CORTINA D’AMPEZZO (Belluno) — Sono patrimonio dell’Unesco, ma a prezzi stracciati. Le Dolomiti, le montagne di Cortina, tra le vette più famose dell’orizzonte alpino, santuari della storia dell’alpinismo e mete classiche del turismo estivo e invernale, valgono anche meno di un posto macchina, nel centro ampezzano. Quassù il mattone è il più caro d’Italia, con prezzi delle case da capogiro, oggi realisticamente tra i 17 e i 23 mila euro al metro quadrato, ma la roccia, per quanto blasonata e sublime, che si infiamma nell’enrosadira all’alba e al tramonto, è in liquidazione.
Ecco allora che tra i beni demaniali che lo Stato intende dismettere per trasferirli agli enti locali a cominciare dai Comuni, il più caro, si fa per dire, è il monte Cristallo, valutato 259 mila euro, ma Tofane e Rocchette assieme già scendono a 175 mila e il Faloria con il Sorapiss a 22 mila. La Croda del Becco, il Col Rosà, il Lavinores e la Croda d’Antruiles, un quartetto nel Parco d’Ampezzo, valgono insieme 11.929 euro, più o meno il prezzo di un’utilitaria. Fatti i conti un appartamento di 100 metri quadrati a Cortina, se ti va molto bene, lo paghi un milione e 700 mila euro.
I criteri che l’agenzia dello Stato ha applicato per dare un valore d’inventario alle montagne sono cose per gli addetti ai lavori, fatto sta che per alcune cifre si spacca addirittura l’euro a metà. «Ci interessa solo che ritornino ai legittimi proprietari — dice Andrea Franceschi, sindaco di Cortina —. Noi le montagne non dobbiamo pagarle, ci verranno attribuite a titolo gratuito e di certo, una volta nostre, non le venderemo, dal punto di vista morale le sentiamo già nostre: che valgano un euro o 100 milioni è la stessa cosa. Credo che Cortina abbia dimostrato di saper tutelare il proprio territorio. Probabilmente sono finite nel calderone di altri beni di proprietà demaniali, come caserme, stazioni, immobili dismessi». «La cosa mi colpisce profondamente — ribatte Ernesto Majoni, direttore dell’Istituto culturale ladino delle Dolomiti — capisco che il demanio abbia i suoi metodi per calcolare i valori, ma la cosa ha del grottesco. Questi monti sono patrimonio dell’Unesco, i valori delle nostre montagne non sono misurabili in termini di ambiente, storia, patrimonio culturale, fruibilità turistica. Mettere in mano ai Comuni la possibilità di disporre di questi beni mi preoccupa. Se qualche Comune ha bisogno di far cassa utilizzandoli, magari troverebbe anche chi li compra. Mi auguro che la vigilanza sia attenta».
Sia pur rari e contenuti, non mancano in passato esempi in cui il Comune di Cortina ha venduto zone rocciose: «Per costruire le stazioni in quota della funivia della Tofana, per esempio», conferma Siro Bigontina, vicepresidente dell’Unione dei Ladini d’Ampezzo, coordinatore del comitato che ottenne il referendum per il passaggio di Cortina al Trentino-Alto Adige, che però si dice «molto soddisfatto del ritorno delle montagne in proprietà ad Ampezzo». Ma perché Cortina ha le sue montagne nella «lista della spesa» che lo Stato vuol dismettere, mentre l’Alto Adige e il Trentino no? È Bigontina a spiegarlo: «Si tratta di un’anomalia. La questione si trascina dal primo conflitto mondiale. Fino allora Cortina apparteneva all’Austria e con l’annessione all’Italia le sue montagne sono finite al demanio. Lo stesso è accaduto per il piccolo comune bellunese di Livinallongo. I nostri vicini altoatesini e trentini invece, le hanno riottenute in proprietà quando è stato redatto lo statuto speciale per le Provincie autonome di Trento e Bolzano». Quindi per esempio per le Tre Cime di Lavaredo, il Catinaccio o il Sassolungo il problema non esiste. La loro dignità è salva.
Da quell'anno, cominciammo a temere l'agosto. E le stazioni. Il primo, fino ad allora, era solamente il mese troppo azzurro e troppo vuoto; le stazioni d'agosto erano solo piene di gente sudata e di treni in ritardo; che Bologna simbolo comunista e nodo ferroviario potesse essere sede di un attentato, era venuto in mente solo a Guccini, raccontando di tempi mitologici in cui esistevano anche i ferrovieri anarchici e la loro protesta alla fine veniva deviata su un binario, appunto, «morto».
Il 2 agosto 1980 L'Unità in edizione straordinaria intitolò «Strage fascista», quando si parlava ancora dell'esplosione di una caldaia. Il comune di Bologna, che ricostruì i luoghi esattamente come erano un attimo prima, in tempi di record, mise una lapide con tutti i nomi e l'età dei morti e la intitolò alle vittime del «terrorismo fascista». Avevano ragione sia il giornale che il comune.
Per i morti bambini, vennero piantati degli alberi in un giardinetto in periferia e ognuno aveva una targhetta con il nome del bambino alla base. Adesso quelle targhette non si possono più leggere perché sono cresciute con gli alberi e stanno, piccolissime, molto in alto. E' incredibile quanto velocemente crescano gli alberi.
Appena pochi mesi dopo l'attentato, per ordine di un certo Licio Gelli di cui allora nessuno conosceva l'esistenza, ma la cui P2 collezionava una bella fetta dei vertici delle istituzioni italiane, alti ufficiali del servizio segreto militare (allora si chiamava Sismi) collocarono una valigia piena di esplosivo, sul treno Taranto Milano. I carabinieri, insospettiti, la trovarono. Toh, era lo stesso esplosivo usato per la strage di Bologna e nella valigia c'erano due biglietti aerei internazionali intestati a due neonazisti, un francese e un tedesco. Ma che bravi. Sapevano qual era l'esplosivo. Sapevano che le indagini avevano già individuato gli attentatori materiali e l'ambiente (il loro) che li aveva guidati fino a mettere una valigetta nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, con un timer di circa venti minuti di tempo, il tempo necessario per scappare. Ma adesso quella scoperta li avrebbe scagionati. Pensavano. Ad organizzare tutta la messa in scena non furono due infiltrati, ma un generale e un colonnello. Vennero scoperti.
Questa era l'Italia di trenta anni fa. Due anni prima Aldo Moro (il più importante uomo politico italiano, che aveva portato il partito comunista nel governo e si apprestava a diventare presidente della Repubblica) era stato rapito dalle Brigate Rosse, tenuto 55 giorni nel centro di Roma e infine ucciso. Pochi mesi prima il più importante uomo politico italiano dopo Moro, Giulio Andreotti, era volato in gran segreto a Palermo per parlare a quattr'occhi con i capi della mafia siciliana e ne era uscito svillaneggiato. Un anno prima, il più importante banchiere italiano, Michele Sindona, che custodiva i denari della mafia, aveva inscenato un finto rapimento per far credere che i comunisti lo volevano morto. Trentacinque giorni prima, il 27 giugno, il volo Itavia Bologna Palermo era stato abbattuto in volo (81 morti) e tutto il governo si era dato da fare per dire che si era trattato di un incidente. Quattro giorni dopo, il 6 agosto, a Palermo era stato ucciso dalla mafia il procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa. Si era fermato ad una bancarella di libri usati, ma lo seguivano due killer in motocicletta. Trentotto giorni dopo, il dieci settembre l'amministatore delegato della Fiat, Cesare Romiti annunciò che voleva licenziare 15.000 operai della Fiat, accusati di essere indisciplinati, praticamente dei terroristi, e di lavorare troppo poco. Poi a novembre arrivarono i tremila morti del terremoto in Irpinia. E voi direte: sì, ma quello fu un fatto naturale. Vero, ma è anche vero che fu l'occasione che permise alla camorra napoletana di acquistare una bella fetta di potere economico nel meridione.
Che anno fu! Che si sono persi, per sapere di che pasta è fatta l'Italia, quelli che nel 1980 non erano nati o non avevano l'età per ricordare! Io mi ricordo che il capo del governo era allora Francesco Cossiga (poi diventato addirittura presidente della Repubblica), che nel corso degli anni si fece conoscere per stravaganti affermazioni. Che l'ubicazione della prigione di Moro era a conoscenza dei vertici del Pci e della Cgil, (lui all'epoca era il grottesco ministro degli Interni che avrebbe dovuto salvare il prigioniero); che i pubblici ministeri antimafia erano dei cretini pericolosi, che la massoneria era una meritevole associazione, che lui da giovane aveva preso le armi per lottare contro il comunismo, e che la strage di Bologna era stato un banale incidente di percorso nel trasporto d'armi del terrorismo palestinese.
Nel 1980 scoprimmo che, qui da noi, si poteva mettere una bomba in una stazione ferroviaria nel giorno in cui tutti prendono il treno per andare in vacanza. E non sapevamo che i nostri servizi segreti fecero di tutto per salvare i colpevoli dell'attentato. E ancora adesso lo fanno.
Nel 1992-1993 (quindi appena dodici anni dopo), visto che c'era stato il precedente della stazione, si pensò che in Italia si potesse andare oltre. Nel giro di soli sette mesi vennero fatte saltare un'autostrada, un quartiere popolare, due chiese storiche, una galleria d'arte a Milano, la più famosa collezione di dipinti a Firenze. Fu la mafia, no? Fu quel contadino analfabeta detto ‘u curtu, no? Non proprio. Vi propongo qui un'istantanea di quei tempi: Notte del 27-28 luglio 1993. Riunione d'emergenza del governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Oltre alle bombe, il paese è paralizzato da giorni da uno sciopero generale degli autostrasportatori, le merci scarseggiano nei supermercati. I ministri scoprono che da Palazzo Chigi non riescono a comunicare telefonicamente con l'esterno: tutte le linee sono bloccate... Poco prima è stata data notizia di un'automobile piena di esplosivo parcheggiata in piazza Colonna, a cento metri da palazzo Chigi. La macchina è stata resa innocua da un robot antiterrorismo. Ciampi reagisce con coraggio riconoscendo le vecchie e le nuove mani che guidano l'attacco. Decide allora di partecipare alla commemorazione della strage di Bologna del 2 agosto. Dove, di fronte "a un attacco complessivo a tutti i poteri dello Stato", dirà: «Nessun compromesso è possibile, né con il passato, né con chi cercasse di condizionare l'avvenire. Ce lo impedirebbero i nostri caduti: quelli di oggi, quelli di Bologna del 2 agosto 1980».
Ora che sono passati 30 anni, possiamo dire di essere pacificati? Possiamo andare tranquillamente a Bologna, mettendo nello zaino un mezzo chilo di memoria condivisa? Non credo, se si pensa che quei fatti del 1992-1993 appartengono alla memoria più intima del presidente della Repubblica Ciampi, e non alla memoria collettiva.
Senza governo né a Bologna, né a Roma, con la P2 che ha cambiato nome, sperando che l'agosto passi in fretta e senza danni; così nel 2010 andiamo a Bologna: a risentire la storia dello scoppio, a vedere le facce dei sopravvissuti, i racconti di chi è nato quell'anno, a considerare che posto è mai questo, dove forse saranno i nostri nipoti a sapere la verità.
posto è mai questo, dove forse saranno i nostri nipoti a sapere la verità.
Anche il 25 luglio è passato,ma senza regalarci una sorpresa come quella del 1943. Nonostante il berlusconismo si stia squagliando piuttosto indecentemente. Scaiola, Lunardi, Brancher, Cosentino, Dell’Utri, Bertolaso… Le donne di Papi, l’eolico, la cricca e i massaggi, le dichiarazioni di Ciancimino jr. e Spatuzza, il patteggiamento con lamafia al tempo delle stragi… All’Aquila sono state costruite diciannove new towns tre volte antisismiche, deturpandone irreversibilmente la bellezza paesaggistica al costo di costruzione più alto del mondo, mentre il centro storico, uno dei monumenti importanti d’Italia, è stato abbandonato al destino sancito dal sisma, un mucchio di rovine esposte al vento, al sole, alla pioggia. Regioni e Comuni sono contro la manovra finanziaria. La Fiat licenzia a Termini Imerese e Pomigliano, e delocalizza in Serbia. La disoccupazione giovanile presenta percentuali a due cifre. I tagli rischiano di mettere in ginocchio scuola, Università e sistema sanitario pubblico. Spazio pubblico, interesse pubblico, servizi pubblici; autonomia della cultura, dell’insegnamento e della ricerca; libertà di stampa, di opinione e di espressione artistica sono parole quasi fuori uso.
Berlusconi è al culmine del conflitto d’interessi: occupa da più di due mesi il Ministero per lo Sviluppo economico, che dovrebbe stipulare il nuovo contratto di servizio con la Rai. La misura del prestigio internazionale dell’Italia è data dalle relazioni privilegiate che abbiamo: con la Libia di Geddafi e la Russia di Putin. Il 25 luglio il fascismo non sarebbe caduto, senza l’impatto devastante del bombardamento di San Lorenzo del 19 luglio. E senza l’altro bombardamento di Roma del 24 agosto non ci sarebbe stato l’8 settembre. Oggi non siamo in guerra, ma non c’è mobilitazione politica. Senza battaglia d’opposizione, anche un governo in agonia può durare per sempre. Siamo arrivati al punto che le sorti delle battaglie parlamentari sembrano affidate più alle mosse di Fini, Bongiorno, Granata e Bocchino che a quelle di Bersani o di Di Pietro. Con almanacchi del futuro che spaziano fino ai governissimi, con tanto di formule con o senza Berlusconi. Astrologia e logica alla Don Ferrante, che le usava per non vedere il presente, per non riconoscere la realtà della peste.
Voglio dichiarare tutta la mia simpatia per le «Fabbriche» di Nichi, voglio partecipare alla sua battaglia, ma forse la sinistra non ha bisogno di un leader quanto di un progetto. Vendola da solo non basta se non si compiono chiare scelte di programma. Sia Prodi che Veltroni hanno insistito sull’importanza del programma, ma nella direzione sbagliata, quello di un fragile liberismo di sinistra per di più largamente immaginario. Le liberalizzazioni di Bersani, il «tre più due» spacciato come modello universitario europeo da Luigi Berlinguer, la riforma Bassanini che ha aperto la strada ai contratti privati nel pubblico impiego. Le lenti rosee dei nostri libero sinistri ha impedito loro di prevedere che ne avrebbe usufruito Mario Resca per trasformare il concetto di valorizzazione dei beni culturali in una grottesca insalata turistico-mercantile. In Italia occorre capacità di governo. Con leggerezza, naturalmente: perché quello che dobbiamo progettare non né la crescita industriale né la crescita edilizia, ma la diversa collocazione del nostro paese nel sistema internazionale.
Nel mondo globale, dell’Italia vale soprattutto quello che può mettere in moto la fabbrica dell’immaginazione e i consumi immateriali. Quindi, quello che resta del paesaggio, dei beni culturali e della nostra cultura. Non c’è da costruire ma da restaurare e sostituire, perdendo quantità a favore della qualità. C’è da smettere di guardare dal buco della serratura - come ci propone tutto l’armamentario della tv Rainvest, da Amici al Grande Fratello a Chi? - e ritrovare l’audacia dell’immaginazione creativa. Anche in politica: penso ad una legge come la «285» di Tina Anselmi ed al ruolo fondamentale che ha svolto all’inizio degli anni Ottanta, nell’allora nuovo intervento culturale degli Enti locali. Una mentalità dell’intervento pubblico che sostituisca la cura e la precisione del progetto alla logica della grande opera e dell’intervento speciale. La scelta netta, senza ambiguità di priorità come lavoro, istruzione, ricerca, cultura, innovazione, ambiente, messa in sicurezza del territorio, restauro del paesaggio.
Occorre un progetto coraggioso in cui la maggioranza del paese, che sta soffrendo l’agonia del berlusconismo, possa riconoscersi.
Il manifesto
Titoli di coda
di Ida Dominijanni
Non bastassero le foto dei finiani raggianti all'Hotel Minerva, soccorrono quelle del premier al compleanno di Gianfranco Rotondi a documentare la fine di un regime. Fedelissimi inquisiti e gaudenti, direttori di tg inginocchiati e ridenti, ministre e deputate alle ultime comparsate da ragazze-immagine: è tutto ciò che resta della "rivoluzione berlusconiana", quella che ancora sedici mesi fa, dal palco del congresso fondativo del Pdl, veniva rivenduta in salsa di carisma, provvidenza e salvezza. Espulso il cofondatore di allora (e già allora reticente), il premier si sentirà pure liberato da un peso, «come con Veronica»; eppure proprio da Veronica avrebbe dovuto imparare che dopo la liberazione da certi pesi, la leggerezza dell'essere diventa insostenibile.
Senza il peso di Fini, Berlusconi non è più leggero: è finito, o se sopravviverà sarà comunque un altro Berlusconi, residuale a se stesso. Non perché gli venga a mancare un socio di grande statura: sulla statura di Fini in troppi stanno esagerando, a destra e soprattutto a sinistra. Né perché il Pdl resta monco: i partiti liquidi, cioè inesistenti, sopportano queste e altre emorragie. E nemmeno solo perché il governo è ormai virtualmente in crisi, appeso al filo ora di Fini stesso, il traditore, ora di Bossi e di Tremonti, pronti a tradire a loro volta. Ma perché la rottura con Fini scrive i titoli di coda sul progetto strategico della "nuova destra" italiana nata nel '94, del bipolarismo e di quella che è stata chiamata (arbitrariamente) Seconda Repubblica.
La crisi non è di partito o di governo, è di sistema. L'alleanza spiazzante siglata diciassette anni fa («Se votassi a Roma, fra Fini e Rutelli sceglierei Fini», fu il biglietto da visita del Cavaliere alle comunali del '93) aveva due facce, una rivolta al passato l'altra al futuro. Per il passato, si trattava di sdoganare gli ex-fascisti aprendo la porta allo sfondamento revisionista della storia politica nazionale. Per il futuro, si trattava di oltrepassare quella storia riscrivendo il patto costituzionale e approdando effettivamente a una Seconda Repubblica.
Per quanto oggi ci si possa divertire a sfogliare l'album del rapporto da sempre difficile fra due leader così diversi come Berlusconi e Fini, e per quanto si possa fare dell'ultimo Fini un baluardo della legalità costituzionale, non va dimenticato che il progetto di radicale riscrittura della Costituzione in senso presidenzialista, plebiscitario e federale è stato per quindici anni il vero e unico collante di una destra tricipite, fatta da tre componenti - An, Lega, Fi - rispettivamente extra, anti e post costituzionali, per altri versi incomponibili se non incompatibili. Su quel collante si è consolidato il bipolarismo italiano, e grazie a quel collante la transizione italiana avrebbe dovuto prima o poi compiersi come "rivoluzione" berlusconiana.
Sul lungo periodo, quel collante non ha retto. La costituzionalizzazione di Fini - che non si esaurisce con le sue proclamazione di oggi su legalità, garantismo e impunità: chi si ricorda di Genova 2001? - lascia più isolata e più inasprita l'anomalia di Berlusconi. Il quale verosimilmente punterà ancora, nei pochi mesi che ha davanti, a rinverdire il proprio progetto eversivo premendo l'acceleratore sulla giustizia e sul federalismo, contando (troppo) sul solo Bossi oltre che sulla propria onnipotenza ferita, tentando l'affondo elettorale se i sondaggi su Vendola, che ha già commissionato non senza preoccupazione, glielo consentiranno.
Resta sul campo lo scheletro di un bipolarismo forzoso e ormai svuotato, e il compito interminabile di ridisegnare il sistema politico italiano a destra e a sinistra, e possibilmente con una sinistra non a rimorchio della destra com'è stata per vent'anni. Per questo non basterà la continuità istituzionale di cui si fa garante Napolitano, né la disponibilità a una soluzione di transizione o di emergenza di cui si fa promotore Bersani, né la delega a una pur necessaria riscrittura delle regole elettorali.
Ci vorrà la convinzione che una stagione si è chiusa davvero, non solo per il Pdl, e che i titoli di coda chiamano l'opposizione, non solo Gianfranco Fini, a uscire dalla passività della rendita di posizione garantita dall'incantesimo del Cavaliere.
la Repubblica
Fine regime
di Massimo Giannini
Un governo balneare, di fine regime. è tutto quello che resta della grande illusione berlusconiana. Prometteva di cambiare l’Italia e di durare per «almeno tre legislature». Dopo la rottura definitiva decretata ufficialmente da Fini, è quasi certo che il Berlusconi Terzo, nato due anni fa con la più schiacciante maggioranza parlamentare della storia repubblicana, non arriverà a concludere nemmeno la sua prima legislatura. Ma con la giornata di ieri non tramonta solo un’illusione di governo. Muore anche l’illusione di una Nuova Destra, moderna ed europea, che in questo Paese, sotto le insegne del Cavaliere non ha e non avrà mai la possibilità di esistere. É in nome di questa Destra impossibile che Gianfranco Fini ha consumato il suo strappo. E stavolta è uno strappo vero e non più sanabile. Stavolta non siamo «alle comiche finali», come l’allora leader di An disse sprezzante tre anni fa di fronte alla Rivoluzione del Predellino, salvo poi salirci a sua volta per "co-fondare" (turandosi il naso) il Partito del Popolo delle Libertà. Stavolta Fini, reagendo alla "purga" berlusconiana del giorno prima, stila il certificato di morte definitiva di quel partito che ha contribuito a costruire, ma nel quale è sempre stato trattato, alternativamente, o da ospite, o da estraneo o da intruso. In quella scarna ma esiziale cartella di testo letta dal presidente della Camera è riassunta davvero la «brutta pagina» di storia di questo centrodestra. Che non è stata scritta nell’epilogo di questi giorni, ma stava già tutta nel suo prologo di tre anni fa.
Era tutto già chiaro, per chi avesse voluto capire, al congresso fondativo del Pdl. Già Fini tracciò la linea del Piave di un’ "altra Destra", incompatibile con quella berlusconiana. Una destra costituzionale, repubblicana, laica. Non incostituzionale, populista, atea devota (come quella del Cavaliere). E nemmeno a-costituzionale, secessionista, pagana (come quella del Senatur). Già lì Fini osò l’inosabile, chiedendo a Berlusconi di non essere più Berlusconi: cioè di accettare il pluralismo delle idee e di rispettare la diversità delle opinioni, di inseguire l’interesse collettivo e di valorizzare la democrazia parlamentare, di tutelare i diritti delle persone e di difendere le istituzioni. Già lì Fini comprese, sia pure senza dirlo, l’impraticabilità della scommessa: invitò la sua gente, che scioglieva da Alleanza Nazionale, a «non aver paura di lasciare la casa del padre», ma sapeva in cuor suo che la "nuova casa" sarebbe stata un misto tra un casino e una caserma, e che il "nuovo padre" sarebbe stato un misto tra un padrino e un padrone.
Così é stato, da allora. Questi due anni narrano la cronaca di un partito mai nato. Le due destre, contaminate da una terza destra di Bossi, non potevano convivere, ma solo confliggere. È quello che è accaduto, e che il documento di Fini fotografa fedelmente. Questo Pdl, persino più del Pd, è il vero «amalgama mal riuscito» della politica italiana. Il collasso avviene sulla legalità, che non a caso (insieme alla «giustizia sociale» e all’ «amor di patria») è la piattaforma identitaria che Fini rivendica e rilancia. E non a caso, proprio sulla legalità, il cofondatore porta l’attacco più duro al cuore del berlusconismo, quando dice «onoreremo il patto con milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell’ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità». Parole semplici e chiare, che negano alla radice una legislatura finora interamente vissuta dal premier all’insegna della "politica ad personam", dove l’interesse di un singolo o di una casta ha fatto premio su tutto il resto.
Ma il divorzio poteva avvenire su altro. E in questi mesi ha più o meno incubato su tutti i fronti dell’azione di governo: dall’immigrazione all’economia. Perché su tutto le differenze erano e sono rimaste irriducibili, com’era ovvio per il dna di due culture politiche incomparabili e com’era stato plasticamente dimostrato nella drammatica direzione del Pdl in cui i due leader (che ne sono portatori) hanno inscenato per la prima volta in pubblico uno scontro non solo ideologico, ma addirittura fisico. Era un patto con il Diavolo, quello di Fini. Non poteva reggere, e non ha retto. Non puoi credere che Berlusconi possa diventare De Gasperi, e nemmeno che possa scimmiottare Andreotti: cioè rassegnarsi ad essere il segretario di un vero partito di massa dei moderati e dei conservatori.
Berlusconi é un capo, é il prototipo degli illiberali, e coltiva una visione proprietaria delle istituzioni e gregaria dei partiti. Fini lo scrive testualmente, nel suo documento, rivendicando la presidenza della Camera (che non é ovviamente nelle disponibilità del presidente del Consiglio, checché ne dica citando a sproposito un Pertini del ‘69) e contestando al Cavaliere la «logica aziendale» con la quale amministra la cosa pubblica (che non può obbligare la terza carica dello Stato a comportarsi come un «amministratore delegato»). «Cesarismo carismatico» è la formula che, riecheggiando impropriamente il «centralismo democratico» del vecchio Pci, riflette al meglio la natura del potere berlusconiano. Un ossimoro vagamente moroteo, che dimostra l’evidenza di un fatto, a Fini e a tutti coloro che vogliono coglierla: dove c’è un Cesare non può esserci una democrazia.
Questo, dunque, è l’abisso che oggi separa le due destre, e nel quale sprofonda per sempre non solo il Pdl, ma lo stesso governo che ne era l’emanazione diretta. Solo i patetici cantori di regime possono affermare che «ora il Pdl e il governo sono più forti di prima». Idiozie da Tg1, che non funzionano più nemmeno in Transatlantico. Da ieri, con l’uscita dei finiani e la nascita del gruppo autonomo Futuro e Libertà, il Pdl ha cessato di esistere politicamente, e il governo ha cominciato a sopravvivere pericolosamente.
A dispetto della sofferta sicumera del premier, Fini ha argomenti e numeri per mettere alle corde questa maggioranza disgregata e disperata, ormai ad esclusiva trazione forzaleghista. Dalle intercettazioni al federalismo, dalla manovra alla fecondazione assistita, per l’autunno si profila un rovinoso e rischioso Vietnam parlamentare. Il sostegno apparente che la pattuglia del presidente della Camera promette all’esecutivo, condizionato ai singoli provvedimenti e al rispetto dell’interesse generale, vuol dire in realtà una sola cosa. Per Fini é iniziata la stagione delle mani libere. Non sappiamo dove lo porterà. Ma sappiamo che da oggi, specularmente, Berlusconi e il suo governo hanno le mani legate. C’è un solo modo, per sciogliere la corda. Dichiarare la resa. E affidarsi senza condizioni (meno che mai quelle assurde, come le elezioni anticipate) alle sole mani che contano in questo momento: quelle del presidente della Repubblica.
VENEZIA— L’architettura sta cambiando. E Kazuyo Sejima ha le idee molto chiare: «Non dico che Gehry e le altre archistar non siano sempre interessanti. Ma oggi c’è bisogno di idee nuove e più fresche per capire come sarà davvero il futuro. Queste idee fresche non possono arrivare che dai giovani». Nella sezione ufficiale della XII Biennale di Venezia («People meet in architecture» in programma dal 29 agosto al 21 novembre tra i Giardini e l’Arsenale) diretta appunto da Sejima ci saranno così 46 «invitati» (studi, progettisti singoli, professionisti vari, artisti) e la metà di questi potrà contare sulla presenza di almeno un giovane, non più «di bottega» (come accadeva un tempo) ma piuttosto con ruolo «di comando»: sette nati dopo il 1970, 14 tra il 1965 e il 1970 più i due strani casi di Studio Mumbai (fondato nel 2005 da un architetto classe 1965) e di Raumlabor con i suoi professionisti venuti alla luce tra il 1968 e il 1975. Due strani casi che, però, esemplificano un’altra delle mutazioni in corso: quella del «collective practice» o dell’«organic collective» ovvero quella di un progetto che nasce dal lavoro di un gruppo fatto da architetti ma anche da ingegneri, geometri, light designer, paesaggisti ed esperti in rendering.
Kazuyo Sejima è una donna schiva e sfuggente (soprattutto con i giornalisti) ma ben decisa a raccontare le nuove strade dell’ architetture, strade che sembrano volersi allontanare da ogni possibile protagonismo o esibizionismo (quello insomma dei Gehry addicted) per cercare un canale diretto con i giovani: «La crisi ha reso tutto più difficile, ma proprio adesso bisogna puntare sulle indicazioni e sulle suggestioni che ci possono arrivare dalle nuove generazioni». Il suo sembra un addio definitivo alle «archistar persino strano visto che arriva da una professionista che in un solo anno è riuscita a mettere accanto (in compagnia con Ryue Nishizawa, suo socio nello studio Sanaa) il prestigioso Pritzker e il progetto per il nuovo Louvre di Lens (mentre a Parigi sta firmando il rifacimento dei magazzini della Samaritaine, gioiello art nouveau del Primo Arrondissement).
L’architettura di oggi è dunque inquieta e Kazuyo Sejima vuole raccontarci, nella sua Biennale, tutta questa inquietudine. E tanto per comunicare incertezza alla prima intervista «one-to-one» concessa ad un quotidiano italiano arriva con una tattica degna di Greta Garbo: appuntamenti concessi e poi negati, depistaggi, cambi d’orario e altro. Poi, finalmente, eccola davanti all’ingresso del Palazzo delle Esposizioni: gran cappellone di paglia, abito d’antan verde-giallo dell’adorato Comme des Garçons (ma all’occorrenza può scegliere anche Dior), occhiali da vista modello Usl (proprio la vecchia Unità sanitaria locale), molletta fermacapelli d’ordinanza, borsone azzurro di plastica tipo grande magazzino discount, sneakers e calzettoncini in lurex (ma in Laguna tutti già favoleggiano su un paio di zoccoli in legno viola). Come suo solito fumando in continuazione e bevendo caffè. Basta comunque poco per capire che tra lei e i giovani c’è già davvero un feeling speciale: appena seduta al tavolino del Caffè Paradiso, proprio all’ingresso dei Giardini, dai tavoli vicini arrivano le occhiate adoranti dei ragazzi (giapponesi e no) che stanno lavorando all’allestimento (qui è tutto ancora un cantiere nonostante i tre giorni della «vernice», dal 26 al 28 agosto, siano ormai alle porte).
Sulle orme di Sejima anche la Biennale ha scelto stavolta la via dell’effetto giovani per cercare di superare il record di visitatori dell’ultima edizione (curata da Aaron Betsky) con i suoi 129.323 visitatori: ai giovani (italiani) è ad esempio votata la sezione «AilatI» (Italia alla rovescia) curata da Luca Molinari come ai giovani e alle università sono dedicati gli accordi stipulati con vari atenei italiani (da Valle Giulia di Roma al Politecnico di Milano) e stranieri (dall’ Architectural Association School di Londra alla Bme di Bucarest) dal presidente Paolo Baratta: «L’idea è quella di trasformare l’esperienza di visita in crediti formativi, perché vogliamo che la Biennale diventi un luogo di pellegrinaggio per docenti e studenti» (non a caso nel programma fanno per la prima volta la loro comparsa «I Sabati dell’Architettura»: incontri con i direttori delle precedenti edizioni, da Vittorio Gregotti a Richard Burdett). E principalmente ai giovani sembra essere destinato anche l’ultimo gadget in arrivo (un omaggio per i visitatori): un braccialetto in plastica, rosso, con il logo della Biennale e la scritta «I love architecture» (già destinato a diventare un must come il chiacchieratissimo Power Balance).
Questa XII Biennale non sarà però solo una cosa da ragazzi. Perché tra le tante novità in corso d’opera ci sarà anche una stanza dedicata a una star come Renzo Piano raccontato attraverso quattro grandi fotografie (in bianco e nero) dei suoi progetti per il Beaubourg, per la Chiesa di Padre Pio, per la Morgan Library, per il Museo Klee. E se tra gli invitati c’è il «veterano» Andrea Branzi (con un progetto però molto giovane che sposa «civiltà merceologica» e «biodiversità cosmiche»), un’altra stella come Rem Koolhaas (premiato con il Leone alla carriera 2010) sarà protagonista del Padiglione della «sua» Danimarca ma anche di una lectio sulla Russia in programma per il giorno dell’inaugurazione ufficiale. Ed ecco che tra una sigaretta e l’altra, la silenziosa Sejima (anche lei porterà in mostra alcuni dei suoi progetti più recenti) racconta le altre news: la bolla dei Raumlabor che servirà da spazio multifunzionale; il Giardino delle Vergini ridisegnato da Piet Oudolf, l’autore dell’High Line di New York; un progetto a 3D (con tanto di occhialini) del regista Wim Wenders; le interviste dal vivo di H. U. Obrist (autore del volume Interview edito in Italia da Charta; in arrivo il secondo volume) che interrogherà partecipanti, protagonisti, semplici passanti (le interviste verranno trasmesse attraverso una serie di grandi schermi).
Sejima (che non ama fare nomi «perché anch’io sono un architetto» tanto da non sbilanciarsi neppure su Palladio e Brunelleschi) ama molto anche l’arte, soprattutto quando è in funzione dell’architettura (durante l’intervista farà un rapido passaggio, forse non casuale, anche la prossima curatrice dell’arte Bice Curinger): «Per questo— dice — ho invitato artisti come Olaf Eliasson, quello del grande sole della Tate Modern. Volevo che evocassero l’idea di spazio attraverso le emozioni, perché anche questo è progetto». Così l’architetto giapponese (che lavora in un grande capannone industriale suddiviso da tavole di legno pressato, pieno delle sue sedie «Rabbitt» e di piante grasse ma senza parapetti sul terrazzo « perché non li amo») ne ha portati ben nove nella sezione ufficiale: da Janet Cardiff (una delle 12 presenze ufficiali femminili compreso l’omaggio a Lina Bo Bardi) «che giocherà con i suoni» a Matthias Schuler del gruppo Transsolar «con la sua nuvola che cambierà di colore e densità a seconda delle persone presenti». Il suo obiettivo? «Voglio che la Biennale, così come le città, non sia più un luogo di esibizionismi ma un luogo dove scambiare sensazioni e idee. Magari alla fine ci saranno meno progetti e meno maquettes, ma ci sarà sicuramente più feeling tra progettisti e visitatori».
La legge bavaglio sembra ormai destinata ad essere rimandata a settembre. Questo è l’esito di una battaglia politica di cui è opportuno rintracciare i protagonisti, anche perché questioni altrettanto gravi si stagliano sull’orizzonte e la tutela di diritti fondamentali continuerà ad esigere la presenza convinta dei loro difensori. Senza trionfalismi, ma registrando un dato di realtà, si può ben dire che l’opinione pubblica ha giocato un ruolo essenziale.Dicendo a tutti che si può e si deve uscire dalla passività, che vi sono buone cause per le quali vale sempre la pena di battersi e che perfino in tempi così difficili non è impossibile sconfiggere i molti nemici della libertà.
Questa volta il vero sconfitto è uno solo, il Presidente del consiglio, abituato a parlare padronalmente sempre in prima persona, imputandosi ogni successo, e che quindi sa d’essere lui ad aver perduto la partita. S’infuria non tanto perché la "sua" legge è stata stravolta, ma perché il suo potere è stato messo in discussione, e non attraverso complotti e ribaltoni, ma grazie alla discussione aperta e nell’odiatissima sede parlamentare, che questa volta non ha potuto domare a colpi di fiducia.
Ma dev’essere sottolineato anche il modo in cui si è formato e ha agito questo movimento di opinione. Si sono congiunte diverse modalità dell’agire pubblico. Le antiche piazze si sono riempite grazie anche agli inviti lanciati nelle nuove piazze telematiche. I cittadini attivi hanno potuto materializzarsi sui siti Internet dov’era possibile raccogliere adesioni. La vecchia stampa e il nuovissimo Facebook hanno marciato insieme. Su tutto questo bisogna riflettere, di questa esperienza non bisogna perdere troppo presto la memoria, perché non si è trattato della semplice somma di iniziative diverse, ma di una qualità diversa dell’azione politica. Non vi sono stati appelli dall’alto ai quali si chiedeva semplicemente di aderire, rimanendo poi la gestione dell’intera vicenda in poche mani. Si sono, invece, manifestati soggetti diversi, grandi e piccoli, tutti fortemente autonomi, che si sono sostenuti a vicenda, hanno dialogato anche polemicamente, hanno depurato il tema in discussione dagli aspetti particolaristici e corporativi. Tra la politica e le persone è stato aperto un canale, una distanza che pareva incolmabile per un momento è stata colmata. Di questo dovrebbero tenere conto i partiti, quelli di opposizione in primo luogo.
Si potrebbe obiettare che il successo è stato possibile solo perché ci si è trovati, e si è ancora, in una particolarissima congiuntura politica. Senza il dissenso dei Fini e dei finiani non vi sarebbe stata nessuna conclusione positiva. Ammettiamo pure che le cose siano andate, almeno in parte, così. Ma è del tutto evidente che solo l’esistenza di una vera e forte opposizione sociale ha impedito che i conflitti tra maggioranza e minoranza del Pdl potessero essere ridotti a regolamenti di conti interni a quel partito, e quindi delegittimati e riassorbiti. I dissenzienti sapevano di parlare in nome di un’opinione pubblica larga, rappresentata anche nei territori del Pdl. Ma l’opposizione sociale è stata benefica pure per l’opposizione parlamentare, che ha ritrovato un piglio e una grinta che non sempre caratterizzano la sua azione.
Un segnale per il futuro? Bisogna stare attenti a non correre troppo. La politica per issues, per temi specifici, offre grandi opportunità, ma conosce limiti significativi. Lo sguardo sul futuro immediato, allora, deve tener conto di due fatti importanti. I tentativi di limitare i diritti non cominciano e finiscono con la legge bavaglio, ma caratterizzano il nostro tempo, dilatano la politica per issues, entrano stabilmente nell’agenda politica e consentono così continuità d’azione a chi vuole opporsi ad ogni forma di autoritarismo, di sequestro delle libertà delle persone. Vi è, poi, il contemporaneo ridestarsi di una attenzione più generale per tutte le sfaccettature della dimensione dei diritti, testimoniata dal milione e quattrocentomila firme a favore del referendum sull’acqua come bene comune e dal quaranta per cento degli operai di Pomigliano che, in condizioni difficilissime, hanno rivendicato libertà e dignità contro proposte che le limitavano. E’ compito della politica in senso largo far sì che questi diversi fatti, lotta contro la legge bavaglio compresa, non rimangano episodi isolati.
Non credo che sia una caduta di stile ricordare infine il modo in cui questo giornale ha partecipato a questa impresa civile, anche con la sua edizione online e con invenzioni grafiche come quella dei post-it gialli che continuano a costellare le sue pagine. Non vi era in campo "il partito di Repubblica". Vi era e vi è un giornale che fa la sua parte quando è proprio la sua funzione informativa ad essere messa in discussione. E, con essa, la stessa democrazia.
A Manfredonia (Foggia) stanno seppellendo una scogliera. A Is Arenas (Oristano) vogliono piazzare un golf resort & residence. A Francavilla al Mare (Chieti/Pescara) si stanno mangiando la spiaggia. A San Vincenzo (Livorno) portano cemento armato fino al mare. A Scala dei Turchi (Agrigento) c’è il solito Mnf (multipiano non finito), marchio ufficioso del Sud. A Teulada (Cagliari) si vedono le gru sul mare (di metallo, non con le piume). A Torvaianica (Roma) litania di casette sulla spiaggia. A Valle dell’Erica (Santa Teresa di Gallura) altri 26.455 metri cubi nella macchia mediterranea. Tra Ortona e Francavilla (Abruzzo) in costruzione «nodo strategico infrastrutturale per implementare il traffico con l’Est Europa»: a ridosso della battigia.
È solo un campione della situazione sulle coste italiane, segnalata dai lettori del Corriere (sette gallerie fotografiche su Corriere.it). Commenti? Uno solo. Occhio: se l’autonomia amministrativa è questa, ci mangiamo l’Italia. Anzi: finiremo il pasto, ci puliremo la bocca e faremo il ruttino.
Il meccanismo è lo stesso, sempre e dovunque: l’amministrazione comunale concede il permesso di costruire (l’inghippo normativo, con un po’ di buona volontà, si trova). La cosa piace ai costruttori locali e ai residenti-elettori: in tempi difficili, è lavoro. Turisti, visitatori e viaggiatori protestano; poi alcuni, a cose fatte, comprano la casetta a schiera e l’affittano in nero.
E così, ripeto, ci mangiamo l’Italia. Non solo le coste: in pianura e in montagna sta accadendo lo stesso (avviso: intendo seguire con attenzione le vicende edilizie dell’amatissima Castione della Presolana, dove il sindaco è stato rimosso e si sta per approvare il Piano di Governo del Territorio). La bulimia edilizia degli amministratori è impressionante: in un’economia che ristagna, sembra che l’unica soluzione sia sacrificare una fetta di territorio. Venite a vederle, le montagne bergamasche e le campagne padane, nelle mattine d’estate, quando la pioggia ha lavato l’aria e il sole incendia il colore dei prati. Capirete che dovrebbero essere sacre, dopo tutto quello che ci hanno dato.
Ha scritto un amico architetto, Marco Ermentini: «Le cascine sono un patrimonio importante nel paesaggio rurale e non solo, sono l’ultimo anello di congiunzione con la civiltà contadina. Quanto resisteranno all’assalto di villette e capannoni? Quando cederanno alle fameliche espansioni edilizie dei sindaci? Essi trattano spesso queste testimonianze con la delicatezza di Jack lo Squartatore».
Jack il Cementificatore, magari con la fascia tricolore: è l’ultima maschera italiana, peccato che il carnevale sia finito. Dalle Alpi a Lampedusa dovremmo invece appendere lo stesso cartello: IN RISTRUTTURAZIONE. L’Italia è da rimettere in sesto: c’è lavoro per tutti, e tanta soddisfazione, nel sistemare l’esistente. Ne guadagnerebbero l’economia, l’ambiente, il turismo e l’autostima. Invece, niente: divoriamo ogni giorno la nostra terra, come draghi stupidi che si mangiano la coda.
Da qualche tempo le mosse di Fiat Auto stanno diventando frenetiche. A fine aprile è arrivato il piano per trasferire a Pomigliano una quota della produzione della Panda che ora si fa in Polonia. Una settimana fa, l’annuncio che un modello di notevole peso industriale e commerciale sarebbe stato costruito in Serbia e non a Mirafiori. Poco dopo si è saputo che è già stata costituita una nuova società per gestire lo stabilimento campano, nonché per assumere con un nuovo contratto i lavoratori che accetteranno in toto di lavorare secondo i drastici standard indicati nel piano di aprile. Infine ieri l’Ad di Fiat ha avanzato come affatto realistica l’ipotesi di uscire dal contratto nazionale dei metalmeccanici, ed ha ribadito che ciò che vuole sono comportamenti dei lavoratori che non mettano mai, in nessun modo, a rischio la produzione e l’azienda.
In altre parole, niente scioperi, niente vertenze sindacali, assenteismo meglio se vicino a zero, massima disciplina in fabbrica. A queste condizioni Fiat auto potrebbe anche restare in Italia.
La sequenza di queste mosse rientra chiaramente in una precisa strategia: portare per quanto possibile nel nostro Paese le condizioni di lavoro dei paesi emergenti, e in prospettiva i salari che in quelli prevalgano, perché ciò appare indispensabile allo scopo di reggere alla competizione internazionale. Se questa come sembra è la strategia Fiat, bisogna chiedersi dove essa potrebbe portare il Paese, ma anche la Fiat, e se la strategia stessa non avesse o non abbia ancora delle alternative.
Nel nostro Paese la strategia Fiat potrebbe in realtà non diminuire, grazie agli investimenti promessi, bensì aumentare il rischio di un marcato inasprimento e diffusione del conflitto sociale. Non può esservi dubbio, quali che siano le previsioni in contrario di questo o quel ministro o sindacalista, che migliaia di aziende le quali hanno sussidiarie all’estero chiederanno quasi subito, ove la strategia del Lingotto si affermasse, di adottarle a loro volta. È vero che c’è la crisi, che ha indebolito allo stesso tempo i sindacati e i singoli lavoratori; per cui molti di questi, dinanzi allo spettro della disoccupazione, accettano qualsiasi condizione pur di mantenere od ottenere un lavoro.
Tuttavia non è affatto detto che in tutte le categorie, in tutte le zone industriali, in tutte le fabbriche e in tutti gli uffici, la grande maggioranza dei lavoratori accetti senza fiatare i dettami dell’organizzazione del lavoro "di classe mondiale". Ivi compreso il divieto di far sciopero, di manifestare, di aprire vertenze e perché no di ammalarsi. È questo uno scenario che l’amministratore delegato Sergio Marchionne parrebbe aver notevolmente sottovalutato, nella sua foga di giocatore che punta soprattutto a vincere la partita, quali che siano le conseguenze per gli spettatori. Dovrebbe essere il governo a ricordarglielo con una certa fermezza; ma dove stiano il governo, i ministri competenti, i politici che non si limitino a dire di supporre che tutto finirà bene, nessuno lo sa.
Avrebbe potuto adottare altre strategie la Fiat, dinanzi a quella che senza perifrasi va definita come la crisi mondiale dell’autoindustria? La risposta è sì, alla quale è doveroso aggiungere che forse è troppo tardi. In primo luogo, anziché battersi per portare da noi le aspre condizioni di lavoro, i bassi salari, l’assenza di diritti dei paesi emergenti, Fiat avrebbe potuto battersi per addivenire ad accordi internazionali intesi a portare gradualmente in questi ultimi condizioni di lavoro, salari e diritti vigenti nei nostri paesi. Non è roba da fantapolitica. In molti settori, dall’abbigliamento all’industria mineraria, accordi del genere sono stati sottoscritti, e miglioramenti non trascurabili conseguiti per i lavoratori di entrambe le sponde. Naturalmente, in una simile operazione strategica Fiat avrebbe dovuto di nuovo avere dietro o accanto un governo capace di muoversi su questa complessa scacchiera.
Anche in tema di strategie industriali la Fiat avrebbe potuto imboccare strade diverse. L’autoindustria mondiale soffre di tre gravi problemi: un eccesso enorme di capacità produttiva, un serio ritardo tecnologico, e una sostanziale incapacità di affrontare lo snodo cruciale della mobilità sostenibile (ad onta di quel che dice il sito dell’Associazione europea costruttori d’auto). In una simile situazione l’autoindustria avrebbe dovuto scegliere la strada schumpeteriana della concorrenza cooperativa, in luogo della concorrenza distruttiva. La prima prevede lo sviluppo di oligopoli che sappiano mettere in comune piani di produzione e tecnologie, oltre a dividersi saggiamente aree di mercato. La seconda prevede la guerra di tutti contro tutti, nella quale mors tua vita mea.
Anche in questo caso la Fiat non poteva sviluppare da sola forme di cooperazione internazionale, ma con il suo peso industriale e il suo prestigio poteva almeno provarci. Per contro ha imboccato con eccezionale tenacia e durezza la strada della guerra a oltranza dei costruttori. Essere costretti a sperare, come capita ora con le sue ultime mosse, che Fiat nei prossimi anni vinca almeno qualche battaglia, se non la guerra, non aiuta a formarci una visione serena né di quel che resta o potrebbe restare dell’industria italiana, né delle virtù competitive di cui parrebbe doversi universalmente dotare la società in cui viviamo. Quella che si diceva fosse fondata sul lavoro.
Editoriale. L’ultimo modello, di Francesco Paternò
La Bomba. Ground zero Fiat, di Francesco Piccioni
Pomigliano D'Arco. No anche della Fim «Il contratto resti», di Francesca Pilla
La Fiom. Il segretario Landini: «La Cgil decida subito un'iniziativa. Un atto senza precedenti Da oggi cambia tutto», di Loris Campetti
L'ULTIMO MODELLO
di Francesco Paternò
L'ultimo modello di Marchionne è uno schiaffo in faccia a sindacati amici e nemici, al governo ombra di se stesso, a tutti i lavoratori. Un modello che impone una nuova società per la fabbrica di Pomigliano d'Arco, disdetta il contratto dei metalmeccanici e porta di fatto la prima industria del paese fuori dalla Confindustria. Una Fiat rivoltata sottosopra, come fosse finita in bancarotta alla stregua della controllata Chrysler e della General Motors.
Marchionne fa tutto questo alla vigilia dell'incontro di stamane a Torino tra le parti, governo e regioni, svuotato di qualsiasi significato (se mai ne avesse avuto) e dove presumibilmente non si presenterà. Tanto domani a Detroit avrà un bagno di folla con il presidente Obama, per la prima volta in visita a una fabbrica della Chrysler salvata proprio con l'aiuto del manager. Una coincidenza molto simbolica, perché al di qua dell'Atlantico Marchionne continua a ignorare l'inutile governo Berlusconi e vuole mandare in bancarotta i diritti dei lavoratori italiani. Non a caso l'unico a dirsi ottimista è il ministro Sacconi.
La newco a Pomigliano permetterà alla Fiat di licenziare tutti e riassumere solo chi è d'accordo con il nuovo contratto. La disdetta del vecchio contratto - dovrebbe essere comunicata domattina ai sindacati, nuovamente convocati a Torino - significherà imporre le nuove regole in tutti gli stabilimenti italiani del gruppo. Senza bisogno di fare un referendum, che poi per lui vale zero come si è visto nella fabbrica campana. L'uscita obbligata da Confindustria, causa disdetta unilaterale del contratto nazionale con i lavoratori, sarà invece il modo dell'amministratore delegato del Lingotto di festeggiare il centenario dell'associazione. Marcegaglia e altri suoi colleghi non saranno contenti.
John Elkann, il presidente della Fiat e principale azionista del gruppo, lo dovrebbe essere ancora meno: è appena diventato vicepresidente di una Confindustria che il suo manager ridicolizza. Ma forse a Elkann va bene così. Perché a lui e al resto della famiglia al volante, l'automobile interessa sempre meno. Messe via in un'altra società le parti più solide del gruppo con lo spin off, operativo dal prossimo gennaio, le quattro ruote saranno vendute, più prima che poi.
Sarebbe riduttivo pensare che questo Marchionne spaccatutto abbia in mente soltanto di far fuori la Fiom. Il nuovo contratto nazionale scade il 31 dicembre 2012 e formalmente la Fiat uscirà da Confindustria il primo gennaio 2013. Lo stesso anno entro il quale Marchionne si è impegnato a restituire ai governi statunitense e canadese i 7,4 miliardi di dollari in prestiti agevolati. A quel punto, se la Chrysler sarà davvero rilanciata, il patto di ferro con la Casa Bianca risulterà onorato. E il manager italiano potrebbe anche andarsene alla Ben Hur, con un bel bye bye all'auto del Lingotto e ai diritti calpestati dei suoi lavoratori.
LA BOMBA
Ground zero Fiat
di Francesco Piccioni
Costituita già da una settimana, ma rivelata solo ieri, la newco per «comprare» Pomigliano. Domani a Torino vertice con i sindacati per la disdetta del contratto nazionale. Un'uscita di fatto da Confindustria, e un azzeramento delle relazioni industriali
Un tir carico di dinamite sotto il patto sociale che ha retto l'Italia nel dopoguerra. Fatto da chi, se sta seguendo una logica, ha evidentemente deciso di considerare questo paese una location minore per la sua attività produttiva. La Fiat ha preparato la trappola esplosiva in poche mosse, mentre in tanti si affannavano a darle una mano e a maledire chi «non capiva» che il mondo è cambiato. Oggi siamo già nel «dopo Cristo».
La prima mossa si realizza una settimana fa, il 19 luglio, iscrivendo al registro delle imprese della Camera di commercio di Torino la «Fabbrica Italia Pomigliano». Una società completamente controllata dalla Fiat, con appena 50.000 euro di capitale e Sergio Marchionne come presidente. Attenzione: non amministratore delegato, come in Fiat spa. È la newco che dovrà «acquistare» lo stabilimento campano, senza nemmeno iscriversi all'associazione di categoria (Federmeccanica), assumendo ex novo soltanto quei lavoratori che accetteranno il contratto di lavoro che la «Fip» gli metterà sotto il naso, prendere o lasciare. Un contratto tutto nuovo, diverso da quello nazionale dei metalmeccanici, sottoscritto soltanto pochi mesi fa con i «complici» di Cisl, Uil e Fismic. Per questi non sarà un problema insormontabile cavar di nuovo di tasca la penna per una nuova firma. Naturalmente, si deve prevedere che oggi Marchionne non si farà neppure vedere per l'incontro di Torino con Regione, sindacati, enti locali, ecc.
La soluzione societaria ricalca del resto in modo quasi fedele lo schema seguito da Roberto Colaninno (e dal governo) per la privatizzazione di Alitalia. Solo che in quel caso c'era una vendita formalmente «vera» - dallo stato, ossia dal ministero dell'economia, a una cordata di privati convocati personalmente da Silvio Berlusconi - mentre questa volta bisognerà ricorrere a qualche altro «inguacchio» giuridico (ma il codice societario italiano è una miniera inesauribile), visto che venditore e acquirente sono anche formalmente le stesse «persone».
La seconda mossa è ancora più pesante. I sindacati presenti in Fiat - tutti, Fiom compresa - sono stati convocati domani a Torino, nella sede dell'Unione industriali, con all'ordine del giorno (quasi certamente) la disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici. Questo è anche un passo formale indispensabile per uscire da Federmeccanica e quindi dalla confederazione delle imprese italiane, ossia Confindustria. In un solo colpo la Fiat mette in soffitta tutte le rappresentanze collettive - sia dei lavoratori che delle imprese - aprendo una fase di conflitto sociale senza regole riconosciute e valide su tutto il territorio nazionale.
Da Confindustria, fin qui, nessuna reazione. Per statuto, infatti, le imprese possono essere iscritte solo se rispetto del contratto nazionale di lavoro che, nel caso della metalmeccanica, scade il 31 dicembre 2012. Fiat non ha fatto mistero, in questi giorni, di volere un «contratto auto» separato; praticamente un monopolio. Ma è chiaro che, senza la prima impresa industriale italiana, anche Confindustria diventerà rapidamente un'altra cosa. Lo dimostra la «svolta serba», in pochi giorni imitata dal altre aziende italiane (Omsa, Daytech): la strada tracciata dai «grandi» diventa un richiamo irresistibile anche per i piccoli e medi.
Più facile capire lo spiazzamento di tutti i sindacati. I «complici» diventano di fatto inutili (e in ogni caso troppi): adattatisi a gestire la «normalità a-conflittuale» dei luoghi di lavoro (favori sui turni, le assunzioni, le promozioni, enti bilaterali, ecc) non hanno quasi più senso in un ambiente che non prevede nessun possibile conflitto (se non quelli imprevisti...). Ma anche per chi ha mantenuto un profilo di rappresentanza reale dei lavoratori (parti consistenti della Cgil come la Fiom, i sindacati di base, ecc) si prospetta una lunga e difficile fase di ripensamento e riorganizzazione. Tra i primi effetti della disdetta contrattuale e dell'uscita da Confindustria c'è infatti il rifiuto, da parte dell'impresa, di girare le trattenute degli iscritti ai sindacati. Un modo come un altro di strangolare - economicamente - le sigle «scomode».
La politica - tutta - appare trasognata. A parte le reazioni critiche attese in questi casi (Paolo Ferrero, segretario Prc, parla di «ulteriore colpo di mano» e di «interessi della Fiat e quelli dell'Italia che non collimano»), o dell'Idv che vede «un golpe che tira l'altro», il resto è imbarazzo imbarazzante. Teniamo da parte anche il solito ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, che vede nelle mosse Fiat il grimaldello per sradicare il sindacato dal paese, a cominciare dalla Fiom. Gli altri parlano d'altro, come sembra ormai loro abitudine. Volete in piccolo florilegio? Eccolo. Il governatore leghista del Piemonte, Roberto Cota, si è detto «fiducioso, perché il piano presentato in aprile è ancora valido e lì sono previsti più posti di lavoro a Mirafiori in 5 anni». Il segretario della Uil, Luigi Angeletti, a proposito di una Fiat fuori dai metalmeccanici, ha detto che si tratta di un'ipotesi che «non voglio nemmeno prendere in considerazione». Dalla sponda Pd si continua a criticare l'immobilismo del governo, ma nemmeno una parola su (contro) Fiat. Fino a Piero Fassino che invita i lavoratori a obbedire comunque («anche loro hanno bisogno di un'azienda sana») e Marchionne a «esser consapevole che senza la Fiat l'Italia sarebbe un'altra cosa». In effetti, se non se ne rendesse conto, sarebbe grave; ma è lampante il contrario.
POMIGLIANO D'ARCO
No anche della Fim «Il contratto resti»
di Francesca Pilla
La notizia è arrivata e non ha sorpreso Pomigliano dove la possibilità di costituire una new company in cui riassumere tutti i 5000 dipendenti dello stabilimento Gianbattista Vico era sul piatto da tempo. Il Lingotto tenta di aggirare il contratto nazionale, arginare il dissenso del mancato plebiscito referendario del 22 giugno e costringere le tute blu a giungere a più miti consigli, cedendo sui diritti per non finire in mezzo alla strada. Ma anche le modalità di comunicazione sono quelle a cui Sergio Marchionne ha abituato da qualche tempo a questa parte il popolo dei dipendenti: la società è stata siglata il 19 luglio, ma le informazioni sono state diramate solo ieri tramite gli organi di stampa, senza nemmeno avvisare i sindacati.
«C'è poco da dire - ci spiega subito Giovanni Sgambati segretario regionale Uilm - è l'unico modo per mettere in sicurezza l'accordo per la nuova Panda. La colpa di questa decisione non può non ricadere sulla Fiom per la mancata sottoscrizione dell'accordo. Ma i lavoratori non hanno nulla da temere perché saranno mantenuti gli organici e i livelli di reddito, saranno i sindacati invece a doversi riorganizzare e a dovere rinunciare ai vecchi privilegi. Per il resto vorrei dire alla Fiom di non invocare sempre un contratto nazionale che non ha sottoscritto».
Immediata la risposta di Maurizio Mascoli segretario Campania dei metalmeccanici Cgil: «Sgambati deforma le posizioni degli altri, noi non ci riferiamo al contratto firmato da Fim, Uilm e Fismic, ma a quello collettivo che scade nel 2011». Quanto ai pericoli che si nascondo dietro la costituzione di una nuova compagnia, per la Fiom riguardano la volontà di non riconoscere più il contratto nazionale e di estorcere il consenso a un piano industriale che ha ottenuto il 40% dei no tra i dipendenti: «Il rischio - continua Mascoli - come ha anche sostenuto Sergio Bonanni della Cisl proprio sul manifesto è che venga messa in discussione la libertà dei lavoratori che sotto ricatto siano costretti a cedere i propri diritti. Noi ci opporremo con tutti gli strumenti di cui siamo in possesso». Oggi a Torino si discuterà della questione Mirafiori, giovedì del futuro dell'assetto industriale del settore auto in Italia, la Fiom e la Cgil ne sono coscienti, gli altri invece si sentono rassicurati dalle promesse fatte dall'ad Marchionne. «La Fiat ha intenzione di mantenere altre le produzioni a Mirafiori - dice sicuro Sgambati - ma anche a Torino devono adeguarsi, mica a Pomigliano sono fessi, i 18 turni valgono per tutti se ci sono picchi di mercato».
Per la Fim c'è qualche perplessità in più, anche se resta la convinzione che la responsabilità della scelta Fiat per Pomigliano sia interamente della Fiom: «A forza di tirarla prima o poi la corda si spezza - spiega Giuseppe Petracciano segretario regionale - Se tutti avessero contribuito a siglare l'intesa non saremmo arrivati a questo punto. Chiediamo alla Fiom di ripensarci e alla Fiat di fermarsi qui, perché il contratto nazionale non deve essere modificato. Il sogno dell'azienda è da sempre uscire da Federmeccanica e stipulare un contratto a sè, ma non è questa la strada e serve un confronto serrato».
Dalla Cgil il segretario campano Michele Gravano preferisce aspettare il confronto di giovedì prima di esprimersi: «Siamo profondamente preoccupati, in discussione c'è la presenza del gruppo in Italia, su questo siamo d'accordo con la Fiom, non serve trattare le condizioni di uno stabilimento alla volta, altrimenti perdiamo tutti. Su Pomigliano credo che la Fiat abbia sbagliato e invece di recuperare consenso risponde con un nuovo contratto. Non va, noi ci aspettiamo la riapertura del confronto».
LA FIOM Il segretario Landini:
«La Cgil decida subito un'iniziativa.
Un atto senza precedenti Da oggi cambia tutto»
intervista di Loris Campetti
«La radicalità dei processi in atto avrebbero dovuto mettere tutti sull'avviso, non solo la Fiom. La situazione è gravissima e l'ultima mossa di Marchionne fa cadere il velo sulle risposte che le imprese intendono dare alla crisi. La politica, almeno quella che ha ancora a cuore il lavoro, e l'intero mondo sindacale non possono chiamarsi fuori. In gioco c'è un pezzo fondativo della democrazia: i diritti dei lavoratori, il sistema di regole costruito nel dopoguerra e la Costituzione». Maurizio Landini è molto preoccupato, non se la cava con un facile «noi l'avevamo detto» e da buon sindacalista cerca le soluzioni dei problemi. A questo servono i conflitti: per riaprire il confronto e trovare soluzioni condivise «nell'ambito delle regole date, senza deroghe e senza cancellazione dei diritti individuali e collettivi».
Quel che si temeva è avvenuto e la Fiat, alla vigilia del tavolo convocato dal ministro Sacconi e dell'incontro con Fim, Fiom e Uilm, ha preso a schiaffi tutti annunciando che ha già costituito la newco a Pomigliano e che intende disdire il contratto dei meccanici. Come risponde il segretario della Fiom?
E' un atto gravissimo e inedito nella storia dell'Italia repubblicana, tantopiù se la costituzione della newco dovesse comportare la disdetta del contratto nazionale. Una decisione senza precedenti per noi, e spero non solo per noi, inaccettabile.
Cosa dirai all'incontro di domani (oggi per chi legge) a Torino, il cui valore già discutibile è stato azzerato dal proclama di Marchionne?
Dirò che vogliamo garanzie certe sui progetti industriali della Fiat. Che tutti gli stabilimenti devono essere salvati, sì, anche quello di Termini Imerese riaprendo un confronto alla ricerca di una soluzione produttiva da cui il Lingotto non può chiamarsi fuori. Se come dice Lombardo c'è un'offerta concreta e interessante siamo pronti a sederci al tavolo. Diremo che i licenziamenti fatti dalla Fiat per rappresaglia vanno ritirati. La pratica autoritaria non è tollerabile, se si parte dal principio della parità tra i soggetti che si confrontano. Anche a Pomigliano è possibile trovare soluzioni condivise per migliorare la qualità e la produzione degli impianti, anche rimettendo mano alla turistica con un accordo. Soluzioni pure migliori di quelle imposte con un accordo separato, un referendum imposto sotto minaccia, addirittura una newco. La verità è che Marchionne non cerca soluzioni condivise, vuole tutto il potere nelle sue mani per umiliare chi lavora spogliandolo di diritti, regole e contratti. Noi da questi punti non deroghiamo.
Lo schiaffo di Marchionne colpisce la Fiom ma colpisce anche chi, come Fim e Uilm, ha firmato l'accordo separato di Pomigliano. Sarà uno schiaffo salutare?
Vedremo domani. Se la Fiat confermerà la sua pretesa di aver mano libera sulla forza lavoro, fino alla cancellazione del contratto, tutti dovrebbero fare una riflessione. Non c'entra essere moderati o radicali, la realtà è che insieme ai diritti di tutti vogliono cancellare i sindacati, non solo la Fiom. Se oggi si consentirà che ciò avvenga in Fiat, domani avverrebbe in tutte le aziende. Mi fa ridere chi diceva che Pomigliano avrebbe rappresentato un'eccezione.
Il nuovo scenario potrà aiutare un confronto più sereno anche tra la Fiom e la Cgil?
La bomba atomica lanciata da Marchionne cambia tutto e rende non più rinviabile un cambiamento delle strategie, sindacali e politiche. Nell'ultima intervista rilasciata da Guglielmo Epifani, il segretario Cgil chiedeva a Marchionne di non procedere sulla strada della newco a Pomigliano, riaprendo un confronto ma senza pretendere di mettere mano ai diritti e ai contratti. Marchionne ha scelto la strada opposta e ripeto che questo è un segnale generale, alle imprese, ai sindacati, alla politica. Mi aspetto che la Cgil decida subito un'iniziativa forte in difesa dei diritti e dei contratti. Il lavoratore titolare dei diritti deve tornare a essere il centro, anche della battaglia politica per costruire una diversa risposta alla crisi e un diverso modello di sviluppo.
E la politica intanto resta latitante...
C'è il problema di un governo assente, privo persino di un ministro che oggi dovrebbe essere centrale, subalterno alle imprese, senza una politica economica. Non è così in Germania, o in Francia dove pure esistono più produttori auto e la delocalizzazione è molto inferiore a quella della Fiat, l'unica azienda auto che produce nel proprio paese solo il 25% delle vetture totali. Per quanto riguarda le opposizioni, penso che non possano più giocare con il piede in troppe scarpe: se hanno a cuore chi lavora e un'idea diversa di società, battano un colpo. Ora.
Molti nodi vengono al pettine con la nuova, aggressiva politica della Fiat. La crisi dell’automobile: questi geni del capitalismo non ci avevano mai pensato prima? La crisi della politica: da quando è diventata ancella dell’economia, e di questa economia, ha rinunciato al suo mestiere, si limita a partecipare al saccheggio e a tentar di gettare un po’ d’olio nelle ruote del carro del padrone. La crisi della cultura, in tutte le sedi in cui la cultura serve per comprendere, quindi per agire: possibile che così pochi si siano accorti che quando, negli anni 70, il “capitalismo moderno” aveva cominciato, soprattutto da noi, a disinvestire dalla produzione per reinvestire nel portafoglio immobiliare e finanziario era cominciato il divorzio tra interesse collettivo e interessi aziendali?
Settimana decisiva per la sorte della legge bavaglio e per la cittadinanza politica di chi osa parlare di questione morale. Negli ultimi giorni, infatti, i due temi si sono strettamente intrecciati, rendendo ancor più evidente che il fine della legge è quello di creare il silenzio intorno alla corruzione e che l’occasione politica sembra propizia per imporre il silenzio agli oppositori interni di Berlusconi. Dal bavaglio a magistratura e informazione si vuol passare al bavaglio personale: chi tocca il tema della moralità pubblica sarà fuori dal Pdl? Bavaglio selettivo, per altro. Tremonti può dire alcune parole e Granata no? Questione di fiducia sulla legge e eliminazione del dissenso nel partito padronale come via per la normalizzazione?
La verità è che la vicenda del disegno di legge sulle intercettazioni assomiglia sempre di più ad una guerriglia infinita, ad un terreno di cui si è appena sminato un tratto e già vi sono altre insidie e trappole da schivare. Si rischia così di offuscare anche il risultato positivo dell’opposizione condotta in sede parlamentare e avviata da un’opinione pubblica determinata, e di logorare lo stesso Parlamento proprio nel momento in cui sembra aver ritrovato vitalità, uscendo dalla marginalità nella quale era stato confinato. Infatti, la "ripulitura" del disegno di legge, l’opera di "riduzione del danno" si sono fermate quando si è chiesto di eliminare una norma che, cancellando l’articolo 13 di una legge che porta il nome di Giovanni Falcone, rende più difficile il ricorso alle intercettazioni proprio in casi come quello della cosiddetta P3, della "squallida consorteria" contro la quale il Presidente della Repubblica ha chiesto alla magistratura di andare fino in fondo. Attenzione. Per affrontare una questione che inquieta i cittadini, perché rivela gli abissi d’immoralità nei quali siamo piombati, non si stanno invocando norme di emergenza. Si chiede soltanto che le regole esistenti non vengano indebolite proprio nel momento in cui si rivelano più necessarie.
L’espressione "questione morale" è tornata all’onore delle cronache, ed è bene che sia così, anche se troppi se ne erano liberati con un’alzata di spalle e oggi dovrebbero riflettere pubblicamente sull’errore commesso, che certamente ha contribuito ad infiacchire uno spirito pubblico già debole e a fornire una sorta di lasciapassare o alibi a faccendieri e cricche d’ogni genere, liberati dal triste sguardo dei moralisti. Oggi, però, parlare di questione morale è descrizione inadeguata alla realtà che abbiamo di fronte. Nell’indifferenza pubblica, la questione morale è divenuta questione criminale nel senso tecnico dell’espressione. La via difficile della ricostruzione d’una moralità civile, di un’etica pubblica, passa dunque attraverso l’accertamento puntuale e rigoroso delle responsabilità da parte della magistratura. Giustizialismo? Nessuno vuol negare a indagati e imputati tutte le garanzie. Ma garanzia è cosa assai diversa da impunità assicurata attraverso la manipolazione delle norme.
Questa nuova sfaccettatura della discussione mostra come la definizione di "legge bavaglio" continui a corrispondere alla realtà dei fatti. Sta emergendo con chiarezza una strategia volta a dividere, o almeno indebolire, il fronte degli oppositori. Le concessioni riguardanti la pubblicazione delle notizie e la responsabilità degli editori possono indurre qualche pezzo del sistema dell’informazione, insolitamente compatto nell’opporsi al disegno di legge, a dire che il risultato è stato raggiunto e che non è più necessario stare in trincea. Ma vi sono molte buone ragioni per ritenere che questa sia una conclusione almeno frettolosa. Gli emendamenti approvati sono davvero solo una riduzione di un enorme danno, non una soluzione rassicurante, per limiti e ambiguità che ancora permangono. Resta inammissibile la penalizzazione dei blog, che rivela a un tempo volontà repressiva e scarsa conoscenza del mondo che si vuole regolare. E le limitazioni all’attività investigativa dei magistrati finiscono con l’incidere sulla stessa libertà d’informazione: se alcune modalità d’indagine sono inammissibili o particolarmente difficili, si dissecca la fonte delle notizie, l’opinione pubblica perde il diritto di conoscere per valutare chi ha responsabilità pubbliche e maneggia pubblico denaro.
I diversi aspetti della critica alla legge bavaglio, dunque, continuano a rimanere legati. E proprio questa sorta di scorporo della questione informativa, questa parziale disponibilità verso l’informazione accompagnata da una sostanziale rigidità verso la magistratura rivelano che la limitazione dei poteri di quest’ultima rimane l’obiettivo irrinunciabile. Una rete di protezione deve continuare ad avvolgere corruzione e pratiche di malaffare. L’oscurità, non la trasparenza, deve divenire il contrassegno del sistema istituzionale (non a caso, proprio in questi stessi giorni, si discute di rendere più stringente il segreto di Stato).
Quello che si manifesta attraverso l’attacco alla magistratura, infatti, è proprio il tentativo tenace di alterare quell’"architettura costituzionale" che il presidente del Consiglio ha una volta ancora pubblicamente accusato d’essere all’origine dell’impossibilità sua di governare il Paese. Una volta di più, quindi, dobbiamo ripetere che lo infastidisce la stessa democrazia, che vuol dire governo in pubblico, pesi e contrappesi, poteri separati e bilanciati. Tutti intralci sulla strada di un autocrate che si ritiene investito d’un potere finale e assoluto di decisione in virtù d’una interpretazione dell’investitura elettorale come mandato in bianco, che renderebbe irrilevanti le altre istituzioni e inammissibili i controlli. Ecco, allora, il rifiuto del controllo parlamentare, occasione di lungaggini, di alterazione della volontà del sovrano; del controllo di legalità, con la magistratura che pretende di impedire l’abbandono delle regole, di indagare i mostruosi connubi tra politica e affari, di mettere a nudo i comportamenti della magistratura deviata; e del controllo di costituzionalità, che impone di fare i conti proprio con l’odiata Costituzione, da Berlusconi definita un "ferrovecchio cattocomunista" in piena continuità con il leggiadro linguaggio dell’era craxiana.
Storia nota, mille volte raccontata? Anche se così fosse, non sarebbe una buona ragione per rassegnarsi, per tacere, perché proprio la ripetizione ci ricorda che vi è un pericolo che bisogna continuare a fronteggiare, divenuto più grave dopo che le ultime vicende hanno rivelato non solo illeciti personali, ma l’annidarsi all’interno delle istituzioni di persone e gruppi che hanno diffuso nell’intero sistema l’uso disinvolto e privatistico del potere.
Si comprendono, allora, l’attenzione vigile, la severità dei richiamo costante del Presidente della Repubblica a principi e regole che sono il fondamento della democrazia repubblicana. Nulla è più lontano da un "presidenzialismo strisciante", né si può guardare agli interventi di Giorgio Napolitano come fonte di un conflitto. Non vi è un contrapporsi del Presidente della Repubblica al presidente del Consiglio. Vi è chi indica e segue la retta via costituzionale, e chi ogni giorno con atti e parole mostra di volerla abbandonare.
Fra tutti i beni comuni, quelli cioé che appartengono all’intera collettività e vanno considerati quindi inalienabili, i parchi pubblici sono (insieme alle oasi naturali e marine) i più preziosi per l’umanità. Non solo ovviamente per la difesa dell’ambiente e della salute. Ma anche perché, essendo cespiti praticamente irriproducibili, costituiscono un patrimonio di valore inestimabile, unico e irripetibile sia per le generazioni presenti sia per quelle future. Non c’è bisogno dunque di essere ambientalisti, più o meno estremisti, massimalisti o catastrofisti, per insorgere contro i tagli alla gestione dei parchi che il governo intende introdurre attraverso la manovra finanziaria. Dopo aver raccontato agli italiani la favola che la crisi ormai era passata e anzi non c’era mai stata perché (come vagheggia tuttora il nostro presidente del Consiglio) siamo il Paese che sta meglio in Europa, ecco che la mannaia della maggioranza di centrodestra minaccia di abbattersi sulla principale ricchezza nazionale: l’ambiente, il territorio, il paesaggio. E per di più, con immediate ripercussioni sull’industria del turismo che resta pur sempre la nostra risorsa economica primaria.
Su una "voce" complessiva di circa 50 milioni di euro all’anno, equivalente ad appena un caffè in dodici mesi per ogni italiano, il dimezzamento dei fondi per le aree protette previsto dal governo non può essere soltanto un taglio, una misura di carattere finanziario. Quali che siano le necessità e le intenzioni effettive, appare in realtà come una punizione, uno sfregio o addirittura un atto di vandalismo contro ciò che resta del Belpaese. Non c’è proporzione infatti tra il risparmio e il danno, tra il vantaggio contabile e la perdita ambientale: tanto più che l’abbandono o la chiusura dei parchi pubblici aprirebbero inevitabilmente la strada ai bulldozer della speculazione edilizia e alle ruspe dello sfruttamento indiscriminato. A meno che non sia proprio questo l’obiettivo inconfessato della scure governativa. Le aree protette sono un giacimento di boschi, alberi, piante, fiori, coste e spiagge, fiumi, laghi e ruscelli. L’habitat naturale di animali selvaggi e uccelli, stanziali e migratori. Un deposito, insomma, di quella biodiversità celebrata proprio quest’anno a livello internazionale. E dunque, per tutti noi cittadini di questo Paese, un "caveau" al pari di quello in cui la Banca d’Italia custodisce le riserve d’oro.
Ma si può compromettere un patrimonio del genere per un caffè a testa all’anno? Valgono di più i parchi pubblici o le famigerate "auto blu" della casta? E perché, prima di dimezzare le risorse per le aree naturali protette, non si dimezza il numero dei parlamentari e dei loro portaborse; quello dei consiglieri regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali; o magari i rispettivi emolumenti e le relative indennità? L’assalto ai parchi è l’ultima invasione barbarica a cui dobbiamo assistere sotto il berlusconismo. L’ultima in ordine di tempo, ma auguriamoci che sia l’ultima in assoluto.
Due ministri della repubblica, Tremonti e Ronchi, in una conferenza stampa a palazzo Chigi, hanno tentato di confondere le acque. Tremonti: «L'acqua appartiene al popolo», ma «su materie che riguardano i trattati non ci può essere referendum abrogativo».
Se avessimo una classe di governo seria non saremmo costretti ad assistere alle insopportabili manifestazioni di arroganza e di superficialità ormai usuali dopo le conferenze stampa. Se avessimo una classe di governo seria, potremmo godere quanto meno del rispetto per una percentuale significativa del corpo elettorale che dice concretamente basta all' ideologia mercatista e che chiede una riflessione vera sul punto in cui ci hanno portato le privatizzazioni. Se avessimo una classe di governo seria non avremmo un ministro saltimbanco che prima inventa la finanza creativa e cerca di vendere pure il Colosseo, poi si pente e attacca mercatismo e banche, e adesso, richiamato all' ordine dai poteri forti che serve da sempre, si schiera con il collega Ronchi facendo propria l'incredibile menzogna per cui l'Europa imporrebbe di privatizzare il servizio idrico.
Se avessimo una classe di governo seria, i ministri di destra eviterebbero di prendere il giro il popolo sovrano, e si sciacquerebbero la bocca (con fresca acqua pubblica) ogni volta che lo nominano al solo scopo di saccheggiarlo.
Se avessimo un classe di governo seria si arresterebbe ogni privatizzazione almeno fino alla pronuncia della Corte Costituzionale sul Referendum (che ha raccolto oltre 1,4 milioni di firme) e si aprirebbe una discussione approfondita studiando i contributi di tanti che, senza interesse personale, denunciano quindici anni di privatizzazioni truffaldine.
Se avessimo una classe di governo seria si abbinerebbe il voto referendario a quello amministrativo di primavera, risparmiando milioni ai contribuenti e garantendo un dibattito politico vero, finalmente sul merito delle questioni.
Nei prossimi mesi si accelereranno le gare sui servizi pubblici (non volute dall'Europa ma dalla nostra classe di governo, di destra e di sinistra , come a Torino per Gtt) per privatizzare il più possibile battendo sul tempo il referendum. Si farà di tutto per non far votare il popolo sovrano e se si voterà sarà a fine giugno sperando che tutti siano al mare (sulle spiagge a pagamento del federalismo demaniale!).
Tremonti nervosetto esterna. Sa che l'acqua sciacquerà le sue ambizioni di premierato al guinzaglio dei poteri forti e dei razzisti del nord. Ha letto troppi libri per non sapere che quando muta l'egemonia culturale tramontano i sogni di potere fondati su quella vecchia. E l'egemonia è ora davvero mutata.
«Dimissionata» la coppia dei fondatori, Gigi Sullo e Anna Pizzo, è uno strappo storico quello che lacera Carta, il settimanale nato per separazione consensuale da una costola del manifesto. Tra le onde della crisi e dei tagli all'editoria, i fondatori immaginavano un 2011 praticamente «a carta zero», con un quotidiano on line a pagamento e un mensile. Ma la redazione ha detto no: «Stiamo lavorando per far sopravvivere il giornale, non serve un altro quotidiano, ma la nostra linea non cambia»
L'asfissia cui questo governo ha condannato il giornalismo indipendente miete le prime vittime. Difficile leggere altrimenti il tormento che sta vivendo una delle creature più vicine al manifesto per cultura, storia e storie individuali. Parliamo del settimanale Carta e dell'annessa rete dei Cantieri sociali, nata in parallelo alla gestazione di quello che alla fine del '98 fu pensato come un mensile di «comunicazione sociale» allegato al manifesto del giovedì.
Nella sede di via dello scalo di San Lorenzo dove la sala conferenze è intitolata a Luigi Pintor, per la prima volta dopo dodici anni di direzione unica e ininterrotta a curare la fattura del settimanale non c'è più Pierluigi Sullo e non c'è nemmeno l'altra fondatrice Anna Pizzo. Non solo perché il giornale a giugno ha dichiarato lo stato di crisi e prepensionato i due fondatori, coppia inseparabile nella vita e sul lavoro, prima al manifesto per oltre vent'anni poi nella nuova impresa editoriale dopo una «separazione consensuale» dal quotidiano comunista, di cui Sullo è stato anche vicedirettore (per quattro anni nella prima metà dei '90, con Rina Gagliardi prima e con Guido Moltedo poi, direttore Pintor).
La questione è molto più seria e divide la piccola comunità dei sostenitori e lettori di Carta, che in parte condividono con il manifesto abbonamenti o acquisto in edicola, e comunque una certa visione «eretica» della politica a sinistra. Il 5 luglio scorso infatti il Consiglio di amministrazione della cooperativa ha accettato (a maggioranza, unico voto contrario quello di Pizzo) le dimissioni, presentate a voce e non per iscritto, di Sullo. Al suo posto il cda ha nominato nuovo direttore Enzo Mangini, che all'epoca della «scissione» dal manifesto era stagista alla redazione esteri di via Tomacelli. Di fronte alla particolarità della situazione in cui si trovano, i redattori (in tutto 14 persone tra giornalisti e non giornalisti, tutti under 40 tranne l'altro ex manifestino e co-fondatore Marco Calabria, la redazione più giovane del panorama editoriale italiano) ci tengono però a far sapere che «in questo momento di crisi ci assumiamo tutti la responsabilità della rotta politico-editoriale», in una sorta di direzione collettiva e autogestionaria. Un effetto collaterale dello scossone e dell'irrigidimento dei rapporti sono state le successive polemiche dimissioni di Anna Pizzo dal cda.
Nel piccolo mondo dell'editoria di sinistra, si tratta di una rottura epocale. Perché quando si parla di Carta a torto o a ragione si pensa immediatamente a Gigi e Anna. Erano loro il volto «esterno» del giornale, il primo con i suoi articoli di fondo, la seconda con un'attività interna-esterna che l'ha portata a fare la portavoce del Genoa social forum al tempo del G8 del 2001 e dal 2005 la consigliera regionale del Lazio, sempre in «quota» Carta e versando da buona militante la metà dello stipendio al giornale.
Ma cos'è che ha portato a un avvicendamento così repentino e burrascoso, al punto che i due giornalisti finiti in minoranza parlano di «colpo di staterello, purtroppo senza banane» che ha portato al «dimissionamento» di Sullo, aggiungono che «un cornicione del peggiore realismo socialista ci è caduto sulla testa» e si chiedono come un collettivo nato sull'idea di andare oltre le forme della politica delle sinistre novecentesche e sull'onda dello zapatismo possa di colpo convertirsi «nell'imitazione grottesca di un gruppuscolo marxista-leninista dei tardi anni settanta?».
Volendo soprassedere sul più generale calo delle vendite e sulla recessione globale, e perfino sulla bonaccia dei movimenti sui quali il giornale aveva surfato con relativo successo per un decennio, nella trincea di San Lorenzo parlano di una più immediata doppia crisi. Anzi tripla, se si considera che all'incertezza sui contributi all'editoria per il 2010 (i 400 mila euro del 2009, l'80% del totale, sono stati anticipati da Banca Etica grazie alle fideiussioni rilasciate da tutti i soci) va sommato un duplice blocco della pubblicità. Proviamo a spiegarci meglio. Rifiutando le inserzioni dellemultinazionali e quelle non considerate «etiche», un giornale come Carta si alimenta soprattutto degli spot degli enti locali. Che affluiscono in due modi: per via diretta, sotto forma di pubblicità istituzionali; e per via indiretta, da parte di associazioni e cooperative sociali che pubblicizzano iniziative realizzate con contributi pubblici. Massacrati dai tagli di Tremonti, gli enti locali hanno serrato la cassa e non pagano nemmeno ciò che era già dovuto. Le associazioni e coop sociali fanno altrettanto, in attesa che si sblocchino i finanziamenti pubblici. Da qui la triplice asfissia, con conseguenti problemi a pagare fornitori, distributori e stipendi ai redattori, fermi a quattro mesi fa. Una situazione non dissimile alla nostra e, per rimanere nell'ambito del giornalismo di sinistra, a quella di Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista impegnato in una difficile estate di sottoscrizione straordinaria per non essere soffocato a sua volta.
La grave crisi finanziaria era stata esplicitata da Sullo e Pizzo con uno slogan a effetto: Carta Zero o zero Carta? Nelle intenzioni dei fondatori, il 2011 avrebbe dovuto essere l'anno zero di Carta, a zero carta o quasi, per evitare che si arrivasse a una zero Carta per davvero. Gioco di parole apparentemente contorto ma efficace che, pubblicato in versione estesa sul settimanale e poi sviluppato sulla rubrica settimanale sul manifesto, ha fatto esplodere la redazione, da qualche anno traslocata in una bella sede nel quartiere rosso-antagonista di San Lorenzo, purtroppo affacciata su quell'ecomostro chiamato Tangenziale, dopo una prima fase in un appartamento al Villaggio Olimpico. Il progetto, esplicitato per la prima volta da Sullo a un incontro alla comunità delle Piagge di Firenze su «Democrazia km0», prevedeva un quotidiano on line a pagamento e la trasformazione del settimanale in mensile, proposta poi meglio specificata in un alleggerimento del settimanale agganciato a un mensile. Un modo, nelle intenzioni, per sfuggire all'impasse finanziaria che si è materializzata a giugno. Un ritorno al passato, dunque, vale a dire al mensile disegnato dal grande Piergiorgio Maoloni (che ne ha accompagnato le successive evoluzioni fino alla sua scomparsa nel 2005), per un anno allegato al manifesto (da fine '98 a fine '99) e poi mantenuto tale fino alla vigilia del G8 di Genova, quando la crescita del movimento no global spinse a osare il settimanale. E contemporaneamente uno sguardo al futuro, convinti che «un'altra politica esista, sia molto vasta e più robusta di quanto si riesca a vedere, ma frammentaria, diffidente di ogni forma di organizzazione e che per di più tende ad adoperare mezzi di comunicazione molto diversi da quello - tradizionale nella forma - che Carta aveva scelto alla vigilia di Genova, nel 2001, un settimanale cartaceo diffuso nelle edicole», come Sullo ha scritto in una lettera inviata a chi gli chiedeva delucidazioni sull'accaduto. Una fuga troppo in avanti, per la redazione, dettata dall'urgenza economica piuttosto che da un progetto meditato: «Ci siamo chiesti perché un altro quotidiano visto che, come ci hanno fatto notare diversi lettori, esiste già il manifesto. Avevamo già provato a farlo in maniera gratuita e non è andato bene. Potremmo invece usare il sito in maniera diversa».
Il progetto di Sullo e Pizzo è così naufragato ancora prima di nascere. Non era mai accaduto in un giornale le cui svolte avevano sempre visto protagonisti i due fondatori e che non ha mai slegato i suoi contenuti da battaglie politiche e discussioni teoriche alimentate e sostenute dalla rete dei Cantieri sociali: dal dibattito di inizio millennio innescato da un libro di Marco Revelli su come andare «oltre il Novecento», motivo di aspre polemiche con il manifesto, all'ultima discussione avviata da un illuminante articolo di Guido Viale sulla «dittatura dell'ignoranza», passando per la partecipazione attiva al primo Social forum di Porto Alegre e al sostegno alla nascita della Rete del Nuovo Municipio, il sostegno attivo alle lotte territoriali (dai No Tav ai No Ponte), la promozione dei consumi alternativi e dell'equo e solidale, i dibattiti su come cambiare il mondo senza prendere il potere, fino all'adesione ultima al comitato referendario per l'acqua pubblica. Un modello di giornalismo «interno» ai movimenti sociali che Carta non intende abbandonare, anche se per Sullo il segnale che il giornale avesse perso la propria carica ideale sarebbe arrivato quando la redazione non avrebbe aderito con convinzione alla campagna sul «chilometro zero» e prima ancora quando la redazione si sarebbe arroccata su se stessa non facendo partecipare alla cooperativa la rete di lettori-amici-compagni-sottoscrittori dei Cantieri sociali. Ancora: per l'ormai ex direttore l'obiettivo dei suoi ex compagni sarebbe chiaro: chiudere onorevolmente. «Hanno deciso che il senso di Carta, il suo messaggio, è ormai defunto» e che «la cooperativa non è più in grado di continuare ad esistere», per cui «il motto è: si salvi chi può». Accuse rispedite al mittente dalla redazione: «Stiamo lavorando per far sopravvivere il giornale, la nostra linea non cambia. Continuiamo a pensare alla costruzione di una società 'altra' fuori dal capitalismo», dicono. E danno appuntamento alla seconda edizione del «Clandestino day», giornata antirazzista l'anno scorso celebrata in 60 città. Ci vediamo il 24 settembre. Confidando di riuscire a riprendere fiato, contando anche sull'aiuto dei lettori, invitati ad abbonarsi e a organizzare iniziative di sostegno.
Unmilionequattrocentounmilaquattrocentotrentadue (1.401.432) persone costituiscono una rappresentanza diretta ed autentica del popolo sovrano. Questi rappresentanti, firmatari dei tre referendum per l'acqua bene comune, chiedono alla Corte Costituzionale che il popolo possa finalmente pronunciarsi, tramite referendum abrogativo, su un tema politico di importanza fondamentale: chi ed in nome di quali interessi deve gestire il nostro patrimonio pubblico e curare i nostri "beni comuni"?
Da oltre vent'anni, un'altra rappresentanza del popolo, quella indiretta e cooptata che siede in Parlamento, utilizza un "male comune", il debito pubblico, per giustificare il trasferimento ad interessi privati di risorse ingentissime accumulate con anni di sacrifici del popolo sovrano. Questi trasferimenti, avvengono, a prezzo vile, sotto forma di privatizzazione di monopoli pubblici travestiti da liberalizzazioni del mercato (Autostrade, Ferrovie, Alitalia, Telecom...). Esse favoriscono i soliti noti e non hanno portato alcun apprezzabile sollievo ai conti pubblici. Progressivamente il patrimonio di noi tutti è stato affidato ai Consigli di Amministrazione di società di diritto privato che non devono rispondere a nessuno salvo che ai loro azionisti. Sono aumentati così gli stipendi dei manager pubblici e i budget per la pubblicità (che creano potere mediatico) mentre gli investimenti a lungo termine sono crollati ed il debito pubblico non si è ridotto.
Per anni la "rappresentanza cooptata" ha fatto di tale cessione della sovranità economica ai Consigli di Amministrazione, un vessillo trionfale, da sventolare nella grande crociata ideologica contro il settore pubblico, le sue inefficienze ed i suoi sprechi. Per anni i cantori della privatizzazione hanno imperversato sui principali giornali ripetendo che questa politica ci avrebbe consentito di competere sul mercato globale, di restare in Europa, di trovare i soldi per fare le riforme, di crescere.
Poi c'è stata la crisi e sebbene molti continuino con quelle sciocchezze, la forza retorica ed il prestigio di privatizzazioni e C.d.A. è drammaticamente crollata. Perfino Tremonti ha cominciato a polemizzare con il mercatismo e con le banche. Il ministro Ronchi ora privatizza acqua e servizi pubblici ma nega di volerlo fare. Incredibile cambiamento culturale in pochi mesi : il pensiero unico ha perso l'egemonia.
Il popolo sovrano a differenza dei suoi rappresentanti cooptati non ha conosciuto i benefici dell' amicizia con gli interessi finanziari forti, ma solo la miseria economica e culturale generata dalla collusione fra potere politico e capitale. Ha visto abbastanza: con l'acqua vuole lavare l'onta. 1.401.432 rappresentanti autentici del popolo sovrano chiedono di invertire la rotta. Queste persone vogliono ricostruire, partecipando direttamente e senza più delege, un settore pubblico in cui prevalga l'interesse comune: oltre il liberismo e oltre lo statalismo. Una sfida per la sinistra. Il manifesto si sta attrezzando per raccoglierla.
Una viittoria veramente inaspettata: 500mila sembravano già un obiettivo difficile. E' solo il primo passo: il secondo, che è indispensabile, è vincere i tre referendom. A questo fina ciascuno dei firmatari della richiesta deve ottenere altre 21 perssone a votare per i referendum. Il secondo passo è quello di utilizzare la rete capillare che si è costituita (er la capacità di protagonismo di tante cittadine e cittadini) per scongurare la minaccia del nuclare. Il terzo passo è sostituire, alla vecchia, una nuova politica. Al lavoro
Profeticamente, Roberto Saviano ha scritto in Gomorra: «La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio». «Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti – prosegue Saviano – è ciò su cui poggiano i trascinatori dell´economia italiana». Proprio questo sta accadendo. Il 4 giugno Tremonti annuncia l’intenzione di modificare l’articolo 41 della Costituzione, secondo cui «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»: secondo il ministro, invece, bisogna «uscire dal Medioevo per liberare le imprese». Il "nuovo" articolo 41 deve cancellare i controlli, imporre una totale deregulation.
E infatti l’8 luglio il senatore Azzollini presenta al Senato un emendamento alla "manovra" economica secondo il quale il costruttore può avviare cantieri senza alcun permesso, producendo contestualmente un’autocertificazione ("segnalazione certificata di inizio attività", o s.c.i.a.), valevole anche nelle aree vincolate, e lasciando alle amministrazioni l’opzione di un controllo ex post. Proprio come se la riforma costituzionale vagheggiata da Tremonti (che le Camere non hanno nemmen principiato a discutere) fosse già passata. L’Italia diventerebbe così, secondo la profezia di Saviano, una Repubblica fondata sul cemento. Peggio: anche in caso di falsa dichiarazione, con l’emendamento Azzollini i lavori già iniziati sarebbero "blindati", consolidandosi 30 giorni dopo la dichiarazione (anche se falsa), e senza sanzioni né per l’impresa né per il costruttore, a meno che le amministrazioni non dimostrino «un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l’ambiente, la salute». Insomma, piena licenza di abusivismo per i danni ambientali "di modica quantità" (a giudizio delle stesse imprese); un’escalation brutale anche rispetto ai condoni edilizi che abbiamo subito.
Lo abbiamo scritto in queste pagine (12 luglio): questa norma violerebbe principi fondamentali della Costituzione come la tutela del paesaggio (art. 9), il principio di utilità sociale dell’impresa e della proprietà (artt. 41 e 42), la centralità e dignità sociale della persona (artt. 2 e 3). L’appello di Repubblica non è rimasto inascoltato: oltre a Italia Nostra, che già aveva manifestato viva preoccupazione alla prima e meno aggressiva versione della "manovra", il Fai e Wwf invitarono Bondi a esprimere «un civile sdegno» contro questo «vero e proprio assoluto Far West». Altre voci si unirono subito, dall’opposizione ma anche dalla maggioranza, come l’onorevole Fabio Granata, che parlò di «minaccia gravissima e incivile per paesaggio e ambiente», mentre il ministro Bondi si dichiarava «sorpreso» dall’emendamento, prodotto «senza che il Ministero ne sia stato informato». Ma è stato l’intervento del Quirinale che ha convinto il governo a correggere gli aspetti più perversi della proposta, richiamando con fermezza i valori della Costituzione. Grazie all’efficace esercizio della moral suasion, nella nuova versione la s.c.i.a. non si applica nelle aree vincolate; i termini di reazione delle amministrazioni si estendono da 30 a 60 giorni; si introducono sanzioni, senza limiti di tempo, per le dichiarazioni mendaci; infine, si cancella l’assurdo limite all’intervento delle amministrazioni, non più limitato ai soli danni "gravi e irreparabili".
L’intervento del Colle ha depotenziato gli aspetti più pericolosi di una norma anticostituzionale. Ma la partita non è chiusa: la s.c.i.a. infatti resta, anche se escludendo le aree vincolate. Come ha scritto Giuseppe Galasso sul Corriere (17 luglio), la "legge Galasso" (1985), poi recepita nel Codice dei Beni Culturali (2004), considera il paesaggio come un insieme organico «nella sua storica e fisica configurazione», affidandone la tutela non al solo strumento del vincolo, ma alla pianificazione paesistica. «La trama dei vincoli è una groviera largamente perforabile e perforata, per cui la riserva è importante ma non rassicurante». Si aggiunga che la s.c.i.a. può essere impunemente applicata in tutte le aree sensibili non vincolate, per esempio nelle zone sismiche senza vincolo paesistico, che in Italia sono enormemente grandi, o nelle "zone insalubri" dove insediamenti industriali a rischio, depositi di carburante e così via potranno essere ampliati a dismisura senza il minimo controllo: con una "segnalazione" autocertificata, appunto. Solo l’abolizione di ogni forma di s.c.i.a., cioè il ritorno alla procedura corrente in tutto il territorio, sarebbe tranquillizzante.
Ma c’è da scommettere che non sarà così. Quali siano le intenzioni di chi ci governa lo si vede nel Lazio, dove l’assessore all’urbanistica della Regione Luciano Ciocchetti ha appena annunciato una "rivoluzione in dieci mosse": via libera agli interventi nei centri storici, nelle zone agricole e nei condomini; «abbandono del concetto di adeguamento sismico»; ampliamenti consentiti in sopraelevazione, anche oltre il limite di mille metri cubi, e questo per «coinvolgere maggiormente Roma, oggi tagliata fuori dalla legge» (Il Sole, 14 luglio). Tutto, pur di costruire. In un Paese dove un milione di case risultano vuote (così il rapporto Legambiente diffuso il 15 luglio), e che mantiene saldamente il primato europeo nell’abusivismo edilizio, il partito del cemento continua a imperare. Abbiamo il più basso incremento demografico d’Europa e insieme il più alto consumo di suolo: eppure chi ci governa sembra credere che "il mattone" sia l’unica forma nota di investimento produttivo.
Questa mentalità arcaica, che distoglie capitali da forme ben più dinamiche di investimento, non solo frena lo sviluppo del Paese, ma ne distrugge la risorsa più preziosa: il paesaggio e l’ambiente. Secondo la Corte Costituzionale (per esempio nella sentenza nr. 367 del 2007), il paesaggio incarna valori costituzionali «primari e assoluti», che sovrastano qualsiasi interesse economico, e perciò esige «un elevato livello di tutela, inderogabile da altre discipline di settore». È ribadendo questi valori che si deve rispondere a miserevoli espedienti come la s.c.i.a., alla sciatta deregulation di una Costituzione immaginaria scritta col cemento.
Oggi in Italia non è facile inquadrare la figura del contadino. È un mondo in parte sommerso e davvero molto sfaccettato. Quel che è sicuro è che sono pochi, sempre più anziani, spesso immigrati e tutti in grande difficoltà economica. Sono una categoria debole perché sono passati dall´essere quasi metà della popolazione attiva nel secondo dopoguerra a uno scarso cinque per cento: in termini di voti contano pochissimo e non è difficile capire perché siano una lasciati un po’ a se stessi. Oggi fare agricoltura è quasi regolarmente un’attività in perdita, i giovani non vogliono ripetere la vita dura dei loro padri e, se non si metteranno in atto cambiamenti rilevanti, non ci saranno grandi prospettive. Non è un caso che siano molti gli immigrati nelle nostre campagne, alcuni regolari e anche ben pagati, oppure irregolari in nero, braccianti per pochi euro. Però sono tutti molto preziosi, perché svolgono mansioni che nessuno sa o vuol più fare.
Insomma, si può dire che il contadino continui, nella sua miglior tradizione, a essere l’ultima ruota del carro. Da quando ha smesso di fare parte di una massa consistente, poi, ha anche perso appeal agli occhi dei politici, che fino a una ventina d’anni fa li corteggiavano regolarmente. Infatti chiedersi se il contadino è di destra o di sinistra oggi non ha più molto senso. Va dato atto alla Lega di aver prestato attenzione ad alcune rivendicazioni di una loro parte, quella più "industrializzata", ma credo che il contadino oggi si ponga in un contesto politico ben lontano dalle attenzioni dei partiti. È aggrappato alla terra e strozzato da un mercato senza pietà, vive isolato in campagne assediate dal cemento, dove praticare un po’ di socialità, anche solo per svagarsi, è impresa ardua.
Tuttavia questo suo essere "fuori categoria" può diventare una grande opportunità: sono sempre meno rari i casi di nuovi contadini, giovani, che attuano un’agricoltura rispettosa degli ecosistemi e che mettono in pratica forme di commercio originali per andare incontro ai cittadini. Usano Internet e vanno a vendere in città, nei mercati. Hanno studiato e continuano a studiare per rendere le loro produzioni migliori, sia dal punto di vista qualitativo sia in termini ambientali, facendo tesoro della tradizione ma con tanta creatività e spirito d’innovazione. Si può dire che siano i nuovi intellettuali della terra, gli ultimi baluardi che difendono il buono e il bello che sa generare il nostro Paese.
La speranza è che questa generazione cresca e diventi contagiosa, fornendo un modello nuovo a tanti ragazzi in cerca di un impiego che non sia alienante, che dia soddisfazione. Non dimentichiamo mai che i contadini producono il nostro cibo, tra le poche cose cui proprio non potremo mai rinunciare: sono un patrimonio di tutto il Paese ed è giusto che trovino alleati nei consumatori, i quali devono trasformarsi in co-produttori, amici dei contadini, i loro difensori per costruire insieme un nuovo sistema alimentare. Non escludo che in un territorio così fertile, poco esplorato e poco concupito dalla politica, possano nascere molti dei leader di domani, decisamente "fuori casta" e per fortuna "fuori categoria".
Domani saranno presentate oltre un milione e 400mila firme certificate alla Corte di Cassazione, in una giornata che si preannuncia come una bellissima festa per celebrare un primo grande risultato raggiunto dal movimento per l'acqua bene comune. Ricevute le firme, la Corte di Cassazione dovrà verificare la regolarità formale di almeno 500.000 fra quelle che le verranno consegnate. Ciò fatto, dovrà trasferire il dossier alla Corte Costituzionale, chiamata a verificare l'ammissibilità dei tre quesiti ai sensi dell'art.75 Cost. Questa disposizione che disciplina il nostro più importante istituto di democrazia diretta prevede non possano essere sottoposti a referendum le leggi «tributarie, di bilancio, di amnistia, di indulto e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali».
Davanti alla Corte Costituzionale, che dovrebbe affrontare la questione nelle prime settimane del 2011, non si svolgerà un vero e proprio processo formale, come negli ordinari ricorsi di costituzionalità. In materia referendaria il rito è più informale, sebbene sia invalsa la prassi di accogliere le memorie presentate dai comitati promotori o da altri gruppi interessati e non si esclude possano essere ascoltati oralmente avvocati di parte o dello Stato. In materia referendaria la Corte è pienamente sovrana del proprio rito, a conferma del ruolo quasi-legislativo e di alta discrezionalità politico-costituzionale che essa svolge, insieme al corpo elettorale rappresentato dai promotori, in quell'istituto di democrazia diretta che è il referendum. In questo giudizio ogni quesito è indipendente e viene valutato nel proprio merito specifico. Qualora uno o più referendum siano ammessi il successivo passaggio è quello della cosiddetta «indizione», un istituto che coinvolge nella scelta della data il Ministero degli interni e il Presidente della Repubblica. Il referendum dovrà essere indetto in una domenica compresa fra la metà di aprile e la metà di giugno del 2011 e sarà valido qualora vi partecipino il 50% più uno degli aventi diritto al voto. Se, raggiunto il quorum, il numero dei «sì» dovesse essere superiore a quello dei «no», le disposizioni legislative oggetto di referendum verranno abrogate con effetto dalla data di pubblicazione dell'esito sulla Gazzetta Ufficiale.
Il referendum verrà rinviato di un anno qualora le Camere vengano sciolte, mentre non sarà effettuato se dovesse essere promulgata una legge che ne accoglie sostanzialmente il risultato proposto dai promotori o ancora nel caso in cui l'atto avente forza di legge contro cui esso viene promosso venga dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale. Tutte e tre queste possibilità esistono concretamente nel caso dell'acqua bene comune dato, nei primi due casi, il clima politico rissoso (scioglimento Parlamento) e truffaldino (leggina scippo ad hoc). Inoltre, come noto, cinque Regioni hanno presentato ricorso contro la cosiddetta Legge Ronchi chiedendo l'integrale abrogazione dell'art 15. Certamente la decisione su queste cause, già iscritte al ruolo della Consulta, verrà calendarizzata prima di quella sui Referendum e nel caso di accoglimento dei ricorsi regionali il primo quesito verrà escluso. Tale eventualità circoscriverebbe il lavoro di quanti fra noi stanno preparando la memoria di fronte alla Corte ai soli secondo e terzo quesito, che sono peraltro quelli maggiormente caratterizzanti la battaglia del Forum. Infatti l'abrogazione del solo Decreto Ronchi (primo quesito e quesito Idv) lascerebbe la situazione com'è oggi e quindi consentirebbe il mantenimento della logica privatistica ed aziendalistica nella gestione dell'acqua (eviterebbe cioè soltanto la grande svendita di fine 2011). Sono invece il secondo e terzo quesito, rispettivamente sui «modelli di gestione» e sulla «remunerazione del capitale investito», a creare le premesse per un'autentica gestione dell'acqua come «bene comune», da governare fuori dalla logica del profitto e con strumenti informati alla logica della sola pubblica utilità e non a quella aziendalistica. La presenza del secondo e del terzo quesito caratterizza la vera e propria «inversione di rotta» proposta dal Forum italiano movimento per l'acqua.
La presenza di questi due quesiti inoltre mi pare garantisca la battaglia referendaria in corso contro «colpi di mano» parlamentari volti a scippare il popolo sovrano del suo potere costituzionale di decidere direttamente ex art 75. Infatti non è neppure immaginabile che con questa maggioranza (e questa opposizione Pd, Idv) si possa approvare una legge che nello spirito riproduca quella di iniziativa popolare già proposta dai Forum o che comunque segni una radicale ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Confideremmo quindi nella serietà della Corte Costituzionale che in un tal caso verrebbe immediatamente reinvestita della questione dai nostri comitati.
In ogni caso domani inizia una nuova fase. Essenziale è immaginare modi creativi di mantenere in strada la battaglia sull'acqua bene comune, per non disperdere il patrimonio inestimabile di attivismo e cittadinanza «viva» maturato in questi due mesi di raccolta firme. Ci sono già tante ipotesi che si stanno discutendo e di cui i nostri lettori saranno puntualmente informati. Ma ogni nuova idea a tal proposito sarà benvenuta e speriamo ne arrivino molte anche tramite la posta o il sito del manifesto.
P2, la versione din Tina
diAttilio Bolzoni
Soffocata nell´Italia delle trame, aggredita e offesa per la sua voglia di verità, sola, ha cominciato a scrivere dopo ogni incontro, ogni telefonata, dopo ogni colloquio avuto sin dall´inizio di quell´avventura che sarebbe durata tre lunghissimi anni. Lei li ha sempre chiamati «i miei foglietti», settecentosettantré appunti per ricordare tutto ciò che le accadeva intorno da quando - nel dicembre del 1981 - era stata nominata presidente della Commissione parlamentare d´inchiesta sulla loggia massonica P2.
È il diario segreto di Tina Anselmi, nel ´44 staffetta partigiana con il nome di "Gabriella" e poi deputata democristiana chiamata a indagare su quei 962 uomini - tanti i nomi ritrovati nelle liste sequestrate a Licio Gelli a Castiglion Fibocchi - che volevano imbrigliare la democrazia nel nostro Paese. Un elenco con dentro anche quarantaquattro parlamentari, un segretario di partito, due ministri, dodici generali dei carabinieri e cinque della finanza, ventidue dell´esercito e quattro dell´aeronautica, otto ammiragli, numerosi magistrati e poi giornalisti, direttori dei servizi segreti, banchieri, imprenditori come Silvio Berlusconi.
Dall´ottobre del 1981 al settembre del 1984 Tina Anselmi ha ordinato i suoi pensieri su carta, provando a legare uno all´altro i personaggi incrociati, confrontando testimonianze, annotando dubbi, sospetti, sensazioni. Documenti che sono rimasti nei cassetti della sua casa di Castelfranco Veneto, dove vive, fino a quando ha deciso di consegnarli alla giornalista e scrittrice Anna Vinci, conosciuta quasi un quarto di secolo prima. Racconta la Vinci: «Mi ha voluto lasciare qualcosa da trasmettere a tutti, mi ha sempre detto: prima o poi ti devo dare i miei foglietti perché non si è mai voluto fare chiarezza fino in fondo sui lavori della commissione». Nel diario segreto di Tina Anselmi c´è una testimonianza che va oltre quei centoventi volumi che hanno ricostruito la storia della P2, è un grido che cerca di perforare l´indifferenza che accompagnò la relazione conclusiva della commissione nel luglio 1984.
Qui di seguito pubblichiamo gli estratti più rilevanti degli appunti della Anselmi di cui siamo entrati in possesso. La maggior parte sono stati scritti dalla fine del 1981 alla primavera del 1983, alcuni sono datati anche 1985 e 1987, l´ultimo è del 28 luglio 1990. Affiora l´immagine di un´Italia che sembra non cambiare mai, quella di ieri come quella di oggi.
Lunedì 30 ottobre 1981
Ore 17,15 sono convocata dal presidente della Camera Nilde Iotti. Mi propone di assumere la Presidenza della Commissione inquirente sulla P2. È d´accordo anche il presidente del Senato Amintore Fanfani. Mi parla della storia dei vari tentativi (parlamentari che hanno rifiutato l´incarico, ndr). Chiedo quindici minuti di riflessione. Sento per telefono il presidente della Corte Costituzionale, Leopoldo Elia, e mi consiglia di accettare.
Torno dalla Iotti alle 17,30, e accetto. Parliamo del problema. Mi assicura ogni supporto della Camera per il lavoro. Mi telefona Fanfani per esprimermi solidarietà. Nella Iotti ho trovato un atteggiamento di piena fiducia, amicizia e volontà di aiutarmi, perché il compito non fallisca.
Mercoledì 5 dicembre 1981
Incontro con il Presidente Fanfani. I socialisti sono terrorizzati dall´inchiesta. Fare presto. Delimitare la materia. Chi vuole oggi le elezioni? Certamente, solo il Psdi. Gli altri sono meno decisi. [...]
5 dicembre 1981
Incontro con Leopoldo Elia. Punto da cui partire: Saragat (l´ex presidente della Repubblica, ndr) viene a sapere dei fascicoli del generale De Lorenzo contro di lui (affari, donne, ecc.). Saragat esige la destituzione di De Lorenzo.
Moro è più morbido. Rottura da allora nei Servizi segreti e nelle Forze armate.
Influenze della massoneria sui deputati, contro la candidatura di Moro a Presidente della Repubblica. Influenza sui deputati del sud, influenza Picella (Nicola, segretario generale della Presidenza della Repubblica fin dal tempo di Saragat, ndr) e Cosentino (Francesco, piduista, segretario generale della Camera dei deputati dal 1962 al 1976, ndr).
Data dell´ultimo viaggio in Usa di Moro.
Compito storico: con la giustizia determinare il cambiamento di una parte della classe dirigente del Paese, compresa quella della Dc. [...]
16 dicembre 1981
[...] Ho raccolto da amici voci provenienti dal Psi e da qualche Dc: c´è interesse a svalutare la Commissione, magari creando incidenti.
2 marzo 1982
Pci Ricci (Raimondo, deputato e membro della commissione parlamentare P2, ndr), lettera dei servizi segreti, non partecipa alla riunione.
Dopo l´arresto di Musumeci (Pietro, generale del Sismi, ndr) alla ripresa mancano i 2/3 dei commissari.
Il Pci si defila.
9 marzo 1982
Andò (Salvo, deputato socialista e membro della Commssione, ndr). La Commissione non deve assumere il problema dell´Eni-Petromin, altrimenti chiude.
Gelli ha offerto uno stabile con uffici e appartamenti a ministri e altri (lasciar perdere).
Psi Spano (Roberto, senatore, e membro della Commissione, ndr) dice a Di Ciommo (Gianni, segretario della Commissione P2, ndr): siamo tutti d´accordo perché la Commissione non vada avanti, è inutile continuare il gioco del massacro.
20 luglio 1982 ore 9,40
Sica (Domenico, giudice istruttore a Roma ndr). Si arriva alla migliore mafia: il boss siciliano Di Cristina..tre miliardi di titoli e di assegni in tasca, tutti i titoli fanno capo a Carboni (Flavio, l´imprenditore coinvolto nel caso Calvi e finito adesso nelle indagini sulla P3, ndr)
21 gennaio 1983
Telefono alle 16,00 a Ciriaco De Mita (il nuovo segretario della Dc, ndr), a casa, senza trovarlo. A chi risponde, dico di farmi cercare. Alle 18,00 non avendo notizie di De Mita, telefono a Fanfani e lo consiglio di sbarcare Pisanu (Giuseppe, sottosegretario al Tesoro, ndr). Mi dice di dirlo a De Mita. Gli do lo stesso consiglio. Vuol sapere perché. Non gli do nessun elemento, solo quello di un suo probabile coinvolgimento politico. Dopo un´ora mi ritelefona De Mita e mi passa Pisanu, mi chiede perché. Gli rispondo che non posso dirgli niente. Ascolti consiglio del segretario di dimettersi. Mi stupisce il fatto che De Mita si sia comportato così.
Si spiega forse col fatto che lui lo volle sottosegretario, contro il parere di Fanfani. [...]
Venerdì 28 gennaio 1983 ore 12,30
Incontro all´aeroporto di Roma l´onorevole Vittorio Olcese (deputato Dc e membro della Commissione P2, ndr). Mi dice di aver saputo da un «piduista pulito» che si sta preparando un nuovo attacco a me.
Mi consiglia di riprendere i rapporti con Corona (Armando, Gran Maestro del Grand Oriente d´Italia, ndr) perché quella è la strada per bloccare questa azione.
A mia richiesta, mi assicura che prenderà contatti con l´ambiente massonico e mi riferirà qualcosa di più preciso martedì.
8 febbraio 1983, ore 1,15
Esco da San Macuto con Di Ciommo e ci accorgiamo che siamo pedinati fino a casa mia da un uomo di statura piuttosto bassa, robusto, dell´età di quaranta, quarantacinque anni.
26 febbraio 1984
Padula (Pietro, membro Dc della Commissione P2, ndr) mi riferisce che in questi giorni il generale Grassini (Giulio, ex direttore del Sisde, ndr) ha voluto incontrarlo per dirgli che se a settembre non verrà nominato vice comandante generale dei CC., rivelerà i rapporti politici con Gelli e la P2.
10 maggio 1984, ore 18,30
Visita al Presidente Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per il Paese e per l´Italia. Mi conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia relazione.
28 luglio 1990
L´onorevole Bodrato (Guido, deputato Dc, ndr) mi racconta che nel colloquio avuto con Craxi, questi gli ha detto che Cossiga è ossessionato dal fatto dei rapporti che lui ha avuto con Gelli. Il generale Grassini era presente con Martini (Fulvio, ammiraglio e capo del Sismi dal 1984 al 1991, ndr) a questi incontri al ministero della Marina e ne ha parlato a varie persone. Questo avveniva anche nel periodo del rapimento Moro.
La breve stagione della dignità
di Sandra Bonsanti
La sera spegneva la luce nell´ufficio di San Macuto e si allontanava verso Piazza di Pietra con una cartella pesante, piena di fotocopie e manoscritti. Abitava in una sorta di convento che dava alloggio ad altre donne del mondo politico democristiano. La gente la fermava, la incoraggiava: «Vai, Tina, non guardare in faccia a nessuno». Il suo sorriso era quello da compagni di scuola, aperto, cordiale, complice. Alcuni di noi sapevano che in quella borsa di cuoio vecchio c´erano anche altri fogli, gli appunti per ricordare le cose più riservate. Era lì che forse aveva trascritto il consiglio dell´avvocato Agnelli: «Stia sempre attenta, signorina, il vero capo della P2 è l´onorevole X». Quel nome, inatteso, imprevisto, se lo andava ripetendo in cerca di una spiegazione, un collegamento. «Ma pensa te, proprio lui: il ministro!». le veniva da ridere e, spesso, rideva di quei luridi personaggi che avevano cercato di «svuotare le istituzioni, infiltrandosi e controllandole». Sorrideva di quei generali dei Servizi o dell´esercito che balbettavano risposte senza senso quando li inchiodava spietata: «Ma lei non si vergognava a pronunciare un giuramento segreto, dopo aver pronunciato quello per la nostra Patria?».
Tina era arrivata alla presidenza della commissione nei giorni più neri, quando non si capiva nemmeno se saremmo mai usciti dal fango scoperto ad Arezzo che toccava tutte le istituzioni, la politica, il cuore stesso della nazione. Non ci furono proteste rumorose davanti al suo nome, l´ex staffetta partigiana, la prima donna ministro nella storia italiana. Di lei si sapeva soprattutto che era stata molto vicina ad Aldo Moro e che, alla vigilia di un voto storico, aveva raccolto dalla sua voce un messaggio per i capi del Pci, poi trasmesso nella massima riservatezza.
Fu facile per noi cronisti restare affascinati dalla donna coraggiosa che ci dava il Grande Segreto della Repubblica nel nome di una trasparenza assoluta in cui credeva con fede religiosa. Furono anni difficili da raccontare. Alcuni commissari di diverso orientamento politico dedicarono al compito un impegno indefesso: penso a Massimo Teodori, Antonio Bellocchio, Giorgio Pisanò. Nessuno era perfetto, tutti sentirono il peso di quell´incarico e il loro contributo fu all´altezza della situazione. Tina sapeva di non potersi fidare di nessuno, ma non mostrò diffidenza e riuscì a tenere insieme una variopinta folla di parlamentari, giornalisti, esperti. Ci furono momenti in cui il compito pareva impossibile: quando si trattò di far ritornare dall´Uruguay l´archivio di Gelli.
Penso ai giorni in cui il mondo politico fece capire che era arrivato il momento di chiudere la Commissione. La vecchia morotea non si dava pace sul retroscena del sequestro Moro, gli avvertimenti anche internazionali, l´inadeguatezza delle indagini e quel gruppo di piduisti che al Viminale le dirigevano. Forse, ci pensa ancora oggi, tra i fiori di un giardino costruito là dove un tempo la sua famiglia coltivava i campi. Il momento più importante fu il voto quasi unanime con cui il Parlamento approvò i risultati finali. E nella storia di questo paese rimase scolpita l´immagine di una piramide in cima alla quale c´erano sicuramente Licio Gelli e i suoi protettori politici, ma sopra alla quale si appoggiava, rovesciata, un´altra piramide la cui natura e consistenza fu solo accennata con riferimenti a servizi segreti italiani e stranieri. Una piramide che simboleggiava l´Antistato, la grande congiura per imporre al paese il Piano di Rinascita.
Fu un breve ma intenso momento di dignità del nostro Parlamento che oggi, trent´anni dopo, non sarebbe in grado di esprimere personalità come quella di Tina Anselmi e di molti commissari che cercarono la verità oltre l´interesse del proprio partito. Oggi, quel che emerge della P3 fa pensare piuttosto a una piovra: una testa che configura il Potere assoluto, economico, politico, governativo, circondata da tentacoli, ispirati a una medesima filosofia, il disprezzo della Costituzione e delle libertà fondamentali.
Seguire la commissione Anselmi è stata più che una grande esperienza e più di una lezione di giornalismo: ci ha introdotto nei meccanismi più delicati della democrazia. Mostrò il volto più oscuro del potere, ma anche il sorriso e la serenità di chi ne è estraneo e dedica la sua energia a combatterlo. Tina Anselmi, che non ha mai messo piede in un salotto romano, veniva a cucinare a casa di noi cronisti il risotto col radicchio di Castelfranco, che ci portava nella grande borsa insieme ai fogli di quella storia che è semplicemente la storia della nostra Repubblica.
Nei primi anni del Novecento Gaetano Salvemini definì Giovanni Giolitti il «Ministro della malavita ». Come mai? Perché Giolitti usava i Prefetti per convogliare i voti degli elettori sui candidati governativi. Capirai. Quali termini bisognerebbe usare per definire oggi il Governo Berlusconi? Questo è il punto decisivo della diagnosi sul quale o ci si unisce o ci si divide. Fino a un paio di anni fa si potevano accumulare nei confronti di Berlusconi e del berlusconismo pile di critiche radicali, che tuttavia non mettevano ancora in dubbio la forza di resistenza oggettiva, istituzionale, del sistema. Oggi le cose si sono ulteriormente evolute, la massa delle critiche singole, per quanto puntuali, non basta più, c'è bisogno di ricorrere a un disegno interpretativo più generale.
Il criterio è semplice: non si sbaglia mai quando del Cavaliere si pensa il peggio. Questo peggio non è sempre stato lo stesso, si è evoluto nel tempo, ha persino cambiato forma, ma di sicuro è andato progressivamente sempre più aumentando, spinto da una inesorabile e senza sbocco, e perciò pericolosissima, pulsione autocentrata e autodifensiva. A che punto siamo oggi? Siamo al punto, -mi pare, - che i vari fenomeni di accerchiamento e di fibrillazione, la «persecuzione» dei giudici e le crepe nel suo stesso sistema di potere spingono, e sempre più spingeranno, il Cavaliere verso l'arroccamento nella cittadella assediata e verso una difesa «a tutti i costi» della propria persona e del proprio potere. «A tutti i costi»? Che vuol dire «a tutti i costi»? Vuol dire che: a) il Cavaliere non lascerà mai volontariamente il posto che occupa; b) sceglierà di volta in volta tutti gli strumenti utili e/o necessari per assolvere a questa missione autosalvifica. Tutti? Questo per ora non possiamo dirlo (dipenderà anche dal fatto che ne trovi, il che per fortuna non è detto). Quel che possiamo dire fin d'ora con assoluta certezza è che dal canto suo non avrebbe remore né morali né ideali né politiche a usarne di ogni tipo: e questo è già abbastanza per suonare l'allarme.
Insomma, se la diagnosi non è del tutto infondata, siamo entrati in una fase di vera e propria emergenza democratica. Se questa fase si prolunga, anche senza arrivare allo show down finale, il sistema corre il rischio di decomporsi e di tracollare (che è poi l'altra strada possibile di questo berlusconismo avviato a tirare le somme finali della propria esperienza). Del resto, nutrite pattuglie di guastatori lavorano contemporaneamente a mettere in crisi ognuna per sé, coerentemente con il quadro complessivo, le strutture portanti del nostro vivere civile: la giustizia, la scuola, l'università, la ricerca, lo stato sociale. Né si può sottovalutare, come fattore aggiuntivo del dramma italiano, la debolezza delle cosiddette opposizioni, un Pd scialbo e rinunciatario fino all'estenuazione, una sinistra radicale divisa e incerta, uscita di scena come non accadeva da un secolo.
Che fare? La strada più giusta sarebbe tornare al voto: sottoporre al giudizio del popolo italiano l'immonda fanghiglia in cui siamo sprofondati. Ma tutti ne sono terrorizzati: temono che le capacità reattive, la forza d'indignazione del popolo italiano - e questo è l'altro dato davvero catastrofico, - non siamo più in grado di cogliere e rifiutare i miasmi della fanghiglia. E, certo, se davvero il Cavaliere, con tali premesse, tornasse in sella con il favore del popolo italiano, il gioco sarebbe fatto: e per sempre.
Ed allora? Da più parti dell'estenuato centro-sinistra si levano voci a favore di un «governo di transizione». Transizione da cosa a che cosa? Beh, questo è troppo pretendere: a parte il cambiamento della legge elettorale (che in sé e per sé, certo, non sarebbe una cattiva cosa), si tratterebbe infatti di un governo senza programma. Un governo di «emergenza democratica», come io preferirei chiamarlo in presenza di una crisi verticale del nostro sistema democratico- rappresentativo, ovvero di «salute pubblica» (per usare, non del tutto casualmente, l'odiata terminologia giacobina), potrebbe invece ragionevolmente costituirsi e durare solo se avesse al proprio centro la ricostruzione delle condizioni minimali di funzionamento del sistema: il rispetto dei diversi ruoli e funzioni istituzionali; la separazione dei poteri; l'applicazione incondizionata delle prerogative di giustizia; la persecuzione rigorosa di ogni forma di malaffare e di corruzione; l'abrogazione immediata delle leggi liberticide o tutelatrici del marcio; la legge sul conflitto d'interessi; la restituzione di una condizione minimale del diritto nei rapporti fra capitale e lavoro. E, naturalmente, come premessa e al tempo stesso conseguenza fondamentale della svolta, l'espulsione di Berlusconi e del berlusconismo da ogni passaggio nella formazione e nelle attività di governo.
Esiste un fronte di forze politiche, parlamentari e no, che pervenendo dalla condivisione della diagnosi alla formulazione del programma, sia in grado/disponibile a coagularsi intorno a questa prospettiva? Mi pare di no. Ma se fosse vero il contrario, avrei piacere questa volta di essere smentito.
Una rete di infiltrazione e corruzione dei magistrati era il primo piano d’azione organizzativo della cosiddetta P3. Non mi sorprende il fatto che nel disegno complessivo di stravolgimento di ogni regola del funzionamento del sistema istituzionale si sia intervenuti anche sulla magistratura e che ci siano state persone che hanno finito con l’aderire a questo disegno.
La magistratura non è diversa dal resto del paese, i rischi di inquinamento ci sono dappertutto, ma questa vicenda suggerisce immediatamente due considerazioni. La prima: chi ha tuonato e continua a tuonare contro la politicizzazione della magistratura si è reso protagonista di una operazione non solo di politicizzazione ma in qualche modo di asservimento a disegni esterni di singoli magistrati. In secondo luogo la forza di reazione della magistratura medesima la mette in una posizione di legittimità e di forza rispetto a tutti gli altri ambienti nei quali l’inquinamento non solo viene negato, ma i responsabili vengono difesi fino all’ultimo: e solo quando la pressione esterna dell’opposizione politica e dell’opinione pubblica si fa intollerabile si decide di intervenire.
Dunque da una parte un establishment che si difende in ogni modo, anche di fronte a prove clamorose di deviazioni dalla legalità, dall’altra la reazione immediata dell’Associazione nazionale magistrati e del Consiglio superiore della magistratura che invece subito chiedono che i responsabili di questa gravissima deviazione vengano messi fuori gioco.
Tutti ricordiamo che la corruzione e l’uso veramente politico della magistratura poggiavano in passato su una rete di protezione del malaffare politico: ricordo bene in proposito un articolo di "Repubblica" che riguardava la Procura di Roma e venne intitolato «il porto delle nebbie». Ci volle tempo, ci volle il rinnovamento interno alla magistratura perché quell’immagine venisse allontanata, e la magistratura riassumesse pienamente il compito di custode della legalità. Episodi rivelati in questi giorni ci dicono che si sta cercando di ripetere esattamente quel copione, cioè in un momento in cui la politica soffre il controllo dell’opinione pubblica e il controllo della legalità, si tenta di piazzare nei posti di responsabilità persone fidate per ricostruire la rete di protezione.
Non è un caso che proprio in questi giorni l’insistenza e la fretta intorno alla vicenda della legge bavaglio diventino rivelatrici. Forse all’inizio qualcuno aveva sottovalutato quella legge dicendo che tutto sommato era uno strumento che il presidente del Consiglio adoperava con la logica tradizionale delle leggi ad personam per evitare che intercettazioni sgradite potessero essere conosciute all’esterno. Questa lettura tutto sommato riduttiva è stata smentita, e mi pare che poi fosse evidente che l’obiettivo andava al di là della tradizionale legge ad personam. L’accelerazione sulle intercettazioni va di pari passo con la scoperta progressiva della corruzione diffusa, di questo - riprendo la famosa espressione di Silvio Spaventa - mostruoso connubio che si è determinato tra politica, amministrazione e affari. Un connubio non esterno al sistema di governo, non esterno al modo in cui la maggioranza funziona, ma del tutto interno e in qualche modo provocato da questa medesima maggioranza perché se c’è una differenza tra Tangentopoli e oggi è questa: Tangentopoli fu una vicenda che si determinò attraverso connivenze politiche composte da una rete di protezione, ma si trattava comunque di comportamenti fuori dalla legalità. Tutta questa vicenda che noi in questo momento abbiamo davanti agli occhi è stata dunque resa possibile dallo stravolgimento della legalità determinato dalle procedure che hanno sottratto agli ordinari controlli di legalità questioni rilevanti.
Quindi c’è una componente istituzionale di questo scandalo messa a punto attraverso un uso degli strumenti legislativi. In questo momento noi ci rendiamo conto dunque che c’era bisogno di tenere al riparo questo insieme di comportamenti illegali dall’occhio del pubblico e dall’occhio degli stessi magistrati. Quindi la legge sulle intercettazioni oggi acquista tutta la sua portata, non solo di legge ad personam, ma di misura fatta per difendere un sistema di governo che proprio in questi giorni sta mostrando tutti i suoi vizi e tutte le sue caratteristiche.
Tutta questa vicenda conferma la necessità non solo di opporsi ma di denunciare le caratteristiche proprie di questa legge sulle intercettazioni che è un pezzo essenziale di questa abnorme costruzione istituzionale di salvaguardia, abuso e privilegio. Prima si sono varate tutta una serie di norme per rendere opaco e non controllabile lo svolgimento di una serie di affari, e poi si cerca di approvare norme ulteriori per impedire che si possa svelare questa opacità e mettere in evidenza le caratteristiche del mostruoso connubio che stiamo vivendo.
Il cemento assedia il paesaggio italiano. Case su case, inaccessibili per chi ne ha bisogno: sono 4 milioni quelle costruite negli ultimi 15 anni, un milione quelle vuote nelle grandi città mentre cresce il disagio abitativo della popolazione, con oltre 110mila famiglie sfrattate negli ultimi due anni. Il mattone avanza, l’urbanizzazione corrode il territorio al ritmo di 500 chilometri quadrati in media ogni anno, mangia spazi pari a circa 3 volte la superficie del Comune di Milano.
È il risultato di una speculazione edilizia che non risponde alla domanda di case, che hanno prezzi inaccessibili per giovani, anziani, immigrati. Occorre cambiare rotta, denuncia Legambiente, che oggi presenta un dossier sul consumo di suolo in Italia, suggerendo proposte per rispondere ai problemi delle città e rilanciare il settore delle costruzioni che ha visto chiudere 15mila imprese edili.
«Le priorità sono l’housing sociale e la riqualificazione del patrimonio esistente», chiarisce il presidente Vittorio Cogliati Dezza. Tanti centri storici sono abbandonati, negli anni dell’urbanizzazione spinta i principali nemici del paesaggio, denuncia il dossier, sono diventati i centri commerciali, «avanguardie mandate avanti a colonizzare il territorio», chiarisce Cogliati Dezza; la crescita dissennata delle seconde case (il record è di Pragelato, Torino, dove sono il 92,25% ma anche sulle aree costiere), e politiche territoriali che hanno permesso la nascita di periferie dequalificate.
Usare un approccio nuovo sulle questioni edilizie e abitative, suggerisce Legambiente, e sostituire al modello di sviluppo centrato sul mattone uno attento all’innovazione energetica e tecnologica che punti al recupero del patrimonio edilizio, fermi il consumo di suolo, risponda alla domanda abitativa. «Se i costruttori lo hanno compreso, le principali resistenze vengono dal decisore politico», dice il presidente. «Dall’inizio dell’anno ci sono stati otto tentativi di far passare un nuovo condono e gli enti locali sono chiusi davanti a questa prospettiva perché gli oneri di urbanizzazione sono l’unica fonte di finanziamento». Anche se l’Italia è uno dei paesi con i vincoli paesaggistici più diffusi (il 47% del territorio), il consumo di suolo ha superato il 7%: «un dato significativo per l’orografia del paesaggio perché si concentra in poche aree abitabili», precisa Cogliati Dezza. Alcune stravolte dall’urbanizzazione. Come il paradosso Liguria, con oltre il 45% di superficie consumata in soli 15 anni.
Meno bus e metro o aumenti di biglietti e abbonamenti compresi tra il 36 e il 72%. La manovra che stringe il collo agli Enti locali, rischia di ridurre ai minimi termini il trasporto pubblico e lascia solo due alternative alle aziende: la riduzione del servizio o un ritocco record delle tariffe.
Secondo l´Asstra, associazione che riunisce le aziende del trasporto pubblico, potrebbero scendere dagli autobus, dalle metropolitane, dalle ferrovie locali oltre 270 milioni di passeggeri ogni anno, pari a circa 740mila persone al giorno. In gran parte sono pendolari e studenti che di fronte ai tagli e ai rincari, potrebbero scegliere di abbandonare i mezzi pubblici preferendo quelli privati, andando così ad ingrossare il già folto esercito degli automobilisti che ogni giorno si infilano nel traffico contribuendo all´inquinamento delle grandi aeree urbane.
Se il dimagrimento previsto dalla manovra imporrà a regime una riduzione pari al 10% delle risorse per il trasporto pubblico girate alle Regioni (e a cascata a Comuni e Province), si potrebbe arrivare ad un calo parallelo di 196 milioni di km in meno percorsi all´anno per autobus e metro e di 3,9 milioni di treni/chilometro in meno per le ferrovie regionali, esclusa Trenitalia. Ma la sforbiciata al settore potrebbe essere molto più pesante e rendere plausibile una diminuzione delle risorse del 20% per il servizio oggi offerto alla collettività. In questo caso la rimodulazione delle linee registrerebbe un saldo negativo di 392 milioni di chilometri offerti nel trasporto locale e meno 7,8 milioni di treni/chilometro.
«I tagli previsti dalla manovra sono la condanna a morte del sistema dei trasporti pubblici locali come lo conosciamo oggi in Italia» spiega Marcello Panettoni, presidente di Asstra, «la nostra è una previsione né fosca, né terroristica, né tantomeno politica, ma solo realistica e concreta affinché la politica e i cittadini sappiano a cosa si va incontro». In queste ore le aziende stanno pensando ad un piano "B" che non penalizzi i passeggeri: ma l´unica strada praticabile passa per un aumento delle tariffe. E che aumento: se la manovra ridurrà le risorse del 10%, le aziende saranno costrette a incrementare le tariffe del 36%. Ad esempio, un biglietto a tempo che oggi costa 1,04 euro schizzerebbe a 1,40. Un abbonamento mensile passerebbe, (nell´ipotesi di un taglio del 10%) da 32 a 43,50 euro con un aggravio pro-capite di 130 euro l´anno. Tutti valori che potrebbero raddoppiare nell´ipotesi di una riduzione delle risorse al 20%.
Ma l´impatto della manovra potrebbe avere anche delle ripercussioni sul personale in forza delle aziende: se le risorse caleranno del 10% ci saranno 9.860 dipendenti in meno a livello nazionale, dei quali 8.120 addetti alla guida. Il doppio, nel caso di un taglio del 20%. Il dimagrimento forzato degli autoferrotranvieri sarebbe del 7,2% nei servizi urbani e dell´8,9% nei servizi extraurbani e ferroviari. Nel dettaglio, rischiano il posto tra i 40 e gli 80 addetti a Bari, fino a 256 a Firenze e sono a rischio licenziamento fino a 1100 dipendenti Atm e fino a 750 lavoratori delle Ferrovie Nord a Milano. A Roma (Cotral) nel mirino ci sono dai 271 ai 542 addetti, tra i 422 e gli 880 a Torino e tra i 242 e i 511 a Napoli.
Per sopravvivere, il vascello fantasma del governo Berlusconi getta i corpi in mare. Sono i corpi dei feriti dagli scandali, politici o affaristici, consumati alla corte del Premier e spesso nel suo interesse, e sacrificati quando sale l´onda dell´opinione pubblica e della vergogna istituzionale. Prima Scajola, poi Brancher, oggi Cosentino. Due ministri e un sottosegretario. Il Cavaliere che se ne disfa, sommerso dal malaffare che lo circonda, è in realtà l´uomo che li ha scelti, li ha nominati, se n´è servito fino in fondo. Lo scandalo riguarda lui, e la sua responsabilità.
Per quindici anni, davanti ad ogni crisi, Berlusconi reagiva attaccando, cercando uno scontro e una forzatura, alzando la posta, in modo da creare nel fuoco dell´emergenza soluzioni prepotenti, da cui il suo comando uscisse rafforzato, non importa se abusivamente. Oggi deve rassegnarsi all´impotenza, incassando una sconfitta dopo l´altra e certificando così che gli scandali non sono difendibili.
In più, su Brancher come su Cosentino il Premier perde una partita con l´opposizione del Pd, ma soprattutto con l´antagonista interno Fini. Si scopre che anche nel mondo monolitico del berlusconismo è possibile dire no, fare discorsi di normale legalità e di ovvio rispetto istituzionale, e si può vincere politicamente, al di là dei numeri.
In questo quadro diventa ancora più grave la vergogna delle intercettazioni. È umiliante vedere un intero governo impegnato a boicottare il controllo di legalità e la libertà di informazione quando si squaderna ogni giorno di più lo scandalo P3, che riporta a «Cesare» e ai suoi interessi, con la cupola che cerca di corrompere la Consulta per il Lodo Alfano. «Cesare» a questo punto vada in Parlamento, e parli della P3 e dei suoi uomini disseminati in quel mondo parallelo, tra Stato e affari, come all´epoca della P2. Con la differenza che allora c´era l´intercapedine della politica, oggi è saltata, e quel mondo è direttamente al potere: ma oggi come allora, «comandano per rubare, rubano per comandare».
A settembre Emergency aprirà un poliambulatorio a Marghera, nella palazzina comunale di via Varè, ex sede del Centro di salute mentale dell’Asl 12. Dopo quella di Palermo, sarà la seconda struttura di questo tipo in Italia targata dall’organizzazione fondata da Gino Strada. «Il nuovo servizio - ha dichiarato polemicamente Strada - offrirà cure gratuite ai molti migranti che approdano in Veneto e hanno difficoltà ad accedere ai presidi sanitari pubblici».
«Benché sia questo l’obbiettivo principale, la nuova struttura sanitaria sarà aperta anche per le persone di questo nuovo Paese del terzo mondo, l’Italia. Prima o dopo saremmo costretti noi ad andare nei Paesi da cui fuggono queste persone per chiedere ospitalità, visto come qui si stanno svilendo i diritti e la dignità delle persone».
L’idea del poliambulatorio di via Varè non è piaciuta ad Antonio Cavaliere, consigliere comunale del Pdl che ha firmato un’interrogazione al sindaco Giorgio Orsoni molto critica su tutta l’operazione. In sintesi, il rappresentante del centrodestra vede il poliambulatorio di Emergency come un inutile doppione dei servizi simili istituzionali dell’Asl 12 e del privato sociale (Caritas e Misericordia) che potrebbe comportare delle spese superflue da parte del Comune a cominciare da quelle per il restauro dello stabile. Inoltre, Cavaliere teme che il nuovo presidio sanitario di via Varè possa comportare problemi di sicurezza sociale e sanitaria. Il consigliere comunale sostiene che non c’è alcun bisogno di creare un ambulatorio specifico per gli extracomunitari senza permesso di soggiorno perché l’ordinamento italiano impone alle strutture pubbliche di erogare le prestazioni sanitarie a tutti senza distinzioni. «La Costituzione italiana - evidenzia Cavaliere - garantisce la tutela alla salute come diritto fondamentale dell’individuo e stabilisce l’obbligo delle cure gratuite agli indigenti. Inoltre, non ci sono problemi particolari per i clandestini perché la legge non costringe il medico a denunciare chi è privo di permesso di soggiorno ma al contrario gli impone di curare chi ne avesse la necessità. Poi ovviamente il medico è libero di decidere come comportarsi in casi del genere». Il politico, inoltre, a sostegno del suo punto di vista cita una nota con cui la Regione Friuli Venezia Giulia ha motivato la contrarietà a strutture analoghe a quelle di Emergency nel proprio territorio. «È ovvio - afferma il consigliere comunale - che il legislatore abbia posto quale indirizzo prioritario quello di assicurare l’assistenza ai cittadini stranieri presenti nel territorio nei presidi pubblici e privati, così come previsto dal testo unico sull’immigrazione ma è anche vero che spetta alle Regioni individuare le relative modalità nell’ambito della propria competenza».