pieno «prender la parola» dei cittadini, un loro più deciso «scendere in campo». Pesano stanchezze e disillusioni, pesa l´aver visto più volte svanire le proprie speranze di cambiamento. E pesa, va aggiunto, una forte inadeguatezza delle opposizioni sia sul terreno delle scelte immediate che nell´individuazione di una prospettiva più ampia. I due aspetti sono ovviamente intrecciati: apparirebbe surreale ogni discussione che non indicasse sin dall´avvio i discrimini da porre oggi, ora, per garantire legalità ed equità. Che non indicasse con chiarezza poche proposte e pochi irrinunciabili veti sui tre nodi principali: legge-bavaglio, legge finanziaria, lodo Alfano. Si può partire solo da qui per avviare quella discussione sul futuro che è scomparsa da tempo dalla agenda della politica, e che è la vera condizione per invertire una deriva.

La mobilitazione della stampa è un´occasione rara per rimettere in moto un processo e per permettere al paese di riflettere su se stesso. È stata rievocata in questi giorni una svolta politica di cinquant´anni fa, segnata dalla caduta del governo Tambroni e dal faticoso avvio di una stagione riformatrice. Fu centrale allora una mobilitazione di piazza senza precedenti ma andrebbe ricordato che anche i giornalisti fecero la loro parte mettendosi in gioco e pagando di persona. Pagò di persona Enzo Biagi, licenziato immediatamente dal settimanale che dirigeva, Epoca, per aver criticato il governo e la sua irresponsabile gestione dell´ordine pubblico. Si misero in gioco i giornalisti de Il Giorno, sfidando le fortissime pressioni esercitate allora da Tambroni su Enrico Mattei (presidente dell´Eni, che aveva la proprietà del giornale) e sul direttore Italo Pietra. Pressioni non platoniche, dato che il licenziamento del precedente direttore, Gaetano Baldacci, era stato deciso qualche mese prima proprio da un consiglio dei ministri. Eppure Il Giorno, l´8 luglio di mezzo secolo fa, fu il primo giornale non comunista a chiedere di fatto le dimissioni del governo: l´editoriale lo firmò Enzo Forcella, che l´anno prima aveva denunciato in un articolo memorabile - Millecinquecento lettori - la subalternità al potere di larga parte della stampa italiana di allora. Anche episodi come questi sono scritti nella storia del nostro giornalismo: gocce, se volete, ma capaci talora di lasciare il segno.

Gli sos via sms dal deserto di Libia non fanno suonare le sirene d’allarme né a Palazzo Chigi né alla Farnesina. L’Italia della gente di buona volontà, l’Italia delle organizzazioni non governative rilancia le richieste d’aiuto disperate che arrivano dal centro di detenzione di Braq, vicino a Sebah, nel mezzo del Sahara, dove attualmente la temperature raggiungono i 50 gradi: lì, nudi da giorni, molti coperti del proprio sangue, pestati, feriti, 245 rifugiati eritrei, fra cui 18 donne e bambini, rischiano la vita, in condizioni di detenzione durissime, dopo essere stati trasferiti per punizione dal campo di Misurata. La vicenda è stata segnalata e seguita, in questi giorni, con particolare attenzione dell’Unità. Le voci da Braq sono frammentarie, ma tutte danno un quadro allucinante di maltrattamenti e precarietà: alcuni detenuti per la disperazione avrebbero tentato il suicidio bevendo acido.

Il Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati, e altre sigle si fanno megafono dei disperati appelli all’intervento internazionale dei rifugiati eritrei, in particolare “dopo i maltrattamenti subiti negli ultimi giorni”. Ma dai palazzi del Potere, fedeli alla consegna dell’amicizia con il regime del dittatore libico Muhammar Gheddafi e rispettosi del principio di non ingerenza, non vengono echi. Intendiamoci, in casi come questi la discrezione può essere la scelta giusta: proprio il Cir dichiara di “avere motivo di pensare che il governo italiano si stia muovendo”, dopo una telefonata del ministro degli Esteri Franco Frattini al presidente del Cir Savino Pezzotta. E alla Farnesina non si esclude una presa di posizione europea.

Ma non c’è tempo da perdere. Amnesty International denuncia i pericoli cui i rifugiati eritrei andrebbero incontro se fossero ‘deportati’ in patria: “la tortura, la punizione riservata ai colpevoli di ‘tradimento’ e ‘diserzione’” e la vita. Per loro, la cosa più sicura sarebbe il trasferimento in Italia e un’accoglienza nel nostro Paese. Ma siamo ben lontani da una prospettiva del genere: da quando la Libia ha chiuso l’ufficio dell’Onu per i rifugiati a Tripoli, le prospettive di quanti vogliono fuggire a regimi repressivi o semplicemente alla povertà sono peggiorate.

Nell’immediato, le organizzazioni umanitarie chiedono di potere rendere visita al centro di Braq e di potere prestare cure di emergenza agli eritrei feriti e a quanti hanno contratto malattie infettive. Poi c’è la preoccupazione di evitare che siano rimpatriati, nel rispetto del principio internazionale del ‘non respingimento’ verso Paesi a rischio tortura e di maltrattamenti. Un’annunciata visita dell’ambasciata di Eritrea a Tripoli nel centro di Braq è considerata una minaccia di deportazione, o di rappresaglia contro le famiglie dei rifugiati rimaste in Eritrea: dei contatti diplomatici in corso danno notizia fonti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a Tripoli. Dal Parlamento, vengono richieste di spiegazioni al ministro Frattini e al ministro dell’interno Alberto Maroni, che, più della situazione in Libia, s’interessa del rischio d’immigrazione via Malpensa: “È la nuova Lampedusa”, dice, in base a uno studio secondo cui con 15mila euro si compra un passaggio aereo da un Paese extracomunitario a un grande scalo Ue – una cifra da capogiro, per i disperati delle carrette del mare’.

“Dobbiamo risolvere il dramma degli eritrei in Libia e dobbiamo anche evitare che casi del genere si ripetano”, afferma il senatore Pd Roberto Di GiovanPaolo. Sotto accusa è l’accordo con la Libia, fiore all’occhiello del Governo Berlusconi, perché riduce il flusso dei clandestini, a detrimento, però, dei principi umanitari. “L’intesa con Tripoli non funziona – denuncia Di Giovan Paolo-: quando venne firmata, perché non si parlò anche di diritti umani?”

La fase più tragica dell’odissea dei 245 rifugiati eritrei cominciò il 30 giugno: dopo un tentativo di fuga la sera prima, un centinaio di soldati e poliziotti libici, pesantemente armati, fecero irruzione nel centro di detenzione di Misurata. Dopo un pestaggio seguito dal ricovero di 14 detenuti, tutti i malcapitati furono caricati su due container e trasferiti con un viaggio blindato di 12 ore a Sabha. Lì, le condizioni di detenzione sono drammatiche: sovraffollamento, acqua e cibo insufficienti, servizi igienici inadeguati.

Inferno Libia. Il dramma dei respingimenti

Sms dal lager nel deserto:

di Umberto De Giovannangeli

Siamo profughi innocenti non fateci morire qui Disperato appello degli eritrei prigionieri nel carcere di Brak: «Rinchiusi in celle sotterranee, colpiti da malattie o torturati. Vi chiediamo accoglienza»

Voci dall’inferno. Un appello disperato, una angosciante richiesta di aiuto. Non ascoltar la significa essere complici dei carnefici. Poche righe che danno conto di una situazione drammatica. Quella dei 200 eritrei deportati nel lager di Brak, nel sud della Libia. «Signore, signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da malattie contagiose, la tortura è una prati ca comune e, quel che è peggio, sia mo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo soffrendo e morendo. Questi profughi innocenti stanno perdendo la speranza e rischiano la morte. Perché dovremmo morire nel deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove venivamo torturati e uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non voglia mo morire qui e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro. Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni umanitarie interessate».

L’Unità lo ha fatto. Inoltrandolo anche a chi ha l’autorità per poter intervenire sulle autorità libiche: il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi; il ministro dell’Interno, Roberto Maroni; il ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro», invocano i 200 segregati nel Sahara. Quel luogo può, deve essere l’Italia. Ne hanno il diritto, hanno i requisiti per ottenere l’asilo. L’alternativa è scritta in quella disperata richiesta di aiuto: «Stiamo soffrendo e morendo. Stiamo perdendo le speranze. Qui moriremo nel deserto. E a casa ci aspetta la tortura o la morte».

Chiedono aiuto. E di far conosce re la loro storia. L’Unità lo ha fatto, in solitario per alcuni giorni. Il messaggio è riuscito ad uscire dalle celle del centro di detenzione di Brak, 80 chilometri da Sebah, nel Sud della Libia, dove dal 30 giugno scorso si trovano oltre 200 eritrei deportati dal centro di detenzione per migranti di Misurata, nel quale sono rimasti una cinquantina di loro compagni di sventura, tra cui 13 donne e 7 bambini. Il gruppo era stato deportato su tre camion container come «punizione» a seguito di una rivolta scoppiata il giorno prima fra i detenuti che non hanno voluto dare le proprie generalità a diplomatici del loro Paese per paura di essere soggetti a un rimpatrio forzato. E per molti di loro rimpatrio equivale a una condanna a morte o, se va bene, ai lavori forzati.

A gestire le sorti dei 200 eritrei nel Centro di detenzione di Brak, che dipende da quello di Sebah, secondo quanto riferiscono fonti non governative locali, sono in questo momento i militari e non il normale circuito della polizia penitenziaria. Mentre nel carcere l'emergenza umanitaria si fa sempre più pressante sono in corso a Tripoli «incontri fra diplomatici eritrei e ufficiali governativi libii», riferiscono fonti dell'Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di Tripoli, «per arrivare a una soluzione che permetta ai reclusi di lasciare al più presto il carcere di Brak».

Quel sms interroga le nostre coscienze. Chiama alla mobilitazione. Pretende una risposta dai ministri Maroni e Frattini. Una risposta che tarda a venire. Come tarda la riapertura l’ufficio dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) in Libia. Tra quei 245 segregati in un lager, ci sono anche una parte degli eritrei respinti dalla Marina militare italiana nell'estate 2009. Intercettati sulla rotta di Lampedusa. E rispediti indietro. All’inferno. «I rifugiati sono sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche», ricorda in un comunicato il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). «Stiamo soffrendo e morendo..». Qualcuno li ascolterà?

Intervista a Amos Luzzatto

L’Olocausto «Noi ebrei abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il principio nefasto del non tocca a me»

di Natalia Lombardo

«Non giriamo la testa. L’indifferenza è un virus, lo dimostra la Shoah» - L’ex presidente degli ebrei italiani: «Giusto l’appello dell’Unità. L’immigrazione non è un fatto di ordine pubblico. Servono ponti e non Muri»

L’indifferenza. Il voltare la testa dall'altra parte “tanto non tocca a me...”, tutto questo noi ebrei lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle con la Shoah. L'indifferenza è un virus letale per la coscienza civile di un individuo, di una comunità, di un Paese. E lo è anche pensare che il tema dell'immigrazione sia in primo luogo un problema di ordine pubblico e non invece, come dovrebbe essere, un problema di soccorso pubblico; d'integrazione e non di respingimenti, di “ponti” da realizzare e non di “muri” da innalzare. Ed è per tutto ciò che trovo lodevole e condivisibile l'iniziativa assunta da l'Unità a favore dei 245 cittadini eritrei detenuti, in condizioni degradate e degradanti, in un carcere libico». Ad affermarlo è una delle figure più rappresentative dell'ebraismo italiano: Amos Luzzatto. «Occorre afferma l’ex presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppare una iniziativa che metta l’accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e al centro anche degli accordi internazionali che l’Italia sottoscrive». In questa battaglia di civiltà, rileva Luzzatto, un ruolo di primo piano devono averlo i media che «non sono solo espressione dell’opinione pubblica ma al tempo stesso la formano».

Duecentoquaranta esseri umani, tra i quali donne e bambini, sono da giorni detenuti in condizioni disperate, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, in un lager libico. Cosa c'è dietro l'indifferenza che circonda questa tragedia?

«C'è il principio, nefasto, che non tocca a me e quindi giro la testa dall'altra parte; un modo di pensare e di agire che ha avuto il suo peso ai tempi delle deportazioni della Shoah. È un clima, un atteggiamento che non sono ancora passati. L'indifferenza alimenta il pregiudizio e viceversa. Per questo ritengo che un appello all' opinione pubblica quale quello lanciato da l'Unità sia importante e doveroso sostenerlo, soprattutto se è vero che si tratta di persone che, almeno in parte, avrebbero diritto all' asilo politico».

L'indifferenza si rispecchia anche, tranne lodevoli eccezioni, anche sui media.

«Un fatto davvero preoccupante. I media, al tempo stesso, esprimono e formano l'opinione pubblica. Sottovalutare o addirittura tacere su eventi drammatici come questo non contribuisce certo a formare una coscienza civica più matura e aperta».

Questa indifferenza significa che i più deboli, gli indifesi, fanno meno notizia di altro e altri...

«Non si tratta solo dei più deboli. Si tratta di tutti coloro che non hanno influenza su quello che si ritiene essere l'interesse concreto e materiale del nostro Paese».

Ma non è nell'interesse del nostro Paese salvaguardare i diritti umani in Paesi, come la Libia, con cui l'Italia ha sottoscritto un Accordo di cooperazione?

«Sì, dovrebbe esserlo...».

Ma cosa lo impedisce?

«Due cose: la prima, inafferrabile, è la cultura con la quale si analizza e si reagisce alle notizie internazionali. Questa cultura generale, anch'essa in buona parte indotta, induce molto spesso all'indifferenza e ad una malintesa neutralità. C'è poi un secondo aspetto sul quale ho difficoltà a pronunciarmi...».

In cosa consiste questo aspetto?

«C'è da chiedersi fino a che punto la nostra politica estera presti attenzione a fatti come quello che l'Unità ha contribuito a far emergere».

La vicenda dei 245 cittadini eritrei riporta di attualità il tema dell'immigrazione. È pensabile poter affrontare e risolvere questo fenomeno solo in termini di ordine pubblico e di sicurezza?

«Direi proprio di no. E lo dico non sottovalutando affatto la questione della sicurezza. Il fenomeno dell'immigrazione non è prioritariamente un problema di ordine pubblico, ma di soccorso pubblico. Finché non si opera questo cambiamento profondo di angolo di giudizio, problemi come quello di cui stiamo parlando, si moltiplicheranno».

Solidarietà. E un termine che ha ancora un senso compiuto, reale, un suo diritto di cittadinanza in Italia?

«Io credo di sì, ma ritengo anche che non trovi ancora i canali più adeguati per esprimersi in maniera efficiente, incisiva. È un problema di canali di comunicazione e di iniziativa da costruire, mettendo l'accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e anche degli accordi internazionali che l'Italia sottoscrive».

«I media diano spazio al caso

Rischiamo un auto-bavaglio»

di Natalia Lombardo

I grandi giornali ignorano il dramma dei 245 eritrei detenuti in condizioni disumane in Libia. L’Unità ha acceso un faro sulla vicenda, ripresa da pochi tg e alcuni quotidiani. Natale, Fnsi: «È un auto-bavaglio».

Quando il bavaglio è nella testa: ci sono notizie che i grandi giornali ignorano o relegano nelle venti righe di un box. Avviene in questi giorni sulla drammatica vicenda dei 245 eritrei detenuti come bestie nel carcere libico di Brak, denunciata da l’Unità il 2 luglio. Silenzio sui grandi giornali, dal Corriere della Sera a La Stampa, un box «il caso» su la Repubblica di ieri. Un meccanismo che Roberto Natale, presidente della Federazione della Stampa, definisce di «autobavaglio. Non è solo un problema di censura, ma anche di autocensura». Un silenziatore «non imposto da alcuna legge». Così destini segnati non hanno «dignità di notizia», mentre «un tg dedica un servizio su come si aprano le bottglie di champagne con un colpo di sciabola...».

SILENZIO STAMPA

Ieri dal deserto è arrivato l’ultimo grido afono per sms: «Stiamo morendo, aiutateci». A rompere il silenzio ad alta voce, nel deserto dell’informazione italiana, è stata l’Unità venerdì scorso, raccogliendo l’appello dei detenuti comunicato da un sacerdote, accendendo un faro sulle loro condizione disumane nel buio di tre celle.

Il primo luglio il manifesto ha raccontato la prima tappa infernale degli eritrei a Misratah, altri articoli sono usciti fino a ieri. Il 2 luglio il Tg3 ha ripreso la notizia «gridata» a ragione da l’Unità già nell’edizione delle 14 con un lungo servizio e la voce di chi sta vivendo il dramma, approfondito la sera su Linea Notte. Notizia e servizi anche su RaiNews e Sky. Ieri l’Avvenire, quotidiano della Cei, ha riservato una pagina alla «sorte dei respinti»; Terra, quotidiano ecologista, un ampio riquadro alla voce «diritti umani». Diritti che si restringono su Repubblica, spariscono sugli altri giornali, anche quelli agguerriti nel difenderli. Il 2 luglio la notizia è stata rilanciata dalle agenzie di stampa e ripresa da numerosi parlamentari Pd, Idv, Udc e radicali, oltre ai Verdi e qualche voce nel Pdl; nel governo solo il sottosegretario Boniver.

Roberto Natale parla di qualità dell’informazione: tanto più in piena battaglia per la libertà di stampa non ci si può imbavagliare da soli. Ma c’è qualcosa di più profondo, secondo il presidente Fnsi, che si richiama alla «Carta di Roma varata due anni fa, che definisce i termini corretti da usare», ma anche l’attenzione ai temi. Sull’immigrazione «in questi anni la società e la stampa italiana sono state investite dalla campagna dell’osservazione sicuritaria. Ma grandissima parte della nostra informazione ha riportato senza commenti la cifra fornita dal ministro dell’Interno Maroni alla Festa della Polizia: ha vantato l’abbattimento del 90% degli arrivi di migranti come un successo del governo. Ecco, nessuno dei nostri giornali si è chiesto da cosa derivasse questa cifra, o che fine abbiano fatto gli immigrati. La risposta ora c’è, ed è drammatica».

Ma «se il rispetto della vita umana non è solo retorica, si deve avere attenzione su vite che spariscono nel nulla, anche in conseguenza delle politiche italiane sui respingimenti», conclude Natale.

«Italiani, ribellatevi.

O sarete responsabili come nelle colonie»

di Dagmawi Yimer

Dagmawi, protagonista del film di Segre «Come un uomo sulla terra», racconta in prima persona l’inferno della Libia

Mi appello al governo italiano e a quello libico, in nome di tutti gli eritrei, i somali e gli etiopi che in questo momento stanno soffrendo in Libia. So benissimo cosa vuol dire essere nelle mani della polizia libica. Uso le ultime parole che mi rimangono, perché anche le parole finiscono quando non avviene nessun cambiamento. Io l'ho vissuto sulla mia pelle: i maltrattamenti nelle carceri libiche, gli schiaffi, le bastonate, gli insulti dei poliziotti libici. Anche io sono stato deportato dentro un container, durante un giorno e mezzo di viaggio, verso il carcere di Kufrah, con altre 110 persone, ammucchiate come sardine. Con noi c'erano anche otto donne e un bambino eritreo di quattro anni. Si chiamava Adam. Chissà che fine ha fatto quel bambino, chissà se è riuscito a salvarsi dalla trappola italo libica, chissà se sua mamma non è stata violentata dai poliziotti libici davanti a lui... Se è sopravvissuto, ormai avrà otto anni, e comincerà a capire piano piano che razza di mondo è riservato a lui e a tanti altri come lui.

Veniamo da paesi dove l'Italia non ha ancora fatto i conti con i suoi massacri durante il periodo coloniale e dove ancora oggi, dopo mezzo secolo, usa i libici per combattere gli eritrei, come all'epoca delle colonie usava gli eritrei per combattere i libici. È vero che la libertà di questi miei fratelli minaccia il benessere dei cittadini europei? È vero quindi che un accordo per il gas e il petrolio vale di più delle vite umane e della loro libertà naturale? Perché l'Italia, da paese civile, non ha previsto nell'accordo con la Libia il minimo rispetto dei diritti "inviolabili" degli esseri umani invece di chiudere un occhio e vantarsi di aver bloccato l'emigrazione via mare? Mi ricorda la stessa ipocrisia con cui Mussolini fece credere al suo popolo che l'Italia avesse stravinto sugli abissini senza dire nulla sui mezzi che avevano portato a quelle vittorie, ovvero tonnellate e tonnellate di gas utilizzate senza pietà per sterminare i civili. Il tono del governo è lo stesso, oggi come allora, ed è la stessa la reazione della gente.

Se ripenso a Adam il bambino di quattro anni che era con noi sul container, mi chiedo: quale era la sua colpa? Mi ricordo che ogni tanto l'autista del container (Iveco) si fermava per mangiare o per i suoi bisogni, mentre 110 persone urlavano per il caldo infernale del Sahara, per la mancanza d'aria, che a malapena entrava mentre il camion era in movimento. Il piccolo Adam lo tenevamo vicino al buco da dove entrava un po' d'aria da respirare... mentre chi si trovava in fondo al container si agitava disperatamente, urlava, piangeva. È possibile vedere ancora deportazioni di massa dentro i container?

Quando ci hanno arrestato poi, i libici non ci hanno chiesto perché fossimo in Libia e cosa volessimo. Eravamo semplicemente la preda dei poliziotti, eravamo donne da stuprare e uomini da bastonare. Pochi giorni fa ho incontrato una persona che lavora a Tripoli e mi ha detto che tra gli ultimi respinti in mare verso la Libia c'era una ragazza di 22 anni che è stata violentata dai poliziotti libici appena arrestata. Alla fine è riuscita a evadere, corrompendo una guardia, ma ora è incinta e non vuole far nascere un figliastro di cui non conosce nemmeno il padre... Perché tutto questa indifferenza verso la sofferenza degli altri, oltretutto provocata dall'Italia stessa? Dov'è la "civiltà" di un paese che finanzia un soggetto terzo per eseguire il lavoro sporco e lavarsene le mani come Pilato? Quando smetterà l'Italia di essere il "mandante" di queste violenze?

Guarda caso poi, dopo la "deportazione" i poliziotti libici ci vendettero per 30 dinari a testa (circa 18 euro) agli intermediari che poi ci riportarono sulla costa.

Anche noi abbiamo dei genitori che piangono pensando alle sofferenze che viviamo. Ma anche noi avremo giustizia per tutto quello che stiamo subendo. Oggi paghiamo il prezzo che i vostri governi hanno deciso di pagare per far godere al "popolo" la sicurezza energetica. Ma le lacrime e il sangue versato non saranno dimenticati. Uso le ultime parole che mi sono rimaste, l'ultima energia dopo due anni di battaglia su questo tema ma spero di poterlo avere ancora. Ho girato l'Italia, partecipando a centinaia di incontri e di proiezioni (di "Come un uomo sulla terra", ndr.) e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto vedere la loro indignazione e la loro vergogna di essere rappresentati da questi governi ipocriti.

Ma mi chiedo: se io che grido da qui non ho ascolto, figuriamoci i miei fratelli che stanno nella bocca del lupo. Ma continuo a gridare lo stesso e dico: Italia tu che sei civile e potente guarda queste persone e ricordati cosa hai fatto ai loro nonni..

Chiediamo al Governo di intercedere per loro

Adottiamo un profugo

di Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo

Nessuno sa quanti fra i trecento eritrei detenuti a Sebha abbiano diritto all’asilo politico in quanto rifugiati. Nessuno sa, perché nessuno domanda. Nessuno sa, neppure, se fra quei trecento c’è qualcuno non che ha tentato di entrare in Italia e non c’è riuscito. Nessuno sa, perché nessuno ha accertato. Ma cambierebbero le cose, se l’accertamento ci fosse stato? Perciò, quando qualcuno ci verrà a dire che non c’era certezza che fra quei trecento la maggioranza non fosse fatta di ladroni, disertori, pregiudicati comuni, e non potenziali rifugiati, e che magari, in apparenza, l’Italia non c’entra, noi dovremo rispondere: è vero, non c’è certezza, non è stato possibile raggiungerla, questa certezza. Ma che l’Italia non c’entri, beh, questo è un altro discorso. È vero, manca la prova che siamo stati proprio noi a rimandare a Gheddafi «quegli» eritrei. Manca però anche la prova contraria: che non siamo stati noi. Da anni i nostri governi

menano vanto dei successi delle politiche dei respingimenti. Che, di per sé sole, ci mettono al riparo dalle domande, diciamo così, «pericolose». Appena qualche drappello di (potenziali) profughi si affaccia alle nostre coste, non gli diamo tempo di aprire bocca, esibire documenti, contattare organizzazioni umanitarie, enti internazionali, i parenti che (forse) qualcuno di loro ha in Italia. Appena certe sagome scure e disperate si profilano all’orizzonte delle nostre sicurezze, le intercettiamo e le consegniamo alle affettuose cure del governo libico. Interveniamo in prevenzione. E lo facciamo perché è così che stiamo trattando, da anni, la materia dell’immigrazione: con una guerra preventiva. E in guerra, si sa, non solo non si va tanto per il sottile: anche se esistono leggi che regolamentano il diritto bellico, e le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra prevedono trattamenti sicuramente più umani di quelli ai quali sono assoggettati, oggi, gli eritrei temporaneamente detenuti da Gheddafi.

Molti di quegli eritrei, soprattutto quei ragazzi e quelle ragazze destinati, per esempio, al servizio militare a tempo indeterminato nel deserto della Dancalia – che significa spesso morirci, in quel deserto fuggono da una situazione economica e politica durissima e non hanno altro modo per andarsene che quello di sfidare lunghe marce attraverso altri deserti, di sabbia e di acqua, e arrivare da qualche parte da «clandestini». E al ritorno non trovano altro che galera – in Libia o a casa loro e spesso un destino peggiore.

Eppure, ci sono ottime ragioni per immaginare che, nel caso dei detenuti eritrei, la nostra responsabilità di italiani sia persino maggiore che in altri casi. L’Eritrea è stata a lungo colonia italiana. Siamo stati insieme, noi ferengi e loro abescià per ottanta anni e continuiamo spesso a stare insieme anche adesso, noi che siamo stati allevati da tate con lo scialle bianco sulla testa, noi che siamo nati laggiù e loro che sono nati qui, noi che ci siamo innamorati insieme, sposati e fatto figli. Se fossimo un paese con una memoria e con una coscienza dovremmo conoscere il suono dei nomi di quegli eritrei che abbiamo respinto e conoscere le città da cui vengono come conosciamo quelle da cui verrebbe un turista americano o europeo. Nel bene e nel male siamo stati fratelli per tanto tempo e sempre nel bene e nel male abbiamo condiviso un pezzo di storia.

Un certo pensiero di Destra, oggi abbastanza in voga, tende a dipingere il colonialismo italiano come una magnifica avventura di civiltà e progresso. Ci amerebbero ancora perché siamo (siamo stati) brava gente. E tutto ciò sarebbe testimoniato dalla presenza di una vasta e ramificata colonia di eritrei/ italiani tuttora legati sia a quel Paese che al nostro. Gli eritrei, insomma, sono ragazzi «nostri». Proprio perché noi, quando fummo colonialisti, lo fummo in modo meno aggressivo di altre potenze. Non a caso, nei giorni scorsi, il Belgio ha chiesto scusa al Congo, e i nostri organi di stampa singolarmente silenti sulla tragedia dei trecento di Sebha hanno sottolineato con enfasi l’avvenimento. I Belgi erano cattivi, noi eravamo «buoni». Perciò gli eritrei ci amano. Ne siamo davvero certi? Proviamo a pensare che cosa ne pensano quegli uomini rinchiusi in container 50 gradi all’ombra in una delle estati più calde del secolo? Che cosa pensano di noi italiani brava gente? Che cosa racconteranno ai loro figli di noi, se riusciranno a scampare al destino che pare ineluttabilmente attenderli? Al netto di ogni considerazione, ci sono trecento esseri umani che potrebbero morire da un momento all’altro. Ucciderli non risolverà il problema dell’immigrazione, refrattario a ogni «soluzione finale», e finanche intermedia. Continueranno a cercare vie di fuga e di libertà, spinti dal bisogno e dalla disperazione, oppressi da dittature vergognose.

Come fecero i nostri padri quando combattevano per l’indipendenza dell’Italia. I nostri padri che trovarono accoglienza, quand’erano migranti e disperati. Senza quell’accoglienza, oggi l’Italia non esisterebbe. Nemmeno quella che si autodefinisce «padana». I credenti, così attenti alla vita potenziale da preservare ad ogni costo, potrebbero sposare una battaglia per la salvezza di vite reali, concrete, vite di oggi, di qui e adesso. I nostalgici del buon colonialismo di un tempo potrebbero passarsi una mano sulla coscienza e decidere che, sì, in fondo, gli eritrei che ci hanno dato tanti shumbashi e tanti bravi zaptiè, ascari e quant’altro venuti a morire nelle nostre guerre, una mano la meritano. Chi invece quell’epoca non la rimpiange ma la critica potrebbe passarsi anche lui una mano sulla coscienza e fare ammenda delle nostre colpe aiutando adesso quel paese e quella gente che lasciammo allora al suo destino.

Immaginiamo già le obiezioni prevedibili a questa sortita: ecco gli scrittori einaudiani, ecco i fighetti radical-chic che si lavano la coscienza con tante belle parole mentre noialtri lavoriamo per tenerci, tutti, e Lucarelli e De Cataldo per primi, al riparo dall’orda nera. E sta bene. Facciamo una proposta concreta. Chiediamo agli scrittori, ai giornalisti, ai religiosi, agli spiriti liberi con i quali in questi ultimi giorni abbiamo condiviso la battaglia contro la «legge bavaglio» di fare un gesto di buona volontà. Chiediamo tutti insieme al nostro Governo di adoperarsi perché i trecento siano trasferiti in un luogo più umano. Chiediamo che siano comunicati i nomi dei trecento, e copie dei loro documenti. Chiediamo che si attivino le procedure per la concessione del diritto d’asilo, nei casi previsti dalla legge. Chiediamo di accertare chi ha parenti in Italia che potrebbero garantire per loro. Ci dichiariamo pronti ad «adottare» un profugo e la sua famiglia. Chiediamo, come dicono gli avvocati, «in estremo subordine», di non lasciarli morire.

Don Paolo Gessaga la spiega così, quasi con uno slogan pubblicitario: «La povertà non è più "senza fissa dimora"». La povertà è accanto a noi. Diffusa e afona, al pari della diseguaglianza. «È meno apparente, ma è più profonda», aggiunge il sacerdote che ha fondato la catena degli empori della Caritas. Dalla sua parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro a Roma, nel quartiere popolare Ostiense, questo cinquantenne arrivato dal varesotto, vede, e tocca, da vicino le nuove povertà e le nuove diseguaglianze, coda velenosa della Terza Depressione mondiale come l´ha chiamata il premio Nobel per l´economia Paul Krugman. La crisi ha accentuato le diseguaglianze e frantumato anche la middle class italiana. Siamo diventati tutti americani. E l´Italia, in termini di reddito, è un paese sempre più diseguale: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, nord e sud. L´eguaglianza non c´è più, né si ricerca, e le distanze si allargano. Lo dice Don Paolo, lo certificano l´Ocse e la Banca d´Italia. Peggio di noi, tra le nazioni cosiddette sviluppate, solo il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Stati Uniti e la Polonia.

E forse non è neanche più un caso che l´indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il "coefficiente Gini" ci dice quanto siamo peggiorati. E peggioreremo ancora se è vero che la discesa ha subito un´accelerazione con la recessione precedente, quella dei primi anni Novanta. Meno profonda di questa e più celere nell´abbandonarci, però. «L´esperienza del 1992-93 quando l´economia italiana attraversò una fase severamente negativa, suggerisce che a una crisi economica può seguire un persistente aggravamento della diseguaglianza», ha scritto l´economista della Sapienza di Roma Maurizio Franzini, nel suo recente libro "Ricchi e poveri" (Università Bocconi editore). Basterà aspettare i prossimi mesi.

Più basso è l´indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell´uguaglianza, l´Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.

C´è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell´Ires appena uscita ("Un paese da scongelare", di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): «In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri». E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora - si è visto - è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi - la Spagna, per esempio - si sono mossi in direzione esattamente opposta.

La ricchezza è saldamente nelle mani di pochi e lì ci rimane, impedendo la mobilità sociale, condizionando le carriere, costruendo pezzo per pezzo una parte della nostra gerontocrazia. Secondo l´ultimo dato della Banca d´Italia contenuto nella periodica indagine su "I bilanci delle famiglie italiane", il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento dell´intera ricchezza netta delle famiglie. Un livello rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi quindici anni.

Partecipiamo non sempre consapevolmente a un processo di divaricazione che spinge la classe media verso il basso, i super-ricchi verso l´alto e affonda i più poveri. «Che oggi sono anche in giacca e cravatta, basta guardare come sono cambiate le persone che almeno una volta al giorno vengono a mangiare alla Caritas», racconta Don Paolo da quello che è un osservatorio strategico anche perché Roma è fondamentale nell´attribuire al Lazio il primato negativo della regione più diseguale d´Italia con il 33,9 di coefficiente Gini. Pesano, nella Capitale, ma non solo qui, il caro-casa e la precarietà del lavoro. In alto, la regione italiana dell´eguaglianza è il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, laboriosa e dal benessere diffuso. L´eguaglianza è anche questo. E, probabilmente, è anche uno dei fattori che porta la provincia di Trieste a un triplo primato: l´età media più elevata tra le province del nord-est, la più alta percentuale di anziani oltre il 65 anni (30,2 per cento), e l´incidenza più elevata di residenti con 80 anni e più (11,2 per cento). Anche nel 2028 - secondo la Fondazione Nord-Est - Trieste manterrà i primati. Perché l´eguaglianza - è la tesi originale che Richard Wilkison e Kate Pickett illustrano nel loro "La misura dell´anima" (Feltrinelli) - migliora «il benessere psicologico di tutti noi». Di più, secondo i due studiosi: «Tanto la società malata quanto l´economia malata hanno le proprie origini nell´aumento della diseguaglianza». E infatti due economisti come Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz pensano che all´origine della grande crisi provocata dai mutui subprime ci sia proprio l´aumento delle diseguaglianza che, ad un certo punto, ha fatto implodere il sistema finanziario.

Di certo tra i frutti di questa "economia malata" ci sono i working poor, i lavoratori poveri, più tute blu che colletti bianchi, ma ci sono anche - lo abbiamo visto - gli impiegati, la classe di mezzo. Un fenomeno che in Italia non avevano ancora conosciuto in queste dimensioni ma che è anch´esso conseguenza di una diseguaglianza crescente. Tra gli operai i "poveri" sono il 14,5 per cento. Percentuale che si impenna fino a sfiorare il 29 per cento nelle regioni meridionali. Il "caso Pomigliano" ha fatto riscoprire la classe operaia e anche la distanza abissale di reddito tra l´amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i suoi turnisti: il primo guadagna 435 volte di più dei secondi.

Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l´Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: «La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all´anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell´occupazione». Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane - ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro "Contro i giovani" (Mondadori) - guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.

Joachim Gauck era l’uomo del momento giusto, per la successione di Horst Köhler alla presidenza della Repubblica in Germania. Per aver conosciuto la paura quando era un pastore dissidente nella Germania comunista, sapeva quel che significa pensare con la propria testa, resistere, imboccare la stretta via della solitudine. Assieme a Havel, Gauck è uno dei rari dissidenti che non solo ha combattuto il totalitarismo comunista ma ha saputo guardare dentro se stesso, e intuire quello che può fare, di ogni uomo, un conformista o un ideologo, a seconda delle necessità e delle circostanze. Per dieci anni, fra il 1990 e il 2000, aveva diretto un’istituzione essenziale per la riunificazione tedesca e la rinascita della democrazia in Germania Est: l’autorità che archivia e mette a disposizione del pubblico gli atti della Stasi (servizi di sicurezza e spionaggio dell’Est). Ho conosciuto Gauck personalmente, prima e dopo l’89, e non lo ricordo alla ricerca di facili consensi. La tempesta della Ddr lo aveva fatto crescere, la più complessa tempesta della democrazia non l’aveva rovinato. Ambedue gli hanno dato speciali antenne, e uno speciale senso dell’umorismo. Nella breve campagna presidenziale parlava molto della crisi economica, e della paura che tornava ad affliggere gli animi («Sì, là fuori c’è da aver paura!»). Ed evocava l’insurrezione che nell’89 aveva infranto a Berlino muri e paure («Anche i tedeschi sono dunque capaci di far rivoluzioni!»).

Probabilmente sono questi i motivi per cui i tedeschi, se avessero potuto eleggere direttamente il capo dello Stato, lo avrebbero senza esitazione votato in massa. La Germania, capace di forza inaudita ma non di rivoluzioni, aveva un nuovo simbolo. Anche la stampa lo favoriva, anche i presidenti che più hanno lasciato tracce di sé, come Richard von Weizsäcker e Roman Herzog, avevano chiesto che sul nome di Gauck si formasse una vasta maggioranza, e che comunque i deputati votassero in piena libertà, senza badare alle discipline di apparati e schieramenti.

È strano come la partitocrazia e il pensiero corto abbiano infine avuto il sopravvento, lasciando cadere una personalità come Gauck e aprendo la strada alla nomina di un uomo certo onesto ma non eccezionale come Christian Wulff, ex presidente democristiano della Bassa Sassonia. È strano come sia stata un’altra cittadina dell’Est, Angela Merkel, a incaponirsi e battersi perché venisse affossato il candidato più apprezzato dai tedeschi e dalle loro teste pensanti. Ancor più strano è l’ignominioso connubio che si è creato, al momento del voto in Parlamento, fra il Cancelliere e la Linke, la formazione che raggruppa i fuoriusciti socialdemocratici di Lafontaine e l’ex partito comunista dell’Est. Un connubio non nuovo nella storia, che l’Italia dei governi Prodi ha conosciuto bene.

Solo in apparenza tuttavia l’affossamento di Gauck è una storia di stranezze e anomalie. Sono decenni che l’Europa non riesce a selezionare personaggi di spicco, e questa paralisi dell’immaginazione ha, almeno in Germania, radici al tempo stesso molto antiche e molto tedesche. Da un lato è il fastidio suscitato in ogni potente da personalità troppo forti, che non rientrano nei parametri partitici e sono una minaccia per lo status quo e i discorsi dominanti: in linguaggio moderno, non s’iscrivono del tutto né a destra né a sinistra. Appartengono non ai partiti, ma alle grandi occasioni. Nel quinto libro delle sue Storie, Erodoto sintetizza in una metafora l’arte di governo che il tiranno di Mileto, Trasibulo, insegna al giovane tiranno di Corinto: fai come se ti trovassi in un campo di grano - dice - taglia le spighe troppo alte!

Ma è anche una storia tedesca quella che abbiamo davanti, e per esser precisi una storia tedesco orientale. Difficile dire chi sia stato più stupido, ottuso, miope: se Angela Merkel o la Linke, che fino all’ultimo si è rifiutata di spostare il proprio voto su Gauck. Fatto sta che entrambi gli attori sono eredi della vecchia Germania comunista: un Paese che non ha avuto la possibilità di mutare e ripensare la propria storia, dopo la caduta del nazismo; che ha mantenuto e congelato il vecchio rapporto tedesco con l’autorità. In particolare, ha preservato quella meschinità pedante e filistea che opportunisticamente cerca rifugio in un suo nido protetto, pur di non correre pericoli personali e non osare il coraggio e l’isolamento. È lo spirito piccolo borghese che i tedeschi attribuiscono allo Spiesser: lo Spiesser non osa mai nulla d’ardito ma per convenienza si adatta, non cerca la verità ma si contenta di bugie, di frasi fatte, se necessario di dogmi indiscussi. Per parlare con Gauck, può divenire al tempo stesso un conformista e un ideologo, per paura o tornaconto.

La Merkel non ha una vita di dissidente alle spalle, e lo si vede. Il suo respiro e il suo sguardo sono corti e il raggio dei suoi interessi breve e egocentrico. Il momento che traversa è pieno di imprevisti precipizi, e rifugiarsi nel nido è la cosa che preferisce, se mantenere il potere è a questo prezzo. Meglio occuparsi di elezioni locali, piuttosto che pensare responsabilmente alla Grecia e al destino dell’Europa e dell’euro. Meglio far fuori un possibile concorrente come Wulff e promuoverlo a capo dello Stato, piuttosto che dare alla Germania un grande presidente. Meglio correre in Sudafrica e godere della vittoria tedesca ai quarti di finale, piuttosto che correre per una bella vittoria nel mestiere politico che è il suo. Lo Spiesser non pensa mai in grande, ma sempre in piccolissimo. Tina Hildebrandt e Elisabeth Niejahr sulla Zeit scrivono che la Merkel è incapace sia di imboccare la strada del coraggio sia di imboccare la strada della paura: l'unica cosa che sa fare è non imboccare strada alcuna. Günter Bannas sulla Frankfurter Allgemeine scrive che la Merkel segue il vento, non avendo una propria consistenza: «L’euro non sarebbe mai nato, se fosse stata lei cancelliere negli anni di Kohl. Mai avrebbe avuto il coraggio, che ebbe Gerhard Schröder nel suo partito, di imporre la riforma dello stato sociale e del diritto del lavoro che va sotto il nome di Agenda 2010».

Eppure la Merkel avrebbe trionfato, se avesse avuto un po’ d’immaginazione e non si fosse annidata nelle sue sparagnine aritmetiche di potere. È vero, erano stati i socialdemocratici e i Verdi a proporre la candidatura Gauck, aggiudicandosi per primi la mossa migliore e più inventiva. Ma Gauck è uomo difficilmente classificabile, e la Merkel avrebbe potuto metterci sopra il suo stampiglio, trasformando l’ex dissidente in un figlio dell’era Kohl: figlio riottoso, perché incontrollabile quando Kohl cadde in disgrazia, ma pur sempre figlio. La Merkel sarebbe divenuta di nuovo popolare, e avrebbe acquisito un’indipendenza verso il partito che ora, dopo la faticosa elezione di Wulff, ha finito col perdere. Ha scelto l’apparato contro il bene comune, la partitocrazia contro il parere di gran parte dell’opinione pubblica. Anche in questo è stata spiessig.

L’Europa barcollante ha oggi una persona così, alla propria testa. Ha una Germania che economicamente si trova a esser guida dell’Unione, ma che politicamente non sa pensare che in piccolo, assediata da conformismi e da calcoli avari. In realtà sono molti oggi i piccoli personaggi, in Europa. Le spighe più alte non mancano (l’ex premier belga Guy Verhofstadt, il tedesco Cohn-Bendit) ma la preoccupazione dei potenti è di reciderle se solo oltrepassano un poco la media. Quanto alla sinistra tedesca, la sua strada si fa impervia. Assieme ai Verdi, i socialdemocratici hanno dato prova di grandezza e fantasia, proponendo un personaggio per loro non comodo come Gauck. Ma l’alleanza con le sinistre postcomuniste, e con la loro radicale stupidità, diventa sempre più difficile ed è un regalo del tutto immeritato ai democristiani e alle destre.

Green Economy

Da Tremonti tagli e insulti

di r.pol.

Dall'assemblea di Coldiretti il ministro dell'economia carica a testa bassa le regioni del Sud, «cialtrone e irresponsabili» per lo spreco dei Fas. Il governo prepara lo smantellamento di parchi nazionali e aree protette. Sulle pensioni la correzione del «refuso» si rivela l'ennesimo bluff. Mentre un nuovo emendamento alla manovra taglia le tredicesime a magistrati, poliziotti e professori universitari. Una ruota che gira gira e torna sempre al punto di partenza: tagli alla spesa pubblica e impoverimento del ceto medio, di dipendenti e pensionati. È questo il lavoro della commissione bilancio del senato sulla manovra finanziaria.

Le poche promesse migliorative di partenza fatte da Tremonti sono completamente sparite nel corso del dibattito. Anzi, allo stato la manovra è peggiorata in modo significativo. All'ennesima scure sulle pensioni si sono aggiunti il dietrofront di relatore e governo sull'impegno a ripristinare le agevolazioni per le energie rinnovabili (certificati verdi) e il penoso giro di vite sulla soglia dell'85% per la pensione di invalidità. Le uniche aperture rimaste sono affidate a futuri decreti legislativi del governo. In sostanza, il parlamento non conta nulla: la destinazione del 30% dei risparmi sulla scuola destinati comunque all'Istruzione spetterà a un decreto futuro dell'Economia. E anche i risparmi per la fine dei certificati verdi dovrebbero andare a università e riduzione delle bollette ma saranno decisi chissà quando da Sviluppo ed Economia.

Ai tagli alla spesa si accompagna la scure contro gli enti locali. Tremonti ieri all'assemblea della Coldiretti ha detto che «l'agricoltura è la base di ogni altra attività economica. Senza di essa non esisterebbero né il commercio né l'industria» e ha di nuovo caricato a testa bassa le regioni del Sud accusandole di «cialtroneria» e «irresponsabilità» nello spreco dei fondi comunitari: «Basta, è uno scandalo pauroso prodotto dalle regioni meridionali, non se ne può più di questa gente che sa solo protestare e non sa fare servizio pubblico per i cittadini», sentenzia padanamente il ministro dell'Economia. La critica sarebbe pure giusta. Però è sospetta. Perché il governo - oltre ai tagli della finanziaria - si appresta a inasprire le aliquote Irpef (lavoratori) e Irap (imprese) per le quattro regioni che hanno «sforato» il rientro sulla sanità: Lazio, Calabria, Campania e Molise. Mentre Bersani accusa il ministro di divagare: «Tremonti dovrebbe spiegare perché il reddito agricolo è sceso del 20% nel 2009 invece di criticare le regioni». Per il Pd le modifiche sui tagli agli enti locali sono dirimenti. Ma il relatore Azzollini afferma che la questione è chiusa con l'emendamento che conferma i tagli lasciando ai governatori il compito di ripartirli tra di loro.

Lo scontro con gli enti locali insomma non si placa. Errani, Formigoni e Polverini - cioè i vertici della conferenza delle regioni - hanno incontrato ieri il presidente del senato Renato Schifani. Che ha promesso tempi e spazi adeguati nel dibattito sulla finanziaria. Ancora in alto mare invece il vertice chiesto dai governatori a Berlusconi.

«Una maggioranza politicamente in difficoltà è costretta a rinviare la conclusione dei lavori sulla manovra lasciando da parte i tanti, tantissimi nodi irrisolti», spiega il senatore del Pd Paolo Giaretta, relatore di minoranza della manovra. I lavori della Bilancio infatti si sono fermati e tutto è stato rinviato a lunedì.

Ecologia. Con i tagli aree protette a rischio

Il governo sega i parchi nazionali

di Luca Fazio

Per raccogliere le briciole segano anche i parchi, e per di più nell'anno internazionale dedicato alla biodiversità (anche se in pochi se ne sono accorti). Senza voler passare per catastrofisti, bisognerebbe chiedersi perché il governo, per risparmiare 25 milioni di euro, cifra di poco conto per il bilancio dello Stato, corre il rischio di smantellare le aree protette italiane che custodiscono il patrimonio più ricco di biodiversità a livello europeo (57.468 specie animali e 12.000 specie floristiche censite). La risposta sta nel fatto che l'Italia, nonostante questa ricchezza, è anche il paese europeo che consuma più territorio (ogni anno vengono asfaltati 250.000 ettari) e che continua a destinare meno risorse alla protezione della natura.

Dunque va letto nel segno della continuità il taglio di 25 milioni di euro previsto dalla manovra finanziaria che ieri ha costretto i presidenti dei parchi nazionali, rappresentati da Giampiero Sammuri, a sollevare alcune obiezioni per cercare di difendere le aree protette. Sono stati ricevuti al Senato da esponenti del governo e dell'opposizione facendosi strappare una promessa di interessamento, anche perché, a conti fatti, ogni anno i parchi italiani accolgono 35 milioni di turisti con un indotto notevole anche per le casse dello stato. Restando i tagli, insiste Federparchi, alcune aree protette invece saranno costrette ad essere smantellate. «Se passa questa manovra finanziaria - vanno al sodo i senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante - molti dei 24 parchi nazionali italiani dovranno chiudere i battenti. All'articolo 7 è previsto il dimezzamento dei circa 50 milioni di contributi del Ministero dell'Ambiente, il che impedirebbe a molti enti parco semplicemente di pagare gli stipendi al personale». Da qui l'insensatezza della norma, insistono i senatori. «I parchi nazionali rappresentano un patrimonio ambientale di valore inestimabile e custodiscono le aree più pregiate del paesaggio italiano nelle quali si incarna una parte importante della stessa identità nazionale. Condannarli a morte è un atto di stupidità anche in termini economici, visto il contributo che il territorio protetto fornisce alle diverse economie, dal turismo all'agricoltura di qualità, che basano la forza sulla qualità ambientale e che incontrano una domanda crescente da parte dei cittadini».

Per Antonio Nicoletti, responsabile Aree protette di Legambiente, già oggi i parchi sono allo stremo e 25 milioni di euro in meno potrebbero essere letali. «Solo attraverso una nuova politica basata su concreti investimenti strategici e valorizzazione delle qualità territoriali - spiega - sarà possibile rilanciare con criterio la funzione degli enti preposti alla salvaguardia della natura e della biodiversità. La mannaia del maxi emendamento, invece, rischia di abbattersi non solo sulle esperienze positive di tutela del paesaggio e delle parti più fragili del nostro territorio, ma anche di condannare un pezzo dell'economia legata al turismo sostenibile, alle produzioni agroalimentari di qualità e alle attività educative e formative per i giovani».

A questo punto, per modificare la manovra sega parchi, bisognerà mettersi nelle mani del ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. E questa, forse, non è una buona notizia

Bonelli (Verdi)

«Un attacco alla biodiversità che favorisce i privati»

di Luca Fazio

Altro che 25 milioni di risparmi, il governo Berlusconi vuole privatizzare anche i parchi nazionali. Ne è convinto Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, che annuncia un esposto alle istituzioni comunitarie prefigurando una violazione delle direttive europee per la tutela della biodiversità.

Individui addirittura una doppia regia, prima Matteoli e poi Prestigiacomo starebbero cercando di svendere un patrimonio della natura.

Come già aveva annunciato Matteoli, anche il ministro dell'Ambiente Prestigiacomo ha detto che ormai è giunto il momento di far entrare i privati nella gestione delle aree protette. Non sfugge a nessuno che tagliare i fondi e portare al collasso la gestione dei parchi non può che facilitare l'arrivo dei privati, che hanno tutto l'interesse a gestire e incrementare alcune attività all'interno dei parchi. La privatizzazione è sempre nella logica politica di questo governo. Questo processo porterebbe di fatto allo snaturamento della pubblicità delle aree protette, e di conseguenza allo scardinamento di alcuni principi di tutela in aree dove non sarebbe previsto alcun intervento.

Dove starebbe la violazione del patto sul rispetto della biodiversità?

L'Italia ha aderito alla convenzione internazionale di tutela della biodiversità, un protocollo che tra le altre cose ribadisce il contributo vitale delle aree protette. Quindi l'Italia ha sottoscritto un obbligo a sostenerle adeguatamente, è il contrario di tagliare risorse indispensabili.

Stai parlando del territorio più ricco di biodiversità...

Appunto. Nei parchi italiani vengono tutelate più di 57.000 specie animali tra invertebrati (56.168) e vertebrati (1.254). Anche il patrimonio vegetale è notevolissimo, circa il 50% della flora europea. C'è un altro aspetto non trascurabile che dice della ricchezza delle nostre aree protette: secondo una stima fatta da un istituto internazionale, sono indispensabili anche per il rispetto degli obiettivi europei in materia di emissioni, poiché ogni ettaro di territorio tutelato consente all'Italia di risparmiare 578 euro di costi relativi all'emissione di Co2, per un totale di 476 milioni di euro.

In più, le aree protette sono anche un business...

Per questo possono fare gola ai privati. Si calcola un giro di affari attorno ai 2 miliardi di euro all'anno, all'interno di un indotto legato al turismo e all'agricoltura che dà lavoro a 86.000 persone. Nei 2.450 centri visita transitano 35 milioni di visitatori all'anno, una cifra enorme. Il turismo naturalistico, nonostante la crisi economica, è in costante espansione. Per questo motivo mettere in ginocchio i parchi nazionali, oltre che insensato, potrebbe favorire i non indifferenti appettiti dei privati.

I rappresentanti di Federparchi, dopo l'incontro di ieri al Senato, si dicono fiduciosi circa la «restituzione» dei 25 milioni di euro di tagli. Ti aspetti un aggiustamento in questa direzione?

Non è la prima finanziaria che opera tagli sulle aree protette, l'hanno già fatto nel 2008. Piuttosto, credo che questo continuum porterà alla paralisi della gestione dei parchi. Se questo è l'obiettivo, mi aspetto poco.

Con questi ritmi nel 2050 i cantieri delle Grandi opere saranno ancora aperti. La previsione proviene da una fonte autorevole, anzi da una delle fonti più autorevoli in materia di costruzioni e infrastrutture, il Cresme, Centro di ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio. Nel 2009 l’istituto aveva calcolato che dopo quasi un decennio dall’avvio dell’operazione grandi infrastrutture prevista dalla legge Obiettivo varata nel 2001, l’avanzamento dei lavori era di appena il 10 per cento. Il rapporto 2010 che sarà consegnato tra qualche giorno alla Camera dei deputati registrerà un lieve incremento rispetto a quella cifra, ma il traguardo resta lontanissimo. Secondo i piani originari, invece, proprio nel 2010 tutti i lavori dovevano essere terminati. Un fiasco totale.

La legge Obiettivo non ingrana e non funziona. Quando fu lanciata, ai tempi del passato governo Berlusconi, la lobby potente dei grandi costruttori riuniti nell’Agi più l’Ance allora guidata da Claudio De Albertis, e il ministro dei Lavori pubblici dell’epoca, Pietro Lunardi, garantirono che grazie a quella norma innovativa e rivoluzionaria, l’Italia avrebbe conosciuto un secondo Rinascimento. Il gigantesco piano di infrastrutture programmate avrebbe ridato lustro e slancio al Paese dopo la lunga stagnazione e addirittura la regressione seguita alla fase eroica del Dopoguerra e a quella molto fruttuosa degli anni Sessanta.

Fu a quei tempi e in forza di quegli scintillanti piani di rilancio che Berlusconi cominciò a proporsi come l’“Uomo del fare”. Peccato più per l’Italia che per lui che le Grandi opere restino al palo e che nonostante tutte le chiacchiere stia scadendo a livelli infimi la dotazione infrastrutturale del Paese, un tempo tra le più efficienti e avanzate d’Europa. Se i lavori non procedono non è colpa dell’effetto Nimby (Not in my Backyard, cioè fate pure, ma lontano da casa mia) o dell’interdizione della lentocrazia, come spesso si cerca di far credere. L’opposizione delle comunità locali e la vischiosità delle procedure amministrative la loro influenza ce l’hanno, ma non sempre e non in maniera determinante.

Dopo un decennio di false partenze ormai è chiaro: è proprio la legge Obiettivo che non aiuta, sono i suoi meccanismi, i suoi presupposti e il suo impianto che non favoriscono la realizzazione delle grandi infrastrutture. Anzi, la rallentano a causa di un sistema imperniato su pochi general contractor, i contraenti generali, le grandi imprese che ormai sono diventate padrone ed arbitre della situazione, come di recente ha sottolineato anche l’Autorità per le opere pubbliche. Da Impregilo ad Astaldi, sempre le stesse aziende, sempre così poche che bastano le dita di due mani per contarle. Stando così le cose Berlusconi rischia di passare alla storia italiana delle infrastrutture non come l’“Uomo del fare”, ma come il “Grande rallentatore”. Lo stesso monitoraggio della legge Obiettivo è diventato un’impresa. Chi cerca di decifrarne il percorso si imbatte di anno in anno in difficoltà crescenti, in un tourbillon di opere che entrano ed escono dal programma, gonfiato e sgonfiato come una fisarmonica a seconda delle circostanze. Quando nel 2006 il centrosinistra vinse le elezioni e al governo andò Romano Prodi si posero almeno il problema di rimettere mano alla legge e di ricondurla ad un profilo di ragionevolezza, sfrondando lo sfrondabile e classificando come veramente grandi e quindi degne di entrare nel programma una manciata di opere davvero strategiche, non di più.

Ma anche quelle sono rimaste solo buone intenzioni e nel 2008 Prodi ha dovuto cedere la guida del governo di nuovo a Berlusconi. In appena due anni, da aprile 2007 ad aprile 2009, il numero delle opere in programma è ulteriormente aumentato di 31 unità (più 13 per cento circa), e ora le opere considerate fondamentali sono quasi 300. Di recente c’è stata un’altra bella infornata. L’edilizia carcera-ria, per esempio, e poi il nuovo programma di edilizia scolastica con l’appendice delle scuole dell’Abruzzo (226 milioni di euro). E ancora la ricostruzione degli edifici istituzionali delle zone terremotate e dell’università de L’Aquila (altri 400 milioni e passa), l’aeroporto Paolo Borsellino di Palermo, lo scalo Dal Molin di Vicenza, la ferrovia Sud-Est Napoli-Bari e l’adeguamento di tutta la rete ferroviaria meridionale, la strada Licodia-Eubea in Sicilia, la strada statale Picente, il sistema della flottiglia dei laghi del Nord, la tangenziale di Napoli e Pozzuoli, i nodi urbani di Bari e Cagliari. Con quali criteri sono state inserite queste opere? Nessuno lo sa. L’impressione è che entrate ed uscite rispondano a pressioni estemporanee di lobby e che l’inserimento di nuovi progetti più che al riammodernamento organico e programmato delle infrastrutture serva a dare argomenti di propaganda in campagna elettorale. L’unico aspetto che avanza in fretta e in modo inesorabile sono i costi: all’inizio il piano delle Grandi opere costava 125 miliardi di euro, alla fine 2009 eravamo a 320, ora siamo a 350 almeno, quasi il triplo, ma gli esperti prevedono che cresceranno ancora. Non è affatto chiaro dove potranno essere reperiti tutti quei soldi e di mese in mese aumenta il sospetto che ormai il piano infrastrutturale sia un guscio vuoto, un guazzabuglio in cui quasi più nessuno riesce a raccapezzarsi. La stessa relazione annuale preparata dal 2004 in poi per la Commissione lavori pubblici della Camera dal Cresme è un prezioso quanto snobbato documento di analisi, perché i deputati che dovrebbero usarla come il pane quotidiano, da tempo hanno preso a considerare tutto l’ambaradam delle Grandi opere come una macchina non più manovrabile, almeno dai banchi del Parlamento. Uno dei pochi che ancora in qualche modo riesce a padroneggiare la faccenda perché ha contribuito a far nascere il progetto e lo conosce come le sue tasche è Ercole Incalza, il tecnico di area socialista che già ai tempi della Prima Repubblica contava più dei ministri nel palazzo di Porta Pia sede dei Trasporti, dei Lavori pubblici e poi delle Infrastrutture. Di recente anche Incalza è finito nel vortice dello scandalo della cricca collegata a Diego Anemone per via di mezzo milione di euro che sarebbe uscito dalle casse della ditta del costruttore dei Castelli romani per l’acquisto di una casa del genero dello stesso Incalza, il quale in seguito allo scandalo ha simbolicamente offerto la sua testa al ministro Altero Matteoli ricevendo una pronta riconferma di fiducia.

Di fronte al fallimento palese di un progetto che non decolla, un governo con a cuore le sorti del Paese riprenderebbe in mano la faccenda riconsiderandola da capo a fondo. È abbastanza probabile, però, che non succeda e che la legge Obiettivo continui il suo opaco, lentissimo e costosissimo percorso. La conseguenza sarà che anche per ferrovie, strade, porti, tangenziali e metropolitane, l’Italia continuerà a perdere inesorabilmente terreno rispetto all’Europa.

Stefano Rodotà A battaglia del post-it

La manifestazione di oggi, che da piazza Navona a Roma si diramerà in tante piazze italiane, assume un significato politico e una forza simbolica che la proiettano al di là di altre iniziative di opposizione al disegno di legge sulle intercettazioni. In quelle piazze si parlerà di tre bavagli: al lavoro della magistratura, al diritto all’informazione, alla cultura.

È ormai chiaro, infatti, il legame stretto che unisce gli attacchi alla legalità, all’esistenza stessa di un’opinione pubblica vigile, alla formazione del sapere critico. Una strategia che va avanti da tempo e che si vuol far arrivare al suo momento finale, ad una conclusione che negherebbe alcuni dei fondamenti che consentono ad un Paese di poter continuare a definirsi democratico. Il presidente del Consiglio non ha mai nascosto la sua ostilità a qualsiasi forma di controllo del potere. E ora, dopo aver messo il Parlamento nella condizione di non nuocere, vuole liberarsi in un colpo solo dell’odiata magistratura, di un sistema dell’informazione contro il quale aizza i cittadini, delle istituzioni culturali (università, in primo luogo) affamate con i tagli ai bilanci.

Ma qualcuno si è messo di traverso, e oggi tornerà a dire in pubblico che intende continuare a farlo. Non è il caso di abbandonarsi all’autocompiacimento, o a un ottimismo superficiale. Registriamo i fatti. Centinaia di migliaia di persone hanno firmato documenti contro la legge bavaglio promossi da gruppi assai diversi. Su Internet, nelle università, da parte delle più diverse associazioni si insiste in una attività di analisi e denuncia degli aspetti gravemente repressivi di quel testo. Questa opposizione sociale non si è rintanata in qualche nicchia, ma ha coinvolto l’intero mondo dell’informazione, al di là degli steccati politici, ha diviso la stessa maggioranza. Segno evidente che quel disegno di legge è stato vastamente percepito come un inaccettabile sopruso.

Questo è un fatto politico. In alcune materie non esiste la controprova, ma si può ragionevolmente ritenere che né le divisioni della maggioranza, né le inusuali durezze dell’opposizione sarebbero emerse con tanta chiarezza se vi fosse stata anche in questo caso quella acquiescenza di troppa parte dell’opinione pubblica che ha reso possibile le scorrerie di cui stiamo misurando i guasti e alle quali si vorrebbe continuare a garantire l’impunità nell’ombra. Ma il tempo dei silenzi è finito, si è individuato un nuovo terreno di lotta politica e non sarà facile per nessuno tentare di recintarlo.

Questo è un monito anche per coloro i quali, proprio in questo periodo, stanno mettendo in discussione diritti fondamentali garantiti dalla prima parte della Costituzione. Proprio la Costituzione, infatti, è stata impugnata come arma pacifica da tutte le persone che hanno protestato, firmato e oggi torneranno in piazza. La Costituzione ha trovato i suoi nuovi difensori, e non sarà facile scippargliela. E la privacy? Queste settimane hanno mostrato pure l’ipocrisia e la doppiezza di coloro i quali si sono messi al riparo dell’articolo 15 della Costituzione e della garanzia lì prevista per la libertà di comunicazione. Proprio ieri, nella sua relazione al Parlamento, il Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali ha messo in evidenza quante e quali siano le violazioni quotidiane della privacy delle persone, previste, favorite, ignorate dal Governo e dalla sua maggioranza. In questi casi, che davvero toccano la vita quotidiana di milioni di persone, nemmeno un briciolo di quell’attenzione che invece scatta, sensibilissima, appena ci si avvicina ai centri di potere e alle figure pubbliche. Si ignora che già esiste una norma chiarissima in questa materia, consegnata all’articolo 6 del codice deontologico dell’attività giornalistica: "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica".

Qui il confine difficile tra diritto d’informazione e tutela della privacy è tracciato con assoluta chiarezza. Non vi è alcuna aspettativa di privacy da tutelare quando i fatti riguardano figure pubbliche e hanno rilevanza pubblica, perché forniscono elementi in base ai quali l’opinione pubblica può controllare l’esercizio del potere e l’affidabilità di politici, burocrati, imprenditori.

Vogliamo uscire da questo brutto e non nuovo esercizio di strumentalizzazione delle istituzioni, dal loro pericoloso uso congiunturale? Vi è una via molto semplice per farlo, che converrà riproporre all’attenzione di quelli che saranno in piazza e, tramite loro, a quanti hanno responsabilità direttamente politiche e hanno finalmente compreso quale sia il pendio scivoloso che si sta imboccando con quel disegno di legge. Uno stralcio. Si abbandonino le pretese di rendere più difficile o addirittura impossibile l’attività d’indagine di magistratura e polizia e di bloccare le possibilità di impedire ai cittadini di veder legittimamente soddisfatto il loro diritto ad essere informati. Si presenti una proposta che vieti la pubblicazione di quanto è segreto, di quel che riguarda informazioni irrilevanti o riguardanti persone del tutto estranee alle indagini. E ci si fermi qui. Una proposta del genere troverebbe certamente larghissimo consenso, garantirebbe la genuina esigenza di privacy, eviterebbe gli abusi di cui tanto, e giustamente, ci si è lamentati.

Prepariamoci, altrimenti, a mantenere aperti spiragli di democrazia nella malaugurata ipotesi che il disegno di legge venga approvato. È già emersa una strategia di disobbedienza civile che va dalla pubblicazione di notizie rilevanti anche in casi vietati dalla legge alla impugnativa davanti alla Corte costituzionale e, eventualmente alla Corte europea dei diritti dell’uomo; ad accordi che consentano la pubblicazione delle stesse notizie su siti Internet stranieri, ai quali gli italiani potrebbero accedere, ed essere così informati; alla lettura alle Camere delle pagine vietate che, entrando negli atti parlamentari, diverrebbero immediatamente pubblicabili. Ma oggi nelle piazze si celebra un successo già raggiunto, sì che speriamo che di questa strategia non vi sia bisogno.

"Un´operazione che serve solo a fare cassa"

intervista a Salvatore Settis

«Siamo davanti a uno svuotamento e smantellamento dello Stato solo per fare cassa». Salvatore Settis, archeologo e direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, boccia il federalismo demaniale senza mezzi termini. rofessore, si dice che sia solo un trasferimento, non un´alienazione.

«Questo sarà il primo passo. I beni vengo trasferiti agli enti locali. Ma l´obiettivo di questa legge è la mercificazione dello Stato. Anni fa avevo parlato di Italia Spa, era una battuta, non avrei mai pensato che sarebbe successo davvero».

Perché non pensa che gli enti locali possano gestire questo patrimonio?

«Ho visto che nella lista figura il museo di Villa Giulia. Ecco se il museo di Villa Giulia fosse una fonte di reddito per lo Stato, questo non avrebbe bisogno di alienarlo. Se invece non lo è e lo cede ad esempio al Comune di Roma, il Campidoglio, già in difficoltà economica, come potrà sobbarcarsi i costi di manutenzione?».

E quindi che succederà?

«Che il museo di Villa Giulia, o qualsiasi altro bene, verrà messo in un fondo immobiliare in cui potranno entrare anche i privati. E così accadrà che qualche palazzinaro metterà nel fondo un complesso residenziale nella periferia di Roma di pari valore economico e potrà disporre della maggioranza di Villa Giulia. D´altronde anche le ridicole valutazioni al ribasso che vedo sono fatte in quest´ottica».

Nell´elenco figurano anche le Dolomiti…

«Quello che mi dispiace è che il Paese non abbia ancora capito che, con questo federalismo demaniale, veniamo tutti borseggiati. Le Dolomiti non sono solo di chi abita lì, sono anche dei siciliani. Di questo passo, rimarremo uno Stato senza più territorio. Ora c´è questa legge, poi ne arriverà un´altra. Ma nessuno se ne accorge, nemmeno l´opposizione. Rinunciare all´idea di un bene pubblico è rinunciare alla nostra storia e al nostro futuro».

Al di là del suo ruolo istituzionale, come cittadino cosa pensa?

«È proprio come cittadino che non so rinunciare a beni pubblici che sono tali da migliaia di anni. Che i nostri padri ci hanno lasciato e che noi dobbiamo lasciare ai nostri figli».

Dai musei ai fari e alle Dolomiti ecco le perle a rischio svendita

Federalismo, 11 mila beni pronti a passare dal demanio agli enti locali

Dalle Dolomiti alla spiaggia del lago di Como. Dal Museo romano di Villa Giulia al mercato di Porta Portese che ispirò Claudio Baglioni. Dall´Idroscalo di Ostia dove morì Pier Paolo Pasolini all´ex forte Sant´Erasmo di Venezia. È un vero tesoro quello che dall´Agenzia del demanio rischia di essere trasferito alle autonomie locali. Di quelli che non hanno prezzo, nonostante una stima che supera i 3 miliardi di euro.

L´elenco, stilato dal demanio e ora in commissione bicamerale, ancora non è definitivo, la versione ufficiale verrà pubblicata a fine luglio. Mercoledì ci sarà la relazione del ministro del Tesoro in Consiglio dei ministri, ma intanto ci si può fare un´idea del patrimonio di cui presto potrebbero disporre Comuni, Province e Regioni. A patto che ci sia un progetto di valorizzazione. Per il momento, infatti, i beni vengono solo trasferiti (e per alcuni di essi, soprattutto quelli "naturali", c´è il vincolo che restino demaniali), ma la maggior parte potrà essere venduta a patto che l´alienazione serva a risanare il debito pubblico.

Circa 11mila "pezzi" che nella coscienza collettiva non hanno prezzo, ma che, secondo l´agenzia, un prezzo ce l´hanno, eccome. Innanzitutto spiagge e isole. Tra cui gli isolotti intorno a Caprera e l´isola di Santo Stefano vicino a Ventotene. Poi, parti di Palmaria vicino a Portovenere, dell´isola dell´Unione di Chioggia e di quella di Sant´Angelo delle Polveri a Venezia. Ancora, un pezzo di arenile di Sapri (famosa per la spedizione di Pisacane) e "la spiaggia del lago di Como" a Lecco, quella che diede inizio ai "Promessi Sposi".

Dal mare ai monti, anche le vette sono "in vendita". Ecco così gran parte delle cime che circondano Cortina d´Ampezzo. Le Tofane, il monte Cristallo, la Croda Rossa, il Sorapis e l´Alpe di Faloria. A rischio "cambio di proprietà" non solo la natura. Anche storia e arte cercano un nuovo padrone. A Roma lo cercano il Museo di Villa Giulia, dove rischia il trasloco la coppia di sposi etruschi e la facoltà di Ingegneria accanto a San Pietro in Vincoli. Poi, ancora, l´ex convento della Carità a Bologna (330 mila euro), l´Archivio di Stato di Trieste (5 milioni), l´ex cinta fortilizia "Mura degli angeli" di Genova, Villa Gregoriana a Tivoli, l´ex forte di Sant´Erasmo che affaccia sulla laguna di Venezia (il costo è di 7 milioni di euro), la piazza d´Armi di Reggio Calabria e quella di L´Aquila.

Non stupirà che nella lista figurino anche molti immobili. Roma ha un vero patrimonio. Oltre al mercato di Porta Portese, la tenuta di Capocotta a Castelporziano, un edificio da 22 milioni di euro in centro ora in uso al Senato, l´Archivio generale della Corte dei Conti (67 milioni di euro), l´ex forte Ardeatino e un complesso immobiliare alla Rustica, uno dei pezzi più pregiati della lista con i suoi 90 milioni.

Una specie di supersaldo da fine stagione che non risparmia nemmeno il cinema: rischiano di essere alienati il cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti a Roma (4,5 milioni di euro) e l´Idroscalo di Ostia dove morì Pier Paolo Pasolini, il cui prezzo è fissato a 6,7 milioni. Svendita anche per le infrastrutture: i fari di Mattinata sul Gargano, di Punta Palascia a Otranto, di Spignon a Venezia e "l´antico semaforo della Guardia" di Ponza. Trasferibili anche il campo da golf da 18 buche sull´isola di Albarella di proprietà del gruppo Marcegaglia (oltre 4 milioni), l´antico binario della direttissima Roma-Napoli, quello di Briosco e l´acquedotto di Castellammare di Stabia. Nella lista pure l´ex campo per i prigionieri di guerra di Ragusa e alcune ex case del fascio. Differente il percorso della caserme che, prima di finire agli enti locali, verranno valutate da "Difesa Spa".

E sul "patrimonio in saldo" le opinioni divergono. Luca Zaia, governatore del Veneto, dice: «Si va nella direzione giusta. È bene che le Dolomiti ritornino alle loro comunità». Federalismo promosso anche dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Si aprono grandi possibilità». Mentre il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, parla della «più grande speculazione edilizia e immobiliare della storia italiana» e Enrico Farinone (Pd) smorza: «Federalismo sì, ma estremismo federalista no».

«Dietro l’avarizia dei Paesi ricchi c’è l’incapacità di eliminare le diseguaglianze sociali al loro interno. L’altro scoglio sono gli Stati destinatari degli aiuti, spesso in preda a instabilità politica e corruzione»

Le promesse mancate, gli impegni inevasi dai Grandi della Terra. E ancora: una governance mondiale da reinventare. E una Italia che arranca agli ultimi posti in Europa per ciò che concerne gli Aiuti per lo Sviluppo. L’Unità ne discute con Massimo Livi Bacci. «L’aiuto allo sviluppo - annota Livi Bacci - dopo gli ulteriori tagli proposti dalla manovra in Parlamento, è oramai un serbatoio pieno di promesse, ma quasi vuoto di soldi...». In discussione è anche la formula a G variabile. Quello che sicuramente è ormai anacronistico, riflette Livi Bacci«è il G8, i cui Paesi rappresentano, oramai, una quota minoritaria del PIL mondiale. Ma non ci può essere governo mondiale senza volontà politica...». Questione di risorse finanziarie ma non solo: «Credo - rimarca Livi Bacci - che esistano degli interventi in settori specifici che sono assolutamente prioritari. Mi riferisco – soprattutto – a quegli interventi che potenziano il “capitale umano” delle popolazioni povere: sopravvivenza e salute, in primo luogo, istruzione e conoscenza in secondo ...».

Dalle promesse non mantenute del G8 de L'Aquila a i fondi promessi, e comunque ritenuti insufficienti dalle più autorevoli Ong internazionali, del G8 di Toronto. Professor Livi Bacci, cosa c'è alla base di questa “avarizia” dei Grandi della Terra nel definire una strategia di lotta alla povertà?

«Tutti sono d’accordo – a parole – sulla necessità di ridurre la povertà nel mondo, e le dichiarazioni solenni dei Consessi Internazionali potrebbero riempire interi scaffali. Ma ci sono problemi di fondo che impediscono una efficace azione internazionale. Ne cito due. In primo luogo non c’è accordo su quali siano le migliori strategie per ottenere buoni risultati. E questo non deve stupire, dal momento che i Paesi ricchi non sono in grado (in certi casi non si provano nemmeno) di ridurre le disuguaglianze al loro interno – disuguaglianze che negli ultimi decenni sono rimaste più o meno invariate e in alcuni casi si sono addirittura accresciute. Come potrebbero esportare strategie che essi non adottano, o non conoscono, o non praticano efficientemente in casa loro? In secondo luogo, anche un’azione molto generosa di risorse si scontra con un problema fondamentale: l’uscita dalla povertà avviene, per lo più, con forze endogene a ciascun Paese, che l’azione esterna può sostenere o coadiuvare ma solo con forti limiti. L’instabilità politica, i conflitti, la debolezza istituzionale, la corruzione sono ostacoli spesso insuperabili: e queste situazioni sono spesso provocate dai Paesi più ricchi e più potenti».

Giustamente si pone l'accento sulla scarsità delle risorse finanziarie che i leader del G8 destinano agli Aiuti per lo Sviluppo. Ma è solo un problema quantitativo o occorre anche orientarne la «qualità»?

«Credo che esistano degli interventi in settori specifici che sono assolutamente prioritari. Mi riferisco – soprattutto – a quegli interventi che potenziano il “capitale umano” delle popolazioni povere: sopravvivenza e salute, in primo luogo, istruzione e conoscenza in secondo. Non c’è sviluppo senza sufficiente alimentazione, se non ci sono condizioni ambientali (e disponibilità di acqua) accettabili e quindi salute decente; se manca quel minimo di conoscenze che permetta di orientarsi in un mondo sempre più complesso ed urbanizzato»

Al G8 de L'Aquila Silvio Berlusconi aveva promesso un adeguamento dell'Italia agli obiettivi della Campagna del millennio delle Nazioni Unite. Ma un anno dopo L'Aquila, l'Italia è ancora maglia nera, o comunque ai gradini più bassi in Europa, per ciò che concerne l'Aiuto per lo Sviluppo. Come leggere politicamente questa desolante realtà?

«L’aiuto allo sviluppo, dopo gli ulteriori tagli proposti dalla manovra in Parlamento, è oramai un serbatoio pieno di promesse, ma quasi vuoto di soldi. Il Governo Prodi lo aveva rifornito, nonostante le ristrettezze di bilancio. Nella precedente legislatura si era arrivati a definire una buona proposta di legge per la riforma della Cooperazione che su molti aspetti aveva l’accordo dell’allora opposizione che – divenuta maggioranza – ha riposto il progetto in un cassetto. L’aiuto allo sviluppo è prioritario solo nelle dichiarazioni ufficiali rese da Berlusconi nelle conferenze stampa dei vari G-qualcosa. Promesse al vento, come sanno bene i leader degli altri Paesi. In molti Paesi l’aiuto allo sviluppo – pur con i limiti posti dalle scarse risorse e da altre difficoltà oggettive – rappresenta uno strumento importante della politica estera. Va constatato amaramente che da noi così non è». G8,G20...Masonoquestele sedi diuna nuova, più efficace e democratica governance mondiale? «Sicuramentenon più il G8, i cui Paesi rappresentano, oramai, una quota minoritaria del PIL mondiale. Ma non ci può essere governo mondiale senza volontà politica. Questa esiste in alcuni settori, per esempio per quanto riguarda il commercio internazionale, dove l’Organizzazione Mondiale del Commercio svolge importanti funzioni sopranazionali. Ma è completamente assente in altri. Faccio un esempio: nessun Paese è disposto a cedere anche una minima frazione della propria sovranità ad una Istituzione che regoli le migrazioni internazionali – almeno qualche aspetto di queste – lasciate per lo più in un duro gioco nei quali cozzano gli interessi dei paesi di origine e di quelli di destinazione, a scapito dei protagonisti, donne e uomini.

D’un tratto, come se la crisi economica cominciata nel 2007 non fosse passata da queste parti, è riapparsa nei vocabolari un’espressione molto usata negli Anni 80: «Non c’è alternativa». L’acronimo inglese, Tina (There is no alternative), caratterizzò i governi di Margaret Thatcher, e la fiducia che a quei tempi si nutriva nelle virtù indiscutibilmente razionali delle forze di mercato. Queste ultime non andavano regolate: si regolavano da sole, a condizione di esser lasciate senza briglie. Il dogma del mercato mise a tacere dissensi e recriminazioni spesso irragionevoli, ma finì col congelare il pensiero e le sue risorse multiformi. Il fallimento del comunismo accentuò questi vizi di immobilità, perché ogni idea diversa era considerata a questo punto una messa in questione radicale dell’economia di mercato. La stessa parola alternativa era in anticipo screditata, proscritta. Chi aveva l’ardire di pensare o immaginare alternative era accusato di avvelenare e addirittura sovvertire il grande idolo dei fondamentalisti che era il tempo presente.

La fiducia nel dogma ha trovato nel 2007 la pietra su cui è inciampata, e cadendo ha trascinato con sé le sicurezze che credeva di possedere, compresa la sicurezza che le forze di mercato non avessero mai bisogno di briglie politiche. Quel che è mancato e che manca, tuttavia, è un ricominciamento del pensare: troppo a lungo congelata, la mente avanza ancora a tastoni e nel buio acchiappa con le mani le parole che trova, senza sapere se appartengano al mondo nuovo o al vecchio.

Tra queste parole c’è l’acronimo della Thatcher, riutilizzato da governi, imprenditori ed economisti nelle più svariate occasioni: nel caso di Pomigliano, come nelle discussioni sui piani di rigore che i Paesi industriali si apprestano a varare. Non vengono riutilizzate senza ragione, perché non poche misure e decisioni sono obbligate, difficilmente confutabili: è vero, ad esempio, che in un’economia internazionalizzata si possono produrre automobili solo in fabbriche dove i costi di lavoro siano abbastanza bassi e la produttività abbastanza alta da poter competere con le produzioni in Europa orientale o Asia. Da questo punto di vista non c’è alternativa, in effetti. Se si vogliono fabbricare automobili in Italia o in Francia o in Germania, bisogna per forza adottare nuove condizioni di lavoro: grosso modo, quelle indicate dal piano Marchionne.

Essendo un momento di verità, la crisi consiglia tuttavia prudenza, quando si esprimono certezze razionali così granitiche, impermeabili alle controversie e alle alternative. Soprattutto, essa insegna ad aguzzare lo sguardo, e anche ad allungarlo e differenziarlo. Una cosa che è senza alternativa nel breve termine, può rivelarsi del tutto sterile e più che bisognosa di alternative se esaminata con lo sguardo, molto più lungo, delle generazioni che verranno e di quelli che saranno i loro bisogni, le loro domande, i loro stili di vita. Una produzione che sembra oggi vitale e prioritaria può essere, nel lungo termine, non così centrale come lo è stato fino a oggi.

È questo il momento in cui il dogma del mercato tende a divenire l’ortodossia del tempo presente, dell’hic et nunc. L’automobile è un prodotto essenziale della nostra esistenza, oggi. Ma non è detto che lo sarà sempre allo stesso modo, che i modi di vita e le abitudini degli uomini non subiranno metamorfosi anche profonde. Il clima che si degrada rapidamente, il costo del petrolio, la scarsità delle risorse: tutti questi elementi non garantiscono all’automobile il posto cruciale che ha avuto per gran parte del ’900, e non saranno gli aumenti della produttività e le più severe condizioni di lavoro in fabbrica a migliorarne le sorti. Un’auto resta un’auto, anche se consumerà meno energia, e sulla terra ce ne sono troppe. Nell’immediato non c’è alternativa a costruire auto in un certo modo a Pomigliano. Nel medio-lungo periodo l’enorme numero di veicoli programmati non troverà forse acquirenti.

Gli studiosi dibattono la questione da anni. Lo stesso Sergio Marchionne ha più volte fatto capire, in passato, che la domanda di automobili sta declinando in maniera strutturale, indipendentemente dalle crisi congiunturali. Già si studiano possibili riconversioni, alternative, che vanno ben al di là delle automobili a basso consumo. I piani alternativi non mancano e tutti raccomandano di investire nei trasporti comuni più che nell’auto individuale, nelle rotaie più che in ragnatele sempre più invasive di strade asfaltate, nei motori destinati a produrre energie alternative più che in motori che dilapidano risorse in diminuzione al servizio del singolo individuo. «I trasporti pubblici e le energie rinnovabili saranno il fulcro industriale della prossima generazione nell’economia globale», afferma Robert Pollin, economista all’università del Massachusetts. Secondo alcuni autori (James Kunstler è il più pessimista, nel suo libro intitolato The Long Emergency) il declino dell’auto diverrà visibile quando non sarà più conveniente costruire, in epoca di petrolio raro e caro, le città satelliti lontane dai centri-città e dai luoghi di lavoro (i suburbia).

Il modo di vita e di convivenza dei terrestri è in mutazione: a causa del clima, del diradarsi di risorse del pianeta, di catastrofi come quella nel Golfo del Messico. Muteranno bisogni, aspirazioni, influenzando sempre più i mercati. È una prospettiva alla quale conviene pensare, fin d’ora, cominciando a costruire le fabbriche e i lavori che saranno necessari nel mondo futuro. Anche mondo futuro è un concetto in metamorfosi costante: non è qualcosa che ideologicamente viene sovrapposto alla realtà, sostituendola alla maniera di un villaggio Potemkin che prima inganna e poi delude. È una realtà che molto semplicemente succederà, e sulla quale tuttavia potremo incidere con una condotta o con l’altra. L’unico vero problema è che le forze che saranno protagoniste di nuovi stili di vita e nuovi consumi esistono in maniera flebile, non dispongono di lobby per far ascoltare la propria voce, non hanno possenti rappresentanze. Non l’hanno soprattutto nei sindacati e nei partiti di sinistra, il più delle volte sordi alle esigenze di chi non ha il posto fisso, di chi vive in condizioni di mobilità continua, di chi non è protetto da reti di sicurezza ed è già attore di nuovi stili di vita e di consumi. Ma c’è arretratezza anche nel mondo degli imprenditori, dove a dominare sono spesso forze gelose del posto occupato dalle produzioni classiche: forze timorose del futuro, e delle conversioni mentali e produttive che il futuro comporta.

Vale la pena dunque pensare le alternative, e abbandonare le parole-mantra di Margaret Thatcher. E vale la pena pensare il mondo contraddittoriamente, tenendo sempre presenti i due sentieri che abbiamo davanti. Il sentiero del qui e ora, con i suoi stati di necessità non eludibili. E il sentiero del domani e dopodomani, con i suoi non meno eludibili vincoli energetici e climatici. Può darsi che nell’immediato sia corretto ricordare che non esistono alternative. Ma di alternative c’è un enorme bisogno per il futuro, ed è un bene che vengano pensate, vagliate, scartate, non domani ma già oggi.

Postilla. Si vedano gli articoli di Guido Viale e Carla Ravaioli sull’alternativa all’automobile: un’alternativa “necessaria”, non solo “probabile”. Insomma, comanda la politica, o le “preferenze dei consumatori”, cioè delle creature plagiate dall’economia data?

Quella di Pomigliano è stata davvero una grande lezione. Una lezione politica, sociale, e anche - lo so che il termine oggi appare desueto, e lo si pronuncia con un certo pudore come con le parole sconvenienti - morale.

L'accordo imposto dalla Fiat era, in modo fin troppo esplicito, una proposta indecente. I suoi contenuti prefiguravano una condizione di lavoro servile, nel senso tecnico del termine, pre-moderna, comunque estranea alla stessa «modernità industriale» e incompatibile con il nostro quadro costituzionale: un lavoro senza diritti né soggettività, esposto al nudo potere materiale e discrezionale dell'impresa, in una condizione di extra-territorialità giuridica che fa della fabbrica un luogo separato com'erano nel medioevo le pertinenze ecclesiastiche. E tuttavia era tremendamente difficile dire di no. Difficile per il sindacato, posto di fronte al dilemma mortale tra rifiutare, riaffermando il proprio ruolo ma rischiando di perdere il contesto in cui esercitarlo, o subire, e cancellare così il senso stesso del proprio esistere come sindacato. E ancor più difficile per gli operai, da mesi col salario falcidiato dalla Cassa integrazione e posti di fronte alla prospettiva del nulla in un'area come quella napoletana già afflitta da un livello di povertà endemica. Eppure il plebiscito non c'è stato. E il messaggio che viene da quella fabbrica che in tanti avevano disprezzato - considerandone i lavoratori come una massa di pezzenti alla disperazione, pronti a tutto pur di conservare il misero salario, o un'accolita di lazzaroni turco-napoletani, assenteisti e furbacchioni - è una sintesi di realismo, d'intelligenza e dignità.

Quel rapporto non previsto da (quasi) tutti, di 60 a 40; quell'equilibrio inatteso tra i «sì» della paura e i «no» dell'orgoglio, dice che quella fabbrica, che gli «operai di Pomigliano» - tutti, presi nel loro insieme di «comunità operaia» - subiscono il ricatto di Marchionne, ma non vi aderiscono «anima e corpo». Lo subiscono col corpo, che «pesa», appunto, e fa piegare la bilancia verso il sì (con realismo, potremmo dire). Ma non gli cedono anche l'anima. Non concedono allo strapotere del più forte la soddisfazione impietosa di un consenso servile che li umilierebbe e li priverebbe di ogni autonoma volontà. Si piegano, perché il rapporto di forza non consente alternative, ma mantenendo il rispetto di sé (con dignità, appunto).

Forse non ci siamo interrogati abbastanza su quei 1673 NO. Su quanto deve essere stato difficile - e drammatico - per ognuno di quegli operai e operaie, decidere, contro se stessi e, apparentemente, contro tutti. Mettere in gioco le proprie esistenze, il proprio futuro, il proprio reddito, le proprie famiglie. Uscire dalla particolarità del proprio calcolo individuale, che avrebbe suggerito l'eterno primum vivere, e porsi da un punto di vista «generale». Rappresentarsi come comunità di lavoro, in un mondo in cui tutto sembra disfarsi, ogni aggregato slegarsi, ogni identità collettiva dissolversi. Senza più rappresentanza politica alle spalle. Né appartenenza ideologica. Né cultura condivisa. In fondo che cos'è un articolo della nostra Costituzione di fronte al rischio di miseria per la propria famiglia? Che vale la difesa del contratto nazionale di fronte alla minaccia concreta della scomparsa della propria fabbrica e del proprio salario? E che cosa costa, d'altra parte, un piccolo compromesso con se stessi? Un minuscolo gesto di sottomissione - il segno su una scheda - se serve per garantirsi un sia pur stentato futuro di lavoro (e magari la possibilità di rimettere tutto in discussione, una volta «passata 'a nuttata»)? Il nudo calcolo di utilità (individuale) non avrebbe lasciato margini d'incertezza.

E infatti per la stragrande maggioranza degli «attori pubblici» - politici, opinion leader, imprenditori e intrattenitori - quel voto e quel comportamento è risultato del tutto incomprensibile. Per (quasi) tutti quelli che stanno «in alto» (e anche per molti che stanno «in mezzo» e persino per qualcuno che dovrebbe esser vicino a chi sta «sotto») gli operai di Pomigliano sono apparsi dei pazzi. Pericolosi incoscienti. Nella migliore delle ipotesi degli irresponsabili verso sé e verso gli altri. Per l'Italia che conta, l'«agire orientato a valori» - per usare un'espressione weberiana - sta fuori dal mondo: «Ancora una volta constatiamo che c'è un sindacato e anche una parte dei lavoratori, che non comprendono le sfide che hanno davanti», ha dichiarato Emma Marcegaglia. E ha rivelato così l'immenso vuoto morale che caratterizza il mondo imprenditoriale italiano. L'assoluta incomprensione dell'importanza del fattore etico in politica e in economia, destinata a produrre catastrofiche cadute politiche (una borghesia che accetta un Brancher fatto ministro solo per sfuggire ai giudici è una borghesia che vale davvero poco). E anche clamorosi errori imprenditoriali, come quello di chi consiglia o si propone di «lavorare» a Pomigliano solo con gli autori del «sì» considerandoli più affidabili e non accorgendosi che di un uomo disposto a difendere la propria dignità a costo di sacrifici, di uno capace di tenere «la testa alta», ci si può fidare ben di più, dal punto di vista professionale, che di chi finge di condividere un ricatto (come ha magistralmente scritto Ermanno Rea).

È questo, lo si vede bene oggi, il grande deficit culturale dell'imprenditoria contemporanea: questa sottovalutazione del senso morale nell'agire individuale e soprattutto collettivo, per ridurre tutto a «calcolo di utilità» personale. Questo disprezzo cinico e sistematico di ciò che offre un punto di vista condiviso al di là del puro «utile personale». E che produce, per questo, visione del bene comune e appartenenza. Rispetto di sé come condizione del rispetto degli altri (le basi, insomma, di quella «modernità industriale» che a Pomigliano si vorrebbe cancellare). Non è fenomeno solo italiano. È la verità del capitalismo contemporaneo nell'epoca della globalizzazione, ridotto al suo nudo hard core materiale del conto profitti e perdite. Privo dell'orizzonte valoriale che aveva animato, in qualche misura, la fase aurorale della borghesia: di quell'Etica del capitalismo di cui scrisse Max Weber, e che permise ai suoi protagonisti di aspirare a una qualche egemonia nell'orizzonte della modernità. Un capitalismo, ormai, risolto senza residui nella quotidiana struggle for life, senza promesse di emancipazione e senza virtù per nessuno. Semplice ostentazione di un rapporto di forza che si misura sul successo effimero e quotidiano e valuta gli uomini col peso falso delle cose. Un capitalismo da ère du vide di cui la crisi fa emergere la «verità», nei suoi aut aut tanto assoluti quanto inerti: nell'imperiosità di quel suo «prendere o lasciare», quando ciò che si prende o si lascia è solo la traccia di una nuova servitù... Il nichilismo compiuto della «società del fare».

È toccato al povero Marchionne, nonostante i suoi maglioncini casual e le sue scarpe da tennis, la sua aria da nomade cosmopolitico e il suo linguaggio da liberal anglosassone, diventare l'emblema di questo capitalismo del crepuscolo, non più animato dall'etica dell'imprenditore «produttore» (in qualche misura simile all'«etica del lavoro» del suo antagonista sociale simmetrico, l'operaio-produttore), ma segnato dal vuoto dell'anima dell'epoca del consumo e dell'ipercompetitività transnazionale, dove gli uomini e il tempo perdono di spessore, e finiscono per essere «consumati» essi stessi da un'impresa fattasi fine a se stessa.

Quelli di Pomigliano no. In un paese in cui abbondano «i mezzi uomini e i quaqquaraquà» (per dirla con Sciascia) hanno dimostrato che esistono ancora degli uomini. Che tra servi e padroni - tra la moltitudine dei servi che occupa il nostro paese e il castelletto dei padroni/predoni che lo depreda - ci sono ancora delle «persone». E hanno aperto una breccia simbolica incalcolabile. Immaginiamo che cosa sarebbe oggi l'Italia se una fabbrica-simbolo come Pomigliano avesse sancito plebiscitariamente la resa senza condizione a quella logica servile. Se non ci fosse stato quel segno di dignità che, coriaceo, resiste. E parla a tutti. D'altra parte, non fu proprio Giambattista Vico - da cui lo stabilimento di Pomigliano, con involontario paradosso, prende il nome - a celebrare «l'origine della nobiltà vera, che naturalmente nasce dall'esercizio delle morali virtù; e l'origine del vero eroismo, ch'è domar superbi e soccorrere a' pericolanti»...?

Il primo ministro del governo italiano ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11.490 (undicimilaquattrocentonovanta) volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d´Arco. Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il 63,3% dell´azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato l´anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per l´appunto a 11.490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di Pomigliano che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione, portando a casa circa 11.000 (undicimila) euro lordi. In altri termini, la persona fisica del nostro primo ministro ha guadagnato nel 2009 due volte (e più) il monte salari dell´intero stabilimento al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le relazioni sindacali del paese.

Nello stesso periodo, l´amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano. Tale cifra comprende il bonus che la Fiat ha deciso di attribuirgli per il 2009, mentre l´attività svolta dal manager italo-canadese negli Stati Uniti per Chrysler è stata fornita a titolo gratuito.

Credo non sia più possibile discutere di giustizia sociale e di redistribuzione del reddito, ma anche di economia e finanza, prescindendo da queste nude cifre. Da una ventina d´anni la parola egualitarismo è proibita nel dibattito pubblico, demonizzata alla stregua di un´ideologia totalitaria. Ma nel frattempo imponenti quote della ricchezza nazionale sono state dirottate dal lavoro dipendente a vantaggio dei profitti, esasperando una disuguaglianza di reddito senza precedenti storici.

Questo imponente spostamento di punti del Pil dai salari al capitale non ha certo reso più competitiva l´economia italiana come invece prometteva. Semmai fotografa, con sintesi brutale, la sconfitta di una sinistra la cui ragione sociale, per oltre un secolo, si identificò con il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, primi fra tutti gli operai. Pervenuta, sia pure per brevi periodi, al governo del paese, la classe dirigente della sinistra si è legittimata attraverso l´accettazione della cultura di mercato ma ha finito per confondersi in larga misura nell´establishment italiano da cui voleva essere accettata, tollerandone in cambio i vizi, sposandone talvolta i comportamenti.

Se il coefficiente di Gini, cioè l´indicatore statistico con cui gli economisti cercano di misurare il tasso di disuguaglianza sociale di un paese, colloca ormai l´Italia ai gradini più bassi dell´Ocse, con un´accelerazione costante a partire dai primi anni Novanta, è doveroso ricordare che il lavoro dipendente non ha subito solo decurtazioni proporzionali di reddito. Chi prometteva "qualità totale" nel ciclo produttivo ha perso quote di mercato anche a seguito di eccessiva difettosità. La fabbrica automatica che doveva liberare il lavoro manuale dalla fatica fisica e dal pericolo di infortuni, in cambio di normative più flessibili, si è rivelata una trovata propagandistica.

Spetterà agli storici di domani capire come mai l´incremento delle disuguaglianze sia parso così a lungo giustificabile, o comunque accettabile, a chi le subiva. Il fallimento del comunismo ha reso improponibile la visione messianica della classe operaia come nucleo di un´emancipazione scaturita dall´interno del ciclo produttivo, rivoluzionandone le relazioni gerarchiche e i parametri di retribuzione. Ma nel frattempo sospingeva i ceti meno abbienti ad affidare il proprio destino nelle mani di leadership territoriali populiste, non importa se guidate da imprenditori che perseguivano l´arricchimento personale, ché anzi era proprio il loro successo a figurare come l´unico modello di comportamento imitabile. A sua volta un sindacalismo disarmato riusciva a proporsi solo come tutela locale, se necessario in contrapposizione con altri stabilimenti italiani o più spesso con i lavoratori dei paesi emergenti.

La speranza fallace che l´arricchimento di pochi generasse maggior benessere per tutti ha consentito che la presa di potere dei manager divaricasse la forbice delle retribuzioni, elevando in breve tempo gli stipendi dirigenziali: da venti o trenta volte la media di un salario operaio, a centinaia di volte. I profitti realizzati tramite la speculazione finanziaria globale, hanno completato l´opera.

Il paradosso che viviamo oggi è che la rabbia sociale rischia di finire appannaggio della demagogia di destra, mentre la sinistra ammutolisce vittima delle sue inadempienze. Chi ha teorizzato la difesa localistica del proprio territorio dalle insidie della globalizzazione, naturalmente, propone alle masse una visione strabica delle disuguaglianze. Denuncia come eccessivi i redditi di categorie molto visibili ma sparute come i calciatori e i personaggi dello spettacolo. Oppure addita al pubblico ludibrio di volta in volta i suoi avversari simbolici, come gli alti magistrati e i dirigenti ministeriali. Ma si guarda bene dal prendersela con i redditi da capitale, con le rendite finanziarie, con i compensi dei manager che appartengono al suo sistema di potere. La piramide sociale, nella visione della destra, può venire scossa dal terremoto della crisi, ma per uscirne ancora più verticale.

È prevedibile che nei prossimi anni questo malessere genererà un pensiero radicale e una reazione estremista anche nell´ambito della sinistra, impreparata a confrontarsi con le regole della finanza, con la riforma dei rapporti di lavoro, con la crisi del welfare. La morte del comunismo non elimina in eterno la spinta antagonista, con i suoi aneliti di giustizia e il suo inevitabile contorno di ambiguità.

Per il momento sarebbe bene che i dirigenti del Pd affascinati dallo stile Marchionne, colti alla sprovvista dalla minoritaria ma elevata quota di opposizione espressa dai lavoratori di Pomigliano a un accordo stravolgente le condizioni di lavoro, cominciassero a riflettere. Assumendo il tema della disuguaglianza sociale come prioritario nell´agenda di una sinistra moderna degna delle sue origini.

FAVORI E DEROGHE PER I PALAZZI

IN MANOVRA ANCHE IL CONDONO

Ci provano ancora: senza tregua. Mentre sul Paese si abbatte una cura da cavallo che produrrà più povertà, il centrodestra in Senato continua a proporre favori ai furbetti e deroghe per i Palazzi. Anzi, il Palazzo: la sede del governo.

CONDONO

Avevano detto a telecamere e microfoni che il condono edilizio è fuori dalle proposte. Sbagliato. Tra gli emendamenti presentati, uno è stato ritirato, ma la «manina» si è fermata qui: ce n’è un altro che resta tra le proposte da esaminare. Se possibile questa versione è anche peggiore di quella precedente. Il testo, infatti, prevede che quando un immobile viene acquisito al patrimonio comunale (come avviene quando si decide l’abbattimento), questo entri a far parte del patrimonio disponibile (cioè vendibile) e quindi messo all’asta. «Il responsabile dell’abuso - si legge nel testo (emendamento 19.43) - ha il diritto di prelazione sull’acquisto dell’immobile pagando il prezzo finale determinato dall’asta». Come dire: un condono con asta incorporata. Un vero inedito, che il solito senatore Paolo Tancredi (a sua firma anche il condono già ritirato) ha pensato bene di mantenere tra le proposte presentate. «Il senatore, quatto quatto, reintroduce il condono mascherato.

Bonaiuti parli», attacca il responsabile infrastrutture del Pd Matteo Mauri. «È un indecente giochetto del centro destra che il governo farebbe bene a stoppare una volta per tutte», aggiunge Ermete Realacci. Il senatore abruzzese si difende: non è un condono, e oltretutto verrà ritirato. Strano che la rassicurazione arriva soltanto dopo che l’opposizione ha sollevato il caso.

SPESE PAZZE

Per uno stop che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) arrivare, una coltre di silenzio è stata tesa su altre proposte, in parte accantonate,ma ancora a rischio di votazione. Come quelle all’articolo 6, dal titolo «riduzione dei costi degli apparati amministrativi». La norma tagliuzza una serie di voci, tra cui le consulenze e le collaborazioni. Sacrosanto, verrebbe da dire. Salvo scoprire che poi in Senato sono spuntate varie proposte di deroghe.

Si taglia dappertutto, meno che «ai convegni ed eventi di carattere ed interesse nazionale che saranno indicati dal dipartimento Informazione ed Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri». Un sistema simile ai grandi eventi della protezione civile, utilizzato però per la convegnistica stavolta da Paolo Bonaiuti. Insomma, gli insegnanti devono rinunciare agli scatti, gli alti dirigenti devono ricevere il Tfr a rate, gli ispettori devono rinunciare all’automobile, ma ai convegni del Dipartimento di Bonaiuti non si impone alcun «paletto». Non solo si possono organizzare convegni spendendo quanto si vuole, ma si può anche partecipare a convegni di altri, basta che dia l’ok il solito dipartimento per l’Editoria. Una pacchia. Prima firmataria delle proposte la senatrice Pdl Anna Cinzia Bonfrisco.

Bocciata invece dalla commissione la proposta del senatore Pd Giovanni Legnini che chiedeva di sottoporre a procedure concorrenziali di evidenza pubblica le consulenze di importo superiore a 5mila euro. Tanto per far capire chi vuole fare la lotta agli sprechi. Ma la vera chicca all’articolo 6 è sempre a firma di Tancredi, l’uomo dei condoni. I limiti di spesa per consulenze e convegnistica non si applicano ai convegni organizzati «dal fondo edifici di culto». Libera chiesa e libero convegno.

REGIONI-GOVERNO: È SCONTRO SUI TAGLI

GOVERNATORI: PRONTI A RINUNCIARE AI POTERI

È rottura. Il governo insiste sui tagli alle Regioni, e i governatori si dichiarano pronti a restituire le competenze che non vengono finanziate, a cominciare dal trasporto pubblico locale. Insomma, la manovra per ora riesce a cancellare anche quelle tracce di federalismo che già ci sono. Figuriamoci quello che si sta costruendo. Gli amministratori locali riconsegnano le chiavi delle loro «casseforti» a Roma, e dicono chiaro e tondo: pensateci voi ai servizi, all’ambiente, alle emergenze, al welfare. Il fatto è che le Regioni non ci stanno a «sparare sul popolo»,come ha detto il presidente Vasco Errani, per colpa del Tesoro. Che Giulio Tremonti si prenda le sue responsabilità e risponda ai cittadini.

Lo scontro è frontale, e i governatori Si muovono compatti. Nessuna defezione, neanche dai due leghisti di Piemonte e Veneto. «Il ministero del Tesoro è convinto di poter gestire meglio delle Regioni? Bene, lo faccia», commenta ironico Roberto Formigoni. Al fronte anche i fedelissimi del premier come il sardo Ugo Cappellacci, oltre naturalmente tutti gli amministratori delle opposizioni. Insomma, «il governo cerca di dividerci», ammette qualcuno, mafinora non ci è riuscito. «Un comportamento irresponsabile da parte del governo»,commentadall’opposizione Pier Luigi Bersani.

FRONTE COMUNE

L’obiettivo dei governatori è di allargare il fronte anche a Comuni e Province, per trattare da una posizione di forza con l’esecutivo. Sergio Chiamparino si è detto pronto a un incontro a breve. Per ora dal governo non sono giunte risposte sulla convocazione della riunione straordinaria della conferenza Stato-Regioni in cui i governatori restituiranno le funzioni. È possibile che si trovi un compromesso prima di arrivare allo show-down. Sta di fatto che un clima tanto teso non si era mai registrato prima d’ora. I governatori hanno chiesto un incontro al premier e ai presidenti di camera e Senato. Il Capo dello Stato sarà informato.

Nel frattempo i lavori in commissione Bilancio in Senato procedono a rilento. È possibile che nel fine settimana si lavorerà al compromesso politico, e solo nella prossima settimana arriverà il maxiemendamento del governo.

MATERIE

Le materie su cui le Regioni fanno un passo indietro sono quelle assegnate dalla cosiddetta riforma Bassanini, cioè «trasporto pubblico locale, mercato del lavoro, polizia, incentivi alle imprese, protezione civile, demanio, energia, invalidi, opere pubbliche, agricoltura, viabilità e ambiente.Unaserie di funzioni «che costano 3.1 miliardi di euro mentre il taglio previsto nel solo 2010 è di 4 miliardi», spiega il presidente Errani. Le Regioni chiedono anche che venga «istituita immediatamente» una commissione straordinaria per valutare spese, funzionamento e costi di gestione «dunque anche gli sprechi», ha proseguito Errani, fra governo e Autonomie. «Noi vogliamo fare fino in fondo la nostra parte - ha ribadito il presidente della conferenza - sia per la manovra che per la lotta agli sprechi e verificare i reciproci comportamenti virtuosi».Ed è stato dato mandato alla struttura tecnica della conferenza di costruire una maglia per verificare le diverse azioni che le singole regioni portano avanti «e avere una visione coerente, in questo modo, delle politiche » delle autonomie.

Quanto al federalismo, «siamo per la piena applicazione» , ha insistito Errani. «Vogliamo partecipare alla discussione sulla elaborazione dei costi standard - ha aggiunto Errani - noi li abbiamo elaborati e proposti,ma non può essere ridotto il Fondosanitario nazionale: siamo tra i Paesi che spendono meno in salute».

L'impresa ideologica non è riuscita. L'asse Tremonti-Sacconi contro i diritti costituzionali (articolo 41) e sociali (articolo 18), per segnare l'inizio di un'altra epoca nelle relazioni industriali, deve fare i conti con una presenza operaia e sindacale che non si arrende: il 36 per cento di no all'ipotesi di accordo, nella fabbrica di Pomigliano, è un risultato clamoroso. Non solo non c'è stato il plebiscito annunciato (anche dalla maggioranza dei giornali, più o meno legati alla Confindustria), che la Fiat sperava e il governo attendeva. Di fronte a un terzo di no (i sì si fermano al 62 per cento), gli sponsor dell'accordo devono invece prendere atto di una coscienza operaia che in questo paese proprio non vuole spegnersi. Devono fare i conti, politici e sociali, con chi resiste all'idea di trasformare il lavoro in merce da retribuire con salari appena sufficienti alla riproduzione, alla riduzione della fabbrica in caserma e della persona in robot per sette ore e mezzo, giorno e notte. Dagli operai di Pomigliano, che ormai disertano anche la pasticceria del quartiere perché il salario lo sconsiglia, arriva una lezione di dignità e intelligenza politica che parla a tutti. All'azienda, al governo, al maggior partito di opposizione.

La Fiat deve constatare che il plebiscito a favore dell'accordo separato non c'è stato. I primi commenti al risultato del referendum («parleremo solo con chi ha firmato») sono pessimi, dettati da un'arroganza padronale incisa nel dna di un management che cambia look ma non modo di pensare, confermando di interpretare la globalizzazione come un ritorno a rapporti di produzione ottocenteschi. In totale sintonia con un governo che punta a cancellare il conflitto e liberare il lavoro dall'intralcio sindacale. La risposta della vicesegretaria della Cgil, Susanna Camusso, è finalmente netta: «Penso che ilministro debba rassegnarsi al fatto che un paese moderno né divide i sindacati, né cancella i diritti ». Per il momento Sacconi dovrà rinviare il progetto di inclusione della Cgil nel cerchio dei collaboratori di palazzo Chigi e di cancellazione del ruolo della Fiom.

Ma soprattutto a guardare dentro l'urna di Pomigliano dovrebbe essere la leadership del Pd. Dopo aver vinto il congresso sventolando la bandiera del lavoro, Bersani è stato capace di parlare alle migliaia di militanti riuniti all'assemblea di Roma senza mai nominare la parola Pomigliano. Una rimozione che spiega più di mille dichiarazioni l'incapacità di ritrovare ruolo politico e identità culturale. Non si chiede neppure di parlare al paese di un processo di sviluppo diverso, dimettere in discussione la sovraproduzione di auto che avvelenano e che i bassi salari neppure consentono di acquistare, ma di difendere chi combatte per mantenere la schiena dritta, per sé e per le future generazioni. Per quei ragazzi che alla maturità scelgono il tema sulla ricerca della felicità, convinti che il mondo si può cambiare. Se non ora, se non di fronte alla solitudine e alla disperazione operaia, bisognerebbe spiegare di quale sinistra si parla e in nome di chi.

Mussolini? Un leader, con gli altri, tra gli altri. Così appare in mezzo a un'insalata mista di statisti italiani e di papi nella traccia più politica fra tutte quelle proposte agli esami di maturità. La traccia ha il tema conduttore del "ruolo dei giovani nella storia e nella politica". E introduce brani di discorsi sotto il titolo "Parlano i leader". Che cosa è un leader, il vocabolario Zingarelli che ho sott'occhio lo spiega così: "Capo di un partito o di un movimento politico di indiscusso prestigio".

Indiscusso il prestigio di Mussolini? La traccia è completata da una frase fra tutte celebre, più di tutte esecrabile nella storia di un regime nato da un delitto: è quella tratta dal discorso pronunciato da Mussolini il 3 gennaio 1925 alla Camera. Questo è il discorso del leader proposto alla riflessione e all'ammirazione dei giovani. E' proprio quello della pagina più cupa e più truce della storia italiana: la rivendicazione della responsabilità personale di Mussolini nell'assassinio di Matteotti. Fu il discorso di un capobanda, di colui che si dichiarò capo di un'organizzazione a delinquere.

Questo e non altro dicono le frasi selezionate dagli esperti del ministero. Ora, se questo è un leader di indiscusso prestigio, è inevitabile che dalla memoria del paese e dalle menti dei suoi giovani scompaia l'ombra nobilissima di Matteotti. Il suo nome evocava finora una delle presenze più sacre della storia e della politica italiana del '900. Quel nome riassumeva da solo le virtù politiche del leader degno di essere ammirato e ricordato in un paese dove le regole democratiche sono state reintrodotte solo al termine di un conflitto mondiale, al prezzo di infiniti sacrifici e dolori, riemergendo a fatica dall'abisso della vergogna e della corruzione di ogni ordine civile.

Se ha senso l'esistenza di una scuola pubblica come palestra di trasmissione di valori e formazione di una maturità civile e politica, il nome di Matteotti è quello che emerge dal bilancio storico del '900 italiano come il più degno in assoluto di essere ricordato: ci sono frasi del suo discorso parlamentare che sono scolpite nei luoghi di memoria del paese e che gli garantiscono l'indiscusso ruolo di vero leader nella nostra storia politica. Su testi come quelli i giovani possono imparare a esercitare i loro diritti e doveri di cittadini nella repubblica democratica e costituzionale dove credevamo di vivere. In tempi in cui la corruzione degli ordinamenti pubblici e dei comportamenti privati deprime ogni voglia di partecipazione onesta alla cosa pubblica, si dovrebbe riproporre alla conoscenza delle giovani generazioni non l'assassino ma l'assassinato.

La pagina scritta da questa proposta rappresenta un salto di qualità nella storia della scuola pubblica italiana di cui sarebbe sbagliato non registrare l'importanza. Abbiamo lamentato finora che a questa scuola sia stato imposto un regime di tagli tali da avvilire in tutte le forme la figura dell'insegnante e da far sbiadire l'offerta della scuola pubblica come luogo germinale della coscienza civile. Ma oggi per la prima volta è stata data una sterzata netta immettendo tra i modelli di testi su cui da oggi in poi si eserciteranno preventivamente i candidati all'esame di maturità il più ignobile tra tutti i documenti della nostra storia.

Nelle tracce di storia si accosta un brano di Primo Levi a una domanda di riflessione storica sulla vicenda delle foibe. Si tratta di una proposta che si presenta sotto il segno di una complicata bilancia politica: su di un piatto la violenza dei lager nazisti, sull'altro la violenza dei partigiani comunisti. Che poi si possa fare un ottimo lavoro seguendo sul serio la traccia delle foibe è un altro discorso: sappiamo infatti quanto lavoro sia stato fatto dagli esperti su questo tema, seguendo sui tempi lunghi il filo conduttore della tragica storia dei nazionalismi scatenati al confine orientale d'Italia con la fine dell'Austria imperiale.

La letteratura sull'argomento è ricchissima: ma i nomi di studiosi come Enzo Collotti, Gianni Oliva, Joze Pirjevec (a sua cura il recentissimo Foibe, Einaudi 2009) sono rimasti al di fuori del mondo della scuola per la povertà delle biblioteche scolastiche e per la cancellazione di ogni forma di aggiornamento dei docenti: e forse sono ignorati dagli esperti anche perché sospetti di essere di sinistra. Di fatto la ricerca di un velo bi-partigiano e ambidestro qual è quello che copre le due tracce non è certo un "rappresentare tutta l'Italia". Misera Italia quella a cui si dà in pasto alla sinistra una pagina purchessia col nome del grandissimo, asciutto e severo testimone della Shoah; e si dà alla destra un colpo di grancassa sul tema che da tempo è il cavallo della propaganda contro gli eterni "comunisti" della maniacale ossessione berlusconiana.

A Pomigliano prevale il sì all´accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l´accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell´interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.

In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l´anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.

Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all´estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l´applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.

Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l´impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D´accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell´inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.

Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all´ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un´impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.

Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l´art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l´attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell´articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l´art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un´esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.

Portare a Pomigliano il grosso dell´organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti.

Si vedano gli articoli di Guido Viale e di Carla Ravaioli

"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".

Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: «Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia». Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.

Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.

Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.

Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.

Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.

Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.

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