PRIMA (ma necessaria) premessa. A me non piace il politichese. Non mi piace come linguaggio e cerco infatti di tenermene lontano; ma non mi piace neppure come argomento anche perché – ne sono certo – non piace neppure ai nostri lettori. Voglio rubare a Franco Marcoaldi le parole con le quali chiude il suo spettacolo "Sconcerto" che ha avuto all’Auditorium di Roma tre serate di grande successo: «Le cose sono quello che sono. Un’arancia è un’arancia. Una casa è una casa. La pioggia che cade è la pioggia che cade». Ecco. Ai nostri lettori piace questo linguaggio ed anche a me.
Seconda premessa. La comparsata di Berlusconi alla cena che ha concluso il vertice di Bruxelles tra i capi di governo dell’Unione europea è stata semplicemente scandalosa. Si parlava dei "rom", alias zingari. Sarkozy li sta cacciando dalla Francia ancorché – come lui stesso ha detto – metà di loro siano cittadini francesi. La Commissione europea è contraria ad una politica che colpisce un’etnia anziché singoli responsabili di eventuali reati. Il nostro premier gli ha fatto eco per ingraziarsi la Lega. La Francia, due secoli e mezzo fa, esportò in Europa e nel mondo lo slogan "fraternità" insieme a quelli di libertà ed eguaglianza. Sarkozy si è messo sotto i piedi la fraternità e Berlusconi ha fatto altrettanto e in più si sta mettendo sotto i piedi anche gli altri due principi che hanno costituito il fondamento della modernità liberal-democratica. Questo modo di comportarsi di chi rappresenta il nostro Paese mi fa vergognare d’essere italiano.
Terza premessa. Il governo italiano, il ministro dell’Economia, le principali agenzie economiche internazionali hanno pochi giorni fa diffuso informazioni secondo le quali il peggio della crisi economica era ormai alle spalle. La Confindustria ha fatto eco. I vari indici economici, a cominciare dal Pil dei vari paesi, sono stati corretti al rialzo. Ma tre giorni fa la Banca d’Italia ci ha informato che il debito pubblico ha raggiunto nuove vette mentre le entrate tributarie registrano una netta diminuzione rispetto all’anno precedente. La Confindustria dal canto suo ha comunicato che la produzione industriale è ai minimi storici, l’evasione fiscale è salita ai massimi e nei prossimi mesi saranno distrutti altri trentamila posti di lavoro nell’industria manifatturiera. Per conseguenza i principali indici economici sono stati rivisti al ribasso. Questi Soloni dicono a distanza di pochi giorni o di poche ore una cosa e il suo contrario. Trovo vergognosi questi comportamenti. Lo ripeto: un’arancia è un’arancia e la pioggia che cade è la pioggia che cade.
Fatte queste premesse, oggi è d’obbligo che mi occupi di quanto sta accadendo nel Partito democratico e nel vasto arco della pubblica opinione orientata a sinistra e comunque all’opposizione nei confronti dell’anomalia berlusconiana. Nel centrodestra è in corso una crisi devastante e tutt’altro che conclusa. Sono in corso manovre da calcio mercato di deputati e senatori comprati e venduti, di mini-ribaltoni consumati sotto gli occhi di tutti. Ci potrebbero persino essere estremi di reato per voto di scambio. Ma la sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?
Questo è il mio tema di oggi. Domenica prossima, se non accadranno sconquassi peggiori, vorrei esaminare il tema dell’amore e della sua storia. Spero proprio di poterlo fare.
* * *
I sondaggi, per quel che valgono, danno nelle intenzioni di voto il Pdl leggermente sotto al 30 per cento, la Lega tra l’11 e il 12, il Pd tra il 25 e il 26, Di Pietro al 5, Vendola al 5, Casini tra il 5 e il 6, Fini al 7.
La platea di chi non ha ancora deciso al 30 per cento, quelli che comunque non voteranno, al 20. Perciò le intenzioni di voto sopra indicate riguardano la metà del corpo elettorale. I valori reali di quei numeri vanno dunque ridotti della metà, il che significa che il partito di Berlusconi rappresenta oggi il 15 per cento del corpo elettorale e il Partito democratico il 13. Un’arancia è un’arancia.
Finora il Pd non ha tratto alcun beneficio quantitativo dalla crisi del centrodestra, ma neanche Di Pietro e – a guardar bene – neanche la Lega. Il deflusso dal Pdl è andato in buona parte a Fini e in altra parte all’area delle astensioni e o a quella di chi non ha ancora deciso se votare e per chi.
Il Pd non ha "appeal" (stavo per scrivere "sex appeal") Bersani da qualche tempo è più incisivo, ma ha ancora un’aria da buon padre di famiglia, di buonsenso, ma non certo da trascinatore. Bersani non fa sognare. Non è il suo genere e credo che non gli piaccia.
Shakespeare dice nella "Tempesta" che la nostra vita è fatta della stessa stoffa di cui son fatti i sogni. Beh, Pierluigi Bersani non è fatto di quella stoffa. Berlusconi – incredibile a dirsi – invece sì. Solo che, come capita a tutti i ciarlatani, spesso la stoffa dei suoi sogni si strappa come il cerone che si mette in faccia e dagli strappi si vedono le vergogne.
Questa comunque è la situazione.
* * *
Quello che con un po’ di enfasi possiamo chiamare il popolo di sinistra si divide in due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti su temi concreti che interessano la vita di tutti.
I temi concreti, più o meno, coincidono con quelli sui quali Berlusconi il prossimo 28 settembre chiederà la fiducia alla Camera: la riforma fiscale, la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, la sicurezza. I finiani li voteranno perché, allo stato dei fatti, sono soltanto titoli di cinque temi tutti da svolgere. Lo svolgimento e il consenso sullo svolgimento si vedranno dopo.
Quegli stessi temi interessano anche il popolo di sinistra e i partiti che in qualche modo vogliono rappresentarlo. Specialmente i riformisti del Pd. I quali dovrebbero nel frattempo produrre il loro proprio svolgimento di quei temi. Finora questo svolgimento non c’è stato oppure è stato parziale e generico.
Ma il popolo di sinistra e i partiti hanno anche altri temi non meno importanti: l’occupazione, le tasse sul lavoro e sulle imprese, la crescita dell’economia e dei consumi, la lotta all’evasione, la diminuzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e dei patrimoni. Ed anche il conflitto di interessi e la legge elettorale per sostituire il vergognoso "porcellum" escogitato tre anni fa da quel sinistro burlone di Calderoli.
Come si vede, di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe in abbondanza, ma finora i cuochi si sono occupati d’altro. Non si sa bene di che cosa.
E poi c’è quella parte di popolo che vuole sognare. Va detto per la precisione che spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona. Per soddisfare quest’intreccio che anima l’intero corpo elettorale in tutti i paesi liberi e democratici ci vogliono leader carismatici. Carismatici sì, ma anche capaci di governare. Non dico governare nel senso ristretto dei ministeri, ma governare organizzazioni complesse, grandi enti territoriali, processi di forze umane in movimento.
Non sempre le persone che hanno carisma hanno familiarità con strutture complesse da governare e, viceversa, non sempre anzi quasi mai persone capaci di governare possiedono carisma. Per di più il cosiddetto popolo della sinistra considera i volti dei leader di partito come nomenklature spremute e non più utilizzabili. Non tutti ragionano in questo modo, ma molti sì. Il corto circuito di questo modo di sentire è un’ipotesi e un pericolo che va segnalato e analizzato con grande attenzione.
* * *
Chi può provocare il corto circuito è Nichi Vendola. In misura molto minore Grillo. In misura minima, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Sfasciacarrozze per carattere e/o per convenienza. C’è chi ama gli sfasciacarrozze, ma per fortuna sono pochi. Il popolo di un paese, anche un po’ sballato, è più serio e più intelligente di quanto si pensi. Se è furbo e un po’ malandrino come molti sono, ha sempre una goccia di saggezza nei momenti di svolta e questo è uno di quelli.
Ma Vendola è un’altra cosa e il discorso su di lui va affrontato diversamente. Ha carisma, non c’è dubbio. Il suo strumento è la parola, l’affabulazione, il suo racconto della situazione. Vendola racconta benissimo la situazione. Chi cerca il sogno, nelle sue parole lo trova. Sa governare? Non c’è prova, né pro né contro. Solo questo: la maggioranza dei pugliesi, anche molti che non amano la sinistra lo hanno votato. Come amministratore non lo approvano un granché e la situazione della sanità in Puglia non gioca certo a suo favore. Ce lo vedo poco un Vendola a Palazzo Chigi alle prese con i capi di governo stranieri, con le banche, con gli imprenditori, con Marchionne. Comunque non è questo il punto.
Il punto è che Vendola vuole fare a pezzi il Pd e tutti i partiti e con i frammenti sparsi sul terreno costruire intorno a lui la sinistra italiana. La sinistra, non il riformismo. Il suo obiettivo non è di battere Berlusconi. Avere Vendola come avversario per Berlusconi sarebbe una carta vincente. Lui lo sa ma non è questo che lo interessa. Vuole costruire la sinistra. Vuole fare le primarie, ma dove e contro chi? Per fare le primarie di coalizione dovrebbe prima costruire un’alleanza con il Pd, ma non ci pensa neppure. Le primarie le farà con se stesso o comunque alle sue condizioni.
Esercita notevole attrazione sul popolo di sinistra, stufo delle nomenklature e qui sta il corto circuito. Vendola può costruire una nuova sinistra intorno a sé che starà però per vent’anni all’opposizione sfrangiandosi un anno dopo l’altro.
Oppure Vendola dovrebbe fare un programma e una squadra capace di governare. Ma non pare sia questa la sua strada, ragione per cui il corto circuito è possibile e sarebbe una iattura. Lo scrivo con molta simpatia per il governatore della Puglia che in Puglia ha vinto, ricordiamocelo, perché la Poli Bortone ottenne l’8 per cento dei voti e non li portò a Fitto ma se li tenne ben stretti.
* * *
Ora sulla scena del Partito democratico, già notevolmente affollata, è ritornato anche Veltroni con un suo documento-proposta che è stato firmato da 75 deputati, circa un quarto dei parlamentari del Pd.
Non è un documento di rottura anche se giornali e televisioni (con l’eccezione di Mentana e nostra) si sono precipitati a dipingerlo come tale. Per il complesso del circo mediatico infatti l’equilibrio è fatto non tanto di verità ma di equidistanza e quindi niente di meglio che affiancare allo sfaldamento del centrodestra l’analogo sfaldamento del centrosinistra. Questo sfaldamento minaccia di esserci e ne ho indicato prima alcune ragioni e alcune rilevanti personalità che puntano in quella direzione, ma non mi pare che il rientro di Veltroni ne sia la causa.
L’ex segretario e in qualche modo fondatore al Lingotto del Pd è partito dalla constatazione dello scarso "appeal" del suo partito e dalla necessità di riportare in linea i tanti che se ne sono allontanati. Le intenzioni sono buone se contenute in questi limiti. Purtroppo per il Pd, Veltroni non è un uomo nuovo e soffre quindi del logoramento di tutta la classe politica italiana. Sarà pure un errore discriminare i politici con questo semplicissimo criterio del nuovismo, un errore di incultura e di semplicismo, ma è un dato di fatto come attesta l’area dell’indifferenza e dell’assenteismo che i sondaggi hanno quantificato.
Proprio perché se ne rende conto Veltroni parla di un "papa straniero" come fu a suo tempo Romano Prodi, che guidi il riformismo di centrosinistra mettendo insieme il carisma del leader e le capacità di governo che la politica richiede.
Sarà difficile trovarlo un "federatore" che corrisponda all’identikit, ma questa è la scommessa per vincere questo durissimo scontro in difesa della democrazia, della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità, offese e ferite.
Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un'intera parte della storia d'Europa diventa comprensibile. Ed è una questione vitale per il futuro dell'Europa: essa non può essere costruita sull'esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all'inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà. Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all'altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".
Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un'integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell'esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.
La prima riguarda l'esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l'igiene, la previdenza sociale, le politiche per l'occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell'Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.
La costruzione dell'Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l'emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell'emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d'altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.
Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l'Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l'elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.
Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l'unificazione dell'Europa ha reso la razzializzazione del "problema tsigano" più visibile, perché mostra l'evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:
1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazoni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.
2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l'un l'altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l'odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l'archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).
3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell'est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell'est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un'importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l'ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell'altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l'Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.
Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all'origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato. Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell'ossessione della sicurezza. Dall'altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza. Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell'emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell' "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L'altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l'esclusione all'interno di un'Europa multi-nazionale.
La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell'Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un'Unione migliore.
* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Etienne Balibar, dell'introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l'Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo
In attesa che Bossi riceva l´annunciata laurea honoris causa da un qualche Ateneo presuntivamente celtico, la Lega allunga le mani sulle scuole pubbliche. È di domenica la notizia della scuola di Adro «leghizzata» con gran dispiego di «sole delle Alpi» dai banchi al tetto; intanto a Bosina di Varese la moglie di Bossi dirige la scuola «dei Popoli Padani», privata ma con una dotazione di 800.000 euro decisa dal governo con la cosiddetta «legge mancia» (Il Giornale.it, 13 settembre). È dunque il momento giusto per interrogarsi sui meriti culturali di Bossi, che fanno tutt´uno coi progetti scolastici del suo partito. Secondo i suoi detrattori, il futuro dottore sarebbe capace solo di gestacci, insulti alla bandiera ed altre volgarità: grandi virtù comunicative, meglio di una tesi di laurea. Ma gli orizzonti culturali di Bossi sono assai più ampi. In un discorso del 27 gennaio 2004, dal titolo Dio salvi la Padania (visibile sul sito della Lega), egli traccia addirittura un quadro della «rottura geopolitica del mondo» dopo l'11 settembre, colpa di «Roma ladrona» oltre che dell´attacco alle Torri gemelle. Sull´Italia, la dottrina di Bossi è questa: «quando uno Stato è eterogeneo dal punto di vista etnonazionale, i problemi girano attorno a due lealtà, la lealtà alla Nazione e quella verso lo Stato. Per i popoli che non sono dominanti, come noi padani, le due lealtà sono distinte e possono entrare in competizione tra loro. In questi casi la minoranza chiede l´autodeterminazione nazionale, un diritto sancito dall´Onu». Eterogeneità etnonazionale, «comuni matrici etnoculturali» dei popoli padani: ecco un linguaggio «dotto» dove non ce lo aspetteremmo. Da dove viene?
Il miglior parallelo sono le elaborazioni «teoriche» del «Pensiero Etnonazionalista» e dell´«Idea Völkisch nelle comunità Alpino-Padane» che si possono leggere in un libro, Fondamenti dell'Etnonazionalismo Völkisch (2006), firmato da Federico Prati, Silvano Lorenzoni e Flavio Grisolia. Secondo loro, «le comunità padane» sono la miglior risposta a «un´epoca etnicamente e culturalmente decadente», all´«immigrazione allogena, al materialismo comunista, al mondialismo massonico». Fin troppo chiare le matrici razziste e fasciste, anzi naziste, della terminologia usata (völkisch , «sangue, suolo e conoscenza»). Silvano Lorenzoni, festeggiato nel giorno del suo compleanno come « un vero identitario/razzialista bianco veneto/europeo», è stato presidente dell´Associazione Culturale Identità e Tradizione, che si ispira a Julius Evola, e capogruppo della Liga Veneta nel Consiglio Comunale di Sandrigo (Vicenza). La casa editrice Effepi (Genova), che ha pubblicato questo e altri volumi su tale «etnonazionalismo», si distingue anche per i suoi libri di «storia non convenzionale» del Novecento, per esempio quello di Udo Walendy che considera l´Olocausto un prodotto della propaganda antitedesca ottenuto con abili fotomontaggi.
Ma la neoideologia padana non si affermerebbe senza mettere le mani in pasta nell´educazione delle nuove generazioni: nella scuola. Guardiamo quel che succede in Spagna, nazione anche in questo sorella, dove l'insorgere delle autonomie regionali si lega strettamente alla fine del franchismo e alla fortuna delle lingue diverse dallo spagnolo (specialmente il catalano e il basco), fondata sulla loro lunga e nobile tradizione culturale, ma anche su una sacrosanta reazione alla repressione franchista. Ma l´ondata degli autonomismi regionali ha generato e diffuso nelle scuole una manualistica rivendicativa di altrettanti «spiriti nazionali» (basco, catalano, galiziano, andaluso...), puntualmente riflessi nel linguaggio degli storici «allineati», come ha mostrato Pedro Heras in un bel libro recente (La España raptada: la formación del espíritu nacionalista , Barcelona, Altera, 2009). Analizzando manuali scolastici e pratiche dell´insegnamento, Heras ha dimostrato che tali «processi di ri-nazionalizzazione» hanno adottato in pieno la stessa retorica del più vieto nazionalismo franchista, utilizzando per esaltare le nazionalità regionali le stesse identiche formule, gli stessi slogan che furono martellati per decenni dalla propaganda di regime, applicandoli al popolo spagnolo nel suo insieme, e usandoli allora anche per reprimere le lingue «proibite». Quasi che, se applicata mettiamo al catalano, quella stolta retorica fosse «sdoganata» d´incanto.
Per quanto rozzi e incolti, i tentativi di Bossi di creare dal nulla la neo-etnia dei padani hanno fatto lo stesso: pur senza rifarsi esplicitamente alla tradizione nazi-fascista, da essa hanno ripescato la terminologia «etnonazionale» con tutte le sue implicazioni, usandola simultaneamente per de-nazionalizzare l´Italia e «nazionalizzare» una Padania d´invenzione. Perciò i più agguerriti proclami in lode della "razza padana" (come quelli citati sopra) si trovano sul sito www.stormfront.org, alfiere del World Wide White Pride, fondato nel 1995 da Don Black, già leader del Ku Klux Klan, che usa come logo la cosiddetta «croce celtica», surrogato della svastica. La maggioranza dei leghisti, persino di quelli che usano quelle formule e quegli slogan, è presumibilmente inconsapevole di queste derivazioni e tangenze, anzi le negherebbe accanitamente. Non per questo esse sono meno preoccupanti, in una scena politica come quella italiana, in cui secessione e federalismo sono fratelli siamesi, e gli argomenti per l´una e per l´altro s´intrecciano e si confondono in una rincorsa senza fine; in cui, con la passività o la complicità delle sinistre, il maggior argomento in favore del federalismo è la minaccia di secessione, e chi detta le regole è solo la Lega. Vedremo se la spiritosa invenzione dell´etnonazionalismo padano risulterà merito sufficiente per una laurea honoris causa: in ogni modo, sotto quella pergamena non basta la firma di un qualche ateneo galloceltico, ci vuole anche (per legge) quella di un ministro nel suo ufficio di «Roma ladrona».
In un’intervista concessa al Figaro, Silvio Berlusconi ha preso ufficialmente le difese di Sarkozy, sull’espulsione dei Rom che divide il governo francese dall’Unione, e ha detto una cosa significativa, che probabilmente ha ripetuto ieri al vertice europeo di Bruxelles e che vale la pena esaminare. Credendo di comportarsi da uomo saggio, esperto in prudenza e tatto, ha criticato le parole pronunciate dal commissario alla Giustizia contro Parigi spiegando che «la signora Reding avrebbe fatto meglio a trattare la questione in privato con i dirigenti francesi, prima di esprimersi pubblicamente come ha fatto». Ha lasciato poi intendere che l’Italia conosce problemi simili a quelli francesi e che anch’egli, come Sarkozy, non tollererà ingerenze esterne nella politica italiana.
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si mostra infastidito quando le istituzioni europee rendono pubblici i loro pensieri, le loro inquietudini, le loro regole.
Il fastidio si è più volte tramutato in collera, durante la crisi economica iniziata nel 2007, e l’invito a privatizzare la politica europea, che oggi torna a formulare chiedendo che le dispute tra Stati e Unione avvengano nelle tacite camere delle cancellerie, indica una visione precisa dell’Europa, della sua influenza sugli Stati che la compongono, del diritto sovrannazionale da essa esercitato. Quella che viene negata, nella sostanza, è la preminenza di tale diritto - con le sue direttive, con la Carta dei diritti fondamentali incorporata nel Trattato di Lisbona - sulle condotte e le leggi degli Stati nazione. È il nòmos europeo, il diritto europeo, che tanto disagio suscita nei singoli governi, e che pur rimanendo legale viene corroso, delegittimato, creando conflitti gravi tra legalità formale e legittimità sostanziale.
Tutto questo viene corroso in nome di sovranità nazionali che certo non scompaiono, ma che in alcuni ambiti appartengono al superiore potere comunitario. Il nòmos europeo non è formalmente confutato (non potrebbe esserlo) ma in cambio si vorrebbe vederlo camuffato, occultato, come Tartuffe che nella commedia di Molière implora, per nascondere le proprie libidini: «Coprite quel seno, ché io non devo vederlo. Simili oggetti feriscono le anime, e fanno sorgere pensieri colpevoli». Il silenzio omertoso, le trattative segrete fra Bruxelles e gli Stati, il rifiuto di uno spazio dove pubblicamente siano discussi drammi come quello dei Rom, popolo ormai comunitario a tutti gli effetti: come nella Francia di Molière e Luigi XIV, esiste oggi in Europa una «cabala di devoti» nazionalisti secondo cui il diritto europeo è valido ma va dissimulato, come il bel seno della servetta Dorine. Quel che i devoti vogliono a tutti i costi tenere in piedi è la finzione di Stati assolutamente sovrani, liberi di decidere come meglio loro piace senza interferenze di Bruxelles. Sono gli stessi devoti che vituperano, quando fa loro comodo, il «deficit democratico» d’Europa e delle sue burocrazie taciturne e scostanti.
L’ipocrita messinscena è una specialità francese, fin dal dopoguerra, e Sarkozy la perpetua. È la finzione di uno Stato che si sente talmente superiore, dal punto di vista etico, da non sopportare alcun tipo d’ingerenza. «In quanto patria dei diritti dell’uomo non riceviamo lezioni da nessuno» ammoniscono in questi giorni, sussiegosi, i ministri di Sarkozy; in particolare Pierre Lellouche, segretario di Stato agli Affari europei, secondo cui la Francia «è un grande Paese sovrano che non è consentito trattare come un ragazzino». Berlusconi e la Lega sono ben felici di nascondersi, in cerca di tutele, dietro tanta regale sicumera.
Ma c’è qualcosa di più nella vicenda dei Rom, che il fronte franco-italiano rivela. Di quest’Europa troppo schietta e comunicativa nel parlare e ammonire, né i governanti francesi né quelli italiani sembrano ricordare la ragion d’essere, sempre che la conoscano. Quel che evidentemente hanno dimenticato, è che nel dopoguerra la Comunità nacque proprio per questo: per creare un nuovo diritto sovrannazionale, grazie al quale gli Stati non possono più compiere misfatti nel chiuso delle piccole patrie sovrane. Per vietare discriminazioni di popoli giudicati estranei alle piccole patrie, per fede o etnia o scelta di vita: per sostituire parte delle vecchie norme nazionali con norme più vaste, plurali, di stile imperiale.
Non stupisce che Viviane Reding, commissario democristiano, abbia denunciato martedì il pericolo di un ritorno al passato, alle persecuzioni di ebrei e zingari durante l’ultima guerra. Sono parole forti di cui si è scusata e che molti hanno giudicato eccessive, ma che restano un memento ineludibile: memento di come l’Unione si fece dopo il ’45, e perché. L’Europa è la promessa, fatta da ciascuno a se stesso, che alcune cose non si faranno più, grazie alla messa in comune delle sovranità nazionali sino a ieri assolute. Non ha senso altrimenti istituire giorni che commemorano i genocidi. La frase che ingiunge «Mai più!» è pura menzogna se non vale qui, ora, come impegno continuamente rinnovabile e per tutte le etnie o religioni.
Da quando l’Unione si è estesa a Est, dove vive il maggior numero di Rom, il diritto europeo tutela anche queste genti, nomadi o sedentarie che siano. La direttiva europea 2004-38, concernente la libera circolazione nella Comunità, stipula che nessun cittadino dell’Unione può esser espulso dal territorio in cui si trova, a meno che «non sussistano ragioni di ordine pubblico, di sicurezza e di salute pubblica»: ragioni valutabili «caso per caso», mai applicabili a un’etnia. Se l’Unione aprirà contro Parigi una procedura d’infrazione, è perché riterrà violata questa legge. Una circolare governativa francese del 5 agosto parla di «espulsione dei Rom», e rappresenta già un’infrazione. In gran fretta, nel frattempo, è stata riscritta.
Ieri a Bruxelles l’Europa si è divisa sui Rom: alcuni parlano di «scontri violenti» fra Barroso e Sarkozy. Anche se la Germania non è innocente (numerose sono le espulsioni di Rom verso il Kosovo), il cancelliere Merkel difende la Commissione, e il suo diritto a imporre superiori leggi e valori. Lo stesso fa il governo belga. Gli innocenti sono rari, ma l’unico a sostenere esplicitamente l’Eliseo, sul Figaro di ieri, è il governo di Roma. È anche l’unico a far propria l’immagine che Sarkozy si fa della Commissione: quando invita la lussemburghese Reding ad accogliere i Rom nel suo Paese, l’Eliseo tratta la Commissione come assemblea composta di rappresentanti nazionali, non di rappresentanti l’interesse comune europeo.
Può darsi che la linea del silenzio omertoso finisca col passare. Il presidente della Commissione Barroso ha una fierezza istituzionale discontinua, e ci sono governi (Spagna, Repubblica Ceca) gelosi della propria sovranità. Resta che il patto del silenzio è stato provvidenzialmente rotto, che su questioni essenziali si dibatte in pubblico: che esiste, sui Rom come a suo tempo sull’Austria di Haider, un’agorà europea. L’esecutivo di Barroso avrebbe obbedito alla politica privatizzata, se il Parlamento europeo non avesse condannato le pratiche d’espulsione con voce alta, il 9 settembre.
Diceva uno dei grandi federalisti, Mario Albertini, che la vera Unione sarebbe nata il giorno in cui il federalismo sarebbe «sceso al livello della lotta politica di ogni giorno (... affinché) l’uomo della strada sappia che, come c’è il socialista, il democristiano e il liberale, così c’è anche il federalista europeo». È quello che sta succedendo dall’inizio di quest’estate, grazie ai Rom e alla lotta politica che essi hanno suscitato attorno alla ragion d’essere dell’Europa.
«È curioso notare come Morgan Stanley, banca storicamente vicina a Marchionne, non consideri le proiezioni finanziarie sottostanti a Fabbrica Italia, il programma di 20 miliardi di investimenti in 5 anni presentato dalla Fiat al governo per raddoppiare la produzione di auto nel paese e ottenere via libera alla chiusura di Termini Imerese e alle ristrutturazioni prossime venture». Così Massimo Mucchetti sul Corsera del 13 settembre, analizzando la separazione del comparto auto e relative componenti da quello dei veicoli industriali e delle macchine per il movimento terra. Si tratta di una operazione finalizzata a separare la «polpa», cioè le produzioni in attivo con una redditualità ancora sicura, che in questo modo resteranno saldamente nelle mani della famiglia Agnelli, dalle produzioni a rischio, cioè l'auto, che non promettono niente di buono - nonostante l'ottima performance del settore «lusso», Ferrari e Maserati - che forse riusciranno a salvarsi attraverso la fusione con Chrysler, se l'apparente ripresa di quest'ultima si rivelerà effettiva. Ma che potrebbero anche finire tra le fauci di qualche gruppo più forte, se le operazioni di ingegneria finanziaria per metterle al sicuro da una scalata ostile andranno in porto; e soprattutto se il mercato euroamericano dei veicoli di gamma bassa, in cui opera la Fiat, offrirà un respiro. Il che non pare probabile.
Nello stesso articolo il Corriere ci informa che «secondo la società di consulenza strategica americana A. T. Kerny, la domanda di automobili crescerà soprattutto in Asia, mentre in Europa e in Nord America - i paesi in cui Fiat-Chrysler dovrebbe piazzare la maggior parte dei 6 milioni di auto che Marchionne ritiene indispensabili per la sopravvivenza del gruppo - rimarrà ferma in cifra assoluta». Cosa talmente nota e ovvia che forse per saperlo non era indispensabile il ricorso a una società di «consulenza strategica».
In un contesto del genere il fatto che al momento di dividersi le spoglie del gruppo tra polpa e cartilagini, il piano Fabbrica Italia - 20 miliardi di euro e un milione e mezzo di vetture da produrre negli stabilimenti italiani, contro le 650mila attuali - non venga nemmeno menzionato non è «curioso», come sostiene l'articolo, ma altrettanto ovvio.
Fabbrica Italia - come Mucchetti si limita a insinuare: «La verità è che una cosa sono i piani, un'altra i discorsi e una terza sono le decisioni reali quando si fa cassa integrazione, e il debito finanziario... aumenta da 28 a 30 miliardi» - non è che uno specchietto per le allodole: per governo e sindacati collaborazionisti, più la foresta di intellettuali e politici che ha dato loro credito. Serve a giustificare non solo la chiusura di Termini Imerese, scontata ormai da almeno tre anni, nonostante che per non vederla i sindacati - tutti - abbiano continuato a nascondere la testa sotto la sabbia; ma serve anche, e soprattutto, a giustificare il ben più sostanziale attacco contro le condizioni di vita e di lavoro lanciato con l'accordo di Pomigliano, ma ormai in dirittura d'arrivo per la sua estensione a tutti gli stabilimenti del gruppo - e poi a tutte le aziende associate a Federmeccanica; e poi a tutto il resto dei lavoratori italiani - in nome della «competitività».
In cambio di che cosa? Di niente, se al momento di spartirsi le spoglie, e di mettere al sicuro il malloppo degli Agnelli, il gigantesco indebitamento a cui il settore auto del gruppo dovrebbe andare incontro per finanziare quel piano non viene nemmeno preso in considerazione e, anzi, i conti del primo semestre dell'anno indicano addirittura una netta riduzione degli investimenti. D'altronde, nemmeno Marchionne ha mai data per scontata la realizzazione del suo piano industriale; la ha sempre subordinata a una ripresa del mercato che nessuna delle valutazioni correnti consente di prevedere.
Quali siano i piani effettivi di Marchionne non solo per lo stabilimento di Pomigliano, ma anche per Mirafiori, Sevel e persino Melfi, forse non lo sa nemmeno lui: aspetta le occasioni: ieri erano la Chrysler (andata a «buon fine», per lo meno per ora) e la Opel (mancata); oggi sono la Serbia (peraltro non così rapida come prospettato); domani chissà? Potrebbe anche essere l'assorbimento da parte di un gruppo più grande: magari con uno spezzatino tra Fiat, Lancia e Alfaromeo. O financo tra i vari stabilimenti di produzione. Il cui valore - in borsa - dipenderà soprattutto da quanto operai e sindacati avranno piegato la testa di fronte ai suoi ricatti.
Che fare allora? Non solo la politica industriale, e nemmeno solo la politica tout court, ma la vita di decine di migliaia di lavoratori - della Fiat e dell'indotto - e l'economia dell'intero paese non possono continuare a restare alla mercé delle occasioni in cui si imbatterà Marchionne. La crisi ambientale del pianeta Terra mette all'ordine del giorno l'urgenza di coinvolgere le risorse e le forze produttive di ogni territorio in un grandioso progetto di riconversione. Gli stabilimenti della Fiat e dell'indotto hanno tutte le carte in regola per venire gradualmente impegnate in un percorso del genere.
Per la prima volta la questione ambientale si confronta non solo con le convenienze dell'impresa (un tema su cui si sono esercitati da alcuni decenni, e per lo più a vuoto, nonostante il profluvio dei testi prodotti, gli aedi del pensiero unico e delle virtù del mercato), ma con il problema dell'occupazione e della condizione di lavoro in fabbrica. Difendere l'una e l'altra non può essere fatto senza porre all'ordine del giorno, a livello nazionale e internazionale, ma soprattutto nei singoli territori, a partire dalle situazioni di crisi, il tema di una conversione produttiva: dalle produzioni ambientalmente nocive e senza prospettive di mercato a quelle con un sicuro avvenire in un pianeta in cui è sempre più urgente fare i conti con la sua sopravvivenza. Che è anche l'unica strada per evitare un irreversibile declino del paese.
PRECARI IN RIVOLTA
La mia pazza idea di incontrarci sullo Stretto
di Emma Giannì
Dopo due anni di proteste, sta iniziando il terzo: la riforma avanza, i tagli aumentano e l'organizzazione scolastica è sempre più critica e instabile. Docenti offesi nella loro professionalità, colpiti nel loro lavoro; collaboratori scolastici trattati da parassiti e sminuiti nella loro funzione, come solo chi non ha mai vissuto la scuola dall'interno può fare. Classi intasate contro ogni normale criterio pedagogico, dove gran parte dell'ora passa solo per chiamare l'appello, controllare le «giustifiche» e avere un minimo di contatto umano con i propri alunni. Il resto dovrebbe essere dedicato alle spiegazioni, alle conversazioni, allo studio,alle verifiche, agli approfondimenti,ai rinforzi per i più deboli. Prime vittime sono i docenti e il personale Ata (collaboratori e amministrativi), non meno meritevoli, ma semplicemente precari, con contratti a tempo determinato anche da 20 anni.
Il bisogno di esternare la propria rabbia è grande. Il problema diventa pratico quando «gridare» il proprio disagio significa spostarsi di parecchio e per parecchie ore allontanandosi dalla famiglia e a spese proprie. Ci vuole una manifestazione, facilmente raggiungibile. Un punto simbolico ma anche pratico perché la situazione della scuola si avverte di più al sud, soprattutto in Sicilia. Ho individuato lo stretto di Messina raggiungibile in circa 4 ore e mezza dalla provincia siciliana più distante ma anche da Napoli e Bari. Ho immaginato un «incontro», un'unione tra la mia terra e il resto d'Italia, per dimostrare che non siamo solo numeri in elenco, che siamo tanti, in carne e ossa, precari e di ruolo e tanti genitori dei nostri alunni, e tanti alunni che lottano per la loro scuola e per la qualità della scuola; perché anche loro sono preoccupati delle ricadute che anche a lungo termine che produrrà la «riforma epocale»! Io lo chiamo un disastro epocale, perché nessuno verrà mai risarcito dei danni che ha causato e che ancora causerà.
Inizialmente la mia proposta non ha sortito grande effetto. Ci si preoccupava di un possibile fallimento, ma cosa avevamo da perdere? Niente. Siamo andati avanti con Fabiola e Maria Rita, testarde, e a poco a poco altri comitati e coordinamenti provinciali si sono accodati. Alcuni sindacati hanno dato la loro adesione, ma la manifestazione è stata interamente organizzata da noi tre, con il contributo prezioso e concreto di Didier. La cosa è cominciata a montare. L'iniziale previsione di 700 partecipanti è cresciuta gli ultimi due giorni, fin poi arrivare alle 2.500 presenze (secondo la questura).
Successo clamoroso. Articoli sulla manifestazione più o meno veritieri in ogni giornale e Tg. Giuro, non me lo aspettavo! È una soddisfazione vissuta a metà visto che comunque anche quest'anno non avrò una mia classe. Dopo 23 anni di precariato, negli ultimi sei mi ero guadagnata un incarico annuale, una sorta di «precariato stabile» che comunque mi avvicinava al ruolo. Uso il passato perché secondo la Gelmini non sono meritevole, non posso pretendere di lavorare nemmeno da precaria, non posso pretendere quello che lei chiama un «privilegio» che mi sono guadagnata con anni di studio, di impegno, di aggiornamento, di servizio. Mi degna di elemosina con l'«ammazza precari».
Perdo il mio lavoro solo per «esigenze di cassa», non mi si riconosce la mia esperienza di educatore, di formatore in nome del risparmio e della razionalizzazione. La situazione dei precari della scuola è la stessa dei lavoratori di Termini Imerese, ma la qualità della scuola è un problema che investe l'Italia intera, perché nella scuola si formano le personalità che abiteranno questa bella terra, e tutti meritano di essere seguiti con attenzione, qualsiasi strada prenderanno. Anche nel profondo sud, dove troviamo strutture fatiscenti, tetti rotti, palestre inagibili, condizioni di lavoro al limite della decenza. Lo so bene io che di scuole ne ho conosciute tante essendo stata assegnata ogni anno in una scuola diversa. In provincia di Agrigento la legge e la normativa su igiene e sicurezza è spesso un optional con piccole aule dove i banchi son stipati, addossati alla cattedra tanto che, a volte, bisogna scavalcarli per raggiungere l'uscita! Eppure si formano classi anche con 35-40 alunni... Nel frattempo, in un paese dove il ministro della pubblica istruzione parla di efficientismo, c'è un piccolo tesoro di provincia, la mia, Agrigento che da alcuni anni non ha il suo dirigente scolastico provinciale, ma svolge la sua funzione ad interim il dirigente dell'Usp di Caltanissetta.
Maria Stella l'ottimista
Maria stella l'ottimista
di Christian Raimo
Alle volte, di questi tempi, in fila alle poste incantati dallo scorrere indolente dei numeri di led luminosi rossi sul display in alto sopra gli sportelli, o nella bolla condizionata di una macchina, nelle città che si rianimano a inizio settembre, si può provare una leggera euforia punk, da repubblica di Weimar, da quiete prima della tempesta. Con i rapporti dell'Ocse o degli altri paternalistici organismi internazionali che continuano a declassarci in classifiche dietro stati di cui conosciamo a malapena la collocazione geografica, con le pubblicità di finanziarie dai nomi bambineschi che sulle pagine delle free-press fanno a gara con quelle dei siti di scommesse on line, con i negozi di alimentari che chiudono e lasciano il campo alle sale giochi con le slot machine o ai rivenditori di oro a diciassette euro il grammo, si ha la sensazione di stare in un punto finale: prima o poi le famiglie non ce la faranno più a fare da paracadute sociale, prima o poi i sindacati non riusciranno più a opporre resistenza di fronte a una deregulation darwiniana del mercato del lavoro, prima o poi la scuola pubblica e l'università non avranno più il fiato per reggersi su delle forze sempre più volontaristiche.
Certo, non a tutti il futuro italiano appare così catastrofico. Si respira, per esempio, a leggere le riviste popolari in attesa dal parrucchiere, un altro clima. Su Chi di questa settimana un Piersilvio Berlusconi (chissà che, così per dire, non sia lui o la sorella il prossimo leader del centrodestra) abbronzato e tonico riempie la copertina e ci elargisce consigli quasi-buddisti su come stare bene con se stessi. Sul numero della settimana scorsa invece - negli stessi giorni in cui migliaia di precari con decenni di supplenze alle spalle non ricevevano nemmeno la carità di una chiamata annuale - Maria Stella Gelmini anche lei non si lasciava avvelenare dal pessimismo. E ribatteva in una distesa intervista dalla sua casa di Ischia di non sentirsi schiacciata dalle incombenze del presente, e di avere anzi un progetto ben definito per il futuro: dopo Emma (una bella bimba paffutella, che ha ormai quattro mesi), adesso pensa a un maschietto. È questa, lo ribadiva a chiare lettere, la sua priorità, il centro di tutto - e quest'estate, mentre lavorava certo, si è dovuta occupare di come arredare la sua nuova casa al centro di Roma.
Non c'è mica da vergognarsi a pensare un po' ai fatti propri; soprattutto non c'è mica da vergognarsi a volerli raccontare anche a chi magari alla stessa età del ministro non si può permettere altra stanza dove dormire che quella della propria adolescenza, con i poster dei Queen ingialliti alle pareti.
Ma l'assenza di una fiducia minima nel futuro di questo paese si può riconoscere anche da altre impressioni sparse. Sempre a dar retta agli osservatori internazionali, il tasso di competenze dei lettori sta precipitando di anno in anno, insieme alla libertà di stampa, e agli investimenti nella cultura, eccetera, eccetera. L'elenco del declassamento italiano è una litania che abbiamo imparato a conoscere e a lasciare sfumare. E a dire il vero, non servono neanche tutti questi numeri; si ricava la stessa evidenza, se uno gira a zonzo per la propria città o fa una telefonata a qualche amico tornato dalle ferie. La marcescenza dell'incultura destrorsa che ha contagiato la nostra società ha fatto sì che, nella convinzione comune, si sia introiettata inconsapevolmente l'idea che il pensiero, la riflessione siano occupazioni depressive, che lo studio non serva, che passare tempo sui libri non sia fondamentale, che i luoghi dell'apprendimento siano le reliquie di un'epoca ormai al tramonto.
Mentre nel tempo d'estate gruppi di studenti organizzati, ricercatori universitari con una tesi di dottorato da completare migrano per un paio di mesi a studiare all'estero, a passare un luglio o un agosto nei campus organizzati dal British Council, o a consultare la bibliografia nella Bncf parigina, nella Library of Congress, nella biblioteca nazionale di Monaco o Berlino (aperte dalle 8 alle 24...), in Italia l'idea che d'estate si studi (anche) è peregrina, obsoleta, bizzarra.
A agosto, in grandi città come Roma o Firenze o Napoli, per dire, le biblioteche (nazionali, comunali, universitarie) chiudono del tutto, al massimo lavorano qualche giorno con orario dimezzato fino a pranzo, non hanno l'aria condizionata, l'accesso a internet, etc...; diventano luoghi che non accolgono nessuno.
Eppure non sarebbe difficile pensare alla questione biblioteche come un punto nodale - non solo simbolico - per un programma di sinistra. Non sarebbe troppo inventivo, per dire, che uno slogan di sinistra fosse: Una modernissima biblioteca pubblica in ogni quartiere oppure Mille nuove biblioteche in tutta Italia.
Il ventennale disastro civil-culturale, che in assenza di definizioni migliori abbiamo finito per chiamare berlusconismo, ma che è sinonimo di frantumazione sociale, di depoliticizzazione, di cinismo di massa, potrebbe cominciare a essere veramente contrastato (non tanto legittimando la conversione in articulo mortis di una certa destra a una minima etichetta costituzionale ma) provando a immaginare un paesaggio diverso con un po' di inedita lungimiranza.
Ossia? Ossia si potrebbe impegnarsi a invertire quel processo iniziato negli anni '80 per cui la gente ha preso a ritirarsi dai luoghi pubblici dentro le mura delle proprie case, ha progressivamente evitato il confronto con il resto del mondo, ha imparato a consumare cultura e intrattenimento in forma privata: si è - per farla breve - trasformata da società civile in audience.
C'è un libro di Antonella Agnoli, uscito da Laterza un anno fa, che s'intitola Le piazze del sapere e che - partendo dalla questione apparentemente tecnica di come ripensare le biblioteche pubbliche in una società in trasformazione come la nostra, dove comunità è sinonimo di facebook e dove la lettura è un'attività in progressivo declino - prova a buttare nell'ambito della riflessione sociale un'idea modestamente rivoluzionaria: «Ricostruire luoghi di dibattito, di conoscenza, di informazione: piazze ma anche biblioteche intese come piazze coperte dove la possibilità di incontrare amici sia altrettanto importante dell'opportunità di prendere in prestito un libro o un film».
A mali estremi, piccoli rimedi. E il vero male estremo - proviamo a capirlo una volta per tutte - non è neanche il federalismo d'accatto che si vuole approvare entro la fine dell'anno, e nemmeno la volontà di riformare l'intero apparato giuridico italiano per far sfuggire un sol uomo ai processi.
Il vero male estremo non si data nel presente, ma nell'eventuale futuro: ed è la riduzione delle ore nei licei, la sparizione degli spazi di dibattito politico, la chiusura dei teatri, la riduzione dei posti di ricercatori all'università, il mancato investimento nelle biblioteche pubbliche...
Stiamo diventando, senza accorgercene, un paese senza futuro: prima di innamorarci di questa cupio dissolvi, potremo anche avere un istante di ripensamento.
Alle volte, di questi tempi, in fila alle poste incantati dallo scorrere indolente dei numeri di led luminosi rossi sul display in alto sopra gli sportelli, o nella bolla condizionata di una macchina, nelle città che si rianimano a inizio settembre, si può provare una leggera euforia punk, da repubblica di Weimar, da quiete prima della tempesta. Con i rapporti dell'Ocse o degli altri paternalistici organismi internazionali che continuano a declassarci in classifiche dietro stati di cui conosciamo a malapena la collocazione geografica, con le pubblicità di finanziarie dai nomi bambineschi che sulle pagine delle free-press fanno a gara con quelle dei siti di scommesse on line, con i negozi di alimentari che chiudono e lasciano il campo alle sale giochi con le slot machine o ai rivenditori di oro a diciassette euro il grammo, si ha la sensazione di stare in un punto finale: prima o poi le famiglie non ce la faranno più a fare da paracadute sociale, prima o poi i sindacati non riusciranno più a opporre resistenza di fronte a una deregulation darwiniana del mercato del lavoro, prima o poi la scuola pubblica e l'università non avranno più il fiato per reggersi su delle forze sempre più volontaristiche.
Certo, non a tutti il futuro italiano appare così catastrofico. Si respira, per esempio, a leggere le riviste popolari in attesa dal parrucchiere, un altro clima. Su Chi di questa settimana un Piersilvio Berlusconi (chissà che, così per dire, non sia lui o la sorella il prossimo leader del centrodestra) abbronzato e tonico riempie la copertina e ci elargisce consigli quasi-buddisti su come stare bene con se stessi. Sul numero della settimana scorsa invece - negli stessi giorni in cui migliaia di precari con decenni di supplenze alle spalle non ricevevano nemmeno la carità di una chiamata annuale - Maria Stella Gelmini anche lei non si lasciava avvelenare dal pessimismo. E ribatteva in una distesa intervista dalla sua casa di Ischia di non sentirsi schiacciata dalle incombenze del presente, e di avere anzi un progetto ben definito per il futuro: dopo Emma (una bella bimba paffutella, che ha ormai quattro mesi), adesso pensa a un maschietto. È questa, lo ribadiva a chiare lettere, la sua priorità, il centro di tutto - e quest'estate, mentre lavorava certo, si è dovuta occupare di come arredare la sua nuova casa al centro di Roma.
Non c'è mica da vergognarsi a pensare un po' ai fatti propri; soprattutto non c'è mica da vergognarsi a volerli raccontare anche a chi magari alla stessa età del ministro non si può permettere altra stanza dove dormire che quella della propria adolescenza, con i poster dei Queen ingialliti alle pareti.
Ma l'assenza di una fiducia minima nel futuro di questo paese si può riconoscere anche da altre impressioni sparse. Sempre a dar retta agli osservatori internazionali, il tasso di competenze dei lettori sta precipitando di anno in anno, insieme alla libertà di stampa, e agli investimenti nella cultura, eccetera, eccetera. L'elenco del declassamento italiano è una litania che abbiamo imparato a conoscere e a lasciare sfumare. E a dire il vero, non servono neanche tutti questi numeri; si ricava la stessa evidenza, se uno gira a zonzo per la propria città o fa una telefonata a qualche amico tornato dalle ferie. La marcescenza dell'incultura destrorsa che ha contagiato la nostra società ha fatto sì che, nella convinzione comune, si sia introiettata inconsapevolmente l'idea che il pensiero, la riflessione siano occupazioni depressive, che lo studio non serva, che passare tempo sui libri non sia fondamentale, che i luoghi dell'apprendimento siano le reliquie di un'epoca ormai al tramonto.
Mentre nel tempo d'estate gruppi di studenti organizzati, ricercatori universitari con una tesi di dottorato da completare migrano per un paio di mesi a studiare all'estero, a passare un luglio o un agosto nei campus organizzati dal British Council, o a consultare la bibliografia nella Bncf parigina, nella Library of Congress, nella biblioteca nazionale di Monaco o Berlino (aperte dalle 8 alle 24...), in Italia l'idea che d'estate si studi (anche) è peregrina, obsoleta, bizzarra.
A agosto, in grandi città come Roma o Firenze o Napoli, per dire, le biblioteche (nazionali, comunali, universitarie) chiudono del tutto, al massimo lavorano qualche giorno con orario dimezzato fino a pranzo, non hanno l'aria condizionata, l'accesso a internet, etc...; diventano luoghi che non accolgono nessuno.
Eppure non sarebbe difficile pensare alla questione biblioteche come un punto nodale - non solo simbolico - per un programma di sinistra. Non sarebbe troppo inventivo, per dire, che uno slogan di sinistra fosse: Una modernissima biblioteca pubblica in ogni quartiere oppure Mille nuove biblioteche in tutta Italia.
Il ventennale disastro civil-culturale, che in assenza di definizioni migliori abbiamo finito per chiamare berlusconismo, ma che è sinonimo di frantumazione sociale, di depoliticizzazione, di cinismo di massa, potrebbe cominciare a essere veramente contrastato (non tanto legittimando la conversione in articulo mortis di una certa destra a una minima etichetta costituzionale ma) provando a immaginare un paesaggio diverso con un po' di inedita lungimiranza.
Ossia? Ossia si potrebbe impegnarsi a invertire quel processo iniziato negli anni '80 per cui la gente ha preso a ritirarsi dai luoghi pubblici dentro le mura delle proprie case, ha progressivamente evitato il confronto con il resto del mondo, ha imparato a consumare cultura e intrattenimento in forma privata: si è - per farla breve - trasformata da società civile in audience.
C'è un libro di Antonella Agnoli, uscito da Laterza un anno fa, che s'intitola Le piazze del sapere e che - partendo dalla questione apparentemente tecnica di come ripensare le biblioteche pubbliche in una società in trasformazione come la nostra, dove comunità è sinonimo di facebook e dove la lettura è un'attività in progressivo declino - prova a buttare nell'ambito della riflessione sociale un'idea modestamente rivoluzionaria: «Ricostruire luoghi di dibattito, di conoscenza, di informazione: piazze ma anche biblioteche intese come piazze coperte dove la possibilità di incontrare amici sia altrettanto importante dell'opportunità di prendere in prestito un libro o un film».
A mali estremi, piccoli rimedi. E il vero male estremo - proviamo a capirlo una volta per tutte - non è neanche il federalismo d'accatto che si vuole approvare entro la fine dell'anno, e nemmeno la volontà di riformare l'intero apparato giuridico italiano per far sfuggire un sol uomo ai processi.
Il vero male estremo non si data nel presente, ma nell'eventuale futuro: ed è la riduzione delle ore nei licei, la sparizione degli spazi di dibattito politico, la chiusura dei teatri, la riduzione dei posti di ricercatori all'università, il mancato investimento nelle biblioteche pubbliche...
Stiamo diventando, senza accorgercene, un paese senza futuro: prima di innamorarci di questa cupio dissolvi, potremo anche avere un istante di ripensamento.
«Li fate ignoranti»
Luca Fazio intervista Tullio De Mauro
Si apre tra le proteste l'anno scolastico dell'era Gelmini. Per Tullio De Mauro siamo un paese che punta a una scuola senza qualità. E in classe dovrebbero tornare anche gli adulti
Primo giorno di scuola. Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti a livello europeo, ex ministro della pubblica istruzione, preferirebbe sorvolare sulla stretta attualità.
Professore, dobbiamo. Che ne pensa della riforma Gelmini e del clima che si è creato attorno alla scuola?
Che il clima sia brutto lo testimoniano le proteste dei precari, ma anche degli insegnati e dei genitori. I motivi sono diversi e strutturali, ma vorrei dire che le responsabilità non sono solo di questo governo. Gli istituti sono fuori norma, nelle scuole non è stato rimosso l'amianto, il numero degli alunni per classe deborda, per non parlare dei problemi mai affrontati, le carriere dei docenti, gli stipendi bassi, l'abbandono scolastico più alto d'Europa...
In più, su queste sciagure strutturali si abbatte la riforma Gelmini.
Vorrei cominciare col dire una cosa forse impopolare. Il ministro ha preso anche provvedimenti positivi.
Davvero? Dica.
Finalmente ha varato un prosciugamento dei diversi canali che si aprivano dopo la scuola dell'obbligo. Il genitore poteva scegliere tra centinaia di scuole superiori diverse tra loro, un incredibile dedalo di offerte che provocava solo un'impennata di abbandoni scolastici. Gelmini ha eliminato questo sconcio silenzioso riducendo molti indirizzi specifici.
Perché non è stato fatto prima?
Per le resistenze corporative di chi insegnava in questo o quell'indirizzo. E per la disattenzione della classe politica. Berlinguer aveva legiferato nella direzione giusta, ma la sua legge decadde prima di entrare in funzione. Gelmini, invece, ha una maggioranza blindata. Quanto al resto, si è limitata ad apportare aggiustamenti molto modesti per quanto riguarda l'orario, senza un ripensamento d'insieme degli obiettivi più alti che servirebbero per migliorare la scuola.
Migliaia di precari licenziati non sono proprio un aggiustamento modesto. Dice che non servono?
Certo che servono. Se hanno lavorato fino ad ora, anche senza alcun riconoscimento, e per anni, significa che senza di loro c'erano e ci saranno vuoti in organico. Abbiamo bisogno di più personale e pagato meglio, è il bilancio dello stato per la scuola che va totalmente ripensato. Ma questa è una responsabilità di noi tutti, e la causa va ricercata nello scarso impegno intellettuale e politico di chi aveva il compito di pensare un sistema scolastico moderno. E tutto il ceto politico non l'ha compreso, non solo quei malvagi del governo. Anche voi giornalisti vi occupate della scuola solo in termini emergenziali e non di prospettiva.
In Italia abbiamo la più alta percentuale di abbandono scolastico d'Europa, una media del 20% con punte del 25% al sud. Quale impegno servirebbe per invertire la tendenza? Siamo ancora in tempo o gettiamo la spugna?
Non è mai troppo tardi. Bisogna però sapere che la risposta non è solo nella scuola, ma in un nuovo sistema di educazione rivolto agli adulti. Nei decenni passati la scuola secondaria si era finalmente aperta a tutti coloro che uscivano dalle medie, così sono potuti entrare nel circuito formativo ragazzi che in casa non avevano nemmeno un libro. Questo afflusso enorme, e molto positivo, però ha messo in crisi le strutture mentali e culturali della scuola stessa, improvvisamente ci si è trovati di fronte non ai figli della borghesia ma a una realtà dove la cultura non circola.
Intende dire che stando così le cose l'abbandono è fisiologico?
Per forza. E sa come si aggredisce? Anche fuori dalla scuola. Dobbiamo deciderci a recuperare la scolarità degli adulti, questo è il vero punto debole. Lo fanno molti paesi. Perché non sarebbe possibile organizzare alcuni mesi di cicli formativi durante la vita lavorativa? Anche pagati.
Sembra che gli italiani abbiamo subìto un corso di dealfabetizzazione accelerato... solo il 20% degli adulti possiede gli strumenti minimi per comprendere un testo. E' la realizzazione della «dittatura morbida», come scrive nell'ultimo libro?
Sì. Si tratta di un'emergenza politica e democratica, con ricaschi anche nell'economia. Significa che troppi italiani non sono in grado di orientarsi nelle scelte più importanti per il paese.
Difficile che la morbida dittatura si adoperi per la rialfabetizzazione.
Eh già, a costo di sprofondare nell'argentinizzazione. Delle volte mi viene il sospetto che sia questo il motivo per cui il governo si accanisce con tanta ostinazione contro l'università.
Il 60% dei cittadini non legge nemmeno un libro all'anno. Quanta responsabilità hanno gli insegnanti? Crede che le nuove tecnologie possano essere di ostacolo?
Gli insegnanti sono parte integrante della società, anche loro sono dentro la media... La scuola dovrebbe sforzarsi di promuovere la lettura ma gli stili di vita e gli orientamenti prevalenti spingono in tutt'altra direzione, è difficilissimo invertire la tendenza. Le tecnologie possono essere molto utili, ma non dimentichiamo che solo il 50% della popolazione possiede un computer e solo il 38% naviga in internet, proprio per la scarsa propensione nella lettura. Le medie europee sono più alte.
Nei dibattiti sulla scuola il concetto di qualità è uno dei più abusati, ma cosa vuol dire, nello specifico, parlare di qualità nella scuola? Ha in mente un modello particolare?
A livello europeo sono stati indicati dei parametri di valutazione, ed è possibile fissarne alcuni sui livelli minimi di uscita: buon possesso della lingua madre, nozioni basilari di matematica, buona conoscenza di una lingua straniera. Ma soprattutto la scuola deve dare allo studente la voglia di continuare ad imparare per tutta la vita.
C'è qualcosa da salvare o salvaguardare nella scuola italiana?
Sì, ovunque si possono trovare ottimi insegnanti, a volte ne basta uno per motivare gli altri. Queste sono le isole felici, e ci sono, anche al sud. Ma tutto dipende dalla volontà degli insegnanti, quello che manca è uno standard minimo da cui siamo lontanissimi.
Faccia il ministro, anzi lo rifaccia. Punto primo del programma?
Nel '91 il manifesto mi fece la stessa domanda, e rispondo allo stesso modo. Chiederei pieni poteri economici, e poi sospenderei i diritti sindacali per cinque anni. Quando sono diventato ministro questa battuta poi me l'hanno rinfacciata... ma sa con quante sigle sindacali dovevo confrontarmi? Quarantasette... La prima battuta naturalmente è vera. Negli altri stati europei le riforme scolastiche sono sostenute in prima persona dai presidenti o dai primi ministri.
Le chiedo dei nostri politici?
Sarkozy, anche in piena crisi di popolarità, ha girato personalmente le scuole di mezza Francia. Se li immagina Berlusconi e Bersani che girano per gli istituti e si prendono la responsabilità di dire che sono disposti a stanziare un tot per la scuola pubblica? Io no, proprio non ce li vedo.
Nel suo discorso di Yaroslavl Berlusconi ha riscritto (o meglio, raccontato) la nostra storia a modo suo. Secondo lui i costituenti, preoccupati di non ricadere nel fascismo, invece di dare il potere al governo e al capo del governo lo ripartirono tra le assemblee parlamentari, il capo dello Stato e la Corte costituzionale; per tale ragione il governo non ha la possibilità «immediata» (dimenticati i decreti legge) di intervento, ma «deve far passare tutta la sua attività attraverso l'approvazione delle Camere». Le Camere sono dunque il difetto del sistema.
Nel racconto di Berlusconi c'è tuttavia una contraddizione: perché da un lato dice che «abbiamo avuto sessant'anni di vita democratica con il governo nelle mani dei partiti democratici occidentali che con alcuni difetti hanno consentito che l'Italia crescesse nel benessere in un sistema di democrazia e libertà», dall'altro dice che niente funzionava perché c'erano stati 55 o 56 governi prima del suo che in media avevano governato per undici mesi, spazio di tempo troppo piccolo per fare alcunché. Questo difetto del sistema sarebbe stato ora rimosso dallo stesso Berlusconi con l'avvento dei suoi governi e il cambio della legge elettorale; tant'è che anche gli attuali sommovimenti nella maggioranza sono piccole questioni di professionisti della politica che vogliono farsi la loro aziendina: ma di sicuro il governo durerà per tutta la legislatura.
La storia raccontata da Berlusconi comprende naturalmente il capitolo magistratura la quale nel 1993, essendo politicizzata e di sinistra, aprì la strada del potere a un partito comunista italiano non ancora democratico; per fortuna la gente chiamò lui, che era un imprenditore di fama e con il Milan aveva vinto il maggior numero di trofei della storia del calcio, e così in tre mesi l'Italia fu salva. Resta ora il fatto che la magistratura insidia la governabilità e insiste nel voler «issare la sinistra al potere»; anche a questa oppressione giudiziaria si deve porre rimedio, stabilendo che la magistratura «non deve essere un potere ma un ordine dello Stato».
L'annuncio dato da Berlusconi in Russia è dunque molto chiaro: l'errore fatto dalla Costituente è stato rimosso, c'è stato, con il suo governo e la legge elettorale, un cambiamento della Costituzione di fatto, grazie al quale c'è ormai un potere, il suo, sovrastante ogni altro potere.
Questo significa che con le prossime elezioni non solo Berlusconi cercherà la conferma del suo potere come sovrastante ogni altro potere, ma certamente cercherà di trasformare questo cambiamento istituzionale di fatto in un cambiamento costituzionale di diritto, tale per cui anche incidenti come quello provocato nella sua stessa maggioranza da Fini, non siano più possibili.
Ciò trasforma le prossime elezioni, prossime o lontane che siano, in un referendum costituzionale. Se Berlusconi di fatto indice un tale referendum, sarebbe assurdo che i suoi avversari lo disertassero, gli astenuti continuassero ad astenersi e i partiti pensassero solo a raccogliere voti per sé come se si trattasse di un normale turno elettorale. Come nel 1946, quando si votò con spirito costituente, sia per scegliere tra monarchia e repubblica sia per eleggere i membri del Parlamento-costituente, così ora si dovrà votare per scegliere tra una democrazia rappresentativa con divisione dei poteri, e una democrazia monocratica con un solo potere, ridotti gli altri a "funzioni" o ordini al servizio di questo. L'analogia col 1946 è chiara, e il Cln non c'entra. Nel '46 non si votò per decidere tra fascismo e democrazia, perché il fascismo era già stato sconfitto, ma si votò per due concezioni e due forme di democrazia, monarchica o repubblicana, autoritaria o garantista, piramidale o rappresentativa; così anche ora si tratta di scegliere tra una democrazia aziendale e una democrazia parlamentare, in cui però i parlamentari non si ingaggino e non si comprino.
Di conseguenza le prossime elezioni, se non potrà essere cambiata la legge elettorale (e faranno di tutto per impedirlo) dovranno essere affrontate in modo che la trappola predisposta dalla legge Calderoli non possa scattare. Perciò dovrebbe formarsi una coalizione costituzionale di cui facciano parte tutte le forze che, in una logica referendaria, si oppongono alla revoca della democrazia parlamentare e repubblicana. Essa dovrebbe, senza bisogno di usufruire del premio di maggioranza, ottenere complessivamente una maggioranza superiore al 55 per cento dei voti, sicché il sistema non sarebbe forzato a rappresentare quello che non c'è. È in questo spirito che Fini e Casini dovrebbero scegliere da che parte stare. Entro questa più larga coalizione (che potrebbe chiamarsi, semplicemente, «democrazia») dovrebbe essere stipulata una alleanza di governo tra i partiti convergenti non solo in una scelta di sistema, ma anche su un programma per l'esecutivo; e sarebbero questi che dovrebbero indicare quello che la legge chiama «il capo della coalizione». Si riprodurrebbe così, come nella fase nascente della nostra repubblica, una doppia e per larga parte coincidente investitura, una di tipo costituente, come quella che si realizzò nell'Assemblea costituente del 46-47, e una di tipo esecutivo, come quella che si concretò con la fiducia, accordata con diverse maggioranze, ai governi De Gasperi.
In tal modo la democrazia costituzionale verrebbe salvaguardata e rinvigorita, e potrebbe nel contempo essere ripresa una normale, efficiente e sobria attività di governo per gli interessi e i bisogni degli italiani tutti, e il ripristino del loro ruolo nel mondo.
Raniero La Valle è Presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione
Dunque pare che secondo l'onorevole Giorgio Stracquadanio, uno di quelli che dice sempre la verità profonda del berlusconismo, prostituirsi per fare carriera politica non sia un problema: è ammesso, "legittimo" e non censurabile. Ognuno usa quello che ha, spiega il nostro, «intelligenza o bellezza», o magari tutt'e due perché non è detto che chi è bello sia stupido (e neanche il viceversa, basta guardare lui): sono fatti privati, «ognuno deve disporre del proprio corpo come meglio crede e se non c'è violenza non c'è problema». E se invece ci sono soldi, posti e potere? Domanda superflua, Stracquadanio non la capirebbe nemmeno, e del resto in casa sua (e non solo in casa sua) non la capisce nessuno dal velina-gate in poi. Ma l'improvvida uscita dell'onorevole è un'ottima sintesi della concezione della libertà targata Berlusconi e quindi tanto vale insistere. Fra la libertà di disporre del proprio corpo e la libertà di venderlo per averne in cambio posti, favori e carriere c'è di mezzo il mare, un mare che si chiama mercato, denaro, scambio di potere fra diseguali, ricatto. Non solo non è la stessa cosa, ma le due cose neanche si toccano: si escludono. Da una parte c'è il desiderio, dall'altra la forma di merce, e fra desiderio e forma di merce sarebbe il caso di ricominciare a fare qualche distinzione: a sinistra potrebbero provarci, invece di cadere ogni volta, quest'ultima compresa, nella trappola del derby fra disinvolti e moralisti.
Fra le molte coliche e contorsioni in cui si dibatte il berlusconismo morente, ce n'è una quasi incomprensibile, l'ostinata compulsione a battere e ribattere sul tasto della sessualità, che è esattamente quello che ne ha firmato la condanna a morte. Il premier e le veline candidate, il premier e il sesso a pagamento, il premier e il «ciarpame politico» delle «vergini che si offrono al drago»: cominciò tutto da lì, vale ricordarlo, non da Gianfranco Fini. Eppure lo stesso premier batte e ribatte compulsivamente ancora su quel tasto, come fosse un tasto imprescindibile del suo armamentario populista. Ormai tanto visibilmente provato nell'immagine quanto disorientato sul da farsi, domenica, alla festa di Atreju, quell'armamentario l'ha tirato fuori tutto, come in una prova generale della campagna elettorale prossima ventura. Un'autocitazione dietro l'altra dai suoi discorsi del '94 e seguenti, come se l'Italia si fosse fermata al suo avvento: il libro nero del comunismo, gli ammiccamenti al nazismo in salsa di barzelletta, il monumento a se stesso come esempio e prospettiva di vita per i giovani, il Pdl come «popolo» e non partito, i giornali da evitare come la peste...e dentro questo album di foto stantìe la più stantìa di tutte, la sua foto di conquistatore ricco, intraprendente e irresistibile. «Io c'ho la fila di quelle che mi vogliono sposare: sono simpatico, ho un po' di grana, la leggenda dice che ci so fare, e in più pensano che sono vecchio, muoio subito e loro ereditano». Pensano ma si sbagliano, perché lui è sempre lo stesso e le sua gag sono sempre le stesse, compresa quella irrinunciabile di chiedere il numero di telefono a una ragazza che prova a fargli una domanda politica.
Ridicolo. Compulsivo. Consunto. Decrepito. Eppure, lo sappiamo, Berlusconi ha sempre una carta di riserva, che sta sempre fuori dal mazzo della politica. E non va affatto sottovalutata la sua frase di domenica portata in prima pagina da «Libero» di ieri, «Largo ai giovani e alle donne», che potrebbe preludere, e non è la prima volta che si dice, a un'investitura della figlia Marina alla successione. Indirettamente avvalorata, secondo il quotidiano, dalle ripetute interviste rilasciate al «Corriere della Sera» negli ultimi mesi dalla stessa Marina. «La Principessa e la Trota», scrive «Libero» alludendo a una destra del futuro in mano ai figli di Berlusconi e Bossi: largo alle dinastie, come in ogni regno che si rispetti. Altro che posta in gioco costituzionale: mentre parlavano del legittimo impedimento stavano ripristinando la monarchia e non ce ne siamo accorti.
Ma qui non è solo questione di monarchia. Attenzione, perché è proprio da quel suo continuo e compulsivo battere sul tasto delle donne e della sessualità che Berlusconi potrebbe estrarre stavolta la carta fuori mazzo: una donna candidata premier al posto suo. La figlia o chi per lei. Altro che ciarpame politico, altro che le veline a Strasburgo, altro che i festini e le farfalline di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa: passerebbe alla storia come il primo uomo politico italiano che ha ceduto il passo a una donna. Un vero Cavaliere. E un vero schiaffo alla sinistra, l'ennesimo.
Gli anniversari dell'11 settembre si seguono ma non si somigliano. Ne abbiamo celebrati tanti sotto la cappa dell'insensata guerra irachena (tanti lutti, e per che cosa?), intossicati dall'assurdo concetto di «guerra al terrore»: come si fa a dichiarare guerra non a un soggetto (un paese, un regime, un partito), ma a una tecnica di combattimento? E' quella che il generale David Petraeus chiama «guerra irregolare», una delle forme di «guerra asimmetrica», l'unica che può permettersi un nemico troppo più debole, che sarebbe annientato in campo aperto dalla schiacciante superiorità tecnico-militare degli Stati uniti.
Tanti anniversari dell'attentato alle due newyorkesi torri gemelle di nove anni fa, li abbiamo celebrati sotto un presidente degli Stati uniti, George W. Bush, che si arrogava il diritto di mettersi il diritto sotto i piedi, stracciare la carta costituzionale, gettare nella spazzatura l' habeascorpus, deridere la convenzione di Ginevra, scatenare guerre «preventive» a proprio piacimento, quasi a replicare nella geopolitica quel che il film di Steven Spielberg, Minority report, preconizzava per il sistema giudiziario (punire i criminali prima che commettano un crimine).
L'anno scorso, per la prima volta l'11 settembre è stato ricordato sotto una nuova presidenza più civile, quella di Barack Obama. Sulle ali delle speranze che aveva suscitato la sua promessa di chiudere il carcere di Guantánamo entro un anno, ritirarsi dall'Iraq, finirla con le extraordinary renditions (i rapimenti di civili in stati stranieri per deportarli in centri di tortura di paesi esperti in tale tecnica, come Siria, Egitto o Marocco). Era anche il primo anniversario dopo lo scampato pericolo finanziario (la banca Lehman Brothers fu lasciata fallire il 15 settembre 2008), con la disoccupazione montante, ma con l'ottimismo che il peggio fosse passato.
Quest'anno il clima è inedito. Un po' perché le speranze politiche sono appassite: la prigione di Guantánamo non è stata chiusa (né lo sarà in un futuro prevedibile); le extraordinary renditions sono continuate, solo più discrete; e soprattutto gli americani - e non solo loro - hanno la desolante sensazione di aver scambiato una guerra (in Iraq) con un'altra (in Afghanistan), in un teatro ancora più sfavorevole e più impervio, come mostrano tutti i precedenti (compreso quello sovietico negli anni '80). Un po' perché la «guerra alla disoccupazione» si rivela lunga quanto quella al terrore (anche perché combattuta con assai minore convinzione) e l'ottimismo economico ha ceduto il passo a un fatalismo ansioso, preoccupato dal futuro.
Ma soprattutto, ora sembrano essersi invertiti i ruoli: mentre per anni la società americana era meno barbara del suo potere politico, quest'anno l'11 settembre cade in un clima opposto, con una presidenza laica confrontata a un rigurgito di razzismo, xenofobia e bigottismo senza precedenti almeno dai tempi del senatore Joseph McCarthy, sessanta anni fa. Quest'estate è cominciata con l'Arizona che voleva istituire ronde di vigilantes civili contro gli immigrati clandestini dal Messico e che voleva abolire l'insegnamento dello spagnolo nelle scuole. Poi abbiamo discusso per un mese quale fosse la minima distanza «decente» da Ground Zero perché una moschea non fosse una «provocazione»: cento metri? 200? mezzo chilometro? e chi lo decide? E poi abbiamo temuto fino all'altro ieri che oggi venisse pubblicamente bruciata una pila di copie del Corano
In parte il rigurgito è alimentato dalla crisi economica: nelle depressioni il più facile espediente politico è quello di cercare i capri espiatori, i nemici (interni o esterni): in questo senso una parte della responsabilità sta nel non aver intrapreso azioni più decise contro la disoccupazione, azioni che andavano intraprese un anno fa perché potessero avere un effetto politico nelle prossime elezioni di novembre.
Ma la crisi è solo un fattore, e forse neanche il più decisivo. I veri responsabili del clima mefitico che si respira in quest'anniversario sono i leaders repubblicani «moderati», mainstream, e i loro interlocutori della grande finanza e dei mass-media, le grandi banche e gli editori come Murdoch (che possiede la rete televisiva Fox News e il Wall Street Journal alleato con il Washington Post).
Sono costoro che lanciano il sasso e nascondono la mano: deprecano «l'estremismo» dei Tea Party, ma continuano a chiamare il presidente «Imam Hussein Obama», come fa Rush Limbaugh. Osservava ieri il New York Times che già due anni fa, a Topeka (Texas) un pastore della chiesa battista di Westboro aveva proposto di bruciare il Corano, ma nessuno se l'era filato e la sua provocazione era caduta nel nulla. Quest'anno invece il pastore Terry Jones di Gainesville (Florida) ha ricevuto un'attenzione senza precedenti, tanto che per dissuaderlo a mettere in atto il suo rogo sono intervenuti nell'ordine il generale Petraeus (comandante in capo in Afghanistan), la ministra degli esteri, Hillary Clinton, e infine lo stesso presidente Obama.
Secondo il New York Times, tra luglio e agosto il reverendo Jones ha ricevuto più di 150 richieste d'intervista, esattamente con lo stesso meccanismo innescato con la cosiddetta «Moschea di Ground zero»: se una grande catena tv come Fox New dà straordinario rilievo a una notizia per quanto futile e irrisoria, nessun altro network può permettersi d'ignorarla e avvia una spirale che si autoalimenta. Succede così che un pastore che nella sua chiesa ha meno di 30 fedeli possa provocare tumulti nelle città afghane, come è successo ieri. Ma non potrebbe farlo senza il tacito incoraggiamento dell'establishment conservatore statunitense, che dimostra così di essere disposto a tutto (ma proprio tutto) pur di riprendere quel potere da cui è stato disarcionato due anni fa. Non è casuale se la furia anti-islamica divampa proprio mentre un americano su cinque crede che il presidente Obama sia un musulmano. Assistiamo qui a uno dei processi più tristemente familiari nella storia umana, quello per cui ciò che sembrava una descrizione diventa una prescrizione: così quando nel 1996 il politologo Samuel Huntington parlò di «scontro di civiltà», tutti si affannarono a obiettare all'analisi, senza vedere che la sua in realtà era una proposta che adesso riceve un avvio di attuazione. La dice lunga sull'irresponsabilità politica del Grand Old Party il fatto che nessun leader repubblicano si sia alzato per chiedere alla propria base christian conservative di darsi una calmata.
È un paradosso che proprio sotto un presidente figlio di un musulmano, per la prima volta l'11 settembre sia celebrato in un clima non di guerra al terrore, ma di guerra all'Islam, quasi a confermare la tesi di Osama bin Laden sui «nuovi crociati». Oggi il peggior nemico degli Stati uniti non si nasconde nelle grotte delle montagne afghane, ma si annida nel cuore stesso dell'America.
Nove anni sono passati dall’attentato di Al Qaeda contro il Trade Center di New York, e quello che si diceva allora resta vero: da quel giorno la storia è mutata, la convivenza con i nostri dissimili si è incattivita, nelle menti ha messo radice una passione allo stesso tempo molto antica e moderna, il risentimento. Una passione solo in parte legata agli attentati: poche settimane dopo, l’economista Paul Krugman scrisse che il maledetto imbroglio dell’Enron, rivelato nell’ottobre 2001, aveva incrinato il mondo ben più radicalmente dell’11 settembre.
Altre compagnie erano in passato fallite, ma il crollo della mitica Enron fu un trauma: «L’11 Settembre ci ha insegnato molte cose sul wahabismo, ma non molte sull’americanismo». Nel primo caso gli americani erano vittime, nel secondo perpetratori ( New York Times, 29-2-02). Il Paese aveva a lungo ingannato se stesso, immaginando che l’impresa fosse fondata sull’onestà contabile, non bisognosa di vigilanze. L’era del lassismo e della deregolamentazione finì in concomitanza con l’11 Settembre, assai prima che divampasse, nel 2007, la grande crisi. Una crisi delle illusioni, in America ed Europa, non importata dall’estero.
Il risentimento nasce in questi sottofondi melmosi, dove i pericoli interni s’intrecciano agli esterni e vengono da questi ultimi mascherati. Due guerre hanno accentuato il mascheramento (quella in Afghanistan è la più lunga nella storia Usa): lo sguardo fisso sul wahabismo ha permesso di trascurare lo sguardo su di sé, sull’americanismo.
La passione vendicatrice è antica perché rimanda alle pratiche del capro espiatorio: in tempi di malcontento, addita il diverso come responsabile dei mali patiti. René Girard spiega bene, nel libro sulla Violenza e il Sacro, come il gruppo disorientato ritrovi l’unità grazie alla designazione delle vittima sacrificale. I testi sacri sono colmi di riti simili, nonostante la cesura del cristianesimo, e nella modernità il capro prende forme diverse: dell’ebreo, dello zingaro, infine del musulmano. Ritenuto colpevole d’ogni angustia, egli ci consente di stare uniti e conciliare l’inconciliabile: la società aperta e l’intolleranza, il costo delle guerre, i consumi alti e le tasse basse.
Tanto più violento si è infiammato il rancore in America appena si è cominciato a parlare della costruzione di una moschea presso Ground Zero a New York: non una vera moschea in realtà, ma un centro studi musulmano che aspira a costruire ponti e conterrebbe cappelle ebraiche e cristiane (il nome è Cordoba House, in memoria dell’Islam andaluso del X secolo. Obama in nome della tolleranza laica l’ha approvato). L’acme della protesta è stato raggiunto in una città della Florida, quando un pastore evangelista, Terry Jones, ha annunciato di voler rompere il tabù, nell’anniversario dell’11 Settembre, organizzando il rogo di copie del Corano. Una decisione che ha allarmato politici dell’intero pianeta, e che solo all’ultimo, ieri mattina, è stata cancellata.
Ma c’è qualcosa di più sommerso in simili episodi, di inconfessato. Al torbido intreccio fra le due paure - quella del terrorismo islamico, quella della crisi economica - si aggiunge un risentimento insopprimibile, atavico, verso il primo Presidente nero nella storia americana che è Obama. Il rogo del Corano è un rogo per procura del monarca ritenuto usurpatore, straniero. Girard stesso ricorda come anche il monarca, avendo natura sacra, possa divenire capro espiatorio: non re-sacerdote che officia, ma vittima in sospeso, che il popolo si riserva di sacrificare (l’unità e la guarigione di Tebe esigono il sacrificio di Edipo; l’unità della Francia è restaurata dall’esecuzione di Luigi XVI e Maria Antonietta).
Anche nel caso di Obama l’elemento religioso-rituale pesa enormemente. Non dimentichiamo che il 31 per cento degli americani è tuttora convinto che Obama sia musulmano: una percentuale più alta che ai tempi dell’elezione. Una porzione egualmente grande pensa che comunque non sia americano, o che sia socialista o nazista. E la crisi ha dilatato questo sentimento, secernendo una fobia verso l’Islam che subito dopo l’11 Settembre non esisteva. Scrive Roger Cohen sul New York Times che solo una scintilla separa il risentimento dall’insurrezione: appena un decennio separò in Germania il rogo dei libri nel ‘33 dai forni crematori.
Ma il risentimento è un fenomeno moderno, sempre più diffuso anche in Italia, Francia, Olanda, Svizzera, Inghilterra. Ovunque ritroviamo il desiderio, fieramente esibito come politicamente scorretto, di rompere i tabù civilizzatori ereditati dall’ultima guerra. Poi ci sono i sondaggi: non sono loro, in nome dell’orda, a dire oggi che re Obama è vittima in sospeso? La Lega e Bossi sono stati i rompighiaccio. È seguita l’Olanda di Geert Wilders, la Svizzera ostile ai minareti, la xenofobia del partito Vlaams Belang in Belgio.
Ora trema anche la Germania, la nazione dove il tabù era più forte. Un esponente non minore della Banca centrale, il socialdemocratico Thilo Sarrazin, ha riscosso un successo imprevisto con un libro uscito di recente (Deutschland schafft sich ab - La Germania distrugge se stessa). Scrive che l’Islam la sta sommergendo; che esistono etnie votate a mai assimilarsi. Parla di genetica, a proposito degli ebrei, per spiegare la loro intelligenza. Licenziato dalla Bundesbank e redarguito dalla Merkel, Sarrazin resta un idolo: l’80 per cento dei tedeschi lo approva.
Alexander Stille narra la genesi di queste nuove destre, in un articolo sulla polarizzazione americana della politica ( Repubblica, 28-8-10). Racconta come questa destra trasgressiva e animata da risentimento non consideri mai i fatti ma metta al primo posto la coesione del gruppo, il giudizio dell’orda impermeabile a ogni confronto. Il tea party è un movimento di questa natura, e somiglia a tanti movimenti in Europa e alle destre nate in Italia nell’ultimo ventennio: è compatto, mentalmente predisposto alle ordalie, monade senza finestre che non si nutre di realtà ma di fantasmi. Strutturato come gregge, è autoritario e dipendente da capi-pastori carismatici.
La strategia adottata con successo dai capi-pastori potremmo chiamarla strategia della nicchia: è quest’ultima che va conquistata, più che il popolo nella sua varietà, e il braccio operativo sono i nuovi media come le televisioni berlusconiane, la rete Fox News in America, gli interstizi di Internet. Quel che conta non è raggiungere un pubblico più vasto e plurale possibile, come nei vecchi giornali nazionali. «Captare il 5 o il 10% del mercato è già un successone», scrive Stille e anche per i politici delle nuove destre americane è così: «Perdono seggi sicuri, ma in compenso raggiungono una compattezza e una coesione politica a volte invidiabili per un partito democratico viceversa sempre più diviso».
In questo il risentimento è molto moderno. È la risposta di nicchia al mondo fattosi ampio, alla democrazia imprevedibile del suffragio universale. È la triste passione di chi si trincera nel piccolo gruppo che ti cattiva e ti incattivisce. È il ressentiment descritto da Nietzsche nella Genealogia della Morale (1887): «Mentre l’uomo nobile vive davanti a se stesso con fiducia e apertura (...) l’uomo del ressentiment non è né onesto, né ingenuo, né vero con se stesso. La sua anima è strabica, il suo spirito ama i nascondigli, le vie oblique, le scappatoie; tutto ciò che è nascosto gli appare come il suo mondo, la sua sicurezza, il suo balsamo. È un esperto in fatto di silenzio, di non-oblio, di attesa, di provvisoria diminuzione di sé, di umiliazione». Nella nicchia (televisiva, giornalistica, aziendale, partitica) si compiace di sé. Talmente ferreo è il suo giudizio sulle cose del mondo, che nessun fatto lo destabilizzerà.
Dal 1992, a seguito del clima anti-partitico che si scatenò con tangentopoli, i partiti italiani hanno sistematicamente fatto ricorso all´arma del referendum e della riforma elettorale per ridare credibilità a se stessi e stabilità al sistema (essendo le due cose ovviamente correlate). Pensarono di risolvere con la tecnica elettorale problemi che erano strutturali e di sostanza, che riguardavano il rapporto di sfiducia cronico tra loro e gli elettori. La fine dei partiti di massa non è stata accompagnata da una riformulazione dei partiti che fosse capace da un lato di organizzare efficacemente la selezione della classe politica e dall´altro di ristabilire su basi laiche o non fideistiche il rapporto di fiducia con l´elettorato.
In diciotto anni nessuno dei due obiettivi è stato raggiunto: la legge elettorale che porta il nome di Roberto Calderoli ne è una prova straordinaria. Confezionata per dare una maggioranza granitica alla coalizione vincente e per sfoltire il numero delle liste e dei partiti, ha fallito su entrambi i fronti mentre ha reso cronico l´auto-referenzialismo dei partiti. Minore stabilità e più oligarchia: questo è l´esito di una legge che il suo stesso estensore giudicò pessima.
Il diritto di voto nelle democrazie moderne contiene due diritti, non uno: non solo quello di eleggere un governo, ma anche quello di mandare in parlamento rappresentanti con i quali i cittadini credono di avere una corrispondenza di idee o interessi. La democrazia moderna non è semplicemente un sistema di selezione elettorale della classe dirigente, perché attraverso le elezioni si stabilisce anche una relazione tra partecipazione e rappresentanza, tra società e istituzioni. Questo comporta che il diritto dei cittadini di godere di un´eguale opportunità di determinare la volontà politica con il loro voto dovrebbe essere accompagnato da quello di avere un´opportunità non aleatoria di formarsi e far sentire le proprie idee e infine controllare chi opera nelle istituzioni. I sistemi elettorali dovrebbero essere pensati secondo questi due grandi criteri. L´attuale sistema elettorale contraddice entrambi.
Certamente contraddice il principio di maggioranza. Scriveva Giovanni Sartori pochi giorni fa sul Corriere della Sera che dietro l´apparente logica maggioritaria l´attuale legge elettorale attua l´intento truffaldino di trasformare una minoranza elettorale in una maggioranza di governo, visto che per esempio "se Berlusconi conseguisse alle prossime elezioni il 30 per cento del voti, e se nessun altro partito o coalizione arrivasse a tanto (al 30 per cento), Berlusconi otterrebbe alla Camera il 55 per cento dei seggi". Chi volle questa legge usò l´argomento della governabilità e del superamento della frantumazione partitica nel Parlamento: come vediamo in questi giorni, la coalizione che ha goduto del premio di maggioranza è tutto fuorché stabile mentre il numero dei partiti in Parlamento resta alto comunque. In sostanza, la legge non si è rivelata soddisfacente nel garantire il primo dei due diritti contenuti nel diritto di voto: quello di formare una maggioranza. Che cosa dire dell´altro diritto, quello dei cittadini di essere rappresentati?
Una critica costante a questa legge è di mortificare "la soggettività degli eletti": dovendo costruire coalizioni pre-elettorali, la soggettività del candidato e l´opinione che del candidato hanno i cittadini passano in secondo piano. Una prova della irrilevanza del merito del candidato sta nelle liste bloccate, per cui l´elettore si limita a votare solo per delle liste di candidati, senza la possibilità di indicare preferenze. L´elezione dei parlamentari dipende completamente dalle scelte e dalle graduatorie stabilite dai partiti. Con l´aggiunta, non irrilevante, che a guadagnarci non sono i partiti – se per partiti si intende l´intera struttura di appartenza politica, centrale e periferica, di iscritti e attivisti - ma sono invece le segreterie. Le liste bloccate sono funzionali alle segreterie o, dove il personalismo è centrale, al capo.
Come si legge nel testo dell´appello promosso da Giustizia e Libertá e Valigia Blu (un appello che ha ottenuto più di quindicimila firme), "l´attuale Parlamento è dunque composto da parlamentari ‘nominati´ e non eletti: è questo il più grave vulnus alla Repubblica parlamentare disegnata nella nostra Carta costituzionale".
Si potrebbe insinuare che con questa legge elettorale un ceto politico ha voluto corrazzarsi per sopperire alla propria debolezza di legittimità, e quindi non rischiare di rimettersi alla scelta da parte dell´elettore. Partiti che si auto-nominano sono una violazione della democrazia come lo sono tutte le organizzazioni oligarchiche, gruppi di potere che, ce lo aveva spiegato un secolo fa Gaetano Mosca, cercano di perpetuare il loro stato. Per questo scopo non c´è metodo migliore della cooptazione, della nomina d´autorità, il che equivale a togliere la possibilità di scelta a coloro che, i cittadini elettori, dovrebbero essere invece i depositari della sovranità. Con tutto il parlare che fanno i leader del Pdl del valore della sovranità popolare, come motivano questo esproprio? Non è forse vero che questo sistema elettorale soddisfa la loro idea di democrazia populistica per cui al popolo sovrano è riservato un unico potere: quello di acclamare o di ratificare la volontà del capo? Libertà apparente e sovranità di ratifica!
In conclusione, nessuno dei due diritti che il diritto di voto esprime, viene soddisfatto dall´attuale legge elettorale: non quello che si traduce in governabilità né quello che pertiene alla rappresentanza. Dopo un quindicennio di mutamenti normativi e di referendum ci troviamo al punto in cui il deficit di democrazia si traduce in un deficit di stabilità. Che senso ha persistere con una legge che non riesce a soddisfare neppure la logica del ‘tanto peggio/tanto meglio´? Con una legge che non riesce a mantenere nessuna delle promesse fatte, che anzi le rende addirittura utopistiche?
Paesaggio, l'ennesimo assalto. Una legge a misura dei privati
Stefano Miliani
Tettoie, antenne paraboliche, un balcone da sistemare, il box auto, pannelli fotovoltaici. Piccoli lavori, non sempre tanto lievi. Per chi vuole eseguirli a casa o nella villetta tutto diventa più semplice. Anche in zone paesaggistiche che scatenano la retorica del Belpaese dalla bellezza ormai sempre più compromessa e attaccata. Entra in vigore oggi 10 settembre la «semplificazione” per piccoli interventi. Lo fissa il Dpr numero 139 di questo 2010. Un provvedimento che non in teoria ma in sostanza bypassa - scusate il verbo - chi ha in carico i beni culturali. Proviamo a spiegare perché. Per richiedere il permesso per una quarantina di interventi - ci sono anche i serbatoi Gpl in superficie, ovviamente nelle campagne che cambiano l'aspetto esterno - da oggi servono meno documenti: la procedura per il sì o il no si assottiglia. Non si parla di beni vincolati: nessuno potrà mettere un balcone sul palazzo storico. Si tratta però di interventi in zone incluse nei piani paesistici (piani tuttora mancanti), queste sì vincolate, cioè di pregio, per le quali ci vuole un'autorizzazione speciale. Da ora in poi un privato non deve più superare lo scoglio della conferenza dei servizi; chiede l'autorizzazione al Comune il quale se acconsente passa la pratica alla locale soprintendenza ai beni architettonici e paesaggistici e se la risposta - vincolante - è sì, il Comune autorizza. Ma qui sta il nocciolo della faccenda. Il privato deve avere risposta entro 60 giorni di cui appena 25 a disposizione della soprintendenza. Altrimenti non scatta automaticamente il «sì» (il famigerato - per i beni culturali - silenzio-assenso), scattano sanzioni su funzionari e dirigenti.
Gli interventi.
Si parla di lavori all'esterno su case e villette. Converrà rammentare che l'ultima manovra finanziaria vieta ai dipendenti dei beni culturali di usare la propria auto con rimborso spese (il 22 ci sarà una protesta ma al ministero studiano come ottenere una deroga analoga a quella strappata dal Demanio), perciò i sopralluoghi restano, spesso, una chimera o prendono giornate. E con le soprintendenze a corto di persone 25 giorni sono una beffa. Paola Grifoni, soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna, Modena e Reggio Emilia, descrive bene una situazione-tipo: «Con 10 architetti su 3 province e un territorio immensamente tutelato nel mese scorso abbiamo avuto 1.200-1.400 richieste. Abbiamo 5 geometri e una totale carenza di personale amministrativo. Tanti funzionari portano il lavoro a casa: c'è già una miriade di interventi da controllare al di là delle nostre forze. Questa semplificazione è fatta per il privato, 25 giorni è un tempo semplicemente impossibile. E non è vero che la norma riguarda solo interventi piccoli: gli impianti fotovoltaici non lo sono. Aggiungo che se annulliamo l'intervento del privato dobbiamo avvisarlo che è iniziato il procedimento e dirgli perché, lui ha 10 giorni per replicare, se il Comune non risponde il cittadino si rivolge direttamente a noi per cui, anche se spesso vediamo le cose in modo diverso dai Comuni, non c'è neppure quel filtro della commissione edilizia comunale. E’ un nubifragio per il nostro territorio, siamo sconcertati».
Caterina Bon Valsassina, direttore regionale ai beni culturali della Lombardia, vanta esperienze da soprintendente in più zone d'Italia: «Questa norma non va letta isolatamente. Ad esempio una modifica del luglio scorso, fatta dal ministro Brunetta, riduce a 30 giorni le scadenze per procedure non indicate precisamente nel Codice dei Beni culturali. E non potendo andare in macchina nei luoghi vuol dire non poter fare tutela. La sola Lombardia ha 1500 Comuni. E un architetto della soprintendenza milanese da solo deve affrontare 100 pratiche al mese. Non può. Non abbiamo le forze per affrontare questa incombenza. Il provvedimento è un modo per mantenere le norme del codice dei beni culturali ma svuotarle». Basti segnalare che la soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano (copre l'intera Lombardia escluse solo Brescia, Cremona e Mantova) ha 14 architetti (di cui 6 nuovi arrivati di fresco), 2 capi tecnici e un assistente tecnico geometra. La mole di lavoro? Nel 2009 ha sbrigato 24mila pratiche di tutela paesaggistica e 14mila di tutela architettonica. Fate voi... Il consiglio superiore dei beni culturale valutò negativamente questa semplificazione. E il Codice è un buon impianto. Il guaio è che mancano i piani paesaggistici regionali. E non rischiano i luoghi sotto i riflettori nessuno monterà una parabolica in piazza del Campo a Siena o in San Marco a Venezia ma il resto.
Anna Marson è l'assessore regionale all'urbanistica in Toscana. a già dimostrato di avere a cuore l'ambiente e di non accettare scempi. «Qui, come altrove, nemmeno tutte le sedi provinciali delle soprintendenze hanno un soprintendente proprio ma ad interim. Dalle prime richieste dei Comuni che sono 287 - sembra non esserci sufficiente chiarezza sulla procedura, se serva modificare la legge regionale o se c'è solo obbligo di sentire le soprintendenze. I Comuni sono in allarme e provvedimenti come questi, se non inseriti in modo chiaro nel contesto normativo, rischiano produrre l'effetto opposto. Magari per non rischiare sanzioni i professionisti locali preferiranno procedimenti più lunghi e costosi». La semplificazione per ora non investe le regioni a statuto autonomo. Avverrà dopo aver verificato com'è andata altrove. In Sardegna, a Cagliari in tre mesi (stima di luglio) avevano ricevuto 4mila progetti per valutazioni paesaggistiche con un solo addetto per acquisire i documenti da consegnare agli architetti. Gabriele Tola, ingegnere, soprintendente ai beni architettonici di Cagliari, Oristano, Sassari e Nuoro, osserva: «Se slegata a una verifica degli organici questa riduzione dei tempi diventa una favola. Potevano mettere anche 10 giorni, le soprintendenze non sono in grado di farcela. Per tutta la Sardegna riceviamo 12-13 richieste di nulla osta al giorno con 7 tecnici che si occupano del paesaggio». Regioni come la Liguria non se la passano meglio. E non è per aggiungere sale alla ferita. .. .”
L'Italia, paradiso per gli abusivi
Vittorio Emiliani
I1 governo Berlusconi non fa nulla di positivo per il Paese. In compenso procede risoluto nello svuotamento di quel po' di Stato residuale. Adesso sfibra ancor pi la rete delle Soprintendenze invidiata e imitata all'estero (prima di Urbani e Bondi). Tagli feroci l'hanno intaccata e messa in condizione di lavorare il peggio possibile. Come la giustizia, la cultura, l'arte, la musica, il teatro, il cinema di qualità, la scuola di ogni grado, la difesa idro-geologica, la sanità, o i treni dei pendolari, e così via. Da oggi le Soprintendenze tutrici del paesaggio (spesso straordinario, malgrado tutto), gravate di compiti e impoverite di tecnici, patiranno nuove difficoltà: per semplificare le procedure, il duo Berlusconi-Bondi impone loro di dare - per ora nelle Regioni a statuto ordinario, fra sei mesi nelle altre - il previsto parere su 39 interventi privati di lieve entità in appena 25 giorni di tempo. Il che equivale dire ai privati fate quello che vi pare : si calcola infatti che, già prima di questa misura (che riguarda l'installazione di pannelli solari, di antenne paraboliche, di tettoie o di porticati, cose tutt'altro che minime), architetti e ingegneri pubblici avessero ben 4-5 pratiche al giorno da sbrigare. Da oggi si rovescia sui loro tavoli un'altra marea di carte, di progetti spesso scadenti e insidiosi. Mentre più aggressivi risultano i ladri di paesaggio.
Nel contempo Lombardia, Veneto e altre Regioni (la Lega è per una totale deregulation ) si sono date norme urbanistiche molto permissive grazie alle quali si finirà di cementificare la più devastata delle pedemontane italiane, quella che corre dalla collina, ieri meravigliosa, delle Ville venete a quella, non meno splendida un tempo, della Bergamasca, della Brianza e dei laghi. Un massacro. Difatti rischia di chiudere per mancanza di fondi il Parco regionale dell'azzurro Ticino istituito nel 74 con una legge d'iniziativa popolare. Dov'è finita la civiltà lombarda? Da mesi il Ministero nega ai suoi tecnici i rimborsi (modestissimi) per le missioni sul territori dove visitano cantieri, realizzano o seguono nuovi scavi archeologici. Non ci sono auto di servizio e per il mezzo privato non viene più consentito. Niente missioni, niente controlli, niente scavi. Un paradiso per abusivi, criminali, tombaroli. Tocco finale: il decreto Brunetta sui 40 anni di anzianità manda in pensione spesso a 62 anni i Soprintendenti più preparati, moltiplica gli interim , cioè indebolisce tutela, ricerca, promozione di attività. Di contro trionfa il feticcio, l'uso sfrenatamente commerciale dei capolavori, il mostrificio , un quadro singolo esposto per pochi giorni magari con pornostar (a Venezia per Giorgione). Festa, forca (o meglio, sorca) e farina.
Via la Dia, arriva la Scia. Non è un gioco di parole ma un’altra norma approvata nella manovra Tremontii a fine luglio che permette ai costruttori di avviare cantieri, senza autorizzazione, senza dichiarazione ma con una semplice Segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A) E solo dopo, nei sessanta giorni successivi le amministrazioni pubbliche potranno intervenire a fermare i cantieri, se riscontrano difformità con le norme, con l’antisismica, con i piani regolatori, con i regolamenti edilizi, quando ormai il danno è già costruito e lo scempio già in piedi. La Scia è stata alla fine esclusa per le aree vincolate ma solo a seguito della campagna delle associazioni ambientaliste e delle proteste di autorevoli intellettuali.
Ma resta la gravità di una norma che aumenterà abusi, sprawl urbano, periferie informi e scarsa qualità edilizia: un altro tassello dell’aggressione sistematica al territorio, alle città, al suolo agricolo ed al paesaggio.
La Dia consentiva di presentare i progetti e di attendere un tempo (diverso tra le diverse regioni) entro il quale se l’amministrazione non interveniva, scattava il silenzio assenso ed i cantieri potevano essere avviati. Con la Scia invece i cantieri partono nello stesso momento della segnalazione e l’intervento dell’amministrazione pubblica è a cantiere aperto, molto più difficile da attuare, stante anche i tagli che gli enti locali hanno subito nella stessa manovra Tremonti, con l’impossibilità di potenziare uffici e personale per la vigilanza ed i controlli. Senza dimenticare che solo pochi mesi fa era stata abolita la Dia per tutte le opere interne, anche quelle rilevanti, come se non fosse indispensabile un minimo di controllo almeno per la parte che riguarda la sicurezza, le norme antisismiche ed il patrimonio tutelato.
Resta da capire come la norma impatterà con le regioni e la loro autonomia in materia urbanistica, se vi saranno ricorsi o adeguamenti normativi regionali. Anche la positiva esclusione delle aree vincolate che comprende il 47% del territorio italiano, non fa i conti con la mancanza di piani paesistici in attuazione della legge Galasso da parte di diverse regioni che rende inapplicabili le tutele. E con il fatto che la stessa manovra Tremonti riduce del 50% le risorse per i parchi italiani (nel 2009 erano già scarse pari a 54 milioni di euro), che sono circa il 10% del territorio italiano, dandogli un colpo mortale e mettendoli nella impossibilità di vigilare sul proprio patrimonio naturale ed ambientale.
Nella stessa legge si semplificano ulteriormente le procedure per la Conferenza dei servizi, come ha denunciato il Wwf, indebolendo le amministrazioni preposte alla tutela per l’ambiente e la salute, incluse le Soprintendenze già alle prese con tagli del personale e l’introduzione dell’autorizzazione paesaggistica semplificata prevista per interventi di lieve entità, che rischia di allentare tutti i controlli. E’ la controriforma che cerca di mettere in un angolo uno degli ultimi baluardi preposti alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico, che dal 1 gennaio 2010 aveva visto aumentare i poteri delle Soprintendenze con la nuova disciplina di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Ed è sempre la stessa norma Tremonti approvata a luglio che consente l’accatastamento di case “fantasma” che secondo l’ultimo censimento dell’Agenzia del territorio sono 2.868.000 unità immobiliari: facile immaginare non si sia trattato solo di evasione delle tasse ma anche di abusivismo edilizio.
Già il provvedimento sul federalismo demaniale, voluto dalla Lega, approvato da governo e parlamento, con il voto favorevole dell’Idv, consentirà vendita e valorizzazione di un patrimonio comune in modo diseguale tra le diverse regioni, e visti i problemi di cassa delle istituzioni locali, aumenteranno cubature e speculazioni, come già è successo con gli oneri concessori destinati alla spesa corrente e non più solo a opere di urbanizzazione nelle periferie e nelle nuove aree di intervento edilizio. Non solo, come ha sottolineato Sauro Turroni, ex senatore verdeiii, vengono anche ignorati gli effetti sul demanio fluviale, dove di fatto si smembrano le autorità di bacino, assegnando i fiumi “affluenti” e di modeste dimensioni agli enti locali, che potranno autorizzare escavazioni di sabbia e ghiaia (materia prima per il cemento!). In questo modo si distrugge anche il principio della gestione unitaria dei fiumi e delle acque, ottenuto con tante battaglie nel 1989, con la Legge 183 per la difesa del suolo.Norme che aggraveranno una situazione già degenerata, aumentando il consumo di suolo, le periferie degradate senza identità e servizi, la perdita di bellezza e di storia millenaria del nostro straordinario patrimonio italiano.
Utile e ben documentato è il dossier recentemente presentato da Legambiente “Un’altra casa? Il diluvio del cemento ed i problemi delle città italiane” iv, che fa non solo fa il punto sul consumo di suolo degli ultimi 15 anni, ma sottolinea anche i problemi di accesso alla casa che vivono molto cittadini, la crisi in atto nell’edilizia con 15.000 imprese che hanno chiuso i battenti, la pessima qualità del costruito, avanzando proposte concrete per un cambiamento positivo degli anni a venire. Si propongono regole per fermare il consumo di suolo, costruire edilizia di qualità e sociale, riqualificare quella esistente, demolire e ricostruire quella fatiscente, realizzare servizi ed infrastrutture per la riqualificazione urbana. Secondo Legambiente sono 4 milioni le abitazioni costruite tra il 1995 ed il 2009 per oltre 3 miliardi di metri cubi, che si può stimare oggi abbia superato in Italia i 21.000 chilometri quadrati (il 7%), con un incremento annuo di circa 500 km quadrati, più o meno come tre volte la superficie del comune di Milano. Un milione di case sono vuote, risultato di una speculazione edilizia che non soddisfa la domande di case per giovani, anziani ed immigrati, in un paese che ha il primato europeo dell’abusivismo edilizio e dove la deregulation totale del settore è l’unica risposta del governo Berlusconi, mentre nel resto dell’Europa si va nella direzione opposta.
Vorrei sottolineare il punto di vista di Legambiente, che ritiene che il tema “casa” e più in generale le questioni edilizie ed urbanistiche, non possano essere risolte a livello locale e comunale, ma che servano livelli superiori come le regioni, per vigilare, operare e dare slancio alle nuove idee di riqualificazione. Lo sottolineo perché mi pare una novità per Legambiente, che aveva storicamente visto nel decentramento un elemento positivo di responsabilità. Che purtroppo spesso non funziona e che è diventato un “padroni a casa nostra” per aumentare la scia del cemento e dell’asfalto, l’altra faccia della Legge obiettivo che esclude gli enti locali dalle decisioni.
Il Dossier Legambiente raccoglie anche molti dati disaggregati per regione su consumo di suolo, patrimonio edilizio e disagio abitativo, ed anche molte storie di ordinaria speculazione edilizia e consumo di suolo sparsi ad ogni latitudine dell’Italia.
Tempi duri dunque per ambiente territorio e paesaggio, ma si moltiplicano anche reazioni civili ed iniziative locali, oltre al lavoro di associazioni ambientaliste, per la tutela della bellezza e del paesaggio. E’ una positiva novità, anche se per ora non c’è ascolto dalla politica e nelle istituzioni, ostaggio della cultura della cementificazione. Basta leggere il libro appena pubblicato “La Colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia ed il suo futuro” curato da Ferruccio Sansa e scritto da diversi autoriv che raccoglie dal nord al sud, da destra a sinistra, la febbre del mattone, del cemento e dell’asfalto, ma anche le indignate reazioni di cittadini, associazioni e comitati, per contrastare il degrado, il consumo di suolo, la perdita di bellezza ed identità, per avere una visione chiara di quanto sta accadendo.
O seguire da vicino il prezioso lavoro di Edoardo Salzano, con il sito Eddyburg.it, che raccoglie quotidianamente articoli, recensioni, iniziative, proposte su urbanistica, società e politica (urbs, civica, polis) con molte antenne sul territorio, i progetti devastanti, le regole deformate, impegnato a contrastare il degrado e l’esclusione, promuovendo la cultura dell’abitare e del governare il territorio.
C’è indignazione e partecipazione nel Paese reale contro questi scempi e questa cultura del cemento e si moltiplicano documentari , dossier, gruppi su Facebook, seminari, scuole estive, rete di cittadini. Da oltre un anno è stato lanciato il manifesto nazionale del movimento Stop al consumo di territorio, partito dalla preziosa esperienza di Domenico Finiguerra, sindaco del Comune di Cassinetta di Lugagnano, che ha adottato un Piano Regolatore/Territoriale a “crescita zero”. Un movimento in reteviii che raccoglie esperienze ed iniziative reali di impegno contro il consumo di suolo ed il degrado del territorio e che si ritroverà a Sarzana il 18 e 19 settembre, per mettere a fuoco le future iniziative comuni.
Il contratto nazionale di lavoro dovrebbe svolgere due funzioni fondamentali: perseguire una distribuzione del Pil passabilmente equa tra il lavoro e le imprese, e stabilire quali sono i diritti e i doveri specifici dei lavoratori e dei datori.
Diritti e doveri al di là di quelli sanciti in generale dalla legislazione in vigore. La disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici da parte di Federmeccanica compromette ambedue le funzioni, a scapito soprattutto dei lavoratori. Caso mai ve ne fosse bisogno. I redditi da lavoro hanno infatti perso negli ultimi venticinque anni almeno 7-8 punti sul Pil a favore dei redditi da capitale (dati Ocse). Perdere 1 punto di Pil, va notato, significa che ogni anno 16 miliardi vanno ai secondi invece che ai primi. Questa redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto ha impoverito i lavoratori, contribuito alla stagnazione della domanda interna, ed è uno dei maggiori fattori alla base della crisi economica in corso.
Quanto ai diritti, sono sotto attacco sin dai primi anni ´90 e la loro erosione ha preso forma della proliferazione dei contratti atipici che sono per definizione al di fuori del contratto nazionale. Per cui lasciano ai datori di lavoro la possibilità di imporre a loro discrezione, a milioni di persone, quali debbano essere le retribuzioni, gli orari, l´intensità e le modalità della prestazione, e soprattutto la durata del contratto.
Si potrebbe obbiettare che il contratto dei metalmeccanici riguarda solo un milione di persone, su diciassette milioni di lavoratori dipendenti. Ma non si può avere dubbi sul fatto che altri settori dell´industria e dei servizi seguiranno presto l´esempio di Federmeccanica. Dietro la quale è sin troppo agevole scorgere non l´ombra, bensì il pugno di ferro che la Fiat sembra aver scelto a modello per le relazioni industriali.
Le conseguenze? Ci si può seriamente chiedere come possa mai immaginarsi un imprenditore o un manager, e come possa sostenere in pubblico senza arrossire, di riuscire a competere con i costi del lavoro di India e Cina, Messico e Vietnam, Filippine e Indonesia, cercando di tenere fermi i salari dei lavoratori italiani mentre li si fa lavorare più in fretta, con meno pause e con un rispetto ossessivo dei metodi prescritti. Magari a mezzo di altoparlanti e Tv in reparto, come già avviene in aziende del gruppo Fiat. Allo scopo di competere con tali paesi bisognerebbe produrre beni e servizi che essi non sono capaci di produrre, o perché sono altamente innovativi, oppure perché sono destinati al nostro mercato interno. Ma per farlo occorrerebbe aumentare di due o tre volte gli investimenti in ricerca e sviluppo, che ora vedono l´Italia agli ultimi posti nella Ue. Affrontare una buona volta il problema dello sviluppo di distretti industriali funzionanti come fabbriche distribuite organicamente sul territorio, tipo i poli di competitività francesi o le reti di competenze tedesche. Accrescere gli stanziamenti per la formazione professionale, le medie superiori e l´università, invece di tagliarli con l´accetta come si sta facendo.
A fronte di ciò che sarebbe realmente necessario per competere efficacemente con i paesi emergenti, la guerra scatenata da Fiat e Federmeccanica al contratto nazionale di lavoro è un povero ripiego. Che farà salire la temperatura del conflitto sociale. Per di più impoverirà ulteriormente i lavoratori, che così acquisteranno meno merci e servizi, abbasseranno gli anni di istruzione dei figli e dovranno andare in pensione prima perché non possono reggere a un lavoro sempre più usurante. Fa un certo effetto vedere degli industriali che nel 2010, a capo di fabbriche super tecnologiche, si danno la zappa sui piedi.
In una ben ordinata repubblica la bagarre istituzionale montata intorno al Presidente della Camera dei deputati sarebbe impensabile. Ma dalle nostre parti si inventa ogni giorno una qualche "costituzione materiale", sì che siamo obbligati non solo a richiamare i dati costituzionali corretti, ma soprattutto a segnalare le forzature e i rischi grandi delle pretese di questi giorni, che tendono, una volta di più, ad eliminare persone e istituzioni che sono percepite come intralci sulla strada sempre più accidentata della ormai sconquassata (ex?) maggioranza di governo.
La prima considerazione, allora, richiama una tecnica ben conosciuta in politica, quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l´attenzione dalle difficoltà reali. Prigioniera di scandali gravi, falcidiata dalle inevitabili dimissioni di due ministri, sconfitta in Parlamento su questioni come quella della legge bavaglio, incrinata nel collante finora rappresentato dal potere assoluto di Berlusconi, la maggioranza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008 sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico su Gianfranco Fini, concentrato di tutti i mali, sì che, una volta caduta la sua testa, si tornerebbe nel migliore dei mondi.
Ma questa non è soltanto una impostazione palesemente pretestuosa. Com´è altre volte avvenuto in questa sciagurata stagione politica, l´interesse di breve periodo di una persona o di un gruppo non esita di fronte alle spallata istituzionale, proseguendo in una strategia che sta riducendo il nostro sistema ad un cumulo di macerie. Elementari regole di diritto parlamentare dovrebbero insegnare che il presidente del Senato o della Camera non possono essere sfiduciati o essere costretti alle dimissioni. La ragione di questa regola è evidente. Solo così l´alta funzione di dirigere una assemblea parlamentare, nell´interesse dell´assemblea stessa e non di una sua parte, può essere sottratta a pressioni, non dirò a ricatti, tendenti proprio a distorcere la funzione di garanzia, che esige distacco in primo luogo dai gruppi che lo hanno eletto. Il potere di questi gruppi si esaurisce nel momento dell´elezione. Lo sanno benissimo quelli che, all´interno della stessa maggioranza, mantengono senso dello Stato e rispetto delle istituzioni, come Giuseppe Pisanu, che non a caso ha liquidato ieri con poche parole la tesi delle dimissioni necessarie del presidente della Camera. E, invece, in questi giorni è stata sostenuta la tesi, francamente eversiva, secondo la quale il presidente della Camera sarebbe "il garante dell´attuazione del programma di governo", tramutando così una carica istituzionale di garanzia in un semplice terminale della volontà governativa. Non v´è bisogno d´invocare la separazione dei poteri per accorgersi dell´improponibilità di questa tesi, che conferma la voracità proprietaria di un Berlusconi che vuole ingoiare tutte le istituzioni. Peraltro, anche i precedenti evocati con molta approssimazione, come le dimissioni di Sandro Pertini dopo la fine dell´unità socialista, provano se mai il contrario, visto che, respingendo quelle dimissioni, la Camera ribadì proprio l´irrilevanza delle vicende successive al momento dell´elezione del presidente.
A questa forzatura se ne è aggiunta una seconda, gravissima, con l´annuncio di Berlusconi e Bossi di recarsi dal presidente della Repubblica per chiedere appunto le dimissioni di Fini. Solo una sgrammaticatura istituzionale, l´ennesima? Molto peggio. I due nominati, per quanto abbiano dato infinite prove di totale insensibilità istituzionale, sanno benissimo che mai un presidente rigoroso come Giorgio Napolitano potrebbe dare il pur minimo ascolto ad una richiesta del genere. E allora? Quell´annuncio era rivolto all´opinione pubblica, per dar ad intendere che, se lo volesse, il presidente della Repubblica potrebbe porre fine a questa vicenda. Una volta divenuto chiaro che non è possibile alcun intervento di Napolitano, rimarrebbe comunque un fondo torbido, una sorta di sciagurato ammiccamento che allude ad un filo che lega presidente della Repubblica e presidente della Camera.
Non sarebbe una novità. In modo sfrontato, e di nuovo ignorante d´ogni regola istituzionale, Berlusconi accusò pubblicamente Napolitano di non essere intervenuto sulla Corte costituzionale per impedire che fosse dichiarato illegittimo il Lodo Alfano. Anche il presidente della Repubblica è percepito come un intralcio, al quale possono essere rivolte richieste "irrituali" o vere e proprie minacce, come ha fatto Bossi evocando un milione di persone che arriverebbe a Roma per imporgli lo scioglimento delle Camere.
La vicenda Fini dimostra una volta di più quanto sia profondo il malessere istituzionale. Per questo nessuna compiacenza è possibile. Non si tratta di difendere una persona, ma di recuperare quel po´ di senso delle istituzioni senza il quale la democrazia muore. Siamo ancora in tempo.
Quale che sia, e le variabili aperte sono ancora troppe per saperlo, l'effetto della decisiva scossa di Mirabello sullo sciame sismico in atto nel sistema politico italiano, l'ultima mossa di Gianfranco Fini corona il percorso di ridefinizione della destra intrapreso dall'allora «cofondatore» già al congresso di battesimo del Pdl. Fu proprio nel momento della confluenza di An nel «partito del predellino» che Fini cominciò a marcare vistosamente quella distanza da Berlusconi che domenica è diventata abissale. E allora come oggi, la posta in gioco non era e non è solo tattica: si trattava allora, e si tratta oggi, non solo di come condizionare, fino a romperlo, il gioco di Berlusconi, ma di come ereditarne l'opera, il campo e l'elettorato. Dopo la rivoluzione, l'ordine; dopo l'«anomalia» del Cavaliere, la normalità di una destra europea; dopo l'illegalità eretta a governance, la legalità eretta a bandiera; dopo il populismo, l'onore delle istituzioni. E non è affatto un caso che per il coronamento dell'opera sia stata scelta una piazza simbolica per la storia dell'Msi come quella di Mirabello. Tornare alle radici, rivendicare una genealogia, ritrovare la propria base non serviva solo a legittimare con un bagno di identità un nuovo strappo; serviva anche a ricordare a tutti, destra e sinistra, che la storia di Fini è più lunga e più radicata nel passato nazionale di quella di Berlusconi, ad uscire così definitivamente dalla tutela dello «sdoganatore» del '94, derubricandone il ruolo e presentandosi come l'erede più credibile, nel lungo periodo, di quel campo emerso dalle macerie della prima Repubblica che si chiama destra. Con una formula: l'anomalia berlusconiana passa, la normalità finiana resta.
Vero è che questa ennesima e cruciale tappa della lunga marcia per la legittimazione democratica intrapresa in quel di Fiuggi da Fini e dai suoi è costata stavolta al leader uno strappo, ancorché tardivo, ben più deciso e più decisivo dei precedenti. La nettezza dei giudizi sul berlusconismo - concezione del governo come comando, dei governati come sudditi, degli alleati come contorno - configura, con o senza nuovo partito, una separazione irreversibile dalla compagnia del Cavaliere. E la durezza dei giudizi sull'azione di governo - tagli, politica dell'immigrazione, della scuola, della famiglia, della giustizia, delle relazioni internazionali - rende pressoché impossibile, malgrado le professioni di lealtà, la tenuta del patto di maggioranza. Ricordare a Fini che di quale pasta sia fatto il berlusconismo poteva accorgersene prima, che sul predellino poteva evitare di salirci, che dell'attacco alla Costituzione poteva non farsi per quindici anni complice e connivente, che il suo distacco da Berlusconi è stato segnato da un lento e calcolato opportunismo (compresa l'abilità di farsi cacciare dal Cavaliere per poterlo accusare di stalinismo), è già diventato molto démodé nel variegato fronte politico e intellettuale di un centrosinistra che gli è grato, a torto o a ragione, per aver dato a Berlusconi quella spallata di cui l'opposizione non è stata capace. Dunque il punto non è il passato ma il futuro.
Per il futuro, a Mirabello Fini ha taciuto più cose di quante ne abbia dette. La patente contraddizione fra i giudizi su Berlusconi e le professioni di lealtà al governo lascia del tutto indeterminate le sue prossime mosse nel conflitto con gli ex alleati che inevitabilmente si inasprirà, nonché la sua futura collocazione nel ridisegno del sistema politico che sulle ceneri del bipolarismo è già cominciato. La destra normale ed europea di Fini continuerà davvero a competere di fianco a Bossi e Berlusconi, costruirà il terzo polo con Casini e Rutelli, o entrerà a far parte di quella «santa alleanza» antiberlusconiana vagheggiata da Bersani (ricavandone in legittimazione più di quanto restando a destra guadagnerebbe in voti)? Le aperture del discorso di Mirabello sulla riforma elettorale non sciolgono questo quesito, che nell'eventualità tutt'altro che remota di una accelerazione di Berlusconi verso le urne rischia di essere dirimente per capire con quanti e quali schieramenti si voterà.
C'è da sperare che il centrosinistra non ne affidi la soluzione solo alle mosse di Gianfranco Fini. E che si affretti a mettere all'ordine del giorno un altro quesito, questo: per uscire dall'anomalia della «rivoluzione» berlusconiana, basterà l'ordine di una destra normale?
Due pistole che sparano, le pallottole che colpiscono al petto, un agguato che sembra essere anche un messaggio. Così uccidono i clan. Così hanno ucciso Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, in provincia di Salerno. Si muore quando si è soli, e lui - alla guida di una lista civica - si opponeva alle licenze edilizie, al cemento che in Cilento dilaga a scapito di una magnifica bellezza. Ma Angelo Vassallo rischia di morire per un giorno soltanto e di essere subito dimenticato.
Come se fosse normale, fisiologico per un sindaco del meridione essere vittima dei clan. E invece è uno scandalo della democrazia. Del resto - si dice - è così che va nel sud, accade da decenni. «Veniamo messi sulla cartina geografica solo quando sparano. O quando si deve scegliere dove andare in vacanza», mi dice un vecchio amico cilentano. In questo caso le cose coincidono. Terra di vacanze, terra di costruzioni, terra di business edilizio che «il sindaco-pescatore» voleva evitare a tutti i costi.
Questa estate è iniziata all´insegna degli slogan del governo sui risultati ottenuti nella lotta contro le mafie. Risultati sbandierati, urlati, commettendo il grave errore di contrapporre l´antimafia delle parole a quella dei fatti. Ma ci si deve rendere conto che non è possibile delegare tutto alle sole manette o al buio delle celle. Senza racconto dei fatti non c´è possibilità di mutare i fatti.
E anche questa storia meritava di essere raccontata assai prima del sangue. Forse il finale sarebbe stato diverso. Ma lo spazio e la luce dati alla terra dei clan sono sempre troppo pochi. I magistrati fanno quello che possono. I clan dell´agro-nocerino in questo momenti sono tutti sotto osservazione: quelli di Scafati capeggiati da Franchino Matrone detto «la belva», o gli uomini di Salvatore Di Paolo detto «il deserto», quelli di Pagani capeggiati da Gioacchino Petrosino detto «spara spara», il clan di Aniello Serino detto «il pope», il clan Viviano di Giffoni, i Mariniello di Nocera inferiore e Prudente di Nocera superiore, i Maiale di Eboli.
Il fatto è che il Cilento, terra magnifica, ha su di sé gli occhi e le mani delle organizzazioni criminali che, quasi fossero la nemesi della nostra classe politica, eternamente in lotta, si scambiano favori, si spartiscono competenze pur di trarre il massimo profitto da una terra che ha tutte le caratteristiche per poter essere definita terra di nessuno e quindi terra loro. I Casalesi sono da sempre interessati all´area portuale, così come i Fabbrocino dell´area vesuviana hanno molti interessi in zona. Giovanni Fabbrocino, nipote del boss Mario Fabbrocino, gestisce a Montecorvino Rovella, un paesino alle soglie del Cilento, la concessionaria della Algida nella provincia più estesa d´Italia, il Salernitano appunto. Il clan Fabbrocino è uno dei più potenti gruppi camorristici attualmente noti e intrattiene legami con i calabresi.
Oggi le ‘ndrine nel Salernitano contano molto di più e hanno interessi che vanno oltre lo scambio di favori. Il porto di Salerno, su autorizzazione dei clan di camorra, è sempre stato usato dalle ‘ndrine per il traffico di coca, soprattutto da quando il porto di Gioia Tauro è divenuto troppo pericoloso. Il potentissimo boss di Platì Giuseppe Barbaro, per esempio, è stato catturato a dicembre 2008 mentre faceva compere natalizie a Salerno. In tutto questo, il cordone ombelicale che ha legato camorra e ‘ndrangheta porta un nome fin troppo evidente: A3, ovvero autostrada Salerno-Reggio Calabria. Nel Salernitano sono impegnate diverse ditte dalla reputazione tutt´altro che specchiata. La «Campania Appalti srl» di Casal di Principe avrebbe dovuto costruire le strade intorno al futuro termovalorizzatore di Cupa Siglia. L´impresa delle famiglie Bianco e Apicella è stata raggiunta da un´interdittiva antimafia dopo le indagini della sezione salernitana della Direzione Investigativa Antimafia. Secondo gli investigatori, l´impresa rientra nel giro economico del clan dei Casalesi ed è nelle mani di uomini vicini a Francesco Schiavone.
È così diverso oggi dagli anni ‘80 e ‘90? Di che territorio stiamo raccontando? Di una Regione dove per la gare d´appalto per la raccolta rifiuti bisogna chiamare una impresa ligure perché in Campania non se ne trova una che non abbia legami con la camorra. Nemmeno una. Se da un lato si arresta dall´altro lato non c´è affatto una politica che tenda a interrompere il rapporto con le organizzazioni criminali. L´attuale presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro, soprannominato «Gigino a´ purpetta» (Luigino la polpetta), fu arrestato nel 1984 in un´operazione contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Nel 1985 il Tribunale di Napoli condannò Cesaro a 5 anni di reclusione «per avere avuto rapporti di affari e amicizia con tutti i dirigenti della camorra napoletana fornendo mezzi, abitazioni per favorire la latitanza di alcuni membri, e dazioni di danaro». Nel 1986 in appello il verdetto fu ribaltato e Cesaro venne assolto per insufficienza di prove. La decisione fu poi confermata dalla Corte di Cassazione presieduta dal noto giudice ammazza sentenze Corrado Carnevale. Ma, come ha raccontato L´Espresso, nonostante Cesaro sia stato scagionato dalle accuse, gli stessi giudici che lo hanno assolto hanno stigmatizzato il preoccupante quadro probatorio a suo carico. Durante il processo, in aula, furono infatti confermati gli stretti rapporti che l´attuale presidente della provincia di Napoli intratteneva con i vertici della Nco (incluso don Raffaele Cutolo). Si parlava di una «raccomandazione» chiesta a Rosetta Cutolo, sorella di Raffaele, per far cessare le richieste estorsive di Pasquale Scotti, personaggio tuttora ricercato ed inserito nell´elenco dei trenta latitanti più pericolosi d´Italia. (Consiglio caldamente di fare una piccola ricerca su youtube per «Luigi Cesaro esilarante», ascolterete un monologo del presidente della provincia che sarà più eloquente delle mie parole).
Tutto questo non si può tacere. E chi lo tace è complice. Mi viene da chiedere a chi in questo momento sta leggendo queste righe se ha mai sentito parlare di Federico Del Prete, sindacalista ucciso nel 2002 a Casal di Principe. Se ha mai sentito parlare di Marcello Torre, sindaco di Pagani ucciso nel 1980 perché cercava di resistere a concedere alla camorra gli appalti per la ricostruzione post terremoto. E di Mimmo Beneventano vi ricordate? Consigliere comunale del Pci, trentadue anni, medico, fu ucciso nel 1980 a Ottaviano per ordine di Raffaele Cutolo perché ostacolava il suo dominio sulla città. E di Pasquale Cappuccio? È stato consigliere comunale del Psi, avvocato, ucciso nel 1978 sempre a Ottaviano. E Simonetta Lamberti, uccisa a Cava dei Tirreni nel 1982. Aveva dieci anni e la sua colpa era essere la figlia del giudice che andava punito. Le scariche del killer raggiunsero lei al posto del loro obiettivo. Qualcuno di questi nomi vi è noto? Temo solo ad addetti ai lavori o militanti di qualche organizzazione antimafia. Questi nomi sono dimenticati. Colpevolmente dimenticati. Come, temo, lo sarà presto quello di Angelo Vassallo. Ai funerali di Antonio Cangiano, vicesindaco di Casal di Principe gambizzato dalla camorra nel giugno 1988 e da allora costretto sulla sedia a rotelle, non c´era nessun dirigente della sinistra. Tutto sembra immobile in territori dove non riusciamo nemmeno a ottenere il minimo, l´anagrafe pubblica degli eletti per sapere esattamente chi ci governa.
Le indagini sull´omicidio di Angelo Vassallo vanno in tutte le direzioni, si sta scavando nel passato e nel presente del sindaco. Perché, come mi è capitato di dire altrove, in queste terre quando si muore si è sottoposti a una legge eterna: si è colpevoli sino a prova contraria. I criteri del diritto sono ribaltati. E quindi già iniziano a sentirsi voci di ogni genere, ma nulla tralascerà la Dda. L´aveva scritto Bruno Arpaia (non a caso nato a Ottaviano) nel suo bel libro Il passato davanti a noi, che mentre i militanti delle varie organizzazioni della sinistra extraparlamentare sognavano Parigi o Pechino per far la rivoluzione e scappavano a Milano a occupare università o fabbriche, non si accorgevano che al loro paese si moriva per un no dato ad un appalto, per aver impedito a un´impresa di camorra di fare strada.
È in quei posti invisibili, apparentemente marginali che si costruisce il percorso di un Paese. Tutto questo non si è visto in tempo e oggi si continua a ignorarlo. La scelta del sindaco in un comune del Sud determina l´equilibrio del nostro Paese più che un Consiglio dei ministri. Al Sud governare è difficile, complicato, rischioso. Amministratori perbene e imprenditori sani ci sono, ma sono pochi e vivono nel pericolo.
In queste ore a Venezia verrà proiettato sul grande schermo «Noi credevamo» di Mario Martone, una storia risorgimentale che parte proprio dal Cilento, dal sud Italia. Forse in queste ore di sgomento che seguono la tragedia del sindaco Angelo Vassallo vale la pena soffermarsi sull´unico risorgimento ancora possibile che è quello contro le organizzazioni criminali. Un risorgimento che non deve declinarsi come una conquista dei sani poteri del Nord verso i barbari meridionali: del resto è una storia che già abbiamo vissuto e che ancora non abbiamo metabolizzato. Ma al contrario deve investire sul Mezzogiorno capace di innovazione, ricerca, pulizia, che forse è nascosto ma esiste. Deve scommettere sulla possibilità che il Paese sappia imporre un cambiamento. E che da qui parta qualcosa che mostri all´intera Italia il percorso da prendere. È la nostra ultima speranza, la nostra sola risorsa. Noi ci crediamo.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
La frontiera di un sindaco di sinistra, di Luigi De Magistris
Ucciso per legalità, di Francesca Pilla
Gerardo Rosania: «Insieme contro gli abusi edilizi. Dobbiamo reagire», di Romina Rosalia.
Legambiente: «Lottava contro gli ecomostri turistici», di Adriana Pollice
Alfonso Amato: «Grazie a lui il Parco crescerà e verrà esteso», di Romina Rosolia
Campania. Un ritratto del sindaco ucciso. E del suo paese, diAngelo Mastrandrea e Adriana Pollice#l'altra
Editoriale
La frontiera di un sindaco di sinistra
di Luigi De Magistris
Bersaglio mobile che deve essere freddato a colpi d'arma da fuoco. Per punirlo, ma anche per inviare un messaggio a quanti decidono di amministrare la cosa pubblica nel solo interesse dei cittadini, contrastando la rapacità dei clan. L'uccisione di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica-Acciaroli, gioiello di un Cilento bellissimo, riconsegna al Paese un dolore purtroppo non sconosciuto e ci ricorda come la politica possa diventare il principale obiettivo delle mafie quando dimostra di essere onesta. Quelle mafie che infiltrano le istituzioni, l'economia, il lavoro, la società.
Il volto del killer armato accanto alla faccia «pulita» - e per questo pericolosissima - del business. Siedono nei cda delle società miste; partecipano alle gare per gli appalti pubblici; riescono a gestire lo smaltimento dei rifiuti, incassando commesse in modo apparentemente corretto; sfruttano per la speculazione edilizia piani regolatori confezionati ad hoc; prendono parte all'assegnazione dei finanziamenti europei, elargiti da amministratori conniventi con società controllate da prestanome o spudoratamente riconducibili a criminali. Mafie che non bussano più alla porta della politica perché è la politica che bussa alla loro: offrono voti all'aspirante sindaco o parlamentare, in cambio di un lasciapassare negli affari che le amministrazioni, soprattutto locali, gestiscono. Favorendo il crimine che li ha protetti nella corsa al potere. Quando non arrivano a inserire - ed è frequente - nelle liste elettorali uomini di fiducia, pronti a fare i loro interessi.
Può però capitare che nel paese di Gomorra e de o'sistema, ci sia qualcuno che rompe questa contaminazione illecita. Un primo cittadino che individua il rispetto dell'ambiente come punto cardine del suo operato e che, insieme alle associazioni, si impegna contro l'edilizia abusiva per la difesa delle coste, per la raccolta differenziata. In una terra in cui l'ambiente è forziere di arricchimento e di controllo del territorio per il crimine, questo sindaco non solo è dannoso per gli affari mafiosi ma addirittura offensivo. Un colpo economico, un'onta etica. A cui si risponde in un solo modo: l'esecuzione.
La politica che si fa baluardo di legalità si trasforma in bersaglio mobile delle cosche perché ne esiste un'altra che sceglie di svendersi per vantaggio, ponendosi al servizio dei boss senza contorcimenti morali. Gli amministratori locali possono essere sentinelle sul territorio e presidio capillare della giustizia, persone come Vassallo, con la schiena dritta, con la capacità di parlare alla popolazione. Lasciati soli dallo Stato, con l'appoggio delle sole forze dell'ordine e della magistratura, alcuni di loro affrontano a «mani nude» le mafie nelle periferie del Paese: un corpo a corpo che senza il Governo rischia di farsi martirio.
La battaglia a cui siamo chiamati deve avere un respiro nazionale, puntando sulla mobilitazione della società. Provvedimenti come il disegno di legge sulle intercettazioni o il processo breve, il condono edilizio e lo scudo fiscale, oppure la vendita all'asta dei beni confiscati non sono certo segnali che vanno nella direzione giusta, ma ostacoli contro l'operato coraggioso dei Vassallo d'Italia. Ora partiti e Governo devono smetterla con la retorica dell'anti-mafia, per scegliere quella della coerenza legislativa e del contrasto politico (garantendo l'occupazione regolare dove il lavoro è presidio di legalità ed impegnandosi al rispetto del codice etico nelle candidature).
La battaglia durissima, epocale contro le mafie si può vincere, ma serve volontà . E questa volontà è politica.
Ucciso per legalità
di Francesca Pilla
Angelo Vassallo, primo cittadino di Pollica nel Cilento, crivellato di colpi nella sua auto nella notte. Era atteso al Festival del cinema di Venezia. La procura: «Un omicidio di camorra». Che vuole mettere le mani sul Parco del Cilento e alza il tiro contro gli amministratori onesti
Lo hanno pedinato, seguito e bloccato, quindi hanno esploso almeno nove proiettili, probabilmente da due pistole diverse di calibro 9x21, centrandolo prima in pieno volto e poi infierendo su tutto il corpo. Colpi mortali che non hanno lasciato scampo ad Angelo Vassallo, 57 anni, il sindaco Pd di Pollica (Sa), freddato domenica sera tra le 9 e le 10:30. Il primo cittadino ambientalista, convinto paladino di tante battaglie contro gli abusi edilizi, è deceduto così mentre percorreva da solo sulla sua Audi una strada appena inaugurata proprio dal suo comune. Il suo corpo è stato ritrovato riverso sul sedile anteriore dell'autovettura che aveva il freno a mano tirato e il finestrino abbassato. Segno che Vassallo si era fermato a parlare con i suoi killer? Al momento il movente del suo omicidio, che gli inquirenti definiscono di estrema brutalità per un'area poco abituata alla violenza e oggi sotto choc, resta senza risposte.
«Se si privilegia una pista non si sa lavorare, però abbiamo due o tre cose da verificare», ha detto arrivato sul luogo del delitto il pm Alfredo Greco, a cui sono state affidate le indagini insieme al procuratore di Vallo della Lucania, Giancarlo Grippo. Poche parole che non lasciano trapelare molto, dalla pista delle beghe personali - Vassallo era contitolare di una società ittica - alle denunce a suo carico per estorsione e per reati contro la pubblica amministrazione che lo dipingerebbero come un personaggio controverso. Ma amici, compagni di partito, familiari, e i cittadini che lo avevano eletto per ben 4 volte, l'ultima lo scorso marzo, sono pronti a giurare sulla sua integrità e sembrano convinti che dietro all'agguato, viste le modalità, vi sia la mano della camorra.
Eppure Vassallo non si sarebbe confidato con nessuno, né si ha notizia di minacce o avvertimenti ricevuti negli ultimi tempi. Al vaglio dei magistrati ci sono delibere e appalti dal comune, l'ultimo più consistente riguarda il secondo lotto per la costruzione del nuovo porto di Acciaroli. «L'appalto però è stato già affidato senza problemi - spiega il vicesindaco Stefano Pisani, che a stento contiene le lacrime - per i primi lavori abbiamo avuto delle tensioni con la precedente ditta appaltatrice, ma stiamo risolvendo tutto per vie legali». E anche Pisani non si capacita di questo delitto: «Il nostro territorio è completamente libero dalla camorra. Non riusciamo a capire, né a venire a capo del movente. A noi amministratori non aveva detto niente, ma era il suo carattere, ci teneva a mantenerci fuori da certe beghe». D'altra parte non tutti sono convinti che questa splendida area nel parco del Cilento non facesse gola alla criminalità organizzata. Tra questi c'è il procuratore di Torre Annunziata Raffaele Marino, che conosceva bene lo stesso Vassallo perché da anni assiduo frequentatore di questo angolo di paradiso campano: «A me non ha raccontato di minacce ricevute - spiega - non perché sono un magistrato ma perché era nel suo carattere, molto deciso e convinto di conoscere bene la sua terra. Un portatore di legalità e credo che questa sua integrità anche un po' ingenua lo abbia reso poco guardingo verso avvertimenti che immagino abbia ricevuto. Forse ha pensato di poter risolvere le cose da solo». Marino, che qualche mese fa ha ricevuto anche una lettera di minacce con proiettili per le sue inchieste nei comuni vesuviani, ricorda come la zona di Acciaroli sia da tempo oggetto di appetiti camorristici, e non da oggi. Ad Albanella, a pochi chilometri da qui, fu arrestato nel '79 il latitante Raffaele Cutolo, poi è venuto il turno degli Alfieri-Galasso negli anni '90, fino agli interessi dei Fabbrocino, dei Nuvoletta e dei nuovi padroni della Campania, i Casalesi.
«Vassallo aveva fatto del suo comune un volano di sviluppo per tutta l'area, dove cresce l'economia turistica con costruzione di alberghi, residence, villaggi. Ovviamente le mie sono solo supposizioni, ma le modalità del delitto, la premeditazione, il fatto che sia stato seguito, che i killer fossero almeno due, mi fa pensare a un agguato di camorra», dice ancora Marino.
I magistrati ieri hanno sentito anche i familiari, la moglie Angela Amendola, che proprio domenica notte insieme al fratello di Vassallo ha scoperto il corpo riverso in una pozza di sangue, e i figli Giuseppina titolare di una enoteca e Antonio, proprietario di un ristorante. Al lavoro anche la Dda di Salerno, guidata dal procuratore Franco Roberti, che cerca di capire se il sindaco avesse subito pressioni. I suoi assessori si arrovellano su un particolare: Vassallo avrebbe dovuto partecipare alla presentazione del film di Mario Martone al festival di Venezia, «Noi credevamo», girato proprio ad Acciaroli, ma ha rifiutato all'ultimo momento inviando al suo posto l'assessore alla cultura Palladino. Un caso o una pista? Fatto sta che la presenza al Lido forse gli avrebbe evitato la morte .
GERARDO ROSANIA (SEL)
«Insieme contro gli abusi edilizi Dobbiamo reagire»
di Romina Rosalia.
Si conoscevano da anni, avevano condiviso la battaglia contro le speculazioni edilizie. Gerardo Rosania appena eletto sindaco per Rifondazione (all'epoca da solo contro il centrosinistra) a Eboli si fece conoscere per le demolizioni di quasi 500 edifici abusivi di proprietà dei clan sul litorale, a non molti chilometri da Acciaroli. Segnando una vera e propria svolta nella gestione del territorio. Ha guidato la cittadina della Piana del Sele per dieci anni, poi è stato consigliere regionale, oggi è legato a Sinistra Ecologia e Libertà. Con lui, nel 2003, la città ha ospitato oltre 2.000 persone per una grande manifestazione contro la politica dei condoni.
Si è dato una spiegazione dell'omicidio di Vassallo?
L'ho conosciuto nel 2000, ci siamo sentiti più volte sulla questione della lotta all'abusivismo edilizio e sugli interventi nelle aree demaniali costiere. Nel suo territorio era un vero problema. Angelo su questo ebbe un'intuizione: predispose un piano spiagge per disciplinarne l'utilizzo da parte dei privati. In quel periodo c'era di tutto: aree pubbliche occupate dai privati, discese a mare chiuse abusivamente. Ma lui aveva trovato il mondo di ristabilire la legalità. In sostanza riuscì a far approvare in consiglio comunale una delibera che disciplinava le procedure per aprire i lidi privati. Obbligava gli interessati a rivolgersi al comune di appartenenza per avere il primo nulla osta. Solo successivamente l'utente si sarebbe potuto rivolgere alla Regione Campania. Questo permetteva al comune di verificare l'affidabilità del richiedente, fare le dovute indagini, non ultime quelle su eventuali precedenti penali. Io provai a seguirlo. Mi beccai non poche denunce.
Quando lo ha visto l'ultima volta?
Ci siamo sentiti telefonicamente circa un mese fa. Non mi ha mai accennato a problemi o a paure o ancora a minacce ricevute. Era una persona determinata, non si faceva intimidire. Se prendeva una decisione e ne era convinto, non tornava indietro.
Lei tra il '98 e il 2001 ha ordinato ben 472 abbattimenti di edifici abusivi.
Rifarei tutto. Decidere di riappropriarsi di un'area demaniale, divisa fra gruppi malavitosi dal 1970, ha prodotto tante cose positive. In primis l'affetto e la dedizione di alcuni miei dipendenti comunali che all'epoca che curarono la mia tutela fisica. Oltre alla scorta della prefettura avevo i vigili urbani di Eboli che mi presero in custodia spontanea. Ricevetti, incredibilmente, poche minacce: qualche telefonata e lettera anonima. Operai in un momento particolarmente favorevole: molti esponenti dei clan dell'epoca erano stati arrestati e i gruppi criminali si stavano riorganizzando. Abbattevamo a lotti annuali. Il primo anno le gare d'appalto andarono deserte, e allora il prefetto D'Agostino mandò i militari.
È la prima volta che nel Cilento la camorra alza il tiro così tanto.
Se verrà confermato che si tratta di un agguato di camorra, è chiaro che in questo tragico fatto c'è un messaggio, e cioè che anche in zone come le nostre si stanno concentrando enormi interessi. Significa che spazi di business vengono annusati dalla criminalità organizzata. Spero che questo messaggio venga rigettato e che la società civile si faccia più forte, altrimenti la morte di Angelo, ma soprattutto il suo lavoro, sarà stato vano.
LEGAMBIENTE
«Lottava contro gli ecomostri turistici»
di Adriana Pollice
«I clan camorristici non sono diffusi nel Cilento, ma questo non vuol dire che non puntino a riciclare qui i loro soldi, perché sanno che è un buon investimento». A parlare è il presidente di Legambiente Campania, Michele Buonomo, dopo un'estate spesa a diffondere i dati della relazione Mare monstrum 2010, con il napoletano e casertano maglia nera e la costa salernitana invece tra le migliori del paese. «Anche senza attuare una politica aggressiva di penetrazione negli appalti, magari cominciando sotto tono attraverso grandi alberghi in una zona che sta conquistando il turismo di fascia alta, quelle megastrutture per intenderci che Angelo assolutamente non voleva». Che tipo di amministratore era ce lo raccontano quelli di Legambiente: «Un sindaco appassionato, a differenza di molti suoi colleghi, più tiepidi nelle battaglie quotidiane per l'ambiente e la legalità. Pronto ad agire anche contro le burocrazie a livello locale e nazionale. Ad esempio, con un'ordinanza aveva recintato i gigli di mare, una specie endemica molto rara che fiorisce a giugno, e poi aveva chiesto la concessione allo Stato. A luglio siamo stati a Pollica per festeggiare il primo posto su dieci per le bandiere blu del Touring. Con lui abbiamo lavorato per oltre un decennio e ogni anno abbiamo premiato il suo impegno con le 5 vele, il massimo riconoscimento di Legambiente alla tutela dell'ambiente e all'offerta turistica di qualità». La camorra però è una variabile con cui fare i conti ogni giorno, dopo i tentativi di infiltrazione da parte del superboss Mario Fabbrocino e dei potenti Nuvoletta, affiliati alla mafia siciliana: «I lavori per il porto di Acciaroli, posti barca, ristorazione, attracchi turistici e ciclo del cemento - prosegue Buonomo - sono gli affari su cui cercano di mettere le mani da sempre. Pochi anni fa la Soprintendenza di Salerno ha scoperto e denunciato un mega complesso turistico abusivo nella vicina Marina di Castellabate, sorto sotto gli occhi di tutti. Senza dimenticare l'hotel Castelsandra, nel cuore del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, in mano a prestanome del clan Nuvoletta, luogo privilegiato negli anni '80 per latitanti e faccendieri degli Alfieri, alleati con i boss di Marano, ancora in attesa di essere demolito».
ALFONSO AMATO
«Grazie a lui il Parco crescerà e verrà esteso»
di Romina Rosolia
Se gli Alburni rientreranno nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano sarà grazie ad Angelo Vassallo. Ne è convinto il sindaco di Sicignano degli Alburni, Alfonso Amato, che non lo ha conosciuto personalmente ma che ne ha sentito parlare come persona integerrima. «Non mi meraviglierebbe sapere che la sua difesa a oltranza del territorio costiero dalla speculazione edilizia gli sia costata questa fine raccapricciante». Anche Amato è di sinistra ed è vicino al sindacato di base Usb. Un anno fa ha organizzato l'accoglienza nel suo comune per gli immigrati sgomberati dalla baraccopoli di San Nicola Varco, questa estate è stato protagonista nella difesa dei migranti che si volevano sgomberare dalle case confiscate alla camorra a Capaccio.
Sindaco, secondo lei perché hanno colpito Vassallo?
La costiera cilentana ha sempre ottenuto la «bandiera blu», sintomo del fatto che il territorio è stato preservato dalla speculazione edilizia o comunque ci si è sempre battuti contro l'abusivismo, e Vassallo lo ha fatto in prima persona. Non ho, ovviamente, elementi certi ma non mi meraviglierei se venisse confermato l'agguato camorristico. Vassallo è stato uno di quei sindaci che hanno sempre difeso ad oltranza il territorio cilentano.
Non vi siete mai conosciuti eppure gli Alburni, dopo tanti anni, potrebbero essere compresi del parco nazionale del Cilento grazie a lui.
È assolutamente vero. Lui attualmente era presidente dell'assemblea del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, che è un organo interno. È riuscito ad avere il placet dall'assemblea e la proposta, votata all'unanimità, è finita in parlamento. Tutto sembra andare per il meglio, al momento, affinché il territorio degli Alburni abbia il riconoscimento che merita, e questo lo si deve a lui che ne è stato fautore.
Spesso i comuni della zona preferiscono stare al di fuori del Parco, per avere più mano libera nelle concessioni edilizie. Voi invece no.
Noi abbiamo un delegato ai rapporti con il Parco, l'assessore Cupo. I contatti con Angelo Vassallo li curava lui da quattro anni. L'ultima volta che lo ha sentito telefonicamente è stato poco prima del 29 luglio. Vassallo lo chiamò per avvertirlo che a causa di un lutto nella famiglia del presidente Amilcare Troiano, una riunione non si sarebbe più tenuta. L'assessore Cupo mi ha raccontato che Angelo Vassallo era una persona a modo, rispettabilissima e che in politica è difficile trovare uomini come lui. Il nostro delegato è rimasto sconcertato. Vassallo ha visitato Sicignano solo qualche anno fa, quando il Parco Nazionale ha elargito la prima parte di finanziamenti per il restauro del castello. Ed è grazie a lui che lo scorso anno il mio comune ha ottenuto un altro importante finanziamento dalla Regione Campania. Il progetto riguarda una strada di montagna adatta al trekking professionale. Non appena gli Alburni otterranno il riconoscimento dedicheremo questo traguardo a lui.
L'ALTRA CAMPANIA
Un ritratto del sindaco ucciso. E del suo paese
Ambiente e Slow Food, un uomo di sinistra
diAngelo Mastrandrea e Adriana Pollice
Il sindaco pescatore, il sostenitore di un Parco nazionale che in troppi hanno visto come un freno alla possibilità di edificare selvaggiamente, l'attivista che srotola una bandiera di Legambiente festeggiando la «bandiera blu» per la combinazione tra mare pulito e qualità delle spiagge e dell'ambiente, il sostenitore di Slow Food che a maggio interviene all'assemblea nazionale dell'organizzazione, il politico che strappa il porto ai privati e combatte l'abusivismo edilizio, l'uomo che sarebbe scampato al suo killer se fosse andato dov'era atteso, al Lido di Venezia a presentare il film che Mario Martone ha girato proprio dalle sue parti.
Non era una pecora bianca nella sua terra, Angelo Vassallo, ma di sicuro esperienze come la sua si contano sulla punta delle dita in una regione difficile come la Campania, e ora rischiano di subire un duro colpo. Se qualcuno voleva lanciare un messaggio, forse era indirizzato contro tutto ciò che rappresentava: una certa idea di legalità coniugata con il rispetto dell'ambiente.
Una persona di sinistra contestata solo una volta: quando firmò da sindaco il Trattamento sanitario obbligatorio richiesto dagli psichiatri per Francesco Mastrogiovanni, l'insegnante anarchico morto per edema polmonare dopo aver trascorso 82 ore senza cibo né acqua legato a un letto dell'ospedale di Vallo della Lucania, un anno fa. Una vicenda per la quale sono sotto processo 18 tra medici e infermieri.
«Ma quella è un'altra storia. Era una brava persona», dice subito Giuseppe Galzerano, agguerrito editore locale, grande appassionato di storia e storie della provincia di Salerno. E se lo dice un anarchico che ha ripubblicato le Cronache sovversive di Luigi Galleani e che si batte perché venga fatta giustizia per Mastrogiovanni bisogna credergli. Anzi, «è l'unico sindaco del Cilento che abbia visto alle presentazioni dei miei libri. A volte ne comprava anche una decina di copie per le biblioteche e per metterle a disposizione della comunità». Alla fine «lo stimavano tutti, persino chi era di un'altra idea politica poi finiva per votarlo», come spesso accade nei paesi. Tanto che alle ultime elezioni, al suo terzo mandato dopo la pausa imposta dalla legge, era stato rieletto praticamente in solitaria perché l'opposizione non aveva trovato un numero sufficiente di candidati e la lista era stata respinta.
Il paradigma dello sviluppo economico a furia di consumo del suolo e del mare, che ha portato la Campania ad avere le coste più inquinate d'Italia era stato completamente ribaltato nel Cilento. Così lo ricorda il regista teatrale Ciro Sabatino: «Viveva in una grande casa con ventisette cani che scorrazzavano ovunque, si svegliava alle sei e andava a pescare. Da amministratore, conosceva il valore del bello e cercava di improntare su questo le sue scelte. Arrivava ad andare di casa in casa per convincere i suoi concittadini a togliere l'alluminio anodizzato dagli infissi».
Un'amicizia nata dieci anni fa, quella con Angelo Vassallo, cementata con la rassegna teatrale Brividi d'estate, organizzata da Il Pozzo e il Pendolo di Annamaria Russo e dello stesso Sabatino: «Nel 2005 gli proposi di spostare gli spettacoli all'interno, nel borgo di Galdo, trasformandolo in una cittadella dei libri. Fu un successo tale che arrivò anche il premio Città slow di Slow food. Questa estate ci aveva concesso anche il Castello di Pollica per i nostri spettacoli. Sapeva comprendere il valore di una proposta culturale e intorno a questo organizzare la vita della comunità». E infatti niente autorizzazioni per karaoke, che odiava, o manifestazioni tipo Miss Italia a Pollica.
Uno degli ultimi a incontrarlo è stato Simone Valiante, sindaco di Cuccaro Vetere. Domenica aveva trascorso alcune ore con il suo omologo: «È giunto da noi intorno a mezzogiorno, poi abbiamo fatto una rimpatriata in montagna fra gli amici. Abbiamo un po' discusso di alcune iniziative da programmare per il parco nazionale del Cilento. Era sereno, nulla lasciava presagire una tragedia del genere. Ci saremmo dovuti risentire in questi giorni. E invece...»
Vicepresidente di Città slow, la rete dei Comuni coordinata da Slow food che si impegnano nel migliorare la qualità della vita degli abitanti e dei visitatori, presidente della Comunità del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, il più esteso d'Italia, Vassallo era appena riuscito a ottenere dall'Unesco il riconoscimento della dieta mediterranea quale patrimonio immateriale dell'umanità. Olio d'oliva, pomodoro fresco e mare limpido, a Pioppi si era trasferito il «teorico» della dieta mediterranea Ancel Keys per condurre le sue ricerche sulle abitudini culinarie del luogo, e qui è morto ultracentenario.
Intransigente al punto da multare chi butta le cicche di sigarette a terra con un'ammenda da 500 a mille euro, il sindaco Vassallo. «Ci vogliono da uno a cinque anni per degradarsi» ricordava a chi protestava. Paradossale, se si pensa all'immagine di una regione sporcata dai rifiuti. Quasi un altro mondo, con le antiche case in pietra ristrutturate a un passo dal mare, il porticciolo dove nel 1860 Alexandre Dumas sbarcò con un carico di armi per i garibaldini e di fronte al quale la leggenda (ma solo quella) vuole che Hemingway, gran fumatore, abbia scritto "Il vecchio e il mare". Qualcuno lo ricorda ancora seduto a scrivere di fronte al mare. Forse era un sosia, più probabilmente è una storia senza alcun substrato reale. Ma c'è chi ci crede davvero.
Dopo che decine di attori, lavoratori del teatro, professori e scrittori hanno dichiarato il proprio rifiuto a partecipare alle manifestazioni culturali di Ariel e di tutte le altre colonie, è arrivato il momento che anche gli architetti e gli urbanisti si impegnino, dichiarando pubblicamente che non lavoreranno a nessuna nuova realizzazione negli insediamenti.
La protesta avrà più rilievo di qualunque altra presa di posizione. L’architettura serve a trasformare in realtà le decisioni politiche. Architetti e urbanisti sono coloro che mettono in pratica le strategie di occupazione del governo israeliano, spostando il conflitto sul tavolo da disegno.
A differenza delle scenografie di una commedia, gli artefatti concepiti dagli architetti su un territorio poi non tornano certo in un magazzino teatrale, dopo che è calato il sipario. I loro effetti sono irreversibili. Chi traccia le linee direttrici di una piano regolatore per nuovi insediamenti si deve sentire vincolato più che mai da una precisa linea di confine nella propria coscienza.
Gli architetti controllano ogni aspetto degli insediamenti in Giudea e Samaria. Sono loro che redigono i progetti di massima delle nuove cittadine, che progettano quei quartieri residenziali dai tetti rossi di Ariel e delle altre zone, che danno forma ai loro spazi pubblici.
La nuova struttura culturale di Ariel è stata progettata da un architetto, come se si trattasse semplicemente di qualunque altro complesso, in qualunque altro luogo nello stato di Israele.
Un rapporto di B'Tselem descrive Ariel come una enclave lunga e stretta che penetra profondamente nel territorio Palestinese, spazio concepito così non certo per soli motivi di organizzazione urbanistica, ma sulla base di considerazioni politiche, la cui sostanza essenziale è di creare una fascia di interposizione a separare le città della Palestina interrompendo la continuità territoriale fra di esse.
Architetti e urbanisti non hanno certo bisogno di B'Tselem: queste cose le capiscono benissimo guardando una mappa, un progetto, vedono da soli la situazione. Sono le loro voci che si dovrebbero sentire.
Nella comunità professionale, più che in qualunque altro settore culturale, è costume diffuso separare clinicamente la pratica dalle convinzioni politiche. Una posizione di comodo che consente a molti di continuare a presentarsi come persone di sinistra, ma lavorare per la destra.
Non si è levata alcuna protesta pubblica dai ranghi degli architetti, contro la presenza di una sezione di architettura al college di Ariel College, che instillerà negli studenti l’arte di astrarsi da ciò che li circonda, in contrasto coi principi fondativi disciplinari e una corretta etica professionale.
Non si parlerà mai loro di politica. Nessuna meraviglia, dunque, che poi il paesaggio appaia come territorio intatto biblico, in cui operare liberamente e senza alcuna inibizione.
Il Ministro della Cultura Limor Livnat questa settimana chiede alle persone di teatro di lasciar da parte di dibattito politico quando si parla d’arte, si tratta raccomandazioni superflue nella comunità degli architetti, da cui il dibattito politico è costantemente escluso dalla professione, anche se poi rientra dalla finestra.
Tendenze e prospettive filtrano dall’altro lato della Linea Verde, con effetti sull’architettura nel resto di Israel più profondi di quanto non si sia disposti ad ammettere. Una protesta da parte dei nomi noti della comunità, figure dotate di fama e influenza, potrebbe trascinare con sé un più ampio movimento, restituire fiducia in sé stessa alla disciplina, ai suoi valori, e anche contribuire alla fine dei conflitti per il territorio. Architetti? Protesta? La pace è possibile.
Siamo alla ripresa della stagione politica e le forze dell'opposizione stanno ancora nei loro alloggi a scontrarsi su chi deve prendere il comando. Per fare che cosa, su quale linea, non si sa. Tuttavia, forse anche per il silenzio delle sinistre, avanza una crisi di Berlusconi. Una crisi che nasce dall'interno del cosiddetto Popolo della Libertà, che mancava e manca di qualsiasi idea forte, neppure di destra. Quel popolo era ed è solo la sommatoria degli interessi particolari degli individui e dei gruppi che ne fanno parte e dell'interesse massimo del suo leader massimo. Salvo straordinari e difficili colpi di fortuna lo sgretolamento è avviato, non si sa quando si concluderà, ma più dura più danneggia il paese.
Per tutta l'estate, specie dopo il disobbedisco dei finiani, Berlusconi ha minacciato fulmini e saette. Elezioni immediate, anche in polemica con il Presidente della Repubblica. In questo principio di settembre è molto più dimesso. Ha capitolato sulle intercettazioni e ora anche sul processo breve. Non riesce a nominare un ministro dello sviluppo e l'astuto Bossi non esita a dichiarare pubblicamente che l'amico Silvio è un premier dimezzato, che non minaccia più elezioni subito.
Adesso è scesa in campo con una nuova iniziativa l'armata dell'ing. Carlo De Benedetti. Venerdì L'Espresso dedica la copertina e un lungo articolo a Tremonti «Giulio o Giuda?» dove, non trattandosi di Gesù Cristo ma di Berlusconi, Giuda è un eroe. Subito dopo, ieri, la Repubblica ha sparato in prima pagina una lunga e ragionevole intervista sempre a Giulio Tremonti che afferma che l'emergenza è finita e adesso ci vuole «un patto con l'opposizione per ricostruire l'economia», ingegnerizzarla. L'iniziativa Espresso e Repubblica è seria perché non è isolata. La Confindustria e il mondo delle piccole e medie imprese giudicano Berlusconi un capitalista per così dire «abusivo», che ha fatto più soldi con i favori della politica - a cominciare da Craxi - piuttosto che con l'ingegneria di impresa.
Ma se la crisi di Berlusconi è a questo punto, e Fini non gli ha ancora dato spazio per nessuna uscita liberatoria, la sinistra, le sinistre, per quanto frammentate e disperse, non possono più aspettare. Vogliamo aspettare che Tremonti, come ha annunciato, cancelli l'art. 41 della Costituzione e liberi i nostri disinvolti imprenditori da ogni limite di legge alla loro libertà di iniziativa? La linea Marchionne passa per ragionevole e moderna e - segno dei tempi - la critica più forte è venuta da Cesare Romiti, l'uomo della marcia dei 40.000.
La sinistra è già messa male: se può deve svegliarsi, pensare agli italiani, Berlusconi è certamente il peggio, ma un saggio proverbio dice che il peggio è senza fine.
A Cavallerizzo di Cerzeto, comune arbereshe del cosentino evacuato per una frana cinque anni fa, la prima new town italiana. Dovrebbe essere consegnata nel 2011. Ma i cittadini si ribellano e chiedono aiuto ai comitati aquilani. Che non vogliono la delocalizzazione e manifestano davanti al centro storico blindato dalla Protezione civile
In principio fu Cavallerizzo di Cerzeto. Non c'è solo L'Aquila, infatti, nei progetti di new town che la ditta Berlusconi & Bertolaso vuole disseminare su è giù per lo Stivale. Anzi, sotto certi aspetti, la vicenda di questo borgo arbereshe del cosentino è ancor più grave del caso aquilano. Perché di Cavallerizzo ormai nessuno parla più. Tranne il manifesto e pochi altri, il resto dei media ha steso il velo della censura su una storia che è la più eloquente narrazione del degrado istituzionale e dello sfascio ambientale di un'intera regione.
Una frana disastrosa e spettacolare cinque anni orsono. Che però mantenne intatto il centro storico di Cavallerizzo. E, poi, una gestione disinvolta della ricostruzione. Si è scelta la delocalizzazione in luogo del pieno recupero del vecchio abitato. Non la rinaturalizzazione, la preservazione e la riqualificazione ambientale delle antiche case ma un nuovo agglomerato urbano da costruire a larga distanza. Una deportazione di un'intera comunità fondata su un allarmismo che trova pochi consensi nella maggior parte dei geologi nazionali. Gli abitanti di Cavallerizzo, però, non ci stanno, non si rassegnano e nutrono la speranza di vedere rinascere il loro borgo. Come un tempo, sulle stesse pietre e negli stessi luoghi. Sono riuniti nell'associazione "Cavallerizzo vive-Kajverici rron". E adesso chiedono aiuto ai comitati aquilani. Perché la restituzione delle case e dell'anima originale dei luoghi urbani lega indissolubilmente le due proteste. Di chi non accetta di abbandonarli per sempre.
Una strada tortuosa e immersa nel verde, un po' di curve, qualche vecchia casa di campagna e in fondo al sentiero vedi volteggiare i fantasmi della "cricca" intorno a un robusto cancello che spezza in due la via di collegamento tra l'antica Cavallerizzo e la vicina San Marco Argentano. Almeno duecento persone sgomberate cinque anni fa, si sono ritrovate domenica mattina per manifestare all'esterno della zona rossa che le separa dalla loro vita. Vogliono riprendersela. Puntano il dito verso la procura di Cosenza: «Hanno aperto un'inchiesta, ma non se ne sa più nulla». Sono certi che nella soluzione amara della loro drammatica vicenda pesano gli interessi dei medesimi personaggi visti in campo a L'Aquila, in Sardegna, Toscana e altrove. E domenica dall'Abruzzo infatti è giunta la solidarietà del Comitato 3,32. Lì come qui si lotta contro la shock economy. Da una parte chi vorrebbe tornare ad abitare il centro storico. Dall'altra il progetto di New Town che dovrebbe essere consegnata entro il 2011. In mezzo 70 milioni di euro spesi per affrontare l'emergenza.
Piangono gli arbereshe di Cavallerizzo, uno dei 26 centri abitati dalle comunità che nel basso medioevo immigrarono in provincia di Cosenza. Seicento anni fa furono le armate ottomane a scacciare gli albanesi dalle loro case. Oggi è la Protezione Civile a sbarrare la porta d'ingresso ai discendenti di quel popolo in fuga. «Scusi, posso andare un attimo a casa mia? Voglio recuperare un ombrellone. Se mi lascia entrare, lo piantiamo qui e potrà ripararsi anche lei. Non sente questo caldo?». La signora Chiara chiede il permesso con materna dolcezza. Secca e meccanica la replica del carabiniere: «Non è possibile, signora. Abbiamo ordini precisi». La prefettura di Cosenza è stata categorica: la gente non deve oltrepassare il cancello. Che nel frattempo s'è trasformato in bacheca parlante. Quelli dell'associazione "Kajverici Rron" (Cavallerizzo Vive) lo hanno ricoperto di documenti. C'è l'interessante lavoro di Stefania Talarico, originaria di Cavallerizzo, emigrata in America dove cura un blog tematico. Fa nomi e cognomi. Ricostruisce una fitta trama di interessi. Spiega qual è la filosofia che ha portato alla delocalizzazione e alla costruzione della new town. Al suo fianco c'è Antonio Madotto, segretario dell'associazione: «La costruzione di un nuovo paese ci è stata imposta. Non ci hanno dato scelta. L'antico abitato di Cavallerizzo, in realtà, non è mai scivolato interamente a valle, altrimenti sarebbe finito proprio sull'area dove tuttora è in fase di costruzione l'orrenda "new town". È un progetto che annienta il nostro modo di vivere. Mancano una strada di collegamento e diversi altri servizi, non c'è una Chiesa e neanche una scuola. È un quartiere popolare dormitorio di cui la Protezione Civile Nazionale si vanta, fingendo di non sapere che rappresenta la fine della nostra identità».
Rabbia contro Guido Bertolaso e quanti hanno deciso che bisognasse ricostruire Cavallerizzo di Cerzeto in un altro sito. Qui la gente conosce benissimo questa terra e i suoi mal di pancia. Sa che la frana del 2005 non si sarebbe mai verificata se nel secolo scorso l'abusivismo edilizio non avesse deviato i canali naturali. Ricorda che lo smottamento danneggiò soltanto l'11% dell'abitato, ma il restante centro storico è ben solido sulla collinetta. Non può franare più. L'inverno scorso, mentre l'intera Calabria smottava, l'antica Cavallerizzo non s'è mossa d'un millimetro. Lo certifica pure la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Calabria: nel luglio 2009 ha vietato qualsiasi opera di demolizione, sollecitando un restauro del vecchio centro abitato. Davanti al cancello ci sono anche dirigenti della Cgil, Italia Nostra e Controinvasioni. Tutti ascoltano con ammirazione la storia di Donna Liliana e dei suoi familiari: un anno fa, incuranti dei divieti, sono tornati a vivere nella vecchia casa. Le autorità hanno tagliato acqua e luce? «Che me ne importa? - spiega la signora - Ho comprato un generatore ed abbiamo incanalato una sorgente. E ho pure mandato un fax a Bertolaso. Voglio vedere se ha il coraggio di venirmi a sgomberare».
Gli operai della Vinyls dagli inizi dell’anno resistono nell’ex carcere dell’Asinara. Da quest’isola – parco che anch’esso resiste ai reiterati tentativi di trasformarlo in macchina banale del turismo – scrivono, rilasciano interviste e vanno ovunque ritengano di poter dar conto delle buone ragioni che li hanno spinti ad auto-segregarsi. Ragioni che riguardano non solo il loro diritto al lavoro, ma il bisogno che ha l’Italia di conservare un settore strategico qual è la chimica.
Il movimento dei pastori sardi protesta per la scarsa considerazione che ha il loro lavoro, basilare non solo per l’identità storica della Sardegna ma per il Paese intero. Un duro lavoro che viene pagato una manciata di centesimi da imprenditori che hanno il monopolio dei prezzi del latte. Per difendere la loro dignità di lavoratori, hanno occupato le cronache agostane, bloccando strade e aeroporti, manifestando ovunque la loro voce potesse giungere a destinazione, ossia nelle sedi di governo (regionale e nazionale). Anche i lidi plastificati dei ricchi sono diventati per questi pastori come per gli operai della Vinyls, un palcoscenico da cui rivendicare i loro diritti offesi.
Un ottantenne di Capo Malfatano resiste alle lusinghe di chi di soldi ne ha proprio tanti e vorrebbe farne tanti altri ancora costruendo ad appena trecento metri dal mare di Teulada. Questo vecchio si rifiuta di vendere la sua terra a chi la vorrebbe trasformare in un albergo con troppe stelle – come ha detto Giorgio Todde – e respinge le ingannevoli sirene del turismo che vuole distruggerne la naturale vocazione agricola.
Tre storie sociali tanto diverse per protagonisti, luoghi e contenuti, eppure così vicine tra loro per le finalità comuni. Vediamone alcune.
Innanzitutto, in tutte c’è l’idea che il valore del lavoro non può essere svilito da logiche predatorie di profitto indiscriminato. Mi rendo conto che questa affermazione appare a dir poco ingenua, nel momento in cui un ministro della Repubblica racconta al meeting di Rimini (senza peraltro suscitare la benché minima reazione dei presenti) che i diritti di sicurezza sono un lusso che non possiamo più permetterci, che equivale a dire che le ragioni finanziarie sono più importanti della stessa vita umana.
In secondo luogo, in queste storie c’è un’idea di territorio che sfugge alle logiche diffuse secondo cui il territorio vale se è trasformabile in metri cubi da costruire; pratica che nel nostro Paese non è considerata un disvalore neppure quando riguarda il mai debellato fenomeno dell’abusivismo edilizio o i numerosi scempi edilizi.
In terzo luogo, gli operai, i pastori e il vecchio di Teulada stanno cercando di dirci che si può costruire uno sviluppo diverso facendo chimica pulita, producendo latte e formaggi, coltivando la terra. Attività lavorative e professionalità che rinviano a modalità di vita più eque ed eco-compatibili e, soprattutto, più durevoli rispetto ad un turismo inteso come volumetria e privatizzazione della bellezza, a partire dal paesaggio che ricordiamo essere “memoria di un popolo” quando non c’è più.
Rispetto a questa idea - di fatto alternativa al pensiero dilagante secondo cui fare denaro senza sacrificio e possibilmente esentasse è la vera arma del successo -, dove si colloca la politica di chi ci governa? In buona misura è distratta da altro, dalle case a Montecarlo alle elezioni anticipate se non passa il processo breve, dagli incontri per i rimpasti al toto nomine degli assessori politici non più tecnici, tranne quelli che di territorio se ne intendono e sanno come sfruttarlo al massimo. Oppure blatera di incontri con l’Eni e di decisioni imminenti con il ministro all’Agricoltura senza uno straccio di progetto, mentre tace sulla scelta scellerata di un sindaco che ritiene che il paesaggio (bene comune) possa essere trasformato in un albergo di lusso per pochi ricchi. I pastori e gli operai possono sempre andarci a fare i camerieri, mentre l’ottantenne – beh - è ora che vada in pensione.
Si è affermato negli anni come uno degli appuntamenti “cult” dell’estate italiana. Ma il Festival della Mente di Sarzana, giunto alla settima edizione, rischia di diventare un simbolo della divaricazione tra cultura e “politica del fare” soprattutto per quanto concerne ambiente, paesaggio, territorio, quasi una sottolineatura dell’inutilità della cultura nell’epoca del Mercato. A tenere la “lectio magistralis”, che tradizionalmente inaugura il Festival, è chiamato Salvatore Settis. Il titolo: “Paesaggio come bene comune, bellezza e potere”.
Il professor Settis parlerà in una città e in un’area, quella apuano-lunense, a cui la “politica del fare” sta cambiando radicalmente volto con buona pace del paesaggio, del consumo di territorio, della tutela del patrimonio archeologico, naturale, antropologico, in cui il “Mercato” e soprattutto la “Rendita” sono i moloch sul cui altare sacrificare ogni scelta di amministrazioni da sempre guidate dalla sinistra. Tre varianti a strumenti urbanistici, stanno per riversare tra Sarzana e la piana dell’antica Luni e del basso corso della Magra 230 mila metri quadrati di seconde case, centri benessere, capannoni artigianali, centri commerciali, strutture balneari e albeghiere, a cui andranno ad aggiungersi due porti turistici lungo le verdi sponde della Magra per ospitare mille barche il tutto arricchito da arginature alte tre o cinque metri per contenere esondazioni sempre più frequenti.
Settis svolgerà la sua appassionata arringa in difesa del paesaggio italiano di fronte alla platea raffinata del festival e al sindaco di Sarzana Massimo Caleo, un teorico locale del teorema cemento = sviluppo = occupazione. Mentre il Festival della Mente celebrerà l’unicità del paesaggio italiano, un geologo sarà al lavoro per preparare gli studi geotecnici del “Piano Botta”, una variante al piano regolatore del 1994, firmata dall’archistar Mario Botta e approvata nei giorni scorsi dalla Provincia. Botta ha disegnato una Sarzana in mattoncini a vista su un’area di sessantaduemila metri quadrati, una “Sarzana Due” a meno di trecento metri dal centro storico medievale e rinascimentale tutt’affatto diversa nelle tipologie architettoniche, dai colori del paesaggio ligure. Oltre quarantasettemila metri quadrati di nuove superfici residenziali, commerciali, ricettive, di terziario privato e pubblico, in larga parte previste dal PRG del 1994, ma solo in minima parte realizzate. Proprio la mancata realizzazione in un arco di tre lustri avrebbe dovuto suggerire una rivisitazione del vecchio piano, rivedendo una previsione d’incremento demografico errata, riconsiderando una previsione di domanda che il Mercato non ha confermato neppure in anni di bolla speculativa.
L’Amministrazione, sollecitata da Unieco di Reggio Emilia, proprietaria dei terreni, il cui logo compare ormai in tutte le grandi operazioni cementizie dello spezzino, da Levanto a Lerici, a Sarzana, in una sorta di colonizzazione emiliana, ha proceduto a una rivisitazione del piano particolareggiato che garantisce la rendita, sventolando la parola d’ordine degli “inalienalibili diritti acquisiti” dei proprietari con buona pace delle sentenze del Consiglio di Stato.
Ha incaricato, ovviamente senza concorso, l’architetto Mario Botta, presentato dalle Coop e che per le Coop aveva redatto le prime bozze progettuali dei nuovi palazzi, che ridisegnavano il volto della città (tutte informazioni sfacciatamente messe nero su bianco nella delibera di incarico del 2007). Disegni dei palazzi già visibili nella brochure del Bilancio 2007 di Abitcoop Liguria quando erano ancora ignoti al consiglio comunale di Sarzana nel gennaio 2009. La Variante porta la dicitura “di iniziativa pubblica”!
Nella sua prima stesura il progetto prevedeva un grattacielo cilindrico alto 67 metri di mattoncini rossi. Nelle dichiarazioni del Maestro Botta doveva richiamare le torri dell’acqua del mantovano. Sarzana in provincia di Mantova….. Così la colonizzazione Unieco cambia il volto ligure di una città. Il progetto della torre è crollato sotto i colpi di un Comitato di cittadini. Il resto è rimasto, compresa l’assoluta mancanza di verde fruibile.
Come onestamente ammesso dallo stesso Botta “Con quelle volumetrie o si va in alto o si occupa ogni spazio orizzontale”. Ma la Rendita non consente di ridurre le volumetrie. Neppure se a suggerirlo pubblicamente al Principe è un Maestro dell’architettura.
Se Sarzana nel suo ingresso occidentale somiglierà a Treviso, a Sesto San Giovanni o a Lugano, poco importa. Millecento nuovi abitanti previsti, undicimila metri quadrati di superfici commerciali in una città che vanta il primato di ipermercati, undicimila metri quadrati di terziario, a Sarzana già oggi largamente invenduto. Conta il business da 160 milioni di euro.
C’è chi si chiede: chi acquisterà? Ed evoca preoccupato i dati del rapporto 2009 della Direzione nazionale antimafia che indica la Liguria e Sarzana come luogo di riciclaggio.
Mentre il “Piano Botta” muove i primi passi, i sindaci di Sarzana e Ameglia lanciano la crociata contro gli ambientalisti che, riuniti in un Coordinamento di associazioni e comitati, hanno dirottato la loro attenzione sulla più esaltante epopea del cemento, il Progetto Marinella. “Costoro si oppongono allo sviluppo, Si rischia di perdere un’occasione unica per mettere fine al degrado della zona”.
Promotrice del Progetto Marinella è la banca Monte dei Paschi, storica proprietaria di quasi tutti i terreni agricoli della bassa piana della Magra fino alle pendici del colle dei Cappuccini di Bocca di Magra. Acquisì quei terreni durante il fascismo per il fallimento di un ricco imprenditore del marmo, Fabricotti. Li acquisì come terreni agricoli, aspettando con la pazienza di una banca centenaria che la Dea Rendita desse i suoi frutti.
Il PRG di Sarzana del 1994 prevede solo interventi di ristrutturazione e recupero del vecchio borgo agricolo di Marinella. Troppo poco per le aspettative di Monte dei Paschi, che nel 1999 lancia il “Progetto unitario di Marinella”. Unitario perché comprende tutta la proprietà, che abbraccia i comuni di Sarzana e Ameglia. Nel tempo il progetto è cresciuto in concomitanza con l’avvento di Francesco Gaetano Caltagirone alla vicepresidenza della banca senese. Anche i partecipanti al progetto sono cresciuti, comprendendo l’immancabile Unieco, il Consorzio delle Cooperative di Produzione e lavoro emiliane, le società Condotte e Condotte Acque di Astaldi. Le cifre dell’affare parlano da sole e fanno impallidire il Piano Botta. 155 mila metri quadrati di edificato previsto, di cui quasi 87 mila di nuova edificazione. Un terzo della superficie è a destinazione residenziale in una Liguria a crescita zero. Anche il “commerciale” non scherza: 23 mila metri in un’area, secondo Confesercenti, già satura di ipermercati.
Gli amministratori di sinistra non se lo vogliono sentir ripetere: ma con il famigerato Piano casa di Berlusconi non avrebbero potuto prevedere neppure la metà di nuove edificazioni!
Non mancano neppure 7200 metri quadrati di stabilimenti balneari: tradotto significa privatizzazione del litorale, soggetto a forte erosione, oggi in parte libero e selvaggio, quindi “degradato”. Infine la ciliegina: il “polo nautico” nel Parco del fiume Magra con una prevista escavazione di milioni di metri cubi di inerti per far posto a circa mille attracchi.
Calcolare l’ammontare dell’operazione fa venire le vertigini a chi non si chiama Caltagirone. C’è chi azzarda 700 milioni di euro.
La lectio magistralis del professor Settis cadrà in questo contesto. A conferma che il Festival viene pensato a Milano. Sarzana lo ospita, perché è un evento che richiama pubblico e riflettori. Quindi denaro. Lo scorso anno lo sponsor, la Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, per voce del suo presidente Matteo Melley, ha posto la questione: non si può guardare solo alle ricadute economiche; occorre iniziare a valutare le ricadute culturali.
Ebbene una frase di Settis, scelta per la brochure del programma, sembra già un invito alla riflessione sul contesto: "Anche la devastazione del paesaggio italiano, a cui assistiamo oggi, è un prodotto culturale ed appartiene all'orizzonte che ci circonda. Chiediamoci perché. Chiediamoci se il paesaggio può tornare ad essere un bene comune e come questo può dipendere da noi".
Ci mancava la velina islamica, dopo la donna tangente. Degna commistione fra due paesi mediterranei diversamente retrogradi, ma entrambi contraddistinti dall´abitudine a trattare la femminilità come ornamento del potere. Naturale quindi che anche la velina islamica sia vincolata alla consegna del silenzio, come il suo corrispettivo che va in onda a ogni ora del giorno e della notte sulle tv del belpaese. Il silenzio è requisito della sottomissione, e come tale lo impone la zelante agenzia Hostessweb, pena il mancato pagamento delle centinaia di ragazze scritturate a modica tariffa, confidando sul loro bisogno di lavorare.
La religione, com´è ovvio, non c´entra nulla. Nessun buon musulmano prende sul serio Gheddafi, né il suo appello alla conversione islamica dell´Europa. Se davvero la suprema Guida della Jamahiriyya fosse mosso da intenti di proselitismo, avrebbe convocato intorno a sé un pubblico misto di interlocutori, non si sarebbe rivolto a un´agenzia di hostess precisando che servivano signorine bella presenza, provocanti ma non troppo, secondo il gusto maghrebino.
C´entra invece, eccome, il bisogno di dimostrare che la grazia e la sensualità possono essere comprate col denaro. Il dittatore libico si rivolge al suo popolo prospettandogli la meraviglia delle belle donne da marito di cui l´Italia è percepita anche laggiù come il giacimento. Lui può permettersele, i suoi sudditi vedremo.
Nessuna altra capitale europea avrebbe tollerato il ripetersi, per tre volte in un anno, di una simile esibizione. Ma l´Italia è la patria delle veline, dove d´estate è normale che un sedicente rivoluzionario autore televisivo impieghi pure anziane signore nella parodia ossessiva dell´avanspettacolo, e dove perfino il capo del governo rincorre il mito dello sciupafemmine per sentirsi amato. Perché negarci dunque l´eccesso fantasioso della velina islamica?
Nonostante gli oltre quarant´anni ininterrotti al potere, in fondo Muammar Gheddafi resta pur sempre meno anziano rispetto al nostro presidente del consiglio. Hanno in comune la maschera patetica di chi insegue la longevità con camuffamenti giovanilistici. Da questo punto di vista, sono leader intercambiabili. Se oggi Berlusconi minimizza di fronte allo squallore dei raduni di giovani femmine italiane sottomesse, che Gheddafi non oserebbe mai convocare in un santuario di preghiera islamica, e si limita a definirli "folklore", non è solo per imbarazzo diplomatico. Lui che per anni ha esercitato un indubbio potere seduttivo sulla maggioranza delle donne italiane, soffre di una vera e propria mutilazione culturale: vittima del suo stesso anacronismo, gli è preclusa la sensibilità necessaria anche solo a figurarsi le donne al di fuori di una dimensione subalterna. Gli verrebbe più facile parlare arabo che notare un evidente problema nazionale come la dignità femminile calpestata.
Ora Gheddafi, aspirante colonizzatore di Roma, viene a dirci che in Libia le donne sono più libere che in Occidente. Immagino che lui e il nostro premier scherzeranno, in privato, di tale fandonia. Per quanto tempo ancora?