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Il Città Territorio Festival chiude i battenti. Ha avuto due edizioni, nell’aprile del 2008 e del 2009, ma l’amministrazione comunale di Ferrara ha idee sulle iniziative culturali che non contemplano la sua sopravvivenza in condizioni di qualità e di compatibilità economica, neanche nella formula completamente diversa che è stata progettata. Il sindaco Tiziano Tagliani ha espresso grande apprezzamento sia per quel che si è fatto, sia per la versione nuova. Ma le decisioni, alla fine, sono state altre. A me che ne ho curato il programma, per conto dell’editore Laterza, preme sottolineare alcuni elementi. E uno in particolare. Il Festival non è stato un avvenimento catapultato a Ferrara da un altro pianeta. E’ nato e si è sviluppato in forte e crescente intreccio con la città.

La prima idea risale al 2006. Emerse dalle conversazioni fra Giuseppe Laterza, il sottoscritto e Paolo Ravenna, la cui storia personale è legata a quella di Ferrara come poche altre. Perché Ferrara?

Perché Ferrara esprime una qualità urbana invidiabile, a misura delle iniziative che Laterza aveva con successo avviato a Trento con il Festival dell’Economia.

Perché Ferrara è esemplare nella storia dell’urbanistica italiana (da Biagio Rossetti a Bruno Zevi), perché è la città di Giorgio Bassani, fra i fondatori di Italia Nostra. E perché non sarebbe stata lo sfondo neutrale di un’iniziativa che invece prendeva spunto dalla sua secolare vicenda urbana. Si è allora trovata un’intesa con l’amministrazione comunale di Gaetano Sateriale, che ha molto creduto nel progetto. Si è avviata la ricerca di sponsor (l’Eni, la Fondazione Carife e altri ancora, individuati sia da Laterza che dal sindaco).

Si sono definiti i promotori, fra i quali l’Università di Ferrara. Ferrara Fiere ha preso in carico le questioni organizzative e logistiche. E si è partiti. Nelle due edizioni si sono tenuti circa centocinquanta incontri.

I nomi? Eccone alcuni, alla rinfusa: Bernardo Secchi ed Eddy Salzano, Sasskia Sassen e Joseph Rykwert, Vittorio Gregotti, Mario Botta e Gae Aulenti, Leonardo Benevolo, Massimo Cacciari, Stefano Boeri, Deyan Sudjic, Giorgio Ruffolo, don Virginio Colmegna, Carlo Magnani, Pierre Donadieu, Vezio De Lucia, Josep Maria Llop, Tunney Lee, Adriano Prosperi, Piero Bevilacqua, Francesco Remotti, Raffaele Cantone, Marco Travaglio, Luciano Canfora, Pier Luigi Cervellati, Luca Mercalli, Alberto Asor Rosa, Andrea Emiliani, Andrea Carandini, Carla Di Francesco, Ezio Raimondi, Joao Nunes, Eyal Weizman, Suketu Mehta, Emiliano Gandolfi, Marco Navarra, Cino Zucchi, Massimo Carlotto, Eraldo Affinati.

Architetti, dunque, urbanisti, ma anche storici, archeologi, economisti, magistrati, sociologi, scrittori.

Non un festival di urbanistica, ma un festival che ha un oggetto - città e territorio - sul quale sono chiamate a discutere competenze diverse. Tanti incontri sono stati animati da persone di Ferrara o che a Ferrara insegnano: Patrizio Bianchi, Paolo Ceccarelli, Roberto Di Giulio, Francesca Leder, Luca Emanueli, Gianfranco Franz, Raffaele Mazzanti, Rita Fabbri. Tunney Lee, Josep Maria Llop e Joao Nunes sono stati scelti anche perché a Ferrara hanno lavorato o insegnato. La condizione che ha posto Pierre Donadieu per venire è stata che lo si accompagnasse a visitare gli orti urbani di Ferrara.

Molte le iniziative organizzate da associazioni o istituzioni ferraresi, a cominciare dall’amministrazione comunale, ma poi l’assessorato all’Ambiente della Provincia, l’Ordine degli architetti, il Parco del Delta con la direttrice Lucilla Previati, Italia Nostra guidata da Andrea Malacarne, e altre ancora. Grande intesa il Festival ha raggiunto con alcune categorie ferraresi. Una su tutte: i librai. La qualità degli incontri è stata molto elevata. Si è usata una lingua comprensibile per affrontare questioni serie, senza banalizzarle né circoscriverle agli specialisti. Si è parlato di forma e di trasformazioni della città, di paesaggio, di tutela dell’ambiente, di mobilità, di comunità, cittadinanza e diversità. Di periferie e di centri storici. Di parchi e di orti urbani. Si è parlato molto di Ferrara. Si è discusso animatamente. Sono state messe a confronto Barcellona e Shenzen, Rotterdam, Copenaghen e Douala. Il pubblico ha risposto molto bene, in qualche caso in modo eccezionale. Ha ascoltato, ha posto quesiti. Moltissimi erano i giovani con il capo chino su un bloc notes a prendere appunti. I costi sono stati coperti dagli sponsor e la seconda edizione, a causa della crisi economica, si è svolta con una riduzione drastica del budget. Ma c’è un punto credo decisivo per definire il Festival un’iniziativa nata a Ferrara e con Ferrara. Fra la prima e la seconda edizione si sono sviluppati i laboratori studenteschi: gruppi di ragazzi dell’università e delle scuole si sono impegnati per mesi intorno al titolo ‘Gli spazi della comunità’ che è stato il titolo dell’edizione 2009 - producendo degli elaborati discussi nei giorni del Festival con gli ospiti del Festival.

L’iniziativa è stata pensata con Francesca Leder, che insegna ad Architettura, e che con slancio e dedizione ha coordinato tutta l’o perazione. Un’operazione che non si sarebbe svolta senza la collaborazione generosa di tutta Facoltà di Architettura e che ha poi coinvolto, con gli studenti di Ferrara, centinaia di ragazzi di altre città (da Catania a Pescara, da Siracusa a Venezia, da Roma ad Ascoli), i quali hanno trasformato lo splendido Palazzo Tassoni nella sede festosa e laboriosa di una comunità giovanile. Decisivo è stato il rapporto strettissimo con il Liceo Ariosto, con la preside, Mara Salvi, con il professor Fabrizio Fiocchi e con i loro alunni. Tutta l’operazione dei laboratori, infine, non sarebbe stata concepibile senza il supporto di idee e di entusiasmo dei ragazzi dell’associazione Basso Profilo. In tutte queste persone, dal termine della seconda edizione fino a oggi, si era creata un’a spettativa. Molte iniziative erano state discusse e avviate, immaginando uno sbocco nella prossima primavera.

Incontri e laboratori hanno dato un senso al Festival, lo hanno definito in relazione alla città. Nei rapporti con gli studenti, con i professori, con i librai, con tante espressioni della società ferrarese c’è lidentità del Festival.

Che non è stata una meteora, ma una pianta radicata in un tessuto vitale. La speranza è che, in un futuro, torni a germogliare.

L’azienda «Saffioti calcestruzzi e movimento terra», alla periferia di Palmi sulla strada che porta a Gioia Tauro, è un bunker: cancelli blindati, muri in cemento armato, decine di telecamere, filo spinato come nelle caserme , un'auto fissa della Finanza. «Come a Guantanamo»: Gaetano Saffioti, 48 anni, gli ultimi otto vissuti sotto scorta per aver fatto arrestare 48 malavitosi della 'ndrangheta che lo taglieggiavano, non ha perso il senso dell'umorismo. Da quando ha denunciato il racket, praticamente non lavora più in Calabria, è riuscito a salvare l'azienda con le commesse all'estero. «Gaetano Saffioti, ovvero la storia di un uomo esemplare» è il capitolo della sentenza del processo nato dalle sue denunce.

«Sono nato cresciuto e pasciuto a Palmi. La mia famiglia aveva un frantoio. La 'ndrangheta l'ho conosciuta a 8 anni. Ero andato in una colonia estiva a Sant'Eufemia, in Aspromonte, riservata ai più bravi della classe. Ci tenevo da morire. Dopo due giorni fui richiamato a casa. Torna perché mi manchi, disse mio padre. Anni dopo ho saputo che era stato minacciato e temeva per me. Morto mio padre, la famiglia era diventata più debole: una donna sola con sei figli minorenni. Arrivavano telefonate e mia madre piangeva. Noi chiedevamo: chi è 'sta 'ndrangheta?».

Nel 1981 Saffioti apre la ditta. «Ero appassionato di mezzi per movimento terra. Prima zappavo con il trattore, poi ho noleggiato la prima autopala, quindi un cingolato, un paio di camioncini. Fatturavo 5 milioni e mezzo di lire. Comincio a lavorare per i privati. Nel 1992 aggiungo l'impianto di calcestruzzo e vinco le prime gare d'appalto pubbliche». E le cosche? «Sempre tra i piedi. Fin da quando raccoglievo le olive. A loro non sfugge niente: persino i professori di scuola pagano il pizzo, costretti a dare voti alti ai figli dei boss. Quando ho cominciato a lavorare, c'era il boom dell'abusivismo: tanto lavoro, i boss lasciavano le molliche e prendevano i grossi appalti. Ora non lasciano nemmeno le molliche».

«Si presentavano a tutte le ore, io preparavo i soldi e li consegnavo a pacchi da dieci milioni. Quando ne arrestavano uno, il giorno stesso si presentava un sostituto. Erano cordiali, sapevano prima di me che mi era arrivato un accredito in banca e venivano a riscuotere la percentuale, dal 3 al 15 per cento. Quando c'era un sequestro dei beni di un boss, automaticamente bisognava "risarcirlo" pagando il doppio. Per arrivare al cantiere al porto di Gioia Tauro dovevo attraversare i territori di tre famiglie. E pagavo per tre. Come i caselli autostradali. Compravo una cava di inerti per fare il calcestruzzo? Non me la facevano usare, imponevano di comprare il materiale da loro. Così per le macchine: le mie restavano ferme e noleggiavo le loro. Pagavo anche se non mi piaceva. Io glielo dicevo: non si può andare avanti così. E loro mi sfidavano: denuncia. Avevo paura: di essere ucciso ma anche di essere considerato un prestanome dei boss e arrestato. Quindi registravo tutto: gli incontri, i colloqui, i pagamenti. Una specie di polizza vita».

L'azienda cresce a ritmi vertiginosi: 20-30 per cento l'anno. E così le tangenti ai boss. Ma anche la frustrazione di Gaetano, anche perché nel frattempo gli attentati intimidatori non cessano. In uno di questi, l'incendio di un mezzo in pieno giorno, il fratello di Gaetano rischia di morire. È la svolta: Saffioti si presenta dal procuratore Roberto Pennisi e consegna tutte le registrazioni.

«All'alba del 25 gennaio 2002, all'arrivo in azienda trovo la Finanza: "Siamo qui per lei, se deve uscire l'accompagniamo noi". Finiva un incubo e ne cominciava un altro. Da allora sono sempre con me e con la mia famiglia. In pochi giorni persi tutte le commesse, 55 dei 60 operai. Il fatturato scese da 15 milioni a 500 mila euro, le banche mi chiudevano i conti attivi, i fornitori mi chiedevano fideiussioni oltre il terzo grado di parentela perché "tu sei un morto che cammina". Mia moglie piangeva. I clienti sparivano, nemmeno le confraternite venivano più a chiedermi i contributi per le feste patronali».

Saffioti, diventato testimone di giustizia, vivrà il resto della sua vita blindato. «Noi stasera non possiamo andare a cena, devo chiedere il permesso, bonificare il ristorante sempre che i proprietari mi vogliano, certi hotel mi respingono. Io ho rifiutato i soldi dello Stato: non sono un pentito. In Calabria non lavoro più, alle gare d'appalto arrivo sempre secondo. Le aziende che mi danno lavoro all'estero qui non mi parlano nemmeno per telefono: come gli amanti. Sopravvivo con i lavori in Spagna, in Francia (all'aeroporto di Parigi), in Romania. Ora sto lavorando a Dubailandia, il più grande parco giochi del mondo: una commessa da 55 milioni di euro battendo le multinazionali americane. Vorrei togliermi la soddisfazione di fare un chilometro della Salerno-Reggio Calabria, ma non mi è consentito. Ho offerto il materiale gratis ma non lo vogliono. In compenso i 48 che ho fatto arrestare, tutti condannati in primo grado, tra patteggiamenti e sconti di pena sono tutti liberi. E qualcuno lavora alla Salerno-Reggio. Però resto qui, anche se non cambia niente e io ho sacrificato la vita, perché io non sono solo condannato a morte, ma anche condannato a vita. Però mi basta sapere che mio figlio ventenne e sotto scorta, a cui ho rovinato la vita perché le ragazze gli dicono "tu sei figlio di un pentito", mi capisce. E qualche giorno fa mi ha detto: "Papà, prendiamo il lato buono, io rispetto ai miei coetanei non ho mai problemi a trovare parcheggio”».

«Trulli e citrulli», «Parapuglia» per parapiglia - il manifesto ci informa di quel che sappiamo già (da televisione e radio), cioè che sulle regioni si sta litigando. Ce n'è solo una, la Puglia, ma è quella che più si presta ai giochi spiritosi di parole. E non è un mistero su che cosa: c'è in Puglia, ed è la sola regione del mezzogiorno, un candidato che non è stato il prodotto d'un apparato né di alchimie di vertice, bensì della gente pugliese, e dei sfavoriti, tanti e puliti, e si chiama Nichi Vendola. Si dà il caso, non fortuito, che egli faccia parte della sinistra considerata radicale e questo - malgrado la stima personale che, sembra, ha per lui - Pier Ferdinando Casini non lo può tollerare. Allora il Pd nella persona di Massimo D'Alema gli ha messo un bastone decisivo fra le ruote: dare la Puglia a qualcuno più capace di giravolte e intrighi, o a un candidato già battuto, o magari anche perderla piuttosto che mettere in gioco un'eventuale alleanza nazionale del Partito democratico con l'Udc. Di questo si tratta, puramente e semplicemente. E lo sanno anche i gatti.

Ma il manifesto ha dei dubbi: ha dato una voce, qualche mese fa, ai sospetti sulla chiarezza di Vendola rispetto a malefatte di alcuni della sua giunta - e passi, si trattava di informare. E adesso fa intendere nelle sue apprezzate copertine e nei suoi brillanti titoli, che si tratta di una partita complicata, non si sa bene chi ha torto e chi ha ragione, che non si può dire papale papale come stanno le cose. E che il destino della Puglia è stato subordinato a quello nazionale, alla faccia delle autonomie locali, tale e quale come Bettino Craxi aveva inaugurato dopo un trentennio di pulita autonomia locale repubblicana.

La sottoscritta ha tenuto per la prudente politica internazionale di D'Alema, salvo sul Kosovo, ma era complicato davvero. E considera un errore della flebile Europa non averlo fatto suo ministro degli esteri. Un errore per l'Europa e una catastrofe per noi, perché D'Alema di politica interna e in campo sociale non capisce gran che. Non è il solo a tenere per fermo che modernizzazione sia sinonimo di liberismo. Ma è come credere che nel conflitto sociale prevalga la diplomazia fra sindacati e Confindustria, tale e quale che fra cancellerie. Luigi Pintor lo ha definito una volta la «Volpe del Tavoliere». Povera volpe, è tentata, come la Presidenza della Repubblica, di credere che con il Cavaliere si possa tessere un accordo, ridandogli fiato proprio quando si trova in difficoltà. Sbaglia e si farà tagliar la coda una seconda volta, come già con la Bicamerale. E stavolta dopo aver pagato un prezzo - un lodo Alfano formalmene ripulito - imperdonabile.

Perché il manifesto non lo dice chiaro e tondo? Questo o quello per noi pari sono? Tutti citrulli? Noi che non abbiamo in gioco né interessi personali né di partito, potremo essere i più liberi di parlare? Invece siamo spiritosi e prudenti. Io non ci sto. Dico che c'è un candidato pulito ed è Vendola, e il resto sono traffici di vertice. Le idee di Vendola non sono le mie, ma le nostre sul degenerare della politica in politicismo non sono chiacchere. Almeno non credo.

Sicurezza o libertà? Questo antico dilemma continua ad accompagnarci, diviene più stringente quando terrorismo e criminalità si fanno più aggressivi.

E dopo l’11 settembre l’imperativo della sicurezza è divenuto dominante, fino a cancellare quasi ogni altro riferimento. Questo spirito è tornato in questi giorni, nelle reazioni non sempre composte che hanno accompagnato il fallito attentato a un aereo in volo verso gli Stati Uniti. Dobbiamo rassegnarci a una continua erosione dei diritti, a un lento declinare dei principi della democrazia?

Anche in tempi difficili è necessario che la politica mantenga la testa fredda, non ceda alle emozioni, né alla tentazione di credere che la risposta al terrorismo debba per forza portare a limitazioni delle libertà. Un piccolo esercizio di memoria può aiutarci. All’indomani del sanguinoso attentato alla stazione di Atocha il re Juan Carlos sottolineò la necessità di tener fermi i principi dello Stato di diritto; e la Regina Elisabetta, dopo l’attentato nella metropolitana di Londra, disse che i terroristi «non cambieranno il nostro modo di vivere». Questa fedeltà democratica torna nelle parole del ministro dell’Interno americano, Janet Napolitano: «Abbiamo un nemico determinato, ma non possiamo sigillare gli Stati Uniti, Questo non è il nostro paese. Questi non sono i nostri valori». Viene così segnato un confine che, in democrazia, non può essere varcato, pena la stessa perdita di democraticità del sistema che si vuole tutelare.

Oggi l’attenzione è tutta concentrata sui body scanner, su questi penetranti strumenti di controllo che, nati al servizio della medicina, consentono di "leggere" il corpo delle persone, rivelandone ogni dettaglio, dunque anche qualsiasi oggetto che si trovi su di esso. Una nuova bacchetta magica? Sembrerebbe di sì, a giudicare almeno dalle dichiarazioni di chi ha sostenuto che i body scanner sono lo strumento più sicuro per prevenire il terrorismo. Non è la prima volta che l’enfasi tecnologica prende la mano dei politici, distorcendo la realtà e suggerendo soluzioni che possono rivelarsi pericolose e inefficaci.

La distorsione è resa evidente dal fatto che la discussione si è quasi esclusivamente polarizzata sullo strumento tecnico, mettendo in secondo piano l’aspetto più preoccupante della vicenda: il fallimento dei controlli americani più che l’inefficienza dell’aeroporto di Amsterdam. Le autorità americane erano in possesso delle informazioni riguardanti l’attentatore, sapevano che si sarebbe imbarcato su quel volo, e non sono state in grado di incrociare questi dati che avrebbero consentito di impedire la partenza di quella persona. Una responsabilità primaria dell’intelligence, non della tecnologia. Un fallimento amministrativo prima che tecnico.

Sottolineo questo punto perché la delega alla tecnologia sta diventando una pericolosa deriva, alla quale la politica si abbandona per scansare questioni difficili. In questi giorni, considerando tra l’altro anche l’enorme costo di una installazione generalizzata di body scanner, si sta mettendo l’accento proprio sulla necessità primaria di potenziare gli apparati di intelligence. Anche per una ragione banale. Ammesso che gli strumenti tecnologici riescano a rendere sicuri i voli, non per questo i terroristi abbandonerebbero i loro progetti. I casi della Spagna e della Gran Bretagna, ricordati prima, mettono in evidenza come il terrorismo ricorra a modalità diverse, si adatti al mutare delle situazioni. La lotta al terrorismo, dunque, richiede prima di tutto politiche adeguate, fondate soprattutto su conoscenza e prevenzione. E della prevenzione fa parte anche l’insieme delle politiche verso i paesi dai quali si pensa che i terroristi possano partire. Sì che appare sbagliata la sbrigativa misura presa dall’amministrazione americana, che ha individuato quattordici paesi i cui cittadini saranno sottoposti a controlli particolari. Immediate le reazioni, che hanno sottolineato il rischio di trasformare in "sospetti" tutti i cittadini di quei paesi, alimentando proprio la reazione antiamericana.

In questo quadro, la questione dei body scanner deve essere analizzata da tre punti di vista: efficienza, sostenibilità, rispetto della privacy (che è parola ormai inadeguata, poiché in casi come questo sono la dignità e la libertà delle persone ad essere a rischio). Sappiamo che quegli strumenti non sono in grado di individuare oggetti nascosti nelle "cavità" del corpo, sì che già si prevede che i terroristi potrebbero usare le tecniche già sperimentate dai trafficanti di droga. L’investimento economico è molto impegnativo, anche per il numero di body scanners che dovrebbero essere installati, per evitare che i tempi dei controlli diventino insostenibili. E che cosa dire dello "striptease virtuale" al quale le persone sarebbero assoggettate?

Proprio questo rischio è da mesi al centro dell’attenzione della Commissione europea, che ha consultato i garanti europei e l’Agenzia per i diritti fondamentali, ricevendo risposte molto critiche, che mettono in evidenza la necessità di una serie di garanzie: uso di quegli strumenti solo nel rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità e in base a specifiche disposizioni di legge; possibilità di rifiuto di sottoporsi al body scanner, accettando controlli manuali; adozione di tecnologie che riducono la figura del passeggero, rendendone invisibili i caratteri sessuali e gli eventuali difetti fisici, individuando solo eventuali oggetti; separazione tra il personale che vede fisicamente la persona e chi effettua il controllo; cancellazione delle immagini raccolte. Opportunamente l’Enac, l’ente che regola tecnicamente i voli, ha fatto sapere che chiederà a Bruxelles indicazioni sulle caratteristiche dei nuovi strumenti. Ma non siamo di fronte ad una semplice questione tecnica: dall’Unione europea dovrebbero venire soprattutto indicazioni relative alla compatibilità di tali misure con la Carta dei diritti fondamentali, che si apre affermando proprio l’inviolabilità della dignità della persona.

Non è un richiamo retorico. Non è accettabile la lenta erosione di libertà e diritti, la mitridatizzazione della società di fronte a misure illiberali. Analizzando sul "Guardian" il fallimento dei controlli americani, Gary Young ha opportunamente sottolineato che la strategia di Bush contro il terrorismo ha avuto come effetto non una maggior protezione dei cittadini, ma l’incremento della paura, sfruttata per aumentare controlli sociali e militarizzazione, per guadagnare consenso. È una diagnosi che può valere per tutti.

L'imbarazzo del Pd per le candidature alle prossime elezioni regionali è veramente paradossale. Un partito che ha sottoposto a primarie aperte a tutti la scelta del proprio segretario nazionale, riserva all'apparato la scelta dei candidati presidenti, che governeranno sui cittadini! Le elezioni primarie sono quasi doverose per la Regione Lazio, dove la presidenza Marrazzo si è interrotta traumaticamente. La filiazione telegenica (Badaloni, Marrazzo, Sassuolo) è stata preventivamente occupata dalla candidata del PdL, Renata Polverini, volto ben noto agli spettatori di Floris, Santoro, etc. Ricorrere a spostamenti di casella della nomenclatura - Zingaretti è particolarmente pressato perché lo faccia - potrebbe portare a conseguenze disastrose, come ha dimostrato la clamorosa sconfitta di Rutelli contro Alemanno.

Le primarie hanno un senso se scendono in campo idee, e si vota su queste.

Credo di poter rappresentare un progetto che vada oltre il modello Roma di Rutelli e Veltroni, e soprattutto una continuità politica abbastanza bruscamente interrotta con la candidatura di Francesco Rutelli nel '93 a sindaco di Roma dopo Carraro. Un anno fatale, il '93, di crisi politica senza precedenti, che proprio per Roma vide la prima «discesa in campo» di Silvio Berlusconi con la dichiarazione di voto a favore di Fini. Anche la memoria è importante se si vogliono progettare novità non effimere (ricordate la religione del maggioritario?), e proprio per questo dichiaro di volermi ricollegare ad Argan e Petroselli. Giunte rosse non è forse il termine più adatto per ricordare quell'esperienza politica, tutta tesa invece a estendere le alleanze, ma riferendole sempre a un programma. Qualcosa di molto diverso da quello che sembra si voglia fare oggi a proposito dell'Udc di Casini. Voglio in ogni caso ricordare che Luigi Petroselli morì dopo un intervento al Comitato Centrale del Pci che poneva in primo piano l'esigenza di un rapporto politico non a due facce, una in parlamento l'altra nelle giunte, con il Psi di Craxi. Argan non era un'espressione di partito, ma una delle più alte espressioni della cultura italiana.

E l'estate romana è rimasta nel cuore dei romani perché è nata nel segno dell'autonomia creativa, dell'invenzione dopo i lunghi anni di compressione, controllo e mediazione del Campidoglio democristiano. I giovani dei cineclub e delle cantine hanno saputo proporre momenti d'incontro, oltre le logiche dello schieramento ideologico e dell'appartenenza partitica, scoprendo nuovi modi di vita che avevano al centro l'uso della città come spazio pubblico.

È per questo, che intendo candidarmi. Su un programma che intende ripartire dalle idee forti di quel progetto.

La crescita del Lazio passa oggi per la cultura: come per ogni altro territorio segnato dal capitalismo maturo e globale, per il segmento alto della domanda di beni e servizi. Dai beni culturali alla ricerca e all'università, dal teatro al cinema, dalla Rai alla produzione di audiovisivi, in una parola quella che si potrebbe definire industria dell'immateriale incentrata sulla qualità dei servizi e della vita urbana. Il suo simbolo più forte è il parco archeologico (sogno di Antonio Cederna e Luigi Petroselli) dal Campidoglio all'Appia Antica al centro della Capitale, al posto del traffico, non ancora realizzato e di grande attualità in vista del 150° dell'Unità d'Italia del 2011: di cui non è difficile immaginare la proiezione regionale, attraverso l'Appia, la Domiziana, il rilancio del Parco Nazionale del Circeo.

Occorre comprendere fino in fondo che il territorio è diventato un bene scarso e che l'edilizia deve rinunciare all'espansione delle aree urbanizzate per imboccare la strada nuova del recupero e del rinnovo, della qualità e del restauro del paesaggio. Il riequilibrio della Regione passa infine per fasce trasversali forti (Rieti - Viterbo; Latina - Frosinone), alternative all'organizzazione viaria ed infrastrutturale Roma centrica, e per un collegamento (in una comune lotta alla criminalità organizzata) di Roma con Napoli e del Lazio con la Campania, per creare un'area d'industria culturale e di servizi di qualità competitiva con le aree forti del Nord.

La politica deve saper recuperare la propria dignità di progetto collettivo, sapersi liberare dai pesanti condizionamenti (in termini di bilancio e purtroppo, più ancora, di autonomia) esercitati su di essa dagli zar della sanità privata, dai padroni del riciclaggio dei rifiuti, da costruttori capaci di condizionare e imporre la propria volontà ai consigli comunali. Il costo maggiore della politica è oggi rappresentato proprio dalla rinuncia della politica alla sua essenza, alla sua capacità di rappresentare e promuovere gli interessi collettivi, lo spazio pubblico, i valori condivisi. La politica deve fare emergere il conflitto come conflitto democratico, smettere di occultarlo nella ricerca preventiva di accordi di potere all'insegna della pura gestione, spacciata per governance. È per questo che chiedo le primarie per la Regione Lazio, ed intendo candidarmi.

Chi parla di mafia diffama il Paese? Chi parla di mafia difende il Paese. Le organizzazioni criminali contano molto: solo con la coca i clan fatturano sessanta volte quanto fattura la Fiat. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali per il traffico di cocaina. Si arriva a calcolare che ‘ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l’anno, ed è una stima per difetto. La ‘ndrangheta – come dimostrano le inchieste di Nicola Gratteri – compra coca a 2.400 euro al kilo e la rivende a 60 euro al grammo, guadagnando 60.000 euro. Quindi con meno di 2.400 euro di investimento iniziale, percepisce una entrata pulita di 57.600 euro. Basta moltiplicare questa cifra per le tonnellate di coca acquistate e distribuite da tutte le mafie italiane e diventa facile capire la quantità di denaro di cui dispongono, al netto di cemento ed estorsioni.

E raffrontarla con il peso industriale delle imprese leader - che hanno molti meno profitti - per comprendere il potere che oggi hanno realmente nel paese e in Europa le organizzazioni criminali.

Proprio dinanzi a fatti come l’attentato di Reggio Calabria diventa imperativa la necessità di capire. È la conoscenza che permette di capire cosa stia accadendo. E non raccontare questa azione come un episodio avvenuto in un altro mondo, in un altro paese. Un paese di quelli lontani dove una bomba o un morto rientrano nel quotidiano. Le organizzazioni criminali italiane quando agiscono e quando decidono di mandare un segnale, sanno perfettamente cosa fanno e dove vogliono arrivare. La bomba non è stata messa davanti a una caserma, né alla sede della Direzione Antimafia, ma alla Procura generale. Il messaggio, dunque, è rivolto alla Procura Generale. E forse - ma qui si è ancora nel territorio delle ipotesi - a Salvatore Di Landro, da poco più di un mese divenuto Procuratore generale.

Da quando si è insediato, il clima non è più quello che le ‘ndrine reggine conoscevano. Le cose stanno cambiando e le ‘ndrine non apprezzano questo cambiamento. Preferirebbero magari che le difficoltà burocratiche e certe gestioni non proprio coraggiose del passato possano continuare. Le mafie sanno che la giustizia italiana è complicata e spesso così lenta che è come se un bambino rompesse un vaso a sei anni e la madre gli desse uno schiaffo quando ne ha compiuti trenta.

Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La ‘ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l’operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo.

Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le ‘ndrine vogliono che una corrente prevalga sull’altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell’antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell’antimafia.

Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l’attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è.

A Reggio Calabria l’arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell’anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle ‘ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le ‘ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo sì o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l’ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All’inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. «Increscioso e deplorevole» ha definito l’episodio il settimanale diocesano l’Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all’ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima ‘ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.

Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un’amica si parlava dell’altra figlia femmina, Angela: «Cara Anna (...) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (...) Non c’è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (...) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (...) Ma dobbiamo portare la nostra croce…».

Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi - e per fortuna ce ne sono - possono fare.

È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell’attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l’attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un’opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti.

Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell’unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell’uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico.

L’altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così - fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici - va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio.

Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell’esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve.

Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l’unica prova dell’efficacia della lotta alla mafia. Ma l’esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all’asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l’episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l’inizio.

Craxi? Non solo corruzione: né riformatore, né statistaGianfranco Pasquino - http://domani.arcoiris.tv/, 3 gennaio 2010

Dieci anni fa Bettino Craxi morì, non in esilio, ma, condannato in via definitiva, latitante. Non risultano richieste di revisione dei suoi processi in base a nuovi elementi sopravvenuti. Sarebbe davvero sorprendente se si giungesse ad una sua “riabilitazione” (sulla base di quali elementi e di quali considerazioni?) attraverso un elogio dell’agire politico di Craxi. Anzitutto, non è affatto possibile sostenere con dati convincenti che Craxi abbia dato un impulso decisivo alla modernizzazione del paese e della politica. Ad ogni buon conto, i suoi meriti di improbabile modernizzatore andrebbero condivisi con la Democrazia Cristiana di Andreotti e di Forlani, non proprio notissimi modernizzatori. Il debito pubblico ebbe un’impennata irrefrenabile negli anni del pentapartito, proprio quelli nei quali Craxi esercitò il suo potere di interdizione sulla formazione e sulle attività dei governi, ma evidentemente non applicandolo alla spesa pubblica mentre il livello di corruzione politica cresceva enormemente.

Che Craxi abbia chiamato a correo tutti i segretari degli altri partiti, probabilmente beneficiari di buona parte di quella corruzione, non costituisce una attenuante. Piuttosto è una confessione. E Craxi non fu il solo a pagare poiché tutti segretari del pentapartito furono indagati e variamente condannati. Che Craxi meriti il titolo di statista è molto dubbio se con statista ci si riferisce a chi antepone il bene del sistema politico, ovvero della Repubblica, alle fortune del suo partito. Al contrario, il filo conduttore di tutta l’attività politica di Craxi è costituito dal suo sforzo ossessivo di accrescere il peso elettorale e il potere politico del Partito Socialista. Il peso elettorale del PSI aumentò, ma non di molto; il potere politico di troppi socialisti crebbe al di là di ogni previsione, molto oltre il loro peso elettorale. Vennero rovesciate parecchie giunte, non solo con i comunisti, e giunsero al governo di città, provincie e regioni dirigenti accuratamente lottizzati, con casi talmente clamorosi che finirono per diventare il detonatore dalla riforma elettorale.

Da lui duramente osteggiata, la riforma elettorale è la cartina di tornasole del Craxi definito riformatore. L’invito nel giugno 1991 ad “andare al mare” per fare fallire il referendum elettorale sulla preferenza unica suggellò un decennio di ostruzionismo sordo e cieco a qualsiasi proposta di riforma. L’uomo che aveva lanciato, in maniera già allora facilmente valutabile come propagandistica, la Grande Riforma (1979), fece deliberatamente fallire la Commissione per le Riforme Istituzionali (1983-1985) definita Bozzi dal nome del suo Presidente, il liberale Aldo Bozzi. Il suo più grande merito fu quello di avere combattuto e vinto, da giocatore d’azzardo, il referendum chiesto dai comunisti contro il taglio di due punti della scala mobile. Mi limito a constatare che la battaglia fu ingaggiata soprattutto con, peraltro legittimi, obiettivi politici: dimostrare l’esistenza di divisioni dentro la CGIL e evidenziare l’irrilevanza del PCI.

I suoi estimatori sostengono che Craxi mirava in modo speciale a “social democratizzare” il PCI e a sostegno della loro tesi portano l’atteggiamento non pregiudizialmente ostile della corrente migliorista guidata da Giorgio Napolitano il cui stile politico era e rimase agli antipodi di quello del segretario socialista. In quanto appartenente alla sottocorrente dei perfezionisti, ieri come oggi, quindi ultraminoritario, credo di potere sostenere che Craxi mirava non all’unità delle sinistre, ma alla subordinazione del PCI al PSI. Dopo il crollo del muro di Berlino non lanciò nessuna iniziativa politica nei confronti del PCI preferendo attendere l’eventuale sorpasso in occasione delle elezioni dell’aprile 1992.

L’opera di un dirigente politico si misura anche in base alle sue conseguenze. Chi ha imparato l’impareggiabile lezione di Max Weber, sa che gli intellettuali possono anche, purché siano disposti a pagarne il prezzo personale, ispirarsi all’etica della convinzione, che impegna soltanto loro e la loro coscienza. Invece, i politici hanno il dovere morale di utilizzare l’etica della responsabilità ovvero di agire tenendo presente, nella misura del possibile, e cercando di prevedere, che cosa succederà.

Craxi uscì di scena e poi fuggì nel bel mezzo di una crisi di regime che distrusse tutti i partiti suoi alleati unitamente al partito che lui stesso aveva guidato e plasmato per quindici anni. Tutta la sinistra italiana ne risultò fortemente ridimensionata, scendendo per la prima volta al disotto del trenta per cento dei voti. Non soltanto il sistema politico italiano apparve peggiorato con riferimento a tutti gli indicatori, ma si aprì al buio una transizione politico-istituzionale che ha fatto emergere il peggio (che, abbiamo scoperto, essere tantissimo e diffusissimo) della società e della politica italiana. Sarebbe fare troppo onore a Craxi sostenere che tutto questo fu opera sua, ma certamente gran parte di questo è la conseguenza di un nefasto “duello a sinistra” che non modernizzò né il paese né il PCI né la sinistra italiana. Stiamo, noi di sinistra, ma anche il PD, che, a sua volta, ne porta non poche responsabilità, ancora pagando il prezzo della mancata modernizzazione politica ed etica. Se non risponde soltanto ad una deteriore strumentalizzazione politica, la riabilitazione di Craxi è l’ennesimo segnale che la politica e l’etica di questo paese continuano a rimanere a livelli bassissimi.

Ricordando la Milano di Bettino

Giorgio Bocca – la Repubblica, 5 gennaio 2010

Nella Milano craxiana «dei nani e delle ballerine» come la chiamava il socialista di Bari Rino Formica chiesi a un dirigente socialista: «Ma perché i capi del partito credono che i principi, le idee contino zero e il denaro tutto?». Mi rispose: «Perché il partito craxiano è nato come un clan di giovani rampanti, convinti che la politica è questo, che la politica si fa così, con i soldi necessari al commercio delle tessere, con gli assessorati con cui si fanno gli affari. C’è anche il desiderio di autonomia, il forte anticomunismo, ma come modo per aver mano libera nel fare la politica degli affari. Ogni fine settimana Craxi lascia a Roma le cure di governo e viene a Milano per la riunione in un ristorante dove si parla unicamente di affari».

Nella Milano degli anni ‘80 Craxi è il capo, ma il padrino del gruppo è Antonio Natali, il vero maestro del nuovo corso, della politica come affare per mezzo degli affari. La sua lezione ai giovani dirigenti è: «Fan tutti così. Cerchiamo di farlo meglio degli altri».

Gli affari trasformati in ideologia, come via naturale al potere, che prima rispondono ai desideri dei funzionari di partito poveri che hanno fatto sin lì una vita di stenti e poi diventano assuefazione. Il craxismo milanese è una combinazione paradossale ma realista e aggressiva dei nuovi ceti borghesi emergenti nella Milano del miracolo economico, la nuova borghesia del terziario, della moda, dei pubblicitari, degli imprenditori edili che troverà in Silvio Berlusconi il gemello naturale di Bettino, che vorrà Bettino come testimone di nozze, che si consulterà con Bettino nel camper durante i congressi del partito.

Un gemellaggio che continuerà dopo la fine di Craxi, anche con il passaggio nel partito berlusconiano dei più influenti quadri socialisti. L’aspetto paradossale del socialismo milanese è che si dice figlio di Pietro Nenni e sempre più lontano dal suo idealismo romantico e sempre più simile alla borghesia mercadora di Milano, che continua a dire di avere «il cuore in mano» ma come il giovane Berlusconi è pronta a lanciarsi nei nuovi promettenti pascoli della pubblicità e dell’edilizia. E questo spiega come un sindaco della borghesia miliardaria come la Moratti pensa oggi di intestare a Craxi una via o un giardino milanesi perché sa che buona parte dei craxiani hanno trovato rifugio nel partito di Silvio.

Un’altra affinità elettiva fra il socialismo craxiano e il liberismo berlusconiano, entrambi con il cuore in mano, è di procedere subito alla eliminazione di quanti si oppongono al nuovo corso. Il compagno Giulio Polotti, un sindacalista vecchio stampo dice: «Mi hanno tolto le preferenze perché come assessore facevo fare le scuole e non le discoteche, perché dicevo che la retorica socialdemocratica era superata ma sempre meglio della spocchia e dei lussi, sempre meglio dei milioni spesi in fiori e in banchetti ai congressi». Viene silurato anche Emanuele Tortoreto, già assessore al decentramento: «Vada a fare il professore a Bari che è meglio per tutti». E all’architetto Costantino che è alla direzione delle Case Popolari: «Bravo Costantino, in una intervista al "Corriere", hai detto che il tuo istituto non ha mai truccato un appalto. Sei un compagno simpatico, ma sei anche un gran pirla». E quando l’assessore all’Urbanistica Armanini viene denunciato per aver preso delle tangenti per i posti al cimitero lo festeggiano: finalmente anche tu hai capito come si fa politica.

L’assuefazione al furto è tale che non ci si accontentava di rubare in grande con le grandi dazioni, le grandi tangenti, ma si arriva fino all’argent de poche, alle spese correnti. Craxi occupa un ufficio in piazza Duomo, il sito più caro di Milano, 300 metri quadrati, senza contare gli uffici sottostanti della moglie e del cognato, pagando in affitto al Comune, che non è proprietà del partito, 40 milioni l’anno, quanto a dire che ritiene normale uno sconto di decine di milioni.

Per anni la fedele segretaria Vincenza Tomaselli viene pagata dall’ufficio di presidenza del Comune. La casa editrice Sugarco, sovvenzionata dal partito, pubblica i saggi politici e ideologici del segretario che vendono poche centinaia di copie. La benzina della sua auto è pagata dal Comune. Gli abiti dei grandi stilisti sono regalati. In questo clima l’amministrazione della città spende e spande: a Milano i sacchetti per le immondizie sono i più cari del mondo, per una celebrazione del primo volo dalla Malpensa si spende una follia, i dirigenti del partito se arrivano a Ginevra alloggiano all’Hotel Richmond, e a Zurigo al Suisse, alberghi di lusso. Hanno trovato la famosa terza via dei naviganti, il passaggio a Nord Ovest.

I procacciatori di tangenti hanno case di lusso, hanno scoperto che la lotta contro il perfido comunismo può rendere fortune. Un assessore di Brescia, vittima del giustizialismo, per tornare a casa da Roma, affitta un aereo privato. «Non si rendevano più conto di rubare», ha osservato il repubblicano De Angelis: «Vivevano in un loro mondo fatato dove le tangenti funzionavano come un orologio di precisione, la direzione fingeva di non vedere i piccoli furti della base per non guastare il consenso generale. Nessuno si interrogava sul futuro, tutti si rassicuravano a vicenda». «È dal congresso di Palermo nel 1981 - ricorda un socialista - che si è passati all’acquisto massiccio delle tessere e che la selezione dei dirigenti è cambiata radicalmente».

In questa selezione alla rovescia brilla il caso dell’ingegnere Mario Chiesa, direttore socialista del Pio Albergo Trivulzio, arrestato mentre cerca di gettare nel water dell’ufficio fasci di banconote dell’ultima dazione incassata. «Io ero esitante a accettare la direzione del Trivulzio - dirà - ma il segretario regionale Loris Zaffra mi disse: "Mario, mai dimettersi e mai rinunciare a un posto, prendi il Trivulzio e poi ce lo vendiamo bene magari lo barattiamo con qualcosa di meglio"». Chiesa capisce di aver trovato la fortuna la sera in cui i Craxi lo invitano a cena al Saint Andrew’s a Milano. C’è Bettino e c’è Mike Bongiorno, c’è la signora Craxi che ha bisogno di una sede per una sua associazione benefica.

Mario Chiesa è pronto: «Chiamo il contadino che ha un regolare contratto di affitto con una delle cascine del Trivulzio e lo convinco a cederne la metà». Per Chiesa la politica vuol dire arricchirsi, che cosa sia il socialismo non lo sa, ma cosa sia essere un assessore potente, questo lo sa benissimo.

Ricorda uno dei fornitori del Trivulzio: «I vecchi dell’ospizio venivano trattati bene perché la direzione doveva rubare sulle forniture. Noi fornitori venivamo trattati come dei servi, insultati e ricattati». Il socialismo craxiano, la «Milano da bere», sono stati anche questo. Ma in politica si dimentica presto.

Craxi, i conti che non tornano

Ida Dominijanni – il manifesto, 5 gennaio 2010

«Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi oggi credono». La rivendicazione firmata da Stefania Craxi della perfetta identità fra la persecuzione politico-giudiziaria di cui sarebbe stato vittima suo padre nel '93 e quella di cui sarebbe vittima oggi Silvio Berlusconi sigla il teorema della perfetta continuità politica fra il leader socialista morto latitante a Hammamet il 19 gennaio 2000 e il Cavaliere che dal 1994 tiene in scacco la politica italiana. E' un teorema che merita di essere valutato attentamente. Non tanto per l'equazione su cui si basa e che è contestabile punto per punto - uguali le vittime, uguali i magistrati persecutori, uguali i mandanti, uguale il diritto dei due leader di sfuggire al processo -, quanto per la genealogia politica che costruisce. Se c'è un tratto che accomuna Craxi e Berlusconi è precisamente l'assenza, in entrambi, di una genealogia di riferimento: i due «uomini nuovi» - il socialista eccentrico emerso oltre e contro la tradizione socialista, che per primo propose una frattura nella continuità costituzionale, e il Cavaliere venuto dal nulla, che da quindici anni combatte per fratturarla definitivamente - diventano ora i capostipiti di una tradizione politica a venire, di un culto da onorare, di una storia da proseguire?

Ovviamente non si tratta di un'invenzione di Stefania Craxi. Delle continuità politiche fra Craxi e Berlusconi, al di là del loro noto legame di amicizia e di sostegno, è fatta la storia dell'ultimo ventennio, ed è piena la saggistica relativa. E fu lo stesso Berlusconi, in occasione del secondo anniversario della morte di Craxi, a farsene dichiaratamente erede e continuatore, celebrando nel leader socialista «l'uomo forte d'Europa», il premier «che sfidò il sindacato classista» e «vide per primo la crisi dell'Urss», il modernizzatore che buttò a mare «le nefandezze del marxismo» , lanciò il made in Italy e fiutò le magnifiche sorti della tv commerciale, il «figlio del sistema di regole della Costituzione» che per primo ebbe l'ardire di proporne la Grande Riforma. Già allora Berlusconi provò a chiudere il cerchio della transizione italiana mettendo in primo piano il genio politico di Craxi e derubricando a peccato veniale «di tutto il sistema» i suoi reati di corruzione. Oggi la strategia si ribalta: in primo piano torna il protagonista della vicenda giudiziaria, ma come vittima.

I due lati della figura di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, continuano del resto a non trovare una sistemazione convincente neanche altrove, e in primis fra quegli eredi del P.C.I. indicati a tutt'oggi come i mandanti e i profittatori della «persecuzione giudiziaria» del leader socialista nel '93 e di Berlusconi oggi. Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del «politico della sinistra», del «rivitalizzatore del Psi», del primo leader ad aver intuito «il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale» dell'Italia, dell'uomo di stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il «capro espiatorio» di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale «mancò allora una seria riflessione».

Dal famoso discorso del 29 aprile '93 in parlamento, quando Craxi sfidò tutti, governo e opposizione, a chiamarsi fuori da un meccanismo che coinvolgeva tutti, a oggi, la linea del principale partito della sinistra è rimasta oscillante fra la criminalizzazione giudiziaria e la rivalutazione politica. In morte di Craxi, lo ammise esplicitamente l'allora presidente della Camera Violante: non c'è pace per lui, disse, «e neanche per noi, che l'abbiamo visto trionfatore prima e sconfitto poi, senza essere ancora riusciti a esaminare con spirito di verità né le ragioni del successo né le cause della disfatta», né «ad affrontare con spirito di verità il rapporto fra legalità, corruzione e democrazia». Due motivi di scacco di non poco conto, che dieci anni dopo rischiano di ripresentarsi pari pari in un Pd che se da un lato non ha risolto il nodo del rapporto fra politica e giustizia, anzi ne è sempre più intrappolato, dall'altro lato non ha risolto il nodo della sua identità politica e programmatica, ed è sempre più intrappolato in una visione mitica della «modernizzazione» craxiana, nel senso di colpa per non averla fatta propria o nell'illusione che bastasse e basti farla propria depurandola dalla corruzione perché funzionasse negli anni Ottanta e funzioni ora.

Perché i due lati della medaglia di Craxi, il leader politico e il politico corrotto, trovassero finalmente una sistemazione coerente è proprio quel mito della modernizzazione che bisognerebbe smontare, procedendo finalmente a un'analisi veritiera del decennio craxiano che nel '93 non si fece consegnandone alla magistratura il seppellimento e dopo non si è fatta consegnandone a Berlusconi il proseguimento. Su Repubblica di domenica, Guido Crainz ha messo sull'argomento alcuni punti fermi: non si può definire modernizzazione politica quella di un decennio che ha segnato piuttosto l'inizio della crisi della politica, della partecipazione, della vitalità dei partiti, né si possono scindere questi fenomeni dal dilagare della corruzione. Non si può spacciare per modernizzazione economica una politica inflattiva e di indebitamento pubblico. Non si può spacciare per modernizzazione culturale della sinistra un processo di disfacimento del Psi e di chiusura al P.C.I. che furono ben più decisive dell'apertura a Prudono o della felice stagione della rivista Mondoperaio. Tutto vero; ma c'è ancora dell'altro.

Sempre più schiacciato sul momento della fine - i mesi drammatici che vanno dalla scoperta di Tangentopoli al lancio delle monetine contro Craxi all'uscita dall'hotel Raphael -, e dunque sul nodo del rapporto fra politica, controllo di legalità e giustizialismo, il lungo decennio craxiano attende ancora un ripensamento e una riconsiderazione complessivi, che renda conto della sua presa di lungo periodo sulla storia italiana e del suo allungarsi nel ventennio successivo, a onta delle volontà di rottura proclamate, all'inizio degli anni Novanta, dai fautori della rivoluzione giudiziaria (fra i quali, giova ricordarlo, c'erano molti di quelli che oggi militano nel campo berlusconiano, a cominciare dall'allora Msi di Gianfranco Fini e dalla Lega: diversamente da quello che sostiene Stefania Craxi, le parti in campo non sono sempre le stesse).

Quel lungo decennio fu in realtà più di un quindicennio, cominciò al Midas nel 1976 con l'elezione imprevista di Craxi a segretario di un Psi in declino e si concluse con il suo «esilio» a Hammamet nel '93: in mezzo, c'è una trasformazione sociale, politica e antropologica dell'Italia, che è una molto impropria scorciatoia definire solo «modernizzazione», sia politica sia economica, e che è contrassegnata da una lunga sequenza di ambivalenze, dello stesso craxismo. Per il suo partito, Craxi non fu un innovatore: fu, finita la breve stagione di Mondoperaio, il passaggio da un partito ancora strutturato, malgrado l'esperienza del primo centrosinistra, sulla militanza e il radicamento sociale a una macchina elettorale, diretta da un capo che fu il primo a sperimentare e volere l'elezione diretta in congresso. Il «partito corsaro», che avrebbe meritoriamente voluto spezzare l'egemonia - e la cappa - Dc-Pci strettasi durante la disgraziata stagione dell'unità nazionale, si trasformò in pochi anni nel partito della governabilità che siglò con la Dc la conventio ad excludendum del P.C.I. e si identificò poi nel Caf.

La forza libertaria e garantista, che coraggiosamente si oppose al «fronte della fermezza» durante il sequestro di Aldo Moro, si capovolse rapidamente in una forza d'ordine animata da una rigida ideologia che recitava efficienza e decisione. L'innovazione culturale - l'unica che meriti di essere ricordata - che alla conferenza di Rimini dell'82, protagonista Claudio Martelli, propose di sostituire allo schema di analisi classista e lavorista tradizionale della sinistra quello incentrato sulla coppia meriti-bisogni, ovvero sull'analisi dei ceti emergenti di intellettualità diffusa da un lato e della nuova emarginazione sociale dall'altro, si piegò rapidamente alla logica antioperaia che trionfò nel taglio della scala mobile e alla religione del rampantismo e dell'individualismo competitivo. Il mito della modernità si ridusse all'anticipazione dei luccichii berlusconiani, dalle roboanti scenografie congressuali alla Milano da bere. La rottura del monopolio della tv pubblica, giustamente salutata come una boccata d'aria da quanti - non il Pci - avevano intuito quello che la rivoluzione dei media e dell'informazione stava preparando per la società di massa, si risolse nei provvedimenti a favore di Silvio Berlusconi, delle sue tv e del suo modello culturale.

Questa parabola parla ancora di noi, di quello che è venuto dopo Craxi, in mancanza di una elaborazione del craxismo. E annuncia quello che potrà accadere in futuro, dopo Berlusconi, in mancanza di una elaborazione del berlusconismo. Il che dice non solo e non tanto delle continuità fra Craxi e Berlusconi, ma di coloro che avrebbero dovuto contrastarli.

Le argomentazioni contenute nei due atti di citazione sono formalmente dirette a dimostrare che l’Unità ha colpito la reputazione di Berlusconi, ma nella sostanza delineano un illecito non previsto dal nostro ordinamento, quello di lesa maestà.

Il legale del presidente del Consiglio contesta le nostre opinioni politiche, le nostre valutazioni (peraltro condivise da opinionisti di altri giornali nazionali e internazionali e comunque attinenti alla libera manifestazione del pensiero tutelata dall’articolo 21 della Costituzione) sui rapporti tra la maggioranza e il Vaticano. O i giudizi sui comportamenti privati del premier e sulla loro compatibilità col suo ruolo pubblico.

Viene addirittura qualificato lesivo della onorabilità del premier il fatto di aver riportato giudizi espressi pubblicamente da Veronica Lario attorno alle sue condizioni e alle sue frequentazioni con minorenni. Persino l’opinione di una scrittrice come Silvia Ballestra viene inserita nell’elenco delle affermazioni non pubblicabili.

Un passo dell’atto prodotto dal legale del premier riassume bene il senso complessivo dell’iniziativa. “Si è scritto, spacciandolo per vero, che ‘tutto’ sarebbe stato ‘nascosto ‘ manipolando l’informazione attraverso le televisioni. E che il dottor Berlusconi non solo avrebbe tale controllo ma addirittura ne avrebbe abusato e continuerebbe ad abusarne in danno del servizio pubblico Rai e per i suoi interessi personali (che sarebbero una sorta di guerra contro Sky). Il che, come quant’altro divulgato dall’Unità, è mera invenzione”.

In definitiva, è “diffamatorio” anche dire che Berlusconi controlla l’informazione in Italia.

Viene contestata la “illiceità” di due interi numeri del giornale in tutte le loro parti che si riferiscono al presidente del Consiglio e, attraverso il combinato disposto di articoli e commenti, diventa “diffamatoria” una linea politica e una visione del mondo.

Non è possibile, nei due atti di citazione, trovare nulla che riguardi il merito delle affermazioni contestate. Né, quindi, ci viene data la possibilità di dimostrare che esse sono fondate su dichiarazioni pubbliche (addirittura fatte da parlamentari della Repubblica un tempo legatissimi al premier, come Paolo Guzzanti) o su dichiarazioni già acquisite dall’autorità giudiziaria (come quelle della D’Addario) e diffuse da tutta la stampa mondiale.

E questo chiarisce le ragioni della scelta della sede civile e la richiesta di un risarcimento esorbitante. E’ evidente che Silvio Berlusconi, come già il fascismo, vuole chiudere il giornale fondato da Antonio Gramsci.

Faremo tutto ciò che è nelle nostre possibilità per impedirlo. Lanciamo, ai nostri lettori e a tutti i democratici, un appello perché si mobilitino a difesa della libertà di stampa.

Qui per esprimere solidarietà

Sulle cause, responsabilità e danni delle recenti esondazioni le polemiche naturalmente si sprecano e continueranno. Su un punto l’accordo è pressoché totale; i finanziamenti sono da tempo del tutto inadeguati. Quando l’assessore provinciale pisano Valter Picchi dice che c’era un progetto pronto da 4 anni per una delle zone colpite ma i soldi no, si capisce quanto ciò sia vero.

Quando sentiamo il presidente Martini dire che la Regione Toscana per intervenire subito nelle zone sott’acqua dovrà stornare anche risorse destinate all’Arno è facile capire tra quali difficoltà sono costrette ad operare le amministrazioni locali e le regioni.

E tuttavia, sebbene sia questa una causa del ripetersi dei disastri ve ne sono altre su cui non sembra esservi altrettanta consapevolezza. Ha ragione chi parla di cemento facile su un territorio idrologicamente fragile ed esposto come il nostro. Ma anche qui non basta rifarsela con le strade “spaccamaremma” come denuncia Furio Colombo.

Perché - e per di più nel momento in cui si parla e si straparla di riforme e di federalismo - sono così rari e sfuggenti i riferimenti a quell’assetto idrogeologico al quale abbiamo dedicato a suo tempo una legge importante e innovativa affidando alle autorità di bacino compiti di pianificazione e non di semplice manutenzione e controllo. L’Arno, il Serchio, il Magra hanno autorità preposte alla gestione degli ambienti fluviali in ambiti intercomunali, interprovinciali e interregionali. Una scala di intervento che va al di là di quelle comunali ed anche provinciali. L’idea della pianificazione ambientale di bacino scaturiva da questa semplice ma spesso dimenticata ragione.

La loro, ripeto, pianificazione è preposta non solo a mettere in sicurezza i fiumi ma a gestirli sulla base di una tutela ambientale complessiva come stabiliscono anche disposizioni comunitarie causa di sanzioni al nostro paese. Qualcuno ha detto che prima di fare le piste ciclabili sarebbe stato opportuno valutare la condizione degli argini. Anche per l’Arno quando si è annunciata una lunghissima pista ciclabile (non sappiamo se l’autorità di bacino ne sa qualcosa) si è detto che prima bisognerebbe valutare gli effetti che potrebbe avere.

Una gestione seria degli ambiti fluviali ha bisogno di soldi ma anche di idee, di una capacità di mettere in rete diverse e varie competenze in materia ambientale più e prima che urbanistica. A questo mirava la legge 183 manomessa alcuni anni fa nel silenzio generale e non solo di Bertolaso. L’intento fu di ricondurre il più possibile il volano di comando al ministero come poi è avvenuto anche per il paesaggio. Per le chiacchiere il federalismo va bene ma quando si tratta di gestire il territorio le regioni e il resto contano poco. La Finanziaria da poco approvata al comma 240 dice che per il risanamento ambientale sono destinati 1000 milioni di euro che saranno utilizzati sentite le autorità di bacino. Sentite e non d’intesa è la formula che piace tanto al governo in barba al decantato federalismo. Sono previsti anche accordi di programma con le regioni ma evidentemente vale sempre la formula del sentito. Ora il cemento facile che si è tornati giustamente a denunciare è anche il frutto di questa mortificazione degli strumenti di pianificazione messi da parte o lesionati per lasciare campo libero a gestioni urbanistiche che dell’ambiente se ne infischiano. Vale per la 183 ma anche per paesaggio e parchi.

Ecco perché anche la Toscana che come dice Settis ha sicuramente le carte più in regola di altri deve sapere ricondurre i suoi strumenti e progetti urbanistici a quel complesso di ‘invarianti ambientali’ a cominciare proprio dall’assetto idrogeologico che a differenza del regime urbanistico va ricondotto a dimensione e scale diverse e soprattutto a finalità diverse appunto ambientali. E questo non dipende da Copenaghen.

Una impetuosa ribellione dei fiumi è chiaramente in atto da qualche giorno nel nostro Paese.

Sarebbe un ulteriore atto di insensata trascuratezza fare finta di niente di fronte ai segnali che l’ambiente naturale ci invia. Alluvioni e inondazioni sono il naturale decorso delle giornate di pioggia intensa, e da sempre le civiltà fluviali - come quelle padane o tiberine - convivono con l’andamento del fiume e le sue piene. Ma qualcosa è drammaticamente cambiato negli ultimi anni: intanto la pioggia, che oggi cade a cascata innescando le cosiddette «bombe d’acqua», quei flash flood difficili da prevedere che rovesciano in poche ore l'acqua che un tempo cadeva in settimane. Così la pioggia non si infiltra più nel sottosuolo, ma ruscella tutta in superficie e si precipita nei letti fluviali che però non sono commisurati a contenerla.

Dunque le alluvioni sono aumentate di frequenza e di intensità, non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, dal Brasile alla Cina. Questa però è solo una parte del problema, il resto lo fanno gli uomini che vivono nelle regioni fluviali e non si decidono a lasciare libere le aree che invece dovrebbero essere lasciate al dominio del fiume. Non è un caso che esista un letto di magra e uno di piena e non è un caso che nessun insediamento stabile veniva posto nel letto di piena dagli antichi, che conoscevano i ritmi del fiume e vi si adattavano, senza pretendere di irregimentarlo. Anche perché i vantaggi in passato erano importanti, soprattutto per l'agricoltura, che vedeva fertilizzati naturalmente i terreni dal limo, ma anche per le civiltà, che potevano permettersi di erigere la grande piramide solo grazie alle piene del Nilo che portavano le barche con i blocchi di marmo fino a Giza.

Oggi i fiumi - padri delle nostre civitates (e non solo delle urbes) - sono stati precipitati in fondo ai loro argini di pietra e senza più memoria del rapporto con la città che è nata grazie a essi. A Napoli il Sebeto è diventato un rigagnolo melmoso, mentre un tempo, quando si impaludava, permetteva a Ponticelli di rifornire di ortaggi tutta la città. A Palermo Papireto e Kemonia sono stati intombati sotto le strade, così come l’Aposa a Bologna o i Navigli a Milano. Ma non va meglio a Roma, dove quasi nessuno si accorge più del Tevere, se non quando si rischia l’alluvione a Ponte Milvio; ed è bene ricordare che in sole dodici ore le acque raggiungerebbero il Vaticano da una parte e Piazza di Spagna dall'altro.

Perduto il rapporto culturale con il fiume la speculazione ha fatto il resto, anche in un paese in cui quasi il 50% del territorio è a rischio idrogeologico, per cui si invocano le Autorità di Bacino salvo poi disconoscerle quando nelle loro prescrizioni invocano la liberazione delle aree golenali e la libertà dei fiumi. Eh sì, perché di libertà si tratta, nel senso che i fiumi si scelgono da sempre dove sfociare, e quanto più sono lasciati liberi tanto meno danni fanno e più vantaggi portano. Delta e paludi sono il sistema di sicurezza che la Terra ha escogitato per proteggere la vita lungo le linee di costa fin da quando gli uomini nemmeno esistevano.

E il Fiume Giallo in Cina sceglie da centinaia di migliaia di anni dove sfociare, cambiando estuario per un raggio di oltre 1000 km. E noi uomini invece lì, a cercare di irregimentarli, a costruire dighe sempre più grandi e argini sempre più alti, coltivando l'illusione di controllare le piene e eliminare le alluvioni, come se non si dovesse invece cercare di conviverci. Nel 1944 Francis Crove, a proposito di una grande diga sul Sacramento, scriveva: «Abbiamo messo il fiume al tappeto, lo abbiamo inchiodato alla carta geografica».

E' passato più di mezzo secolo ma gli uomini non sembrano aver imparato che il fiume fa semplicemente il suo mestiere, e più sclerotizzano il suo corso peggio sarà: così, se oggi piovesse come quel novembre del 1966, l'Arno esonderebbe provocando molti più danni di allora. E che tutti i corsi d'acqua d'Italia sono a rischio esondazione nel prossimo futuro.

Dal grande padre Po al Tevere, dall'Adige all'Arno, ma anche dall'Ofanto al Reno, alle più piccole fiumare di Calabria e Lucania o ai torrenti di montagna, l'Italia dei mille fiumi è stata talmente maltrattata che non ci si dovrà stupire quando sembrerà che un cinico disegno della natura (per carità, sempre selvaggia e cattiva) ci voglia mettere in difficoltà: in realtà è solo e sempre colpa nostra, quella di avere quasi distrutto una ricchezza che andava meglio conosciuta e valorizzata.

Alluvione: se l’emergenza facesse finalmente scuola

Roberto Bernabò

C’è il bambino con gli stivaloni in gomma e la pala in mano in mezzo al fango; c’è l’argine del Serchio mangiato dall’onda di piena nel giorno di Natale e ricostruito il 31 dicembre; c’è l’autostrada a Migliarino, e le fabbriche e le case intorno, sommersa dall’acqua, da un lago improvviso che visto dall’alto è grande quanto il Massaciuccoli.

Sono le istantanee di una settimana orribile che raccontano del dolore ma anche della forza della gente comune di reagire; della capacità delle istituzioni di affrontare l’emergenza con un impegno eccezionale che ha evitato il peggio; e della scia mostruosa di danni che hanno colpito case, industrie, strade e che richiederanno centinaia di milioni di euro per tornare alla normalità.

In queste immagini c’è davvero la sintesi della straordinaria risposta di chi per spirito di solidarietà e di chi, tantissimi, per dovere - ma andando oltre orari, competenze, burocrazie - si è immerso nel fango in aiuto degli altri, ha lavorato senza un attimo di sosta, ha portato conforto e dimostrato competenza. C’è un patrimonio di umanità (e di esperienza) che è una straordinaria ricchezza di questo paese, un bene prezioso che resiste alla disgregazione politica e sociale che stiamo vivendo. Sottolinearlo è una gioia. Saperlo impiegare nell’ordinaria amministrazione, farne un obbiettivo della gestione quotidiana sarebbe un dovere di qualunque istituzione.

Un ruolo chiave, ragionando con la voglia di imparare la lezione per un futuro prossimo che purtroppo non sarà privo di altre calamità, va però riconosciuto alla Protezione civile. L’arrivo di Bertolaso e del suo vice è stato decisivo perché è riuscito a mettere insieme enti e strutture separati geograficamente e funzionalmente. Nell’immediato - e molti cittadini lo hanno gridato, così come i cronisti l’hanno verificato - non tutto ha funzionato al meglio: né nella segnalazione dell’emergenza né nella individuazione degli interventi urgenti, anzi urgentissimi. Ogni Provincia pareva andare per conto suo, con le proprie forze, senza un punto di coordinamento. Il pugno del duo Bertolaso - De Bernardinis ha fatto quello che la scarsa esperienza ed abitudine a coordinarsi avrebbe probabilmente impedito. La traccia da seguire è allora proprio questa: al di là delle belle parole sulle aree vaste, c’è davvero sempre più bisogno di gestioni unitarie, di concertazione degli interventi, di pianificazione complessiva. Anche perché la natura è indifferente ai confini delle Province e ai loro piccoli feudi.

Ma il fiume ha detto di più. Ne parlavamo già domenica scorsa, molti altri ne hanno detto e scritto anche meglio in questi giorni: serve una politica oltre l’emergenza, serve un uso del territorio che sappia prevedere gli effetti di un’antropizzazione eccessiva, serve una pianificazione urbanistica capace di evitare una costante e pericolosa cementificazione. E mentre si progetta, speriamo, questo futuro c’è bisogno di risorse per riparare ai danni del passato, per mettere in sicurezza innanzitutto i fiumi. Tantissime risorse: soldi che non si vedono, elettoralmente parlando, eppure vanno trovati e investiti, con il coraggio di farlo comprendere ai cittadini. Perché l’assenza di interventi - come dimostra il caso dell’Autorità di bacino del Serchio di cui parliamo a pagina 3 - prima o poi presenta il conto. Più pesante e più drammatico e con un surplus di dolore e sofferenza.

Scriveva testualmente tre giorni fa il professor Salvatore Settis, negli auspici per il 2010, rivolgendosi alla classe politica che la guiderà: «La Toscana non può accontentarsi del “meno peggio”; non può affidare la propria politica del paesaggio, come troppo spesso è stato, a soluzioni compromissorie, mescolando ammiccamenti a chi vuol tutelare e cedimenti a chi intanto va devastando. Deve scegliere e indicare la propria strada, con massima consapevolezza e ambizione: per rispondere alle aspettative dei cittadini (qui, più e meglio che altrove, spontaneamente raccolti in reti di Comitati locali), ma soprattutto per rispettare se stessa, la propria tradizione e il proprio futuro”.

Parole da sottoscrivere in pieno. Da indicare come faro per chi governa. E come monito per i piccoli e grandi interessi che bussano alla porte dei palazzi del potere.

Povero Serchio, strizzato tra case e aziende. I vincoli ci sono ma si continua a costruire: rubati al fiume migliaia di ettari di terra

Mario Lancisi

Dante forse ci ha visto giusto anche sul Serchio. Nella Divina Commedia lo cita infatti nel girone infernale degli imbroglioni. La storia, almeno quella recente, del fiume, stretto tra le Apuane e l’Appennino, che da Piazza al Serchio si snoda tra Lucca e Pisa fino alla foce vicino a Vecchiano, ha a che fare con l’imbroglio, le speculazioni, i piani di carta.

Lui, il fiume, sia chiaro, è l’«imbrogliato», la vittima, verrebbe da dire. Terzo fiume per lunghezza (102 chilometri) della Toscana - dopo l’Arno e l’Ombrone -, il Serchio è sì un po’ bizzarro e nervoso perché ha il vizietto di dar di fuori spesso e volentieri, ma è anche molto generoso. Alla sua acqua si abbeverano infatti lucchesi, pisani, livornesi e pistoiesi della Val di Nievole e anche d’estate, quando l’Arno e l’Ombrone soffrono la siccità, il Serchio non lascia a secco i suoi abitanti.

Fiume generoso e anche prodigo di scenari e ambienti d’incanto, il Serchio è celebrato da scrittori e poeti: «Tu vedi lunge gli uliveti grigi/ che vaporano il viso ai poggi, o Serchio, / e la città dell’arborato cerchio,/ ove dorme la donna del Guinigi...», canta ad esempio Gabriele D’Annunzio.

Quanto costa il Serchio...Sì, è vero che c’è anche il detto toscano «è costato quanto il Serchio ai lucchesi», ma si riferisce al passato quando, spiega Raffaele Nardi, segretario dal 1990 dell’Autorità di bacino del fiume, Lucca (e in misura più modesta anche Pisa) spesero fiori di quattrini per costruire attorno alla città (da Ponte a Moriano a Ripafratta) argini grossi per ripararla dall’alluvione sempre in agguato. Nel XVI secolo Lucca affidò la sistemazione del Serchio ad un’apposita magistratura e anche nel ’700 e ’800 furono fatti lavori importanti, spiega Nardi. E nella basilica di San Frediano a Lucca c’è un dipinto che raffigura il santo mentre devìa il corso del fiume per evitare che le esondazioni colpissero la città. Immagine sacra che dà la misura dell’impegno profuso dai lucchesi per arginare il Serchio.

Cemento selvaggio. Oggi, purtroppo, scuote il capo Nardi non è così. Negli ultimi decenni il Serchio è stato preso d’assalto dalla speculazione edilizia e quando, nel 1990, si è deciso di porre rimedio alla cementificazione selvaggia è stato troppo tardi. Abusi, imbrogli e imperizia hanno devastato il corso del fiume da Piazza al Serchio, a Castelnuovo Garfagnana, Fornaci di Barga, Gallicano, Coreglia, Fornoli, Borgo a Mozzano fino a Vecchiano. Quando è stata istituita l’Autorità di bacino con Nardi al comando, l’imbroglio era già stato consumato: al Serchio sono stati rubati migliaia di ettari di terra ed è stato imprigionato in una sorta di camicia di forza. «Sono state costruite in territori, che poi con il piano abbiamo vincolato, intere zone industriali e anche molte case, villette e strutture ricettive», denuncia Nardi.

Il Piano di Nardi. Nel 2001 è stato varato dall’Autorità di bacino del Serchio, una struttura di circa 40 dipendenti per un costo annuo che si aggira sui 700 mila euro, il piano di salvaguardia del fiume. Che - per dirla in breve - disegna una mappa delle zone più a rischio, definite in base anche alle esondazioni subite nel corso degli anni. Lì non si può costruire e il divieto, spiega l’assessore regionale all’urbanistica Riccardo Conti, è stato fatto proprio da tutti i piani di Regione e Provincia di Lucca.

Solo 4 milioni su 500... Il piano di Nardi non contiene solo divieti, ma anche un programma di interventi per rafforzare gli argini e mettere in salvaguardia il Serchio.

Per realizzare il piano occorrono cinquecento milioni, ma sono arrivati dallo Stato ad oggi solo quattro milioni. Basta fare due conti per capire lo scandalo: i danni provocati dall’alluvione di Natale, provocati dallo strappo degli argini del Serchio, in località Nodica, nel comune di Vecchiano, ammontano ad una stima di ieri (ma destinata a crescere) a trecento milioni. Cioè una cifra che si avvicina al costo del piano.

E i soldi arrivati da altre fonti, come i 12 milioni di euro previsti nel 2004 dall’allora ministro dell’Ambiente Matteoli per la zona di Massarosa, non stati spesi perché mancava la pianificazione. Insomma, dove ci sono i piani non arrivano i soldi e dove vengono stanziati i soldi (pochi) mancano i progetti...

Un uomo travolto ad Amalfi, l’Europa aveva avvertito: lì peggio di Sarno

Vincenzo Iurillo, Il Fatto Quotidiano

Era una tragedia più che annunciata la frana che ha travolto il ristorante “Zaccaria” al confine ad Atrani, vicino Amalfi, uccidendo lo chef Carmelo Abate, 44 anni. Era una tragedia già scritta. In un articolo comparso on line a novembre su Positanonews.it ma non solo. Era già messa nero su bianco sui documenti preparatori del programma Safe Land, finanziato dall’Unione europea con lo scopo di prevenire il rischio idrogeologico e agire sui siti di principale pericolo. Il programma venne rivelato in un convegno a Maiori dall’assessore provinciale all’Ambiente Giovanni Romano. In quella sede Romano spiegò che secondo le valutazioni della Ue “il comprensorio sorrentino e amalfitano è più a rischio di Sarno ed è per questo che siamo riusciti a farlo dichiarare ‘emergenza europea’. Ci sono delle situazioni di dissesto idrogeologico che tolgono il sonno. Qui può succedere qualcosa di serio ed è il momento di agire”. La frana, l’ennesima, ha ucciso prima delle auspicate opere di risanamento e delle buone intenzioni dell’assessore, che vorrebbe convocare gli Stati generali dell’Ambiente per la prossima primavera.

Parla di “tragedia annunciata” senza troppi giri di parole anche il sindaco di Atrani, Nicola Carrano: “Ora dobbiamo smetterla, basta con le promesse mai mantenute di interventi mai effettuati. Da Vietri a Positano, i costoni non sono mai stati risanati: è uno scandalo”. L’ultimo intervento secondo Carrano risale al 2006. Riguarda la realizzazione di un’imbracatura del costone, che termina al confine tra Amalfi e Atrani, proprio cinque metri prima del luogo della frana. Se l’imbracatura fosse proseguita anche sul tratto di montagna sovrastante il ristorante, il povero Abate si sarebbe salvato? Forse no e comunque nessuno al momento può dare questa risposta. Ma Carrano riflette ad alta voce: “Non è possibile che un uomo si svegli una mattina per andare a lavorare e trovi la morte in questa maniera assurda”. Assurdità accentuata dall’incredibile serie di circostanze che ha segnato la sorte dello chef. Abate, residente a Tramonti, era rimasto bloccato lungo il tragitto verso il ristorante da una piccola frana in località Castiglione. Costretto a lasciare l’auto, ha superato l’ostacolo a piedi e ha raggiunto il luogo di lavoro grazie a un passaggio, che lo ha fatto arrivare puntale all’appuntamento con il destino.

Secondo la ricostruzione dei vigili del fuoco, poco prima delle 10, un enorme macigno si è staccato dalla montagna e ha investito la cucina e parte di una veranda interna del ristorante, subito dopo la galleria che collega Atrani e Amalfi. Il masso ha ridotto il locale in un ammasso di macerie e di lamiere ondulate distrutte. Lo chef era l’unico presente: era nello spogliatoio a cambiarsi, avrebbe dovuto preparare un pranzo per una comitiva in festa. Lascia una moglie e due figlie di 11 e 16 anni.

Il ristorante si trova a pochi passi dalla piazzetta e dalla spiaggia di Atrani, nel 1999 location de ‘Il talento di Mister Ripley’, protagonisti star come Matt Damon, Jude Law, Gwyneth Paltrow. Hollywood scelse Atrani perché la sua suggestiva urbanistica è ferma agli anni ’50, gli anni dell’ambientazione del film. Ferme al passato, purtroppo, anche le politiche di prevenzione del rischio. Maltempo e piogge intense sono sufficienti per gettare nel panico i residenti della costiera amalfitana, dell’agro-nocerino, di Ischia. L’elenco delle vittime di frana è un bollettino di guerra ormai. Eppure si continua a bucare i costoni. A meno di venti metri da “Zaccaria” campeggia il tabellone di un parcheggio pubblico da costruire, dove? Nella roccia. Dovrebbe costare circa cinque milioni di euro. Negli anni scorsi, i residenti della zona hanno inviato degli esposti per protestare contro la potenza delle mine utilizzate per i lavori di scavo.

E la Costiera si ribella dopo la tragedia

Irene De Arcangelis, la Repubblica

Di lì a pochi minuti avrebbe indossato il suo cappello da chef, diretto ai fornelli per proporre ai clienti sofisticate ricette a base di pesce. Ma mentre attraversava i locali del rinomato ristorante "Zaccaria" affacciato sulla splendida costiera amalfitana, la frana ha sfondato il tetto della veranda e lo ha preso in pieno. Lo ha schiacciato rendendolo irriconoscibile, lo ha ucciso sul colpo.

Vittima dei mancati interventi di risanamento del territorio e dell´ondata violenta di maltempo che ha fatto staccare i massi dalla montagna è Carmine Abate, 44 anni, cuoco del ristorante noto fin dagli anni Settanta e padre di due figli di undici e sedici anni. Immediata l´apertura di una inchiesta sulle responsabilità dell´incidente, e altrettanto repentine le polemiche che esplodono su un tema scottante e ricorrente. Parole che pronuncia primo fra tutti Nicola Carrano, sindaco del comune di Atrani nel cui territorio rientra il ristorante della frana. Che dice: «Quei costoni non sono mai stati risanati. Dobbiamo smetterla con le promesse di interventi che non sono mai stati effettuati per la messa in sicurezza del territorio. È ora di finirla».

La frana - sette metri cubi di massi per centinaia di chili - è caduta alla fine di una notte di pioggia intensa su parte della veranda esterna al costone del ristorante noto anche come "Cantina del nostromo", che si sviluppa con i suoi locali anche all´interno della roccia. Il resto della struttura è rimasto intatto. Dunque lo chef è stato ucciso anche dalla sfortuna. Si è trovato nell´unico modulo della struttura in ferro e vetro colpita dal crollo. Qualche passo più indietro, mezzo metro più avanti e si sarebbe probabilmente salvato. Stava andando negli spogliatoi per cambiarsi alle dieci di ieri mattina, puntualissimo al lavoro in vista di una giornata sovraccarica di prenotazioni, a cominciare da una tavolata di venti persone per festeggiare un compleanno. Ora l´intero ristorante è stato sequestrato, mentre sono arrivati i tecnici del genio civile e della protezione civile regionale della Campania per i sopralluoghi, impegnati nella creazione di una mappa d´urgenza di eventuali altri punti della parete rocciosa a rischio crollo.

«Da Vietri sul mare a Positano - è il duro j´accuse del sindaco Carrano, primo tra i tanti accorsi sul luogo della disgrazia - i costoni non sono stati mai risanati. Occorre mettere immediatamente mano per risolvere un problema che crea innumerevoli danni alle vite umane e dei durissimi contraccolpi all´economia. L´ultimo intervento eseguito sulla montagna risale al 2006, ma la parte del costone risanato non riguarda quella del ristorante Zaccaria. E poi non è possibile che un uomo si svegli una mattina per andare a lavorare e trovi la morte in questa maniera assurda».

La costiera amalfitana, conosciuta in tutto il mondo come "la costa divina", è dunque a rischio crolli alla prima pioggia intensa, come sottolinea Legambiente: un territorio negli ultimi anni maggiormente colpito da fenomeni franosi. «La Campania - denuncia il presidente di Legambiente Campania, Michele Buonomo - è una regione sottoposta al rischio di frane e alluvioni: l´86 per cento dei comuni campani sono classificati a rischio idrogeologico, il fenomeno interessa tutte le cinque provincie della regione, ma la più fragile è quella di Salerno con il 99 per cento delle amministrazioni a rischio. Numeri che delineano il quadro di un territorio fragile, dove sono 474 i comuni a rischio frane o alluvioni, e che puntano il dito contro uno sviluppo urbanistico e un uso del territorio e delle acque poco rispettosi delle limitazioni imposte dal delicato assetto idrogeologico».

Sul corpo dello chef è stata disposta l´autopsia, mentre ai familiari della vittima sono arrivate le condoglianze dell´assessore all´Ambiente della regione Campania, Walter Ganapini.

Alla fine la natura avrà anche fatto la sua parte nel determinare il disastro del Serchio e i conseguenti allagamenti.

Ma credo sia evidente a tutti che il tema vero posto dalle pressioni naturali di questi giorni sia il sostanziale abbandono della manutenzione dei suoli e delle infrastrutture idrogeologiche (fiumi, laghi ecc.). Non è sinceramente accettabile che un acquazzone, pur intenso e particolare (in ogni caso non di certo un “Katrina”), non appena duri più di un paio di giorni faccia cadere argini, allaghi aree industriali con centinaia di milioni di euro di danni, rovini la vita a centinaia di persone.

Stavo per dire, nel 2009 non è accettabile, ma ormai siamo nel 2010 e allora lo è anche meno.

Diciamo la verità l’unica politica veramente bipartizan di questo paese è sempre stata solo quella che riguarda la cementificazione dei suoli e dei territori, l’abbandono, i condoni e le altre amenità che accompagnano la devastazione dei suoi assetti idro-geologici. Non voglio dire che i comportamenti tenuti sono tutti uguali, a livello nazionale il centro destra è largamente in vantaggio nel virtuale “premio Attila” che potremmo assegnare. Ma a livello locale, pur non condividendo certi estremismi “verdi”, si deve ammettere che anche la Toscana, se mai lo è stata, oggi non è più per niente “felix”.

Ovviamente viene da pensare a cosa diavolo ci stanno a fare le autorità preposte al controllo e alla manutenzione idro-geologici e tra queste spiccano per incomprensibilità del mandato, o meglio, per incomprensibilità dell’interpretazione di tale mandato, i consorzi di bonifica che riscuotono una sempre più discussa e discutibile tassazione mirata alla conduzione idro-geo-dinamica dei suoli.

Ce la potremmo cavare dicendo, come in molte-troppe altre occasioni, che in realtà mancano le risorse, ma se penso a quell’argine del Serchio venuto giù come se fosse di burro e se ricordo che solo poche settimane or sono si è cominciato a prospettare la messa in sicurezza idro-geologica della città di Pisa e dei comuni confinanti decidendo finalmente di avviare il progetto di riassetto dello scolmatore dell’Arno, che da qualche decennio ha la sua foce completamente interrata, mi viene da pensare più semplicemente che la manutenzione del territorio non porta voti e perciò “merita” disattenzione.

Ma non si può nemmeno crocifiggere solo la classe politica, perché questo è un tipico tema di cultura democratica generale. Quando si parla di attenzione alle problematiche degli equilibri idro-geologici dei suoli, i cittadini normali, la cosiddetta società civile che fine fa? Non posso dimenticare i “dollari agli occhi” dei mille piccoli proprietari pronti ad allargare le loro casette del fatidico 20% in più (anche se in territori delicati), non posso dimenticare la spinta costante che deriva dagli abusi, non di pochi, non di alcuni reietti, ma abusi di massa che cementificano i corsi d’acqua, che disboscano, che trasformano annessi agricoli in casali dai cubaggi spaventosi, che sconfinano nelle aree di esondazione, che mettono a rischio di frana intere colline.

No, non è soltanto la classe politica ad essere sotto accusa in questi momenti, lo siamo tutti. Un “tutti”, però, che per una volta non deve e non può trasformarsi in “allora nessuno”. Ci vuole una nuova consapevolezza ambientale. Dobbiamo farci entrare nel DNA culturale un principio, semplice quanto rivoluzionario, l’economia insostenibile ci porta all’insostenibilità dell’economia, dobbiamo abolire i modelli di sviluppo scellerati, distruttori delle risorse non facilmente ricostruibili proprio come gli assetti idro-geologici.

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