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Loris Campetti, Tre milioni di ricordi

Gianni Ferrara, Inciviltà politica

Sara Farolfi, Luciano Gallino: «Il dado è tratto la CGIL dov era?»

TRE MILIONI DI RICORDI

di Loris Campetti

I giudici sono di parte, anzi talebani. Meglio liberarsene.

Le leggi sono lacciuoli, formalismi che tagliano le ali al libero fluire dell'impreditorialità, sia essa politica che economica. Così come le regole, le leggi si fanno e si disfano. Anzi, ormai è il potere esecutivo a scriverle al punto che del Parlamento si potrebbe anche fare a meno: viviamo nell'emergenza, bisogna fare in fretta e la democrazia formale è solo un impiccio burocratico.

I sindacati sono un cascame del Secolo breve. Tutto è mobile, flessibile e tutti sono ragionevolmente individualisti. Dunque, perché non passare dalla contrattazione collettiva a quella individuale - ogni lavoratore di fronte al suo padrone per farsi valere e strappare mirabilanti garanzie e vantaggi per sé?

Detto fatto. Sarà pure divisa la destra che ci governa. Sarà pur vero, e lo è, che nel Pdl è in atto una guerra feroce per la (futura) egemonia: ma resta il fatto che la destra governa e lo fa con pugno di ferro. Una volta sfondate le trincee sindacali e ridotti al ruolo di ascari due sindacati su tre, cambiano leggi e regole, modificano la costituzione materiale e formale del paese. Hanno archiviato il «vecchio» diritto del lavoro, sterilizzato lo Statuto dei lavoratori, liquidato l'articolo 18 in difesa del quale tre milioni di italiani erano scesi al Circo Massimo appena 8 anni fa. Ora chi è licenziato senza giusta causa - termine freddo, dietro cui si nascondono prepotenze, discriminazioni, violazioni di leggi e regole, colpi bassi sui più deboli - può anche veder riconosciute le sue ragioni, ma non ha più automaticamente diritto a essere reintegrato. Del giudice si può fare a meno, sostituito da un «arbitro», chissà se confortato dalla moviola di Biscardi. I più deboli, soli di fronte al padrone al momento di stipulare il contratto, non potranno che rinunciare al ricorso al giudice. Il precariato è destinato a crescere e il precario che avesse diritto a un contratto «regolare» dovrà accontentarsi di una mancia. I contratti collettivi, già addomesticati dalle nuove regole imposte a tutti con il consenso di Cisl e Uil, potranno essere ancora ritoccati per cancellare l'articolo 18.

Viviamo in un paese in cui non fa scandalo che la ThyssenKrupp, quella della strage di Torino, pretenda dai suoi dipendenti sopravvissuti la rinuncia a costituirsi parte civile in cambio del «dono» della cassa integrazione. Dunque, perché scandalizzarsi se chi dovrebbe avere a cuore la democrazia è invece distratto dai garbugli elettorali? C'è qualche sussulto, è vero. Si parla di ricorso alla Corte costituzionale, qualcuno è pronto a raccogliere le firme per un referendum. Ma se al nostro amico Paolo Ferrero non resta che lo sciopero della fame per denunciare il gravissimo vulnus inferto al lavoro e al paese, vuol dire che siamo messi male.

Essere messi male non vuol dire che non si possa risalire la china. E' già in agenda un appuntamento importante: il 12 marzo c'è lo sciopero generale indetto dalla Cgil. Facciamone tutti, anche senza chiedere il permesso, la prima tappa di un lungo cammino verso la riconquista della democrazia.

INCIVILTÀ POLITICA

di Gianni Ferrara

È genetica, perciò strutturale, assoluta e irrimediabile l'incompatibilità di Berlusconi e del berlusconismo con le regole. Incompatibilità che si dimostra clamorosamente anche in questa occasione. L'invalidità delle candidature del Pdl agli organi delle Regioni Lazio e Lombardia, rilevata finora dagli organi competenti, ha indotto non pochi esponenti del Pdl a dichiarazioni che - come se ce ne fosse bisogno - confermano la loro impermeabilità alle ragioni elementari della civiltà politica.

Perché sono deliranti su forma e sostanza delle elezioni, della democrazia e dei diritti, inquietanti sui rimedi che intenderebbero escogitare agli errori marchiani dei loro addetti alla presentazione delle liste. Rimedi volti a disinformare l'opinione pubblica preparandola però all'ennesima lacerazione della legalità. Tanto più inquietanti in quanto intervengono in un momento che appare particolare. È quello della crisi del berlusconismo. Che fallisce sia come indirizzo politico, perché si dimostra inidoneo a fronteggiare la crisi finanziaria (aumento del debito pubblico), quella economica (caduta del Pil), quella sociale (aumento della disoccupazione), quella morale (corruzione pervasiva), sia come fattore aggregante di una classe dirigente, spezzata da rivalità personali e di gruppi, insanabili perché inerenti alle loro smodate e infondate ambizioni. Fallisce soprattutto per il vuoto ideale e morale che rivela come progetto politico.

Fallimento che però non sarà dichiarato. Non c'è infatti nessuno capace di, e disposto a, farlo. Valentino Palato ha scritto ieri che «c'è da preoccuparsi perché una crisi, anche se del peggiore avversario, è sempre una crisi». Avrebbe ragione se non fossimo in Italia. Un paese che è in crisi da quasi venti anni. Una crisi profonda, dell'etica pubblica, della rappresentanza, della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti, quelli sociali soprattutto, come dimostra l'approvazione della legge che espunge dal nostro ordinamento la tutela del lavoro, sottraendo ai lavoratori la garanzia del processo giudiziario che era garantito dallo Statuto e in particolare dall'articolo 18. Siamo in Italia. La rivelazione della crisi del berlusconismo sarà rappattumata. Con legge, magari «condivisa», con ogni probabilità si rinvieranno di qualche settimana le elezioni regionali e si prorogheranno i termini per la presentazione delle liste, provvedendo a salvare «la sostanza» delle elezioni e della democrazia che per Berlusconi e i suoi accoliti coincidono esattamente con il loro potere.

C'è di peggio, all'orizzonte. C'è l'intento, la sollecitazione, il disegno delle riforme costituzionali. Le si auspicano come «condivise». Condivise da e con Berlusconi. Ma come si può immaginare, di sancire l'introiezione nel nostro ordinamento costituzionale del berlusconismo, formalizzandolo, legittimandolo?

Si diceva una volta «Dio salvi l'Italia». Ma un ateo, chi deve invocare?

LUCIANO GALLINO: «IL DADO È TRATTO LA CGIL DOV ERA?»

intervista di Sara Farolfi

Il sociologo del lavoro Luciano Gallino stigmatizza i ritardi della politica (il Pd) e del sindacato (la Cgil) nel reagire al duro attacco del governo ai diritti del lavoro e all'articolo 18. Lo sciopero del 12? «Un parlare d'altro»



«C'è stata una sottovalutazione, non c'è il minimo dubbio, e un grande ritardo nel prendere posizione». Sottovalutazione e ritardi che il sociologo torinese, Luciano Gallino, non esita a addebitare a politica e sindacati: «Stupisce che in tanti scoprano solo ora che quella approvata dal senato è una legge molto grave, lesiva dei diritti dei lavoratori e dello stesso diritto del lavoro. Si sarebbe dovuto iniziare a protestare, se non due anni fa, almeno quattro mesi fa quando ormai le insidie della legge erano perfettamente visibili».

Che tipo di risposta richiederebbe oggi un tale livello di offensiva?

Quando una legge c'è, poi sono dolori. Modificarla, impugnarla davanti alla Corte costituzionale e altre belle cose del genere arrivano post factum, quando ormai il dado è tratto. E anche se, come è possibile, la Corte si pronunciasse in senso contrario, per mesi e mesi se non per anni decine di migliaia di persone si troveranno di fronte a un ricatto bello e buono, seppure scritto in bella forma giuridica. Ci si sarebbe dovuti muovere molto prima, erigere una barriera a difesa come si fece nel 2002. Giuristi del lavoro che hanno a cuore il destino dei lavoratori ne esistono ancora molti per fortuna, e già un anno fa si erano accorti dove si andava a parare. Chi invece mi pare essere rimasto completamente assente è il sindacato, per non parlare della politica, del Pd, perchè le proteste in aula o le dichiarazioni di Treu in commissione - che sono arrivate quando il treno era già partito - lasciano il tempo che trovano.

La Cgil ha convocato uno sciopero uno sciopero generale per il 12 marzo, sul fisco però.

Che è come parlare d'altro: uno prende una legnata e poi fa uno sciopero per qualcosa di completamente diverso. Sono anche temi importanti certo ma gli scioperi, le grandi manifestazioni, come fu quella del 2002, sono importanti quando esprimono una protesta contro una proposta politica, una legge, qualcosa insomma di molto concreto. Scioperare per fare una proposta temo che pesi molto meno.

La Uil, e cioè la terza organizzazione sindacale confederale, seguita a ripetere che l'articolo 18 è salvo...

Formalmente è vero: non è ancora stato affondato, solo che gli è stato tolto il salvagente e quindi potrà nuotare un po' poi andrà a fondo. L'articolo 18 viene gravemente compromesso perchè per avvalersene bisogna andare davanti a un giudice e se un lavoratore vi rinuncia al momento di firmare un contratto, buonanotte... Nel 2002 il governo scelse lo scontro frontale, oggi invece ha messo in moto i siluri sottomarini. Perchè questa legge è una sorta di minaccioso sommergibile, contiene dozzine di provvedimenti di ogni genere e in mezzo ci sono tre articoli che fanno saltare un bel pezzo di giustizia sul lavoro.

Nel 2002, l'offensiva fu fermata da una grande mobilitazione del mondo del lavoro. Cosa è cambiato da allora?

Il sindacato si è sostanzialmente indebolito e oso dire che l'asse del sindacato, Cgil compresa - e so che a qualcuno dispiacerà sentirmelo dire - si è spostato verso il centro destra. Perchè il sindacato ha un asse politico, o si occupa di disuguaglianze o non se ne occupa, o si occupa di contratti collettivi o lascia che slittino verso lidi sconosciuti.

L'archiviazione dell'articolo 18 non è che la punta d'iceberg di una legge che prevede anche che l'ultimo anno di scuola dell'obbligo possa essere fatto in fabbrica. In arrivo c'è poi lo «statuto dei lavori» che sostituirà quello dei lavoratori...

La norma sull'apprendistato è un ritorno indietro di quarant'anni, significa tornare a una specie di avviamento al lavoro e cioè sottrarre un anno alla formazione. Quanto allo Statuto dei lavori, Sacconi ne parla da anni e visto che ha davanti a sè non dico un'autostrada ma quasi, procede con la massima speditezza possibile.

Come immagina il futuro, dal questo punto di vista?

C'è una parte, che è la destra - con le sue ottuse idee neoliberali, con il suo intento di smontare il sindacato - che è la parte vincente, e dall'altra ci sono i remissivi, che stanno diventando i perdenti. Avrei sperato di vedere una Cgil molto più battagliera, come un tempo è stata, e invece mi pare che anche da quelle parti si tenda sempre più a usare un approccio possibilista anche su leggi di questo tipo. Il futuro non promette nulla di buono. Per il diritto del lavoro, intendo.

Che fosse un gran pasticcio – e non soltanto per la spesa: ben 60 milioni di euro – s'era capito da tempo. Il pasticcio, però, ieri è stato certificato da una sentenza del Tar del Lazio. La “new town” calabrese fortemente voluta dalla Protezione civile targata Guido Bertolaso - il nuovo centro urbano che avrebbe dovuto sostituire Cavallerizzo, il paese colpito da una frana nel 2005 - rischia di franare, a sua volta, sotto i colpi degli atti giudiziari.

La “new town” - tuttora incompleta - è infatti priva d'un elemento essenziale: la procedura di valutazione ambientale. Non solo. È stata annullata la decisione di “delocalizzare la frazione di Cavallerizzo”: il Tar ha “annullato il verbale del 31 luglio 2007, con il quale, la conferenza dei servizi, ha approvato il progetto definitivo di ricostruzione in località Pia-nette”. Semplificando: è stato annullato l'atto che disponeva la delocalizzazione, ovvero la costruzione della “new town” che quindi, adesso, non poggia su alcun fondamento giuridico. Il ricorso è stato presentato dall'associazione “Cavallerizzo Vive” e il suo accoglimento, ottenuto dagli avvocati Riccardo Tagliaferri e Alberto Carretti, può produrre conseguenze molteplici.

Innanzitutto: l'interruzione dei lavori, in ritardo già d'un anno e costati, finora, sessanta milioni di euro. Senza contare le ripercussioni sociali: la “de-localizzazione” ha già spaccato la comunità di Cavallerizzo, divisa tra chi desidera una nuova casa in un nuovo paese, e chi, al contrario, sogna di recuperare la vecchia casa nell'antico borgo. La sentenza emessa ieri dal Tar rischia ora di esasperare gli animi. Ed è il segno tangibile che la “soluzione” della “new town” non ha risolto nulla: a cinque anni dalla frana, il nuovo paese non è completato; gli abitanti vivono in affitto e le pigioni sono pagate con i soldi dello Stato; la comunità è lacerata in maniera irreparabile. Certo, il governo e la Protezione civile, ricorrendo al Consiglio di Stato, potrebbero ribaltare la situazione, ma la sentenza di ieri dimostra un fatto: il pasticcio c'è. E non vale, per risolverlo, ricorrere al dogma dell'emergenza.

Il Tar sancisce che non sempre, una situazione d'emergenza, consente d'eludere la Valutazione d'impatto ambientale. Oltre l'emergenza “urgente”, deve esserci un “pericolo immediato, non altrimenti eliminabile”. Requisito che può esistere quando si decide “se” delocalizzare. Requisito che manca, invece, quando si decide “dove” delocalizzare. Per Antonio Madotto, dell'associazione “Cavallerizzo Vive”, la sentenza del Tar è un motivo di speranza: “Il nostro ricorso – dice – nasce da un unico motivo: vogliamo tornare a casa nostra, nell'antica Cavallerizzo. Di fatto, con questa sentenza, è stata sospesa la ricostruzione. E quindi: ora si potrebbe, finalmente, recuperare il nostro centro storico. Un recupero che ci consentirebbe di rientrare nelle nostre case”. Per molti altri, la stessa sentenza, è motivo di disperazione: “Il risultato di questo ricorso”, conclude Madotto, “alimenterà la nostra divisione: comprendo il dramma di chi, dopo questa sentenza, rischiano di non avere una nuova casa. Ma la responsabilità non è nostra. È di chi non è stato trasparente nelle procedure e ha spaccato la nostra comunità. Sprecando 60 milioni di euro. Utili soltanto per l'ennesima speculazione edilizia”.

Cattolica in origine, poi comunista, Michelle Perrot esce dal Pcf dopo Budapest, nel 1956. La sua tesi, «Les ouvriers en grève (1871-1890)» contribuisce a fondare la sociologia storica. Ha collaborato con Michel Foucault, ha scritto «Les ombres de l’histoire. Crime et châtiment au XIXe siècle». Dal 73 lavora sulla storia delle donne. Ha diretto, con Georges Duby, «Storia delle donne in Occidente». Ha scritto «Les 2010femmes ou les silences de l’histoire».

Negli uffici e negli spazi pubblici, quindi in treni, autobus, ospedali, uffici comunali, nonché in strade e parchi, il burqa, velo integrale, va messo al bando, in quanto «offende i valori della Repubblica» degradando la donna, dissimulando volti e corpi. Lo ha stabilito a fine gennaio la commissione parlamentare francese, istituita ad hoc. Hanno lavorato in grande armonia il deputato comunista André Gerin ed Eric Roult, del partito di Sarkozy, mentre i socialisti non si sono pronunciati. «Il burqa non è benvenuto in Francia» ha annunciato il tentennante Presidente in giugno, ma nulla si deciderà prima delle elezioni regionali. Combattiva, e decisamente contraria a una legge si dichiara la storica «delle donne», Michelle Perrot: «Sono, com’è ovvio, decisamente ostile al burqa,ma non favorevole a una legge» esordisce con noi.

Per quale motivo?

«Perché l’intrusione del potere nella comunità musulmana potrebbe ritorcersi contro le donne. E diffido anche dell’intervento del potere in tutte le questioni delle apparenze, poiché ritengo che, legiferando oggi sul burqa, un domani si potrà farlo sulla barba o sui pantaloni. Contro il burqa promuoverei libri, trasmissioni, articoli, insommatutto quanto possa servire a dimostrare che il velo integrale rappresenta l’oppressione delle donne».

Nel 2004 però si dichiarò favorevole alla legge Raffarin, approvata con un’ampia maggioranza, che proibiva il foulard a scuola, nonché tutti i simboli religiosi “ostensibili”: dalla kippa ebraica fino al turbante sikh e alle croci cristiane.

«In Francia la scuola pubblica è laica e nessun simbolo religioso ostensibile vi va ammesso, e ritengo che questa sia una conquista per le donne. Nel caso specifico del foulard, si trattava di minorenni. Se avessero autorizzato il velo a scuola, alcune fanciulle sarebbero state costrette dalla famiglia a portarlo, mentre noi davamo loro si davamo loro la possibilità di non farlo. E mi sembra che oggi ben poche ragazze a scuola portano il foulard».

Ma va considerato che dal 2004, ovvero dalla legge contro il velo a scuola, l’islamismo ha continuato aprosperare.

«Certo, si tratta di movimento di fondo che riguarda l’integralismo islamico. Detto questo, va anche ridimensionata la questione sulle donne che in Francia portano il burqa, circa trecentocinquanta, più o meno. Non avrebbe senso promulgare una legge per così poche persone. Tutte le religioni comportano un elemento di dominazione di tipo patriarcale. Da questo punto di vista la laicità a scuola si è rivelata positiva per le donne, e perciò difendo questo modello».

In questo periodo la Francia va interrogandosi sull’identità nazionale:le discussioni sul burqa e sull’identità della Francia sono forse una coincidenza?

«No. Riscontro un reale smarrimento, perché la popolazione francese deve affrontare un problema nuovo, al tempo stesso di “rinascita” dell’islamismo e dell’immigrazione, ma anche sulla posizione del governo che mette l’accento su tali questioni. E il dibattito sull’identità nazionale è stato avviato in maniera disastrosa, in maniera autoritaria. Mi sembra che agire in questa maniera alla vigilia delle elezioni regionali sia una vera e propria strumentalizzazione».

Come spiega il fatto che ad esempio in Gran Bretagna il burqa non crea alcun problema?

«Ci troviamo di fronte a costruzioni politiche diverse. Ma non si può fare il confronto: in Francia abbiamo assistito alla costruzione di una repubblica laica, che ha vantaggi e inconvenienti.Riconosco che è rigida, non sempre si adatta all’attuale congiuntura - fatta di movimenti migratori, dell’accoglienza del “diverso” - ma costituisce comunque un progresso ».

Djemila Benhaid, algerina rifugiata in Canada e autrice di “Ma vie à Contre-Coran”è intervenuta in Senato nello scorso novembre sostenendo che la Francia svolge un ruolo centrale per la laicità, e che se non apre una strada contro il burqa, spiana la strada agli integralisti dell’Europa tutta. È d’accordo con lei?

«Sì, certo, tutte si dichiarano favorevoli a una legge contro il burqa. Noi ci facciamo troppi scrupoli: dovremmo sostenere con maggiore forza la nostra tradizione di laicità. Djemila Benhaid è un esempio di quelle donne algerine che ritengono “tiepido” il nostro approccio al problema, anche perché l’hanno anche vissuto sulla loro pelle».

Intervista a suor Beatrice Salvioni

«Quante storie Anche noi suore portiamo il velo»

Non capisco perché si faccia un gran parlare del velo islamico quando anche noi lo portiamo». Occhi vispi e sereni. Voce chiara e leggera. Suor Beatrice Salvioni è perplessa: «Non sono un’esperta in materia. Sono solo una che ogni tanto pensa», dice cauta. E al velo deve averci pensato più di qualche volta in quarant’anni di vita religiosa. Suor Beatrice infatti il velo, che pure ha indossato per qualche tempo, oggi non lo indossa più. Alcune donne islamiche sostengono che il velo le faccia sentire più sicure. Lei perché l’ha tolto?

«Non è stato certamente un motivo di maggiore o minore sicurezza, ma semmai il bisogno di sentirmi più vicina, meno separata... Le islamiche che indossano il velo non credo lo facciano solo, comunque non tutte, per senso di sicurezza. Io non mi sentivo più sicura col velo, tutt’altro. Per questo ho scelto di non indossarlo più. E francamente, quelle che tra noi decidono di non portarlo non ricevono esattamente degli applausi ». (sorride) Che reazioni ricevono invece? «Qualcuno mi chiedeva: ma così cometi riconoscono le persone? Come se, paradossalmente, l’«abito» facesse il monaco. Eppure nonostante io vesta in borghese la gente mi ferma per strada, magari per chiedermi un’informazione, chiamandomi«sorella »: mi riconoscono».

Il velo è dunque vissuto alla stregua di una divisa. È appartenenza… «Esattamente. L’abito non è che un veicolo di comunicazione, per dire immediatamente, io sono questo o sono quello. Tante donne comunicano appartenenze di vario genere a prescindere dal velo. Così una ragazza di diciotto anni sceglierà un tipo di abbigliamento che probabilmente comunicherà la sua età o spensieratezza, ma lo stesso abito su una donna più matura potrebbe comunicare una grande debolezza, esattamente la stessa che si vorrebbe attribuire a queste donne islamiche ». Lei cosa comunica? «È chiaro che scelgounabbigliamento sobrio. Per esempio, non sceglierei il rosso…». Perché il rosso no, sarebbe sconveniente? «No, il rosso mi stanca. Quello che indosso è una mia libera scelta. Una scelta di sobrietà che in questo modo è attenta, è sentita, è vera.»

Il velo islamico secondo lei è una scelta attenta? «Non saprei. L’impressione, tuttavia, è che si voglia entrare nella sensibilità, nell’intimità o, ancora, nella spiritualità di un’altra cultura attribuendole le stesse nostre dinamiche. Bisogna tenere presente che il velo è anche da noiunsimbolo piuttosto significativo». Cosa significa? «Pudore, purezza... In realtà anche all’interno della Chiesa, ilmantenimento del velo per le suore rivela appartenenza a un passato che non differiva dal presente del mondo islamico. Siamo molto più attaccati al passato di quanto non ci rendiamo conto».

Perché allora questa polemica sull’abbigliamento delle donne islamiche? «Sembra servire solo ad aver ragione su di loro. Si pretende di indagare su cosa ci stia dietro una scelta puramente estetica di un’altra cultura, e non voglio dire che possano non esserci dei condizionamenti forti e discutibili. Ma lo facciamo scordando che anche noi affidiamo a un «abito», o a una parte di esso un significato di grande rilevanza. Il velo è diventato un’arma contundente. Un giavellotto da utilizzare contro un’altra cultura, per dire: noi siamo meglio». Dietro la sua scelta di diventare suora c’erano dei condizionamenti? «Ogni scelta è in qualche modo condizionata da una serie di variabili, la famiglia, l’educazione, l’estrazione sociale, ma questo avviene in qualsiasi genere di scelta si voglia intraprendere, no?».

Quando ha deciso di diventare suora? «Ero ancora parecchio giovane. Era vicinissimo il ‘68.» Ha dunque scelto di diventaresuora proprio quando la società occidentale si accingeva a vivere una vera e propria rivoluzione sessuale? «In effetti sì, ma allora non me ne resi conto. Considerata l’epoca la scelta potrebbe sembrare contro corrente. In realtà io scelsi di dedicare la mia vita a qualcosa di grande, così come tanti sessantottini. Solo che riconobbi nel Vangelo il codice ideale al quale sentivo di appartenere, un modello, altissimo fin che si vuole,manondisincarnato e di grande portata rivoluzionaria».

Il governo torna all´attacco dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Grazie a un disegno di legge in via di approvazione sarebbe infatti possibile aggirare la norma che impone il reintegro dei dipendenti licenziati senza giusta causa: a chi viene assunto sarebbe consentito di rinunciare alla tutela, affidando il contenzioso a un arbitrato. La rivolta dei giuslavoristi: è una controriforma che va fermata. La Cgil: «È un´offensiva peggiore di quella del 2002».

Aggirare l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che tutela dal licenziamento senza giusta causa, e anche altre norme della nostra legislazione sul lavoro. Ma senza dirlo, almeno direttamente. La nuova legge sul processo del lavoro presentata dal governo è ormai a un passo dall´approvazione: questa settimana dovrebbe concluderne l´esame la Commissione Lavoro di Palazzo Madama, subito dopo sarà l´Aula a dare il via libera definitivo dopo quasi due anni di navetta tra Camera e Senato.

In quel testo (il disegno di legge 1167-B) c´è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro in alternativa al giudice: o l´uno o l´altro. Un cambiamento radicale rispetto alla tradizione giuridica italiana, dove c´è sempre stata una forte diffidenza nei confronti dei lodi arbitrali di stampo anglosassone. Un affievolimento di fatto delle tutele a favore del lavoratore, la parte oggettivamente più debole in questo tipo di controversie. E anche, appunto, un superamento dell´articolo 18, come di altri vincoli legislativi. Perché di fronte a un licenziamento l´arbitro deciderà "secondo equità". «Secondo la sua concezione di equità, non secondo la legge», commenta preoccupato Tiziano Treu, senatore del Pd, ex ministro del lavoro, giuslavorista non certo un massimalista visto che porta il suo nome il primo pacchetto sulla flessibilità. Eppure Treu è tra i firmatati di un appello ("Fermiano la controriforma del diritto del lavoro") contro il disegno di legge del governo giudicato «eversivo rispetto all´intero ordinamento giuslavoristico». Tra i firmatari il giurista di Bologna Umberto Romagnoli, il sociologo torinese Luciano Gallino, l´ex presidente dell´Inps Massimo Paci. Un appello che però resterà nel vuoto.

La norma è davvero complessa. In sostanza - modificando l´articolo 412 del codice di procedura civile - si prevedono due possibilità tra loro alternative per la risoluzione delle controversie: o la via giudiziale oppure quella arbitrale. Già nel contratto di assunzione, anche in deroga ai contratti collettivi, potrebbe essere stabilito (con la cosiddetta clausola compromissoria) che in caso di contrasto le parti si affideranno a un arbitro. Strada assai meno garantista per il lavoratore che in un momento di debolezza negoziale (quello dell´assunzione, appunto) finirebbe per essere costretto ad accettare. E il giudizio dell´arbitro sarà impugnabile esclusivamente per vizi procedurali.

«Questa volta - sostiene Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil - è peggio rispetto al 2002: allora l´attacco all´articolo 18 fu diretto ed era semplice spiegarlo ai lavoratori. Ora l´aggiramento va ben oltre l´articolo 18 impedendo addirittura di arrivare al giudice del lavoro». Di «approccio chirurgico», parla l´ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano (Pd). «Si fanno le "operazioni" - aggiunge - senza andare allo scontro frontale». Preoccupata anche la Cisl, dice il segretario Giorgio Santini: «Non abbiamo pregiudizi nei confronti dell´arbitrato, ma ora spetta alla contrattazione fissare i paletti di garanzia per l´esercizio dell´arbitrato». La legge infatti rinvia a un accordo tra le parti che però se non arriverà entro un anno lascerà spazio a un decreto del ministro del Lavoro. Ma per Giuliano Cazzola (Pdl), relatore del disegno di legge alla Camera: «bisogna smetterla di considerare i lavoratori come dei "minus habens", incapaci di scegliere responsabilmente e consapevolmente un percorso giudiziale o uno stragiudiziale (l´arbitrato, ndr), per dirimere le loro controversie di lavoro».

Cittadini lavoratori

di Enrico Pugliese

Le mobilitazioni di ieri in tutt'Italia con una forte presenza di immigrati e di italiani rappresentano un importante elemento di novità. Il loro carattere è stato diverso da un posto all'altro, ma dappertutto pacifico e colorato. In qualche città e in qualche fabbrica, dove esiste una presenza più radicata di immigrati consolidata anche a livello sindacale, ci sono stati scioperi, per iniziativa soprattutto della Fiom. L'elemento principale di novità è rappresentato proprio dalla presenza contemporanea e multiforme delle manifestazioni in tutto il paese.

Perciò la giornata di ieri rappresenta una buona ripresa di lavoro politico degli immigrati, con gli immigrati e per gli immigrati. Non si tratta naturalmente di un inizio. C'è gente - compagni e non - che da anni svolge lavoro politico e pratica sociale con loro. Ed è stata proprio la partecipazioni delle associazioni radicate tra i migranti a dare legittimità e vivacità alla giornata di mobilitazione e di protesta.

La nota certamente più bella va cercata nella vivace e allegra presenza dei «nuovi italiani»: giovani di diversa origine nazionale, di diversa fede, di diverso colore della pelle e con un diverso accento (perché parlano in chiaro dialetto romanesco, napoletano, veneto oppure milanese, e quasi mai «straniero»). Sono italiani a pieno titolo, cresciuti e spesso nati qui in Italia - come essi stessi tengono sempre a precisare - ma non hanno la cittadinanza italiana. Non è prevista.

L'Italia è ormai uno dei più importanti paesi di immigrazione d'Europa, ma al crescere della rilevanza numerica e del numero degli immigrati non solo è mancato un adeguamento della politica di immigrazione e di cittadinanza, ma è andata montando negli ultimi anni non un' ondata di razzismo popolare, come pure spesso di sente dire, bensì una crescente pratica razzista e discriminatoria istituzionale. Non si tratta solo delle improvvide dichiarazioni di questo o di quell'esponente della Lega, quanto della sempre più frequente messa in atto (o comunque del tentativo di mettere in atto) di norme discriminatorie che non hanno altra spiegazione se non un intento persecutorio. Si va affermando nel nostro paese una sorta di diritto speciale per gli immigrati che ha trovato nel cosiddetto «decreto sicurezza» la sua più evidente espressione. Ma anche a livello locale le iniziative di sindaci di destra o anche di centro sinistra contro gli immigrati (lavavetri, produttori e consumatori di kebab o semplicemente «stranieri») - sulla base di motivazioni speciose, che malamente nascondono l'intento razzista - sono espressione di questo pericoloso clima istituzionale.

È difficile dire se esista o meno a livello popolare una pari deriva in direzione razzista nel nostro paese, ma sono convinto di no, anche se il pulpito istituzionale è fortemente capace di influenzare l'opinione pubblica. Alla fine, come sempre, la gente è meglio dei governanti.

Quelli che sono scesi ieri in piazza - italiani e immigrati - sono certamente una minoranza. Ma forse esprimono un sentire comune molto più diffuso di quanto non si pensi solitamente e possono aiutare a far chiarezza e a mostrare che un diverso modo di porsi nei confronti dei migranti è possibile. D'altronde a livello di base, tra la gente, la solidarietà la si può sempre osservare quotidianamente nelle strade, nei posti di lavoro, nelle scuole. Il razzismo, nonostante il quadro istituzionale altamente diseducativo, è ancora minoritario.

Tutto bene, dunque, per le manifestazioni e gli scioperi di ieri in alcune fabbriche del nord? Certamente. Anche perché la proposta originale di sciopero generale degli immigrati - non solo impraticabile ma anche foriera di divisioni (perchè sciopero dei soli immigrati?) - è stata largamente superata dalle più opportune e praticabili iniziative e manifestazioni di piazza. Ora bisogna che - lavorando politicamente e sindacalmente, ma svolgendo anche lavoro sociale - ci si attrezzi perché in futuro davvero possa aver luogo un grande sciopero degli immigrati e per gli immigrati.

«Una giornata senza di noi» è lo slogan che aveva caratterizzato la grande mobilitazione degli immigrati in America qualche anno addietro. Ieri non si è tratto di questo, ma si è riusciti a far capire l'importanza della presenza dei migranti per l'economia e per la società italiana, e a riattivare una vertenzialità degli stessi immigrati, nella veste di protagonisti di un comune destino.

«INPS, VOGLIAMO I CONTRIBUTI»

Una giornata di protesta a macchia di leopardo, decine di iniziative, cortei affollati soprattutto di migranti. Il «popolo giallo» esiste e si mostra all'Italia, anche se quello di ieri non è stato un vero e proprio sciopero. Oltre al comitato promotore nato su Facebook e ai tanti comitati di immigrati, hanno aderito alla «giornata senza immigrati» Amnesty e l'Arci, Legambiente, le Acli ed Emergency. E poi tutti i partiti della sinistra, dal Pd all'Idv passando per Pdci e Rifondazione. Di Roma, Milano e Napoli parliamo in questa pagina. Ma sono state molto partecipate anche le altre manifestazioni: diecimila in piazza a Brescia per iniziativa della Fiom-Cgil e a Genova per iniziativa delle comunità di immigrati del centro storico. Alla sede Inps di Roma una cinquantina di immigrati hanno protestato per il riconoscimento dei contributi previdenziali di cui non godono se lasciano il paese. Un migliaio i manifestanti a Bari. A Mestre un giovane è stato denunciato per aver lanciato vernice contro una sede leghista. Commenti positivi dalla Coldiretti («Sono indispensabili») e perfino dai «finiani» del Pdl Adolfo Urso e Fabio Granata. Critiche invece dalla Cisl («una strumentalizzazione») e naturalmente dalla Lega, che ha organizzato per oggi una contromanifestazione a Sesto San Giovanni.

Milano

Gli antirazzisti passano col giallo

di Luce Manara

Visto che roba? Troppo facile complimentarsi per una piazza così, adesso. Tanto bella e plurale come piace a molti (spesso solo a parole), che quasi sembra finta. Uno spot con i palloncini colorati di giallo, come tutto il resto, del resto. Sorrisi, armonia. Un albanese che di solito ne farebbe scappare mezza (di piazza), grida con il suo cartello in mano, dice a mister B. di tenere giù le mani dalle ragazze dell'est, e sfila di fianco a un professore di mezza età che con le mani allacciate alla schiena, tanto per spiegare quando è profondo e documentato il suo antirazzismo, argomenta sul fatto che il bergamotto, i limoni e gli agrumi... li hanno portati gli arabi, sai? Compresi quelli dalle facce un po' così. Uno staliniano convinto con l'acne giovanile può intendersela con un libertario scanzonato, e una femminista storica può trovarsi a suo agio con un vero maschio maghrebino. Sì, sembriamo tutti sinceramente antirazzisti in piazza Duomo. E forse è vero.

Allora viene da chiedersi che fine facciano, perché non si diano di gomito più spesso, riconoscendosi, ridandosi appuntamento alla prossima, tutte le persone che ieri sera, insieme, sono state almeno un po' felici, se non altro di respirare aria pulita - e c'era anche mezzo cielo cobalto che sembrava primavera.

Del resto, trattandosi di una manifestazione e non di uno sciopero - i migranti hanno già maturato il diritto al lavoro (sulla carta) ma quello di scioperare... per carità! - chi se la sentiva di non aderire a una festa dichiaratamente antirazzista? Morale: c'erano proprio tutti, in rappresentanza di..., comprese le bandiere della Uil, tanto per dire.. E' la (insolita) piazza milanese che di tanto in tanto si palesa miracolosamente per smentire il luogo comune di una città sempre più incattivita, «ancora tu... ma non dovevamo vederci più?». Trentamila persone. Con un ingrediente speciale, il sale, gli stranieri: perché questa volta in mezzo alla rimpatriata dei soliti noti e sfiduciati c'erano loro, e quindi la parola «lotta» e «futuro» sembravano concetti un po' meno usurati dalle nostre, come si dice, «beghe interne». E questa, oltre alle lezioni di arabo impartite in piazza Duomo, è la vera lezione per noi autoctoni che al Primo Marzo senza di loro non abbiamo mai creduto veramente.

Tutto bene così, manifestazione bella e colorata...e fiaccole di pace? Per non perdere di vista il problema, per non tornare a casa pacificati e con l'illusione tanto cara alla sinistra senza bussola che, evviva, ce n'est qu'un début, è bene tenere a mente le parole della sorella di Abba (italiano nero ucciso a Milano perché nero): «Sono molto molto molto incazzata». Ecco, Rosarno è cronaca ammuffita solo per quelli del mestiere, gli stranieri se ne ricordano diversamente, e la rivolta di via Padova è ancora calda, tanto che si attendono retate da un giorno all'altro, e il sindaco Moratti (su suggerimento del Pd, che era in piazza), ha disposto controlli polizieschi sui contratti di affitto agli stranieri di via Padova - nella stessa via una volta si controllavano i «terroni», con le galline nella vasca (dicerie anni Cinquanta, e non abbiamo fatto molti passi avanti).

Il rumore di fondo determinato e composto della piazza (che vuol dire a tratti anche giocoso) diventa messaggio che si strozza dalla rabbia: «Basta razzismo», semplice, ma da brividi se il timbro è tutto straniero, e sono le donne a gridare di più. Così, come una litania, senza molte altre parole per raccontarsi - tutti lavorano, tutti si sono sentiti vittime di un sopruso, tutti raccontano di un bambino a scuola, insomma la vita... - migliaia di persone si sono incamminate fino in piazza Castello. Par condicio e buon gusto impongono di non fare l'elenco dei partiti presenti, però c'era Dario Fo - che, ahinoi, autografava copie de Il Fatto - e l'Arci, Emergency, con le mani di Gino Strada da stringere, Amnesty International e decine di associazioni antirazziste, i sindacati di base (Sdl aveva già «occupato» piazza Scala al mattino) e anche lo spezzone della Cgil, e il mondo della scuola. Il centro sociale Il Cantiere, che per l'occasione ha lanciato la sua nuova free press patinata ShockPress: in quattro lingue, intuizione che guarda molto avanti, altro che crisi dell'editoria.

Bisognerebbe filmarla tutta una manifestazione così, per scoprire quali energie sotterranee stanno scuotendo Milano. Tempo ce ne sarà. Adesso sei contenta? «Sì, non me l'aspettavo così! Il problema è cosa fare adesso - dice Stefania Ragusa, una delle quattro donne che ha lanciato l'idea dello sciopero migrante - e non sarebbe nemmeno così difficile. Per quanto riguarda noi, bisogna strutturare il movimento. Stiamo pensando a un incontro nazionale, ma bisogna stare molto attenti a mantenerne la purezza».

Un interrogativo così, prima ancora che partisse il corteo, l'aveva sospirato un marocchino che di belle piazze a Milano ne ha già viste tante. «Bella... ma a che serve?». Prendiamoci qualche giorno di tempo, prima di rispondergli.

Siracusa

«Free don Carlo», gli immigrati di Siracusa con il loro parroco

di Cinzia Gubbini

Il corteo inizia con la nebbia, finisce con il sole nell'antico mercato dove si va avanti fino a sera. E la soddisfazione degli organizzatori: «E' un risultato storico», dice Massimiliano Perna. Trecento persone che sfilano con i nastri gialli appesi al collo o tra i capelli, i palloncini dello stesso colore, simbolo del primo «sciopero degli immigrati», sono una novità per Siracusa. Lo si capisce dai crocchi di persone che si formano ai lati della strada: «Ma che succede?». Giovane Massimiliano, come giovani sono i ragazzi che hanno voluto questo primo marzo a tutti i costi, appoggiati dall'Unione degli studenti, dalla rete antirazzista catanese, Libera, Rifondazione, Amnesty International, Arci. Anche qui, a Siracusa, non esattamente il centro della politica siciliana. Anche qui, dove il presidente del comitato primo marzo è agli arresti domiciliari dal 9 febbraio.

Si tratta di don Carlo D'Antoni. Di lui le cronache nazionali si sono occupate velocemente. A Siracusa è stato un terremoto. E lo stesso nei circuiti delle associazioni che si occupano di immigrati. Lo conoscono tutti, don Carlo. La parrocchia di Bosco Minniti è l'esempio di un'accoglienza possibile: si mangia davanti l'altare maggiore, si dorme tra i banchi della chiesa. «Lui ragiona così: il Vangelo si segue alla lettera. E infatti è finito in croce come Cristo», dice una delle sue parrocchiane che tiene lo striscione «Siamo tutti colpevoli di solidarietà». Le accuse contro don Carlo sono pesanti: associazione a delinquere e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. L'inchiesta sembra non essere peregrina. A parte il prete di Bosco Minniti sono state arrestate altre nove persone, alcune delle quali accusate di riduzione in schiavitù e sfruttamento della prostituzione. Ma a don Carlo viene contestato quello che lui ha sempre fatto alla luce del sole: cioè firmare centinaia di dichiarazioni di ospitalità, un documento necessario per gli immigrati per poter sbrigare le pratiche legate al permesso di soggiorno. Attività che certo non gli ha attirato molte simpatie: da tempo don Carlo è ai ferri corti con la questura di Siracusa. Gli inquirenti ora ritengono che abbia firmato carte anche per chi non ha mai dormito a Bosco Minniti (accusa che viene respinta totalmente) e che «non poteva non sapere» che alcune di queste ragazze venivano poi sfruttate dal racket della prostituzione e che alcuni collaboratori - secondo l'accusa - prendevano dei soldi. Ma anche in questo caso, è la stessa ordinanza a chiarire che don Carlo non ha mai guadagnato nulla.

Adesso, davanti alla sua stanza sopra la parrocchia, dove è rinchiuso agli arresti domiciliari, c'è uno striscione: «Non mollare». E ieri il corteo gli ha tributato più di un applauso. «Free don Carlo» l'appello dei ragazzi africani che ieri erano alla manifestazione. Sono tutti quelli che ancora oggi dormono a Bosco Minniti, una cinquantina. L'attività di assistenza della parrocchia continua ad andare avanti solo grazie all'impegno di alcuni volontari, come Massimilano Perna. Molti degli ospiti sono i ragazzi scappati dalla «caccia al nero» di Rosarno. Aboubakar, del Gambia, è uno di loro: «Da quando due anni fa sono arrivato in Italia, solo don Carlo mi ha aiutato». Aboubakar è un rifugiato, non ha mai avuto un contratto regolare, non ha mai seguito un corso professionale, né di lingua italiana. Tutte cose che gli sarebbero dovute secondo la legge italiana. Anche lui tra qualche settimana andrà a dormire nelle campagne intorno a Cassibile, negli anni è diventato la «piazza del caporalato» della provincia.

Ed è proprio a Cassibile, alle 6 di mattina, che è iniziato il 1 marzo di Siracusa. E' stata la rete antirazzista di Catania a insistere perché si partisse da qui: «C'è davvero il rischio che sia la prossima Rosarno». Nel pezzo di strada lungo cui si snoda il paese, che viene chiamato piazza anche se della piazza non ha una forma, già ora si incontrano tutte le mattine un centinaio di ragazzi africani che aspettano di essere caricati sulle macchine dei caporali marocchini (la comunità di più lungo insediamento) per andare a raccogliere le lattughe. Diventeranno molti di più quando ad aprile comincerà la raccolta delle patate. C'è il rischio che finiscano a dormire per strada, come sta accadendo adesso per tutti quelli che aspettano la giornata di lavoro. Il Viminale ha annunciato che proprio a Cassibile verrà approntata una tenda per accogliere i braccianti. Ma tra gli attivisti c'è la preoccupazione che sarà aperta soltanto ai regolari. Per quanto tra i braccianti africani i regolari sono molti. Solo messi a lavorare senza contratto: «No, qui il documento lo devi proprio nascondere, sennò non ti prende nessuno», dice Ousman, rifugiato sudanese. Quindi niente contributi e oltretutto paga ridotta (da queste parti si guadagnano circa 40 euro al giorno) a causa della piaga del caporalato. Meccanismi che sembrano ineluttabili, ma non per la rete catanese. Tra l'altro stanno lanciando la campagna della «patata solidale»: coinvolgere i gruppi di acquisto in tutta Italia per comprare solo le patate dei produttori che mettono i braccianti in regola. E' un tentativo, ma almeno affronta il problema alla radice.

Nessuno dei ragazzi della piazza del caporalato, però, è venuto a Siracusa. Hanno tutti preferito, come è ovvio, andare a lavorare. Lavora però anche Hamet, tunisino-italiano, titolare di un negozio di kebab sul corso di Siracusa. Non sapeva niente dello sciopero «e comunque io voto Berlusconi». Non sapeva niente neanche John, nigeriano: «Sennò sarei venuto». Limiti dell'organizzazione, che non è stata semplice. «Ma oggi è solo l'inizio, dobbiamo creare altri momenti come questo», dice alla fine della manifestazione Massimiliano Perna. Ma maggiore partecipazione avrebbe potuto esserci anche tra i ragazzi italiani: «E' che qui non c'è l'abitudine a partecipare. Lo sai che a Siracusa non c'è uno spazio per vederci? - denuncia Giuliana, 15 anni - torni a casa e c'è solo Facebook. Vogliono disabituarci alla vita».

Napoli

10 mila in corteo Una giornata contro il razzismo

di Francesca Pilla

L'adesivo bianco con lo stop segnato da una mano gialla ce l'hanno quasi tutti: «Non toccate il mio amico». Il corso Umberto di Napoli è un rettilineo stracolmo, oggi è il loro giorno, quello dei migranti che hanno portato cartelli, striscioni, e pieni di orgoglio dicono che «nessun uomo è illegale». Una donna sfigurata dall'acido, un senegalese in maniche corte con i colori della Giamaica, una capoverdiana con la figlia, quelli del servizio d'ordine, dal Ghana e dal Burkina Faso, che non sono andati a lavorare nei campi, o i nordafricani di San Nicola Varco, e ancora i mediatori culturali, le colf dell'est Europa, qualche asiatico, per gli organizzatori al corteo sono oltre 10mila. Ognuno ha indossato una fascetta, un foulard, un nastro giallo, il colore scelto per queste 24 ore senza di loro e deciso a livello europeo insieme a Francia, Spagna e Grecia. Contabilizzare in quanti oggi abbiano incrociato le braccia è praticamente impossibile, visto che la maggioranza dei lavoratori stranieri sono al nero, soprattutto al Sud e in Campania. Ma è un fatto che la manifestazione sia riuscita, anche a Napoli come nel resto del paese, che i lavoratori prevalentemente dell'edilizia, del terziario, gli ambulanti siano scesi in piazza di lunedì ed è già un successo da cui partire. «I lavoratori extracomunitari - spiega Jamal Qaddorah, della Cgil-immigrati - hanno risposto in maniera massiccia all'appello lanciato dalle associazioni e dal sindacato».

Al fianco dei migranti ci sono poi tantissimi italiani, gli studenti, i centri sociali, le associazioni, i rappresentati dei partiti di sinistra, tra loro anche il candidato governatore del Prc Paolo Ferrero. Ma passano in secondo pianoquando un gruppo di disoccupati si avvicina all'assessore alle politiche sociali Giulio Riccio e volano insulti e qualche spinta. Il sindaco Iervolino condannerà duramente l'episodio, così come il coordinamento regionale di Sel. L'assessore continua il corteo fino a piazza Plebiscito, con la faccia scura, ma intenzionato a non fare un passo indietro.

Non riesce a oscurare il senso della manifestazione nemmeno la denuncia della Cgil per alcuni manifesti affissi in centro che portano il logo (falsificato) del sindacato, ma inneggiano alla lotta armata pur ispirandosi alla battaglia dei migranti. La giornata è dedicata ai lavoratori stranieri fondamentali all'economia del nostro paese, ma sfruttati e troppo spesso senza diritti e per questo hanno deciso di scioperare. «E' stato difficile in tutta Italia, ma in particolare qui in Campania - dice Pape Scheck - noi stranieri non veniamo rispettati. Contribuiamo all'economia italiana, ma riceviamo salari più bassi lavorando più ore».

Uno studente con la valigia di cartone si appella «alla smarrita coscienza italiana», altri portano in braccio un fantoccio del monistro degli Interni Maroni, mentre un gruppo si impegna a tappezzare il percorso di manifestini con su scritto: «Ha votato la legge Bossi-Fini (o in alternativa Turco-Napolitano), non votare partito razzista». Dal megafono del sound system si susseguono gli interventi che ricordano la fuga degli africani di Rosarno, la strage di Castelvolturno e la caccia all'uomo nelle campagne salernitane. Arrivati all'altezza della facoltà di giurisprudenza si uniscono al serpentone i giuristi democratici, ma anche i docenti precari che hanno sottoscritto un appello su web, mentre alcuni giovani accendono petardi e lanciano vernice rossa sul simbolo della Lega Nord.

Si arriva in piazza Plebiscito. Una delegazione viene ricevuta dal prefetto Alessandro Pansa, per discutere di un documento presentato due settimane fa. Si continua con un intero pomeriggio di concerti e rappresentazioni artistiche e teatrali.

E’scritto nel Qohélet, poema biblico di massima saggezza, che «ciò che è, già è stato. Ciò che sarà, già è». Si applica atrocemente all’Italia, e manda in rovina le parole che da 17 anni ci accompagnano, sempre più insipide: Transizione, Seconda Repubblica, Nuovo, Miracolo, Riforma. Oppure: politica del fare, dell’efficienza. Nell’intervista a Fabio Martini, Rino Formica, ex uomo di Craxi, constata un «collasso dello Stato.

Snervato nei suoi gangli vitali. Con un’aggravante: nell’opinione pubblica cresce un disgusto senza reazione, si attendono fatalisticamente nuovi eventi ancora più squalificanti, il perpetuarsi di un’Italia regno degli amici, delle spintarelle, delle percentuali».

L’avvento del Nuovo, promesso dopo lo svelamento di Tangentopoli nei primi Anni 90, era dunque un pasticciaccio, un maledetto imbroglio. Non: «Ecco, faccio nuove tutte le cose», ma: «Faccio tutte le cose vecchie». Non siamo in mezzo al guado, il viaggio non è mai iniziato. Come nell’Angelo sterminatore di Buñuel, per uscire dalla stanza-prigione bisogna ripercorrere gli esordi, capire come si è entrati nell’imbroglio e ci si è rimasti.

Mani Pulite nacque e crebbe come evento davvero inedito, per l’Italia, in simultanea con la battaglia condotta a Palermo contro i patti della politica con mafia e camorra: una pantera la mafia, una volpe la camorra, disse Falcone a Giovanni Marino di Repubblica, quattro giorni prima di essere ucciso. Figlie, l’una e l’altra, di «un’omertà che si è trasformata in memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». È significativo che l’unico commento di Silvio Berlusconi sul marciume che torna a galla sia: «Il male principale della democrazia in Italia è la giustizia politicizzata». Non è il marciume, ma il dito che lo indica. Non è il fare che si svela malaffare, il predominio dell’opaco sul trasparente, il familismo amorale che torna, la ’ndrangheta che non fidandosi più di nessun mediatore entra in Parlamento. Il capo del governo è un avatar della Prima Repubblica: pur travestendosi, pur conquistando folle e voti, «fa vecchie tutte le cose». La sua rivoluzione, come accade nelle rivoluzioni giacobine, ha raccattato il potere a terra per salvarlo. Il presidente della Consulta Francesco Amirante ha detto in pratica questo, giovedì: sono i giacobini e non i democratici a idealizzare la sovranità assoluta dell’elettore. Le costituzioni esistono perché del popolo non ci si fida del tutto, e la Consulta rappresenta un «popolo trascendente» che guardando lontano frena se stesso.

Quando nacquero le due battaglie - Mani Pulite a Milano, l’antimafia a Palermo - si capì che tutto in Italia si teneva: l’intreccio tra politica e affari a Nord, tra politica e mafia a Sud. Le due città divennero simbolo dell’Italia peggiore e migliore, ambedue sperarono molto prima di disperare, ambedue scoprirono di portare dentro di sé la «memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». Dicono che Tangentopoli oggi è diversa, anche se il cittadino non vede grandi differenze. Per alcuni è peggio («Noi non abbiamo mai scardinato lo Stato», assicura Formica), visto che allora si rubava per i partiti e ora si ruba per sé. Come se rubare per la politica fosse un’attenuante, e non l’obbrobrio che ha distrutto il senso delle istituzioni e dello Stato, aprendo strade ancor più larghe alle ruberie del tempo presente.

Dicono anche che l’Italia è congenitamente votata alla corruzione. Anche questo è falso, perché l’Italia con Mani Pulite cominciò a sperare veramente in una rigenerazione. Enorme fu la partecipazione ai funerali di Falcone, il 25 maggio ’92. Ci fu il movimento dei lenzuoli, speculare a Mani Pulite. Nel suo bel libro L’Italia del tempo presente, Paul Ginsborg cita un documento stilato in una veglia di preghiera nella chiesa palermitana di San Giuseppe ai Teatini, il 13 giugno 1992, dopo l’eccidio di Falcone. Il documento s’intitolava «L’Impegno», e oggi dovrebbero leggerlo e rileggerlo gli studenti, gli imprenditori, i servitori dello Stato, i politici, per mostrare che l’Italia ha qualcos’altro nelle ossa, oltre alla melma. Se torna a corrompersi, è anche perché ai vertici manca l’esempio. «Entri nella mafia se ti senti, e sei, nessuno mischiato con niente», dice il linguaggio malavitoso.

Vale la pena ricordare alcuni brani, dell’Impegno palermitano: «Ci impegniamo a educare i nostri figli nel rispetto degli altri, al senso del dovere e al senso di giustizia. Ci impegniamo a non adeguarci al malcostume corrente, prestandovi tacito consenso perché “così fan tutti”. Ci impegniamo a rinunziare ai privilegi che possano derivare da conoscenze e aiuti “qualificati”. Ci impegniamo a non vendere il nostro voto elettorale per nessun compenso. Ci impegniamo a resistere, nel diritto, alle sopraffazioni mafiose...». Questo fu, ed è, il Nuovo. Anche Milano, atavicamente maldisposta verso lo Stato, sentì sorgere in sé un ricominciamento. Corrado Stajano la descrive non più piegata sui propri affari privati ma «infiammata di un entusiasmo liberatorio», nel febbraio ’92, grata ai magistrati che ne scoperchiavano il malaffare. Da allora «si è indurita, non ha saputo discutere le cause vicine e lontane di una corruzione che ha macchiato tutti i partiti politici e tutti gli strati sociali (...), non ha saputo fare i conti con se stessa. Ha cancellato quel che è successo. O meglio, ha preferito dirsi che nulla è successo» (Stajano, La città degli untori, Garzanti 2009).

Fu da quel vuoto che balzò fuori la figura di Berlusconi, agguerritissimo addomesticatore di istinti, creatore di mondi e show consolanti. Lui sapeva la forza di certi gusti, aveva addirittura forgiato nuovi stili di vita a Milano-2, lontano dalla pazza folla cittadina, aveva creato addirittura una televisione per le new town e da lì partì, promettendo nel ’94 un «nuovo miracolo italiano». Un miracolo non per fermare i comunisti, ma quel popolo dei lenzuoli e dell’entusiasmo liberatorio che minacciava mafie e vecchi-nuovi padroni del vapore. Si continuò a rubare, senza neanche più fingere passioni politiche. La Lega smise gli osanna a Mani Pulite perché rivalutare le istituzioni voleva dire contribuire di tasca propria al bene comune, e solo gli imbecilli lo fanno.

Non si aprì l’era della trasparenza, della riforma dello Stato. Se ne parla di continuo ma il verbo è performativo, come dicono i linguisti: basta dire e il fare già c’è. Paradossalmente, nell’era di Berlusconi tutto si decide nelle aule di giustizia: non è da escludere che proprio questo egli voglia, per avere un nemico esistenziale.

Forse il Nuovo non è venuto perché debellare la corruzione è «impresa titanica», come sostiene Luca di Montezemolo: perché coinvolge non solo i politici ma un’intera classe dirigente. Forse per questo siamo immobili non in mezzo al guado, ma penzolanti nel vuoto come nel ’92, sfiduciati e però assetati di ricominciare. Difficile credere che non esista anche questa sete, accanto al disgusto fatalista. La sete rispuntata dopo il fascismo, quando Luigi Einaudi disse, il 27 luglio ’47: «Esiste in questo nostro vecchio continente un vuoto ideale spaventoso».

Mi ha colpito una frase, detta all’Aquila domenica scorsa da un manifestante delle chiavi, il direttore dell’Accademia delle Belle Arti Eugenio Carlomagno: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Non è ancora L’Impegno della chiesa palermitana, ma si ricomincia anche così: uscendo dal privato delle new town, spegnendo le tv del Truman Show, riprendendosi la pòlis.

Riscoprendo che la politica può fare la differenza, non in peggio ma in meglio, e che a quel punto potremo edificare la memoria di uno Stato che ti garantisca.

Innanzi tutto, grazie di questa bella festa di popolo, che ci ripaga di molte delusioni e di tante amarezze. Ovviamente, ogni volta che questo popolo si riunisce, i suoi temi e le sue richieste aumentano. Tornerò più avanti su questo punto, ma intanto vorrei fare questa osservazione.

Non si può fare lotta contro l'illegalità, la disonestà e l'ingiustizia senza fare lotta al sistema. Abbiamo detto, e anche scritto recentemente: se il Capo è corrotto, non è possibile che la nazione non sia infetta. Ma se la nazione è infetta, è più facile che anche il Capo sia corrotto.

Se le cose stanno così, vuol dire che la lotta per una sana democrazia, per la libertà, l'onestà, la giustizia, necessariamente si allarga, abbraccia temi sempre più vasti, si nutre di ambizioni più alte.

Da ogni parte, anche in questi ultimi giorni, si sentono auspicare e richiedere, come risposta alla crisi, le riforme: lo ha fatto Marcegaglia, lo ha fatto Montezemolo, lo ha fatto Fini, lo ha fatto D'Alema; lo farà di sicuro la settimana prossima Silvio Berlusconi. Di quali riforme si parla? Non si sa bene. Quando qualcosa di più chiaro emerge, ci fa paura. Quel che si sa è che nessuno di questi signori ha parlato e parla dell'unica riforma di cui varrebbe la pena di parlare, la riforma da cui dipendono tutte le altre: la riforma della politica.

Riforma della politica vuol dire mettere in discussione le forme - i modi - le procedure - gli interessi - la formazione dei gruppi dirigenti - della politica, di tutta la politica, in questo caso non importa se di destra o di sinistra.

Riforma della politica vuol dire invocare il controllo popolare permanente sulla politica, al di là e di più del controllo periodico del voto, anch'esso del resto svuotato e, sì, corrotto, da un'infinità di fattori; vuol dire invocare il principio della partecipazione; la messa in mora delle procedure di delega illimitata e autoreferenziale al ceto permanente e inamovibile dei politici.

Tutto questo perché, se c'è una nazione infetta che produce necessariamente un capo corrotto, questo vuol dire che c'è una politica che non funziona, perché se ci fosse una politica che funziona, non ci sarebbe una nazione infetta, non ci sarebbe un Capo corrotto.

Se le cose stanno così, ecco, io mi spiego perché voi siate tentati, siate obbligati a parlare sempre più di tutto. Vi farò un esempio.

Siete partiti dall'Art. 1 della Costituzione, che è ovviamente il cardine di tutto; cammin facendo ci avete aggiunto, giustamente, il 3 e il 21. Insomma: lavoro, uguaglianza di fronte alla legge, libertà di stampa: come separare effettivamente queste cose?

Io vi prego di meditare sulla possibilità che nella vostra agenda d'iniziative e di proposte inseriate anche l'Art. 9 della Costituzione, che al secondo Comma recita: «(la Repubblica) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: e non solo perché l'ambiente è parte della nostra libertà e individualità nazionali; ma perché attraverso lo sfruttamento senza freni dell'ambiente, attraverso la cementificazione del territorio, passa il più colossale flusso di denaro corrotto e destinato alla corruzione, che possa ammorbare questo nostro povero e disgraziato paese.

E' andando avanti che si capisce meglio perché si è partiti! Con la forza della ragione e con la passione delle persuasioni si può sconfiggere la corruzione.

La formula d’uso comune “questione settentrionale”, secondo Luciano Canfora (autointervista in La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di Giuseppe Berta, Feltrinelli 2007), fu inizialmente usata dal gruppo che si era formato attorno ad Adriano Olivetti (Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Pasquale Saraceno…) per indicare un dissenso della società civile economica emergente nel “triangolo industriale” nei riguardi dello statalismo della classe politica e amministrativa domiciliata nella capitale. All’origine non conteneva significati né antimeridionalisti né antipolitici. Al contrario gli intellettuali progressisti, pur guardando al Sud in termini di arretratezza economica e incompiutezza del processo di unificazione risorgimentale, erano sicuri che una buona politica e una buona programmazione economica (quella del futuro centrosinistra) avrebbero potuto superare il crescente divario di sviluppo. Con il fallimento delle politiche meridionaliste, l’espressione “questione settentrionale” diventa un “espediente retorico, polemicamente oppositivo rispetto alla formula questione meridionale”. Di più, con l’avanzata del leghismo, già negli anni ’80, diventa un modo per segnare le diversità e approfondire le separazioni; il fondale davanti al quale mettere in scena le varie rappresentazioni secessioniste, più o meno cruente, più o meno leggere, a seconda delle circostanze e delle convenienze elettorali.

In realtà tutti sanno bene che la questione degli squilibri territoriali fa parte di un problema grande come il mondo: divario degli indicatori di sviluppo, ineguaglianze e conflitti distributivi, competizioni tra aree geografiche sono il pane quotidiano di cui si nutre il “modello” di crescita dominante del capitalismo competitivo e iperliberista. Tanto che anche le politiche di “perequazione” (tra i paesi aderenti e all’interno dei singoli paesi) tentate a più riprese con dispendio di risorse dalla Unione europea – sono miseramente naufragate.

In questo quadro di fallimenti storici delle politiche pubbliche, il discorso della Lega (che ha fatto ampie brecce anche nel centro e nella sinistra liberale) non poteva che avere grande seguito, essendo il più aderente al tipo di individuo della specie homo omini lupus che ha maggior successo nella lotta darwiniana per l’ evoluzione in ambiente liberista. Il problema è che questa antropologia è cattiva; viene alimentata quotidianamente (da ultimo, vedi Luca Ricolfi che nel suo Il sacco del Nord , Edizioni Guerini e Associali, 2010, calcola che 50 miliardi all’anno vengano “ingiustamente sottratti” alle regioni settentrionali) ed è temuta perfino da uno come Gianni de Michelis: “Nel declino ogni solidarietà verrà meno e il Nord sarà tentato di sollevarsi cercando di liberarsi del Sud” (Dialogo a Nordest, scritto a due mani con Maurizio Sacconi, Marsilio 2010). Quindi, la grande crisi che sta attraversando l’economia mondiale, può essere un acceleratore delle pulsioni separatiste, dei proclami indipendentisti, della balcanizzazione delle coscienze, prima che dei confini nazionali. Ma di quale crisi stiamo parlando?

Secondo gli osservatori vari di banche, istituti di ricerca, camere di commercio, ecc. sembra che nell’”anno terribile” (il 2009) nel Veneto ci sia stato un calo del reddito disponibile dello 0.9%. Grave, ma non impossibile da ammortizzare, sapendo che il Veneto è la seconda per il reddito procapite familiare e la prima per depositi bancari. Il bilancio tra chiusure e aperture di imprese è negativo, ma non per le società di capitali. Per molti osservatori l’ampliamento delle dimensioni delle imprese e le fusioni sono un processo positivo. Il presidente di Unioncamere ha affermato: “Il 62% delle imprese intervistate dal nostro Centro Studi ha previsto che a crisi riassorbita avrà raggiunto un livello di competitività superiore a quello di un anno fa” (il Sole 24 Ore). E sembra aver ragione: nel bel mezzo della crisi, già nel 2009, le esportazioni italiane sono aumentato del 23% in Brasile, del 21% in India, del 17% in Cina, del 14% in Sud Africa, del 40% in Turchia. Quel che si dice “paesi emergenti”. Per contro il calo della occupazione è stato rilevante, ma prevalentemente a carico dei lavoratori stranieri e circoscritto attorno ad alcuni settori e categorie di imprese (edilizia e industrie di più grandi dimensioni). Ha scritto Carlo Triglia (La terza Italia delle reti locali, il Sole 24 Ore). “Si profila un paradosso: la forza dell’arretratezza del modello italiano (..) la dimensione ridotta delle imprese, il più forte apporto con la famiglia, l’intreccio più stretto tra reti sociali e reti produttive, il basso indebitamento e sottocapitalizzazione delle imprese e il ruolo delle banche locali, delle organizzazioni di categoria, dei governi locali, ma anche la forte presenza del risparmio delle famiglie. Insomma, si tratta di un sistema in cui l’economia è meno separata: è più immersa nella società locale”. Così: “gli effetti della crisi tendono ad essere più diffusi e più ammortizzati dalla società locale”. I miracoli si ripetono a nordest; flessibilità, adattamento, specializzazione produttiva, conquista di nicchie di mercato per l’export … consentono al “modello familista-comunitario” – come lo chiama Aldo Bonomi – di cavalcare anche le onde della crisi. Il pulviscolo delle piccole imprese, più o meno consorziate “a grappolo” e internazionalizzate attraverso la catena di comando organizzata dalle imprese leader, le “multinazionali tascabili” dei vari Benetton, Lotto, Geox, Marzotto, Lux Ottica, Carraro, Danieli… continua a fare sistema.

Tutto bene quindi? Con una attenzione: non fare mai l’errore di confondere la capacità produttiva delle imprese con il benessere del contesto sociale, con la joie de vivre, direbbe Giacomo Becattini (Ritorno al territorio, il Mulino, 2009), con il bien vivir, come diciamo noi che amiamo i popoli indigeni, con il piacere di vivere in serenità, come pensa la gente. Infatti capita spesso che un’impresa riesca a fare utili proprio peggiorando le condizioni dei suoi dipendenti e stressando le condizioni ambientali. Quando giornalisti e politici di governo ci dicono “stiamo uscendo dalla crisi”, in realtà stanno guardando solo ai bilanci delle imprese e alla loro quotazione in borsa, non ai volumi di reddito effettivamente distribuito a chi ci lavora e tanto meno alle condizioni generali delle comunità locali. Politiche di bassi salari e tagli dei servizi di welfare locali, ricorsi generalizzati alla cassa integrazione anche “in deroga” (anche per gli artigiani) e tagli alle commesse dei contoterzisti possono servire a ristrutturare, selezionare ed eliminare concorrenti, concentrare capitali e potere nelle mani della nuova “classe imprenditoriale” emergente, una vera e propria elite che ha raggiunto la vetta del successo e delle glorie della “terza Italia” (né con le famiglie della grande finanza, né con lo stato), ma tutto ciò non significa automatico miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni che di fatto sorreggono (in quanto “capitale sociale”, dicono gli economisti) le economie territoriali dei distretti e dei cluster produttivi.

La Lega, insomma, potrebbe entrare in contraddizioni imbarazzanti. Sostiene il liberismo antistatalista e chiede più dazi; predica il Made in Italy ma non può mettersi contro gli industriali che importano “scarpe italiane” dalla Romania, occhiali cadorini dal Vietnam, vetri di Murano dalla Cina; veste di verde i “proletaroidi” (come Bonomi chiama i micro imprenditori) ma dispensa dal governo di Roma “stimoli di stato” alla Fiat e promette sconti persino alla americana Alcoa; difende il latte padano e vota in Consiglio regionale il nucleare francese. Anche per la Lega la conquista del suo Palazzo d’inverno, il Balbi, potrebbe rivelarsi piena di fastidiose sorprese. Ma non c’è problema. Fino a che l’”opposizione” sarò più leghista della Lega, potrà contare sulla più assoluta mancanza di alternative.

David Mills è stato corrotto. È quel che conta anche se la manipolazione delle norme sulla prescrizione, che Berlusconi si è affatturato a partita in corso, lo salva dalla condanna e lo obbliga soltanto a risarcire il danno per il pregiudizio arrecato all´immagine dello Stato. Questa è la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Per comprenderla bisogna sapere che la corruzione è un reato «a concorso necessario»: se Mills è corrotto, il presidente del Consiglio è il corruttore. Per apprezzare la decisione, si deve ricordare che cosa ha detto, nel corso del tempo, Silvio Berlusconi di David Mills e di All Iberian, l´arcipelago di società off-shore creato dall´avvocato inglese. «Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l´esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario» (Ansa, 23 novembre 1999). «Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l´Italia» (Ansa, 20 giugno 2008). Bisogna cominciare dalle parole – e dagli impegni pubblici – del capo del governo per intendere il significato della sentenza della Cassazione.

Perché l´interesse pubblico della decisione non è soltanto nella forma giuridica che qualifica gli atti, ma nei fatti che convalida; nella responsabilità che svela; nell´obbligo che oggi incombe sul presidente del Consiglio, se fosse un uomo che tiene fede alle sue promesse.

Dunque, Berlusconi ha conosciuto Mills e, come il processo ha dimostrato e la Cassazione ha confermato (il fatto sussiste e il reato c´è stato), All Iberian è stata sempre nella sua disponibilità. Sono i due punti fermi e fattuali della sentenza (altro è l´aspetto formale, come si è detto). Da oggi, quindi, il capitolo più importante della storia del presidente del consiglio lo si può raccontare così. Con il coinvolgimento «diretto e personale» del Cavaliere, David Mills dà vita alle «64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest». Le gestisce per conto e nell´interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle «fiamme gialle» corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l´avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio «somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali» che lo ricompensano della testimonianza truccata.

Questa conclusione rivela fatti decisivi: chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi; che cosa è stato nascosto dalla testimonianza alterata dell´avvocato inglese. Si comprende definitivamente come è nato, e con quali pratiche, l´impero del Biscione; con quali menzogne Berlusconi ha avvelenato il Paese.

Torniamo agli eventi che oggi la Cassazione autentica. Le società offshore che per brevità chiamiamo All Iberian sono state uno strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo e della sua avventura imprenditoriale. Anche qui bisogna rianimare qualche ricordo. Lungo i sentieri del «group B very discreet della Fininvest» transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l´approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi mentre, in parlamento, è in discussione la legge Mammì. In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le «fiamme gialle»); il controllo illegale dell´86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l´acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche. Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente. Dunque, l´atto conclusivo del processo Mills documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c´è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la sua imprenditorialità, l´efficienza, la mitologia dell´homo faber, l´intero corpo mistico dell´ideologia berlusconiana ha il suo fondamento nel malaffare, nell´illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

E´ la connessione con il peggiore passato della nostra storia recente che, durante gli interminabili dibattimenti del processo Mills, il capo del governo deve recidere. La radice del suo magnificato talento non può allungarsi in quel fondo fangoso perché, nell´ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese. Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell´infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della «società dell´incanto» che lo beatifica. Per scavare un solco tra sé e il suo passato e farsi alfiere credibile e antipolitico del nuovo, deve allontanare da sé l´ombra di quell´avvocato inglese, il peso di All Iberian. È la scommessa che Berlusconi decide di giocare in pubblico. Così intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, responsabile di fronte agli elettori, e il suo passato di imprenditore di successo. Se quel passato risulta opaco perché legato a All Iberian, di cui non conosce l´esistenza, o di David Mills, che non ha mai incontrato, egli è disposto a lasciare la politica e addirittura il Paese. Oggi dovrebbe farlo davvero perché la decisione della Cassazione conferma che ha corrotto Mills (lo conosceva) per nascondere il dominio diretto su quella macchina d´illegalità e abusi che è stata All Iberian (la governava). Il capo del governo non lo farà, naturalmente, aggrappandosi come un naufrago al legno della prescrizione che egli stesso si è approvato. Non lascerà l´Italia, ma l´affliggerà con nuove leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento), utili forse a metterlo al sicuro da una sentenza, ma non dal giudizio degli italiani che da oggi potranno giudicarlo corruttore, bugiardo, spergiuro anche quando fa voto della «testa dei suoi figli».

È possibile che in una città distrutta dal terremoto gli artigiani che dovrebbero avere un ruolo centrale nella ricostruzione siano costretti a mettere in cassa integrazione i loro dipendenti? Se lo chiedeva Riccardo Iacona nella straordinaria puntata di Presa diretta su L'Aquila di domenica sera. In realtà, L'Aquila è una rappresentazione fedele di un'Italia senza progetto, lasciata precipitare nella crisi. Invece di ricostruire un futuro si distruggono risorse, storie, prospettive. L'occupazione va in frantumi come la casa dello studente del capoluogo abruzzese. Senza uno straccio di politica economica e industriale del governo, che forse sogna un'Italia fondata sul turismo, frane permettendo. Siamo di nuovo a «italiani maccaroni».

Da ieri 30 mila operai della Fiat – tutti i dipendenti diretti dell'auto con la fortuna di accedere agli ammortizzatori sociali, mentre molti di più nell'indotto non ce l’hanno e stanno per diventare disoccupati, o lo sono già – sono in cassa integrazione. Tutti a casa, ma non siamo nel film di Comencini e la guerra è appena iniziata. La Fiat non ha ripensamenti, manda a dire John Elkann che studia da presidente della più importante industria italiana (italiana si fa per dire). Chiudere Termini Imerese, disboscare un po' dovunque nei vari stabilimenti italiani. E se le tute blu protestano, come nella fabbrica dimotori di Pratola Serra, il Lingotto invoca, e ottiene, le «liberatorie» cariche di polizia.

Fiat, e ancora: Merloni, Alcoa, Eutelia, Glaxo... La lista dei disastri industriali e della ricerca sarebbe lunghissima da compilare. La politica latita o raglia a Sanremo e le imprese fanno quel che vogliono. Le multinazionali fuggono, dalla Glaxo che cancella centinaia di ricercatori, all'Alcoa che vuole affogare nel mar di Sardegna e nella Laguna veneta migliaia di operai. La Thyssen Krupp, che smantellando impianti e sicurezza a Torino ha provocato una delle peggiori stragi della storia industriale italiana, oggi ricatta i dipendenti sopravvissuti dai quali pretende la rinuncia ad azioni legali in cambio non del posto, naturalmente, ma della cassa integrazione. Parlare di leggi del mercato, in casi come questi, e non di immoralità, è intollerabile. Il fatto è che l'immoralità, nel paese di Berlusconi, non fa più scandalo.

Operai negli stadi, operai nel tempio della musica. Meglio lì che sui tetti, per carità. Nulla da dire su chi le prova tutte per rivendicare visibilità e solidarietà, molto da dire su chi si libera la coscienza con un applauso in platea o sulle curve, o un invito sul palco. Nella strategia del governo c'è il logoramento della resistenza operaia, alternando promesse da mercante e manganellate, mentre si lavora alla dismissione del sistema Italia. L'opposizione parlamentare starebbe anche con chi lavora, non lesina dichiarazioni di vicinanza verso chi perde il lavoro, ma in questo periodo è molto impegnata nella preparazione delle liste elettorali. Deve fare attenzione, però, a non tirare troppo la corda. Se non altro per non perdere essa stessa, insieme a chi non rappresenta più, il lavoro.

Non c’è solo Nicole Minetti, igienista dentale di Silvio e “nuova favorita di Berlusconi” (come ha scritto il Times). Nelle liste elettorali del Pdl c’è anche Graziana Capone, detta “la Angelina Jolie di Bari”. C’è Giorgio Puricelli, il fisioterapista del Milan. E c’è Francesco Magnano, il geometra della lottizzazione di Arcore. La sua storia è ancor più incredibile, legata com’è a una grande speculazione edilizia che Berlusconi sta avviando in Brianza, sui terreni di sua proprietà attorno a Villa San Martino. Il consigliere regionale del Pd Giuseppe Civati ha ironizzato: “Attenti, è Magnano, non Mangano. E non è un anagramma. Non è lo stalliere, ma il lottizzatore di Arcore”. Fa il geometra e sta seguendo, per conto di Berlusconi, una grande operazione per realizzare Milano 4. Un investimento da 220 milioni firmato Idra, la società che controlla le proprietà immobiliari del presidente del Consiglio. Lo racconta Fausto Perego, consigliere comunale di opposizione ad Arcore: “Vogliono costruire 25 palazzi di tre piani, 400 appartamenti, per un totale di 150 mila metri cubi, o forse anche più, che ospiteranno 1.200 nuovi residenti. Su un’area verde di 300 mila metri quadri, sottoposta a vincolo e destinata a uso agricolo, che fa parte del Parco regionale della Valle del Lambro”. Costruire dentro un parco è difficile per tutti, ma non per Silvio. Il geometra Magnano ha già illustrato il progetto il Comune. Si è presentato all’incontro insieme con l’assessore all’urbanistica della provincia di Monza, Antonino Brambilla (Pdl), e il presidente del Parco, Emiliano Ronzoni (Pdl), che hanno sostenuto l’iniziativa. Di fronte, c’era il sindaco di Arcore, Marco Rocchini (Pdl). L’accordo è stato raggiunto in fretta.

Così, dopo Milano 2 (a Segrate) e Milano 3 (a Basiglio), ora arriverà Milano 4 (ad Arcore). Il sindaco ha detto sì, spiegando alla stampa: “Siamo strozzati dal patto di stabilità, con questa operazione potremo finalmente rimettere in sesto le casse comunali. Come faccio a non far costruire, non ho più soldi”. In cambio, il Comune incassa 20 milioni di euro di oneri d’urbanizzazione e una casa per anziani. Il vicesindaco di Arcore, poi, si chiama Moreno Firmo. E che può fare, se non firmare?

ADESSO il problema sembra essere quello della corruzione generale. Di tutta la nazione. Di tutto un popolo «che nome non ha». Di tutta una gente che spunta alla rinfusa «dagli atri muscosi, dai fori cadenti». Una sorta di scena da teatro senza attori, solo comparse degradate che si sospingono a vicenda, una cenciosa opera da tre soldi dove vengono scambiate miserabili mazzette, abbietti favori, borseggi agli angoli delle strade. Ci sarà pure un Mackie Messer armato di coltello ma non si vede, dà ordini sottovoce all'ombra di quella plebaglia corrotta e corruttibile. La Corte dei Conti ha quantificato il degrado collettivo: da un anno all'altro la corruzione è aumentata del 229 per cento.

Anche due giudici della Corte sono tra gli indagati. Anche un giudice della Corte costituzionale è lambito dall'ondata di fango. Anche un magistrato della Procura di Roma.

I giornali dibattono l'argomento. Analizzano il fenomeno. Si tratta d'una nuova Tangentopoli a diciotto anni di distanza dalla prima? Oppure d'una situazione con caratteristiche diverse? Allora, nel 1992, si rubava per procurare soldi ai partiti e alle correnti; adesso si ruba in proprio ed è un crimine di massa. Meglio o peggio di allora? Infine - ma questa è la vera domanda da porsi: la corruzione sale dal basso verso l'alto oppure scende dall'alto verso il basso? LA CLASSE dirigente è lo specchio d'una società civile priva di freni morali oppure il cattivo esempio degli «ottimati» incoraggia la massa a delinquere infrangendo principi e normative?

* * *

Berlusconiè preoccupato. Lo dice lui stesso in pubblico e in privato e molti suoi collaboratori trasmettono ai giornali il suo cattivo umore che del resto risulta evidente dalle immagini televisive e fotografiche. «Se potessi scioglierei il partito, ma non posso». Una frase così non l'avevamo mai sentita prima. E' indicativa del livello cui il fango è arrivato. Per quello che se ne sa, la sua preoccupazione proviene da sondaggi molto allarmati e soprattutto da previsioni pessimistiche sullo smottamento futuro del consenso.

Emergono diverse faglie: quella dei moderati, quella dei cattolici, quella delle persone perbene senza aggettivi. Bertolaso è indagato, Verdini e Letta compaiono molte volte nelle intercettazioni giudiziarie.

Due differenti pulsioni si alternano nell'animo del «capo dei capi»: rintuzzare gli attacchi, mantenere le postazioni e anzi contrattaccare; oppure cambiare strategia, abbandonare le posizioni più esposte e i personaggi più discussi, dare qualche soddisfazione ad una pubblica opinione stupita, indignata e trascurata per quanto riguarda le ristrettezze economiche che mordono ormai la carne viva del Terzo e del Quarto stato.

La scelta tra queste due opzioni non è stata ancora fatta. A giudicare dalle parole e dagli atti sembrerebbe che il «capo dei capi» persegua contemporaneamente ambedue queste strategie col rischio di far emergere un'incoerenza che segnala una crescente difficoltà.

La legge in preparazione che dovrebbe inasprire le pene contro i reati di corruzione segna il passo. Il collega D'Avanzo ha spiegato ieri le ragioni del rinvio: il gruppo dirigente del partito non ci sta. Se alla fine la legge verrà fuori, sarà solo un placebo da avviare su un binario morto. Più efficace (se ci sarà) potrebbe essere il lavoro di pulizia delle liste elettorali; ma quel lavoro, per avere un senso, dovrebbe estendersi ai membri del governo e del Parlamento colpiti da sentenzeo da condanne di primo grado con imputazioni di corruzione. Ma ne verrebbe fuori una decimazione: Dell'Utri, Ciarrapico, Cosentino, Fitto e almeno un'altra decina di nomi sonanti. Vi pare fattibile un'ipotesi del genere? Promossa da Berlusconi che dal canto suo ha schivato le condanne solo con derubricazione di reati e accorciamento dei tempi di prescrizione disposti dalle famose leggi «ad personam»? * * * Il caso Bertolaso-Protezione civile fa storia a sé. Il punto nodale della questione sta nella distinzione tra eventi causati da catastrofi naturali per i quali la necessità e l'urgenza autorizzano a derogare dalle norme vigenti;e gli eventi non connessi a tali catastrofi, per i quali le deroghe non sono né urgenti né necessarie. Qualche eccezione in questo secondo campo d'azione può essere ipotizzata ma deve essere dettagliatamente motivata e debitamente circoscritta. Così non è stato. La cosiddetta politica del fareè diventata una modalità permanente, la mancanza di controlli ha alimentato l'arbitrio, e l'arbitrio è diventato sistema.

L'inchiesta giudiziaria in corso riguarda situazioni molteplici: appalti in Toscana, appalti alla Maddalena, appalti a Roma, appalti a L'Aquila, in Campania, a Varese, a Torino, a Venezia, seguirne il filo è stato scrupolosamente fatto dai giornali e lo do quindi per noto. Aggiungo qualche aggiornata osservazione. 1. Il giro degli appaltanti, degli attuatori e degli appaltatori è relativamente limitato. Le Procure (Firenze, Roma, Perugia, L'Aquila) li hanno definiti una «cricca». La parola mi sembra quanto mai adatta.

2. Gianni Letta (e Bertolaso) avevano escluso che imprenditori della cricca suddetta avessero mai lavorato all'Aquila, ma hanno poi dovuto ammettere di essersi sbagliati. Almeno due di essi (Fusi e Piscicelli) hanno avuto incarichi anche in Abruzzo. Agli altri e al gruppo Anemone in particolare, è stata data in pasto La Maddalena e molti altri luoghi, a cominciare da Roma.

3. La scelta iniziale di collocare il G8 nell'isola sarda fu un errore madornale. La pazza idea di ospitare i Grandi sulle navi creando una sorta di isola galleggiante fu rifiutata dalle delegazioni principali. Sopravvennero altre questioni di sicurezza di impossibile soluzione.

Se non ci fosse stato il terremoto dell'Aquila, La Maddalena sarebbe stata comunque scartata ma questa impossibilità tecnica è venuta fuori quando il grosso dei lavori era già stato appaltato e portato avanti. La Protezione civile non si era accorta di nulla o, se se n'era accorta, non l'aveva detto a nessuno.

4. Il terremoto offrì una via d'uscita dall'«impasse» della Maddalena, ma a caro prezzo: furono costruiti dunque due G8, uno dei quali procedette di pari passo e negli stessi luoghi distrutti dal sisma. Da questo punto di vista la Protezione civile dette prova di grande efficienza. Il prezzo fu l'abbandono della Maddalena nelle mani di Balducci e della cricca e una soluzione edilizia, ma non urbanistica, che ha soccorso molte migliaia di aquilani ma ha messo in un binario morto la ricostruzione della città.

5. La figura di Angelo Balducci scolpisce nel modo più eloquente il funzionamento della cricca e gli arbitri che ne derivano. Uno dei casi più macroscopici riguarda la famosa sede del Salaria Sport Village sulle rive del Tevere. Terreno demaniale, zona preclusa ad ogni tipo di costruzione, parere negativo della conferenza dei servizi, della Regione, della Provincia e del Comune di Roma; tutti superati da un'ordinanza di Balducci con trasferimento della concessione all'imprenditore Anemone.

6. L'altra figura omologa che si erge alla guida della cricca è quella di Denis Verdini, coordinatore del Pdl e come tale persona «all'orecchio» del Capo.

Verdini non si lascia intervistare, non vuole sottoporsi a domande imbarazzanti. In compenso ha scritto un diario, una sorta di comparsa a difesa, e l'ha fatto leggere ad un giornalista del «Corriere della Sera». Il quale ha fatto scrupolosamente il suo mestiere riferendo il testo senza poter interporre domande. Ne è risultata un'autodifesa vera e propria.

Questo testo merita d'esser letto con attenzione. Ne riporterò qui qualche brano che ne dà l'idea.

* * *

«Il mio amico Riccardo Fusi è persona di cui mi fido, un vero imprenditore con tremila lavoratori alle sue dipendenze. Sono indagato per aver sostenuto una nomina che poteva interessare. Questo ha indottoi magistratia pensare che ci fosse sotto un reato, ma non è così, non ho mai preso una lira, ma non nasconderò mai che a Riccardo ho presentato il mondo, tutti quelli che mi chiedeva di conoscere. Dimettermi da coordinatore? Non mi passa neanche per l'anticamera del cervello. Certe cose sono roba da asilo infantile. Siamo un sistema di potere? Scoperta dell'acqua calda. Quando c'è discrezionalità si apre la porta ad un sistema. Il punto è se è legittimo o illegittimo».

Questa frase è essenziale, fornisce la chiave autentica per decifrare ciò che sta accadendo.

Verdini è uno dei pilastri del sistema. Evidentemente lo considera legittimo, più che legittimo per il bene del paese. Scrive in un'altra pagina del suo diario: «Io lavoro per Berlusconi che riesce a ottenere benessere e consenso da milioni di italiani». Lui non fa parte della cricca. Così dice, anche se gli amici per i quali si spende e ai quali procura appalti, nomine ministeriali, potere e danaro, sono i componenti della cricca. Ma lui no, lui non pensa di farne parte perchéè collocato di varie spanne al di sopra. E non li favorisce per avere mazzette. Che volete che se ne faccia delle mazzette, lui che è agiato di famiglia? Lui gode di aver potere e di portare talenti e consensi al suo Capo. Talenti di malaffare? Può esser malaffare quello che porta consenso e voti a Berlusconi? Certo «quando c'è discrezionalità si apre la porta al sistema» e dunque portiamo la discrezionalità al massimo, sistemiamo gli amici nei posti che servono e chi non beve con noi peste lo colga. Non è questo il meccanismo? Non è questo che spiega la fronda di Fini e l'uscita di Casini dall'alleanza? Non è questo che divide Palazzo Chigi dal Quirinale? La magistratura da una concezione costituzionale che ricorda gli Stati assoluti? Non prendono una lira, può darsi, ma hanno fatto a pezzi la democrazia. Vi pare robetta da poco?

* * *

Bertolaso è un'altra cosa. Nel 2001, poco dopo esser stato insediato da Berlusconi alla guida della Protezione civile, scrive una lettera all'allora ministro dell'Interno, Scajola, e al sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta. Dice così: «Il nostro Dipartimento è diventato dispensatore (assai ricercato) di risorse finanziarie e deroghe normative senza avere la minima capacità di verificare l'utilizzazione delle prime e l'esercizio delle seconde e senza avere alcun filtro utile sulle richieste. L'accavallarsi di situazioni di emergenza ha generato un flusso inarrestabile di ordinanze che a loro volta hanno comportato provvedimenti di assunzione di personale e autorizzazioni di spesa di non agevole controllo».

Era il 4 ottobre del 2001. Sono passati nove anni ma sembra di leggere oggi un discorso di Bersanio di Di Pietro. Che cosa è accaduto? Nonostante le apparenze Bertolaso è un uomo debole ma con una grande immagine di se stesso. Non ha il cinismo di Verdini e di Balducci, dei grandi corruttori. Adora i suoi volontari e ne è adorato. Pensate che qualcuno adori Verdini (tranne gli amici della cricca)? Qualcuno adori Balducci? Bertolaso è un mito tra i suoi, lavora con i suoi, si veste come i suoi.

Vuole essere amato. In questo è l'anima gemella di Berlusconi: vogliono essere amati. Naturalmente senza condizioni. Le critiche li fanno impazzire di rabbia. Le regole sono un impaccio. «Posso star fermo in attesa che il Parlamento decida?» ha scritto Bertolaso pochi giorni fa rispondendo ad una mia domanda. Quindi avanti con i grandi eventi, Unità d'Italia, campionati di nuoto, campionati di ciclismo, celebrazioni di Santi e di Beati, restauro del Donatello eccetera. Insomma Bertolaso non ha addomesticato il potere come sperava nella sua lettera del 2001, ma è la brama di potere che si è impossessata di lui. Quando è franata un'intera montagna sul paese di Maierato in Calabria, Bertolaso era alla Camera e poi a Ballarò per difendersi dalle intercettazioni che lo riguardano. La mattina dopo è volato a Maierato in mezzo ai pompieri che spalavano il fango. Bravo. Meritorio. Lo dico senza alcuna ironia, ma mi pongo una domanda: tra i compiti affidati alla Protezione civile non c'è anche quello importantissimo di prevenire le catastrofi e sanare il disastro idrogeologico del territorio? Il grande meridionalista Giustino Fortunato cent'anni fa definì la Calabria «uno sfasciume pendulo sul mare». Allora non esisteva la Protezione civile, ma oggi c'è. Bertolaso sa benissimo che le montagne e le colline delle Serre nella Valle dell'Angitola sono uno sfasciume pendulo. Che cosa ha fatto per prevenire? Io so che cosa ha fatto: ha distribuito alle Regioni di tutta Italia la mappa idrogeologica del territorio segnalando i punti critici ed ha incoraggiato le Regioni a provvedere. Lui aveva altre cose di cui occuparsi.

Le Regioni senza una lira non hanno fatto nulla. La supplenza toccava a lui che i soldi li ha e le forze a disposizione anche. Ma la prevenzione non è un grande evento, le televisioni non se ne occupano, nessuno ne sa nulla. Intanto lo sfasciume crolla sulle case abusive e sulle strade abusive. Così vanno le cose. * * * La corruzione è aumentata a ritmi pazzeschi. Nonè Tangentopoli? Forse è peggio. Oggi si ruba in proprio ma quelli che rubano sono i protetti del potere e puntellano il potere. Quelli che rubano cadono in tentazione e qui mi sono tornate in mente le pagine dostoevskijane del «Grande Inquisitore», delle quali ho discusso a lungo un mese fa col cardinale Martini riferendone su queste pagine.

Il Grande Inquisitore contesta a Gesù di avere promesso agli uomini il pane celeste mentre essi volevano il pane terreno. Gesù aveva dato agli uomini il libero arbitrio di cui essi avrebbero volentieri fatto a meno ed essi scelsero infatti di farne a meno pur di avere il pane terreno rinunciando ai miraggi del cielo. Gli uomini si allearono con lo spirito della terra, cioè con il demonio, ed anche i successori di Pietro si allearono con lo spirito della terra. Alla fine il mondo diventò pascolo del demonio e delle autorità che per brama di potere avevano sconfessato il messaggio di Gesù. Il Grande Inquisitore decide addirittura che Gesù sia bruciato e così si chiudono quelle terribili pagine.

Non so se Verdini o Letta o Bertolaso o Balducci o quelli che ridevano nel letto mentre L'Aquila crollava, abbiano mai letto i «Fratelli Karamazov». E se, avendoli letti, abbiano sentito muoversi qualche cosa nell'anima, un monito, un rimorso. Se l'hanno sentito, questo sarebbe il momento di seguirne l'impulso. Ma da quello che vedo, temo che siano sordi a questi richiami.

La battaglia di un consigliere comunale ambientalista per difendere un'area destinata al verde e minacciata dall'edificazione di una palazzina. Contro l'amministrazione comunale, con i cittadini che denunciano la «speculazione edilizia». Una partita ancora aperta

Un ex consigliere comunale viene denunciato da un imprenditore immobiliare per aver difeso un terreno soggetto a vincolo fluviale e destinato al verde secondo il piano regolatore ma minacciato dall'edificazione di una palazzina. Il consigliere lotta per anni, limitandosi a far rispettare i principi dell'urbanistica e quanto scritto su documenti ufficiali, che vengono modificati a vantaggio dell'imprenditore proprietario del terreno. Anche i residenti non ci stanno. Ma contro la collettività si schierano l'amministrazione comunale, la Commissione edilizia, la Soprintendenza ai Beni Ambientali, facendo presupporre un caso di speculazione edilizia.

Sembra la trama di un film su problemi politici-ambientali, ma non è altro che l'ennesimo caso italiano di cementificazione galoppante, una malattia del nostro sistema che questa volta ha colpito la cittadinanza di Ponte Abbadesse, a Cesena, sulle rive del torrente Cesuola in via Lanciano.

Davide Fabbri, consigliere comunale dei Verdi dal 1992 al 2008, si ritrova ad essere lo sfortunato protagonista di questa vicenda. «Il mio avvocato mi ha comunicato con stupore che sono stato citato a giudizio per il reato di diffamazione a mezzo stampa - afferma Fabbri - per una vicenda politica legata a una battaglia ambientalista: l'aver denunciato pubblicamente, quando ero consigliere comunale dei Verdi, una potenziale speculazione edilizia». Denunciato, insomma, per un legittimo esercizio del diritto a criticare. E appena dopo essere uscito dall'amministrazione comunale, quindi dopo aver perso la "protezione" istituzionale.

La lottizzazione

Via Lanciano si trova su un appezzamento di terra una volta parte di un podere agricolo, di forma regolare e pianeggiante, dove sorgevano magnolie, abeti, pioppi e delimitato da una siepe. Proprietaria una famiglia di agricoltori. Nel lontano marzo del 1984 , la Società Postelegrafonica presentò un piano particolareggiato di iniziativa privata per la realizzazione di una lottizzazione in prevalenza residenziale. Il piano prevedeva un'area di verde pubblico lungo il torrente Cesuola, affluente del fiume Savio, e un collegamento fra il tessuto residenziale già esistente e quello che sarebbe stato costruito. L'iniziativa faceva parte di un progetto più ampio: collegare le aree verdi e i servizi di quartiere quali la scuola, la palestra, la chiesa evitando l'accesso dalla strada principale soffocata dal traffico di mezzi pesanti.

Un mese dopo però, un potente imprenditore dell'edilizia cesenate, Venanzio Leoni, fondatore della Cel srl - Costruzioni Edili Leoni - acquistò il terreno oggetto di lottizzazione dalla Società del Ponte (la quale società nel frattempo lo aveva rilevato dalla famiglia proprietaria originaria). Per i primi anni questo viene inspiegabilmente lasciato gestire come orto privato. In quel mentre - siamo nel 1985 - il comune di Cesena approva il nuovo piano regolatore generale. Secondo il piano il lotto è da destinarsi ad area verde pubblica e zona di parcheggio.

Il signor Venanzio Leoni non sembra toccato dalla questione. Anzi, nel 1990 inizia a recintare il terreno per trasformarlo in verde privato con tanto di passo carraio su via Lanciano. I residenti vedono così preclusa l'unica via sull'area. Decidono di unirsi e protestare presso gli amministratori pubblici della città. La recinzione viene momentaneamente sospesa. Ma per poco: infatti, trascorsa qualche settimana, la recinzione viene autorizzata e portata a termine davanti al rammarico e allo stupore dei residenti.

Passano otto lunghi anni, ma la popolazione locale non si dimentica del torto subito. Tanto che nel marzo del 1998 il Consiglio di Quartiere Cesuola (il quartiere al quale è stato sottratto l'accesso) torna a rivendicare quel terreno per trasformarlo in ciò che era previsto (e che lo era ancora in quel momento) dal piano regolatore. Dopo varie sollecitazioni, nel 2000 arriva la risposta del Comune, il quale ribadisce che il lotto in questione è da destinarsi ad area verde e parcheggio e in più che si sarebbe dotato di una pista ciclabile.

Un solo voto contrario

Sembra che tutto si sia risolto quando, nel 2001, il signor Venanzio Leoni decide di richiedere a sorpresa l'edificabilità residenziale del lotto destinato a verde pubblico, non ancora acquisito dal comune di Cesena. A questo punto l'approvazione o il respingimento di tale domanda dipende dal consiglio comunale, che valuta il tutto sulla base del parere dell'Ufficio comunale della Programmazione Urbanistica e di una Commissione Speciale sul Prg, composta da diversi consiglieri comunali. Mentre il Settore Programmazione Urbanistica valuta negativamente la richiesta dell'imprenditore, la commissione speciale sul prg, dopo un susseguirsi di esitazioni, accoglie la richiesta senza addurre a spiegazioni plausibili e con un solo voto contrario: quello del consigliere comunale Davide Fabbri. Successivamente il consiglio comunale approverà l'osservazione presentata dall'imprenditore privato, con un unico voto contrario: quello dei Verdi. Viene così accettato un progetto residenziale «a tessuto d'espansione anni '60-'70» con adiacente pista ciclabile - unica parte a salvarsi del precedente piano - con il parere contrario dell'Ufficio Programmazione Urbanistica.

I cittadini sono esterrefatti ma non si danno per vinti: presentano un'opposizione all'assurdo accoglimento direttamente alla Provincia Forlì-Cesena, la quale deve approvare in via definitiva il Prg. La Provincia, dopo aver analizzato le segnalazioni dei cittadini, invita l'Amministrazione Comunale a rivedere quanto deciso.

Ricorsi a go go

Giunti nel 2003, per evitare l'inamovibile posizione del comune di Cesena, non resta altro da fare che affidarsi ad un avvocato: presentare il ricorso al Tar (Tribunale Amministrativo Regionale) di Bologna, e chiedere l'annullamento del cambio di destinazione d'uso del terreno e relativa modifica al Prg; il Consiglio di Quartiere continua a sostenere che il Comune dovrebbe rispettare i progetti precedentemente accordati. Un architetto incaricato dai residenti inoltre ricorda all'amministrazione comunale che finché il Tar non sia giunto a un giudizio conclusivo in merito, non sarebbe possibile rilasciare il permesso a costruire. Passano alcuni mesi e il signor Venanzio Leoni ripresenta la propria istanza per la costruzione dell'edificio plurifamiliare in Via Lanciano. La risposta del Comune è «sì, con prescrizione».

Sembra una battaglia persa: questa volta ci si appella alla tutela ambientale e paesaggistica della zona, ma il Dirigente del Settore Edilizia Privata dichiara l'intervento a regola nonostante esista un risaputo rischio di esondazione del torrente Cesuola. I residenti insistono ancora presso la Soprintendenza ai beni ambientali e culturali di Ravenna perché siano verificati i vincoli fluviali e paesaggistici. Ma la Soprintendenza, ad oggi, non ha ancora risposto.

Finalmente (per il proprietario dell'appezzamento che usa a suo vantaggio il discrezionale silenzio dai piani alti) il Comune concede il permesso di costruire. Siamo nel settembre 2005. I residenti si appellano nuovamente al Tar di Bologna perché impedisca i lavori. La sospensiva presentata dai cittadini è accolta.

Il signor Venanzio Leoni, che vede a rischio i suoi sforzi fatti per vedere issato il suo bel condominio in area di esondazione del fiume, si appella al Consiglio di Stato che, dopo aver chiesto chiarimenti al Comune, elimina la sospensiva e fa ripartire i lavori.

La battaglia di Fabbri

In tutto questo Davide Fabbri, durante il suo mandato consiliare all'opposizione, ha sempre difeso la zona verde, ritenendo del tutto erronea la modifica del Prg e stando dalla parte della cittadinanza, tramite interpellanze al sindaco, volantinaggi e comunicati stampa con il fine di salvaguardare le aree verdi di quartiere e tentare di evitare dannose modifiche al prg, piano che invece di tutelare gli interessi generali e collettivi dei cittadini, in alcuni casi pare invischiato in interessi privatistici lontani dal bene comune.

«Sono stato querelato per il reato di diffamazione a mezzo stampa sei volte - aggiunge l'ex consigliere comunale -. Alla fine, sono sempre stato assolto o prosciolto, poiché ho sempre raccontato fatti inoppugnabili». L'ultima direttamente dall'imprenditore edile Venanzio Leoni «solo per il fatto di aver criticato l'Amministrazione Comunale di Cesena (e non l'imprenditore titolare del permesso a costruire) per aver autorizzato un intervento edilizio a rischio di pesante speculazione, in una area verde di tutela fluviale e paesistica, a rischio di esondazione del torrente Cesuola». L'ultima udienza presso il Tribunale di Cesena, svoltasi l'11 gennaio 2010, si è risolta con un nulla di fatto per «difetto di poteri atti a giudicare la causa» dato che tale procedimento è di competenza di giudici togati e non di giudici onorari. La patata bollente passerà con ogni probabilità al giudice delle udienze preliminari di Forlì in data da decidersi.

Quello di Davide Fabbri è, oltre che dovere di un verde, un diritto da rivendicare per tutti i cittadini: fermare la sfrenata corsa al cemento che i piccoli e grandi comuni cavalcano per fare cassa. Si sa che i soldi al comune ora arrivano in larga parte dagli oneri di urbanizzazione sulle nuove edificazioni mentre in passato la maggiore entrata per i comuni era l'Ici, tolta recentemente dal governo attualmente in carica. E non è un caso se, da quando queste imposte sono state soppresse dall'attuale governo, case e palazzi sono diventate direttamente la moneta corrente fra sindaci e consiglieri che non si distinguono più dagli imprenditori e dai costruttori.

Viaggio nella Calabria del dissesto idrogeologico. Nel paese alle porte di Vibo Valentia la gente ancora non viene fatta rientrare a casa per paura di nuovi smottamenti. Minacciati anche altri centri. «Ci sentiamo abbandonati, il governo pensa solo al Ponte sullo Stretto». La parata di Bertolaso

Acqua e luce li hanno riattaccati, ma la montagna fa ancora paura. Maierato è un paese vuoto, rubato ai suoi abitanti dalle tonnellate di fango e terra che lunedì si sono portate via mezza collina. Oggi il sindaco Sergio Rizzo e il prefetto di Vibo Valentia Luisa Latella incontreranno alla scuola allievi di polizia, dove hanno trovato rifugio, gli abitanti del paese. Se tutto va bene, se i monitoraggi compiuti dai tecnici della Protezione civile avranno dato risultati positivi, è possibile che nei prossimi giorni almeno una parte di loro potrà fare rientro a casa.

«Sì è possibile, ma dobbiamo essere prudenti e non agire di fretta», fredda gli animi Silvio Greco, assessore all'Ambiente delle Regione Calabria. La prudenza è d'obbligo in questo piccolo centro di 2300 abitanti a soli otto chilometri da Vibo. A suggerirla c'è più di un motivo.

«Strani avvallamenti a monte»

A partire dai due bacini d'acqua creati dal fango e che adesso i tecnici dovranno trovare il modo di far defluire prima che, infiltrandosi nel terreno sotto le abitazioni, possa eventualmente provocare nuovi crolli, che questa volta non riguarderebbero, come è avvenuto lunedì, una parte del territorio comunale praticamente priva di case, ma direttamente il centro del paese. Un'operazione di drenaggio che va compiuta anche a monte di Maierato, in modo da evitare che le future piogge possano pesare sulla collina. Ma non è tutto. Sorvolando con un elicottero della forestale l'area interessata dalla frana, i geologi inviati da Greco hanno visto anche dell'altro: «Sembra che ci siano degli avvallamenti strani a monte del paese - spiega l'assessore - Voglio capire di che si tratta prima di decidere che tutto va bene. Per questo non bisogna avere fretta».

Chi di sicuro vuole certezze è Sergio Rizzo, il sindaco di Maierato. Se la frana non ha fatto vittime lo si deve anche a lui e alla prontezza con cui lunedì si è mosso per far sgomberare prima le poche case che si trovavano sotto la collina e subito dopo l'intero paese. O quasi. Ieri durante una perlustrazione per le strade deserte di Maierato, la Digos di Vibo Valentia si è accorta infatti che una donna anziana e suo figlio erano riusciti a sfuggire ai controlli chiudendosi in casa. Una scelta dovuta al fatto che la donna malata avrebbe avuto problemi a curarsi davanti ai suoi concittadini. E' bastata una piccola trattativa e la promessa di una sistemazione adeguata perché tutti e due accettassero di farsi portare via con un'ambulanza.

Le promesse di Bertolaso

Cartine alla mano, Rizzo ha controllato con i tecnici del comune che tutte le possibili zone a rischio venissero individuate. I tecnici della Provincia hanno installato tre rilevatori utili per segnalare eventuali nuovi movimenti del fronte franoso che verranno tenuti d'occhio dai vigili del fiuoco e dai tecnici dell'Arpacal, l'Agenzia regionale per la protezione ambientale. Il tutto in attesa che a Roma si sbrighino a trovare i soldi necessari per mettere in sicurezza l'intero territorio calabrese. Martedì da queste parti si è fatto vedere anche Guido Bertolaso. Il capo della Protezione civile ha sorvolato l'area in elicottero prima di chiudersi in prefettura con il presidente della Regione Agazio Loiero e i tutti i sindaci calabresi. E a loro ha promesso di sbloccare i fondi che aspettano da più di un anno. «Il terremoto dell'Aquila ci ha inghiottito e ha impedito che le promesse fatte venissero mantenute», ha spiegato giustificando la mancata assegnazione dei finanziamenti garantiti per far fronte ai danni provocati dal maltempo nel dicembre 2008 e gennaio febbraio 2009.

Pioggia di soldi sul Ponte

Soldi che, ha promesso Bertolaso, adesso verranno sbloccati in poche settimane. Un discorso che però ha lasciato i sindaci calabresi con l'amaro in bocca. La cifra stanziata, qualche milione di euro per l'intera Regione, basta infatti appena per coprire le urgenze, come spiega sempre Greco che cita uno studio del Cnr secondo cui per mettere in sicurezza l'intero territorio regionale servirebbe un miliardo di euro l'anno per dieci anni. «Capisce che siamo ben lontani dalle reali necessità», dice sconsolato.

Sì perché il dramma calabrese si può riassumere così: mentre il governo pensa al Ponte sullo Stretto (con un tempismo perfetto il ministro Matteoli era qui pochi giorni fa a propagandare l'opera), nel frattempo «la Calabria frana», per usare le parole di Loiero.

Il polso della situazione lo dà Legambiente. A novembre l'associazione ha riassunto in un dossier un monitoraggio compiuto tra i comuni calabresi sul rischio idrogeologico.

Un rischio comune

I risultati fanno paura: tutti i 409 comuni sono stati classificati a rischio geologico dal ministero dell'Ambiente. Di questi 57 sono a rischio frana, 2 a rischio alluvione e 350 a rischio sia di frana che di alluvione. Il che vuol dire abitazioni costruite in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana (lo ha dichiarato l'85% dei comuni), ma anche fabbriche (il 61% dei comuni) interi quartieri edificati in zone a rischio (45% dei comuni) insieme a strutture ricettive turistiche (il 27%). Il dramma di Soverato non sembra davvero aver insegnato niente. «Di fronte a questa situazione si investono 5 miliardi di euro per fare il Ponte sullo Stretto. E' chiaro invece che la prima opera pubblica che va fatta è la messa in sicurezza del territorio», denuncia Franco Saragò, della segreteria regionale di Legambiente.

La programmazione non c'è

«La Calabria paga decenni e decenni di sfruttamento selvaggio del territorio, oltre a una formazione geologica particolarmente delicata», spiega con amarezza Enzo Insardà, il vicesindaco di Vibo Valentia. «Anni in cui questa regione è stata saccheggiata con case costruite abusivamente sugli alvei dei fiumi, senza neanche i collegamenti con le fogne e in questo modo si è contribuito al dissesto idrogeologico». Il risultato è che ogni anno c'è un'emergenza. La stessa Vibo ne paga le conseguenze. Una strada del centro, via Boccioni, è chiusa perché costruita su un costone che sta franando. Per aggiustarla servirebbero 1,5 milioni di euro che non ci sono. Le piogge dei giorni scorsi hanno invece provocato una frana che ha ostruito il fiume sotto la frazione Piscopio, mettendo a rischio il centro abitato. A Triparni, invece, sempre la pioggia ha fatto scendere di un metro sotto il livello stradale la piazzetta che si affaccia sul mare. «Non riusciamo a fare una programmazione definitiva per la messa in sicurezza del territorio e senza lo Stato non lo puoi fare - prosegue Insardà - Il governo non può lasciare le Regioni sole ad affrontare un problema come questo». Con Roma se la prende anche Greco: «La tutela del territorio è di competenza del governo, che invece pensa al Ponte e al nucleare. Ma il governo non può essere strabico e trattare la Sicilia e l'Abruzzo in maniera diversa da tutte le altre Regioni. Noi qui in Calabria siamo stati abbandonati».

Il destino di libertà e diritti appare sempre più dipendente dal filo tenace che li lega a Internet, al mondo digitale e alle novità continue che esso propone, agli interessi che lì si manifestano, ai conflitti di potere che lì assumono dimensioni e senso davvero inediti. Si mescolano tecnologie della libertà e tecnologie del controllo, la frammentazione individualistica si accompagna con la creazione di nuovi legami sociali. La stessa distinzione tra mio e tuo sembra cedere alla condivisione di tutto quel che è accessibile in rete, e mette così in discussione i tradizionali fondamenti di una proprietà che a più d´uno sembra di nuovo un "furto", poiché la conoscenza si presenta come autonoma dal suo autore e assume le sembianze di un bene comune.

In questo mondo nuovo, in cui la meraviglia si mescola all´inquietudine, vacillano i riferimenti consueti e si pongono interrogativi radicali, che riguardano gli assetti complessivi delle nostre società. Quali poteri governano davvero il mondo e quale significato sta assumendo quella entità sbrigativamente definita come «il popolo della rete»? Molti sono i modi di entrare in queste realtà, e vale la pena di segnalarne qualcuno.

La morte della privacy è stata annunciata più volte. «La sola privacy che voi avete è nella vostra testa: e forse nemmeno lì» (così nel film Nemico pubblico, 1998). «Voi avete zero privacy: rassegnatevi» (Scott McNealy, amministratore delegato di Sun Microsystems, 1999). «Può la privacy sopravvivere nell´età del terrore?» (copertina di Business Week, novembre 2001). «La privacy? È una preoccupazione del vecchio mondo» (così, all´unisono, il profeta di Facebook, Marc Zuckerberg, e quello di Twitter, Evan Williams, 2010).

Malgrado questo stillicidio di annunci tanto perentori, la tutela dei dati personali, dunque del nostro «corpo elettronico», viene considerata come un diritto fondamentale della persona dal Trattato di Lisbona e dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, entrati in vigore il 1° dicembre dell´anno scorso. Siamo di fronte ad una logica costituzionale invecchiata, ad un pensiero giuridico che si balocca con illusioni del passato? Guardiamo, allora, ad uno dei fatti più clamorosi degli ultimi tempi, il rifiuto di Google di accettare la censura imposta dal governo cinese, che ha provocato un duro intervento di Hillary Clinton a difesa della libertà di espressione e della privacy di chi naviga su Internet. Così, non soltanto viene smentita la tesi dell´irrilevanza della privacy, ma il rapporto all´interno del cosiddetto G2, tra le due massime potenze, viene incrinato da un conflitto che ha le sue radici in due opposte visioni delle libertà delle persone.

Di colpo, sulla scena del mondo, i diritti fondamentali, sempre sacrificati agli imperativi della geopolitica e delle relazioni economiche, si presentano come un riferimento che non può essere spazzato via dal prevalere del realismo politico o dalle spocchiose dichiarazioni dei tecnologi. E tutto questo avviene non solo per un sussulto di consapevolezza del significato profondo dei diritti, ma per ragioni legate proprio alla specificità di Internet. Hillary Clinton era ben consapevole di che cosa significhi oggi incontrare il popolo della rete, diffuso al di là di ogni confine. A questa opinione pubblica mondiale, gelosa delle opportunità che la tecnologia continuamente le offre, ha presentato gli Stati Uniti come il campione di una libertà non più soltanto «americana» o «occidentale» (e per ciò sempre accompagnata dal sospetto di una pretesa egemonica di una cultura sulle altre), ma che è percepita come universale per il solo fatto che così la vivono ormai due miliardi di persone. Nel tempo della (presunta) fine delle ideologie e del tramonto di ogni grande «narrazione», proprio i diritti fondamentali si palesano come una narrazione capace di rivelare la radice comune della protesta degli studenti iraniani, del rifiuto della censura degli utenti cinesi di Internet, della lotta delle donne africane contro le sopraffazioni.

Ma, con il suo intervento, Hillary Clinton ha messo a nudo anche i reali rapporti di potere che innervano il mondo di oggi. Google non è soltanto una delle strapotenti società multinazionali. È un potere a sé, superiore a quello di un´infinità di stati nazionali, con i quali negozia appunto da potenza a potenza. Per ciò ha bisogno di una legittimazione forte, sostanzialmente politica, che ha ottenuto proprio con il colpo di teatro del conflitto con la Cina, che la presenta al mondo come il campione dei diritti civili nei territori ai quali appartiene il futuro. Ma questa legittimazione forte non può essere lasciata a un soggetto economico, essere «privatizzata». Ecco, allora, che la parola del Segretario di Stato americano suona anche come la rivendicazione pubblica di un ruolo che la politica non può dismettere.

Nella natura di Google, infatti, non vi è soltanto l´elemento libertario che ha giustamente entusiasmato Timothy Garton Ash. Google è anche componente essenziale di quello che è stato giustamente definito «Big Data», con un palese richiamo a quel «Big Farma» con il quale si è voluto descrivere lo strapotere delle società farmaceutiche. Possono questi poteri rimanere del tutto fuori d´ogni controllo?

Questo interrogativo ha sempre inquietato il popolo della rete, che in ogni regola ha per lungo tempo visto un attentato alla sua libertà. Lo aveva proclamato orgogliosamente, nel 1998, la Dichiarazione d´Indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow: «Governi del mondo industriale, stanchi giganti di sangue e acciaio, non avete sovranità sul luogo dove ci riuniamo». Proprio la forza dei fatti ha smentito quella previsione. Sono i governi nazionali che insidiano Internet e la sua libertà, e dunque è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell´opposto, di garanzie costituzionali per le libertà in rete, di un Internet Bill of Rights. Hillary Clinton ha annunciato una iniziativa all´Onu proprio sulla libertà su Internet. Questa libertà, tuttavia, non vale solo contro l´invadenza degli Stati, ma si proietta anche verso i nuovi «signori dell´informazione» che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Di fronte a tutto questo la parola «privacy» evoca non solo un bisogno d´intimità, ma sintetizza le libertà che ci appartengono nel mondo nuovo dove viviamo. E Google ci racconta questa compresenza di opportunità per la libertà e di potere sovrano senza controllo. Non un Giano bifronte, però, ma un intreccio che può essere sciolto solo da una iniziativa «costituzionale» che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione.

In questo processo l´Unione europea può giocare un ruolo rilevante. Perché nella Carta dei diritti fondamentali ha precocemente colto la dimensione della libertà in rete attraverso il riconoscimento della protezione dei dati personali come autonomo diritto fondamentale. Ma soprattutto perché dovrebbe convincersi che può esercitare leadership politica proprio muovendo dal fatto che essa costituisce oggi la regione del mondo dov´è più elevata la garanzia dei diritti fondamentali. Con malinconia, invece, bisogna registrare l´uscita di scena dell´Italia, che pure per prima, quattro anni fa, aveva imboccato la strada ora indicata da Hillary Clinton, firmando documenti comuni con altri Stati e iscrivendo nell´agenda mondiale l´Internet Bill of Rights. Oggi da governo e maggioranza arrivano solo proposte censorie, che ci isolano e ci trascinano verso le logiche dei paesi autoritari.

Deflagra lo scandalo della Protezione civile e Silvio Berlusconi urla ai magistrati "Vergognatevi!" e, in fretta, corre a nascondersi per sette giorni tra le quinte. Si defila. Sta alla larga, muto come un pesce. Ben protetto, attende gli eventi e ora che il fondo "gelatinoso" – familistico, combriccolare, spregiudicato, avidissimo – è in piena luce, il premier avverte il pericolo, come un fiato caldo sul collo. Può scoppiargli tra le mani, quest’affare. Prova a uscire dall’angolo. Rinuncia a trasformare in un soggetto di diritto privato, in una società per azioni, le "funzioni strumentali" della Protezione civile. Abbandona la pretesa di garantire l’impunità amministrativa a chi la governa. Accantona l’idea di imporre al Parlamento un altro voto di fiducia. Si accorge che quei passi indietro non sono sufficienti. Non lo proteggono abbastanza da quel che si scorge nel pozzo nero dove si sono infilati molti dei suoi fedelissimi, addirittura il coordinatore amatissimo del suo partito. Si decide a una proposta che, fiorita sulla sua bocca, appare avventurosa: "Chi sbaglia e commette dei reati non può pretendere di restare in nessun movimento politico" (se non se stesso, quanti del suo inner circle dovrà escludere dal Palazzo?).

L’analisi

Al di là del messaggio promozionale che, vedrete, durerà il tempo della campagna elettorale, il premier si sente interrogato e coinvolto dallo scandalo. Finalmente, perché il modello del trauma e del miracolo, dell’emergenza risolta con un prodigio - non è altro che questo la Protezione civile - è il fondamento della "politica del fare", la strategia che glorifica una leadership politica che ha in Gianni Letta la guida burocratico-amministrativa e in Guido Bertolaso il pilota tecnocratico. Il destino dell’uno è avvinto alla sorte dell’altro, degli altri, come in un indistricato nodo gordiano perché il sistema della Protezione civile è il prototipo del potere che Berlusconi pretende e costruisce. E’ il dispositivo che anche pubblicamente Berlusconi invoca quando dice: "Per governare questo Paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile".

La storia è nota, oramai. Il sovrano decide l’eccezione rimescolando l’emergenza con l’urgenza e infine l’urgenza con l’ordinarietà. Nel "vuoto di diritto", cade ogni regola. Si umilia la legge. Il governo può affermare l’assolutezza del suo comando. Lo affida alla potenza tecnologica della Protezione civile, libera di decidere - al di là di ogni uguaglianza di chances - progetti, contratti, direzione dei lavori, ordini, commesse, consulenze, assunzioni, forniture, controlli. La scena è ancora più vivace se si rileggono le parole del bardo televisivo del premier: "Piaccia o non piaccia, Berlusconi è l’uomo del fare. Sbuffa contro le lentezze di un sistema bicamerale perfetto e si rifugia nei decreti legge. Lamenta gli estenuanti dibattiti parlamentari e propone di far votare solo i capigruppo. Si sente imbrigliato nei vincoli costituzionali che il presidente della Repubblica (e ora anche quello della Camera) gli ricordano. Ma appena arriva un’emergenza rinasce. Perché rinasce? Perché emergenza chiama commissario e il commissario agisce per le vie brevi, saltando le procedure. Guido Bertolaso e Gianni Letta si ammazzano di lavoro, l’uno sul campo, l’altro nelle retrovie di Palazzo Chigi. Ma il commissario ideologico è il Cavaliere. … Quando va a L’Aquila, Berlusconi si siede con gli uomini della Protezione civile e guarda carte, rilievi, progetti. Niente doppie letture parlamentari in commissione e in aula, niente conferenze di servizi, niente rallentamenti burocratici, niente fondi virtuali" (Bruno Vespa, Panorama, settembre 2009).

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Adesso sappiamo che cosa si è mosso e ritualmente si muove dietro l’emergenza, sia essa il G8 alla Maddalena, i rifiuti di Napoli, il terremoto dell’Aquila o i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Berlusconi, "commissario ideologico", laboriosamente chino su "carte, rilievi e progetti" è un’immagine che bisogna ricordare. Racconta una presenza e una responsabilità. Spiega meglio di tante parole perché - ora che quel potere assoluto si scopre corrotto - lo scandalo della Protezione civile è lo scandalo di una leadership politica, il dissesto della "politica del fare", lo smascheramento della materia di cui è fatta, di un metodo, degli uomini che lo interpretano. Nel cerchio infimo della responsabilità troviamo gaglioffi che ridono di tragedie e lutti che presto diventeranno - soltanto per loro - fortuna e ricchezza; funzionari dello Stato che barattano i loro obblighi per i favori di una prostituta; giudici costituzionali in società con imprenditori malfamati; segretari generali di Palazzo Chigi che esigono prebende e benevolenze perché sanno di poterle pretendere (è a Palazzo Chigi, nella stanza di Gianni Letta, che tutto si decide e quindi…); un corteo di mogli, cognati, figli, fratelli - rumoroso e vorace come una nube di cavallette - in cerca di collocazione, incarichi, provvigioni, affari, magari soltanto uno stipendiuccio da incassare senza troppa fatica. Qualche malaccorto minimizza: non è una notizia che politici e amministratori si interessano di appalti. L’argomento dovrebbe chiudere il discorso, lasciare cadere in un canto che quegli appalti interessavano soltanto alcuni, sempre gli stessi, e non il mercato, non i migliori, non la pubblica utilità; far dimenticare che dove non ci sono regole, dove non soffia l’aria fresca dell’attenzione e della critica pubblica è inevitabile che "cresca come un fungo una corruzione senza colpa".

Una corruzione senza colpa è quel che si scorge a occhio nudo nello scandalo della "politica del fare", al di là di ogni indagine giudiziaria, come se le condotte di quegli uomini di Stato e civil servant e professionisti e imprenditori fossero necessitate, come se le loro azioni fossero, più che una libera decisione, "un adempiere, un ‘riempire’ tasselli già pronti". Costretti in un "sistema", come può esservi responsabilità e castigo? In qualche modo, è vero perché "di rado un individuo si rende colpevole da solo", ha scritto Joseph De Maistre.

Le ragioni di quelle responsabilità devono essere rintracciate in un cerchio più alto, allora, nella triarchìa (Berlusconi, Letta, Bertolaso) che ha voluto e creato un metodo, ne ha amministrato le condizioni e i risultati, ha lasciato un salvacondotto a quei comportamenti storti. E’ per questo che oggi Bertolaso e Letta devono mentire o dissimulare (non sapevamo, non siamo stati informati, siamo stati informati male) e Berlusconi deve lamentare che i suoi due collaboratori "sono stati ingannati". Bene. Ammettiamo che siano stati imbrogliati davvero e chiediamoci: Bertolaso e Letta hanno avuto la possibilità di non lasciarsi ingannare? Sono stati messi nella condizione di sapere e provvedere? Non dallo zibaldone delle intercettazioni, ma dalle stesse parole di Bertolaso si può trarre la conferma di una consapevolezza delle manovre smorte e della necessità di non punire per salvaguardare il "sistema".

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Dice Bertolaso: "A un certo punto, ho scoperto che alla Maddalena dei lavori, che avevamo previsto costassero 300 milioni di euro, stavano per essere appaltati a 600. Incaricato della pratica era un certo De Santis. Io ho capito che qualcosa non tornava. Ho allontanato De Santis" (il Giornale, 14 febbraio).

Dunque, salta fuori che l’ingegnere Fabio De Santis, "soggetto attuatore" dei progetti del G8 - Bertolaso finge di non sapere chi è, anche se lo ha scelto direttamente - potrebbe essere disonesto. Lo sostituisce. Non segnala a nessuno il suo sospetto o le sue certezze nemmeno quando Fabio De Santis, pur privo delle qualifiche idonee (non è un direttore generale), è nominato provveditore alle opere pubbliche in Toscana e Umbria, dove diventerà il perno di un "sottosistema" che ha il cardine politico nel coordinatore del Partito delle Libertà, Denis Verdini, e l’asse imprenditoriale in Riccardo Fusi della Baldassini-Tognozzi-Pontello. A livello locale, si riproduce un triangolo speculare e simmetrico a quel che governa lassù in alto, a Roma. Bertolaso sa di non poter denunciare quel "certo De Santis" perché il sistema che sostiene la strategia dell’emergenza e il "fare" è oligarchico, protetto, "chiuso". Egli ne è parte costituente e perno essenziale. Sa del familismo di un altro "soggetto attuatore", Angelo Balducci, ma come denunciarlo se egli stesso, il gran capo della Protezione civile, il leader tecnocratico del "fare" berlusconiano, chiama al lavoro, dovunque operi, il cognato? Bertolaso sa dove si trova, sa qual è il suo mestiere e la sua parte in commedia, è consapevole di quali fili che non deve toccare, delle richieste che deve soddisfare.

Ancora un esempio, per comprendere meglio. E’ tratto non dai brogliacci dei carabinieri, ma dal lavoro giornalistico. Si sa chi è Gianpaolo Tarantini. E’il ruffiano che ingaggia prostitute per addolcire le notti di Silvio Berlusconi. Si sa che Tarantini vuole lucrare da quella attività affari e ricchezza. Chiede al capo di governo di incontrare Bertolaso. Gli vuole presentare un suo socio o protetto, Enrico Intini, desideroso di entrare nella short list della Protezione civile. Berlusconi organizza il contatto. Bertolaso discute con Intini e Tarantini. Quando la storia diventa pubblica, Bertolaso dirà: "La Protezione civile non ha mai ordinato né a Intini né a Tarantini l’acquisto di una matita, di un cerotto o di un estintore". E’ accaduto, per Intini, di meglio. Peccato che Bertolaso non abbia mai avuto l’occasione di ricordarlo. L’impresa di Intini ha vinto "la gara per il nuovo Palazzo del cinema di Venezia, messa a punto dal Dipartimento guidato da Angelo Balducci, appalto da 61,3 milioni di euro". Scrive il Sole 24 ore: "La gara ha superato indenne i ricorsi delle imprese escluse e dell’Oice (organizzazioni di ingegneria) in virtù delle deroghe previste per la Protezione civile". Anche per Tarantini non è andata male. Ha una società che naviga in cattive acque, la "Tecno Hospital". La rileva "Myrmex" di Gian Luca Calvi, fratello di Gian Michele Calvi, direttore del progetto C.A.S.E., la ricostruzione all’Aquila di 183 edifici, 4.600 appartamenti per 17mila persone con appalti per 695 milioni di euro. Come si vede, forse il ruffiano di Berlusconi e il suo amico non hanno venduto alla Protezione civile una matita, ma la Protezione civile, direttamente o indirettamente, qualche beneficio a quei due glielo ha assicurato.

* * *

Shakespeare ha scritto che per un governante "lasciare al misfatto (evil) un qualche compiacente lasciapassare - invece di colpirlo - è l’equivalente di averlo ordinato" (Misura per misura). E’ quel che si vede nello scandalo della "politica del fare". Chi governa, vede e sa. Lascia correre, chiude gli occhi e si volta dall’altra parte per proteggere un "sistema" che privatizza l’intervento dello Stato, chiudendolo nel cerchio stretto delle famiglie, degli amici politici, dei compari di convivio. Non si discute di responsabilità penali (se ci saranno, si vedrà, e poi quasi mai per capire e giudicare bisogna attendere una sentenza). E’ in discussione un "sistema", un dispositivo di potere, chi lo ha creato, l’affidabilità di chi lo governa, la responsabilità di decisione e controllo che Berlusconi, Letta e Bertolaso si sono assunti dinanzi al Paese.

Gianni Letta, governatore della macchina burocratico-amministrativa in nome di Berlusconi, sarà anche stato distratto quando Angelo Balducci è asceso alla Presidenza del Consiglio superiore dei lavori pubblici (ora è in galera) o quando quel "certo De Santis" è stato destinato alle opere pubbliche della Toscana e dell’Umbria. Il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, candidato dal presidente del consiglio alla Presidenza della Repubblica, sarà stato anche "informato male" quando ha detto che non ha mai lavorato in Abruzzo (ci ha lavorato fin dalla prima ora), quel furfante che rideva mentre, alle 3,32 del 6 aprile del 2009, 308 aquilani morivano, 1.600 erano feriti e 63.415 restavano senza casa, ma ci si deve chiedere allora: quante volte Gianni Letta è stato "informato male" o è stato distratto negli anni dello "stato d’eccezione"? Lasciamo cadere ogni ipotesi di complicità o favore (e in alcuni casi è impossibile non scorgerla), come si possono conciliare i poteri assoluti della triarchìa con l’irresponsabilità con cui ha assolto al suo dovere? Né vale dire che all’Aquila i poteri straordinari della Protezione civile si sono rilevati efficienti. Come purtroppo si rendono conto gli aquilani, la "politica del fare", giorno dopo giorno, sta mostrando quel che era: miracolismo mediatico. Un modello centralista e autoritario - il prototipo del potere berlusconiano - ha trasformato un’antica città con un sistema urbano delicato e un centro storico prezioso e vitale (perderà due terzi degli abitanti e nulla si sa delle strategie e dei piani per farlo rivivere) in un deserto di venti periferie e quartieri satellite che travolgono i luoghi, la memoria, i legami sociali, deformandone l’identità culturale, pregiudicando un futuro a cui è stata promessa "la ricostruzione" e ha ottenuto soltanto un progetto edilizio e nulla più. Ma questa è un’altra storia che presto saranno gli stessi aquilani a raccontare. C’è da credere che saranno loro, gli aquilani, a spiegare agli italiani con il tempo e la loro infelice esperienza che cos’è davvero la "politica del fare", perché lo scandalo della Protezione civile è il tracollo di un prototipo di potere, il più clamoroso fallimento dell’"uomo del fare".

SEMBRA che la percezione che gli italiani stanno sviluppando della corruzione esistente nel proprio Paese abbia raggiunto un'intensità mai prima toccata. Ed è l'irrimediabile buio di questa cupa autorappresentazione, quello che più colpisce nel rapporto del Procuratore Generale presso la Corte dei conti, ancor più delle cifre allarmanti da lui squadernate, che vedono la corruzione crescere del 229%.

Una nazione in via di dissolvimento morale, ormai in balia di una disastrosa deriva di comportamenti: questo dunque saremmo, veramente. Dobbiamo saper guardare negli occhi il pericolo che abbiamo di fronte. Se questa immagine fosse realistica - e molto lascia pensare purtroppo che lo sia - staremmo correndo, tutti, un incalcolabile rischio: la completa decomposizione del nostro tessuto civile.

Entro certi limiti, corruzione e democrazia possono coesistere: la storia ha moltiplicato di continuo esempi di questa precaria convivenza, dall'Atene o dalla Roma classiche all'America contemporanea. Le condizioni perché questo accada sono due, fra loro legate: una misura nella diffusione del male, e gli anticorpi che la sua presenza riesce ad attivare. In altri termini, che essa non arrivi a provocare, superata una soglia, l'abdicazione etica di un'intera società, quel generale oscuramento delle coscienze per cui la quantità di illegalismo circolante trasforma la qualità del giudizio morale su di esso, presentandolo come regola universale di condotta. Se si verifica questa sorta di collasso generale,è la stessa democraziaa non reggere più: perché non esistono più interesse generale né bene comune - ma solo una somma feroce di arbitri individuali che non riconosce altro se non la sua immed iata soddisfazione. Siamo a questo punto? E qual è la causa di tutto ciò? E soprattutto, possiamo ancora porvi rimedio? Per cercare di capire dobbiamo rinunciare a qualunque retorica moralistica. La storia etica del Paese è quella che è: mentre altri, in Europa, costruivano lo Stato, noi abbiamo avuto la Controriforma, e questo ha provocato conseguenze che scontiamo ancora oggi. Ma dobbiamo tuttavia evitare di usare il nostro passato come un alibi: e di rifugiarci dietro i t ratti più fragili e incompiuti della nostra slabbrata modernità per assolverci dalle nostre colpe. C'è dell'altro nella notte in cui stiamo scivolando, e di molto più recente - su cui si può intervenire. E questo "altro" ci riporta alla politica.

A me pare infatti che la crisi morale del Paese sia in primo luogo il frutto avvelenato della forma che ha assunto quella che ormai abbiamo convenuto di chiamare la "transizione italiana" - il quindicennio di trasformazioni sul quale ha messo il suo sigillo la leadership di Silvio Berlusconi.

In questi anni abbiamo assistito senza fiatare a una vera e propria orgia ideologica di antipolitica, in nome dell'efficienza, della deregolazione e dell'onnipotenza del mercato, che ha contribuito in modo determinante a recidere quei rapporti fra cultura e politica, fra politica e idee, e anche fra politica ed etica, che, bene o male, avevano alimentato per decenni la nostra vita pubblica, e avevano rappresentato il meglio della nostra storia repubblicana. Con la scusa di liberarci delle ideologie, abbiamo anche rinunciato ai pensieri, ai progetti, ai grandi disegni. E abbiamo ridotto così la funzione parlamentare e quella di governo a pure routine di potere, senza respiro, senza slancio morale, senza ricambio, senza più uno straccio di elaborazione intellettuale.

Ma una politica così rinsecchita - solo mestiere e potere - in un paese con le nostre storiche fragilità, privo di un'autentica eredità di etica pubblica, si offre disarmata alla corruzione, quando non addirittura la determina, in un gioco perverso di rimandi. E comunque non ha gli strumenti per combatterla, non suscita anticorpi, ma si rassegna, scambiando la resa per realismo. Senza dubbio, questo stato di cose non è solo l'esito del berlusconismo: ingigantiremmo l'ombra dell'avversario, se lo ritenessimo. Hanno pesato molti elementi nella caduta, anche ereditati dall'ultima stagione dell'epoca democristiana, e anche non specificamente italiani. L'onda ultraliberista dell'ultimo ventennio ha ridotto dovunque spazie motivazioni dell'agire politico. Ma la nostra transizione vi ha aggiunto un che di protervo, di arrogante e insieme di meschino; starei per dire: di volgare, cheè proprio l'aria del tempo.

È dunque dalla politica e dalla sua riforma che bisogna partire: questa è la più urgente delle scadenze, e anche la destra farebbe bene a capirlo. L'inevitabile gioco di specchi fra politica e società - a lungo andare, ogni corpo sociale ha la politica che si merita - può essere spezzato qualche volta: e può aprirsi una nuova stagione.

Io credo che una rinascita morale del Paese sia ancora possibile - non un'Italia improvvisamente di anime belle, ma un'Italia che riesca a capire che senza un salto di qualità nei suoi comportamenti individuali e collettivi siamo tutti perduti; non un'Italia "migliore", ma almeno più sicura e matura.

Credo però che senza una rigenerazione della politica, senza restituirle la sua vocazione propriamente moderna - che è quella di cambiare il mondo - non potremo mai farcela. Ed è intorno a questo nodo, che si apre per la sinistra un territorio sconfinato. La cosiddetta questione morale è oggi, per prima cosa, una questione di politica: i suoi contenuti ideali, il suo stile, il suo immedesimarsi nella democrazia. È da qui che si deve partire.

I poteri assoluti hanno sempre prodotto effetti contrari a quelli promessi o desiderati. Sono falliti e falliscono per una ragione endogena, connaturata cioè alla loro stessa natura: la centralizzazione delle decisioni e delle responsabilità in una persona si traduce invariabilmente nell’impossibilità di prendere buone decisioni e, soprattutto, decisioni oneste.

Perché il piú onesto ed efficiente dei capi non può sopperire a un limite umano: l’impossibilità di sapere, prevedere e comprendere tutto e quindi prendere decisioni su uomini e cose che siano sagge. Questo nel migliore dei casi; nel caso appunto che le cattive decisioni siano l’esito di un errore non intenzionale da parte di chi tiene in mano la catena del comando e non può umanamente controllare che tutti gli anelli siano integri. Non è necessario che ci sia intenzione malevola. Questo dimostra il vulnus insito nell’idea che la celerità di decisione richieda centralizzazione e potere discrezionale assoluto, o al di sopra della legge.

Il liberalismo e il costituzionalismo sono nati non a caso nella fucina della critica dei poteri assoluti che incrostavano la società e lo stato dell’antico regime. E il perno della loro critica, vincente è stato proprio questo: le decisioni su questioni complesse come quelle pubbliche hanno la possibilità di essere migliori quando sono prese da un gruppo più o meno ampio, un collettivo, secondo regole che tutti conoscono e che, soprattutto, demandano ad altri il controllo e il monitoraggio. I controllori non possono essere anche autori. La risposta più radicale alle forme monocratiche di decisione è stata appunto la divisione dei poteri e delle funzioni. Se la gerarchia delle responsabilità serve a creare un team che opera celermente e bene è tuttavia su un sistema di controllo autonomo che riposa la possibilità di contare su buone decisioni. Questa vecchia regola è sempre nuova, e vale anche per la governance della Protezione civile o per qualunque organismo decisionale che si avvale di competenze diverse e soprattutto usa risorse pubbliche. Su questa base, assai semplice e intuitiva, si regge la possibilità di portare a termine decisioni che siano dettate da efficienza, competenza e trasparenza. La velocizzazione e l’efficienza delle decisioni non ha proprio nulla a che fare con le scorciatoie; mentre la trasparenza è una componente dell’efficienza e della competenza.

In questi anni di propaganda dell’emergenza si è fatto credere (chi ci governa ci ha fatto credere) che la politica sia la causa delle lentezze e della corruzione. Ma la politica dell’anti-politica ha generato una sottocultura dell’efficienza fittizia, quella fasulla celerità che pare venire naturalmente quando le regole e la giustizia sono aggirate. La politica dell’anti-politica si è tradotta nel mettere in moto un sistema arbitrario di decisori assoluti, un collage di zone d’ombra dove i radar della legge sono ciechi. Così sono nate agenzie cesaristiche e opere faraoniche. Così si è radicato l’aziendalismo nelle politiche pubbliche, un «fare» che fa capo non alla legge e alle regole ma a un uomo politico-imprenditore e ai suoi uomini di fiducia.

Questa è la logica cesaristica del «fare», la propaganda dell’emergenza finalizzata a creare zone franche dove a decidere del lecito e dell’illecito è la discrezione del facitore. Ma è più di questo, poiché per mantenere zone franche è necessario che si interrompa l’informazione e la partecipazione, che si blocchi la democrazia. Nel libro Potere assoluto. La protezione civile al tempo di Bertolaso, Manuele Bonaccorsi descrive così la vita nei campi post-terremoto all’Aquila: «I campi sono diventati subito campi militari, dove era impedito ai cittadini di riunirsi e discutere,» e questo per consentire di tenere tutto rigorosamente segreto, fuori dell’occhio del pubblico. La logica dell’emergenza non può che essere antidemocratica perché antipolitica: l’esito, come vediamo in questi giorni, non è efficienza ma spreco e malaffare.

Cinzia Gubbini, I soldi sprecati per l'Italia che frana

Antonello Mangano, Gli svincoli per il Ponte? Nel paese venuto giù

Giorgio Salvetti intervista Domenico Patané, «Ci vuole un piano di lungo termine per risanare un territorio violato»

Vibo Valentia: La frana sgombera Maierato



I soldi sprecati per l'Italia che frana

di Cinzia Gubbini

Negli ultimi cinquanta anni in Italia sono stati spesi miliardi per «interventi di urgenza» sul dissesto idrogeologico. Ma il rischio non è diminuito. Anzi. È aumentato

Risorse sprecate. Soldi spesi male. Tanti soldi. Il tutto sulla scorta di un concetto che non semina solo tangenti ma anche mala gestione: l'emergenza. E' questa la storia del rischio idrogeologico in Italia, e delle sue vittime (in media 7 morti al mese negli ultimi cinquanta anni). Che l'Italia sai un paese fragile, malato di frane, con il 68,6% dei Comuni che ricade in aree classificate «ad alto rischio» dal ministero dell'Ambiente lo sanno anche i muri. Il 2 febbraio il parlamento ha approvato quasi all'unanimità una mozione che impegna il governo a predisporre piani di intervento. Ieri uno degli enti che vigila sulla tutela ambientale, l'Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni, ha presentato un piano pluriennale che consentirebbe il consolidamento dei suoli, la regolazione delle acque, la manutenzione di tutti i canali: azioni necessarie per ridurre il rischio idraulico del paese. L'Anbi ha fatto i conti, elencando anche quali sarebbero i cantieri da aprire in ciascuna regione. Un intervento di questo tipo costerebbe poco più di 4 miliardi di euro. Tanti? Dal '94 al 2004 - ultimi dati disponibili - lo Stato ha speso 21 miliardi di euro per tamponare i danni delle catastrofi idrogeologiche verificatesi in quel decennio.

Secondo i calcoli del ministero dell'Ambiente, per mettere in sicurezza il territorio italiano servirebbero 44 miliardi. Sarebbe il nord a «succhiare» più risorse: nel settentrione ne servono infatti 27, al sud 13 e per il recupero delle coste 3. Troppi soldi? non abbiamo risorse sufficienti? Il ministro dell'economia Tremonti tiene stretti i cordoni della borsa? Non è così. I soldi si tagliano agli enti territoriali, mancano quelli destinati alla pianificazione, ma poi si buttano dalla finestra quando scoppiano le emergenze: dal '56 al 2000 - secondo un Dossier di Legambiente sul dopo Sarno - si sono spesi 48,2 miliardi. «Analizzando i costi - scrive l'associazione ambientalista - è evidente come all'aumentare delle spese in interventi ordinari per l'assetto idraulico vi è una contemporanea crescita delle spese in interventi straordinari per alluvioni». Che significa? Che gli interventi spesso vengono fatti male «un vecchio modo di agire che ha privilegiato gli interessi economici, sacrificando ad essi la tutela ecologica e la sicurezza idraulica». Una mala gestione che continua. Dopo la cosiddetta legge Sarno del '98, sono stati finanziati (i dati risalgono al 2007) 2.270 interventi urgenti per la riduzione del rischio idrogeologico. Il tutto è costato 1,7 miliardi di euro. Ma si è trattato perlopiù di interventi strutturali, che spesso e volentieri servono a ricostruire nei territori devastati da qualche frana, qualche alluvione e qualche smottamento. Del tutto - o quasi - assente, invece, la politica di prevenzione. Finisce così che o sull'onda dell'emergenza, o in base a conflitti di competenze, o per privilegiare interventi di cementificazione invece di abbracciare una politica del territorio volta a difendere la naturalità dei corsi dei fiumi e dei torrenti, si mettono in piedi delle opere dannose e costose. Gli esempi non mancano. In Piemonte ci sono delle «chicche». Una riguarda la Val Pellice: a Luserna San Giovanni qualche anno fa si accorsero di aver fatto male nel 2000 una scogliera (mancavano le fondamenta) e per questo l'intervento fu rifatto da capo bruciando un milione e mezzo di euro. Nel 2006 il torrente Maira, affluente sinistro del fiume Po, è stato invece canalizzato: con le cosiddette «gabbionate» e «prismate» (in una parola: cemento) sono stati sostituiti gli argini naturali. L'opera è stata messa in campo per l'emergenza esondazione. Ma il Maira non è a rischio esondazione, ha denunciato all'epoca Legambiente, secondo cui anzi l'intervento ha «ucciso» un ecosistema il cui valore è difficilmente stimabile. La cementificazione, invece, un costo ce l'ha, elevatissimo: 5 milioni di euro solo il primo stralcio. Soldi stanziati dal governo con un decreto d'emergenza e versati attraverso l'intervento della Protezione civile «La Protezione civile va benissimo quando si tratta di intervenire sull'emergenza, per salvare persone e cose o per prevenire nel momento di allerta - osserva Vanda Bonardo presidente di Legambiente Piemonte e Valle d'Aosta - Ma da sempre sosteniamo che non può e non deve occuparsi di politiche di intervento del territorio. Lì serve una pianificazione e per farla ci sono gli enti preposti, come le autorità di bacino».

GRANDI OPERE I cantieri a Giampilieri

Gli svincoli per il Ponte? Nel paese venuto giù

di Antonello Mangano

Proviamo a dirlo in romanesco: si sono allargati». Piero Ciucci commenta così il lungo elenco delle opere compensative presentato dal comune di Messina, molte di più rispetto alla previsione iniziale. Altro che messa in sicurezza del territorio. Nel frattempo, la vicenda di San Fratello - paese sui Nebrodi evacuato in fretta per un movimento franoso lungo un chilometro - ha riproposto l'urgenza del riassetto idrogeologico. La lunghissima lista dei lavori previsti per la città dello Stretto - perlopiù inutili - aggraverà il dissesto, non solo nella zona nord, in cui è previsto il cantiere principale, ma anche nel cuore della città con le opere ferroviarie e persino nella parte meridionale - quella che ancora piange i 37 morti dell'alluvione - dove è prevista la realizzazione di due nuovi svincoli autostradali.

L'annuncio arriva direttamente dall'amministratore delegato della «Stretto di Messina», durante il convegno «Il progetto - L'organizzazione - I lavori». Ma il progetto del Ponte è ancora quello provvisorio, invece l'unica certezza sono le opere collaterali, che inizieranno a breve. L'apertura al traffico è stata annunciata per il primo gennaio 2017. Al sindaco Giuseppe Buzzanca non piace la definizione «opere compensative». «Sono opere collegate», proclama. «Noi non vogliamo essere ricompensati di nulla». Ma come può essere connesso al Ponte il nuovo svincolo di Giampilieri? Si trova a 34 chilometri dal futuro pilone ma a poca distanza da una ulteriore uscita prevista, quella di Santo Stefano.

Nuovi interventi, dunque, proprio nella zona teatro della terribile alluvione del primo ottobre 2009. E la messa in sicurezza del territorio, richiesta a gran voce dalla Rete No Ponte e a parole promessa da tutti? «I fondi o servono per la costruzione del Ponte o non verranno, nessun privato investirà per la messa in sicurezza del territorio», dice Buzzanca, giocando per l'ennesima volta con l'equivoco del finanziamento privato dell'infrastruttura. In realtà, oggi i milioni sul tavolo sono interamente statali. E l'Anas è il soggetto che gestisce e controlla tutto.

Un delirio di strade accompagnerà il progetto principale: si inizia col raddoppio della tangenziale (da Tremestieri all'Annunziata, fino a Ganzirri, dove sorgerà l'ultimo casello prima del Ponte). Poi una serie di opere stradali (raccordo e nuova Panoramica) proprio alla punta della Sicilia, che incidentalmente è anche un'area naturalistica di interesse europeo. Curiosamente, nell'elenco è stato inserito anche lo svincolo di Giostra (lavori avviati nel 1997, fine prevista nel 2011, costo 77 milioni): come se l'avvio di un'opera straordinaria debba servire a realizzare l'ordinario. A questo si aggiunge tutta una serie di varianti e la "via del mare", la strada da 65 milioni che dovrebbe trasformare un maxi-imbarcadero in una città con vista sul mare, l'ormai famigerato waterfront.

Le nuove strade saranno costruite per i mezzi di cantiere e non per l'aumento del traffico che non ci sarà. «Traffico, polvere, rumore, vibrazioni: è questo che darà il maggiore impatto ambientale», ammette il responsabile di Impregilo a proposito dello smaltimento di 21 milioni di metri cubi di materiale di risulta. E' stato pure previsto un sistema parallelo di chiatte per lo spostamento via mare, o di vagoni ferroviari.

Alcune opere sono collegate, altre mitigatrici, ma almeno una è alternativa: la metropolitana del mare tra le due sponde, con relative fermate, pontili ed opere a terra. Una volta entrata in funzione, renderà ancora meno attraente per i pendolari il lunghissimo percorso che dal centro di Messina porta all'estremità nord e quindi ridiscende verso Reggio Calabria. Poi la nuova stazione ferroviaria, prevista nella zona di Gazzi. E una contorta nota di ottimismo: «La realizzazione di tutte le opere ferroviarie connesse in modo tale da consentire il passaggio dei treni ad alta velocità».

Il completamento della copertura del torrente Papardo - 15 milioni di euro - apre la lunga lista delle opere compensative. Seguono la «pianificazione dell'Area Integrata dello Stretto» (5 milioni di euro), il «Piano Particolareggiato Porto-Tremestieri» (32,5 milioni di euro), «Aree attrezzate di Protezione Civile» (2,5 milioni di euro). Si chiude con le iniziative che strizzano l'occhio agli ambientalisti: interventi di «salvaguardia ambientale e sanitaria della Riserva di Capo Peloro e opere finalizzate alla valorizzazione turistica del territorio e dei flussi migratori» (80,7 milioni di euro). Ma allo stesso tempo nuove strade, cantieri e materiali di risulta impatteranno soprattutto questa zona. La soluzione? «La rinaturalizzazione e ripascimento dei litorali attraverso il riutilizzo dei materiali di scavo, previa caratterizzazione degli stessi». Per un costo di 11,8 milioni. Persino la delibera del consiglio comunale avverte: «Appare opportuno inserire tra gli oneri a carico del contraente la verifica di idoneità geotecnica ed ambientale dei materiali di scavo da utilizzarsi per le suddette opere».

Tra le poche certezze, al solito, ci sono le richieste del comune di Messina. Assunzione di nuovi vigili urbani e pompieri. Il restauro di monumenti ed edifici storici, il restyling di vie e passeggiate cittadine, l'ammodernamento delle strutture alberghiere esistenti e la costruzione di nuove strutture ricettive. «Adesso dobbiamo genufletterci per avere quello che ci spetta, come fosse una prebenda», si lamenta Buzzanca chiudendo il suo intervento. «Potremo camminare con le nostre gambe». In futuro, forse. Oggi sono tutti col cappello in mano. Anche a costo di rischiare ancora una volta di essere sommersi dal fango.

INTERVISTA - Non si può più agire solo per far fronte alle emergenze

«Ci vuole un piano di lungo termine per risanare un territorio violato»

Giorgio Salvetti intervistaDomenico Patané, dell'Istituto di geofisica e vulcanologia di Catania

«Una volta che il danno è fatto è difficile tornare indietro». Il concetto è semplice ma non banale. E ad esprimerlo è un esperto. Domenico Patané dirige la sezione catanese dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. E' stato chiamato dal dipartimento siciliano della protezione civile per fare un sopralluogo a San Fratello.

Perché il suo istituto è chiamato ad occuparsi di frane?

Abbiamo le tecnologie e le conoscenze per studiare la deformazione del suolo, dai satelliti ai sistemi terresti, anche se il nostro lavoro è più mirato a controllare fenomeni sismici e vulcanici.

Che cosa ha visto sul luogo della frana?

Quello che è successo a San Fratello e che sta avvenendo in Calabria potrebbe accadere in qualsiasi altra regione. Siamo un paese prevalentemente collinoso o montuoso, le frane sono un fenomeno naturale e il cui rischio aumenta in caso di precipitazioni.

Esiste una mappatura nazionale del territorio secondo cui un comune su cinque è a rischio di frane, possibile che non si possano prevedere?

Certo che si può fare prevenzione. Il punto è che questo non avviene. Si preferisce operare giorno per giorno, emergenza dopo emergenza. Vale per le frane come per i terremoti. E questo è ancora più grave in un paese come il nostro ad alta densità di popolazione e di costruzioni, che già hanno devastato il territorio.

Si riferisce all'abusivismo?

Sì, ma non solo. Spesso troviamo edifici che sono stati approvati da comuni e autorità e che però sono stati costruiti in luoghi inadatti. A Zampillieri, ad esempio, c'erano case costruite in una fiumana. Quante case vengono costruite su pendii argillosi che possono franare in ogni momento? Nel sud Italia è pieno di paesini che sorgono sopra colline. Sono tutti a rischio. I centri storici sono vecchi e richiederebbero interventi per metterli in sicurezza mentre le nuove costruzioni troppo spesso sorgono là dove non si deve. La mappatura c'è. Ora ci vuole un piano di intervento di medio e lungo periodo. Sarebbe opportuno da tutti i punti di vista, anche quello economico, perché agire nell'emergenza è sempre molto più costoso, si parla tanto di grandi opere, questo tipo di intervento darebbe lavoro e sarebbe davvero un investimento, anche se non dà la pubblicità che può dare la costruzione di un ponte o di una nuova strada..

Agire per tempo non è un compito anche della protezione civile?

Certo. La protezione civile dovrebbe coordinare l'attuazione dei piani di prevenzione per la tutela dei cittadini e del territorio.

Ma non sempre lo fa?

Questo non lo so... lo dice lei.

E che si fa degli edifici che sono già sorti in luoghi pericolosi, li si butta giù?

Là dove il danno è fatto è difficile tornare indietro, questo è un paese dove si è lasciato che 2 milioni di persone abitino sotto il Vesuvio. Risanare a questo punto non è certo facile. Ma è necessario.

VIBO VALENTIA

La frana sgombera Maierato

Strade deserte, porte e finestre della case sprangate e negozi chiusi. Dall'una di ieri pomeriggio Maierato è un paese fantasma, costretto a chiudere i battenti per paura che la frana che per due giorni si è mangiata la collina finisse per travolgere tutto e tutti definitivamente. Ieri, dopo l'ennesimo sopralluogo compiuto con il prefetto di Vibo Valentia Luisa Latella, la protezione civile e l'assessore regionale all'ambiente Sergio Greco, il sindaco Sergio Rizzo ha deciso per precauzione di evacuare i 2.000 abitanti del paese. «Anche se non esistono pericoli imminenti la situazione è catastrofica», spiega. «L'evacuazione è stata necessaria anche perché manca l'acqua potabile, non c'è gas e siamo senza elettricità. Il paese è chiuso e controllato da polizia, carabinieri, vigili del fuoco e guardia di finanza che fanno i turni per controllare che non ci siano episodi di sciacallaggio». Per la notte sono arrivati a presidiare le strade anche i soldati dei Cacciatori di Calabria. 500 abitanti sono stati alloggiati nel palazzetto dello sport e nella scuola di polizia di Vibo Valentia.

«RUBO dunque sono». Solo Cartesio forse riescea spiegare l'epidemia ladrona che imperversa nel Paese. L'altro giorno un quotidiano ha fatto l'elenco delle malversazioni compiute da politici e affaristi nell'ultimo mese.

Occupava mezza pagina. Siamo tornati a «Mani pulite», al complotto dei giudici comunisti per affossare Bettino Craxi, l'uomo della Milano da bere? Diciotto anni fa andai al palazzo di giustizia di Milano per sapere cosa ne pensasse il procuratore Francesco Saverio Borrelli. L'ufficio del procuratore era immenso, perché nella burocrazia italiana il grado elevato si misura a metri quadrati di tavolo e a metri cubi di stanza. Trovai un signore piccolo di statura ma con la schiena dritta, uno che senza alzare la voce mi spiegava il perché di Mani pulite, allora e non prima. «Vede, i segni della corruzione dilagante c'erano, alcune aziende erano fallite sotto il peso delle tangenti, delle "dazioni", come le chiamavano.

E c'era stata la "Duomo connection" che rivelava la complicità fra la politica e l'affarismo. Eppure abbiamo aspettato a intervenire perché le voci, gli indizi, le indagini, le intercettazioni telefoniche devono comporsi, assumere una chiarezza inequivocabile. Deve cioè accendersi la luce dell'evidenza e dell'intollerabile perché l'intervento della giustizia sia efficace e non più rinviabile, perché le indagini mordano i corrotti e non siano uno spreco di buoni propositi. Io mi sono convinto che Mani pulite sia stata possibile perché ci fu un lento ma progressivo recupero di valori, la consapevolezza di vivere in una società ingiusta, la stanchezza di dover subire dovunque e comunque la disonestà imperante». A diciotto anni da quell'incontro molti di noi si chiedono se la luce stia per accendersi, se stiamo finalmente per uscire dal tunnel, da questa illegalità «gelatinosa», come la chiamano. Il procuratore Borrelli ha risposto di recente a queste domande con un'esortazione kantiana: «Resistere, resistere, resistere». Un'esortazione che può sembrare puritana ma cheè semplicemente un invito al ritorno della ragione, a uscire dalla ripetizione degli errori, dall'anarchia delle umane avidità. Leggendo l'elenco dei più recenti latrocini apparso su un quotidiano milanese, ciò che colpisce di più è che spesso i corrotti non sanno bene perché lo sono, perché hanno accettato di esserlo. È un'alienazione che già impressionò i magistrati che si occuparono di «Mani pulite»: la corruzione che diventa un obbligo inevitabile, come ha confessato il consigliere comunale di Milano Pennisi, che si fa arrestare mentre intasca cinquemila euro: «Mi sono rovinato da solo».

E anche qui un ricordo di diciotto anni fa, il giudice di «Mani pulite» Piercamillo Davigo che racconta: «L'altro giorno ho interrogato un giovane impiegato del municipio di Vigevano; apro l'incartamento e leggo che ha intascato una tangente di poche migliaia di lire. È uno della mia età, uno di ventisette anni. "Scusi- gli dico- ma vorrebbe spiegarmi perché uno come lei si è giocato la reputazione e la vita per poche lire?". "Ero obbligato - risponde- quei pochi soldi me li ha dati il mio capo ufficio, se gli dicevo di no alla prima occasione mi licenziava"».

Ho aperto questo articolo con la citazione di un filosofo. Che ha da spartire la filosofia con la corruzione? Forse non la impedisce ma la spiega. C'è una contesa filosofica dietro «Mani pulite» come dietro lo scandalo della Protezione civile. Fra quanti pensano che la distruzione-creazione del libero mercato, o se preferite la «lotta per la vita» sia il prezzo della sopravvivenza, e quanti invece che il ritorno alla ragione sia l'unica sopravvivenza possibile.

«Rubo dunque sono». La delinquenza dilagante e ossessiva non è solo avidità, è anche voglia di «farla franca», di essere più furbi, più disinvolti, più pronti degli altri. Guido Bertolaso nella sua difesa ha colto bene questo aspetto: «Mi è stato chiesto di intervenire subito, in fretta, per rispondere subito alla richiesta di protezione. Ma la fretta non va d'accordo con i controlli, con le giuste prudenze». E si ritorna ai rischie agli errori del populismo, della politica del fare, della ricerca del consensoa ogni costo. L'avidità è grande, ma la voglia di «farla franca» è incontenibile.

Ogni giorno la televisione e i giornali danno notizia dell'arresto di un boss mafioso: cambia il nome ma la storia è sempre la stessa, sempre la voglia di «farla franca». Tutti i ladri convinti di aver trovato il modo per essere più furbi delle guardie, tutti con il covo sotterraneo convinti di essere più furbi dei carabinieri.

Nei paesi dell'Aspromonte come nell' hinterland milanese fortini, vie di fuga sotterranee, pareti doppie, allarmi elettronici e televisivi, camere blindate e magari anche l'altare con il santo protettore. Una gaglioffaggine presuntuosa. Non è vero che il delitto paghi, è vero che il delitto piace, che al «rubo dunque sono» non si resiste.

«Macché terremoto. Zittite i ricercatori»

di Sara Menafra

È diventato un eroe con il terremoto dell'Aquila. Eppure, fino ai giorni immediatamente precedenti al terremoto, il responsabile della protezione civile Guido Bertolaso zittiva con qualche fastidio ogni allarme. Nelle carte dell'inchiesta che ha portato all'arresto del suo ex braccio destro Angelo Balducci (oggi alla presidenza del consiglio superiore dei lavori pubblici) e che li vede entrambi indagati per corruzione, ci sono le telefonate che gli uomini della sua squadra gli facevano prima del terremoto.

Il 12 marzo 2009, tre settimane prima della devastante scossa del 6 aprile, Fabrizio Curcio chiama Bertolaso: «C'è di nuovo quello scemo che ha iniziato a dire ... che stanotte ci sarà il terremoto devastante». Lo «scemo» in questione è Giuliani, il ricercatore che aveva annunciato l'arrivo di uno sciame di scosse in Abruzzo. Immediatamente denunciato per procurato allarme. Fabrizio Curcio annuncia a Bertolaso che l'istituto di geologia Ingv è a disposizione E può smentire Giulinani: «Allora noi stiamo cercando con Mauro di far fare un comunicato all'Ingv». Bertolaso si arrabbia parecchio e minaccia la denuncia: «Ma che stai dicendo?!Lo denuncio per procurato allarme e viene, viene massacrato». L'alternativa è far fare all'Istituto che dovrebbe monitorare i terremoti un comunicato «concordato» in cui si dica che è tutto a posto. E che non c'è pericolo: «Fai ...fare a Ingv se no fai fare un comunicato che quello lì domani verrà denunciato per procurato allarme e saranno denunciato con lui quegl'organi di stampa che riportano queste notizie che sono notoriamente false ...okay?».

Il 17 marzo una scossa c'è. Curcio avverte il capo con un sms: «Stanotte 3.6 in prov. Di aquila. Avvertito. Un pò di apprensione tra la popolazione ma niente danni». Ma il piano non cambia.

Il 31 marzo, l'ex capo della protezione civile, Franco Barberi, chiama Bertolaso. Risponde agli ordini e annuncia di aver fatto un comunicato distensivo: «Mi sembra che quello che dovevamo fare l'abbiamo fatto ... compreso quello di dare qualche parola chiara sulla impossibilità di previsione Quindi sul fatto che questi messaggi che arrivano sono totalmente privi di credibilità e poi anche una valutazione». Bertolaso è soddisfatto. A quel che appare dalle intercettazioni, non è per nulla preoccupato all'idea che l'allarme continui: «Okay .. molto bene... d'accordo», dice solo. Nei giorni scorsi - ma questo nelle intercettazioni non risulta - è venuto fuori che il giorno prima, il 30 marzo, la protezione civile ebbe un incontro con l'Ingv a proposito dello sciame sismico. Riunione chiusa dopo mezz'ora col vice di Bertolaso che annunciava ai ricercatori (ormai preoccupati): «Dite agli aquilani di bersi un buon bicchiere di Rosso di Montalcino». Con una certa eloquenza, però, l'informativa dei carabinieri fiorentini allegata all'ordinanza di arresto si chiude con le telefonate concitate di Bertolaso. Che il 6 aprile, dopo il terremoto, organizza la centrale operativa della protezione civile.

Oltre agli allarmi ignorati sul terremoto, nel ginepraio saltato fuori dall'inchiesta di Firenze, c'è un gran coinvolgimento di politici di ogni razza. Che in qualche modo entrano in contatto col sistema «gelatinoso» descritto nell'ordinanza di custodia cautelare contro gli imprenditori legati a Balducci e Bertolaso. Non si salva neppure Francesco Rutelli, amico di Bertolaso e Balducci dall'epoca del giubileo (a Balducci fu affidata la gestione dell'evento). Nell'aprile del 2008, quando le elezioni sono ormai alle porte e Rutelli si augura di tornare sindaco della capitale, un po' di tempo lo dedica anche agli imprenditori oggi al centro dell'inchiesta.

Il 9 aprile, scrivono i Carabinieri di Firenze in una informativa, Balducci informa Anemone che tra breve dovrà incontrare Paolo «indicato criticamente come il cognato» e che poi verrà identificato come Paolo Palombelli, cognato di Rutelli. Quindi i due fanno pure riferimento a «quell'altro cognato di Guido (Bertolaso ndr) e «In relazione a quest'ultimo cognato, Balducci accenna alla necessità di un suo impiego in altra località «Noi ... lo stiamo utilizzando lì ... invece lui lo vorrebbe in qualche modo». «Senti Roberto, guarda è complicato. Io poi probabilmente, visto Paolo dopo devo raggiungere il cognato ... l'altro. Allora se tu lo dici a Bentivoglio. Io però ecco appena ho parlato con Paolo mi devo sentire con Bentivoglio perché può darsi che io debba andare da Rutelli per quel progetto quello di Roma». Dopo l'incontro, Palombelli contatta Anemone (il giovane imprenditore socio in affari di Balducci) e gli propone prima «se è interessato a rilevare un ramo d'azienda di una società» e poi, il 22 aprile «informa Diego Anemone di aver due contratti da fargli vedere». La cosa interessante è che il giro di contatti avviene tutto a metà delle elezioni amministrative nella capitale, tra il primo turno del 14 aprile, che vedeva Rutelli in vantaggio, e quelle del 28. Con la vittoria di Alemanno: una doccia fredda.

Nel sistema di appalti, c'è appunto anche un altro cognato. Quello di Guido Bertolaso. Impiegato nel cantiere del G8 della Maddalena ma evidentemente poco soddisfatto dell'incarico ricevuto. «Il cognato ...l'altro, a cui Balducci fa riferimento, è stato successivamente individuato in Piermarini Francesco, cognato del dr. Guido Bertolaso e impiegato, come ingegnere sui cantieri della Maddalena (vertice G8)». Come nota il Ros «nel corso dell'attività di intercettazione, Piermarini Francecso e Palombelli Paolo sono risultati in rapporti tra loro».

Il sottosegretario e l'estetica dell'efficienza

di Ida Dominijanni

Che l'opposizione gioisca per lo stralcio dal decreto sulla Protezione civile della norma che voleva trasformarla in società per azioni è giusto, che esulti è incauto. La trasformazione in Spa sarebbe, o sarebbe stata, solo il coronamento e il completamento di una trasformazione già avvenuta, la trasformazione dello Stato di diritto in Stato d'eccezione permanente, di cui la Protezione civile con i suoi attuali poteri è già emblema e sintesi. Che questo coronamento sia stato bloccato - da Fini e Bossi e per salvare il salvabile - è certo una buona notizia, ma per esultare ci vorrebbe ben altro, e cioè un ripristino di cultura costituzionale di cui nel governo e dintorni non si vede alcun annuncio all'orizzonte. Anzi: letta in questa chiave, la risposta di Bertolaso su Repubblica alle dieci domande postegli da Eugenio Scalfari fa cadere le braccia. Il sottosegretario non conosce altro dio all'infuori del tempo, il tempo che è tiranno, il tempo che è nemico del fare, il tempo che gioca contro l'efficienza. Per battere il tempo, bisogna scavalcare le norme. O meglio, giovarsi delle norme particolari, come quelle sulla Protezione civile estesa ai cosiddetti «grandi eventi», che consentono di scavalcare le norme generali, come quelle che dovrebbero sovrintendere alla separazione e al controllo fra i poteri. E chi si inventa queste norme particolari, alias Silvio Berlusconi, è l'unico genio della politica a cui lo Stato - disfatto - possa affidarsi. Dice bene Scalfari nella sua replica: a Bertolaso «sfuggono dalla penna delle verità e degli obiettivi che dimostrano dove può portare l'ideologia del fare quando è affidata a forme preoccupanti di egolatria e megalomania».

Identificato com'è col presidente del consiglio, il sottosegretario non rinuncia ad assumerne pari pari le argomentazioni vittimistiche. Personalmente, ci assicura, tiene in gran conto il lavoro della magistratura, anzi di una «macchina della giustizia responsabile ed efficiente» - anche questa, supponiamo, in lotta contro il tempo: processi brevi? -; però «i processi mediatici come quello che adesso si sta celebrando» contro di lui, che è soltanto «l'imputato pubblico di turno», sarebbe meglio che «scomparissero». Sfugge al sottosgretario che un processo mediatico è un processo montato, sulla fuffa, dai media, non un resoconto giornalistico di un'inchiesta giudiziaria, come nel caso in questione. La stampa dovrebbe tacere? Talvolta, parlo per me, sarebbe più facile. Per esempio, che dire di fronte al quadretto che viene fuori dalle intercettazioni telefoniche del 14 dicembre 2008 pubblicate ieri, che restituiscono l'organizzazione dell'incontro fra il Bertolaso e una giovane brasiliana, Monica, ingaggiata per lui dalla premiata ditta Anemone e Rossetti presso l'ormai noto Salaria sport village di Roma? Due ruffiani che si mobilitano per le emergenze personali, chiamiamole così, del sottosegretario. La signora Regina Profeta, ex danzatrice del «Cacao meravigliao» - per chi se lo ricorda - di Renzo Arbore, che si mobilita per i due ruffiani, fornendo loro prontamente la merce richiesta, cioè la Monica di turno. E una solerte cultura dell'efficienza, non c'è dubbio, che controlla ogni dettaglio: che al village sia pronto «un bikini di tipo brasiliano un po' stretto»; che il sottosegretario parcheggi nel posto giusto e la sua scorta si fermi nel punto giusto; che Regina esca dalla porta giusta al momento giusto; che gli impiegati del village se ne vadano a casa all'ora giusta lasciando libero il campo; che la sauna e l'impianto stereo funzionino; che alla fine della sua prestazione Monica sia riaccompagnata a casa e retribuita; che ogni traccia dell'incontro, pardòn della seduta di fisioterapia, sparisca dal luogo del delitto, a cominciare dai preservativi usati. Macchina efficiente e responsabile, altro che quella della giustizia italiana: il cliente «è rimasto contento», la premiata ditta Anemone e Rossetti ancor di più, «abbiamo guadagnato cinquecento punti».

Ecco, non c'è da dire proprio niente, il quadretto si commenta da sé. Solo una cosa, in risposta al predicozzo quotidiano del Giornale dove ogni giorno si alternano le firme a difesa della privacy dell'uomo pubblico di turno e contro il moralismo e il giustizialismo di sinistra. Visto che mezza Italia, la stessa che accampa argomenti morali su tutto, dall'aborto alle droghe al fine-vita, sul sesso a pagamento si scopre improvvisamente disincantata, relativista e amorale, sospendiamo il giudizio etico e limitiamoci a quello estetico. Eticamente non sappiamo, ma esteticamente quel quadretto, è lecito dirlo?, fa un po' schifo.

Postilla

Anche in questa – come in numerose altre storie dell’Italia dei nostri tempi – ciò che stupisce e indigna sono due aspetti della stessa realtà: l’arroganza da banditi di strada maestra con la quale chi comanda persegue i propri fini, cancellando con la violenza ogni voce che si limiti a dire professionalmente la verità (“povero scemo” da zittire il ricercatore che anticipa la notizia del terremoto); la stupidità servile con la quale l’opposizione (quella politica dei partiti, e quella culturale della “libera stampa”) condividono i “valori”, e subiscono i miti, della destra. Non speriamo molto in un ravvedimento della destra italiana, ci piacerebbe invece poter sperare in una mossa autocritica di quello che resta “di sinistra” nell’altra parte dello schieramento. Magari a cominciare dagli organi che informano e formano l’opinione pubblica. Senza affrontare temi forse troppo complessi per le vittime del “pensiero unico” (c’è forse un nesso tra gli scandali di oggi e la scelta di preferire la governabilità alla democrazia?), sarebbe utile se qualcuno raccontasse, dopo aver studiato, come è andata davvero la storia dei rifiuti in Campania. E magari che cosa è successo davvero nel dopo-terremoto, non solo a proposito dei piccoli imbrogli ma anche delle grandi scelte “strategiche”. Su quest’ultimo argomento ci sembra che l’unica analisi seria sia quella che del Comitatus Aquilanus eddyburg ha promosso, “ Non si uccide così anche una città?”. Ma forse sbagliamo.

Non credo che gli studenti dell’Aquila chiedano menzogne e illusioni, quando gridano a Bertolaso e alla politica, ai magistrati e ai giornali: «Diteci che non è vero!». In realtà aspirano a quel che nella giustizia è essenziale. Esigono verdetti, ma ricordano che i processi si fanno innanzitutto per tutelare l’innocente. Chi non s’è macchiato di reati vuol sapere che non pagherà per altri in tribunale, che la colpa di alcuni non si farà collettiva. Solo se esistono responsabilità individuali anziché collettive la politica non perde senso, il bene cui si tiene non è cenere interrata. Quel che viene rifiutato è una cosa pubblica ridotta - lo dicono gli indagati nell’affare Bertolaso - a sistema gelatinoso, a una cosca che non tollera intrusioni, controlli. L’allarme è grande perché quel che vacilla è la ragion d’essere più antica della politica: la protezione dei cittadini inermi dai disastri.

Per questo lo scandalo della Protezione civile, colmo di simboli primordiali, scotta tanto. Per questo urge sapere presto chi ha colpe, chi no. Il potere dello Stato, in fondo, esiste per difendere i cittadini dalla paura, dai pericoli della natura, dalle aggressioni belliche. È chiamato Leviatano perché ha questo potere di vita e di morte, ma se protegge male non è Leviatano. Con le proprie mani porterà la propria testa alla ghigliottina. Quando decapitarono i monarchi Goethe, che non amava le agitazioni rivoluzionarie, scrisse: «Fossero stati veri re, non sarebbero stati spazzati via come con una scopa».

Ma soprattutto vogliono sapere, gli studenti, che non è vero quel che gli studiosi dicono da anni e che i giudici per le indagini preliminari a Firenze ripetono quasi testualmente.

Che «viviamo una disarmante esperienza del peggio», scriveva il rapporto del Censis del 2007, aggiungendo che la nostra non era una società «ma una poltiglia cui si potrebbe sostituire il termine di mucillagine»: un «insieme inconcludente di elementi individuali e di ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega».

Nell’ordinanza del gip, il servizio pubblico e la Protezione civile sono descritti dagli stessi indagati con vocaboli simili: un sistema gelatinoso, fatto di gente che «ruba tutto il rubabile», che confonde pubblico e privato, che in nome dell’efficienza cerca soldi e favori per sé. Un indagato dice, accennando ai lavori per il G8 della Maddalena: «C’abbiamo la patente per uccidere, cioè possiamo piglià tutto quello che ci pare». Due imprenditori sprofondano nella sguaiataggine, nei minuti stessi in cui la terra abruzzese trema. Esordisce al telefono tale Gagliardi: «Qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un terremoto al giorno». Il collega Piscitelli dice che lo sa. E ride. Al che Gagliardi: «... (lo dico ) così per dire per carità... poveracci». Piscitelli: «Va buò ciao». Gagliardi: «O no?». Piscitelli: «Eh certo... io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro al letto». Gagliardi: «Io pure...». Diteci che non è vero è domanda di verità, è non rassegnazione al salmo 14: «Tutti sono corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno».

Bertolaso e gli uomini del suo dipartimento avranno modo di difendersi, distinguendo tra vero e falso. Comunque sono già ora chiamati a condotte probe: in particolare Bertolaso, perché chi presiede un’istituzione è responsabile dei propri uomini, non può degradarli a mele marce tirandosi fuori. È solo indagato, ma l’opacità estrema della Protezione civile fa tutt’uno con l’opacità del modo berlusconiano di governare. Egli ha il peso, decisivo, che Carl Schmitt attribuisce a chi ha accesso al Leviatano. È il potere dell’anticamera del potente, «del corridoio che conduce alla sua anima. Non esiste nessun potere senza questa anticamera e senza questo corridoio» (Schmitt, Dialogo sul Potere, Il Melangolo 1990).

Il corridoio non è di per sé malefico, ma in Italia è oggi colmo di insidie: tanta è la gelatina che regna indisturbata ai vertici. Nel caso specifico, il potere indiretto di chi sta in anticamera diventa speculare a quello diretto, tende a farsi anch’esso assoluto, a non rispondere a autorità superiori, a considerare i magistrati come «dipendenti pubblici» da irreggimentare perché non eletti (l’espressione è del presidente del Consiglio). Chi oggi è in simili corridoi rischia di diventare parte di un preciso disegno: disegno che distrugge la politica, tramutando la cosa pubblica in privata. Che ostentatamente governa a partire dal proprio domicilio, trasformando Palazzo Grazioli in succedaneo di Palazzo Chigi. Che estende i territori italiani sottratti alla legge. Alle regioni ampiamente controllate dalla mafia, s’aggiungono ambiti sempre più vasti, legalmente svincolati dall’imperio della legge. È inevitabile, quando l’emergenza si eternizza e si espande smisuratamente, comprendendo settori per nulla emergenziali. L’immensa Protezione civile si accentra a Palazzo Grazioli ed è messa in condizione (soprattutto se diverrà società per azioni) di eludere la rule of law. Si politicizza e si privatizza al massimo, simultaneamente.

Bertolaso è a un bivio. Avendo dimostrato non comuni capacità di proteggere i cittadini, può prendere le distanze e salvare un’opera. Nei giorni scorsi ha detto, veemente: «Sono pronto a dare la vita per convincere gli italiani che non li ho ingannati». Non gli si chiede tanto. Si spera però che non si lasci contaminare. Proprio perché possiede un’aura di Medico-senza-frontiere, Bertolaso ha molto da perdere, dalla contiguità con la gelatina di cui è fatto Palazzo Grazioli. Se ha errato, il suo errore sarà giudicato immorale, e l’immorale distingue perfettamente il bene dal male. Solo dimettendosi Bertolaso eviterà che il corridoio verso il potente diventi, come nelle parole di Schmitt, una letale «scala di servizio».

Possono essere due, i motivi di una dimissione. O si perde la fiducia dei vertici, o la richiesta nasce nella coscienza. È difficilmente pensabile che Bertolaso non abbia orecchie per questa seconda voce, vedendo la degenerazione dell’opera che dirige da anni.

Un aiuto autentico dall’alto non gli verrà, perché Berlusconi non gli somiglia: più che un immorale, lui è un a-morale. Non è Nixon pienamente conscio del male commesso che si confessa, nel 1977, al giornalista David Frost. Il film di Ron Howard lo descrive bene: la colpa lo corrode. Non così Berlusconi, ignaro di corrosioni. Egli non sa cosa sia la morale, e neppure cosa sia l’ideologia. Sventolerà l’una o l’altra, se servirà per deturpare istituzioni e contropoteri. Se non fosse a-morale non avrebbe osannato agli inizi di Mani Pulite, scatenando contro gli indagati il fuoco delle sue televisioni (lo ricordò prima di morire il tesoriere indagato della Dc, Severino Citaristi).

L’argomento che usano sia Berlusconi che Bertolaso è l’efficienza. Dice il primo: «Se un’opera è fatta bene al cento per cento e poi c’è l’1 per cento discutibile, quell’1 va messo da parte». Non è chiaro chi decida le percentuali, tuttavia. E come possa ben operare, alla lunga, una poltiglia dove si mescolano Grandi Eventi e disastri; spasso e dolore; show, morte e risate. La sindrome di impunità che regna nell’anticamera del potere, i costi maggiorati senza controllo, le imprese che si sbrigano male pur di lucrare sulla fretta: questo non è efficienza. Dalla corruzione non scaturisce efficienza.

In un editoriale sul Corriere del 30 gennaio, Sergio Romano dice una cosa assai giusta, su Blair, Sarkozy e Schröder. Denuncia la propensione a mescolare pubblico e privato, a edificare carriere «sull’immagine e sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa pubblica», e conclude: «Il giudizio politico non ha bisogno di scranni, parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia (...). La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la fine di una brillante carriera». Se giornalisti prestigiosi come lui dicessero le stesse cose sull’Italia di oggi, e l’avessero detta molti anni fa, forse gli studenti dell’Aquila si sentirebbero meno soli, meno scoraggiati, meno impotenti. Poveri magari, ma non poveracci

Siamo ad un altro “golpe bianco”, alla sterilizzazione delle assemblee elettive, degli organismi tecnico-scientifici: Roma viene commissariata dal governo Berlusconi. Lo era già, con risultati pratici nulli, per la mobilità e, con grottesca teatralità, per “i crolli del Palatino” da lì fino ad Ostia Antica. Adesso lo è, con la solita ordinanza del presidente del Consiglio, “nell’ambito degli interventi concernenti le linee metropolitane, i corridoi della mobilità, i sistemi innovativi di trasporto e il trasporto pubblico in sede propria, nonché delle relative opere connesse e complementari, ivi incluse quelle compensative e integrative”. Praticamente tutta Roma, in superficie e sottoterra, nelle aree costruite e in quelle (appetitose) ove costruire e “compensare”, per un lasso di tempo indefinito e probabilmente lunghissimo visto che il commissariamento coinvolge l’intero sistema delle mobilità presenti e future. E non ha data di scadenza.

La denuncia di questo nuovo, “mostruoso” accentramento di poteri da parte del premier con la messa in mora di ogni altro ente concorrente di governo è stata fatta ieri mattina nella sede del Pd. “Di sabato e con forza perché se passa questo, passa di tutto”, ha commentato il responsabile della Cultura, Matteo Orfini. “Con la massima energia perché il commissario si sostituisce in toto al Ministero e alle Soprintendenze”, ha incalzato la sua vice Rita Borioni. Grottescamente il commissario è l’architetto Roberto Cecchi il quale da marzo sarà pure il nuovo segretario generale del Ministero e che quindi “espropria” se stesso esautorando il suo Ministero.

Questa è la penultima delle ben 587 ordinanze del presidente del Consiglio con le quali ha commissariato di tutto: dal G8 della Maddalena e poi dell’Aquila al Congresso Eucaristico di Ancona, al nuovo Palazzo del Cinema del Lido. Quasi sempre con una coda di corpose cubature edilizie anche residenziali, cioè con una bella torta di affari per l’Anemone di turno. Nel caso romano siamo ad una sorta di “commissariamento preventivo”, nel senso che – come hanno fatto notare il capogruppo capitolino Umberto Marroni e il senatore Mario Gasbarri - i lavori per la Linea C procedono senza grandi intoppi e per gli altri si progetta e si opera. Perché allora azzerare addirittura 53 articoli fondamentali del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio? Il loro elenco riempirebbe lo spazio di questo resoconto. Citerò soltanto le deroghe maggiori: ovviamente alla valutazione di impatto ambientale, alla conferenza dei servizi, agli interventi conservativi imposti, alla alienabilità di beni culturali pubblici, alle procedure di trasferimento di beni pubblici, a tutti gli espropri, alle commissioni regionali e a quelle per il paesaggio. Insomma, l’intera legislazione di tutela e quella paesaggistica vengono così nullificate, come la possibilità per una Soprintendenza di intervenire e di sospendere i lavori. Il patrimonio culturale e paesaggistico romano (una bazzecola, come si sa) è in tal modo consegnato nelle mani del Commissario di governo, con tanti saluti all’articolo 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”).

Fra l’altro – cosa mai ammessa per i beni culturali – l’ordinanza instaura il silenzio/assenso in mancanza di una risposta delle Soprintendenze entro 30 giorni+10. Un’altra inaccettabile forzatura. Ha ragione il senatore Gasbarri a sottolineare che “coi decreti legge Berlusconi esautora il Parlamento, con le ordinanze lo salta, con la Protezione civile Spa agisce dove e come vuole, persino all’estero: siamo alla disarticolazione dello Stato democratico.” Insomma andiamo verso un vero e proprio “golpe bianco” che trova nei beni culturali e a Roma una concreta sperimentazione. Il segretario della Uil Beni culturali, Gianfranco Cerasoli, ha invitato a spulciare i rendiconti che gli uffici finanziari danno annualmente della Protezione civile. “Già lì si poteva leggere che le cose non andavano per il verso giusto.” Un’altra notazione l’ha operata l’ex direttore del servizio antisismico nazionale Roberto De Marco, esonerato con uno spoil system tutto e solo politico: “Se certe leggi non funzionano, le si riforma, le si modifica: è il compito del Parlamento. Qui siamo alla deroga senza fine, che provoca anche lo svilimento sistematico della funzione pubblica stessa”.

Un paio di domande: di fronte ad un accentramento autoritativo mai tentato, dalla Liberazione ad oggi, come mai le Regioni si mostrano così poco reattive? E la Lega Nord, non si rende conto che, col diluvio di ordinanze e di commissariamenti decisi dal trio Berlusconi-Letta-Bertolaso, regredisce lo Stato regionale, figuriamoci quello federale?

MILANO - Emergenza continua. Per L’Aquila - devastata dal terremoto - come per le bufale campane ammalate di brucellosi. Per la drammatica esplosione di un vagone carico di gas alla stazione di Viareggio ma anche per il Congresso europeo delle famiglie numerose o per le regate della Louis Vuitton Cup. La protezione civile dell’era Bertolaso è una multinazionale da 700 dipendenti che nei nove anni sotto la guida del suo potentissimo capo-dipartimento ha cambiato volto e moltiplicato la sua potenza di fuoco. Le catastrofi e le loro conseguenze restano, se così si può dire, il suo core business. Ma un’escalation di ordinanze della presidenza del Consiglio - 330 del Governo Berlusconi dal 2001 al 2006, 46 dell’esecutivo Prodi e più di 250 dal ritorno del Cavaliere a Palazzo Chigi - ha portato sotto il cappello del super-commissario degli appalti tricolori un po’ di tutto: i lavori per mettere in sicurezza gli scavi di Pompei come i festeggiamenti per il quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Cupertino, le piscine dei mondiali di Nuoto e persino la riesumazione delle sacre spoglie di Padre Pio.

La fabbrica delle emergenze, vere o presunte, muove soldi. Stanziamenti totali in due lustri: 10 miliardi. Si tratta solo di una stima, visto che solo il 22% delle ordinanze governative quantifica gli stanziamenti pubblici. Denaro speso a pioggia. Senza troppi controlli. Spesso in deroga, in nome della cultura emergenziale, a piani regolatori e a norme di trasparenza degli appalti. Sotto lo scudo spaziale della protezione civile - insieme a opere necessarie come le case de L’Aquila e alle cattedrali nel deserto della Maddalena (327 milioni ad oggi gettati al vento) - sono finite così le iniziative più esotiche: i provvedimenti necessari per sistemare il traffico a Napoli, i rifiuti di Palermo, il via vai di gondole e vaporetti a Venezia, l’anno giubilare paolino, le rotonde per i Mondiali di ciclismo a Varese.

Milioni su milioni capaci di creare autentiche fortune private quasi dal nulla. Prendiamo i bilanci delle società i cui nomi sono emersi nell’inchiesta di Firenze. La Anemone di Grottaferrata - che ha costruito il palazzo delle conferenze per il mancato G8 sardo e alcune piscine per i mondiali - ha visto il suo giro d’affari decollare dai 10 milioni del 2007 ai 37 del 2008 «in forza - spiega la relazione di gestione del gruppo - di appalti della pubblica amministrazione». La fiorentina Giafi del gruppo Carducci, battuta sul filo di lana da una società di Anemone nel maxi appalto da 62 milioni per il Parco della Musica nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni d’Italia (altra pseudo-catastrofe a gestione protezione civile) si è consolata con i lavori per l’albergo ricavato per il G-8 dall’ex ospedale della Maddalena. I suoi ricavi sono raddoppiati in due anni a 88 milioni. E il bilancio racconta bene di chi è il merito: «Il governo in carica - recita testuale - mostra di aver preso coscienza del fatto che bisogna colmare il gap infrastrutturale del paese». Un’emergenza che, come tale, va trattata dalla Protezione civile. Con tutto il decisionismo e la disinvoltura usciti dalle intercettazioni telefoniche di questi giorni. Un boom di entrate (+50% in due anni) hanno realizzato pure la Igit - cui la Bertolaso Spa ha affidato la ristrutturazione dell’aeroporto perugino di Sant’Egidio (25 milioni) e quella (da 58 milioni e secretata) del carcere di Sassari - e la Archea associati, lo studio fiorentino dell’architetto Marco Casamonti, dalle cui telefonate è partita l’inchiesta della magistratura. Proprio l’inchiesta ha cominciato a delineare lo scenario di intrecci tra gli alti burocrati delle opere pubbliche e alcune imprese che sono entrate in un sistema "gelatinoso" come lo ha definito il gip nell’ordinanza: quello che ha assicurato appalti facili e ha permesso di gonfiare i costi dei lavori. La diversificazione ha finito però per drenare un po’ della liquidità destinata alla gestione delle emergenze reali. Bertolaso negli ultimi nove anni ha dovuto occuparsi dei viaggi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, del congresso eucaristico di Osimo e dei giochi del Mediterraneo. I suoi attuatori finali come Angelo Balducci hanno dovuto mettere la firma sotto note spese che con l’affare delle catastrofi naturali, in apparenza, hanno ben poco a vedere. A Pratica di Mare, per realizzare la scenografia un po’ kitsch necessaria al successo del summit Nato-Russia del 2002, la protezione civile ha speso 36 milioni, tra cui 74mila euro per "facchini e trasporto statue", un milione per spuntare a regola d’arte prati e siepi e 42mila euro per i cartelli necessari alla viabilità. Il risultato paradossale è che a furia di emergenze farlocche rischiano di venir meno - complice lo stato dei conti pubblici - i soldi per quelle reali. Bertolaso ha già messo nero su bianco i suoi dubbi. Lo stanziamento per il suo dipartimento nel 2009 è stato "solo" di 1,6 miliardi di euro. «Soldi che non bastano per prevenire e gestire le emergenze del futuro», assicura il bilancio dell’ente, lamentando il taglio del 18% dagli 1,9 miliardi disponibili l’anno precedente. All’orizzonte incombono l’Expo 2015 in odore di commissariamento, le Olimpiadi 2020, il Gran Premio d’Italia di Formula 1 a Roma. Servono nuovi soldi pubblici. Le emergenze d’oro, in Italia, non finiscono mai.

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