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Il ministro La Russa ha dato l'ok all'invio dell'esercito a Reggio Calabria, su richiesta di alcuni senatori del Pd e con la benedizione del Prefetto, secondo il quale i militari serviranno a proteggere i palazzi delle istituzioni. Mentre il ministro Alfano non risponde alle richieste ripetute dei magistrati reggini per più risorse umane e finanziarie, si trovano le risorse per inviare l'esercito.

Pignatone, il procuratore capo minacciato, continua un lavoro che ha portato a centinaia di arresti e una parte della società reggina continua a scendere in piazza. Come l'altra sera con una lunga fiaccolata sul corso cittadino, per sostenere questo nuovo corso della magistratura. Si riaccende una speranza di liberazione dal sistema di potere mafioso. Non si tratta di sola 'ndrangheta, di una forma di criminalità organizzata, ma di un sistema di potere che si sente minacciato, come ha dichiarato l'ex procuratore della Direzione nazionale antimafia: «Ci sono interessi e poteri contigui alla 'ndrangheta che ora sono particolarmente nervosi».

È proprio contro quella che ormai molti definiscono la «borghesia mafiosa» che si gioca la partita a Reggio Calabria. Una nuova borghesia capace di essere locale e globale, di essere fortemente radicata in questo territorio ma di riuscire a compiere, grazie ai grandi flussi di capitali illegali, operazioni finanziarie in tutto il mondo. C'è una profonda differenza tra la borghesia industriale che ha diretto lo sviluppo economico italiano e la nuova borghesia criminale.

CONTINUA|PAGINA 5 La prima ha mollato il territorio, ha perso di legittimità da quando ha scelto la strada delle delocalizzazioni e degli investimenti speculativi, non ha più un progetto industriale per questo paese e pensa solo a mettere al sicuro i propri capitali.

La seconda mantiene un forte legame territoriale e investe, oggi più che mai grazie alla crisi, nel centro-nord Italia, acquisendo imprese importanti, conquistando una egemonia nei settori dell'edilizia e della distribuzione. Grazie al vuoto politico lasciato dalla vecchia borghesia ha davanti a sé una strada a scorrimento veloce.

La questione criminale si è andata trasformando in una guerra di classe per la conquista del potere a tutti i livelli, è diventata la questione nazionale più rilevante. Per questo abbiamo organizzato a Teano, nell'incontro che si svolgerà dal 23 al 26 ottobre, un importante workshop coordinato da Tonio dell'Olio (Libera) e da Ugo Biggeri (Banca Etica), che mette al centro la questione del sistema di potere mafioso con la questione dell'unità nazionale.

Le spinte secessionistiche insieme al degrado economico e morale del paese costituiscono una miscela esplosiva che potrebbe portare ad esiti imprevedibili e terribili. L'esempio della ex-Jugoslavia ci deve insegnare qualcosa: i mini-staterelli, risultato della spartizione del paese, sono diventati veri e propri narco-stati gestiti dalle mafie in prima persona. Immaginate voi da che parte stanno i poteri mafiosi rispetto alle spinte secessioniste, al nord come al sud.

Ps. È uno strano paese il nostro, dove i magistrati vivono sotto scorta per paura di essere ammazzati da mafia, camorra e 'ndrangheta e sono sotto schiaffo del presidente del Consiglio che li mette sotto inchiesta per associazione a delinquere.

Oltre la «porcata», testo d’intesa tra Pd e finiani

di Simone Collini

Doppio turno alla francese Il maggioritario che premia le coalizioni Maggioritario di collegio a due turni. Viene eletto deputato chi supera il 50%, altrimenti vanno al ballottaggio tutti i candidati che superano il 12,5% degli aventi diritto.

Gli esperti di sistemi di voto di Pd,Udc e Fli hanno messo a punto un primo testo di riforma: via liste bloccate e premio di maggioranza, sì a collegi uninominali, soglia di sbarramento e indicazione del candidato premier.

Via il premio di maggioranza e le liste bloccate, soglia di sbarramento al 3%, possibilità di indicare il candidato premier, collegi uninominali e niente preferenze. Dopo che nei giorni scorsi Pier Luigi Bersani, Pier Ferdinando Casini e Giancarlo Fini hanno aperto i canali di dialogo, gli esperti di legge elettorale del Pd, dell’Udc e di Futuro e libertà hanno iniziato il confronto per individuare un modello di voto condiviso.

Una prima intesa su alcuni principi di fondo è stata già raggiunta, e la bozza che sta venendo fuori è rinviabile al sistema tedesco, però modificato introducendo elementi che ne rafforzerebbero l’aspetto bipolare. Il Pd ha approvato all’ultima Assemblea nazionale un documento in cui si sostiene il doppio turno alla francese, ma anche i più strenui difensori del modello d’Oltralpe - veltroniani in primis - difficilmente si metterebbero di traverso qualora si arrivasse a un’intesa maggioritaria in Parlamento. E anche il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, che nelle scorse settimane si era detto contrario a operazioni e modelli che potrebbero generare confusione nell’elettorato di centrosinistra, ora garantisce la sua disponibilità: «Si può anche discutere di un sistema proporzionale alla tedesca, a patto che sia chiara agli elettori l’indicazione di chi deve governare e ci sia uno sbarramento per evitare la frammentazione». Segnali positivi insomma non mancano, ma finché non ci sarà il via libera definitivo a un testo che possa incassare la maggioranza dei voti in Parlamento (si è visto dal voto di fiducia che i finiani alla Camera sono indispensabili per tenere in piedi il governo, mentre al Senato Pdl e Lega sono sembrati autosufficienti) l’operazione dell’asse anti-porcellum proseguirà lontano dai riflettori.

BERLUSCONI PREOCCUPATO

Berlusconi vede infatti come il fumo negli occhi l’ipotesi di una maggioranza alternativa che possa approvare una nuova legge elettorale: perché il porcellum, stando agli ultimi sondaggi, gli garantirebbe di prendere il 55% dei seggi alla Camera con un Pdl che oscilla tra il 28 e il 30% (più complicata la situazione al Senato, «per colpa di Ciampi che impose la “regionalizzazione” del premio», attacca il deputato del Pdl Marco Marsilio); e perché di fronte a un numero di parlamentari sufficienti a cancellare il porcellum, Berlusconi avrebbe poco da gridare all’«eversione» (come ha fatto nei confronti di Scalfaro) se ci sarà una crisi di governo e il Quirinale avvierà le consultazioni per verificare se vi sia in Parlamento una maggioranza alternativa, prima di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.

È proprio quello che temono Pdl e Lega. Non a caso appena il finiano Italo Bocchino si è detto convinto che esista «già una maggioranza alternativa, tanto alla Camera quanto al Senato, in grado di ritrovarsi sulla modifica della legge elettorale» è partito il fuoco di fila dei berluscones: «trasformismo parlamentare», ha tuonato Sandro Bondi; «mille trabocchetti», vede Fabrizio Cicchitto; «mettersi a manovrare su una legge elettorale per favorire chi è perdente sarebbe un errore molto grave», ha sentenziato Gasparri; e il leghista Roberto Castelli: «Maggioranza alternativa è il termine istituzionale per indicare il termine mediatico di ribaltone». Attacchi che non preoccupano Fini, convinto com’è che il «vergognoso» porcellum sia da archiviare: «La sovranità appartiene al popolo, e questo significa che gli elettori devono avere il diritto non solo di scegliere il presidente del Consigli ma i loro parlamentari ». Concetto che il presidente della Camera va ripetendo, in piena sintonia con Casini («evitiamo che quattro gerarchi di partito impongano i parlamentari agli elettori») e con Bersani.

Rispondendo all’ironia del ministro leghista Maroni sull’«ipotesi strampalata» che ci possa essere un governo tecnico che vada da Fini a Di Pietro per riformare la legge elettorale, Bersani ha fatto notare che «non si sta parlando di maggioranza di governo, ma di regole», che come tali vanno discusse nelle aule parlamentari: «Se c’è una maggioranza che dice che la legge è intollerabile allora si va in Parlamento e si vota. Da sempre diciamo che abbiamo una legge elettorale vergognosa, che consente la nomina dei parlamentari, la subordinazione della maggioranza al governo, e che ha portato e può portare ancora un sacco di guai al Paese. E non da oggi siamo disponibili a concordare una nuova legge elettorale. Perché la legge la si fa in Parlamento, non con le maggioranze e le minoranze ma con chi è disposto a convergere».

Maggioranza alternativa al Senato il rebus dei voti.

Si è aperta la caccia ai «responsabili nazionali»

di Natalia Lombardo

Sarà pure la mossa di una partita a scacchi, ma da fronte finiano mostrano una certa sicurezza verso un possibile governo di transizione: «Cambiare la legge elettorale è giusto, e su questo ci potrebbe essere una maggioranza molto ampia», assicura Benedetto Della Vedova; per il capogruppo Bocchino «esiste già, sia alla Camera che al Senato» e pesca anche nel Pdl. Convinti che la Lega stia «giocando in proprio per far cadere Berlusconi», i futuristi tengono in caldo le new entry e aperto il dialogo col Pd sulla legge elettorale.

Nel frattempo sembra che Gianni Letta stia cercando di convincere i duellanti, Berlusconi e Fini, a incontrarsi faccia a faccia, cosa non facile. Maggioranza diversa, nuovi acquisti per Fli? «Suggestioni», è la sibillina risposta di un finiano doc. Come quella che vede a Palazzo Madama, dove la maggioranza di governo per ora è ferrea (174 sì alla fiducia), un drappello di senatori pronto a lasciare il Pdl per entrare in Futuro e Libertà. Senatori che Berlusconi starebbe cercando di «blindare» con posti da sottosegretario e viceministro (uno lo lascia Romani).

Molti peones «farebbero di tutto per non andare a casa temendo di non essere ricandidati», ammettono nel Pdl, tanto più che Silvio vuole «facce nuove» e che la Lega farà man bassa al Nord. «Ci sono dieci nomi al Senato, e dieci alla Camera, per ora sono “coperti”», assicura un deputato ex Fi. E, spostando sul pallottoliere anche solo tre oquattro senatori dal Pdl a Fli varrebbero il doppio, cambiando la maggioranza. Il drappello di «responsabili», come li definisce un finiano, fa riferimento a Beppe Pisanu. che aspetta solo il momento giusto per attuare lo «strappo» e passare con i «futuristi ». Un passo da compiere come grande segno di «responsabilità nazionale», appunto.

LA CARTA PISANU PREMIER

Il nome dell’ex ministro dell’Interno, un forzista moderato nato nella Dc, in rotta da tempo con Berlusconi (che lo ha accusato più volte di non aver vigilato nella notte elettorale del 2006) sarebbe la carta tenuta in caldo dai finiani come presidente del Consiglio di questo governo di «responsabilità nazionale» che cambi la legge elettorale e cancelli la «porcata».

In Parlamento è addirittura nata la «Associazione per il ritorno all’uninominale» che domani esordirà con un’assemblea; molti i nomi del Pdl: Salvo Fleres, Domenico Gramazio, Antonio Martino, Francesco Nucara, Mario Pepe, Salvatore Tatarella e Enrico La Loggia, nemici del «porcellum». Pronto a un’intesa sulla legge elettorale è Raffaele Lombardo, leader dell’Mpa: «Certamente c'è chi, pur di non votare con questa legge elettorale, farebbe i salti mortali. Io sono fra questi; poi vedremo se ci riusciremo».

A Palazzo Madama una maggioranza «diversa» non è una chimera. Se si unissero i voti dell’opposizione (112 del Pd, 12 Idv, 13 Udc - senza Cuffaro) con i 10 di Fli, i 3 Mpa, 3 dell’Api, il conto è 153 senza i senatori a vita. Con qualche travaso i numeri potrebbero esserci, ma il rischio è che nasca una maggioranza «prodizzata» sul filo di un voto. Una prospettiva «terrificante» per il leghista Maroni.

A3, scandalo infinito. Il cantiere dimezzato è pagato a peso d’oro



Quando si dice il paradosso. Nel giorno - giovedì scorso - in cui il presidente del consiglio Silvio Berlusconi annuncia alla Camera che «il raddoppio dell’A3 sarà completato entro il 2013» e il governo si attrezza a introdurre il pedaggio, in redazione a La Stampa arriva una busta gialla. Contiene un documento anonimo che ripercorre l’ennesima vicenda della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada in offerta speciale dove si paga tre per comprare due. La lettera fa riferimento a documenti e notizie pubblici di cui non è difficile trovare riscontro.

Così si scopre, tanto per cominciare, che la Salerno-Reggio non sarà completata mai. L’autostrada si fermerà a Campo Calabro, località che si affaccia sullo Stretto un po’ prima prima del capoluogo. Da qui dovrebbe spiccare il salto il ponte che (forse) unirà Calabria e Sicilia. Una decina di chilometri più corta, per gli amici sarà la Salerno-Campo. L’ultimo tratto dell’appalto del titanico raddoppio - qualcuno preferisce ammodernamento - dell’A3 Salerno-Reggio Calabria è stato tagliato in due. Dei venti chilometri tra Scilla e Reggio se ne raddoppieranno poco più di metà. Il resto è stato «stralciato», e con il danno c’è la beffa. Stralcio per stralcio, diresti, si risparmieranno un sacco di soldi. Non qui: l’appalto programmava una spesa di 634 milioni per 20 chilometri.

Ma all’annuncio con cui l’allora sindaco di Reggio Giuseppe Scopelliti (oggi guida la Regione) ha illustrato lo stralcio chiamando in causa il presidente dell’Anas Vincenzo Ciucci («abbiamo deciso insieme un restyling»), è seguito l’abituale e prevedibilissimo contenzioso tra l’Anas e il general contractor, il gruppo che gestisce l’appalto. È seguito un accordo: i 634 milioni della commessa sono stati ridotti a 415, ma l’appaltatore ha ottenuuto un indennizzo di 91 milioni. Totale 506 milioni, che non è metà di 634 ma il 79%, per fare mezzo lavoro. Come dire che dieci diviso due fa quasi otto.

Un tempo i costi - e i profitti - dei lavori pubblici crescevano con l’avanzamento lavori. Si tirava tardi per ottenere una ridiscussione e scoprire che i prezzi erano saliti. Poi si aggiornava la faccenda a suon di aumenti. Ora la legge ha introdotto controlli più stretti. Nello stralcio non c’è nulla di illegittimo, almeno in superficie: l’Anas ha accettato l’accordo e probabilmente si fa peccato a riflettere sul fatto che il secondo tratto del macrolotto 6 è molto più complicato - e costoso - da realizzare del primo. Chiunque voglia godersi il viaggio (mezz’ora tra andare e tornare in auto) vedrà che il percorso in questione attraversa l’area urbana di Reggio Calabria. È un ghirigoro di curve, gallerie, sopraelevate e svincoli che attraversa le case, galleggia sui campi da calcetto e le vie del passeggio, si infila nel porto all'altezza della dogana e sbatte nel molo da cui partono i traghetti per Messina. Allargare una strada come questa non è uno scherzo: nessun paragone con la prima parte del lavoro. Ma dieci diviso due fa sempre otto. Scopelliti ha giustificato lo stralcio spiegando che temeva di bloccare per anni il traffico nella parte nord della città.

Preferisce, ha detto, una tangenziale che sfili alle spalle dell’abitato e poi si ricongiunga con la statale 106 (che risale lo Ionio e corre fino a Taranto lungo la costa sud). Un lavoro da 1,8 miliardi di cui non s’è parlato che una volta, però c’è sempre un altro appalto in vista. Il primo cantiere aprì nel 1996, il rinnovo del gigante - gli inquirenti lo liquidano in una battuta amara come il «corpo del reato più lungo d’Italia» - è arrivato a costare 22 milioni al chilometro. Arresti e indagini non si contano. Non c’è da stupirsi se qualche amministratore calabrese ha suggerito di commissariare i lavori per dribblare una burocrazia pericolosa. Ancora meno c’è da stupirsi che non lo abbia ascoltato nessuno. Infine, mentre Berlusconi ricamava sul completamento alla Camera, in Commissione bilancio la maggioranza aveva appena stralciato (quando si dice il destino) finanziamenti per 145 milioni all’A3.

Mettiamoci in coda con pazienza, dieci diviso due fa ancora otto.

«Volevo seguire la legge

Mi hanno messo fuori»



L’auto arriva all’ingresso dell’hotel Excelsior, nel centro di Reggio, dirimpetto al Museo che ospiterà i Bronzi di Riace. L’autista fa cenno: salite. Non c’è tempo per i convenevoli, riparte subito per perdersi nel traffico cittadino. Ha fretta, ha fretta di raccontare la sua rabbia, la sua disperazione, la voglia di scappare. «La mia - esordisce - è la storia di un imprenditore che per rispettare le regole e lo Stato si trova fuori dal mercato. Mi sento straniero in terra straniera. Ho 30 anni, il nonno di mio padre fondò l’azienda. Abbiamo lavorato sempre nell’edilizia, adesso voglio gettare la spugna. Non sopporto più l’idea di vivere in una città indolente, che subisce torti e sopraffazioni e non reagisce. Sono stufo delle fiaccolate che non risolvono un bel niente. Sono stufo di quello scandalo infinito che è il raddoppio della Salerno Reggio Calabria, la nostra croce».

È uno sfogo disperato, che arriva il giorno dopo una bella retata di ’ndranghetisti, una settimana dopo una bella manifestazione cittadina contro le bombe contro la procura generale di Salvatore Di Landro. Dire che nulla è cambiato, che Reggio è sempre la stessa è fare torto alla speranza di tanti giovani e all’impegno delle forze di polizia e della magistratura. E di questo, anche l’imprenditore senza speranze dà atto: «Ma quello che mi fa essere pessimista è la solitudine della gente perbene. Non c’è una massa critica, una capacità di indignarsi, di fare squadra, di reagire collettivamente allo strapotere di cosche e potentati. Nessuno si ribella. Ci vorrebbe la rivoluzione delle coscienze». Il nostro imprenditore si materializza la settimana scorsa, con una telefonata al centralino del giornale. Vuole raccontare la sua sofferenza: «Sono diventato lo sponsor di chi vuole emigrare. Ieri partivano le valigie di cartone per andare in Svizzera, nelle miniere come quella di Marcinelle in Belgio. Oggi, laureati e ’ndranghetisti. I primi a cercare un lavoro, i secondi a moltiplicare i loro affari criminali. E qui hanno trovato un pozzo senza fondo le grandi imprese del Nord, che vengono a patti con la mafia e divorano i fondi pubblici». Sopravvive, il nostro imprenditore.

Cinque dipendenti, un parcheggio di mezzi distrutti e incendiati. Briciole di quella torta immensa che è l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Parla mentre l’auto sfreccia per Archi, cammina a passo di lumaca per il lungomare, e poi Sbarre - ricordate il quartiere della rivolta di Ciccio Franco, negli Anni 70 di Reggio capoluogo? -, Ravagnese. Si allunga fino a Melito Porto Salvo, le cattedrali nel deserto, Saline Joniche (un miraggio del pacchetto Colombo post rivolta ’70). Un percorso che è un insieme di vie Crucis, di territori sfigurati dall’abusivismo edilizio, di pareti o asfalti testimoni di vendette mafiose, di corpi straziati da autobombe o da lupare.

Reggio è il passato e il presente. L’imprenditore accosta. Sfoglia un giornale. L’elenco degli arrestati: «C’è un cognome, Pitasi, che è lo stesso che trovate in un cantiere della Salerno-Reggio, una ditta associata con una impresa di Milano. Nonostante i Protocolli d’intesa, i Patti per la sicurezza, le ditte della ’ndrangheta continuano a lavorare». Se non fosse che per tutto il tempo l’imprenditore si dispera e impreca contro la ’ndrangheta e il malaffare, quella frase che butta così nel piatto della confessione, suona come nota stonata: «La verità è che se non ci fosse stata la magistratura, a quest’ora la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata ultimata».

Considerazione che lascia perplessi. «Non fraintendetemi. Voglio dire che vivaddio che ci sono le inchieste giudiziarie che stanano le imprese mafiose, anche pagando il prezzo del ritardo dei lavori. L’angoscia è che siamo in trincea. Qui si combatte una guerra tutti i giorni. Ogni giorno qui muore la speranza. Una sofferenza indescrivibile».

Il pizzo ambientale

Alle cosche il 3% degli appalti



All’inizio, sull’affare dell’autostrada, alle cosche era proprio andata male. In Calabria, a gestire subappalti, assunzioni e cantieri era arrivato dalle brume fredde di chissà dove a rappresentare la Asfalti Sintex Spa, che aveva vinto l'appalto dei lotti cosentini, «tale ing. Facchin, il quale - ricostruiscono i magistrati - non intendeva sottostare ad alcuna forma di estorsione». Un bel guaio per le 'ndrine. Ci furono i primi attentati, ma Facchin sempre lì: fermo come una roccia a dire di no. Nessuno saprà mai se alla fine avrebbe vinto lui o la ‘ndrangheta, che nelle fantasie nordico-romane è potentissima e, con geometrica precisione, vince sempre e comunque.

Non lo sapremo mai perché l’Asfalti Sintex affrontò la cosa con piglio determinato e risolutivo. Il gruppo, «prendendo atto della incapacità dell'ing. Facchin a gestire il rapporto tra imprenditori e cosche - recitano con involontaria ironia le carte - ed avendo la prioritaria esigenza di garantire la “tranquillità sui cantieri”, decise di sollevare dall'incarico l’ing. Facchin, sostituendolo con tale Angelo Spiga, romano».

Fu subito un’altra musica. Gli attentati? Un fastidioso ricordo. Le cosche passarono dalle bombe e gli incendi al lavoro «scegliendo quale proprio imprenditore di riferimento, che avrebbe cioè dovuto prendere in subappalto i lavori della detta società (l’Asfalti, ndr), tale Dino Posteraro, il quale … s’impegnò a garantire la riscossione, dalla Asfalti Sintex e in favore delle cosche, di una somma pari al 3% dell’importo del capitolato». Un trionfo delle virtù di Spiga sull'incapacità di Facchin.

Strada ormai tracciata. Spiga e Posteraro vantando «contatti politici in Roma, che avrebbero loro consentito di pilotare le assegnazioni dei lavori nei successivi lotti autostradali calabresi» organizzarono «una decina di riunioni notturne in contrada Bosco di Rosarno» per la continuazione degli affari. Bosco è nel cuore dei territori della mafia potentissima della Piana di Gioia Tauro dove inizia il Reggino. L’affare cresce. La costa splendida e tormentata obbliga a una fuga di opere d’arte: ponti, gallerie, costruzioni ardite.

L’Asfalti esce di scena. C’è il Consorzio Scilla, di Impregilo e Condotte, i due più potenti gruppi del paese; per intenderci, quelli che hanno vinto l’appalto miliardario del Ponte sullo Stretto. Alle riunioni di Bosco, con Spiga e Posteraro, c’è il boss cosentino Di Dieco (che poi si pentirà illuminando quei summit) che si porta dietro uno dei suoi killer di fiducia, perché non si sa mai; c’è soprattutto il gotha dei rappresentanti delle famiglie che dominano i territori del tratto reggino dell'autostrada: Pesce, Bollocco, le famiglie di Bagnara; «il signorino» dei Longo, poi ammazzato; gli Alvaro di Sinopoli, i Gallico di Palmi e via elencando.

Impregilo e Condotte non vogliono perder tempo. Non sono come l’Asfalti. Non ci provano neanche a mandar giù un ingegnere cocciuto e roccioso, uno col vizio assurdo dell’onestà come l’ingegnere Facchin. Secondo i magistrati le intercettazioni dei dirigenti del consorzio «dimostrano in maniera incontestabile la disponibilità del Contraente Generale operante sul V macrolotto (Condotte Spa e Impregilo Spa) a sottostare alla tassa ambientale, pari al 3% da corrispondere alle organizzazioni criminali». Tassa ambiente e non più estorsione, che suona male.

Spiega il pentito: se «un esponente criminale si rivolge alla ditta» gli dice «mi devi pagare l'estorsione ma se saliamo a Roma a parlare con un funzionario dell'Anas diciamo: l'impatto tassa ambientale». Scrupolosi, l’Asfalti, Impregilo, Condotte che pur di costruire l’autostrada ci rimettono il 3% girandolo alle cosche? In realtà, non è esattamente così. Il capo area del Consorzio Scilla Giovanni D'Alessandro «aveva spiegato, sempre all'ingegnere Sales della sede di Roma (di Condotte Spa, ndr), che per recuperare il 3% da stornare alle organizzazioni criminali, aveva studiato l'inserimento fittizio di un costo aggiuntivo. Per usare le parole dell’ingegnere D’Alessandro - spiegano i magistrati - questa nuova voce era stata denominata: «costo fittizio di stima di un 3% sui ricavi chiamato costo sicurezza Condotte-Impregilo». Un giro di fatture maggiorate per «ricavare un surplus finanziario, il cash flow appunto, per poi destinarlo alla tassa ambientale da versare alle cosche». Insomma, costi scaricati sull’Anas, cioè su tutti noi che, senza saperlo, abbiamo pagato la tassa sicurezza Condotte-Impregilo, quella messa dalla ‘ndrangheta e finita in una riga del bilancio del Consorzio Condotte-Impregilo.



Berlusconi ha detto ieri che i magistrati sono criminali e che vanno come tali trattati. Lo aveva già anticipato parlando qualche giorno fa nell’improvvisato happening di fronte alla sua residenza romana, condendo il suo gravissimo ed ennesimo colpo alla Costituzione repubblicana con barzellette e linguaggio scurrile, quasi a voler allontanare l’attenzione dell’opinione pubblica da ciò che aveva pronunciato.

Il suo attacco alla magistratura e l’identificazione della giustizia con la persecuzione non sono né nuovi né inediti: sono la carta d’identità di Berlusconi. Le circostanze dettano il linguaggio, non il contenuto che resta immobile come la terra nel sistema tolemaico. Quando le acque nella sua maggioranza si fanno burrascose tiene metodi di trattativa e moderati. Una volta rinsaldata l’alleanza, magari con l’autorevolezza del voto parlamentare come in questo caso, metodi, forme e linguaggio riprendono la loro solita andatura e ritornano a battere sul tema più vicino agli interessi del premier: l’attacco all’indipendenza della magistratura giustificato nel nome di una sovranità totalizzante del popolo, o meglio ancora della sua parte più numerosa (il mito del 51% come clava punitiva contro i suoi supposti nemici).

La sovranità della parte più preponderante non è sovranità democratica, ma dominio, soprattutto quando coltiva la pericolosissima ambizione di dichiararsi identica alla sovranità democratica della nazione italiana. A questo linguaggio demagogico, il presidente del Consiglio si affida quando si sente rinsaldato nei consensi; quando può tornare a riprendere la sua lotta contro la giustizia per affermare la sua giustizia. L’obiettivo lo conosciamo: mettere la magistratura alle dipendenze del potere politico, toglierle quella indipendenza che, vale la pena ricordarlo, non gli è stata data da altri che dal popolo stesso, nella sua massima espressione di sovranità, quella della scrittura della Costituzione. La nazione italiana ha deciso di fare della magistratura un potere indipendente dal parlamento e dall’esecutivo, per renderla dipendente sola dalla legge. Il presidente del Consiglio la vorrebbe invece dipendente dall’opinione politica che fa la legge e dal governo. La differenza è enorme; è quella che passa tra un sistema maggioritario (un’espressione barbara ma efficace) e un sistema democratico costituzionale. La minaccia rivolta ad alcuni magistrati di aprire una commissione parlamentare d’inchiesta è la vera novità di questi giorni, una proposta che è il coronamento dell’ormai incontenibile tracimazione di questo governo dai limiti costituzionali.

Uno sprovveduto o uno che non abbia seguito la traiettoria ideologica di Berlusconi in questi tre lustri potrebbe restare sorpreso di fronte a un liberale che si fa capo-popolo e propone la centralità della volontà politica sulla giustizia. Non è forse vero che la storia di Forza Italia era cominciata a colpi di propaganda liberal-liberista? Che cosa ha a che fare Friedrich von Hayek (uno degli autori più citati da chi si è identificato con Forza Italia) con il maggioritarismo del presidente del Consiglio?

Nella tradizione liberale classica, il governo e l’organizzazione normativa della vita pubblica sono giustificabili in quanto funzioni al servizio di un fine superiore e precedente: la difesa della proprietà, della vita, della libertà degli individui. I diritti individuali sono il fine non contrattabile e soprattutto un bene che legittima il mezzo, ovvero il governo. Qual è il più sicuro presidio di questa libertà se non un sistema di giustizia autonomo da quella volontà di popolo che Berlusconi vorrebbe egemonica?

Per i liberal-liberisti, quello repressivo è il compito centrale dello Stato, e in realtà la sua ragion d’essere. Una ragione che non va affiancata da compiti di altra natura se vuole essere efficace, per esempio da compiti di giustizia sociale. Affinché svolga questo compito al meglio, il solo legittimo, lo stato deve essere edificato secondo regole ben precise: limitato nelle sue funzioni; non centrato sul governo dell’assemblea; monitorato da chi obbedisce alla legge, non da chi fa la legge; e infine soggetto al giudizio elettorale dei cittadini. Il governo liberale è un governo costituzionale limitato fondato sul consenso nel quale il potere giudiziario svolge un ruolo centrale e che, proprio per questo, deve restare rigorosamente indipendente da quello politico.

Il sistema della giustizia penale e civile è il potere più importante nell’idea liberale, la quale infatti vede nella politica solo un mezzo per coordinare in maniera indiretta (con il timore della coercizione) le azioni degli individui e per riparare agli errori e ai delitti che essi commettono o in buona fede o per malevola violazione della legge naturale e civile. Questo è lo Stato ‘minimo’ dei liberali; uno Stato al servizio di una società che, pensava Hayek, è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere diretto del governo o del parlamento, ma il cui potere giudiziario è ben funzionante, non usato a discrezione dei potenti e che opera secondo procedure impersonali e regole certe. Un potere, quello della giustizia che é assolutamente essenziale che resti "negativo", cioè che non dipenda da chi fa e applica la legge. La nostra libertà è sicura – e i costituenti accettarono questa idea liberale – solo se chi la applica nei tribunali e nelle corti non dipende dall’opinione della maggioranza in carica, quale che essa sia. Berlusconi sarebbe inviso a tutti i liberali. Ora, sarebbe interessante sapere come i "liberali" che abitano la casa delle libertà giustificano questo scivolamento nel dispotismo della maggioranza, il più temuto degli orrori per i liberali di tutti i tempi e paesi.

Il popolo anti-Silvio invade la piazza

Di Pietro attacca il Pd: non è qui

di Mauro Favale

ROMA - Una piazza viola, una piazza giovane ma soprattutto una piazza contro Silvio Berlusconi. Il NoBday2 non bissa il successo di numeri della prima edizione ma si conferma un appuntamento in grado di portare in piazza, sulla parola d’ordine «Licenziamo il premier», decine di migliaia di persone. Poco affidabile il gioco di cifre tra organizzatori («Siamo mezzo milione») e Questura di Roma («Cinquantamila»). Al di là dei numeri, però, in tanti hanno partecipato al corteo. Poi, una volta in piazza San Giovanni, hanno cantato e saltato finché sul palco non è salito Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. È stato questo il momento clou del pomeriggio. Come in occasione del primo NoBday, il 5 dicembre 2009, Borsellino, alzando l’agenda rossa simbolo della lotta alla mafia, ha riscaldato la piazza criticando il governo («Stupratori della Costituzione»), Fini («per la sua tardiva resipiscenza»), l’opposizione («a parte qualche voce che grida nel deserto») e urlando per tre volte «Resistenza». Prima di lui, sul palco si sono alternati giuristi e costituzionalisti, da Raniero La Valle a Stefano Rodotà, si è discusso dei casi di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi. Poi musica e performance teatrali.

Pochi i leader di partito, la piazza è stata conquistata da Antonio Di Pietro. Nel giorno del suo sessantesimo compleanno, accompagnato da moglie e figlia, l’ex pm ha rivelato che la Camera, dopo il suo intervento di mercoledì, avvierà un procedimento disciplinare «per valutare se posso stare o meno in Parlamento. Non è colpa mia se il governo è squallido. Ma non sono io il cattivo maestro: lo è chi vuole l’impunità». Poi la critica agli alleati: «In questa piazza c’è molto popolo Pd, mancano i suoi dirigenti». C’è Ignazio Marino, unico rappresentante per i democratici: «Dovevamo essere qui», confessa. Con lui, avevano aderito solo Rosy Bindi e Vincenzo Vita. Al contrario, in piazza ci sono i Verdi e la Federazione della sinistra. All’inizio del corteo appare per pochi minuti Nichi Vendola, leader di Sel, osannato dalla folla: «Per costruire l’alternativa - dice - dobbiamo riconnettere piazza, partiti e società civile. Qui c’è un’Italia migliore che può vincere. Non è da qui, è da Palazzo Chigi che si è alzato un vento d’odio».

I Viola avevano lanciato un appello alla partecipazione a tutti i partiti. Si ritrovano con migliaia di vessilli dell’Idv, quasi imbarazzati per la massiccia presenza, tanto che più volte dal palco è partita la richiesta di «abbassare le bandiere». E così succede che la testa del corteo viene "conquistata" dalla «Resistenza viola» del Piemonte (i duri e puri) in polemica con chi sorreggeva lo striscione «Svegliati Italia», preceduto da decine di bandiere bianche dell’Idv. «Ma noi siamo autonomi. Non abbiamo bisogno dei partiti, né della stampa - spiegano gli organizzatori - abbiamo dimostrato che grazie alla rete è possibile portare in piazza migliaia di persone». E le migliaia di persone sono arrivate: 300 pullman e due navi dalla Sardegna e tanti altri arrivati alla spicciolata. Molti portavano striscioni autoprodotti, pupazzi col volto di Berlusconi e di Tremonti, addirittura una riproduzione del "lettone di Putin". Tutti rigorosamente vestiti di viola, hanno riportato in piazza anche le lettere cubitali che un anno fa formavano la scritta-slogan del primo NoBday: «Dimissioni».

L’onda viola ha meno di vent’anni

"Siamo i partigiani del terzo millennio"

di Maria Novella De Luca

Quelli che ti aspetti ad un corteo di studenti medi, quelli che hanno fatto forte l’Onda, e invece eccoli che arrivano ballando in piazza San Giovanni, mescolando slogan, techno, pop e rock, tutti dietro due ragazzi di Reggio Emilia che in mancanza di camion e sound system si sono messi le casse sulle spalle, e avanzano eroici e sudati tra gli applausi del corteo. Alla fine piazza San Giovanni è piena a tre quarti, con le bandiere dell’Idv che quasi sovrastano le sciarpe e gli striscioni viola.

Di Pietro in testa alla manifestazione con accanto la moglie e la figlia incamera applausi, si concede, stringe mani su mani e attacca Berlusconi "corruttore e violentatore della democrazia". Anche per Vendola, che appare per un breve saluto, è grande festa, ma l’anima della manifestazione è altrove, è tra i centomila che seduti sul prato davanti al maxi-palco applaudono Stefano Rodotà e Paul Ginsborg, Salvatore Borsellino e Ilaria Cucchi, i partigiani dell’Anpi, i cassintegrati e i parenti dei morti sul lavoro. E ricordano insieme ai martiri di mafia anche Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri, tutti giovani e tutti scomparsi in modo violento mentre erano "sotto la tutela dello Stato". "Mio fratello è morto un anno fa - ricorda con la voce incrinata Ilaria Cucchi - ma la verità è sempre più lontana". Oltre le bandiere l’eterogenea folla del No B-Day 2 resta più "liquida" di quanto si pensi, il nemico è lui, Berlusconi, che i Viola vogliono licenziare, dimettere, cacciare, e allora, dicono gli striscioni "svegliati Italia", perché "l’Italia è nostra e non di Cosa Nostra", e dunque, scandisce il movimento delle "Agende rosse", "fuori la mafia dallo Stato", e "Berlusconi a San Vittore". Colpisce sentire docenti universitari, giuristi, giornalisti che parlano di legalità, legge elettorale, senso dello Stato, concetti né semplici né semplificati, applauditi con calore da una folla trasversale alle generazioni. Che punta il dito contro l’assenza il Pd, come ricordano decine di cartelli satirici con Bersani addormentato e la scritta "Non facciamo rumore altrimenti il Pd si sveglia". E in serata Ignazio Marino dice con amarezza: "E’ un errore che il Pd non sia qui".

Dopo qualche goccia di pioggia la serata diventa bella, il cielo senza nubi. Guglielmo e i suoi amici frequentano il terzo anno del liceo "Mamiani" a Roma: "Siamo qui contro Berlusconi che ci toglie il diritto allo studio, che ci toglie il futuro, siamo qui perché il popolo Viola comunica su Internet e la rete è l’unica voce libera rimasta". Parola di adolescenti che tra pochi giorni torneranno a sfilare in una grande manifestazione contro la riforma Gelmini. E infatti tanti e numerosi sono i precari della scuola, molti hanno i capelli bianchi, mentre il Coordinamento Viola di Milano porta uno striscione con una frase di Montanelli: "Il berlusconismo è veramente la feccia che risale dal pozzo".

I gruppi emergenti portano sul palco rock e canzoni di lotta, tammorre e rap napoletani. Ci sono i Rein, c’è Zona Rossa Crew, Le Formiche, Effetti Collaterali, la piazza assomiglia a quella del concerto del Primo maggio, ma esplode in un applauso quando il rappresentante dei partigiani dell’Anpi grida: "Politici, basta, ma che ci frega a noi della casa di Montercarlo, a noi interessa chi la casa non ce l’ha, chi non ha un tetto sulla testa...". Vanno a ruba le magliette con la scritta: "Partigiani del terzo millennio". In uno spicchio dell’immenso sagrato ci sono i comitati dei senzacasa, i coordinamenti dei senza tetto, arrivano da Roma, da Napoli, "da vent’anni siamo in lista - dice Salvatore Augelli, 50 anni, disoccupato - ma l’assessore ha venduto gli elenchi alla Camorra, chi ha pagato il pizzo è entrato, gli altri via, in fondo alla graduatoria, e non importa se avevamo il punteggio per arrivare primi".

E’ la disperazione del paese reale, che chiede soprattutto legalità. "La società italiana si sta decomponendo - dice Stefano Rodotà dal palco - c’è stata una pianificazione legislativa del degrado, una regressione culturale, c’è un attacco alla scuola, al futuro dei ragazzi, restiamo uniti, non dividiamoci, questo è il momento del tutti con tutti". "Grazie professore", gridano dal prato. Le divisioni tra l’ala dura dei Viola che contesta l’irruzione dei simboli politici, e chi invece allarga le maglie, sembra distante da qui, roba sterile. E tocca poi a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, assassinato dalla mafia, accendere il pathos del popolo delle "Agende Rosse". Centinaia di giovani che sventolano un libretto rosso a ricordo della famoso diario da cui il giudice Borsellino non si separava mai, agenda scomparsa (o fatta scomparire) dopo l’attentato. "Siamo nel fondo del baratro, la corruzione è la regola, Berlusconi che offende la Costituzione non può citare il nome di Calamandrei, stanno vincendo la mafia, la n’drangheta, il Premier si è alleato con Gheddafi per lasciar morire centinaia di disperati nel canale di Sicilia...". Un’invettiva durissima, che finisce con il grido, "Resistenza", moltiplicato per centomila voci. Molti hanno gli occhi lucidi. Per fortuna la musica ricomincia, ed è festa fino a notte.

Non molti mesi fa, quando Angela Merkel fu catturata da calcoli politici talmente piccoli e brevi da perdere di vista l’interesse del proprio stesso Paese al salvataggio europeo della Grecia, il filosofo Jürgen Habermas scrisse un articolo importante sulla Zeit, il 20 maggio, in cui la mise in guardia da una paura comune a tanti europei: «Il timore delle armi di distruzione di massa che sono i tabloid popolari non vi fa vedere le armi di distruzione di massa dei mercati finanziari».

È una paura introversa, nazionalista, che rischia soprattutto di vanificare quello che per mezzo secolo è stato in Germania il principale punto di forza, appreso secondo il filosofo grazie all’Olocausto: un’attitudine popolare diffusa a mutare mentalità, ad assumersene le «fatiche infinite», a riconoscere che esistono necessità che generano nuove libertà. La Repubblica Federale nacque con queste qualità. Edificò con Parigi l’Europa, forte delle istituzioni federali che perfezionò in patria e che facilitarono un pensiero post-nazionale.

Si accinse all’immane impresa dell’unificazione, di cui oggi celebra il decimo anniversario, e che ebbe costi altissimi: in 10 anni, più di 1.500 miliardi di euro. Come scrive Bernd Ulrich sulla Zeit del 30 settembre, l’unificazione smosse anche le sicumere della vecchia Repubblica di Bonn, immettendo in essa «16 milioni di punti interrogativi».

Questo adattamento tedesco alla sovranità ridotta (a una «costellazione postnazionale», dice Habermas) ha vissuto ripetute stasi, ma ora sta rivenendo in superficie, potente. Spinto dagli eventi, e dalla consapevolezza che Berlino con le sole proprie virtù non si salva né in Europa né nel mondo, il governo tedesco ha scelto ancora una volta l’Europa: non solo ha consentito al salvataggio della Grecia, ma con tenacia vuole adesso che l’Unione si dia nuove regole per affrontare crisi future. Come scrive Beda Romano, sono le stesse antiche virtù - costanza, tenacia, pazienza - che oggi spiegano l’inattesa ripresa dell’economia tedesca, il realismo ineguagliato dei sindacati, infine la scelta di «impegnarsi in prima fila per il futuro dell’Europa» chiedendo norme più severe e federali per frenare i deficit pubblici ( Il Sole - 24 Ore, 1-10-10).

Di qui l’appoggio tedesco alla riforma, proposta il 29 settembre dall’esecutivo europeo, del Patto di stabilità: una riforma che toglie agli Stati il potere di bloccare le sanzioni con una maggioranza di due terzi, creando una disciplina automatica gestita dall’Unione, trasformata di fatto in governo economico. Ancora una volta dunque la Germania è pronta a mutare, e a dare un’impronta europea alla propria leadership economica: purché tuttavia gli alleati colgano l’occasione, scorgendo in essa un’occasione non tedesca ma di tutti. La storia dimostra che tale condizione è essenziale, perché la paziente costanza tedesca non è affatto continuativa. La preferenza per una costellazione postnazionale si è attenuata quando il Paese, riunificandosi, ha riacquisito parte della sovranità. La sua scommessa europea si è fatta più scettica, egoista: lo slancio di Adenauer e Brandt, di Schmidt e Kohl, si è appannato.

Ma è un appannamento non dovuto solo al computo di tornaconti nazionali male intesi: il computo di chi vede nell’Europa un «interesse esterno», estraneo a quello interno. La regressione tedesca si manifesta ogni qual volta gli alleati (Parigi in primis) si mostrano prigionieri della chimera della sovranità, e si convincono che il suo limite sia un’opzione anziché un fatto.

Quando Kohl trattò con Mitterrand l’unità tedesca offrì la rinuncia al marco in cambio di un’unione politica europea, e non l’ottenne. Non l’ottenne né da Parigi né dagli Stati dell’Est, appena usciti dall’incubo della sovranità limitata teorizzata da Brezhnev nel ’68. Seguirono anni in cui egemone dell’Unione divenne Blair. Oggi non è più così, ma gli animi rimangono riottosi: altre proposte di Berlino sono state respinte, durante la crisi greca, a cominciare dal Fondo monetario europeo e dalla revisione dei trattati.

Resta che la crisi ha messo fine allo stallo europeo, nonostante i cavalieri inesistenti delle sovranità nazionali e le loro armi distruttive. Gli stessi veleni delle dispute tedesche sulla Grecia (i tabloid che invitavano a non pagare per i peccaminosi; la certezza che l’autarchica disciplina fosse un bastevole scudo) hanno prodotto, omeopaticamente, quello di cui l’Europa ha più bisogno: una grande contesa sulla natura dell’Unione.

D’un tratto negli Stati, e specialmente in Germania, si è iniziato a parlare delle condotte degli alleati come di condotte di concittadini di un’unica pòlis. Nello stesso momento in cui si riconosceva che malato non era l’euro ma i singoli deficit pubblici, economie e bilanci cominciavano a esser dibattuti come affare interno europeo.

La necessità della globalizzazione apriva nuovi spazi di libertà, inventiva. Sulla Frankfurter Allgemeine, Klaus-Dieter Frankenberger scrisse, il 26 agosto: «La crisi dell’euro, che è in realtà crisi dei debiti pubblici, può infine riesumare quel che restò incompiuto o fallì alla nascita dell’euro: l’unione politica». Secondo il grande storico Heinrich August Winkler, il neo-nazionalismo tedesco può grazie a tale crisi esser superato: «Nel giro d’una notte, essa risvegliò negli europei la coscienza che nel frattempo era nata qualcosa come una politica interna europea». Quando l’età pensionabile, i salari degli statali, le linee sindacali, la disciplina di bilancio, il debito pubblico d’un singolo diventano oggetti di disputa in altri Stati dell’Unione, quel che si crea è, anche se all’inizio distorto, spazio pubblico europeo: «Al progetto Europa, la crisi offre l’occasione insperata: esso deve esser di nuovo legittimato; non può più essere un progetto di élite» ( Frankfurter Allgemeine, 13-8-10).

La Germania ha un vantaggio rispetto a altri europei. Ha una storia maledetta: non mascherabile, falsificabile, come nella Francia postbellica di De Gaulle, nell’Italia delle amnesie, nella Grecia succube per decenni del potere militare Usa. La sconfitta le ha insegnato a vedere le sciagure delle sovranità nazionali totali. Anche la sconfitta dello Stato comunista l’ha aiutata, perché i tedeschi dell’Est sono entrati nell’Ovest tedesco iniettandovi una predisposizione ai mutamenti mentali, ai sacrifici dello status quo, che i connazionali ricchi stavano smarrendo.

Naturalmente, la tentazione di regredire esiste: nello stesso momento in cui apre all’Europa, ad esempio, Berlino torna a chiedere per se stessa (e non per l’Unione) un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo stesso Joschka Fischer fu incostante, come ministro degli Esteri: nel famoso discorso all’Università Humboldt, il 12 maggio 2000 a Berlino, propose una Costituzione europea prima dell’allargamento. Poi fece marcia indietro, sulla scia dell’11 settembre, preferendo a istituzioni più forti un allargamento alla Turchia che desse all’Unione dimensioni geografiche più grandi. I criteri di Copenhagen, che impongono ai Paesi candidati non solo disciplina economica ma sovranità delegate e un riconoscimento della superiore autorità dell’Unione - ricorda Winkler - si persero per strada. È il motivo per cui l’allargamento ha funzionato male, e rischia di degenerare se il rafforzamento delle istituzioni non torna a esser prioritario.

Se a un certo punto scemano costanza e tenacia, è perché la crisi è una lama a doppio taglio: può produrre presa di coscienza ma anche nuove illusioni, e l’infausta passione dell’impazienza descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito: «L’impazienza esige l’impossibile, cioè il raggiungimento del fine ma senza i mezzi». Nell’Unione, l’impazienza ti fa credere che basta invocare l’Europa, senza darle i mezzi per esistere.

Ho trovato molto intelligente la proposta del manifesto di una serie di supplementi sull'unità d'Italia (La conquista). Come nel caso dell'incontro in programma a Teano in ottobre, è molto opportuno che sinistra e società civile propongano una loro lettura del 150° della nascita dello Stato nazionale italiano, pena, come scritto nella presentazione al primo di questi supplementi, subire «due retoriche solo apparentemente opposte», quelle di «nazionalisti e leghisti». Perciò ho letto con grande curiosità il primo fascicolo e ne ho ricavato un'impressione che vorrei discutere.

Gabriele Polo scrive che «siamo alla soglia di una società che si frammenta e si rinchiude in una sorta di neo-feudalesimo, si ritrae in microcomunità nutrite di paure e sospetti». E, aggiunge, le due retoriche cui si faceva cenno sono lontane anni luce «da quell'universalismo cosmopolita che nutrì le migliori culture ottocentesche, il "Risorgimento radicale" poi sconfitto e che continuò a vivere nel conflitto sociale del nascente movimento operaio». Perciò si rifiuta sia il «nazionalismo» sia il localismo (anche se non si adopera questa parola) dei leghisti, in nome dell'universalismo cosmopolita. Marco Meriggi aggiunge due cenni al municipalismo tanto radicato nella storia italiana, per dire che esso era agitato dalle élites aristocratiche, unitarie perché insofferenti alle burocrazie poliziesche degli stati pre-unitari, e in conclusione scrive: «Non stupisce che, di fronte a questo deficit di rappresentatività sociale (dello Stato unitario, ndr), le sirene municipalistiche e localistiche che si erano lasciate sentire già prima dell'unificazione tornassero presto a proporre la propria forza centrifuga».

L'impressione che ne ricava il lettore è che, certo, lo Stato unitario era liberale-elitario, ma le «sirene» del municipalismo spingevano verso un passato «medievale» (epoca in cui in effetti l'autonomia dei comuni italiani nacque, ciò che è parte non a caso della retorica leghista, con il Carroccio e tutto il resto). Di questo vorrei discutere perché per un verso mi pare che questa lettura così univoca tralasci una corrente importante del «Risorgimento radicale», quella di Carlo Pisacane. E per altro verso non chiarisca quale fu in effetti il breve futuro dell'universalismo cosmopolita del movimento operaio e comunista (nel senso di Marx) al suo nascere. La domanda è cioè questa: siamo sicuri che il municipalismo - storicamente così solido in Italia - sia di per sé la base culturale e sociale del leghismo attuale?

Se si va a rileggere Teoria della rivoluzione di Pisacane, si vedrà che il rivoluzionario che si suicidò per non cadere nelle mani dei contadini aizzati dai Borboni immaginava una nazione italiana singolarmente simile a quella che decenni dopo, come ha raccontato Karl Marx, disegnò per la Francia la Comune di Parigi. La nazione sarebbe stata formata da autonomi comuni; le leggi nazionali, per diventare tali, avrebbero dovuto essere approvate da ogni singolo comune; i deputati della convenzione o congresso nazionale erano revocabili in ogni momento e dotati di un mandato imperativo, e lo stesso doveva valere per i consiglieri comunali; il potere esecutivo veniva assegnato a uno o più membri di queste assemblee; il suffragio era ovviamente universale; il potere legislativo era a sua volta elettivo, e così via. Il punto di divisione tra Pisacane e Mazzini (che il rivoluzionario napoletano stimava come un maestro) era appunto nella forma da dare al futuro Stato unitario: centralista per il primo, federalista (in quel modo radicale) per il secondo. Ma perché Pisacane era tanto convinto che l'Italia-nazione, frammentata da secoli, avrebbe dovuto essere federalista e municipalista? Non temeva le «forze centrifughe»? È una bella domanda. Si può rispondere: perché era «ideologico», sotto l'influenza dei primi comunisti, ecc. Oppure: lui, che era meridionale, un fratello nell'esercito borbonico, ben consapevole della forza della reazione dopo la controrivoluzione napoletana di fine '700, cercava un modo perché l'unità del paese nascesse dalla società, dalle sue tradizioni, da interpretare in modo rovesciato. Perse, e quindi in un certo senso aveva torto. Perciò la corrente federalista fu presto abbandonata dal nascente movimento operaio. Viceversa, l'universalismo cosmopolita andò in pezzi, insieme alla Seconda Internazionale, quando i partiti socialisti votarono i crediti di guerra, nel '14, nei rispettivi parlamenti nazionali; e quello della Terza Internazionale, dopo il '17, fu affondato dalla teoria staliniana del «socialismo in un paese solo». La storia del movimento operaio, per tutto il '900, fu quella di una lotta per affermare diritti e democrazia nel recinto degli Stati-nazione e allo stesso tempo della aspirazione, salvo eccezioni frustrate, a diventare un movimento inter-nazionale (e non è casuale che l'espressione corrente fosse «internazionalismo» e non «universalismo» o «cosmopolitismo proletario»).

Il messaggio della Conquista è evidentemente che rileggere la storia serve a orientarsi. Ad esempio, trovo che «regalare» alla Lega il municipalismo italiano è un errore. I leghisti non sono i tutori dell'autonomia delle comunità locali; sono piuttosto, come molti hanno detto in questi anni, gli organizzatori della competizione nel mercato globale non delle comunità del nord Italia, ma di una macro-regione definita su base economica, innanzitutto, e la cui base etnico-nazionale viene inventata allo scopo: la Padania. Si può dire che i leghisti sono i sadici che obbligano lavoratori e comunità del nord a sfruttare se stessi e a cercarsi dei nemici: nei migranti, che pure sfruttano, nelle merci cinesi, nei banchieri tedeschi, e così via all'infinito. Viceversa abbiamo l'esempio pratico di comunità, anche del nord, che sanno ribellarsi a questo comando, come i vicentini contro la base o i valsusini contro la Tav: comunità democratiche, anzi neo-democratiche, capaci di guardare al territorio come un bene comune, e aperte al mondo. Penso che Pisacane si troverebbe a suo agio, al Presidio No Dal Molin.

Ed è talmente forte questa tradizione municipale in Italia che la stessa Costituzione all'art.114 scrive: «La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato. I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi». La Repubblica nella visione dei costituenti partiva dal basso, dall'unità di base della cittadinanza, i comuni, anche se poi i poteri decisivi venivano affidati allo Stato. Che in Italia è nato male ed è cresciuto peggio, tra il fascismo e i quarantacinque anni di Democrazia cristiana. Perciò ritrovarsi a Teano (dal 23 al 26 ottobre) e limitarsi a «difendere» lo Stato nazionale dall'aggressione leghista rischia di essere autolesionista. Come se la sinistra avesse paura delle autonomie sociali e cittadine e chiedesse allo Stato di mettere ordine nel caos. Il nostro passato ci suggerisce altre possibilità, più adeguate a un mondo in cui gli Stati-nazione hanno sempre meno peso (come sostiene Ulrich Beck in Potere e contropotere nell'età globale), l'economia ne smembra e riorganizza i territori in micro-nazioni più aggressive (dal nord Italia alle Fiandre), e cioè che la via più praticabile per ridare la parola ai cittadini comincia - anche se ovviamente non finisce - dai municipi.

È la riforma della legge elettorale il passaggio cruciale che ora si apre per l´intera politica italiana. Non si tratta né di un noioso tecnicismo da politologi, né di una materia riservata agli uomini del Palazzo. La riforma della legge elettorale è piuttosto l´unico strumento ora praticabile (anche se non è per nulla a portata di mano) per quanti vogliano tentare di rifondare la politica in Italia. I motivi per cui i finiani potrebbero far cadere l´esecutivo certo non mancano: dalla legge-scudo per Silvio Berlusconi a una riforma iniqua del processo civile, dalla riproposizione del provvedimento sulle intercettazioni agli stessi numerosi progetti di riforma della legge elettorale già presentati.

E un governo tecnico che nascesse dalla crisi dell´attuale maggioranza non sarebbe per nulla, contrariamente a quanto sostiene il ministro Alfano, un´ipotesi parafascista: sarebbe anzi il gesto di responsabilità di un ceto politico finalmente consapevole del baratro in cui sta sprofondando il Paese.

Un sistema politico che oggi all´unisono – tranne i due partiti più apertamente populisti – teme le elezioni perché sa che i cittadini guardano alla politica, com´è raccontata e praticata oggi in Italia, con un misto di disinteresse, disgusto e disperazione. Il che dimostra che siamo ormai in presenza di una crisi della democrazia repubblicana, di cui la legge elettorale è insieme prodotto, causa, e manifestazione.

Questa legge si fonda infatti su un premio di maggioranza che trasforma gli asini in cavalli, e le coalizioni minoritarie in maggioritarie; e si fonda al tempo stesso sulle liste bloccate, ossia sulla cooptazione dell´intero Parlamento a opera delle segreterie dei partiti. Il mandato libero – che, certo, a norma di Costituzione garantisce l´indipendenza dell´eletto ma che lo obbliga anche a essere credibile agli occhi dei cittadini per potere, appunto, essere eletto – si trasforma, grazie a questa legge, in irresponsabilità politica e morale davanti agli elettori, in supina obbedienza alle segreterie di partito e, eventualmente, in occasione, per il deputato o il senatore, di passare all´obbedienza della segreteria di un altro partito, che gli offra qualcosa di più. Oligarchie e trasformismo infettano così la rappresentanza, delegittimandola radicalmente; e infatti non a caso è scavalcata dal caudillismo populista e megalomane del capo del governo.

La legge elettorale vigente, inoltre, alimenta, col premio di maggioranza, la tendenza (già presente nel nostro Paese) a dar vita a mega-partiti dotati di nessuna identità e di scarsa coerenza interna, costruiti come sono per rispondere a una domanda di aggregazione bipolare a tutti i costi; è infatti figlia dell´illusione che il bipolarismo (che in realtà c´è sempre, nella misura in cui ci sono maggioranza e opposizione, orientamenti di destra e di sinistra) debba essere anche bipartitismo (quasi perfetto), prodotto forzosamente da meccanismi elettorali.

I partiti acquistano, grazie a questa legge, enorme potere e al contempo pochissima capacità di azione, e si espongono continuamente a defezioni, scissioni – nobili o trasformistiche che siano – che rendono di fatto impossibile l´attività governare nel medio periodo. E questo vale tanto per la destra quanto per la sinistra.

Questa legge, insomma, condensa in sé tutta la retorica semplificatoria e antipolitica con cui l´Italia reagì alla degenerazione della democrazia parlamentare della prima repubblica in partitocrazia e in tangentocrazia. Reazione tardiva e infantile, che pretese di ridare serietà alla politica col negare la sua essenza di mediazione, che si deve confrontare con la complessità dei problemi della società di oggi. Si pretese di eleggere, di fatto, il governo e di rendere superfluo il Legislativo; si teorizzò la centralità – come se fosse un patto giurato – del programma elettorale, che a destra non era che un insieme di slogan e a sinistra una monografia accademica che pretendeva di elencare minuziosamente i mali del mondo e di dettarne la cura; ci si illuse sui benefici effetti dell´alternanza, che non ci sono stati. Anziché rafforzare la sovranità del popolo – che, in ogni caso, in un regime parlamentare, è sempre destinata a essere rappresentata – , la pretesa semplificazione e la vantata immediatezza hanno reso la politica più artificiosa, manipolatoria, autoreferenziale, arcana. Che il governo abbia ricevuto una fiducia che è una sfiducia ne è il frutto più paradossale e più vero.

È importante che si dibattano i pregi e i difetti dei sistemi elettorali che dovrebbero sostituire il Porcellum: proporzionale alla tedesca, doppio turno alla francese, Mattarellum, estensione nazionale del sistema provinciale, e così via. Ma ancora più importante è che la nuova legge elettorale consenta al partito di essere votato per la sua proposta politica, e al candidato di essere eletto per la sua credibilità; che consenta alle forze politiche di emergere nella loro reale consistenza e articolazione secondo le esigenze e la storia del Paese, e di fare politica attraverso le alleanze tra diversi e non attraverso le ammucchiate. E soprattutto che consenta al Paese di sperare che possano essere battute la politica populistica, la retorica aggressiva e la prepotenza sovrana di Bossi e Berlusconi – gli avversari strutturali della riforma della legge elettorale –, e di accettare che la politica sia quello che deve essere: analisi, riflessione, azione, e non «una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla».

Parliamo di «Stati uniti d’Italia - Scritti sul federalismo democratico » di Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio (pref. di Nadia Urbinati, pp 150 euro 17.50, Donzelli): le idee sul federalismo democratico e riformatore di uno dei padri del nostro Risorgimento, riprese e commentate da Norberto Bobbio all’indomani della Resistenza. Una lezione che rischia di essere tradita da chi accampa oggi la bandiera del federalismo - Carlo Cattaneo (1801-1869) Le sue idee di rinnovamento scientifico, sociale e politico furono propugnate attraverso«Il Politecnico», la rivista da lui fondata, e poi in una lunga attività pubblicistica. Sostenitore dell’autonomia locale e della democrazia diretta, si dichiarò contrario alla forma di Unità realizzatasi nel 1861.

Fatta l’Unità, Cattaneo ribadì nel 1862 che la «federazione è la sola unità possibile in Italia»; eppure cominciò a lavorare a un programma di autonomia legislativa e amministrativa, non di federalismo. La sua risposta al piemontesismo accentratore, a unità avvenuta, era dunque una larga autonomia regionalistica - un’idea che, lo abbiamo accennato, altri politici italiani coltivarono in quegli anni,come Zanardelli e Minghetti, e che risultò purtroppo sconfitta e sconfessata dal riordino amministrativo del 1865, disegnato sul modello francese delle prefetture e arcignamente centralistico perché volutamente anti-democratico. A unità avvenuta, il moderato Cattaneo impiegò l’idea federalista per proporre e teorizzare una politica di autonomie centrata sui comuni («i comuni sono la nazione; sono la nazione nel suo intimo asilo alla libertà»). Dall’unità centralistica all’autonomia locale più larga: nell’Italia unita, fu questa la proposta pratica che Cattaneo derivò dal suo federalismo teorico, non un federalismo a tutti i costi. La sua fu una proposta consapevolmente moderata perché egli era, appunto, un liberale e non un giacobino; moderata nel senso che voleva operare per via di riforme in un contesto specifico, non in astratto o per soddisfare ragioni dottrinarie. In questa caratterizzazione di Cattaneo federalista emoderato traspare tutta l’ammirazione di Bobbio, per il quale l’essere moderato e non giacobino voleva dire essere liberali, avere cioè una concezione della libertà che riposa sull’arte della limitazione. Tradotta in diritti e leggi, governata da una pratica di contrappesi e di controlli costituzionali, la libertà dei moderni non poteva che essere moderata. A partire da questa stessa premessa squisitamente liberale, la proposta di Cattaneo per l’Italia post-unitaria non poteva che essere protesa verso un ordinamento di larghe autonomie centrato sul comune.

Le istituzioni politiche contribuiscono a costruire una nazione non meno della lingua, della religione e delle tradizioni. Un popolo che come l’Italia ha vissuto per numerose generazioni in uno stato unitario è, dopo tutto, un popolo senza memorie di federalismo. Questo fatto elementare fu ammesso da uno dei fondatori della Lega Nord, Gianfranco Miglio, il quale dovette riconoscere già nel 1994 che non era facile «costruire una federazione in un paese che non ha una “cultura federale”». A distanza di vent’anni e con un federalismo mai studiato seriamente ma prima propagandato come un’arma di attacco per giungere al potere nazionale, e poi costruito a colpi di decreti e di leggi strappati da una minoranza numerica in cambio della stabilità di coalizioni governative, sembra essersi fatto strada un fenomeno che è in se stesso illogico e aberrante: un federalismo giacobino, decretato e voluto dal governo centrale, generatore di una politica che più che allentare il centralismo sembra allentare il senso dello stato senza rivitalizzare il sentimento di unione e di fiducia, quel senso di simpatia che, per i pensatori liberali e federalisti di tutti i tempi, è essenziale al foedus perché agevola la comunicazione fra le parti di un paese e impedisce che si innalzino barriere tra le regioni. David Hume pensava che la simpatia fosse la più peculiare «qualità della natura umana» perché rende possibile la comunicazione tra gli individui, per quanto differenti siano nelle opinioni, negli interessi e nel carattere. A questa qualità Hume attribuiva il potere di rendere i popoli capaci di vivere insieme pur nella diversità e di rendere gli individui propensi a condividere esperienze in comune. Indubbiamente, la simpatia che i cittadini sentono per il loro popolo è più forte di quella che sentono per gli altri popoli.

Ma, come pensavano anche i fondatori della Comunità europea, è possibile educare la simpatia. John Stuart Mill esemplificava la simpatia come quel sentimento che porta, nel caso estremo di una guerra, a «combattere dalla stessa parte» e quindi indicava due precondizioni perché la federazione funzionasse: un «sentimento di identità di interesse politico » e un sentimento di simpatia. Il primo sentimento avrebbe sostenuto la vita delle istituzioni liberali, mentre il secondo avrebbe sostenuto l’unità della nazione.

Alla radice del sentimento di «mutua simpatia» e reciprocità vi è la convinzione di origine repubblicana secondo la quale la piccola patria può servire a rafforzare il sentimento di appartenenza alla più larga patria. Si tratta di sentimenti, e, come accade con tutti i sentimenti, essi crescono con la pratica. Uno stato centralizzato tende a raffreddare la simpatia civica dei cittadini nella misura in cui li abitua a pensare alle istituzioni come entità distanti e il cui funzionamento non dipende da loro. Questo è l’argomento più forte a favore dell’auto- governo locale e del federalismo: un argomento di civismo democratico. Esso è stato condiviso da tutti i repubblicani, quelli unitari come quelli federalisti, e da alcuni liberali. Mazzini sognava sì una Repubblica unitaria, ma non negava affatto l’importanza del governo comunale. Federalisti liberali come Cattaneo pensavano che la federazione potesse incoraggiare l’unione perché avrebbe rafforzato la simpatia tra le parti di un largo territorio. Il principio alla base di queste visioni è che si impara a rispettare l’umanità rispettando i propri vicini. Nel Vangelo, i doveri verso l’umanità sono resicome doveri verso il prossimo: diliges proximum tuum.

L’IMPORTANZA DELLA SIMPATIA

Se la simpatia è così importante per la federazione, essa è il test, la prova, del fatto che una federazione funzioni e duri nel tempo. Il Belgio si costituì nel 1830comeuno stato centralizzato, che però ha gradualmente adottato il bilinguismo e poi creato una vera e propria autonomia federal-cantonale. Ma questa traiettoria centrifuga non ha ancora messo fine al Belgio, non ha generato due stati separati come è avvenuto nel caso della Cecoslovacchia con la fine del Patto di Varsavia. Se l’unione nonviene confusa con un’unità accentrata, la federalizzazione di uno stato unitario può diventare la strada verso una nuova rinascita di simpatia nazionale, anziché verso la secessione. Contrariamente ai nazionalisti, i federalisti cercano di unire, benché non vogliano unificare. Il loro lavoro, ha scritto Michael Burgess nel suo studio sul processo a un tempo di unione e di federalizzazione, che ha dato vita alla riunificazione della Germania dopo la guerra fredda, è molto più impegnativo e delicato di quello dei centralisti, perché contrariamente a questi ultimi essi si propongono di sostenere un movimento «in una direzione unitaria senza volere uno stato unitario».

Una federazione è quindi una delicata combinazione di due forze egualmente forti: una centrifuga e una centripeta. La disputa nel nostro paese sul federalismo è una disputa in effetti su come governare queste due forze: se al fine di rivitalizzare l’unità o invece per raffreddare l’unità e magari agevolare un processo di secessione. Questo è il rischio al quale è soggetto il nostro paese nell’uso spesso superficiale e molte volte strumentale dell’argomento del federalismo in chiave anti-unitaria. Dove fermare il movimento centrifugo e quindi come fare della simpatia il sentimento ispiratore del federalismo è il problema che sta di fronte al nostro paese, oggi.

L’icona è tratta dal quadro di Stefano Arienti «Carta d’Italia Unita», 2010 (Collezione Maxxi, Roma)

Dopo due mesi di esibizione muscolare virtuale, cacciando i finiani, invocando le elezioni immediate, annunciando l´autosufficienza della maggioranza, alla resa dei conti Silvio Berlusconi ieri ha dovuto prendere atto che non ha i voti senza Fini, che la compravendita dei deputati non è bastata, che le elezioni lo spaventano. Ha chiesto i voti ai suoi nemici mortali, ha evitato ogni polemica, ha dribblato tutte le asperità, volando basso. Pur di galleggiare, tirando a campare come un doroteo, fingendo davanti a se stesso e al Paese che dopo la spaccatura del Pdl tutto sia come prima. E invece tutto è cambiato, tanto che il Premier rimane in sella ma in un paesaggio politico completamente diverso: con Fini che vara il suo nuovo partito e si allea con Lombardo, moltiplicando fino a quattro i gruppi di maggioranza, che volevano essere due - Pdl e Lega -, senza bisogno di spartire con altri. Così, potremmo dire che ieri è nato il Berlusconi-bis, perché a numeri intatti la forza elettorale si è trasformata due anni dopo in debolezza patente della leadership.

Il Presidente del Consiglio non è stato capace di accettare la sfida politica che lo tormenta, e invece di saltare l´asticella alzata davanti al suo cammino dai finiani ha preferito passarci sotto, scegliendo il basso profilo, la dissimulazione, la finzione.

Soprattutto, non ha voluto o non ha potuto portarsi all´altezza della cornice drammatica di una crisi conclamata e irreversibile nella sostanza politica, anche se rattoppata temporaneamente nei numeri. La frattura radicale della destra, di cui vediamo solo i primi effetti, manca ancora di una lettura ufficiale e di un interprete responsabile. Il Paese ne ha diritto. Si possono ingannare i telespettatori del tg1 e del tg5, com´è abitudine, ma non si può ingannare la politica, che da ieri assedia Berlusconi con una maggioranza posticcia e instabile, costruita com´è su alleati-rivali, impastata di ricatti, dossier, intimidazioni e paure.

È la strategia del dominio, la mitologia della sovranità assoluta che vanno in pezzi con la fiducia avvelenata di ieri. Berlusconi ha bisogno del salvacondotto, e dunque dei voti di un avversario che prova ad uccidere politicamente e mediaticamente ogni giorno, e che da parte sua lavora non più nel lungo termine, ma nel medio, per far saltare tutto l´equilibrio berlusconiano del comando, costruito per sedici anni. L´esito di questo conflitto sarà politicamente mortale. Con la fiducia, Fini salda un patto con gli elettori (non più col Premier e con il Pdl), e guadagna tempo per costruire il partito che ha annunciato ieri. Berlusconi può fingere di guardare ai numeri e non alla rottura irrimediabile del suo partito, alla crisi plateale dell´ipotesi di autosufficienza dell´asse tra il Premier e Bossi. Dove lo portano dunque quei numeri? Verso quale approdo politico? Per quale progetto? Con quali alleati?

La realtà è che non si è rotta soltanto la macchina politica del ´94, ma anche la costruzione ideologica che ha interpretato l´Italia – salvo brevi parentesi – per sedici anni. La svolta è dunque enorme, e noi vediamo oggi solo il primo atto. La propaganda compilativa in cui si è rifugiato ieri il Premier non può nascondere la realtà. Diciamolo chiaramente: a luglio, con la cacciata di Fini, è finito il Pdl. Ieri, con questa fiducia malata, è finito addirittura il quadro politico di centrodestra così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi: con un signore e padrone assoluto retrocesso a capo di un quadripartito ostile e minaccioso, come all´epoca del peggior Caf, nell´agonia della prima repubblica.

Ho detto ieri, dialogando con i lettori e gli spettatori di Repubblica Tv, che ormai la politica in Italia è una cosa buia, che non appassiona più nessuno, né chi la fa, né chi la segue. Su questa affermazione mi hanno scritto in tanti, che credo abbiano condiviso con me questo sentimento di impotenza, avvertito talvolta come un impedimento, la denuncia di qualcosa che ostruisce la partecipazione, il normale rapporto che un cittadino deve avere con la vita pubblica del suo Paese. E insieme, c´è un altro sentimento in chi mi scrive: rabbia e ribellione per sentirsi espropriati dalla politica come strumento di impegno e di cambiamento, rifiuto di accettare che questa stagnazione prevalga.

Chi analizza fatti, episodi e metodi della politica italiana, in questo momento, non può che avere una reazione di spavento e pensare: non è per me. Ricatti, timori, intimidazioni. Tutti hanno paura. Anche io ho paura: non ho nulla da nascondere, con la vita ridotta e ipercontrollata cui sono costretto, ma sento questo clima di straordinaria ostilità, e vedo l´interesse a raccoglierlo, eccitarlo, utilizzarlo. Mi guardo intorno e penso: come deve sentirsi un giovane italiano che voglia usare in politica la sua passione civile, il suo talento? La politica di oggi lo incoraggia o lo spaventa?

E qual è il prezzo che tutti paghiamo per questa esclusione e per questa diffidenza? Qual è il costo sociale della paura? Chi fa già parte del sistema politico nel senso più largo del termine, o ha comunque una responsabilità pubblica e sociale, sa che oggi in Italia qualsiasi sua fragilità può essere scandagliata, esibita, denunciata ed enfatizzata. Non importa che non sia un reato, non importa quasi nemmeno che sia vera. Basta che faccia notizia, che abbia un costo, che faccia pagare un prezzo, e che dunque serva come arma di ammonimento preventivo, di minaccia permanente, di regolamento dei conti successivo. Ma la libertà politica, come la libertà di stampa, si fonda sulla possibilità di esprimere le proprie idee senza ritorsioni di tipo personale. Se sai che esprimendo quell´opinione, o scrivendola, tu pagherai con un dossier su qualche vicenda irrilevante penalmente, magari addirittura falsa, ma capace di rovinare la tua vita privata, allora sei condizionato, non sei più libero.

Siamo dunque davanti a un problema di libertà, o meglio di mancanza di libertà. Siamo davanti a uno strano congegno fatto di interessi precisi, di persone, di giornalisti, di mezzi, di strumenti mediatici, che tenta di costruire un vestito mediaticamente diffamatorio; ha i mezzi per farlo, ha l´egemonia culturale per imporlo, ha la cornice politica per utilizzarlo.

Nella società del gossip si viene colpiti uno per volta, e noi siamo spettatori spesso incapaci di decodificare gli interessi costituiti che stanno dietro l´operazione, i mandanti, il movente. Eppure la questione riguarda tutti, perché mentre la macchina infanga una persona denudandola in una sua debolezza e colpendola nel suo isolamento, parla agli altri, sussurrando il messaggio peggiore, antipolitico per eccellenza: siamo tutti uguali, dice questo messaggio, non alzare la testa, non cercare speranze, perché siamo tutti sporchi e tutti abbiamo qualcosa da nascondere. Dunque abbassa lo sguardo, ritraiti, rinuncia.

Come si può spezzare questo meccanismo infernale, pericoloso per la democrazia, e non solo per le singole persone coinvolte? L´antidoto è in noi, in noi lettori, spettatori e cittadini, se preserviamo la nostra autonomia culturale, se recuperiamo la nostra capacità di giudizio. L´antidoto è nel non recepire il pettegolezzo, nel non riproporlo, nel non reiterarlo. Nel capire che ci si sta servendo di noi, dei nostri occhi, delle nostre bocche come megafoni di pensieri che non sono i nostri. Nel non passare, come fanno molti addetti ai lavori, le loro giornate su siti di gossip che mentono a pagamento, che costruiscono con tono scherzoso la delegittimazione, che usano informazioni personali soltanto per metterti in difficoltà. È il metodo dei vecchi regimi comunisti, delle tirannie dei paesi socialisti che volevano far passare i dissidenti per viziosi, ladri, nullafacenti, gentaglia che si opponeva solo per basso interesse. Mai come nell´Italia di oggi si trova realizzato nuovamente, anche se con metodi differenti, quel meccanismo delegittimante.

Dobbiamo capire che siamo davanti a un metodo, che lega Fini a Boffo e a Caldoro nella campagna di screditamento. Dobbiamo ripeterci che in un Paese normale non si comperano deputati a blocchi, giurando intanto fedeltà al responso degli elettori. Dobbiamo sapere che la legge bavaglio non tutela la privacy ma limita la libertà di conoscere e di informare. Dobbiamo sapere che le norme del privilegio, gli scudi dal processo, le leggi ad personam sono i veri polmoni che danno aria a questo governo in affanno, perché altrimenti cade l´impero.

Dobbiamo semplicemente pretendere, come fanno migliaia di cittadini, che la legge sia uguale per tutti, un diritto costituzionale, che è anche un dovere per chi ha le più alte responsabilità. Non dobbiamo farci deviare da falsi scandali ingigantiti ad arte. Ogni essere umano fa errori ed ha debolezze. Ogni politica, ogni scelta ha in se delle contraddizioni. E si può sbagliare sempre. Ma oggi bisogna affermare con forza che se ogni essere umano sbaglia e ha debolezze non tutti gli errori e non tutte le debolezze sono uguali. Una cosa è l´errore, altro è il crimine. Una cosa è la debolezza umana, un´altra il vizio che diviene potere in mano ad estorsori. Comprendendo e smontando la diffamazione che viene costruita su chiunque decida di criticare o opporsi a questo potere, si può resistere, si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità. Non dichiarandoci migliori, ma semplicemente diversi. Rifiutando l´omologazione al ribasso, per salvare invece le ragioni della politica e le sue speranze: salvarle dal buio in cui oggi affondano, con le nostre paure.

©2010Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

Forse, mai prima d’ora l’Unione Europea aveva attraversato una crisi così radicale. Non perché prima d’ora non vi fossero mai stati dissidi fra gli stati membri sulle politiche comunitarie, ma perché per la prima volta il dissenso riguarda i principi fondamentali sui quali l’Unione è nata. Il governo francese e quello italiano sono alla testa di questa crisi e portano la diretta responsabilità di un ritorno arrogante ad una politica delle frontiere quanto addirittura delle espulsioni di massa. L’Articolo 19 della Carta dei Diritti dell’Unione Europea stabilisce che «le espulsioni collettive sono vietate». Nel testo di questo articolo riecheggia la storia europea del Novecento, quelle terribili tragedie che portano i nomi di Olocausto, genocidio e pulizia etnica, la persecuzione e il massacro di individui colpevoli di appartenere a un gruppo etnico o nazionale o di professare una religione. Ebrei e gitani subirono morendo a milioni la conseguenza di una delle più orrende ideologie che abbia prodotto il nostro continente: la stigmatizzazione collettiva, la persecuzione di individui a causa della loro appartenenza a una comunità che non si conforma per una qualche ragione alla cultura e ai modi di vita della comunità nazionale di maggioranza. Le radici dell’Unione Europea sono nei campi di sterminio - da questa memoria occorrerebbe partire quando si giudicano le azioni dei governi.

Non consoliamoci dicendo che gli zingari espulsi in questi mesi dalla Francia, e quelli che il governo italiano promette di espellere ed espelle dal nostro paese, non sono spediti nei campi di concentramento; che, anzi, come nel caso francese, sono "invitati" ad andarsene e accompagnati alle frontiere con in tasca il biglietto di viaggio (di sola andata) pagato con le tasse dei contribuenti. La forma "civile" dell’accompagnamento al confine non cambia la natura gravissima del fatto al quale stiamo assistendo senza, purtroppo, preoccuparci abbastanza: una discriminazione collettiva, una violazione della libertà delle persone - tra l’altro europee - in ragione della loro identità, per ciò che sono. In violazione di un altro articolo della Carta dell’Unione, l’Articolo 21: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali».

È triste e molto preoccupante che nessuna voce laica, nessuna voce politica si sia immediatamente alzata con chiarezza e coerenza per criticare queste proposte o decisioni, per esprimere dissenso e orrore per una pratica che il nostro governo ha reso se così si può dire ordinaria. È sconfortante vedere come la cultura dei diritti umani non sia patrimonio solido della politica culturale dei partiti e dell’opinione pubblica; come solo la Chiesa si alzi per criticare queste decisioni, che solo essa senta il dovere di ricordarci che il nostro paese, come la Francia, ha sottoscritto la Carta dei diritti e quindi anche gli Articoli 19 e 21; che dunque nessun governo europeo può autonomamente decidere in riferimento a una politica europea che stabilisce sostanzialmente il diritto di insediamento e di movimento; che i problemi di integrazione vanno affrontati con politiche di integrazione non con politiche di espulsione. Un discorso che è squisitamente politico e che, soprattutto, è essenziale per la vita dell’Unione. Eppure non sembra appartenere al linguaggio della nostra politica, dei nostri politici.

È significativo che questa recrudescenza della politica cosiddetta della sicurezza avvenga in queste settimane; significativo, perché sembra l’effetto di un’azione la cui regia fa capo a governi che cercano di distogliere con la propaganda contro i Rom l’attenzione per le difficoltà nelle quali versano le loro economie e di mettere a tacere la loro crisi di legittimità. È un caso che tra i punti del programma che il nostro governo ha sfornato (e del quale relazionerà tra qualche giorno il suo leader) vi sia in primo piano quello della sicurezza? È un caso che il Presidente Sarkozy, con un governo nella bufera per scandali e corruzione, con un consenso alle politiche economiche bassissimo, voglia distrarre l’opinione pubblica del suo paese aprendo un contenzioso con l’Unione Europea su un punto cruciale come questo? Il montante nazionalismo usato come espediente per salire nei sondaggi: in Italia come in Francia è questa la strategia che sta dietro la propaganda del "pugno duro" con gli zingari e gli immigrati. Anche a costo di mandare in frantumi una nobile cultura politica comunitaria. Il dissenso che si è aperto nell’Unione Europea prefigura una sfida gravissima ai valori dei diritti umani e della dignità delle persone sui quali è nata l’Unione.

Per la prima volta in Italia una grande manifestazione contro i poteri criminali promossa da un giornale locale , il Quotidiano della Calabria, è riuscita a portare in piazza decine di migliaia di persone, settecento associazioni, centinaia di sindaci, portando a Reggio Calabria l'immagine e la pratica di un'altra Calabria che ha voglia di una svolta radicale. Nessuna forza politica sarebbe stata in grado di fare altrettanto, segno evidente che esiste un grande vuoto lasciato dalla Politica rispetto alle istanze reali delle popolazioni.

Per la prima volta sul palco non abbiamo assistito alla solita passerella della classe politica, ai soliti discorsi e impegni solenni, ma hanno parlato i testimoni della lotta alla borghesia criminale col suo braccio armato: la 'ndrangheta. Hanno preso la parola , tra le lacrime, i genitori del piccolo Domenico di soli undici anni, ucciso nel corso di una resa di conti tra clan in un campo di calcio a Crotone. Don Pino de Masi di Libera, che lotta ogni giorno nelle terre confiscate alla 'ndrangheta a Rosarno, subendo attentati e minacce continue. Un imprenditore edile, Saffioti di Palmi, che non si è arreso, malgrado gli abbiano distrutto più volte capannone e mezzi meccanici. E tanti cittadini e giovani di un'altra Calabria, quella che non fa notizia sui grandi media (che per altro hanno ignorato una manifestazione di questa portata).

Per la prima volta, a Reggio Calabria, un alto magistrato, il procuratore capo Di Landro, ha parlato dal palco tra gli applausi della folla, composta soprattutto da giovani delle scuole e di tante associazioni. La manifestazione era nata come reazione all'ennesimo attentato subito dalla magistratura reggina e ha visto, come mai prima era accaduto, una parte della Calabria solidarizzare con questa parte dello Stato .

A 150 anni dall'Unità d'Italia stiamo assistendo, lentamente e in forme non eclatanti, a una rilegittimazione dello Stato nel Mezzogiorno , grazie al lavoro di quei magistrati, amministratori, forze dell'ordine che si battono contro il sistema di potere mafioso dominante. Ma anche grazie alle forme della società civile organizzata che si batte per un altro modello di società. I ragazzi di Addio Pizzo a Palermo che applaudono i poliziotti dopo gli arresti di Provenzano e company, sono stati imitati da altri giovani del sud che oggi solidarizzano con questa parte dello Stato. Se questa battaglia andrà avanti e otterrà successi visibili, se porterà anche ad un drastico cambio di classe politica, assisteremo a una svolta epocale nel rapporto tra lo Stato nazionale e le popolazioni meridionali.

P.S. Proprio oggi ricorre il 40° anniversario della morte dei cinque anarchici calabresi eliminati sull'autostrada del sole a 56 km da Roma. Portavano documenti importanti sulla strage di Gioia Tauro del 22 luglio del 1970 e sulle trame di Valerio Borghese. Per molto tempo, fino a che non ci mise le mani il giudice Salvini, questa strage è rimasta coperta dall'oblio. Per la prima volta oggi, a Frosinone e a Reggio Calabria, i cinque coraggiosi anarchici del sud verranno ricordati dai compagni che li conobbero e dai giovani che sono rimasti emotivamente coinvolti dalla loro storia. Avremo uno Stato realmente democratico solo quando si sarà fatta luce su tutte, proprio tutte, le stragi di Stato che hanno sconvolto questo paese.

È opinione diffusa che legalità e morale pubblica non siano, per gli italiani, imperativi essenziali. In parte perché la loro memoria sarebbe corta oltre che selettiva: i misfatti dei politici evaporano presto, l’esempio che viene dall’alto manca, e di rado le sentenze giudiziarie sfuggono al destino d’esser subito degradate a pareri, opinabili come ogni parere.

Non solo: esponendo la «sua verità», ieri in un video, Fini ha denunciato la confusione tra affari piccoli come la casa di Monaco e affari ben più criminosi, condannando la stampa usata dai politici «come manganello» per liquidare l’avversario. L’esempio, lui vuole darlo: «Se dovesse emergere che mio cognato è proprietario, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera. Non per personali responsabilità, ma perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe». È il venir meno di tale etica che crea nei cittadini cinico disorientamento.

L’operazione Mani Pulite suscitò grandi speranze, ma anch’essa fu breve e, soprattutto, non aiutò a restaurare la cultura della legalità. Sfociò anzi in un’accentuazione della corruzione. Al punto che ci furono magistrati, come Gherardo Colombo, che abbandonarono il mestiere e ricominciarono da zero, insegnando ai giovani quel che era stato sradicato dai cervelli: il senso della legge, la Costituzione. Il magistrato che aveva indagato sulla P2 e sull’assassinio di Ambrosoli constatò due cose. Primo: «Tra prescrizioni, leggi modificate, abrogate, si è arrivati a una riabilitazione complessiva dei corrotti». Secondo: «Lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità quando l’illegalità sia particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e disillusione».

Le intuizioni che Colombo confidava il 17 marzo 2007 a Luigi Ferrarella, sul Corriere, s’inverano più che mai in questi giorni. Lo scandalo della casa di Montecarlo sommerge più pesanti misfatti, come la corruzione di magistrati, testimoni, parlamentari, e a nulla servono gli strumenti di giustizia visto che la politica non intende far pulizia da sola in casa propria, senza attendere l’ultimo grado dei processi. Non si dà per vinta neanche quando le inchieste sono fondate: il 22 settembre una maggioranza di deputati è giunta a usurpare il potere giudiziario, definendo «non decisive ai fini della colpevolezza di Cosentino» le intercettazioni che confermano la sua complicità con i camorristi casalesi.

La stessa rottura dentro la destra tende a farsi opaca, equivoca: sembrava che la legalità fosse il punto dirimente ma forse non era vero, forse non era che parvenza: fame di vento, come nel Qohelet biblico. Sembrava che Fini avesse puntato il dito sull’anomia che caratterizza l’odierno regime, e invece c’è il rischio che anche quest’intuito («Il garantismo non può essere impunità», ha detto ieri) sia involucro senza sostanza.

Quando fu cacciato dal Pdl, il 29 luglio, si ebbe l’impressione che qualcosa di nuovo nascesse: una destra la cui bussola è il rispetto della legge, la costituzione, la separazione dei poteri. Sembrò addirittura che Fini fosse più ardito della sinistra, mai entusiasta su questi fronti. Sul periodico online della Fondazione FareFuturo, da lui presieduta, Filippo Rossi parlò perfino di vergogna, il 19 agosto: «Il pensiero corre ai sensi di colpa per non aver capito prima. Per non aver saputo e voluto alzare la testa».

Da quel giorno sono passate poche settimane, e la vergogna quasi è svanita. Oppure era vergogna, sì, ma di che? non del conflitto d’interessi per anni accettato, non delle 40 leggi ad personam, non della foga calunniatrice esibita dal finiano Bocchino contro Prodi durante l’affare Telekom-Serbia, non dell’abitudine all’illegalità che ha spinto Berlusconi a disfarsi di Fini. Se la rieducazione alla legalità stesse davvero a cuore alla destra finiana o a Casini, non assisteremmo allo spettacolo singolare che si sta recitando: non una battaglia che restituisce maestà alla legge, ma un negoziato-scambio attorno allo scudo costituzionale che proteggerebbe Berlusconi dalla giustizia: un lodo che comunque infrangerebbe quell’articolo 3 della Costituzione che prescrive la legge eguale per tutti. Il negoziato tra Pdl e la finiana Giulia Bongiorno è completamente surreale. Ciascuno sa che Berlusconi, prima di far politica e dopo, ha ignorato la legge: arricchendosi con soldi non puliti, ospitando il mafioso Mangano a Arcore e chiamandolo eroe, sfuggendo più volte alla giustizia.

Quel che i finiani dicono da settimane è che la battaglia legalitaria cesserebbe, se solo finissero le calunnie contro il Presidente della Camera diffuse da giornali tributari di Palazzo Grazioli ( Giornale, Libero). In queste ore le calunnie si sono moltiplicate, con la pubblicazione di un documento pescato nei Caraibi che rivela come la casa di Monaco sia stata acquistata dal cognato di Fini, ed è per questo che i finiani hanno smesso le trattative sullo scudo. Più che una trattativa è un baratto - io ti do il lodo, tu cessi il linciaggio - ma in politica e nei Tg gli eufemismi abbondano: è tregua sulla giustizia, quella di cui si parla.

In realtà il baratto non avrebbe dovuto neppure cominciare. Così accade quando la democrazia funziona, e l’eccezione italiana conferma l’anestesia delle sue classi dirigenti, rese insensibili all’infrazione etica e ai suoi camuffamenti verbali. Ma in fondo, la minaccia di rompere è ancora più assurda. Perché avviare trattative, se basta un giornale per stroncarle? Perché interromperle, dando a credere che i metodi di Berlusconi sono una deludentissima sorpresa? Se tutto è scambiabile, perché perorare la morale («La legge è eguale per tutti. Non si deroga solo perché si appartiene al ceto politico», ha detto venerdì Fini)? Perché promettere un sì al governo, mercoledì, se - così ancora Fini - «questo è un momento buio della democrazia»? Come fidarsi di chi imputò a Prodi i rifiuti napoletani, e oggi che i rifiuti tornano dichiara con Bertolaso: «C’è qualcosa che non mi torna»?

Può darsi che il divario fra parole e azioni sia prudenza: meglio aspettare l’ora in cui il premier sbaglierà i conti, perderà la maggioranza. Resta il disagio procurato da una verità subordinata alle convenienze. Resta il dubbio che l’obiettivo non sia restaurare il senso della legge, ma proteggere l’uno e/o l’altro contendente.

Difficile in queste condizioni che gli italiani riscoprano la legalità. Quel che scorgono è una lotta tra boss che si minacciano, si ricattano. Le parole di Rossi nell’editoriale di FareFuturo sulla vergogna perdono peso: la testa s’alza o s’abbassa, a seconda. Si vota per le intercettazioni a Cosentino, e intanto si preparano scudi immunitari. Si celebrano i veri eroi Borsellino e Falcone, e non si protesta per l’indegno silenzio del premier sull’assassinio camorristico del sindaco Vassallo a Pollica.

Gli italiani sono meno colpevoli di quanto si creda. Nei sondaggi non vengono mai rivolte giuste domande (per esempio: approvate il politico tutelato se delinque?). Mal informati, mal interrogati, mal trattati, per forza hanno idee torbide sulla legge. Oggi non vedono battaglie per una democrazia pulita. Vedono, per tornare alle parole di Colombo, che la «società del ricatto» dilaga. Che «la giustizia è l’unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di entrambe le dichiarazioni».

Molti stanno firmando una lettera di Giuseppe D’Avanzo al premier, in cui gli si chiede di rinunciare esemplarmente allo scudo. Non stupisce che i firmatari siano oltre 105.000. Stupisce che non siano di più: vuol dire che sono ancora tanti, i legalitari che si nutrono di vento.

Con la caduta del primo governo Prodi è venuto meno il progetto di una buona politica ed è prevalsa la partitocrazia dei partiti facendo riprendere le demagogie populiste - Sono senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire le basi della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione



In uno scenario sempre più degradato la crisi italiana appare ormai senza ritorno. "Metodo Boffo" come prassi quotidiana, dossier caraibici, protezione parlamentare a un esponente politico indagato per reati di camorra, sino a quel che sembra affiorare in Abruzzo: i rifiuti invadono di nuovo non solo Napoli ma l’intero paese. Ogni sguardo al sistema Italia ripropone tutti i nodi di una transizione drasticamente fallita, o mai iniziata. Illumina il riemergere, in forme modificate e aggravate, della crisi istituzionale ed etica che aveva portato al tracollo dei primi anni Novanta.

Fu travolto allora il sistema dei partiti su cui si era basata per mezzo secolo la storia italiana, dopo meno di vent’anni è entrata in agonia quella che era stata enfaticamente chiamata seconda repubblica. Neppure un vero sistema, a ben vedere: piuttosto un "disequilibrio" di forze politiche che hanno basato la loro sopravvivenza e la loro fortuna soprattutto sulle debolezze degli avversari. Forze poco provviste di reali culture costituenti e incapaci al tempo stesso di disegnare un insieme di regole sociali e di orientamenti programmatici. Incapaci anche solo di abbozzare un progetto credibile per un paese attraversato da sconvolgimenti profondi, in primo luogo sul terreno del lavoro e dell’etica collettiva.

Sembrano insomma intrecciarsi e precipitare insieme, in questi mesi, gli effetti di malattie antiche e le macerie indotte da storture recenti, in un finale di partita di cui si vedono bene rischi e derive ma non si intravedono possibili alternative, o perlomeno uscite di sicurezza.

Per molte ragioni gli anni Novanta, nei loro differenti versanti, sembrano oggi lontanissimi. Crollata la «prima Repubblica», e smorzatasi presto la prima esplosione di illusionismo berlusconiano, svanì anche la speranza che il rinnovamento potesse muovere dalla parte migliore della nostra storia precedente. Già con la caduta del primo governo Prodi – se non nel corso di esso – venne di fatto accantonato un progetto di «buona politica» capace di resistere all’emergere di una inedita «partitocrazia senza partiti». Quasi paradossalmente, poi, il primo governo guidato dal leader di un partito post-comunista, Massimo D’Alema, vide non il rafforzamento ma l’ulteriore travaglio di quel partito e al tempo stesso la capitolazione – altamente simbolica – di una roccaforte storica del «riformismo rosso» come Bologna. Tramontava così l’ipotesi che il rinnovamento potesse esser guidato dalle forze che si erano in qualche modo opposte alla degenerazione della «Repubblica dei partiti» già dall’interno di essa. Ciò poneva in primo luogo agli eredi del vecchio Pci il problema di un rinnovamento radicale, che non venne.

Ripresero così campo – sul versante leghista come su quello berlusconiano – ipotesi e demagogie populiste e antipolitiche, sempre più debolmente contrastate nell’area del centrodestra dalle forze che mantenevano un qualche legame con la storia precedente, dall’Udc ad An. Forze costrette progressivamente a scegliere fra la «berlusconizzazione» e l’emarginazione, in un processo che ha avuto una forte accelerazione negli ultimi due anni e il suo definitivo approdo in questi mesi. Appaiono da tempo senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire a fondo le basi stesse della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione («Non ci può essere libertà per una comunità che manca di strumenti per scoprire la menzogna» scriveva Walter Lippmann novanta anni fa). Appare senza veli, anche, il sempre più pervasivo «sistema delle cricche», con i processi che esso innesca in una democrazia ormai immemore della normalità e in una «società incivile» in sotterranea espansione. Di qui la pericolosità dello scenario attuale. Di qui l’esasperazione del clima da parte di un premier sempre più debole e sempre più sottoposto al condizionamento della baldanzosa truppa di Bossi e Calderoli. Umiliato e reso al tempo stesso più aggressivo dalla necessità di degradarsi in uno squallido «mercato dei deputati» per puntellare i traballanti residui di quella che fu una trionfale maggioranza.

È l’esito di un processo. È l’esito del percorso che ha portato il "berlusconismo" a diffondere nella politica e nella società nuove forme di estraneità alla democrazia e alle regole collettive, esasperando al tempo stesso tendenze negative già presenti. E senza che si siano innescati anticorpi adeguati. Lo rivela l’evoluzione stessa di quella parte della destra – un tempo ex o post fascista, e comunque "nazionale" – che è approdata alla più completa subalternità al premier ed è priva di voce persino di fronte alle dissennatezze e alle provocazioni leghiste. È al tempo stesso illuminante, infine, la difficoltà di dar corpo a una «destra normale»: difficoltà certo non nuova nel nostro Paese, come l’ultimo Montanelli non si stancava di dire. Al di là delle contingenze dello scontro politico, inquinato dalle sopraffazioni e dai veleni del premier e dei suoi sottoposti, ne aveva recato testimonianza la stessa manifestazione di Mirabello: con le sue composite presenze, con il differenziato modularsi del discorso di Gianfranco Fini, con gli applausi e le incertezze che lo accompagnavano.

Sull’altro versante, un centrosinistra incapace di fare i conti sia con il Paese reale che con se stesso non contribuisce certo a dissipare la sensazione di un disfacimento e di una frantumazione senza freni: quasi mancasse la consapevolezza della drammaticità della situazione, dell’urgenza di costruire argini e sbocchi convincenti. È su questo terreno però che si giocherà il futuro del Paese, e non solo quello più immediato.

La denuncia sulle pagine del Fatto quotidiano di martedì scorso di Ferruccio Sansa e Salvatore Cannavò sulla riconversione immobiliare della Fincantieri ha la forza di aprire gli occhi all’opinione pubblica e, speriamo, anche se non conviene farsi molte illusioni a quella sparuta parte della politica che non è ancora sul libro paga dei potenti immobiliaristi sull’irreversibile declino che rischia il sistema Italia se non viene tagliato di netto il dominio della rendita fondiaria.

Hanno ragione infatti i due giornalisti: quale imprenditore può ancora avere la voglia di rischiare investimenti in un qualsiasi settore produttivo se di fronte alla speculazione immobiliare è stata aperta con benedizione bipartisan un’immensa autostrada? Sono venti anni che colpo dopo colpo sono state smantellate tutte le regole di governo del territorio e della tutela dell’ambiente. I piani regolatori che, con tutti i limiti che ben conosciamo, tentavano di delineare un futuro condiviso alle nostre città sono stati sostituiti concetti come la “valorizzazione immobiliare” e “l’accordo di programma” per superare ogni previsione urbanistica.

Ad esempio, a Sestri Ponente il piano urbanistico destina l’area della Fincantieri come zona industriale. Non sarebbe dunque possibile realizzare villette, ipermercati e ogni altra sorta di speculazione. Lo stato liberale, che pure aveva a cuore l’iniziativa economica privata, aveva trovato nell’urbanistica un efficace punto di equilibrio tra interessi della collettività e interessi della proprietà, limitandone lo strapotere e imponendo vincoli.

Oggi siamo in un’altra prospettiva sociale e culturale. I liberisti forsennati alla Tremonti (è a lui che si devono infatti buona parte delle leggi sulla “valorizzazione immobiliare”) non tollerano più neppure questo dignitoso compromesso di interessi. Con i piani casa che tutte le regioni hanno approvato gli edifici industriali possono cambiare destinazione e avere anche un gigantesco premio di cubatura. Così la collettività deve rassegnarsi a subire sempre e comunque il dominio della proprietà immobiliare anche se questa è pubblica o dichiaratamente speculativa.

Gli esempi sono ormai infiniti. La Fintecna, società pubblica, sta portando a termine la valorizzazione degli uffici del ministero della Finanze all’Eur: al loro posto case di lusso con vista sul laghetto. Le regole urbanistiche hanno vincolato l’intero quartiere dell’Eur come area storica, ma con l’accordo di programma si supera tutto. Intanto gli uffici sono oggi in affitto in immobili privati e tutti noi paghiamo un fiume di soldi alla rendita immobiliare: e poi ci continuano a dire che non ci sono soldi! A Torino per risanare la casse del San Paolo si decide di costruire un grattacielo in spregio di ogni norma urbanistica. La vicenda delle aree dell’ex fiera di Milano sono un caso da antologia: per far cassa si vuol costruire una mostruosa quantità di cemento calpestando ogni regola di buon senso e urbanistica. A Salerno un ex sindaco di centrosinistra ammalato di manie di grandezza vuole seppellire il lungomare sotto un valanga di cemento, tanto con le deroghe si può fare. E l’elenco riguarda tutta l’Italia, come è dimostrato dal recente volume La colata (edizioni Chiarelettere 2010) curato da Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve, Giuseppe Salvaggiulo e Ferruccio Sansa.

Con il caso Fincantieri tocchiamo con mano che se non si taglia il dominio della rendita immobiliare, che -è bene precisarlo- non esiste negli altri paesi della civile Europa, il nostro declino economico e civile non si interromperà. Il problema non è Berlusconi: il vero nodo che stringe alla gola l’Italia è quello di un’opposizione politica incapace di avere un’idea di sviluppo lungimirante in grado di favorire gli investimenti produttivi veri. A solo titolo di esempio si può citare la folle corsa al cemento favorita dai quindici ininterrotti anni delle amministrazioni di centro sinistra di Francesco Rutelli e Valter Veltroni a Roma. Settanta milioni di metri cubi (sic!) regalati alla speculazione immobiliare in una città che non cresce più da vent’anni e che anzi ogni anni espelle migliaia di famiglie che non possono più permettersi di sostenere i folli prezzi delle abitazioni.

Il ripristino delle regole del governo delle città e del territorio è il primo elemento per poter rilanciare lo sviluppo produttivo del nostro paese. Chiudere la fase del sacco urbanistico dell’Italia è l’unica occasione che ci resta per favorire reali investimenti produttivi.

Non sono gli scandali di corte a far notizia ma la loro esibizione, l’esposizione compiaciuta dei peccati e delle impunità come si usava un tempo con le lenzuola, sporcate dal sangue delle mogli dopo la prima notte di nozze e appese ai balconi dei paesi. Prendete l’insediamento alla presidenza del Consiglio di Stato di Pasquale de Lise, lo stesso De Lise che insieme con Balducci gestiva l’assegnazione delle case del Vaticano ad amici e famigli, lo stesso De Lise che Lunardi racconta di aver incontrato quando gli serviva una casa, lo stesso De Lise costretto un mese a giustificarsi in affanno davanti ai giudici di Perugia per un versamento da 250 euro finito sul suo conto corrente. La compravendita di un appartamento, spiegò. E la cosa è finita lì.



Mercoledì scorso De Lise è diventato presidente del Consiglio di Stato per volontà di Silvio Berlusconi. Per la cerimonia (una cosa discreta: ottocento inviti, copia del discorso d’insediamento rilegata e offerta a ciascun ospite, cerimonia proiettata sui maxischermi di quattro sale minori di Palazzo Spada) è stata chiamata a corte la cricca al completo. Da Giacomo Caliendo, sottosegretario alle Finanze, indagato per associazione segreta nell’inchiesta sulla P3, a Mario Sancita, consigliere della Corte dei conti, indagato per corruzione assieme al costruttore Anemone. Presenti anche i ministri di Berlusconi in gran spolvero, i prelati di Propaganda Fide (le duemila case di proprietà del Vaticano da mettere a disposizione dei potenti del paese), gli amici dei circoli romani, i costruttori pariolini sotto inchiesta. Da qualche parte, nelle seconde file, c’era anche Luciano Violante che il senso dello Stato non lo tradisce mai.



E’ l’Italia, bellezza. Lobbisti, palazzinari, indagati, piduisti, triduisti, governisti, vaticanisti… leggendo le carte dei processi che li riguardano, ci sarebbe da nascondersi: invece si mettono il vestito buono di tintoria e di presentano al gran galà del potere, facce di bronzo e sorrisi di ferro, immarcescibili, impuniti, inimitabili. Per loro è solo una passerella, un red carpet per mostrare al paese che i giudici passano, le inchieste pure ma loro restano, avvitati dentro i loro abiti blu, nelle loro auto blu, in cima ai loro scranni. Peccato che di quest’Italietta si parli poco e male. I giornali ne scrivono distrattamente; i circoli politici, anche quelli che per mestiere dovrebbero vigilare e far opposizione, s’occupano d’altro.



In una settimana dai dirigenti del centrosinistra abbiamo contato quindici lanci di agenzia su Nichi Vendola che dovrebbe occuparsi di Puglia, altro che primarie... Non una riga, una parola, sul sindaco (Pdl) di Castelvolturno che, a due anni dalla strage di camorra nel suo paese, ha dichiarato di non voler commemorare i sei nigeriani ammazzati. Se ne devono andare tutti. Anche con i piedi davanti, vivi o morti, e per fortuna ci sono i Casalesi che sanno fare il mestiere loro… 

Se dieci anni fa il sindaco di Corleone, qualunque fosse il suo partito, si fosse rifiutato di commemorare una vittima di mafia, sarebbe stato rimosso dal suo incarico per ordine del Quirinale, ripudiato dalla politica e inseguito a pernacchie per il resto della sua esistenza. Sul sindaco di Castelvolturno che, di fatto, loda la camorra e le sue esecuzioni in piazza, le uniche parole di rassegnato stupore sono arrivate dai giudici di Caserta che ogni giorno tentano di raddrizzare l’àncora col ginocchio. Da quartieri nobili della politica, silenzio. E poi ci stupiamo che a Castelvolturno la Lega abbia preso il 15%.



Prima di perdere nelle urne abbiamo perso nella società. Registrando, senza mai reagire, lo smottamento del comune sentire verso i piani bassi della civiltà. In compenso ci rallegriamo di poter regolare in pubblico i nostri conti politici personali, produciamo ogni giorno fondazioni e pronunciamenti, lucidiamo i muscoli in vista della guerra… 
Domani nella battaglia pensa a me, scriveva Shakespeare. Pensiamo a loro, nella battaglia. Agli impuniti che sfilano le celebrare se stessi, ai nigeriani d’Italia ammazzati a fucilate dai camorristi e ammazzati di nuovo da un sindaco che sputa sulla loro morte. Pensiamo alle cose che accadono, prima di abituarci definitivamente ad esse.

Pancia in dentro, petto in fuori! At-tenti! Finalmente una buona notizia per la scuola italiana: i professori vengono licenziati a mazzi, i soffitti cascano in testa, le strutture fanno schifo e compassione, ma in compenso possiamo tutti tirare in aria i berretti e gridare hurrà per il solenne protocollo d'intesa firmato tra la ministra Gelmini, beata ignoranza, e il sor La Russa, il colonnello alla parata militare.

In alto i cuori! Il protocollo d'intesa si ammanta di notevoli paroloni, roba forte qui nel Berlusconistan, come ad esempio «conoscenza e apprendimento della legalità e della Costituzione». Ma questa è la teoria, roba da comunisti. È la pratica che è più interessante, e prevede: «cultura militare», «arrampicata», «tiro con l'arco e con la pistola» (ad aria compressa, aggiunge pietoso il documento), senza contare «nuoto e salvamento» e «orienteering».

Insomma, una specie di incrocio tra i littoriali, il sabato fascista e i film con Alvaro Vitali, il tutto sotto l'occhio vigile di La Russa e della sciura Gelmini, eletta dalla lobby dei cacciatori nella patria della Beretta, pistola italiana. Protocollo d'intesa denominato «Allenati per la vita», che insegna tra le altre cose anche il «pernottamento in luoghi ostili», cosa che potrebbe tornare utile alle ragazze che restano bloccate nottetempo nei cessi di Palazzo Grazioli.

Non basta. A coronare il virile cimento arriverà alla fine una «gara pratica tra pattuglie di studenti» che varrà come credito formativo. «Mamma, non rompere che c'ho tre in matematica, perché ho preso ottimo nel passo del giaguaro!». È così che si forma una classe dirigente, imparando a dire signorsì. Non si parla di bombe a mano e di sommergibili rapidi e invisibili, ed è una notevole pecca dell'iniziativa (forse mancano i fondi), ma siamo certi che qualcuno porrà rimedio.

Il tutto agli ordini di un centinaio di ufficiali in congedo, consapevoli che, dalle strutture alle finalità, dalle scale alle camerate, un liceo può somigliare perfettamente a una caserma. Il tutto, manco a dirlo, sponsorizzato da enti pubblici e privati, il che significa che l'ora di attività ginnico-militare (sic!) o la visita al poligono saranno finanziate dall'illuminata industria italiana: perché avere cittadini quando si possono avere soldati semplici?

L'intesa è per ora regionale (Lombardia) e riguarda le scuole medie superiori, ma non disperiamo: la nostalgia è una brutta bestia e la tentazione di vestire da Balilla anche i più piccoli si farà strada presto. Scritta in un esilarante burocrat-militarese, la circolare che informa la popolazione pare di suo un capolavoro satirico. E addirittura strepitoso è il passaggio teorico in cui si spiega che tanto dispiego di mezzi di aria, di cielo e di terra (e di pistole ad aria compressa) ha tra le altre finalità «il contrasto del bullismo». Insomma, qualcosa tipo: «Mamma, c'era un bullo, ma l'ho fatto secco». Molto educativo.

Naturalmente si sa come andrà a finire. Niente soldi per la benzina del cerchio di fuoco, due proiettili per settecento studenti, corsi di orienteering nel cortile della scuola e - se piove, nevica o tira vento - fornitura di speciali scarponi in cartone pressato, nella più pura tradizione dell'esercito italiano.

E fin qui, naturalmente, al netto di incidenti, sempre possibili di fronte a una truppa riottosa e bambocciona come ci si immagina quella degli studenti. «Capitano, me so' sbagliato... Ho spezzato le reni al prof di greco!». Triste destino di un popolo imbelle a cui si chiede, «per fare gruppo», di mettere l'elmetto a scuola. Cosa che del resto chiedono ormai anche le mamme più avvertite. «Mettiti l'elmetto Gino, che in aula ti casca il soffitto sulla capoccia». Cronache italiane, insomma. Alalà!

Vorrei proporre alcune riflessioni attorno alla nozione di "razzismo di Stato". Queste riflessioni si oppongono a un'interpretazione molto diffusa delle misure prese di recente dal governo francese, dalla legge sul velo fino all'espulsione dei rom. Questa interpretazione vi vede un'attitudine opportunista che mira a sfruttare i temi razzisti e xenofobi a fini elettorali. Questa supposta critica riprende il presupposto che fa del razzismo una passione popolare, che lo considera la reazione impaurita e irrazionale degli strati retrogradi della popolazione, incapaci di adattarsi al nuovo mondo, mobile e cosmopolita. Lo Stato è accusato di venir meno ai propri principi mostrandosi compiacente nei confronti di queste popolazioni. Ma al tempo stesso questa critica rafforza la posizione dello Stato in quanto rappresentante della razionalità di fronte all'irrazionalità popolare. Questa posizione, adottata dalla critica "di sinistra", è esattamente la stessa in nome della quale la destra da una ventina d'anni a questa parte ha adottato un certo numero di leggi e di decreti razzisti. Tutte queste misure sono state prese in nome di una stessa argomentazione: ci sono problemi di delinquenza e di degrado causati dagli immigrati e dai clandestini, che rischiano di scatenare il razzismo se l'ordine non viene ripristinato. Bisogna quindi sottoporre questi atti di delinquenza all'universalità della legge, per evitare che creino dei disordini razzisti.

È un gioco delle parti che è in atto, a sinistra come a destra, dalle leggi Pasqua-Méhaignerie del 1993. Consiste nell'opporre alle passioni popolari la logica universalista dello stato razionale, cioè di dare alle politiche razziste di Stato una patente d'antirazzismo. Sarebbe l'ora di rovesciare questa argomentazione e di sottolineare la solidarietà tra la "razionalità" statale all'origine di queste misure e questo avversario complice e comodo - la passione popolare - che essa sfrutta per meglio brillare. Nei fatti, non è il governo che agisce sotto la pressione del razzismo popolare e in reazione alle passioni cosiddette populiste dell'estrema destra. È la ragion di Stato stessa che alimenta il razzismo, a cui affida la gestione immaginaria della propria legislazione reale.

Una quindicina di anni fa avevo proposto il termine di razzismo freddo per designare questo processo. Il razzismo con cui abbiamo oggi a che fare è un razzismo freddo, una costruzione intellettuale. È, prima di tutto, una creazione dello Stato. La natura stessa dello Stato è di essere uno Stato di polizia, un'istituzione che stabilisce e controlla le identità, i luoghi e gli spostamenti, un'istituzione in lotta permanente contro tutto ciò che sfonda le identità da lui stabilite, anche quando questo sfondamento delle logiche identitarie è costituito dall'azione dei soggetti politici. Questo lavoro è reso più pressante dall'ordine economico mondiale. I nostri Stati sono sempre meno in grado di contrapporsi agli effetti distruttori della libera circolazione dei capitali sulle comunità di cui devono occuparsi. Ne sono incapaci, tanto più che non lo vogliono nemmeno. Ripiegano quindi su ciò che resta in loro potere, la circolazione delle persone. Prendono come oggetto specifico il controllo di quest'altra circolazione e presentano come obiettivo la sicurezza delle popolazioni nazionali minacciate dai migranti. Si tratta, in altri termini, più precisamente della produzione e gestione del sentimento di insicurezza. Questa attività diventa sempre più la ragion d'essere degli Stati e il mezzo della loro legittimazione.

Di qui un uso della legge che ottempera due funzioni essenziali: una funzione ideologica, che si configura nel dare costantemente corpo al soggetto che minaccia la sicurezza; e una funzione pratica, che porta a ridefinire costantemente la frontiera tra il dentro e il fuori, a creare costantemente delle identità fluttuanti, suscettibili di far cadere "fuori" quelli che finora erano "dentro". Legiferare sull'immigrazione ha voluto dire, in un primo tempo, creare una categoria di sub-francesi, facendo cadere nella categoria fluttuante degli immigrati persone che erano nate sul territorio francese da genitori nati francesi (i giovani francesi delle banlieues di seconda o terza generazione). Legiferare sull'immigrazione clandestina ha voluto dire far cadere nella categoria dei clandestini degli "immigrati" regolari. È sempre la stessa logica che ha portato all'uso recente della nozione di "francese di origine straniera". Ed è questa stessa logica che ha preso di mira oggi i rom, creando, contro il principio della libera circolazione nello spazio europeo, una categoria di europei che non sono veramente europei, allo stesso modo in cui ci sono dei francesi che non sono veramente francesi.

Per costituire queste identità in sospeso lo stato non si preoccupa di cadere in contraddizione, come si è visto con le misure relative agli "immigrati". Da un lato sono state varate delle leggi discriminatorie e delle forme di stigmatizzazione fondate sull'idea dell'universalità civile e dell'eguaglianza di fronte alla legge. Sono quindi previste sanzioni e/o vengono stigmatizzati coloro le cui pratiche si oppongono all'eguaglianza e all'universalità civica. Ma, dall'altro lato, all'interno di questa cittadinanza simile per tutti sono state imposte delle discriminazioni, come quella che distingue i francesi "di origine straniera". Dunque, da un lato tutti i francesi sono eguali e guai a coloro che non lo sono, e dall'altro tutti non sono eguali e guai a coloro che lo dimenticano!

Il razzismo attuale è quindi prima di tutto una logica statale e non una passione popolare. E questa logica statale è sostenuta in primo luogo non da non si sa bene quali gruppi sociali arretrati, ma da una buona parte dell'élite intellettuale. Le ultime campagne razziste non sono per nulla il frutto dell'estrema destra cosiddetta "populista". Sono state condotte da un'intellighentia che si rivendica come tale e di sinistra, repubblicana e laica. La discriminazione non è più fondata sull'argomento delle razze superiori e inferiori. Ma si articola in nome della lotta contro il "comunitarismo", in nome dell'universalità della legge e dell'eguaglianza di tutti i cittadini nei confronti della legge e in nome dell'eguaglianza dei sessi. Anche in questo caso, non si fa troppo caso alle contraddizioni; questi argomenti sono avanzati da gente che, in altre occasioni, fa ben poco caso all'eguaglianza e al femminismo. Nei fatti, l'argomentazione ha soprattutto l'effetto di creare l'amalgama richiesto per identificare l'indesiderabile: l'amalgama tra migrante, immigrato, arretrato, islamista, machista e terrorista. Il ricorso all'universalità è nei fatti utilizzato a vantaggio del suo opposto: l'insediamento di un potere statale di decidere a discrezione chi appartiene e chi non appartiene alla classe di coloro che hanno il diritto di essere qui, il potere, in breve, di conferire e di annullare delle identità. Questo potere ha un correlato: il potere di obbligare gli individui ad essere identificabili ad ogni istante, a mantenersi in uno spazio di visibilità integrale nei confronti dello Stato.

Vale la pena, da questo punto di vista, di tornare sulla soluzione trovata dal governo francese al problema giuridico posto dalla proibizione del burqa. Era difficile fare una legge che fosse specifica per alcune centinaia di persone di una religione determinata. Il governo ha trovato la soluzione: una legge che impone la proibizione generale di coprirsi il volto nello spazio pubblico, una legge che riguarda al tempo stesso la donna con il velo integrale e il manifestante con il volto dissimulato o coperto da un foulard. Il foulard diventa così l'emblema comune del musulmano arretrato e dell'agitatore terrorista. Questa soluzione - adottata, come parecchie altre misure sull'immigrazione, con l'astensione benevola della sinistra - fa riferimento al pensiero "repubblicano". Ricordiamoci delle furiose diatribe del novembre 2005 contro i giovani dal volto coperto e con il cappuccio che agivano di notte (in occasione della rivolta delle banlieues). Ricordiamoci del punto di partenza del caso Redeker, il professore di filosofia minacciato da una fatwa islamista. Il punto di partenza della furiosa diatriba antimusulmana di Robert Redeker era stato... la proibizione dello string a Paris-Plage (l'iniziativa estiva del comune di Parigi, con la spiaggia lungo la Senna). In questa proibizione, decretata dal sindaco di Parigi, Redeker vi aveva visto un atto di compiacenza nei confronti dell'islamismo, una religione il cui potenziale di odio e di violenza si era già manifestato nella proibizione di essere nudi in pubblico. I bei discorsi sulla laicità e l'universalità repubblicana si riassumono in definitiva nel principio che si deve essere interamente visibili nello spazio pubblico, sia questo fatto di pavé oppure di spiaggia.

Concludo: è stata spesa molta energia contro una certa forma di razzismo - quella incarnata dal Fronte nazionale - e contro una certa idea di razzismo come espressione dell' "uomo comune bianco", che rappresenta gli strati arretrati della società. Buona parte di questa energia è stata recuperata per costruire la legittimità di una nuova forma di razzismo: razzismo di Stato e razzismo intellettuale "di sinistra". Sarebbe forse tempo di riorientare il pensiero e la lotta contro una teoria e una pratica di stigmatizzazione, di precarizzazione e di esclusione che oggi costituiscono un razzismo che viene dall'alto: una logica di Stato e una passione dell'intellighentia.

Oltralpe sono in molti a pensare che in Italia la legge non sia più uguale per tutti. Ieri ne abbiamo avuto l’ennesima conferma. Il Parlamento ha respinto la richiesta di autorizzazione all’uso di intercettazioni nei confronti di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario indagato per presunti rapporti con il clan dei Casalesi. L’applauso che ha accolto i risultati della votazione sembrava celebrare l’ennesima vittoria dei politici sui poteri giudiziari, ormai identificati da una buona fetta dei parlamentari come il «nemico ».

L’ostilità tra esecutivo e magistratura fornisce anche una possibile chiave di interpretazione del giallo della votazione. Al conteggio finale dei sì mancavano una quindicina di voti, presumibilmente finiti tra i no. Qualcuno che non doveva si è schierato con il Popolo della libertà. Diserzioni importanti poiché questo governo è appeso ad una corda sfilacciata, che può cedere in qualsiasi momento. Ma è chiaro che ciò non avverrà mai su una questione come le intercettazioni dei parlamentari. C’era infatti d’aspettarsi che su questo voto la fedeltà al proprio partito e leader contava ben poco poiché votando no si proteggevano i propri interessi. Legislazioni, votazioni e prassi ad personam sono ormai la manifestazione di quello che europei ed americani definiscono contaminazione Italia: come il Bel Paese si sta trasformando nel regno dell’illegalità.

E mentre l’illecito prende piede nella quotidianità, confinando fette sempre più sostanziose della nostra economia nel sommerso, le critiche degli stranieri sono concentrate sulla gestione delle istituzioni dello Stato e sul dilagare dell’attività del crimine organizzato. La presunta attività di riciclaggio all’interno dello IOR, che ha portato al sequestro di 23 milioni di euro, ha riempito le prime pagine dei maggiori quotidiani stranieri. Una singolare triangolazione bancaria trasferiva denaro dai conti dello IOR accesi presso il Credito Artigiano a beneficiari sconosciuti presso la JP Morgan di Francoforte e presso la Banca del Fucino. Nelle sale cambi del villaggio globale e nelle banche centrali occidentali l’idea del «riciclaggio in confessionale» fa tremare molti, specialmente a chi ha intrattenuto attività professionali con lo IOR, cioè la maggioranza delle banche e delle finanziarie internazionali.

All’estero ci si chiede come sia possibile che il braccio bancario del Vaticano continui a seguire una prassi da paradiso fiscale, autorizzando pagamenti su conti cifrati, un’attività che va contro la regola d’oro bancaria: «conosci il tuo cliente», imposta a tutte, ma proprio tutte, le banche occidentali.

Ancora più incomprensibile è il comportamento della Banca d’Italia, l’organo di vigilanza, che non ha bloccato questa prassi prima che lo facesse la magistratura. Perché allo IOR si riserva un trattamento con i guanti bianchi mentre trasferimenti analoghi su conti cifrati da parte di qualsiasi altra banca italiana avrebbero provocato come minimo sanzioni salatissime?

Duepesi e due misure è il mantra che sale dal nostro paese. E spesso chi ci guadagna è il crimine organizzato la cui attività si intromette tra le maglie ormai recise dell’uguaglianza della legge. A Gioia Tauro approda una nave battente bandiera liberiana carica di esplosivo, sette tonnellate di T4, la stessa sostanza usata nell’attentato a Falcone e a Borsellino, abbastanza per far saltare in aria tutto il porto. Pare che provenga dall’Iran e sia destinata alla Siria. Transita a Gioia Tauro insieme ai seimila container che entrano ed escono quotidianamente dal porto più trafficato del Mediterraneo.

Non è la prima volta che soffiate ed intercettazioni allertano le autorità portuali, l’antidroga e l’antiterrorismo; controllare ogni giorno anche una frazione infinitesimale di seimila container è fisicamente impossibile. La scoperta di grosse partite d’armi e di cocaina a Gioia Tauro in transito o destinate alle ‘ndrine hanno infatti fatto il giro del mondo più volte. Chi vive all’estero si domanda come mai queste scoperte non avvengano anche a Barcellona o a Istanbul. Perché il crimine internazionale predilige questo porto calabrese lontano da qualsiasi grosso centro commerciale? E la risposta più logica che fino ad ora si è trovata è che a Gioia Tauro è più facile farla franca.

Fincantieri: via 2500 posti, meglio il cemento

di Ferruccio Sansa

Genova. Addio a Rex, Andrea Doria e Michelangelo. Fincantieri punta sul mattone. La sirena da decenni ogni mattina annunciava l’inizio del turno di lavoro. Migliaia di tute blu entravano nei cantieri. E le navi, alte come grattacieli, crescevano davanti alla città. Transatlantici capaci anche di conquistare il Nastro Azzurro, diventati in passato il simbolo dell’Italia. Così come, all’opposto, la decisione di Fincantieri di tagliare 2.480 posti è la fotografia di un Paese in crisi. Addio, lo storico cantiere di Sestri Ponente sarà riconvertito. Riva Trigoso e Castellammare di Stabia saranno chiusi. Si punterà sull’Adriatico, Monfalcone e Marghera.

Un maremoto per una delle industrie italiane d’eccellenza: la cantieristica. Una decisione che, però, nasconde retroscena inediti. In Liguria c’è chi, senza voler comparire, dà una lettura politica della decisione: “È il riflesso della scomparsa di Scajola dalla scena e del trionfo del Carroccio. I cantieri si concentrano sull’Adriatico, dove governa la Lega, così si puniscono le regioni di centrosinistra”.

Chissà. Ma a leggere le 50 pagine della bozza del “Piano Industriale 2010-2014 Fincantieri” presentato all’azionista Fintecna c’è un altro punto che colpisce: i cantieri lasciano posto al cemento. In un periodo di crisi per il settore navale, meglio puntare su un’attività più sicura. Forse le casse di Fincantieri ne trarranno beneficio, ma per Genova sarà una sberla in faccia: per i posti di lavoro persi, ma anche perché si disperde un patrimonio unico di competenza e tecnologia. Eppure Fincantieri punta in quella direzione: i cantieri di Castellammare di Stabia e Riva Trigoso saranno dismessi. Non solo: per aumentare esponenzialmente il valore delle aree saranno realizzate operazioni immobiliari.

Una scelta che non stupirebbe se fosse realizzata da una società immobiliare, ma qui siamo di fronte al gigante mondiale della cantieristica. Di proprietà pubblica, per giunta. Ma basta visitare Castellammare di Stabia (Napoli) e Riva Trigoso per capire l’operazione. Prendete proprio Riva Trigoso. Siamo alle porte delle Cinque Terre, uno dei tratti di costa più integri d’Italia. Gli stabilimenti Fincantieri sono accanto alle spiagge: cambiando destinazione d’uso ai capannoni il valore delle aree schizzerebbe alle stelle. L’idea sarebbe proprio questa: utilizzare le strutture a mare degli stabilimenti per realizzare l’immancabile porticciolo, magari per maxi yacht. E sulla riva trasformare il cantiere in residenze. Non importa che la Liguria abbia già 29 mila posti barca, uno ogni 47 abitanti. Che il cemento sia arrivato ovunque. Ma l’attrazione di Fincantieri per il cemento non risparmia Genova, come racconta Mario Margini, assessore comunale ai Lavori Pubblici: “Con Fincantieri e il Governo sei mesi fa eravamo praticamente arrivati a un accordo che prevedeva investimenti per 200 milioni. I cantieri di Sestri Ponente dovevano essere spostati verso il mare, lasciando libera un’area di decine di ettari dove la società voleva realizzare immobili”. Un’ipotesi, però, legata allo sviluppo dei cantieri. “L’accordo era praticamente concluso”, racconta Margini, “poi nessuno si è fatto più sentire”. E due giorni fa la brutta sorpresa: Fincantieri “riconverte” Sestri Ponente. Addio alle navi, ci sarà spazio solo per produzioni meccaniche. Strano destino, quello di Genova. Città delle grandi industrie, delle partecipazioni statali, che oggi si riconvertono in una sorta di operatori immobiliari. La febbre del mattone che, con la benedizione di centrosinistra e centrodestra, si è già mangiata le coste sta trasformando in appartamenti anche industrie, colonie, ospedali, perfino ex manicomi.

E qui entra in gioco Fintecna che si presenta come finanziaria nel settore industriale e dei servizi, una società pubblica che detiene il 99% di Fincantieri. Nel 2007, quando la Sanità ligure era al collasso (non che adesso vada molto meglio) fu lanciata un’operazione di cartolarizzazione per trasformare il patrimonio immobiliare ospedaliero in denaro contante. Finirono all’asta 390 cespiti, 134 mila metri quadrati coperti e 2,6 milioni di terreni. Soprattutto i due storici manicomi liguri: i padiglioni di Quarto, una delle zone residenziali più ambite di Genova, e l’ospedale psichiatrico di Cogoleto, difficile immaginare un luogo più bello – e pregiato economicamente – per quelle costruzioni che ospitarono tanta sofferenza.

Alla fine la gara se l’aggiudicò Fintecna Immobiliare con un’offerta di 203 milioni. Molti storsero il naso: per risanare la Sanità pubblica, i beni della Regione furono ceduti a una società del Tesoro. Gli imprenditori privati attaccarono: “Puzza tanto di aiuto mascherato”.

Fintecna, che si occupa di riconversioni e ristrutturazione delle attività risanabili, fa rotta sul mattone. Intanto i cantieri rischiano di passare da 6.047 dipendenti nel 2009 a 3.910 nel 2014 (in America, invece, i lavoratori del gruppo cresceranno di 900 unità per costruire le navi della Marina). Colpa della crisi e della concorrenza soprattutto asiatica che morde ai polpacci: le commesse per le navi da crociera sono 10 (nell’ultimo decennio erano state 32), le navi militari sono passate da 21 a 11. Spariti i traghetti. Tengono solo i maxi yacht. Meglio puntare sui condomini. Ma Genova non sarà più la stessa: perderà i posti di lavoro e una parte importante della sua anima. Come scriveva il poeta Giorgio Caproni: “Genova tutta cantiere”.

La rivolta sulle gru contro il pasticcio-Tremonti

di Salvatore Cannavò

Tutto il gruppo di Fincantieri è in mobilitazione. Operai sulle gru, scioperi spontanei, sindaci in allarme, famiglie in apprensione per una ristrutturazione del gruppo che potrebbe rappresentare un disastro sociale rilevante. Tra i più allarmati ci sono i sindaci che oggi si ritroveranno a Roma per discutere con i sindacati che da parte loro chiedono un incontro urgente al governo e proclamano per il 1 ottobre una manifestazione a Roma. A Castellammare, vicino Napoli, gli operai sono saliti su una gru esponendo uno striscione con la scritta “Il cantiere non si tocca, lo difenderemo con la lotta”. Un gruppo di operai della Fincantieri di Palermo ha bloccato l'ingresso ai cantieri mentre a Sestri, in Liguria, gli operai sono scesi in corteo all'interno dello stabilimento. I lavoratori di Riva Trigoso, ancora in Liguria, la più colpita dal piano, hanno invece occupato la direzione aziendale.

Sui due cantieri destinati alla chiusura, tra l'altro, Castellammare e Riva Trigoso incombe l'ipotesi di una grande speculazione commerciale e immobiliare. Tutto nasce dal piano di ristrutturazione aziendale reso pubblico dal quotidiano La Repubblica. Un piano drammatico, con la perdita in Italia di 2450 posti di lavori e con la chiusura del cantiere campano di Castellammare di Stabia e quello di Riva Trigoso, il ridimensionamento del cantiere di Sestri Ponente e di quello di Palermo. Ma la perdita dei posti di lavoro potrebbe triplicarsi se si considerano le ditte di appalto che nella cantieristica navale sorgono come funghi.

L'azienda motiverebbe la ristrutturazione con il calo della domanda di navi da trasporto per via della crisi. In effetti nel 2009 la Fincantieri ha avuto ordinativi per 1,75 miliardi contro i 2,52 del 2008 e i 4,23 del 2007, anno record. Sono due anni che la domanda mondiale di navi è in declino, situazione che ha portato alla recente chiusura della danese Odense Shypard o alla riduzione delle commesse di StX France e StX Finlandia, principali concorrenti europei di Finantieri. Anche in Estremo Oriente si sono verificate le prime difficoltà per i cantieri cinesi o sudcoreani (Daewoo e Samsung). L'azienda, in una nota diramata ieri sera, afferma di “non aver preso alcuna decisione” ma nella sostanza non smentisce le indiscrezioni. “Il nostro scopo – spiega il documento – è quello di salvaguardare al massimo i livelli occupazionali ed evitare quindi di dover ricorrere a strumenti di natura non congiunturale. Ma se il mercato dà segnali di ripresa per le navi da crociera è anche vero che è totalmente piatto per tutti gli altri settori”.

Il nodo, in realtà, ruota attorno al governo perché Fincantieri è un'azienda di proprietà statale, controllata da Fintecna che a sua volta è posseduta dal Tesoro, cioè da Tremonti. E con una crisi che si trascina da almeno due anni la mancanza di visione strategica del governo è lampante. Vero è che l'esecutivo non ha molto a cuore lo “sviluppo economico” visto che il ministro competente è assente da oltre quattro mesi. Ma, paradossalmente, il ligure Claudio Scajola non lesinava attenzione alla cantieristica vista la rilevanza degli stabilimenti di competenza elettorale – Sestri Ponente, Riva Trigoso e Muggiano – che con i tre nordestini di Monfalcone, Trieste e Marghera, quello di Ancora, quello di Bari, quello di Castellammare di Stabia e quello di Palermo compongono i dieci insediamenti produttivi della Fincantieri in Italia. La beffa del piano, però, è che mentre si prevedono tagli consistenti in Italia si pianificano nuove assunzioni, 900, negli Stati Uniti, alla Fincantieri Marine Group appena acquisita, forti delle nuove commesse garantite dalla Difesa Usa in una sorta di delocalizzazione di Stato.

Ecco quindi che il ruolo del governo torna in primo piano. Tutte le dichiarazioni politiche chiedono un intervento, il Pd chiede “nuove commesse”, il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, si dichiara pronta “ad azioni eclatanti” mentre il ministro del Welfare, Sacconi si limita a dire di “non aver ricevuto alcuna comunicazione”. Fiom, Fim e Uilm per un giorno dimenticano le divisioni Fiat e trovano l'unità: tutti annunciano che si opporranno fino alla fine alla chiusura dei cantieri e chiedono immediatamente di essere convocati a Palazzo Chigi.

C'è chi finge di disinteressarsi della faccenda, come il viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli, che taglia corto dicendo di «non occuparsi di questioni bancarie». E chi come il sindaco di Verona Flavio Tosi, dopo un periodo in cui non ha perso occasione per attaccare l'amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo lancia in resta, ora cerca di ridimensionare il ruolo avuto dalla Lega, limitandosi a dire che loro hanno semplicemente «evidenziato un problema, e il nostro disagio è stato percepito allo stesso modo da altri soci». E ancora chi, il governatore del Veneto Luca Zaia, tocca, seppur di striscio, il vero nodo della questione quando dice che gli sarebbe piaciuto «sentire che idee hanno in proposito le fondazioni bancarie». Sta di fatto che ieri i padani sulla notizia del giorno, le dimissioni di Alessandro Profumo, hanno giocato a nascondino. Il leader maximo Umberto Bossi non ha detto una parola, lasciando spazio a chi, come Tosi e Zaia, è chiamato in causa in prima persona nella vicenda. Ma anche loro hanno cercato di confondere le carte in tavola, nascondendosi dietro alla solita tiritera della «necessità che le banche restino vicine al territorio». Gridando contro la scalata libica a Unicredit. Già, per smontare la loro posizione, basterebbe replicare chiedendo come mai Gheddafi va bene quando sparacchia contro navi di immigrati e invece diventa un pericolo pubblico quando con le sue banche mette capitale negli istituti di credito italiani. Ma il grido 'dagli a li turchi!' fa sempre comodo per tenere buona la pancia dell'elettorato padano.

In realtà la paura dei libici sembra essere poco più di un pretesto. La difesa del territorio può anche valere come ragione, ma solo se si intende territorio come sinonimo di interesse territoriale. Del resto è una vecchia posizione della Lega che, dopo le vittoriose elezioni regionali della scorsa primavera, ha subito lanciato l'assalto alla diligenza: «Ora vogliamo contare di più nelle banche del nord», hanno gridato i neogovernatori, manifestando chiari appetiti ribaltonisti rispetto al vecchio potere democristian-socialista della prima repubblica. E si sono subito mossi: pochi giorni fa è iniziato il rinnovo della fondazione Cariverona, primo azionista italiano di Unicredit. Si è parlato del rinnovo di 25 membri del consiglio generale su 32. Visto che sono espressione degli enti locali, dove la Lega conta molto, la presenza di uomini vicini ai padani è necessariamente aumentata.

Ora, per incidere davvero, il Carroccio dovrebbe riuscire a piazzare uomini fedeli nel nuovo consiglio di amministrazione, che verrà votato a metà ottobre e che ha il vero potere decisionale. Intanto però l'ente scaligero ha ridotto la sua partecipazione in Unicredit dal 4,98% all'attuale 4,63%. Sarà un caso, ma lo ha fatto dopo che la nuova linea di Profumo ha evitato la distribuzione dei dividendi di Unicredit. Bloccando così un flusso di denaro che le fondazioni utilizzavano poi elargendole «in beneficenza», ossia finanziando e promuovendo numerosissime attività sul territorio. In una zona come il Nordest, dove la Lega si è ormai sostituita alla vecchia Democrazia cristiana tessendo una ragnatela «pseudoclientelare» a vari livelli è chiaro che il nuovo corso di Profumo andava a ledere interessi vitali per il Carroccio. Altro che libici. A meno che i leghisti veneti non abbiano, facendo fuori Profumo, voluto fare un favore ai colleghi piemontesi, incazzati con l'ormai ex ad di Unicredit per aver finanziato la Roma per l'acquisto di Marco Borriello, dopo che il calciatore aveva detto no al suo trasferimento a Torino, sponda bianconera. Ma in questo caso, visti i pessimi risultati della Roma a inizio stagione, l'errore più che Profumo lo ha fatto Borriello.

C´è chi dice che il Partito democratico non c´è più. C´è chi dice che non c´è mai stato. Sulla sua esistenza grava un peccato originale. Pur di non riconoscersi in una identità socialista questo nuovo partito ha scelto un non-luogo politico esponendosi al rischio, puntualmente verificatosi, di costituirsi come congerie di gruppi e progetti disparati. Parlai allora, esprimendo le mie riserve, di salade niçoise. Il fatto è che le identità politiche non si inventano con brillanti improvvisazioni. Sono storia e memoria, non slogan che degradano la politica in pubblicità.

Questa sua condizione di nomade politico si è subito rivelata nella difficoltà di trovare una collocazione politica precisa in Europa e nella pretesa che fossero i partiti socialisti europei a rinunciare alla loro identità in nome di non si sa che cosa.

Ma c´è di più. Il nobile e ambizioso proposito di realizzare la confluenza in una nuova forza politica di due grandi correnti sociali, una sinistra laica e una sinistra cattolica, avrebbe richiesto la elaborazione di un progetto di società come fondamento ideologico del nuovo partito. Il termine ideologia è stato screditato da Marx come «falsa coscienza». E invece, come Bobbio ricorda, deve essere inteso nel suo significato originario, di interpretazione della storia e di ispirazione ideale ed etica della politica. Ora, non si ha neppure la minima traccia, nella breve e tormentata vita del Partito democratico, di un investimento culturale e politico inteso a costruire una ideologia moderna, una proposta di società, un progetto di riforme economiche, istituzionali e sociali capace di concretarla.

Niente di tutto questo. Al suo posto c´è una azione incapace di allargare il nostro spazio politico angusto proponendo temi; un´azione intenta soltanto a contrastare o a emendare le iniziative della parte avversa, restringendo la propria strategia politica alla scelta contingente delle alleanze. Non si discute su che cosa ci si deve impegnare, ma con chi bisogna stare. Ora mi chiedo: c´è da stupirsi se la gente non si appassiona alle vicende del Partito democratico? Se perde consensi e simpatie?

C´è chi dice (come Galli della Loggia) che una delle principali ragioni della crisi del partito democratico sta nella sua incapacità di obbedienza ai capi. E che l´antiberlusconismo farebbe parte di questa sindrome. No, non è così.

I grandi capi socialisti, come Brandt, come Palme, suscitavano deferenza e obbedienza vastissime in virtù delle idee e dei valori che rappresentavano, non di atteggiamenti duceschi e giullareschi, che dovrebbero suggerire non una benevola condiscendenza, come accade in ambienti "liberali"; ma una vera e incontrovertibile condanna.

Ciò che alla sinistra manca non è l´obbedienza, ma la «credenza»: la convinta fiducia nei propri valori, spesso sacrificati all´opportunismo delle convenienze immediate e alle ragioni del potere; e soprattutto la capacità di tradurre quei valori in un concreto progetto di società; e non certo di affidarli a demagoghi rumorosi o a seduttori populisti.

Con questi dirigenti non vinceremo mai. E siccome nel cerchio stretto del Pd le facce e le parole sono sempre le stesse, il monito morettiano torna ad evocare scenari sconfortanti. Colpisce la tempistica dell'ultima svolta epocale. Quando si avvicina il momento della verifica parlamentare del governo Berlusconi, l'ultimo fumogeno veltroniano rischia di affumicare il partito democratico e di lasciare a bocca asciutta l'elettorato.

Naturalmente non è in discussione il diritto di chi ha fondato e guidato il Pd di aprire una discussione pubblica, di denunciare quel che non va. Il fiorire di documenti o l'esplodere di polemiche "maleducate" tra vecchi dirigenti e giovani promesse è un elemento della fisiologia di partito. Anche se la conta delle firme, 75, è stato un brutto, vecchio spettacolo, il segretario non dovrebbe innervosirsi per le critiche di Veltroni ma rispondere rendendo più convincente la sua direzione politica.

Rimasto ai nastri di partenza, a lungo chiuso in un limbo di buone intenzioni e ardite metafore, ora Bersani, sollecitato dalle forti scosse del centrodestra, prende l'iniziativa con una proposta di alleanze costituzionali e di ricostruzione di un nuovo Ulivo. Promette per l'autunno una campagna porta a porta sui problemi del lavoro, assicura di voler parlare al paese. Vedremo se nella campagna d'autunno suonerà anche alla porta della manifestazione dei metalmeccanici della Fiom, dei referendum per l'acqua pubblica, dei precari della scuola. Per il momento di forte c'è solo una robusta campagna mediatica, con le città tappezzate di manifesti («Abbiamo perso la pazienza»), le feste, i salotti televisivi.

L'iniziativa dell'inedito terzetto Veltroni-Fioroni-Gentiloni rompe questo protagonismo bersaniano con un documento-movimento intitolato al bene della comunità piddina. Per capire di che si tratta basta leggere i sinceri propositi di uno dei tre firmatari, Beppe Fioroni, consegnati a un'intervista sul Corriere della Sera: «Intercettare i voti di moderati, cattolici, commercianti, coltivatori, piccole e medie imprese delusi dal berlusconismo». E, se non si fosse capito, «rappresentare grandi sindacati che hanno scommesso sull'innovazione e sul bene comune». A proposito di svolte strategiche, siamo alla riesumazione del vecchio elettorato democristiano, con la Cisl di Bonanni in prima fila. Seguono l'abbraccio a Marchionne e Confindustria, l'auspicio della fine della lotta di classe, declinazione aggiornata dello spirito del Lingotto. Una carta che Veltroni del resto ha già giocato provocando la resurrezione di Berlusconi e la desertificazione della sinistra parlamentare.

Era molto atteso, all'indomani della firma dei 75, l'intervento di Veltroni, ospite ieri di un convegno del partito. Dal raduno orvietano spicca la sua proposta contro la vergogna della compra-vendita dei voti parlamentari di Berlusconi. Per dare un segno forte di volontà unitaria, il leader democratico lancia l'idea di un'iniziativa con il segretario e tutti i dirigenti per denunciare l'indecente traffico e dare una prova di coesione: una epocale conferenza stampa.

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