Gli argini del fiume in fuga dalla Brianza velenosa, per lunghi tratti sono ancora neri. Mentre i germani reali, gli aironi o i cormorani, le ali appesantite dagli olii bituminosi, volano sempre meno tra i cieli plumbei di questa campagna piatta tra Lodi e Cremona, bagnata dalle piogge e dalle acque limacciose e scure del Lambro, dove 450 tonnellate di idrocarburi si sono fermate davanti alla diga di Isola Serafini. Verso Piacenza, pescatori e contadini aspettano la prossima piena: quando le acque sporche trascineranno verso il Po e poi al suo Delta ciò che rimane del più grande disastro ambientale degli ultimi anni, mettendo a rischio la fauna ittica, le coltivazioni di vongole e mitili di Goro e Gorino e le acque di quel gigantesco catino verde e caldo che è l’Adriatico.
A un mese esatto dal versamento di tremila metri cubi di petrolio nel fiume Lambro, la tragedia ecologica più devastante del già fragile patrimonio fluviale della pianura padana, rimane un mistero. L’inchiesta aperta a Monza dai pm Emma Gambardella e Donata Costa con l’ipotesi di inquinamento delle acque e disastro ambientale, è tuttora contro ignoti e l’unico a finire sul registro degli indagati, ma con un’accusa marginale rispetto al cuore delle indagini, ovvero violazione della Legge Seveso (per avere cioè stoccato più idrocarburi di quelli denunciati), è stato Giuseppe Tagliabue, presidente della Lombarda Petroli, la società di Villafranca Monza dalle cui cisterne nella notte del 23 febbraio scorso sono stati riversati nel Lambro e poi nel Po, tonnellate di gasolio e oli combustibili. La mano criminale che alle 4 del mattino aprì i rubinetti delle 6 cisterne (su 30) ancora attive dell’enorme stabilimento alle porte di Monza rispondeva a un interesse intimidatorio preciso: ma quale?
L’area su cui sorge la Lombarda Petroli della famiglia Tagliabue è da tempo preda di diversi appetiti, destinata ad essere riconvertita in terziario e edilizia abitativa per uno di quei faraonici progetti dai nomi suggestivi ma dai destini incerti: Ecocity, 300mila metri quadrati capaci di smuovere interessi di ogni genere: da quelli delle cosche a quelli imprenditoriali e politici. Non a caso la scorsa settimana, dopo aver interrogato dipendenti, ex dipendenti e autotrasportatori i magistrati hanno voluto ascoltare come testimone uno dei fratelli Addamiano, titolari della Holding immobiliare che si è aggiudicata il progetto di riconversione. A parole sembrerebbero tutti danneggiati per la bonifica dei terreni. Ma nei fatti, qualcuno ne ha tratto un vantaggio che ora i carabinieri stanno tentando di scoprire, pur considerando che forse chi ha agito è andato al di là delle intenzioni. Il petrolio infatti, prima di raggiungere il Lambro, ha dovuto inondare il piazzale delle cisterne, infilarsi nei tombini, scorrere nelle fogne, intasare il depuratore di Monza e poi gettarsi nel fiume. E solo il ritardo negli allarmi e nelle contromisure ha consentito il disastro ambientale.
La chiazza lunga diversi chilometri che per una settimana ha alterato l’equilibrio del principale fiume italiano, è scomparsa solo in parte, lasciando strascichi che richiederanno mesi prima di essere sanati e decine di milioni di euro: almeno 100, calcolano amministratori e sindaci dei comuni interessati dai fiumi inquinati. «Se sono vere le cifre fornite da fonti ufficiali, dovrebbero essere state recuperate almeno 2.600 tonnellate di idrocarburi: questo significa che all’appello ne mancano almeno 400», spiega Damiano Di Simile, presidente di Legamabiente Lombardia. 400 tonnellate di oli e gasolio che solo in parte potrebbero essere evaporati.
«Qualcosa, ma non molto, trattandosi di materiale più leggero dell’acqua, potrebbe essersi depositato sui fondi. Il resto è lungo gli argini e se non si interverrà al più presto, con la prossima piena il petrolio potrebbe inquinare il Delta del Po facendo danni irreversibili prima di gettarsi in mare. La nostra paura è che tutto ciò rimanga senza colpevoli».
In Francia il partito socialista, Europe Ecologie e la sinistra socialista di Jean Luc Mélenchon assieme a quel che resta del Pcf, hanno conquistato tutte le regioni salvo l'Alsazia. L'astensione ha lasciato per terra la destra. Nicolas Sarkozy, già adorato in Italia, ha ammesso una disfatta secca.
Che cosa è avvenuto rispetto alle presidenziali? Il partito socialista di Martine Aubry ha abbandonato la linea di incontro con il centro promossa da Segolène Royal. Il quale centro, ammirato da Casini e da Rutelli, è scomparso dalla scena con la stessa rapidità con la quale vi era entrato. Quanto alla estrema sinistra di Besancenot, che non aveva voluto allearsi alle altre sinistre, si è ridotta al 2,5%. Se l'alleanza resterà in piedi, le prossime presidenziali, la cui campagna elettorale di fatto comincerà adesso, vedrà la sconfitta della destra di Sarkozy.
Si può trarne qualche conseguenza per l'Italia? Le politiche dei due governi sono le stesse, anche se Sarkozy non punta ai soldi e non ha la volgarità di Berlusconi. La differenza è che in Francia la sinistra non ha cessato di esistere mentre da noi si è suicidata o mortalmente divisa. Nelle regioni non consegnate in partenza al Pdl o a Bossi non vedo candidati che si oppongano al governo; conosco soltanto Niki Vendola e Mercedes Bresso. Mi appresto a votare Emma Bonino, perché è una persona limpida che rispetta le regole, ma è una liberista di ferro. Dove sta una sinistra? A resistere al cavaliere c'è una specie di partito degli onesti, il popolo viola, Santoro e Di Pietro. Essi puntano a una democrazia socialmente piatta che vada oltre alla vergogna in cui siamo.
È una resa intellettuale illimitata. E infatti, se si profila una caduta del berlusconismo, si verificherà nel suo stesso campo e sarà seguita da una coalizione Fini-Casini-Bersani, sconcertante. La sinistra francese non è certo geniale. Ma è stata capace di dire pane al pane, di rappresentare la protesta dei salariati precari, disoccupati, di parlare delle donne e alle donne, (tutto il paese ha celebrato, con mio stupore, l'8 marzo), di affondare la campagna sull'identità nazionale; di denunciare la non volontà di mettere termine alla speculazione finanziaria, non accetta la riduzione della spesa pubblica e per i beni pubblici. Nulla di straordinario, molta protesta delle categorie - non i soli sans papiers ma medici, insegnanti, operai, disoccupati, precari, agricoltori dal reddito sceso di un terzo. Un contenzioso non nuovo, accentuato dalla crisi, cui si aggiunge la crescita delle disuguaglianze come costituiva della globalizzazione.
Sarebbe cosi difficile dirlo anche in Italia? Da noi una sinistra, anche moderata, che lo dica non c'è. I comunisti si sono flagellati per non aver creduto nel mercato. Le sinistre più radicali non si occupano dei ceti deboli perché le condizioni materiali poco conterebbero rispetto al mutare del simbolico. Per cui nulla sarebbe possibile cambiare, salvo l'impresentabile Berlusconi. Niente di più: una destra ripulita lo potrà fare anche da sola. In Francia un'opposizione cosi avrebbe perso.
Le elezioni sono alle porte e la Chiesa italiana ha parlato: o meglio, ha parlato la Cei per bocca del cardinal Bagnasco. La precisazione è d’obbligo: è possibile che una sola voce riesca ad esprimere la quantità e la qualità delle posizioni che si muovono nella realtà del mondo cattolico?
Ci si chiede anche se le elezioni amministrative siano un’occasione di tale importanza da imporre che si levi in modo speciale la voce di un’autorità morale e spirituale come la Chiesa nella sua espressione gerarchica, obbligata dalla sua stessa natura a essere al di sopra delle parti . E non intendiamo levare la pur sacrosanta protesta di chi chiede che le autorità ecclesiastiche si astengano dalla lotta politica: anche se si potrebbe – e forse si dovrebbe, visti i tempi – ricordare ai vescovi che ci sono tante occasioni di urgenze grosse e di scandali clamorosi davanti ai quali la loro voce dovrebbe trovare il coraggio di levarsi. Lo stato morale del Paese è disastroso. C’è una corruzione che ha invaso – partendo dall’alto – anche i più remoti angoli dove si dà esercizio del potere. È cosa recentissima la pubblicazione del rapporto annuale dell’agenzia internazionale per il monitoraggio dello stato dei diritti umani nel mondo: e lì abbiamo letto note ben poco confortanti per il nostro Paese. Che cosa può fare un vescovo in questa situazione?
I modelli di vescovi che hanno saputo affrontare senza paura i potenti per esercitare il loro compito di pastori di anime e di guide di coscienze non mancano certo nella millenaria storia della Chiesa: il gesto di ripulsa e di condanna di Sant’Ambrogio davanti all’imperatore Teodosio fondò il diritto del vescovo di Milano a guidare il suo popolo. Non sono più tempi così drammatici, penserà qualcuno. Eppure l’appello del cardinal Bagnasco ha un tono di una certa drammaticità. Anche se nel suo discorso sono stati toccati diversi problemi, nella sostanza uno domina su tutti gli altri. Gli elettori sono stati invitati a seguire nella scelta elettorale la bussola della questione dell’aborto.
Ora, la domanda che si pone è se questo è veramente il problema dei problemi, quello per cui sta o cade la società. Si dice che questa funzione è quella che prima di tutte le altre appartiene alla Chiesa: la difesa della vita. Bandiera nobile, se altre ce ne sono. La vita umana va difesa. Su questo siamo tutti d’accordo. Ma allora bisogna essere conseguenti e andare fino in fondo. Prendiamo un caso: sono passati appena pochi giorni da un episodio gravissimo: una madre ha partorito in una stazione di sport invernali dove lavorava, sulla neve dell’Abetone. Aveva un permesso di soggiorno legato al suo posto di lavoro. Ha nascosto il parto, il neonato è morto soffocato. Un’immigrata non può avere figli senza rischiare di perdere il lavoro: è l’effetto di una legge approvata da un governo di centrodestra che si vanta di avere il consenso degli italiani. E l’appoggio della Chiesa a questo governo produce ogni giorno effetti devastanti.
Noi non sappiamo quanti siano gli aborti clandestini che si praticano in Italia. Fu per affrontare la piaga dell’aborto clandestino che fu varata la legge 194. E l’effetto si è visto. Era un modo civile di affrontare una piaga antica, ben nota alle autorità ecclesiastiche. Per secoli l’arma della scomunica non ha impedito che nel segreto delle famiglie si eliminassero i figli indesiderati laddove le ferree catene del bisogno imponevano di non aumentare le bocche e di non avere figlie femmine. Allora la scomunica non colpiva i colpevoli della iniqua distribuzione delle risorse. E ancora oggi la condanna ecclesiastica non colpisce coloro che hanno varato quella legge che provoca lutti e dolori, che impedisce alle donne immigrate di avere figli. Né colpisce le forze politiche che non hanno a cuore la tutela della famiglia e che dedicano tutta la loro forza a sottrarre alla legge un presidente del Consiglio invece di varare una riforma fiscale che introduca il quoziente famiglia. Invece basta un normale appuntamento elettorale perché si ripeta ancora lo stanco spettacolo di un’autorità ecclesiastica che si schiera a favore di una parte politica contro un’altra. È un rito vecchio, logorato dall’uso, ripetitivo, facilmente decifrabile. Siamo a una scadenza elettorale resa inquieta dal silenzio della televisione di Stato, assurdamente determinata a lasciare i cittadini in una condizione di dubbio e di perplessità. Sono semplici elezioni amministrative. Non è in gioco la sorte del governo. Si tratta di scegliere i candidati più credibili per affidare loro l’amministrazione di regioni e città. Ci aspettavamo di essere messi in grado di scegliere serenamente sulla base dei profili dei candidati e del contenuto dei loro programmi. Ma di programmi è stato molto difficile parlare .
Il confronto è stato oscurato dall’episodio della clamorosa incapacità del più potente partito italiano di mettere insieme una lista di candidati e di farla pervenire alla scadenza dovuta davanti all’ufficio competente. Una manifestazione di piazza ha costruito lo spettacolo televisivo per raggiungere in un colpo solo tutti gli elettori. Ma forse anche questo spettacolo rischiava di non essere efficace. E allora, che altro si poteva fare per dare una mano al Pdl e combattere la candidatura di Emma Bonino nel Lazio?
HO ASPETTATO il discorso di Berlusconi sul palco di piazza San Giovanni prima di scrivere queste righe. Pensavo che avesse in serbo qualche idea nuova, qualcuna delle sue promesse elettorali- per altro mai mantenute - che sorprendesse il Paese e spiazzasse l'opposizione.
E intanto, mentre si attendeva l'arrivo sul palco del Capo dei Capi, il Capopopolo, il Capopartito, il Capo del governo, ho guardato la piazza, le facce della gente, le loro parole ai microfoni delle televisioni. Le facce erano pulite, serene, allegre. Doveva essere una festa, la festa dell'amore verso tutti, verso gli altri; una festa di popolo con le sue idee, i suoi bisogni, le sue speranze, come ce ne sono in tutte le piazze democratiche di questo mondo. Così era stato detto dagli organizzatori e così sembravano aspettarsi i partecipanti. Ma poi è arrivato lui e l'atmosfera è cambiata. Le gente allegra è diventata tifoseria, quella che inveisce contro i giocatori avversari e contro gli arbitri ai quali è affidato il rispetto delle regole di gioco.
Una piazza, sia pure affollata, non cambia una situazione politica ma fornisce un elemento in più per valutarne i possibili esiti.
Se all'inizio c'era attesa, alla fine il tono si è spento dopo un discorso che è stato uno dei più brutti che Berlusconi abbia mai pronunciato. Ripetitivo, retoricamente bolso, con un tentativo di colloquiare con la piazza che ripeteva un logoro copione già visto molte volte con lui e con altri in epoche più remote: «Volete voi che vinca la sinistra?». «Nooo». «Volete voi che vinca il Popolo della libertà?».
«Sììì». «Volete voi il governo del fare?». «Sì». «Volete che aumentino le tasse?». «Noo».
Ha promesso addirittura che il suo governo avrebbe vinto il cancro.
Incredibile, ma è accaduto in quella piazza e da quel palco.
Naturalmente ha attaccato a fondo la sinistra descrivendola come una peste da cui lui e soltanto lui ha salvato il Paese sacrificando la sua privata libertà. Si è vantato di avere ridotto i reati di furto di rapina e di omicidio a livello minimo mai raggiunto.
Di aver riportato l'Italia tra le grandi potenze col massimo rilievo che tutti gli altri gli attribuiscono. Di aver bloccato l'immigrazione. Di aver fatto sciogliere i campi nomadi. Ha inneggiato a Bertolaso e ai provvedimenti di emergenza che hanno salvato il Paese. Ha ricordato per l'ennesima volta i rifiuti tolti a Napoli (adesso ci risono) e le case fabbricate a L'Aquila.
A metà spettacolo è arrivato al microfono Umberto Bossi e gli ha rubato per qualche minuto la scena. Non so se l'abbia fatto per distrazione o per sottile perfidia ma con il suo stentato parlottare Bossi gli ha conferito un merito che francamente non conoscevamo: quello di non aver firmato una direttiva europea sulla «famiglia trasversale»; un merito alquanto imbarazzante se attribuito proprio a Berlusconi.
Quanto al programma per i prossimi tre anni (infrastrutture, diminuzione delle tasse, ampliamento delle case senza bisogno di nessuna autorizzazione e, appunto, la vittoria sul cancro) c'è stato anche uno scivolone clamoroso. La decisione di firmare davanti a quella piazza un patto con i candidati al governo delle Regioni, nel quale patto il governo da un lato e dall'altro le Regioni che saranno guidate dal centrodestra si impegnano a realizzare un programma comune con appoggio reciproco.
E le Regioni guidate dall'opposizione, si domanderà qualcuno? «Con loro è impossibile discutere» ha detto dal palco Berlusconi. Il capo del governo ha cioè pubblicamente annunciato che discriminerà le Regioni che in libere elezioni saranno presiedute dall'opposizione. Se questa è la libertà da lui difesa e promessa, stiamone se possibile alla larga.
Ma oltre alla sinistra l'attacco si è concentrato contro i magistrati mossi da intenti politici. Come distinguere quei magistrati dagli altri? Il metro è ovvio. Quelli che processano lui o i suoi amici sono politicizzati, gli altri fanno il loro mestiere. L'attacco è stato particolarmente violento per i magistrati dei tribunali amministrativi di Roma e di Milano che «hanno volutamente truccato le carte per escludere il nostro partito dalle elezioni». In verità a Milano quegli stessi magistrati dopo un più attento controllo hanno riammesso Formigoni.
A Roma le cose sono andate diversamente perché le regole escludevano l'ammissibilità di una lista.
Pochi minuti dopo il discorso è arrivata la notizia che il Consiglio di Stato, con una sentenza ormai definitiva, ha respinto per l'ottava volta il ricorso del Pdl per la riammissione della sua lista nella provincia di Roma. Tutti comunisti anche a Palazzo Spada? «Ma ci sarà una grandissima riforma della giustizia» ha minacciato il premier con aria truce. Una decimazione tra i giudici? Le "toghe rosse" all'Asinara? Infine il presidenzialismo: prima della fine di questa legislatura verrà stabilita anche l'elezione diretta del Capo dello Stato.
Non poteva mancare, quello è ormai un pensiero fisso, la sua tarda vecchiaia lui la vuole passare al Quirinale.
Un discorso piatto, accusatorio, politicamente scadente, letterariamente pessimo. Deludente anche per i suoi che sono una bella gente un po' frastornata.
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I bisogni degli italiani, a qualunque parte politica appartengano, sono diversi da quelli che Berlusconi immagina.
Quando esordì in politica sedici anni fa aveva interpretato lo stato d'animo di una larga parte del Paese. Ricordate la Milano da bere di craxiana memoria? Ebbene, nel '94 non più soltanto Milano, ma tutto il Nord voleva una Padania da bere. Poteri forti, piccole imprese, partite Iva volevano abbattere i recinti, le regole, i lacci e laccioli che impedivano una libera gara. Fu l'epoca del liberismo e chi aveva garretti più robusti agguantava la sua meritata parte di successo e di felicità.
Questa era la domanda che veniva dal fondo del Paese e chi meglio di lui poteva capirla e soddisfarla? C'erano dei nemici da sconfiggere per attuare questo programma e lui li indicò: la casta politica impersonata dai comunisti e dalla sinistra. Il fisco e la burocrazia. E poi un uomo forte e antipolitico al vertice. Un partito-azienda ai suoi ordini. Le istituzioni da usare come una vigna di famiglia.
Intanto si disfaceva il vecchio mito della classe operaia, si affermava l'economia globale, cresceva il boom della finanza e la bolla della «new economy».
La sinistra, di tutti questi fenomeni, capì poco o niente. Aveva un'altra visione del Paese che però in quel momento non corrispondeva alle domande, alle voglie, agli umori ed agli interessi della maggioranza.
La sinistra pensava ad una crescita equilibrata, alla redistribuzione sociale del reddito per diminuire le disuguaglianze, alla legalità, all'accoglienza dell'onda migratoria. Privilegiava, almeno a parole, il «welfare» rispetto ad un liberismo darwiniano.
Strappò ancora qualche vittoria elettorale, ma il trend era già passato di mano.
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Il Berlusconi del 2007 è un fenomeno in parte diverso da quello del '94. È sempre un grande Narciso, un grande venditore e un grande bugiardo, ma alla passione per i propri privati interessi siè affiancata la passione per la politica. Che cosa c'è di più appagante della politica per un Narciso a 24 carati? La sua politica non sopporta regole né ostacoli. Vuole che tutto sia suo. Perciò l'obiettivo primario è il presidenzialismo, l'investitura popolare e plebiscitaria per un presidenzialismo che faccia piazza pulita di tutte le autorità di controllo e di garanzia. Che degradi il Parlamento, la Corte costituzionale, la Magistratura, insomma le istituzioni, al ruolo di consiglieri ed esecutori della volontà del Sovrano. Non più lo Stato di diritto ma lo Stato assoluto, il potere assoluto. Il programma è questo ed è stato infatti questo il tono del suo comizio in piazza San Giovanni. L'obiettivo è la conquista del Quirinale come luogo di potere senza altri impedimenti. La grande riforma ha questo come scopo.
Qualcuno ha acutamente osservato che negli ultimi mesi l'onnipotente capo del governo e della maggioranza non è riuscito ad ottenere nemmeno l'eliminazione delle trasmissioni televisive della Rai a lui scomode. Le telefonate iraconde con l'Agcom e col direttore generale della Rai non sono riuscite ad ottenere il risultato voluto.
Ha dovuto utilizzare l'impuntatura d'un radicale membro della commissione di Vigilanza della Rai per poter azzerare tutte le trasmissioni di informazione del nostro servizio pubblico televisivo. Dunque un onnipotente impotente? Diciamo meglio: un onnipotente alle prese con regole e autorità neutre ancora esistenti e operanti. Per questo la priorità numero uno è per lui il potere assoluto. Disfarsi di quelle regole e di quegli ostacoli.
Danneggiando pesantemente la Rai, favorendo pesantemente Mediaset che è cosa sua, come disse a Ciampi nel tempestoso colloquio del 2006 sul rinvio in P arlamento della legge Gasparri. Non vuole più essere un onnipotente impotentee neppure un potente limitato dalle regole e dalla legge.
La legge la fa lui e lui soltanto.
Ha ragione il presidente Napolitano ad insistere sulla collaborazione di tutti alle riforme ed hanno ragione tutti gli osservatori che giudicano pessima una campagna elettorale che non si occupa affatto dei problemi concreti delle Regioni. Ma il tema posto dal Capopopolo e Capo del governo è lo stravolgimento della democrazia parlamentare in un regime di assolutismo ed è con questo tema che bisogna confrontarsi.
Il comizio di piazza San Giovanni ce lo conferma. L'opposizione può e deve parlare di sanità, precariato, occupazione, sostegno dei redditi, Mezzogiorno. Ma deve far barriera contro la richiesta di potere assoluto e plebiscitato. Questo ci dice la giornata di ieri ed è un tema che non può essere eluso.
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Lo Stato, nel senso della pubblica amministrazione, è a pezzi. Siamo in coda a tutte le classifiche internazionali. Una burocrazia elefantiaca, insufficiente, infiltrata dalla politica e spesso succube degli interessi anche illeciti.
Questa inefficienza dura da decenni e la responsabilità non è di Berlusconi ma di tutti i governi a partire dalla fine degli anni Settanta e forse anche da prima. L'amministrazione pubblica non è più stato un tema degno di attenzione mentre avrebbe dovuto essere l'obiettivo numero uno da perseguire. Berlusconi però fa parte della lunga schiera dei governi responsabili di questa enorme disattenzione, ma quel tema non l'ha neppure sfiorato. Per lui la pubblica amministrazione è un cane morto da sotterrare nel momento stesso in cui il Sovrano assoluto sarà insediato. L'amministrazione dovrebbe rappresentare la continuità dello Stato di fronte all'alternarsi dei governi. Garantire il rispetto degli interessi sociali individuali legittimi ma insieme a quello degli interessi generali. Nulla di tutto ciò è all'ordine del giorno.
Quando parlo di pubblica amministrazione parlo anche, anzi soprattutto, della Giustizia che ne costituisce la parte essenziale; parlo della sanità, della fiscalità, della rappresentanza all'estero, della gestione di Regioni e di Enti locali. E parlo anche di governi. Il potere esecutivo fa parte della pubblica amministrazione anzi ne è il coronamento. Dovrebbe esserlo. In Usa il governo del presidente si chiama infatti Amministrazione. Ma quella è un'altra storia e un altro Paese. Pubblica amministrazione, Costituzione, legalità: questo dovrebbe essere il programma di un serio partito democratico e riformista. Il presidenzialismo in salsa berlusconiana è l'antitesi del riformismo democratico. Quanto alla lotta contro la corruzione, essa riguarda soprattutto i partiti. Dovrebbero darsi un codice eticoe applicarlo puntualmente; prima che la magistratura si esprima, i partiti dovrebbero sospendere i loro membri indagati, una sospensione sul serio che non consentisse alcuna interferenza sulla politica. Il caso Frisullo da questo punto di vista è fin troppo eloquente. Il caso Frisullo dimostra anche quanto sia fallace e falsa l'accusa contro le "toghe rosse" o politicizzate. Mentre Trani mette sotto inchiesta il premier, la procura di Bari arresta Frisullo. L'Ordine giudiziarioè un potere diffuso che viene esercitato dai magistrati secondo i loro ruoli, la loro competenza territoriale e i diversi gradi della giurisdizione, sicché è impossibile lanciare quotidianamente accuse nei loro confronti nelle quali eccelle il presidente del Consiglio. Da parte sua quelle accuse hanno una valenza eversiva che mina alle fondamenta lo Stato di diritto.
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I sondaggi d'opinione non possono esser resi pubblici in queste ultime settimane prima del voto, ma chi ascolta e analizza i sentimenti della pubblica opinione si è fatto un'idea del «trend» pre-elettorale e il trend è questo: la quota dei non votanti sembra essersi attestata intorno al 30 per cento. Circa metà di questa astensione ha carattere permanente, l'altra metà ha carattere punitivo nei confronti dello schieramento di origine. Di questo 15 per cento gli esperti ritengono che almeno due terzi provenga da elettori di centrodestra. Astinenza significa sottrarre mezzo voto al proprio schieramento di provenienza.
Queste considerazioni non sono appoggiate da alcun sondaggio recente ma si deducono logicamente. Servirà la manifestazione di ieri in San Giovanni a modificare il trend? Credo di no. Il discorso di Berlusconi, l'abbiamo già detto, è stato di modestissima qualità. L'intento era di spingere il suo elettorato al voto compatto senza smottamenti pericolosi, ma da questo punto di vista l'occasione sembra mancata. Ma può un Paese come il nostro esser guidato da un piazzista che vende prodotti vecchi e spesso avariati? Questo è il mistero che, speriamolo, le elezioni del 28 marzo dovrebbero cominciare a sciogliere.
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo». È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un’affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un’esagerazione, sappia che l’Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?
Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c’è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L’ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l’orgoglio. Ma come è potuto accadere?
Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità.
Il senso del «è tutto inutile» toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna.
Io non voglio arrendermi a un’Italia così, a un’Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all’Osce, all’Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare.
Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov’è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. Ci indigniamo per politici come l’imputata Sandra Lonardo Mastella che dall’esilio si ricicla per sostenere, questa volta, non più il Pd ma il candidato a governatore in Campania del Pdl, Stefano Caldoro. Per Fiorella Bilancio, che aveva tappezzato Napoli di manifesti del Pdl ma all’ultimo momento è stata cancellata dalla lista del partito e ha accettato la candidatura nell’Udc. Così sui manifesti c’è il simbolo di un partito ma lei si candida per un altro. Ci indigniamo per la vicenda dell’ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, Roberto Conte, candidatosi nuovamente nonostante una condanna in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e per giunta questa volta nel Pdl. Ci indigniamo perché il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, su cui pende un mandato d’arresto, mantiene la propria posizione senza pensare di lasciare il suo incarico di sottosegretario e di coordinatore regionale del Pdl. Ci indigniamo perché è possibile che un senatore possa essere eletto nella circoscrizione Estero con i voti della ‘ndrangheta, com’è accaduto a Nicola Di Girolamo, coinvolto anche, secondo l’accusa, nella mega-truffa di Fastweb. Ci indigniamo, infine, perché alla criminalità organizzata è consentito gestire locali di lusso nel cuore della nostra capitale, come il Café de Paris a via Vittorio Veneto.
Ascoltiamo allibiti la commissione parlamentare antimafia che dichiara, riguardo queste ultime elezioni, che ci sono alcuni politici da attenzionare nelle liste del centrosinistra. E ad oggi il centrosinistra non ha dato risposte. Si tratta di Ottavio Bruni candidato nel Pd a Vibo Valentia. Sua figlia fu trovata in casa con un latitante di ‘ndrangheta. Si tratta di Nicola Adamo candidato Pd nel Cosentino, rinviato a giudizio nell’inchiesta Why not. Di Diego Tommasi candidato Pd anche lui nel Cosentino e coinvolto nell’inchiesta sulle pale eoliche. Luciano Racco candidato Pd nel Reggino, che non è indagato, ma il cui nome spunta fuori nell’ambito delle intercettazioni sui boss Costa di Siderno. Il boss Tommaso Costa ha fornito, per gli inquirenti, il proprio sostegno elettorale a Luciano Racco in occasione delle Europee del 2004 che vedevano Racco candidato nella lista "Socialisti Uniti" della circoscrizione meridionale. Tutte le intercettazioni sono depositate nel processo "Lettera Morta" contro il clan Costa ed in quelle per l’uccisione del giovane commerciante di Siderno Gianluca Congiusta.
A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il – o vengono prima del – diritto, valutazioni in merito all’opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all’opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l’antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un’abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. È un tradimento che quasi si perdona con un’alzata di spalle come quello d’un marito troppo spensierato che scivola nelle lenzuola di un’altra donna.
Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro? Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro. Dov’è finito l’orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov’è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.
Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze – certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l’obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l’avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.
Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso – meno crudele, certo, ma meno forte e solido – solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un’alternativa vera e vincente.
Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un’alternativa. Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno. Del resto, quello che più d’ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate.
L’Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. Sapendo che il Messico oramai è divenuto una narcodemocrazia la nostra rischia di essere, se non lo è già diventata una democrazia a capitale camorrista e ndranghetista.
Qui, invece, ancora si crede che la crisi sia esclusivamente un problema legato al lavoro, a un rallentamento della domanda e dell’offerta. Qui ancora non si è compreso davvero che uscire dalla crisi significa cercare alternative all’economia criminale. E non basta la militarizzazione del territorio. Non bastano le confische dei beni. Bisogna arginare la corruzione, le collusioni, gli accordi sottobanco. Bisogna porre un freno alla ricattabilità della politica, e come per un cancro cercare ovunque le sue proliferazioni.
Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all’Onu, all’Unione Europea, all’Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale : la pulizia e la regolarità delle elezioni. Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.
©2010 Roberto Saviano/
Lo spettro dell'astensionismo di massa aleggia sulle prossime elezioni regionali in Italia. Lo spettro si è già materializzato Oltralpe nei risultati elettorali francesi che hanno visto la sconfitta del partito di governo del centro-destra di Sarkozy. Fatte le dovute differenze, l'indicatore della disaffezione di quote crescenti di popolazione dalla certificazione delle opzioni politiche a disposizione - le elezioni - alimenta questa volta sponsorizzazioni e preoccupazioni diverse dal solito.
A oggi il più preoccupato da un astensionismo che danneggerebbe le proprie liste, è lo schieramento di centro-destra, soprattutto nella sua filiazione più direttamente berlusconiana. «Prima il partito dell'astensione coincideva con elettori di sinistra delusi, magari intellettuali. Oggi no, di astensione puoi sentir dibattere in un mercato, o tra artigiani elettori classici del centrodestra» sottolinea La Stampa. Gli fa eco un guru dei sondaggi come Renato Mannheimer, secondo il quale «sì, stavolta un'alta astensione è una possibilità reale. Non di dimensioni francesi, magari; ma mai così alta prima da noi». Non solo. Un altro organo di informazione dei poteri forti, Il Sole 24 Ore, il 12 marzo ha dato ampio spazio, ma soprattutto legittimazione, ai risultati di un sondaggio condotto dalla Swg per conto della Fondazione «Italia Futura» di Luca Cordero Montezemolo, un altro businessman che più di qualcuno vorrebbe e vedrebbe bene come presidente del Consiglio al posto di Berlusconi - da la Repubblica fino a settori del popolo viola che, nella pronta iniziativa di piazza Navona in difesa della Costituzione, hanno letto il brano sul «governo dei migliori» di Pericle che tanto sta a cuore allo stesso Montezemolo.
«Non è più un tradimento»
Secondo il sondaggio commissionato alla Swg di Trieste «favorevole all'astensione è il 25% degli intervistati, contrario il 58%. Ma il dato cambia se si chiede di prendere in considerazione il caos che caratterizza la vita politica italiana e il particolare momento che accompagna le elezioni regionali. In questo caso il 35% dei cittadini ritiene che la scelta di non andare a votare o di votare scheda bianca sia legittima. Il dato sale ulteriormente, fino ad arrivare al 51%, se si prende in esame la classe di età tra i 18 e i 34 anni». I risultati del sondaggio servono alla fondazione di Montezemolo per affermare alcune cose:
1) L'astensionismo elettorale di fronte ai soggetti dell'attuale competizione politica non è più un tradimento del diritto-dovere del cittadino ma una forma di aperta e legittima obiezione di coscienza
2) Ad essere astensionisti non sono più gli elettori più esigenti o più radicali della sinistra o le popolazioni delle isole e del Meridione, ma quote crescenti di professionisti, imprenditori, ceti medio-alti delusi dall'estremismo berlusconiano e dalla pochezza del Pd.
3) L'astensionismo cresce tra le nuove generazioni come forma di rifiuto attivo verso i lacci e lacciuoli politici e sociali del sistema Italia che ne impediscono la conquista di uno status sociale coerente con le proprie altissime aspettative, verso un sistema arretrato rispetto agli standard economici, politici e sociali europei.
Emerge insomma come una parte dei poteri forti (a partire da Montezemolo e Confindustria), una volta verificata la loro straordinaria ininfluenza politica ed elettorale nella pancia profonda del paese, questa volta tenti di usare la carta della delegittimazione attraverso l'astensionismo non in senso sovversivo ma come forma di pressione sull'attuale e troppo populista establishment politico.
Il loro interesse infatti non è certo quello di recuperare la partecipazione popolare ai processi politici, al contrario, essi sono stati tra i carri armati dell'introduzione del sistema elettorale maggioritario nel 1993 e delle sue maglie restrittive del suffragio universale. Il fatto è che il quadro attuale non consente quella «terza forza» per cui lavora Montezemolo e che abbisogna del proporzionale. Scrive ancora La Stampa (di proprietà della Fiat) che «qualcosa di culturale è mutato nella percezione italiana. Alle politiche del '53 o del '58 votarono il 93,8% degli italiani. Ma dalla svolta maggioritaria del '93 in poi è iniziato un calo costante, culminato col 35% di astensioni alle ultime europee».
L'invasione di campo
Quello maggioritario è dunque un sistema che volutamente allontana dal processo elettorale quasi un cittadino su tre perché, in nome della govenrabilità e dell'alternanza, lo costringe a votare su opzioni e candidati che ingabbiano l'esigenza di rappresentanza politica e ne eliminano quelle considerate incompatibili con la centralità degli interessi materiali della borghesia italiana. Lo confermano la bassa partecipazione popolare alle elezioni nei paesi dove da sempre vige il sistema maggioritario. Lo incentivano non pochi pensatori «liberali» secondo cui l'esercizio della partecipazione alle sorti delle società è sempre stato un privilegio per i «migliori» che va negato al popolo dei semplici e dei meno abbienti.
In queste elezioni regionali siamo dunque in presenza di una «invasione di campo» da parte di una frazione della borghesia sul terreno dell'astensionismo elettorale inteso come opzione politica. Una invasione che cerca di agire questo strumento contro un'altra frazione del suo stesso blocco sociale. È una situazione decisamente imbarazzante ed inquietante quando il nemico di classe si appropria di ogni spazio di espressione politica. È materia su cui riflettere e non solo per le prossime elezioni regionali. La questione della rappresentanza politica dei settori popolari e della ricostruzione di un blocco sociale intorno a interessi di classe ben definiti, è una sfida che il politicismo della sinistra esistente ha continuato a rimuovere in modo decisamente suicida. Per questo adesso viene incalzata e rimossa in tutti gli spazi dello scenario politico.
L’autore è direttore di Contropiano
Migliaia di sms. Il premier ha voluto una organizzazione faraonica per far dimenticare le imprese del Pdl romano. I movimenti de l’acqua dirottati per non disturbare i pullman del Pdl. Evitare il caos? Impossibile
Da una parte, quelli che: «O Silvio o il diluvio» (parola di Feltri). Dall’altra quelli che: anche «l’acqua bene comune», con questo governo, in effetti, è a rischio. Di là: «Il popolo del Pdl che - assicura il premier - c’è, basta chiamarlo a raccolta ». Per sicurezza, comunque, Silvio ha mandato a tutti un sms di promemoria: «Ti aspetto sabato alle ore 14 a Roma Circo Massimo. Un grande corteo fino a San Giovanni per difendere la libertà e la democrazia. Silvio Berlusconi» (a proposito: chi li paga? da dove hanno preso i numeri di telefono?, chiede l’Idv, con una interrogazione parlamentare). E poi tremila pullman da tutta Italia, quattro treni speciali, untraghetto e una nave dalla Sardegna e «alcuni aerei». Un dispiegamento di forze che i cinquecentomila manifestanti annunciati alla vigilia della «grande» manifestazione voluta dal premier avranno di che viaggiare comodi.
Di qua, viceversa, un centinaio di pullman e un popolo autoconvocato formato da una miriade di comitati, social forum, associazioni. Dall’Arci alle Acli, dalla Cgil a Pax Christi. E poi gli enti locali, i sindaci (anche alcuni di centrodestra). Mobilitati a difesa dei beni essenziali: dall’acqua, che il decreto Ronchi privatizza, alla democrazia partecipativa. Ci sarà anche l’Abruzzo social Forum, uno dei tanti pezzi della penisola che si ribella.
Di là, quelli che anche la manifestazione la appaltano ai soliti amici (così denuncia Mascia, del popolo viola): luci affidate alla «d lighting &truck» e allestimenti a Mario Catalano, consulente di Palazzo Chigi, che in Abruzzo «fu chiamato per 92mila euro a verificare la legge 626».
Insomma, più lontane di così piazza Navona, prenotata da tempo dai «movimenti per l’acqua», e piazza San Giovanni, dove il Pdl ha issato il suo palco, non potrebbero essere. Non farle incontrare, almeno sulla carta, è un rompicapo, non ancora sciolto. «Stiamo aspettando che ci confermino quali sono le aree di sosta dove lasciare i pullman», spiegano gli organizzatori della manifestazione in difesa dell’acqua bene pubblico. All’inizio erano state loro assegnate le aree della Anagnina, da cui parte la linea A della metropolitana. Contrordine, quelle vanno al Pdl. Mentre i comitati per l’acqua saranno dirottati a PonteMammolo, lungo la linea metro B, dove comunque convergeranno una parte dei pullman del Pdl a cui sono state assegnate anche le aree di sosta di Eur-Fermi, altra fermata della metro B. In ogni caso, il caos totale sarà inevitabile. Contre cortei contemporaneamente in marcia sulla città eterna. Il Pdl di cortei infatti ne ha voluti 2: uno da Colli Albani, capeggiato dai giovani e dalla ministra Giorgia Meloni, l’altro, dal Circo Massimo, porterà “in trionfo” lo slogan «l’amore vince sempre sull’odio» e la candidata del Lazio Renata Polverini. Il Pdl promette un’organizzazione senza precedenti. Obiettivo: far dimenticare la debacle di quel Milioni che fu fatale alla lista del Pdl romano.
L’inchiesta di Repubblica e le ben più corpose iniziative delle procure sui lavori del G8 a La Maddalena hanno avuto il pregio di avere messo in luce in modo chiaro cose che stavano sotto gli occhi di tutti, ma di cui non tutti, evidentemente, ne avevano considerato appieno l’importanza. Il quadro rappresentato è desolante e lo squarcio che è stato aperto disvela il malaffare che si cercava di celare con la magia dell’efficienza operativa a buon mercato prescindendo dalle regole.
Ma la denuncia politica, in ambito regionale, non mi pare che abbia avuto sinora grande efficacia. Forse si spera ancora che qualche briciola arrivi a La Maddalena e il senso di impotenza sembra prevalere sulla pretesa della certezza delle regole e del diritto. Le rimostranze del sindaco di La Maddalena e le denunce dell’assessore provinciale Zanchetta, e nemmeno quelle di Soru, passata la tempesta, non mi sembra abbiano avuto un’eco sufficiente per una riflessione su quanto è avvenuto nelle ventose acque nell’Arcipelago.
Nell’inchiesta si parla dell’arsenale, oggi ex arsenale, e della sua destinazione ad albergo, che le stelle siano 3 o 5 è indifferente, sempre albergo è, svenduto al migliore e unico offerente escludendo ovviamente gli imprenditori sardi. In merito, non so ancora capacitarmi come mai un edificio pubblico di così grande pregio e importanza storica abbia avuto in tempi rapidissimi tutte le autorizzazioni necessarie (ammesso che le abbia avute tutte) per le trasformazioni e il cambiamento di destinazione d’uso di edifici storici di pregio. Nell’Arsenale era custodita una serie di manufatti e di documenti di grande rilevanza per la storia di La Maddalena e dell’Italia. Credo che i cittadini abbiano il diritto di conoscere dove sia conservata tutta questa documentazione cartacea e strumentale che l’arsenale custodiva, a quale uso sia destinata, se sia stata dismessa o se, semplicemente, sia finita in qualche ripostiglio non si sa bene dove. Mi conforta la serietà e professionalità della Marina Militare, ma qualche informazione in merito ritengo sia dovuta.
Personalmente considero che sia stata persa una grande occasione con la scelta di trasformare un Luogo della Storia in un banale albergo, mentre avrebbe potuto accogliere uno straordinario museo della storia della marina italiana e delle arti marinare, forse unico.
Ai Luoghi della Storia è dovuta un’attenzione e un rispetto che la politica del fare e del fare in fretta ci fa trascurare, e solo quando li vediamo trasformati, feriti o distrutti ci accorgiamo di quanto abbiamo perso. Luoghi visti come palestra per esercitare e fare conoscere la propria bravura, non importa se si inserisce un corpo estraneo (vero monumento all’inutilità in cristallo quello dell’architetto Boeri, nel momento che un grande teatro-centro congressi a la Maddalena esiste da tempo), in realtà un contesto storico e ambientale delicato nonostante la sua robusta struttura essenziale nel granito.
L’architetto Boeri su Sardegna Democratica illustra con dovizia di particolari e sofferenza la sua esperienza a La Maddalena, ignaro tra gli ingranaggi della corruttela ed entusiasta del lavoro alacre di giovani architetti, che davano il meglio di se stessi per trasformare un luogo della storia in albergo. Comprendo l’amarezza di Boeri e dei suoi collaboratori e auguro che in breve risolva i problemi economici che l’essere stato a La Maddalena ha determinato. Non comprendo invece come un maestro dell’architettura come lui non abbia avuto remore per una trasformazione di destinazione d’uso così radicale di un luogo della storia e delle conseguenze che queste trasformazioni porteranno nel futuro. Nella sua articolata disamina dei fatti non compare infatti nessun ripensamento sulla bontà di tutta l’operazione.
Oggi, aperti i cancelli e accese tutte le luci ci si rende anche conto che quelle risorse potevano essere spese meglio recuperando grandissima parte degli innumerevoli monumenti sparsi in tutto l’Arcipelago. E se Obama e Sarkozy e gli altri cosiddetti grandi con le rispettive consorti fossero andati a dormire nella sede dell’Ammiragliato, nell’hotel Nido d’Aquila, a Porto Massimo o al Miralonga o nei tanti alberghi della vicina Palau (Berlusconi avrebbe potuto dormire nella ugualmente vicina Villa Certosa) non sarebbe stata la fine del mondo. Risparmiando, con i tempi che corrono, anche gli altri mille miliardi di vecchie lire spese a L’Aquila.
È normale che in una democrazia il capo del governo ordini ad un’autorità di garanzia la chiusura preventiva di programmi tv? È possibile che tratti come un suo dipendente il direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo? È accettabile che un presidente del Consiglio - invece di governare - spenda così tanto tempo al telefono con l’unico obbiettivo di far tacere le poche voci dissenzienti che ancora vanno in onda in un circuito mediatico addomesticato? Nessuno degli interessati, ovviamente, risponderà né chiederà scusa per i suoi comportamenti.
Scriveva un grande filosofo e politico del Settecento che il dispotismo di un uomo solo esiste soltanto nell’immaginazione degli ingenui. Il dispotismo ha bisogno di un certo numero di persone che siano per libera volontà o costrizione disposti a mettersi al servizio completo, giorno e notte, anima e corpo, del despota. Senza di che non ci può essere dispotismo alcuno. Le vicende di questi giorni, quelle che mostrano l’uso padronale che il presidente del Consiglio fa di tutte le nostre istituzioni e di tutti gli strumenti a cui può avere accesso è una dimostrazione da manuale di questa verità sulla natura del potere dispotico. E ci impone di guardare oltre l’atteggiamento padronale di chi siede a Palazzo Chigi per prestare attenzione a quella classe di persone che stanno al suo fianco e lavorano alacremente con tutti i mezzi ae a tutte le ore per attuare i suoi piani.
A leggere le intercettazioni di questi giorni si resta allibiti dalla mancanza totale di dignità di uomini che, adulti e spesso anziani, si fanno come bambini o servitori per accontentare i desideri del capo: dicono sempre sí e temono di essere redarguiti. Eppure, questi signori, onorevoli, ministri, avvocati, e anche magistrati, dirigenti, questi signori pretendono dai cittadini –giustamente, dato il loro ruolo pubblico-rispetto e dignità. E quindi la loro condizione è negativa sotto tutti gli aspetti: verso se stessi e verso le istituzioni che rappresentano. Verso se stessi prima di tutto, poiché è deprimente e moralmente avvilente una vita spesa dall’ora della colazione all’ora di cena a rispondere alle esigenze del potente protettore: certo, ci sono vantaggi di status e materiali in cambio, eppure è improbabile che almeno una volta questi vantaggi non siano apparsi come insufficienti a colmare la fatica psicologica di essere sempre al servizio. Ma la loro condizione è ancora piú negativa per le istituzioni che rappresentano, istituzioni che erano prima di loro e vivranno dopo di loro (su questo occorre essere sicuri e convinti) e che il loro atteggiamento servile umilia e infanga.
Un altro grande filosofo francese, il Barone d’Holbach scrisse tra le altre cose un saggio impareggiabile, pubblicato postumo, sull’arte di strisciare. Ecco che cosa scriveva: "I filosofi, che spesso sono di cattivo umore, considerano in verità il mestiere del cortigiano come vile, infame, pari a quello di un avvelenatore. I popoli ingrati non percepiscono la reale portata degli obblighi propri di questi uomini generosi che, pur di garantire il buon umore del Sovrano, si votano alla noia, si sacrificano per i suoi capricci, immolano in suo nome onore, onestà, amor proprio, pudore e rimorsi; ma come fanno quegli ottusi a non rendersi conto del costo di tanti sacrifici? Non pensano al prezzo da pagare per essere un buon cortigiano? Qualunque sia la forza d’animo di cui si è dotati, per quanto la coscienza possa esserci corazzata con l’abitudine a disprezzare la virtù e calpestare l’onestà, per gli uomini ordinari resta comunque penoso soffocare nel cuore il grido della ragione. Soltanto il cortigiano riesce a tacitare questa voce inopportuna; lui solo è capace di un così nobile sforzo".
A noi che subiamo ancora il fascino della Rivoluzione francese per aver spazzato via (o averci provato) cortigiani e cicisbei, le parole del Barone d’Holbach commuovono poiché siamo egualitari, attribuiamo grande valore agli individui e vorremmo che tutti potessero vivere a schiena diritta, fieri della loro personale dignità. Non perché siamo moralisti ma perché teniamo moltissimo alla nostra personale dignità che le istituzioni democratiche ci garantiscono. Difendere la dignità di queste istituzioni - e quindi la nostra personale - significa prendere le distanze da tutti coloro che praticano l’arte di strisciare.
L'atmosfera che avvolge oggi in Veneto questa scontatissima e noiosa campagna elettorale è davvero surreale. Da un lato sconcerto, timore e sdegno intellettuale per l'arrivo dei lanzichenecchi della Lega, dall'altro un'attenzione certosina e bipartisan nell'evitare di affrontare i temi che rischierebbero di risvegliare l'interesse degli elettori.
Per prima cosa vorrei far notare che i lanzichenecchi hanno governato il Veneto ininterrottamente per 15 anni e Zaia rappresenta solo un avvicendamento all'insegna della continuità. Cambierà lo stile, come testimonia la cortese e pacata lettera dell'ufficio stampa di Zaia al manifesto, cambieranno alcuni protagonisti ma il progetto che ha trasformato il Veneto in Galania rimarrà invariato. Tutte le polemiche locali all'interno del Pdl e con il Pd sono pura fuffa elettorale.
Il 12 luglio del 2009 il Corriere della Sera pubblicava due intere pagine di pubblicità della Regione Veneto che esaltavano il successo del convegno «Paesaggio: una grande occasione per il Veneto delle infrastrutture».
Tra inni a quanto può essere bello asfaltare e cementificare quel che resta della regione e un'intervista a un «notissimo» architetto portoghese, spiccava sullo sfondo della foto di un paesaggio collinare una frase di Galan: «E se questo è stato il Veneto della nostra memoria, per il Veneto di domani, dopo il Passante, altre opere sono attese dalle donne e dagli uomini di questa terra, sostenuti come sono dalla certezza che la libertà di ciascuno esiste solo se c'è sicurezza e indipendenza economica».
«Altre opere sono attese...». In queste parole si può riassumere la vera ragione del sorpasso della Lega e il tentativo disperato di Galan di non cedere il comando. «Il Veneto di domani» è un affare ultramiliardario che ora passa nelle mani di Zaia e del suo partito.
Finora era stato gestito da quello che la stampa (Rizzo e Stella, Caporale, D'Avanzo) in merito a grandi appalti, imprese e società autostradali e ospedali, aveva definito «il sistema degli appalti di Galan in Veneto» che parte dalla Veneto Sviluppo Spa e si dipana in una miriade di società operative. Ma i settori su cui si concentrano particolarmente gli interessi e gli scontri di potere riguardano le infrastrutture stradali e autostradali, gli ospedali e le grandi operazioni immobiliari.
I candidati del Pd non hanno speso una sola parola sulla faccenda. Avrebbe significato sparigliare i giochi e raccontare agli elettori come in tutti questi anni il centro sinistra ha di fatto preferito inserirsi e convivere nel sistema Galan piuttosto che contrastarlo. Non a caso ha candidato Bortolussi, un fan accanito del presidente e hanno fatto fuori Laura Puppato, sindaca di Montebelluna, che non solo avrebbe portato molti più voti ma avrebbe messo in discussione le scelte ambientali del proprio partito a partire dagli inceneritori. Gli unici ad alzare la voce sono i numerosi comitati sorti in difesa del proprio territorio messo in pericolo dalla devastazione della politica del fare. Uno straordinario laboratorio politico, una delle poche novità a livello regionale e nazionale, escluso dalla campagna elettorale per evitare la diffusione del contagio. Un grattacapo anche per la stessa Lega che, a parole, sostiene le istanze locali e poi, nei fatti, solo i poteri forti e obbedisce a Bossi senza spazio di discussione. La storia locale insegna che tutti coloro che si sono opposti ai voleri del gran capo dei padani sono stati fatti fuori e oggi al massimo gravitano nei partitini simil-Lega. E Zaia, quando è arrivato Bossi a santificarlo, si è adeguato allo scenario, modificando stile e linguaggio.
Sarebbe davvero ingenuo pensare che la Lega non abbia voluto fortemente il governo della Regione per non essere più relegata alla periferia del potere, che qui non è più in mano alla politica, ma a un intreccio molto più complesso con settori dell'imprenditoria e della finanza. L'efficienza del sistema Galan alla fine si è rivelata la sua debolezza e qualcun altro si è fatto avanti a chiedere il cambio e una redistribuzione più equa di appalti e «lavori» a livello locale. Un avvicendamento che non sarà fatto indolore. La partita si giocherà sulle percentuali di distacco tra Lega e Pdl, su quanto spazio di manovra riusciranno ad avere Renato Chisso (regista operativo dell'intero sistema) e gli altri fedelissimi di Galan.
Ma anche (e forse soprattutto) su quale ministero riuscirà ad aggiudicarsi l'ex presidente, il quale sta muovendo mare e monti per sostituire il traballante e inguaiato Matteoli alle Infrastrutture e applicare il suo efficace sistema in ogni angolo della penisola. Centrali nucleari, termovalorizzatori, ponte sullo Stretto, la Valsusa trasformata in un enorme cantiere sono solo alcuni esempi di un progetto molto più esteso. Giancarlo Galan è l'uomo giusto per realizzare tutto questo. Nessuno è più bravo di lui ed è meglio che la miriade di comitati locali lo capiscano in fretta. Possiamo solo sperare che questo paese cambi prima che lui possa agire. Galan non è solo abile, è da sempre il migliore esecutore del progetto berlusconiano. Non a caso si è formato nella sua azienda. Ha dimostrato di farsi temere e rispettare, da amici e avversari e in Veneto ben pochi hanno tentato di contrastarlo e, spesso, lo spettacolo di vassallaggio è stato penoso. Sulla stampa si rasenta ancora il culto della personalità con la pubblicazione quotidiana di un numero esagerato di foto (record nazionale assoluto a livello di presidenti delle regioni).
E se Galan si pappa il boccone di quel ministero, davvero vogliamo insistere nella nostra ingenuità di pensare che Zaia e i suoi non si mostreranno molto più collaborativi di oggi? Ma ancora i giochi non sono fatti e l'attuale scontro dai toni piuttosto grevi tra l'ormai ex presidente e i leghisti non promette nulla di buono e l'italica usanza di saltare sul carro dei vincitori fa parte ormai della quotidianità. Ma domani, si sa, è sempre un altro giorno.
«Prima il Veneto» è uno slogan accattivante ma vuoto. La Lega, a parte le solite parole d'ordine, non ha nessun progetto valido per il Veneto. «Sì all'agricoltura identitaria, no agli Ogm», tuona Zaia ma poi sponsorizza il panino McItaly della McDonald's: «È un grande obiettivo che mi ero prefisso e che è stato realizzato». No, ni, vediamo... alle centrali nucleari. Radici cristiane nello statuto della regione e soliti luoghi comuni antislamici. Sicurezza contro i soliti sfigati clandestini e rom (ma su questi ultimi fa a gara con esponenti del Pd) ma nessuna parola sulle mafie che investono, cioè riciclano, nel territorio. Lo denunciano anche le associazioni di categoria e ci piacerebbe anche sapere come e dove vengono investiti questi soldi sporchi di sangue.
Lo strapotere irraggiungibile della destra, le loro insopportabili beghe interne, l'inadeguatezza voluta e scelta del Pd, e l'assenza a sinistra di un progetto credibile sta alimentando un grande desiderio di fuga dalle urne. Molti militanti, legati alle esperienze territoriali, lo stanno anche teorizzando proponendo un'analisi sensata della situazione ma, a mio avviso, fuori tempo massimo perché il variegato popolo della sinistra capisca a fondo il senso di questa scelta.
Ma è anche vero che si sta diffondendo la consapevolezza che nemmeno ai partiti della sinistra interessi attaccare e demolire il sistema Galan e la sua prossima articolazione in salsa leghista e questo accentuerà l'astensione. Io, invece, ho deciso di votare e di accettare il rischio anche se la lettura dei programmi non mi è di nessun conforto. Nessuno dà il giusto peso alla necessità strategica di smantellare lo scellerato intreccio affari & politica come unica possibilità per evitare al Veneto l'ultimo e definitivo sacco del territorio e imporre una politica che rilanci l'economia su basi totalmente opposte. Continuare a ragionare con la logica del partitino che si accontenta di piazzare il proprio consigliere sui banchi dell'opposizione, significa solo continuare a far parte di quella politica che sta distruggendo il paese. E la netta impressione che si ricava è di un ceto politico che non è all'altezza. Forse perché ancora troppo occupato a cogliere le ragioni della propria crisi (che due palle!). A mio modesto avviso è inutile e poco serio fingere di non sapere come andrà a finire. E allora quando la sconfitta e la ritirata scomposta sono certezze bisogna pensare al futuro. E non mi riferisco a quello del sol dell'avvenire. Voto o non voto non abbiamo scelta. E tantomeno tempo.
In un recente articolo su questo giornale Stefano Rodotà ha sottolineato con forza il fatto che siamo ormai entrati nella fase di una "crisi di regime". Quella attuale, l´ultima della serie che hanno segnato la storia d´Italia, presenta la peculiarità di essere la conseguenza dell´assalto portato alle istituzioni da un plutocrate avente quali scopi determinanti l´allargamento del proprio impero economico e della rete degli interessi ad esso legati e il piegare la legge alle esigenze della sua persona e delle sue clientele, in un contesto favorito dalla debolezza delle forze di opposizione. Le quali non sono riuscite a costruire un efficace schieramento di difesa e a offrire, anche quando al governo, un´alternativa in grado di contrastare la crescita di consenso da parte di un popolo largamente manipolato dal bombardamento propagandistico messo in atto, grazie ai copiosissimi mezzi a sua disposizione, dal plutocrate, e inteso a dargli l´immagine di un nuovo uomo della Provvidenza.
Se volgiamo lo sguardo alle radici di questa crisi, credo che la prima sia da ascriversi all´incapacità, diciamo pure alla non volontà, della sinistra di prendere di petto fin dagli inizi il conflitto di interessi incarnato da Berlusconi. Ci si limitò a denunciarlo, nell´illusione che – lasciandolo in sordina – si potesse rendere più agevole la normalizzazione del sistema politico, nel timore che uno scontro decisivo facesse da ostacolo alla legittimazione della sinistra; e perciò si respinsero o mal tollerarono le voci di quanti avvertivano che quel conflitto apriva la strada ad una pericolosa "emergenza democratica". Così la frana iniziale ha potuto diventare una valanga che si è rovesciata sul Paese. Estesa la sua rete nell´economia e nei mezzi di informazione, Berlusconi ha provveduto a creare il suo partito basato su una rete di clientele inglobando Alleanza Nazionale e legandosi con la Lega. Una coalizione, non sempre pacifica, ma rivelatasi nondimeno uno strumento che lo ha ben servito nei suoi obiettivi: ottenere il sostegno necessario per opporsi ai giudici nei processi a suo carico, far varare le leggi ad personam, rafforzare la sua leadership populistica. E su queste premesse Berlusconi ha portato l´attacco ai principi costituzionali, posto in stato di accusa la magistratura, gettato il discredito sulla Corte Costituzionale, cercato di imporre i suoi diktat al Presidente della Repubblica, sovvertendo gli equilibri tra i poteri dello Stato, con la volontà di accreditarsi quale unico potere legittimo in forza della maggioranza parlamentare e del consenso del popolo che a suo dire lo vorrebbe arbitro unico e incontrastato della politica nazionale. In un simile contesto un esito era inevitabile nella parabola del berlusconismo: considerare chiunque al di fuori del perimetro della sua fortezza non già un avversario politico, ma un nemico, rigettare la reciproca legittimazione degli schieramenti, vagheggiare il ritorno ad un sistema politico bloccato con una sinistra condannata a restare eterna minoranza. L´ansia di strapotere di Berlusconi e il gusto della sua esibizione si sono poi trasferiti irrefrenabilmente dai comportamenti politici a quelli festaioli, dalle clientele di partito agli harem, dal machismo politico ad un senile bullismo sessuale, mentre un ego smisurato, gonfiato dal culto della personalità tributatogli da una corte di nani e ballerine, lo ha fatto approdare all´idea della propria onnipotenza e irresistibilità di uomo che fa le cose che vuole e le porta sempre a termine. L´onda è andata per anni crescendo, ma sembra che sia giunto il momento del riflusso.
Il disegno strategico berlusconiano del grande sfondamento si era già imbattuto nei paletti posti a mano a mano dagli stessi alleati del Cavaliere: la defezione di Casini, lo stare in allerta da parte di un Bossi inteso ad impedire che il Pdl andasse a pascolare nel suo orto, i distinguo sempre più sgraditi di Fini (che non si capisce però quali conseguenze riterrà di trarne) su molti importanti problemi. Ora sono arrivati gli scandali legati alla gestione della Protezione civile; è emerso l´atteggiamento protervo oltre ogni limite assunto dal Presidente del Consiglio nell´ultimissima vicenda delle liste per le elezioni regionali; l´aggressione alla magistratura è stata spinta all´estremo in relazione sia a tale vicenda sia alle sue pendenze penali; e la pretesa di imporsi al Capo dello Stato ha assunto il carattere dell´aperta provocazione. È da pensare che a questo punto – nonostante tutti gli sforzi dei telegiornali di Mediaset e di Minzolini di coprire lo stato delle cose – ogni cosa essenziale risulti chiara alla maggioranza del popolo italiano. Ma come reagirà questa maggioranza? E come agiranno le forze di opposizione per contrastare la deriva in cui sono caduti lo Stato, le sue istituzioni, la politica nazionale? Queste le due grandi questioni all´ordine del giorno.
Quanto alla prima, una risposta la daranno a breve termine i risultati elettorali, che rappresenteranno un test inequivocabile dello stato dello spirito pubblico e della misura in cui esso è stato inquinato dal berlusconismo. Se Berlusconi dovesse ancora una volta uscirne appena scalfito o addirittura rafforzato, allora l´allarme suonerebbe estremo per le sorti dell´Italia, che si condannerebbe ad un affondamento politico e civile dalle imprevedibili conseguenze. Quanto alla seconda questione, è da sperare che le opposizioni comprendano che è giunto il momento di dar vita insieme ad un fronte di difesa democratica, mettendo in secondo piano le loro pur inevitabili differenze nel perseguire i propri interessi di partito. È finito il tempo di mirare anzitutto a erodere l´uno il consenso dato all´altro, perché questa sarebbe la via della dèbâcle collettiva.
Una considerazione finale sul Partito democratico. Mi sia consentito di dire che per parte mia ho guardato con atteggiamento critico alla sua nascita, ritenendolo basato su un amalgama di componenti troppo eterogenee (hanno finito per pensarla allo stesso modo i Rutelli, le Binetti e gli altri che hanno abbandonato il partito). Ma non si può ignorare che il tentativo della sinistra oggi guidata da Vendola di dare vita ad una forza autonoma di una qualche consistenza non ha avuto successo e che il Pd, quali che possano essere le riserve nei suoi confronti, costituisce la spina dorsale dell´opposizione. Dal che traggo la riflessione che la logica e la saggezza vorrebbero che le parti separate tornassero a riunirsi, così rafforzando il soggetto che è chiamato a porre fine a un capitolo infausto della nostra storia nazionale. I risultati elettorali ci diranno se il Paese va verso la ripresa politica e civile oppure se la crisi che si è aperta è destinata a diventare ancora più acuta trascinando l´Italia sempre più in basso.
L’Autore auspica una unificazione delle forze di opposizione a Berlusconi nell’alveo del PD. Ci sono molti modi di unificare le forze. Uno, per esempio, è quello tentato dal cavaliere con il PDL. L’altro è quello che scaturì in Italia dalla Resistenza e diede la Costituzione, il CLN, un’alleanza nella quale convivevano – legate da un insieme condiviso di principi – forze ddiverse. Forse è questo l’esempio cui riferirsi oggi, per ricostituire almeno democrazia e legalità.
Avevo intenzione di scrivere un articolo tutto diverso: compassato e compito, serio, riflessivo, ragionevole e persino giudizioso (cercherò di tornare a queste tonalità nelle conclusioni, a questo punto inevitabilmente troppo rapide). Ma sono ancora sotto l'impressione davvero straordinaria della visione completa della conferenza stampa di Silvio Berlusconi sugli «errori» di cui il popolo delle libertà sarebbe stato vittima (vittima non casuale, beninteso) a Roma e in Lombardia. Si tratta di un documento di alto livello spettacolare, che andrebbe distribuito in tutte le scuole e visionato nei cinema italiani e stranieri per la sua incomparabile evidenza politica, culturale, retorica, antropologica e, ripeto, spettacolare.
L'esposizione dei «fatti» - nessuno dei quali, ovviamente, accompagnato dalla minima pezza d'appoggio -, fra un costante digrignar di denti e strizzate allucinate dell'occhio (che sia comparso un pizzico di follia?), dimostra ad abundantiam quale sia la nozione di «verità» cui il premier si conforma: è «vero» ciò ch'io dico per il fatto che lo dico; e quanto più lo dico con rabbia e con furore (mai irato, dice lui? L'ira è un sentimento discreto e umano in confronto alla spinta irrazionale impetuosa e sconvolgente che lo anima e sorregge), tanto più «vero» sarà.
Il fatto che leggesse un testo, invece di urlare come al solito improvvisando ispirato dal suo Dio, ha complicato le cose piuttosto che semplificarle e alleggerirle: perché, senza aggiungervi un briciolo di ragione, ha guittizzato ulteriormente il suo dire. Sarebbe come se Petrolini (absit iniura verbis, nei confronti del povero Petrolini, s'intende), nel pronunciare l'invasato canto di Nerone su Roma in fiamme, avesse sbirciato su dei foglietti le battute da dire, sbagliando le congiunzioni di senso, saltando le parole, ignorando gli accenti. Anche il guittismo è sottomesso ad una scala di valori. Qui siamo ormai al livello più basso: quello in cui l'istrionismo prevale troppo ostentatamente sullo humor perché se ne possa ancora ridere.
La verità è che la minaccia trasuda ormai da ogni vibrazione della voce, da ogni divaricazione mascellare, da ogni occhiata dell'occhio gelido, spento e al tempo stesso iracondo che ti guarda. Portare in piazza e sbandierare di fronte a milioni di spettatori nomi e cognomi dei «colpevoli» - i magistrati «di sinistra» autori del «complotto» - risponde ad una tecnica ben collaudata in altri ambienti d'intimidazione e di violenza.
L'ombra dell'«irrimediabile», del «gesto estremo» e «necessario», allo scopo di «difendere (dice lui) la democrazia», viene fatta scendere pesantemente sulla nostra Repubblica. L'approvazione pressoché contestuale di una legge la cui incostituzionalità è chiaramente fuori discussione, come quella sul «legittimo impedimento», la quale sancisce la disuguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, dimostra che quest'uomo e la maggioranza che pedissequamente gli si accoda, non arretreranno di fronte a nulla pur di non rispettare né spirito né lettera delle regole. Siamo cioè entrati in quello che potremmo tranquillamente definire un periodo di «emergenza» e «sorveglianza» democratica, quando bisogna tenere gli occhi bene aperti e le orecchie ben diritte onde cogliere giorno per giorno le minime vibrazioni sotto la superficie delle cose.
Bene fanno perciò le opposizioni unite (partiti, associazioni, movimenti) a scendere oggi in piazza per protestare contro i rischi della deriva berlusconiana. C'è un aspetto del problema, tuttavia, che rimane in sospeso anche su questo versante. Uno degli effetti - forse in una certa misura inevitabile ma al tempo stesso deprecabile, anzi deprecabilissimo - dell'uragano che squassa la nostra democrazia è che tutto ciò che di serio pertiene alla politica - i valori, le idee, i programmi - viene respinto in secondo piano dalle urgenze che ci si affollano intorno. Andiamo al voto senza sapere per che cosa votiamo, al massimo per chi votiamo. L'abominevole personalizzazione della politica, cancro della rappresentanza, riguarda un po' tutti e passa di qui.
L'emergenza democratica presenta dunque un aspetto che riguarda noi, non Berlusconi (o Berlusconi solo in quanto ci trascina, insieme con lui, per questa strada): chi siamo e che cosa vogliamo. Ieri è stato il giorno dello sciopero generale proclamato dalla sola Cgil: esiste un nesso fra le lotte per il lavoro e quella per la difesa della democrazia? Ad un recente raduno del «popolo viola», convocato richiamandosi agli artt. 1, 3 e 21 della Costituzione, rammentavo che esiste anche l'art. 9, il quale recita fra l'altro: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: esiste un nesso fra le lotte per il lavoro, quelle per la difesa della democrazia e quelle, a mio giudizio anch'esse primarie e imprescindibili, della difesa del territorio, dell'ambiente e dei beni culturali? Altri, numerosi interrogativi della medesima natura si potrebbero ovviamente porre.
I nessi, questi nessi si scoprono solo se s'impiantano programmi e strategie, di cui finora non si vedono se non brandelli, segmenti staccati e qualche sparsa illuminazione. L'emergenza democratica è fatta dunque non solo della violenza eversiva berlusconiana ma anche del vuoto strategico delle opposizioni. Metterci mano durante l'infuriare della tempesta è difficile, me ne rendo conto. Ma non se ne può fare a meno ancora a lungo, altrimenti la tempesta continuerà a invadere tutti gli spazi della ragione: anche i nostri.
Non è l´aspetto penale (di cui nulla sappiamo) il punto più importante dell´inchiesta dei magistrati di Trani che indaga il presidente del Consiglio, il direttore del Tg1 e un commissario dell´Authority sulle Comunicazioni. L´ipotesi di concussione verrà vagliata dalla giustizia, e certamente il capo del governo avrà modo di difendersi e di far sentire le sue ragioni, o di far pesare le norme che bloccano di fatto ogni accertamento giudiziario sul suo conto, facendone un cittadino diverso da tutti gli altri, uguale soltanto all´immagine equestre che ha di se stesso.
Ma c´è una questione portata alla luce da questa inchiesta che non si può evitare e domina con la sua evidenza eloquente questa fase travagliata di agonia politica in cui si trova il berlusconismo. La questione è l´uso privato dello Stato, dei pubblici servizi creati per la collettività, della presidenza del Consiglio, persino delle Autorità di garanzia, che hanno nel loro statuto l´obbligo alla «lealtà e all´imparzialità», per non determinare «indebiti vantaggi» a qualcuno.
Siamo di fronte a una illegalità che si fa Stato, un abuso che diviene sistema, un disordine che diventa codice di comportamento e di garanzia per chi comanda.
Con la politica espulsa e immiserita a cornice retorica e richiamo ideologico, sostituita com´è nella pratica quotidiana dal comando, che deforma il potere perché cerca il dominio. Questi sono tratti di regime, perché il sovrano prova a mantenere il consenso attraverso la manipolazione dell´informazione di massa, inquinando le Autorità di controllo poste a tutela dei cittadini, con un´azione sistemica di minaccia e di controllo che avviene in forma occulta, all´ombra di un conflitto di interessi già gigantesco e ripugnante ad ogni democrazia. Il controllo padronale e politico sull´universo televisivo (unico caso al mondo per un leader politico) non basta più quando la politica latita e la realtà irrompe. Bisogna andare oltre, deformando là dove non si riesce a governare, calpestando là dove non basta il controllo.
Così il presidente del Consiglio, a capo di un Paese in perdita costante di velocità, passa le sue giornate tenendo a rapporto un commissario dell´Agcom per confessargli le sue paure non per la crisi economica internazionale, ma per due trasmissioni di Michele Santoro, dove la libera informazione avrebbe parlato del processo Mills e del caso Spatuzza, corruzione e mafia. I due parlano come soci, o come complici, o come servo e padrone, cercando qualche mezzo – naturalmente illecito perché la Rai non dipende né dall´uno né dall´altro – per cancellare Santoro: e l´uomo di garanzia propone al premier di trovare qualcuno che inventi un esposto (lui che come commissario dovrebbe ricevere le denunce e imparzialmente giudicarle) incaricandosi poi direttamente e volentieri di provvedere all´assistenza legale per il volenteroso.
Poi il premier parla direttamente con il direttore del Tg1, manifestando le sue preoccupazioni, e il "direttorissimo" (come lo chiama il primo ministro) il giorno dopo va in onda puntualissimo con un editoriale contro Spatuzza. Infine, lo statista trova il tempo addirittura per lamentarsi della presenza mia e di Scalfari a "Parla con me", una delle pochissime trasmissioni Rai che ha invitato "Repubblica": si contano sulle dita della mano di un mutilato, mentre il giornalismo di destra vive praticamente incollato alle poltrone bianche di "Porta a porta" e ad altri divani di Stato.
La fluida normalità di questi eventi, che sarebbero eccezionali e gravissimi in ogni Paese occidentale, rivela un metodo, porta a galla un "sistema". Citando Conrad, l´avevamo chiamata "struttura delta", un meccanismo che opera quotidianamente e in profondità nello spazio tra l´informazione e la politica, orientando passo per passo la prima nella lettura della seconda: in modo da ri-costruire la realtà espellendo i fatti sgraditi al potere o semplicemente rendendoli incomprensibili, per disegnare un paesaggio virtuoso in cui rifulgano le gesta del Principe.
Oggi si scopre che il premier è il vero capo operativo della "struttura delta" e non solo l´utilizzatore finale. Lui stesso dà gli ordini, inventa le manipolazioni della realtà, minaccia, evoca i nemici, suggerisce le liste di proscrizione, deforma il libero mercato televisivo, addita i bersagli. Che farà quest´uomo impaurito con i servizi segreti che dipendono formalmente dal suo ufficio, se usa in modo così automatico e disinvolto la dirigenza della Rai e le Autorità di garanzia, istituzionalmente estranee al suo comando? Come li sta usando, nell´ombra e nell´illegalità, contro gli stessi giornalisti che lo preoccupano e che vorrebbe cancellare, in una sorta di editto bulgaro permanente?
La sfortuna freudiana ha portato ieri Bondi a evocare una "cabina di regia" di giudici e sinistre, proprio mentre il Gran Regista forniva un´anteprima sontuosa del suo iperrealismo da partito unico, a reti unificate. La coazione gelliana a ripetere ha spinto Cicchitto a evocare il "network dell´odio", proprio quando il Capo del network dell´amore insulta avversari e magistrati, in una destra di governo ormai e sempre più ridotta alla ragione sociale della P2, che voleva occupare lo Stato, non governarlo. L´istinto ha condotto La Russa ad afferrare per il bavero un giornalista critico del leader, alzando le mani come la guardia pretoriana di un sovrano alla vigilia del golpe, proprio nel momento in cui un collaboratore si chinava in diretta televisiva sul premier suggerendogli la risposta giusta, in un fuori onda del potere impotente che certo finirà nei siparietti quotidiani di Raisat.
La verità è che ogni traccia di amministrazione è scomparsa, nell´orizzonte berlusconiano del 2010, ogni spazio di politica è prosciugato. Questo, è ora di dirlo, non è più un governo (salvo forse Tremonti, che bene o male si ricorda di guidare un dicastero), non è una coalizione, non è nemmeno un partito. Stiamo assistendo in diretta alla decomposizione di una leadership, a un potere in panne, nella sua pervasiva estensione immobile che non produce più nulla, nemmeno consenso, se è vero il declino dei sondaggi.
Era facile prevedere che l´agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile, e le istituzioni pagheranno nei prossimi mesi un prezzo molto alto. Non abbiamo ancora visto il peggio. Ma non pensavamo a questo spettacolo quotidiano di un sovrano sempre più assoluto e sempre meno capace di autorità: costretto in pochi giorni a rimediare con un decreto di maggioranza a errori elettorali del suo partito, mentre è obbligato a bloccare il Parlamento con due leggi ad personam che lo sottraggono ai suoi giudici, sempre più ossessionato dalla minima quantità di libera informazione che ancora sopravvive in questo Paese.
Nessuno di questi problemi, ormai, si risolve nelle regole. La deformazione è il nuovo volto della politica, l´abuso la sua costante. Si pone una questione di democrazia, fatta di sostanza e di forma, equilibrio tra i poteri, rispetto delle istituzioni, ma anche semplicemente di senso del limite costituzionale, di rispetto minimo dello Stato e della funzione che grazie al voto dei cittadini si esercita pro tempore. Questo e non altro – la cornice della Costituzione – porterà oggi in piazza a Roma migliaia di persone. È un sentimento utile a tutto il Paese, comunque voti. Un Paese che non merita questa riduzione miserabile della politica a calco vuoto di un sistema senza più un´anima, in un mix finale di protervia e di impotenza che dovrebbe preoccupare tutti: a sinistra e persino a destra.
ROMA - Un nuovo condono edilizio, con possibilità di sanare anche gli abusi commessi in aree sottoposte a vincolo ambientale e paesaggistico. Così dispone il disegno di legge presentato dal Pdl in Senato lo scorso 17 febbraio, che fa slittare i termini per la presentazione delle domande dal 10 dicembre 2004, come prescrive la legge sul condono edilizio, al 31 dicembre 2010. Se il provvedimento venisse approvato, una nuova valanga di richieste di sanatoria potrebbe inondare gli sportelli dei Comuni d´Italia, e questa volta con un´agevolazione in più per chi ha commesso l´abuso: i beni ambientali e paesistici scompaiono dalle aree intoccabili.
«Una nuova legge vergogna - accusa il presidente nazionale dei Verdi Angelo Bonelli - Dopo il condono sulle liste per le regionali adesso il Pdl presenta in Parlamento un ddl per un ennesimo condono edilizio che prevede un nuovo scempio del territorio».
Il disegno di legge è stato firmato dai senatori Sarro, Nespoli, Fasano, Izzo, Giuliano, Vetrella, Compagna, Calabrò, Lauro, Pontone, De Gregorio, Esposito, Coronella e Sibilla. Sarro e Nespoli, primi firmatari, non sono nuovi a proposte del genere. Un tentativo simile lo fecero presentando un emendamento al Milleproroghe, rigettato dal presidente della commissione Affari costituzionali al Senato. Ora tornano alla carica. Nella relazione che accompagna il disegno di legge, i senatori Pdl motivano la loro proposta sostenendo che ai cittadini della Campania, ma in parte anche a quelli delle Marche e dell´Emilia Romagna, «è stata di fatto preclusa la possibilità di utilizzare lo speciale statuto di sanatoria» perché le Regioni hanno disciplinato la materia restringendo le possibilità di accesso al condono. Conclusioni: «si pone l´esigenza di ripristinare la parità di trattamento».
Dunque il nuovo condono, contenuto nella proposta AS 2020, che prevede di riaprire i termini per la presentazione delle domande con la modifica del comma 32 dell´articolo 32 del decreto legge 269 del 2003, quello relativo al secondo condono edilizio di Berlusconi, e la possibilità di sanare abusi in aree vincolate con la soppressione delle parole «dei beni ambientali e paesistici», al comma 27 dello stesso articolo.
«Ci troviamo di fronte ad una nuova aggressione del territorio e della popolazione - riprende Bonelli - Il Pdl non si ferma nemmeno di fronte al dissesto idrogeologico dell´Italia e alle vittime provocate dalle frane». Il riferimento è ad Ischia, dove, a quanto riferisce il presidente dei Verdi, il provvedimento sarebbe fortemente voluto. Proprio ad Ischia i sindaci di sinistra e di destra hanno chiesto al governo Berlusconi di far rientrare gli abusi nel condono del 2003, che qui non è stato applicato perché l´isola è sotto vincolo paesaggistico.
Sono in tutto 740 le costruzioni abusive individuate dalla Procura della Repubblica, che ordina le demolizioni man mano che le sentenze passano in giudicato. Intanto, a novembre scorso, sull´isola è venuta di nuovo giù la montagna, che si è portata dietro una vittima. Dura la condanna di Wwf e Fai, che si preparano a sostenere un´altra battaglia. «Questo disegno di legge compromette la certezza del diritto e rimette in discussione atti di rigetto già decisi - dichiara Gaetano Benedetto, condirettore del Wwf - Non solo. Estende il condono del 2003 ad aree vincolate anche per abusi gravi e apre la strada ad una sanatoria postuma di costruzioni illegali fino ad oggi considerate insanabili».
Da un “atto aggiuntivo” a una transazione, l’Anas, azienda pubblica delle strade, trova sempre il modo di accontentare Impregilo di Benetton (Autostrade), Gavio e Ligresti, l’impresa a cui è stata affidata, tra l’altro, la costruzione del Ponte sullo Stretto. Atti aggiuntivi e transazioni sono metodi con cui viene dato nuovo impulso a un vizio antico del sistema degli appalti, quello della revisione dei prezzi in corso d’opera, un male che prosciuga le casse pubbliche, ingrassa le imprese e quasi mai fa procedere più svelti i lavori. Dall’Alta velocità ferroviaria all’autostrada Salerno-Reggio Calabria per finire le grandi opere italiane ci vogliono tempi biblici e alla fine si scopre che costano fino a 3 e anche 4 volte più che nel resto d’Europa proprio a causa della sequela di atti aggiuntivi e transazioni con cui vengono portate avanti.
RAPPORTI. Il 4 marzo il Fatto Quotidiano ha raccontato che oltre al miliardo e 300 milioni aggiuntivi per il Ponte sullo Stretto, a Impregilo è stato riconosciuto un adeguamento prezzi di un centinaio di milioni per i due macrolotti Gioia Tauro-Scilla e Scilla-Reggio Calabria della Salerno-Reggio Calabria. Ora fonti autorevoli interne all’azienda che vogliono conservare l’anonimato informano che sarebbe in corso una nuova perizia di variante sulla stessa opera per un valore analogo. I portavoce Anas non confermano e non smentiscono l’esistenza di atti aggiuntivi per Impregilo limitandosi a usare una formula inconsueta: “L’azienda non ha niente da comunicare in proposito”.
La faccenda è importante per almeno due motivi. Il primo è che l’Anas si dimostra un ottimo pagatore nei confronti di Impregilo nonostante non navighi in ottime acque. Le difficoltà dell’azienda sono state riconosciute di recente dallo stesso Pietro Ciucci, presidente e anche direttore generale della società, nel corso di un’audizione alla commissione Lavori pubblici della Camera. Il 3 marzo Ciucci ha confermato che “la legge finanziaria 2010 non ha stanziato per Anas alcun importo per nuove opere e manutenzioni straordinarie” per cui “non potrà neppure realizzare gli interventi improrogabili fortemente connessi alla sicurezza del traffico”. Di più: in queste condizioni, avverte il presidente Anas, è difficile “perfino il ripristino degli ingenti danni causati dai noti eventi eccezionali registrati in Lombardia, Toscana, Calabria e Sicilia, con evidenti impatti sulla circolazione stradale”. Cioè non ci sono soldi per riportare ad un livello decente importanti strade di quattro popolose regioni d’Italia e non ci sono risorse neppure per adeguare le vie a livelli accettabili di sicurezza per mitigare l’ecatombe di vittime.
IL RUOLO DI LETTA. Il secondo motivo di rilievo è che dietro la concessione degli atti aggiuntivi si scorge in filigrana l’intreccio di un nuovo centro di potere, una specie di triangolo delle costruzioni formato da Anas, Impregilo e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. La prima manifestazione di questo kombinat del mattone risale alla primavera di un anno fa quando viene concesso, appunto, l’adeguamento prezzi a favore di Impregilo. In quelle settimane scade il vertice Anas e Ciucci è traballante, la sua riconferma da parte del governo Berlusconi appare assai remota perché osteggiata dai due ministri più direttamente interessati, il responsabile delle Infrastrutture, Altero Matteoli, e il titolare dell’Economia, Giulio Tremonti. Al posto di Ciucci sarebbero dovuti andare il presidente del Consiglio di Stato, Paolo Salvatore, e come amministratore Giovanni Guglielmi, provveditore per le opere pubbliche di Lazio, Abruzzo e Sardegna.
POTERE CIUCCI. A metà luglio, però, a poche ore dalla scadenza per il rinnovo, Salvatore annuncia a sorpresa la sua indisponibilità per la guida dell’Anas. È una mossa che spiana la strada al ripescaggio di Ciucci, il quale il 17 luglio viene confermato nel suo incarico. L’artefice occulto della repentina inversione ad U del governo è Gianni Letta, l’unico in grado di convincere Silvio Berlusconi a ignorare la doppia opposizione Matteoli-Tremonti. Da sicuro candidato alla trombatura, Ciucci diventa all’improvviso il perno di una nuova stagione dei grandi appalti. Una settimana dopo la riconferma, il 29 luglio il governo infila a sorpresa nel decreto “anticrisi” un emendamento per consentire a Ciucci che già cumula su di sé una bella sfilza di incarichi (presidente e direttore generale Anas, amministratore delegato della società Ponte sullo Stretto) di aggiungerne un altro: commissario straordinario per 60 giorni per “rimuovere gli ostacoli frapposti al riavvio delle attività” per il Ponte. A Impregilo viene contemporaneamente concesso un bonus di 1,3 miliardi di euro confermato a tambur battente 4 giorni dopo con una legge apposita (la numero 102). Scaduti i 60 giorni, l’11 novembre Ciucci viene di nuovo nominato commissario straordinario per il Ponte, questa volta per un lungo periodo, tre anni, con una motivazione simile alla precedente: “Per la velocizzazione delle procedure relative” alla realizzazione dell’opera. In pratica gli vengono affidati dal governo in via duratura poteri molto simili a quelli concessi a Guido Bertolaso per la Protezione civile, con tutti i rischi e le incongruenze del caso.
Nel frattempo il vertice Anas viene rivoltato come un guanto da Ciucci e nei posti chiave vengono infilati uomini di Autostrade e quindi di Impregilo. Come Stefano Granati, per esempio, nominato condirettore amministrazione, finanza e commerciale, un ex manager Pavimental, società controllata da Autostrade. Granati di recente è stato nominato anche vicepresidente di Igi, l’Istituto grandi infrastrutture guidato da Giuseppe Zamberletti che allo stesso tempo è anche collega di Ciucci nella società del Ponte sullo Stretto di Messina essendo il presidente. O come Alfredo Baio, scelto da Ciucci come segretario generale Anas, un ex dirigente delle aziende di Carlo Toto, imprenditore abruzzese delle costruzioni, il “patriota” di AirOne, compagnia aerea confluita nella nuova Alitalia, e unico azionista privato di peso della triade Benetton-Gavio-Ligresti nella società Autostrade, con una partecipazione importante nell’Autostrada dei parchi, la A24 da Roma a L’Aquila.
Il legittimo impedimento blindato, come al solito, con la fiducia rimanda alla coazione a ripetere leggi incostituzionali che servono per superare momenti difficili. Arriverà con il tempo il giudizio di incostituzionalità, ma il beneficio per il Cavaliere - scansare processi fastidiosi e un po' infamanti in tempo di elezioni - è acquisito e questo è ciò che conta in uno Stato bananiero dove ormai regna sovrana la sistematica elusione delle norme costituzionali.
La Corte Costituzionale, nella sentenza per il lodo Alfano, aveva già escluso che si potesse introdurre un legittimo impedimento permanente (come è quello proposto, nonostante il termine «civetta» dei sei mesi) argomentando che ciò varrebbe sottrarsi alla giurisdizione e che allora, per ragioni di eguaglianza, dovrebbe essere esteso a tutti i cittadini che esercitano funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) e persino a coloro che svolgono una funzione o una attività che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). L'incostituzionalità è, dunque, palese in quanto oltre agli articoli della Costituzione citati, sul punto vi è anche un responso della Corte, assolutamente chiaro e pertinente. Il nostro (Berlusconi) però non se ne cura, abituato com'è a stracciare regole di qualsiasi genere e forte di una maggioranza bulgara tenuta insieme dall'arroganza del potere e dall'affarismo diffuso, più che dai voti di fiducia che ormai non si contano più.
La fase è di assoluta anarchia per un potere di governo che ormai da troppo tempo si sente legibus solutus e solo a stento è frenato da qualche Tribunale ordinario o amministrativo che crede ancora alla favola delle leggi uguali per tutti: tempo al tempo, però, perché anche in questo campo il Cavaliere sta correndo ai ripari. Gli atti di illegalità della maggioranza incalzano a tal ritmo che stiamo quasi dimenticando Bertolaso & C. con la relativa mole di corruzione e di menzogne che hanno riversato sulle macerie dell'Aquila: meno male che c'è il popolo delle carriole a ricordarcelo! Fino alla protervia dell'irruzione nell'iter elettorale con un decreto senza né capo né coda, giustificato con la difesa del diritto dei cittadini a votare per il proprio Pdl, previo azzeramento di ogni regola, compresa quella costituzionale sulla attribuzione della competenza elettorale alle regioni.
Dall'avvento della Repubblica in poi, non sono state ammesse al voto migliaia di liste o, dopo il voto, sono stati sciolti migliaia di consigli comunali, provinciali o regionali a seguito della constatazione di una irregolare raccolta di firme. Quei cittadini non avevano diritto al rispetto del loro voto perché erano state violate le leggi, ma ora è venuto Berlusconi a dire che sì, si possono violare le leggi, purché vinca lui. Con il richiamo minaccioso alla mobilitazione della piazza.
Il rischio maggiore, però, è che in questa atmosfera di lotte per la legalità, ci si dimentichi del peggiore dei crimini di questo governo: l'abbandono dei lavoratori - licenziati, disoccupati, cassintegrati, precari - a se stessi, in una lunga fase di crisi fatta pagare solo a loro, mentre i satrapi si spartiscono fraudolentemente immense fortune. Meno male che la sinistra a volte c'è, con la manifestazione di sabato che salda lotte per il lavoro e lotte per la legalità: l'unica via per battere la destra.
In una società democratica l´accesso ad informazioni attendibili e plurali è la precondizione della partecipazione politica, che non si esaurisce nell´esercizio del diritto di voto, come sembra pensare l´attuale maggioranza. Piuttosto, anche il pieno esercizio di questo diritto richiede sia l´esistenza effettiva di una possibilità di scelta, sia la capacità di valutare le opzioni disponibili sulla base, appunto, di informazioni attendibili e diversificate. Entrambe queste condizioni nel nostro Paese sono fortemente limitate. La prima, a causa di un sistema elettorale macchinoso, che toglie agli elettori persino la possibilità di scegliere chi votare all´interno di un partito o di una coalizione, e da ultimo anche alla mercè di decreti interpretativi ad hoc che rendono irrilevante la stessa osservanza delle norme. La seconda, a causa di un sistema di informazione che, soprattutto nel suo strumento più importante e più utilizzato, la televisione, è totalmente controllato dalla maggioranza. Un controllo ora perfezionato con l´eliminazione dei talk show durante il periodo di campagna elettorale.
Questa riduzione del diritto alla informazione avviene in un contesto in cui i cittadini, e ancor più le cittadine, mostrano un interesse limitato per la politica e per la pluralità delle fonti di informazione. Secondo i dati di una indagine recente dell´Istat, il 23,3% della popolazione italiana dai 14 anni in su non si occupa mai di politica. Pur in diminuzione rispetto a dieci anni fa, questo disinteresse è particolarmente concentrato non solo, come ci si potrebbe aspettare, tra coloro che non hanno ancora diritto di voto (non si occupa mai di politica il 46,8% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni), ma soprattutto tra i più anziani. Oltre la metà degli ultra settantacinquenni dichiara di non occuparsi mai di politica. È anche molto più presente tra le donne che non tra gli uomini. Il 40,1% delle donne dichiara di non parlare mai di politica e il 29,3% di non informarsi mai. La differenza tra uomini e donne aumenta con l´età e diminuisce con l´istruzione. È anche più alta nel Mezzogiorno. Le donne più giovani e quelle con più elevato livello di istruzione hanno comportamenti molto simili ai loro coetanei. Accanto al sesso e all´istruzione, anche la professione e la condizione occupazionale incidono sull´interesse per la politica e la disponibilità ad informarsi. Le casalinghe sono le meno interessate e informate. Ed anche tra le operaie e gli operai le percentuali di coloro che non discutono mai e non si informano mai di politica superano il 30%. Più che una scelta, perciò, questa estraneità sembra essere legata a condizioni di vita, di socialità, e di risorse personali che non sollecitano o non consentono la partecipazione, a fronte di una comunicazione politica che genera estraneità. Nel caso delle donne poi, una classe politica così pervicacemente e sistematicamente maschile sembra fornire quotidiana conferma a chi pensa che la politica sia «cosa da uomini». Che l´estraneità si traduca in rinuncia al voto o in voto dato in base a suggerimenti di famigliari o conoscenti, in ogni caso si tratta di cittadini che di fatto delegano totalmente ad altri le decisioni politiche, come se non li/le riguardassero e non toccassero le loro condizioni di vita.
Chi si informa, lo fa prevalentemente tramite la televisione. Questa è usata dalla quasi totalità di chi si informa, a fronte del 52% di utilizzo dei quotidiani. Inoltre la televisione è la fonte esclusiva di informazione nel 23% dei casi. Solo il 22,1% si informa anche attraverso i quotidiani. Anche in questo caso, sono più gli uomini delle donne, più le persone più istruite di quelle a bassa istruzione, a utilizzare anche i quotidiani e in generale più canali informativi, inclusi la radio, colleghi, conoscenti, Internet, oltre che, in misura molto ridotta, partiti e sindacati.
Risultati analoghi erano emersi da una indagine del Censis limitatamente al modo in cui gli elettori si erano informati in occasione delle elezioni europee. I telegiornali erano stati determinanti per il 69,3% degli elettori (ma il 76% dei meno istruiti, il 78,7% dei pensionati e il 74% delle casalinghe). Per il 30,6% erano stati viceversa determinanti i programmi televisivi di approfondimento e i talk show, mentre i giornali erano stati determinanti solo per il 25,4% degli elettori.
Controllare i telegiornali, eliminare i talk show, minacciare la carta stampata non allineata, quindi, è una strategia vincente per chi vuole mantenere l´elettorato in uno stato di minorità basato sulla delega in bianco, piuttosto che favorirne la maturazione e la partecipazione attiva. Ma oltre ad una informazione corretta e plurale, occorre anche una politica, e una comunicazione politica, che solleciti l´interesse a partecipare, e non solo ad essere voyeuristici e impotenti spettatori di litigi, scandali, furberie varie.
Una crisi di regime
di Stefano Rodotà
Che cosa indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l´assai controverso decreto del Governo, ha confermato l´esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela l´approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall´altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni.
Proprio su quest´ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.
Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio.
I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando «i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale». Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l´assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta.
Se il primo rilievo sottolinea l´approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio" combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all´ultimo momento, anzi oltre l´ultimo momento fissato per la presentazione della lista.
È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato.
Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l´azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali.
Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d´amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell´informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo. Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese.
Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell´accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall´ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo). Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l´ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l´abisso nel quale stiamo precipitando,
A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com´è alla tutela di "beni" costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l´essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all´ordine del giorno.
Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell´opposizione dev´essere tutta politica "costituzionale". Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno
"È il massacro delle istituzioni elezioni"
Massimo Giannini intervista
Carlo Azeglio Ciampi
Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos´altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: «La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...».
Ancora una volta, l´ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l´ultimo, «aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico». Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all´ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: «È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...», dice. Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: «Il risultato, in teoria, sarebbe l´invalidazione dell´intero risultato elettorale. Il rischio c´è, purtroppo. C´è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...». Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l´avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente «interpretativo», ma in realtà effettivamente «innovativo» della legislazione elettorale.
Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: «Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell´irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...». Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo «scempio». Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: «Queste sono cose dette un po´ a sproposito». Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull´inquilino del Colle dall´Idv: «Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell´interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...».
Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: «Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l´opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l´aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano». I risultati sono sotto gli occhi di tutti: «Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all´integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l´Italia».
Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? «Vede – osserva Ciampi – proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell´amore per la civiltà, di quell´attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l´esatto opposto». Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l´essenza del berlusconismo – secondo l´ex capo dello Stato - «è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese». Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l´antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli «ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini», e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, «non mollare», poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre «resistere, resistere, resistere».
Oggi l´ex presidente torna su queste «urgenze morali», per ribadire che servono ancora tanti «atti di coraggio», se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. «I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni». Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della «palese incostituzionalità» che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull´ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni «no» pesantissimi.
Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di «pedagogia repubblicana», necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. «Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l´Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E´ molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d´animo, e soprattutto non deve smettere di lottare». Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: «Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...», dice. Ma chissà: magari con vent´anni di meno ci sarebbe andato anche lui.
ROMA— Per chi ha progettato la parte centrale delle opere del G8 alla Maddalena, all’origine di un’indagine giudiziaria che da settimane sta facendo tremare il Palazzo, non dev’essere facile fare i conti con quello che è successo. Stefano Boeri ha comunque deciso che era arrivato il momento. E sul blog di Abitare, la rivista che dirige da quattro anni potete trovare una sua ricostruzione dei fatti.
Architetto Boeri, si è pentito? «Per aver dedicato un anno di intenso lavoro, con i miei 50 collaboratori, al recupero dell’Arsenale de La Maddalena lavorando in maniera intensa e onesta, assolutamente no. Per il fatto di essere stato involontariamente partecipe di una vicenda che oggi evidenzia lati indecenti e illegalità ingiustificabili non posso che rispondere: sì. Mi crederà se le dico che lo spirito di partenza era del tutto diverso?».
Per i lettori non sarà facile, visto com’è andata.
«L’idea iniziale, lanciata da Renato Soru, era quella di utilizzare un grande evento ormai inutile, come il G8 alla Maddalena, per recuperare un pezzo di territorio inquinato, bonificarlo e innescare un nuovo meccanismo di sviluppo per il nord Sardegna. Ci ho creduto, eccome. Quella era la vera sfida ed è stata vinta. Ma a che prezzo?».
Forse però non era impossibile sentire puzza di bruciato. Eravate i progettisti ma lavoravate senza avere più il controllo del progetto. Non è così?
«Eravamo di fatto esclusi dalle decisioni e dalle valutazioni economiche di cantiere. Se avessimo avuto anche soltanto una prova di quanto oggi è riportato dai giornali, ce ne saremmo subito andati via. Tenga presente che in Italia non esiste una legge che tuteli gli architetti, che gli consenta come in Francia di avere fino in fondo la responsabilità dell’opera. Perché allora ho accettato?».
Mi ha tolto la domanda dalla bocca.
«Oltre che per il desiderio di aiutare a realizzare un’architettura di alto valore civile, avevo le garanzie dei massimi livelli istituzionali: oltre al presidente della Regione Sardegna, il capo della Protezione civile e sottosegretario Guido Bertolaso, e Angelo Balducci, già Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Ci mancherebbe pure che si dovesse dubitare di una simile committenza».
Si è spiegato come hanno fatto i costi delle opere a passare da 200 a 327 milioni?
«Per quel che ne so buona parte di questo aumento è dovuto alle maggiorazioni già previste nell’appalto. Parliamo del 57% di aumenti dei compensi già previsti, per le difficoltà dovute all’urgenza».
Che difficoltà?
«Il fatto che si lavorava su un’isola, i turni continui, il rispetto del cronoprogramma...».
Scusi, ma le imprese non lo sapevano in partenza?
«Esatto. È un meccanismo assolutamente senza senso. Le maggiorazioni sono giustificabili per le vere (calamità) emergenze, che com’è noto sono cosa ben diversa dalle urgenze. In una situazione come quella del G8, hanno invece determinato margini ingiustificati di guadagno. Che premiavano solo le imprese, non i fornitori e tantomeno i progettisti...».
Voi quanto avete intascato?
«Abbiamo lavorato in cinquanta per meno di 100 mila euro al mese, e oggi avendo pagato tutte le spese e aspettando ancora il saldo finale, sono in rosso. Per me rischia di essere una piccola catastrofe economica. Forse a differenza di altri».
Altri chi?
«A quanto ne so gli stipendi dell’Unità tecnica di missione, la struttura di Angelo Balducci che aveva in mano tutto, erano alti, assolutamente incommensurabili rispetto ai nostri».
Lei racconta che i tecnici dell’Unità di missione abitavano in ville affittate sulla costa e circolavano con le Bmw o le Audi, mentre gli architetti si dividevano appartamenti in paese.
«Erano stili di vita molto diversi, due modi diversi di partecipare a quello che avrebbe dovuto essere una sfida comune».
Sicuro che fosse proprio «una sfida comune»? Dice queste cose come se si sentisse tradito.
«Sì, ma in un senso più generale. Nei giorni dopo lo spostamento del G8 a l’Aquila, visitando nell’ex Arsenale di La Maddalena un cantiere finito in tempi miracolosi e pensando ai soldi pubblici spesi per realizzare le opere, mi sono chiesto quali fossero le ragioni vere di una scelta così assurda».
Sul blog c’è scritto «uno spreco ingiustificabile di risorse». Ho letto male?
«Alla Maddalena non c’era ostentazione di lusso che potesse offendere un Paese colpito dalla calamità del terremoto. E a l’Aquila c’era forse necessità di un piedistallo planetario che distraesse dalle tragedie della vita quotidiana? Ho cominciato in quei giorni a chiedermi se c’era una regia dietro una scelta che ha subito, troppo presto, convinto tutti».
Non crede che questa brutta storia una cosa l’abbia almeno chiarita? Cioè che i grandi eventi non possono essere gestiti in questo modo, tanto meno dalla Protezione civile?
«Sono d’accordo. Anche se va detto che a gestire l’operazione non è stata la Protezione civile». Come? «L’Unità di missione non è esattamente la stessa cosa. Non è la Protezione civile che interviene nei terremoti o nelle calamità naturali. Nel nostro caso era un gruppo di tecnici selezionati che faceva riferimento all’ingegner Balducci. Che aveva anche delle competenze e una consuetudine di rapporti, diversi dalla Protezione civile». Come, come? «Solo la prima parte del progetto è stata elaborata assieme ai tecnici della Protezione Civile. Poi è subentrata l’Unità tecnica di missione, che è la stessa per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Loro erano sia stazione appaltante che coordinatori. La Protezione civile come la conosciamo noi non si è occupata del coordinamento dei cantieri del G8».
Abitare, 5 marzo 2010
ALCUNE RIFLESSIONI SUL G8 ALLA MADDALENA
di Stefano Boeri
Nelle ultime settimane mi è capitato di ripensare di continuo agli ultimi 20 mesi. Ho ordinato e riordinato ricordi, luoghi, fatti, relazioni. Una scavo ossessivo che mi ha aiutato a capire meglio quello che è successo attorno a me, attorno a noi, attorno alla vicenda del nostro progetto per La Maddalena.Non è facile usare l’introspezione per costruire un discorso che ambisce a una qualche generalizzazione. Sono due cose diversissime. Ma questa volta, ancor più delle altre, questo sforzo di esternazione è necessario. E forse anche un po’ utile. Ecco dunque alcuni spunti tra la cronaca, il ricordo e la riflessione sulla professione dell’architettura.
1. testimone
Credo, insieme a Guido Bertolaso, di essere stato l’unico a seguire l’intera vicenda del progetto di La Maddalena. A registrare, nel mio studio prima e in cantiere poi, i riflessi delle continue evoluzioni politiche e giuridiche che cambiavano in corsa le regole del gioco. C’ero ai primi incontri con Soru e Bertolaso (gennaio 08); quelli a Roma e quelli a La Maddalena con i cittadini e il loro Sindaco. C’ero quando (marzo 08) è arrivata l’Unità di Missione di Balducci; quando Prodi è caduto; quando Berlusconi (nel luglio 08) e Napolitano (agosto) sono venuti a visitare il sito; quando Berlusconi, a lavori ormai in corso, ha cominciato a suggerire altre sedi per il summit; quando Soru (dicembre 08), con nostra grande preoccupazione, si è dimesso da Presidente della Regione. Quando Letta, Bertolaso e Berlusconi, pochi giorni prima di spostare il G8 all’Aquila (il 21 aprile 09) sono venuti a perlustrare, con un sorriso convinto e rassicurante, i cantieri in fase di ultimazione. E c’ero subito dopo, nei momenti del massimo sconforto, con il panico di non essere pagati e la paura che le imprese mollassero, che il cantiere di trasformasse in un immenso eco-mostro, con la rabbia e la vergogna dei maddalenini che non avevano votato Soru. E infine c’ero nei mesi finali, con Bertolaso che tornava sull’isola, con il suo indiscutibile e vittorioso sforzo per portare la Luis Vuitton Cup di vela nell’ex Arsenale (settembre 09); con le denunce di Repubblica sul degrado (inesistente) degli edifici (febbraio 10); con lo scoppio dell’indagine e gli arresti dei nostri committenti.
Nei giorni dopo lo spostamento del G8 a l’Aquila, visitando nell’ex Arsenale di La Maddalena un cantiere finito in tempi miracolosi e pensando ai soldi pubblici spesi per realizzare le opere, mi sono chiesto quali fossero le ragioni vere di una scelta così assurda.
Uno spreco ingiustificabile di risorse.
A Maddalena non c’era ostentazione di lusso che potesse offendere un Paese colpito dalla calamità del terremoto. E a l’Aquila non c’era necessità di un piedistallo planetario che distraesse dalle tragedie della vita quotidiana. Ho cominciato in quei giorni a chiedermi se c’era una regia dietro le ragioni, nobili e meno nobili, che sono state complici di una scelta che ha subito, troppo presto, convinto tutti.
2. consulente
Se penso a come ho lavorato dal dicembre ‘07 ad oggi mi vengono in mente due periodi.
Nel primo, ho operato come consulente di Renato Soru e Guido Bertolaso per decidere gli assetti urbanistici del G8 a La Maddalena. Il tema era quello di trasformare un evento breve, potente e inutile (il G8) in una situazione stabile e utile per la Sardegna e il territorio dell’arcipelago: la creazione al posto di un ex arsenale militare dismesso e inquinato di un grande polo nautico polivalente, capace di ospitare insieme cantieri, spazi per convegni, scuole di vela, un albergo, aree commerciali e espositive. Con fondali eccezionali e in uno dei posti più belli del mondo.
Ma prima c’era da costruire in pochi mesi la sede del G8, con i suoi requisiti di sicurezza e i suoi protocolli diplomatici.
Per questo abbiamo immaginato che ogni edificio dovesse avere una specie di doppia vita: prima tre giorni “furiosi” di allestimento che, come un vestito da festa, lo addobbassero per il grande evento geopolitico e subito dopo, spariti i vestiti, ecco un’architettura solida, fuori dai riflettori, destinata a durare e dotata di una funzionalità precisa.
Le opere di La Maddalena, come tutte le architetture costruite, sono fatte anche dalle idiosincrasie e dalle contraddizioni che hanno accompagnato la loro ideazione. Non c’è dubbio che le nostre architetture riflettano uno sforzo esacerbato, teso ad evitare i clichè della geopolitica: uno sforzo per essere anti-celebrative, per immaginare spazi essenziali, per cercare una monumentalità non muscolare, ispirata alla percezione del paesaggio dell’arcipelago invece che ai cerimoniali del G8.
Ciò che abbiamo voluto fare è stato così estremo, da denunciare la forza di ciò che non volevamo fare: le architetture sono fatte anche da quello che vogliamo evitare che diventino. Non si scappa dal nemico.
3. progettista
Nel secondo periodo, iniziato nel luglio 08, il lavoro è cambiato, così come le sue condizioni. Abbiamo lavorato per l’impresa vincitrice della gara di appalto (il cui proprietario, Diego Anemone, è oggi in carcere) ma senza avere più il controllo effettivo del progetto, che era entrato nella vertiginosa (10 mesi per bonificare un’area di 150.000 mq, realizzare 8 edifici e 2 chilometri di banchina) fase attuativa.
Progettavamo gli edifici della parte centrale dell’ex Arsenale militare (è bene ripeterlo: non abbiamo, non avevamo, nulla a che vedere con il progetto dell’ex Ospedale Militare). Eravamo in più di 30, solo a La Maddalena, a disegnare i dettagli e a cercare di controllare scelte di cantiere che spesso potevamo solo registrare sul CAD. Senza direzione lavori e coordinamento della progettazione, esclusi dal computo metrico (ci era permesso solo un supporto a quello architettonico) e facendo ogni volta uno sforzo gigantesco per imporre la nostra presenza quando i committenti venivano a visitare le opere. Ma oltre al desiderio di veder crescere in tempo reale quello che avevamo inventato poche settimane prima, avevamo anche altre ragioni per stare lì: per 10 mesi siamo stati una sorta di ufficio tecnico di appoggio per il Comune di La Maddalena e la Protezione Civile, pronti a rispondere a ogni esigenza di disegni, dati tecnici, esplorazioni progettuali.
Ma questa era soprattutto una nobile consolazione.
In questi anni, nel campo delle opere pubbliche in Italia, anche grazie a protocolli come quello dell’appalto integrato, si è consolidato un gioco perverso di scambio di prestazioni tra politica e architettura.
Da un lato, l’architettura è stata chiamata a svolgere funzioni prettamente politiche: a partecipare fin dall’inizio alle strategie di concettualizzazione dell’opera, a preoccuparsi del coinvolgimento degli stakeholder, a considerare il consenso degli elettori come una variabile del progetto. D’altro canto la politica ha avocato a sé alcuni dei passaggi fondamentali del fare architettura : la scelta dei consulenti tecnici, la selezione delle imprese e soprattutto (nelle opere pubbliche) di chi svolge il coordinamento e la direzione dei lavori.
Da controllori implacabili del risultato finale di un progetto siamo diventati ispirati creatori di politiche pubbliche. Dalla sfera minerale, la nostra competenza sembra essersi spostata a quella delle relazioni immateriali. La psicologia della committenza (lo studio attento delle idiosincrasie e dei segreti desideri di chi ci commissiona le opere) sembra aver sostituito la psicologia degli utenti, ovvero la capacità di controllare le emozioni, le reazioni e le esigenze di chi abiterà gli spazi che immaginiamo.
4. contabile
A distinguere la fase dell’architettura di carta da quella dell’architettura di pietra, è la contabilità. Da un certo punto in poi le idee smettono di essere pagate a forfait e cominciano a costare parametricamente: un tanto moltiplicato per un numero. Per quel che mi riguarda, i conti del G8 a La Maddalena – sempre limitatamente ai progetti che abbiamo seguito (lotti 4 e 5) – hanno avuto due occasioni di contabilità. Nella prima, a conclusione della nostra consulenza al preliminare, abbiamo registrato dei costi che sono serviti per la gara di appalto integrato per le imprese inserite nella lista della Protezione Civile. Nella seconda, in occasione del computo metrico architettonico (a cui dovevamo dare solo un supporto di disegni e dati), abbiamo registrato una somma sensibilmente più alta. Ma considerando gli imprevisti di cantiere e le inevitabili approssimazioni di un computo basato su un preliminare, erano cifre ragionevoli. A far sballare i conti ci avevano (già) pensato le “maggiorazioni” previste nell’appalto di gare: ben il 57% di aumenti dei compensi alle imprese dovute alle loro difficoltà a lavorare su tre turni, a lavorare su “un’isola di un’isola”, a “rispettare il crono programma”.
La maggiorazione è il contrario del ribasso; se il ribasso è un potenziale competitivo a disposizione del concorrente alla gara, la maggiorazione ha la potenza inappellabile di una pre-condizione. Garantisce in partenza una compensazione per imprese che si trovano in una condizione di emergenza. Ma l’emergenza, in questo caso era opinabile, se non chiaramente ridicola. La maggiorazione era piuttosto un premio preventivo per la disponibilità a operare con urgenza. L’urgenza però era selettiva: a La Maddalena c’erano compensi “maggiorati” per le imprese, ma non per i progettisti; stipendi “maggiorati”, assolutamente eccessivi, per i tecnici dell’Unità di Missione e i direttori dei lavori, ma non per gli operai edili. L’urgenza maggiorata…beh, non era cosa per tutti…
5. regista
Mi piace lavorare in gruppo, stando alla regia. Credo di saper scegliere molto bene chi lavora con me e valorizzare i talenti di chi scelgo. Credo anche di essere spesso disorganizzato, poco razionale e perfino a volte approssimativo, e forse proprio queste evidenti debolezze rendono accettabile a chi lavora con me una presenza altrimenti prevaricante.
Non ho nessun dubbio che il gruppo di architetti che ha lavorato con me sul G8 costituisca oggi una risorsa per l’architettura italiana. Sono giovani (media 30 anni), bravi, colti e motivati, adrenalinici quanto serve e riflessivi quando serve (cioè anche quando si è adrenalinici). Amano (come me) la politica non meno dell’architettura; e come me si illudono che si possa governare i fatti della politica controllando i fatti dell’architettura. Abbiamo vissuto insieme un periodo metereologicamente straordinario, su un’isola di un’isola, con venti che portavano giornate grigie e burrasche che portavano sole e luce; a contatto con le raffiche, i temporali, le illusorie schiarite e tutte le imprevedibili e spesso ridicole sfaccettature della politica italiana. Sempre a contatto con le aspettative e le delusioni dei cittadini di la Maddalena. E ci siamo tutti drogati del vertiginoso intercedere di eventi che ci avvolgeva e ci ha lasciato sfiniti e senza più l’ossigeno dell’ansia, della sorpresa, delle scadenze impossibili, dei colpi di scena. Non ci siamo ancora ripresi.
Sappiamo, dovremmo sapere, che la vita di un’architettura inizia ben prima della nostra presenza di architetti, ben prima della fase dell’ideazione; inizia quando l’architettura viene decisa, finanziata, programmata da chi l’ha voluta e richiesta. Ma neppure questa consapevolezza ci aiuta ad accettare il fatto che – dopo quel periodo intenso, e i fin dei conti limitato nel tempo, che è il progetto – ad un certo punto dobbiamo necessariamente distaccarci dalla vita di una nostra architettura. Mollarla, accettare che viva senza più alcun legame con noi.
La verità è che, quando ci appassionano e arrivano ad essere costruite, queste cose di vetro, ferro, cemento riescono a catalizzare un’affettività incontrollabile; qualcosa che rende difficile anche solo l’idea di abbandonarle a sé stesse.
6. vittima
Sono stato vittima di me stesso, delle mie manie di grandezza, della scelta di coinvolgere 53 architetti (quasi tutti lavoravano con me per la prima volta) per fare al meglio un lavoro che forse avrei potuto fare (non meglio, ma bene) nel mio studio milanese con 15 fidati collaboratori. Ma quello che ho guadagnato in curiosità, relazioni, entusiasmo, l’ho perso in organizzazione e soprattutto in risorse economiche. Questo lavoro è stato un disastro finanziario. Ho già speso quasi tutto quello che ho guadagnato e oggi sono terrorizzato che l’impresa non mi fornisca il saldo finale. Dopo aver costruito in 10 mesi quello che di solito un architetto italiano costruisce in 15 anni, rischio in pochi mesi di chiudere uno studio professionale che ha 25 anni di vita. Non male come doppia accelerazione.
Ma per qualche giorno sono stato anche vittima delle aggressioni via web di colleghi, a volte ignoti. Che sull’onda dell’emotività mediatica percepiscono come un fastidio ogni pur necessario distinguo, ogni ragionamento che entra davvero nel merito di quanto è successo. Che soffrono il successo altrui e non sanno convertire la gelosia in competizione. Che sono arrivati fino a scrivere il falso, il falso on-line, pur di trascinarti dentro un giudizio di scarsa moralità. Che evidentemente non digeriscono che si possa fare buona architettura pur senza rinunciare alla passione politica e civile.
L’invidia che non si trasforma in un fertile spirito competitivo è un tarlo (auto)logorante. Di cui l’architettura italiana ha oggi il primato.
7. complice
Mi sono continuamente chiesto in questi giorni se sono stato complice di quanto è successo. Credo di esserlo stato, involontariamente. Ovviamente non c’è stato nulla di quanto ho visto o percepito che mi abbia fatto pensare agli accordi illegali e sottobanco di cui parlano le indagini in corso: tra imprese e committenti, tra rappresentanti dello Stato e privati appaltatori. Se avessimo avuto anche solo una prova di questi contatti, saremmo andati subito a denunciare la cosa alla Magistratura. Ma l’aver accettato un ruolo di fatto marginale dal punto di vista delle decisioni e nel periodo più importante del progetto, quello di realizzazione delle opere, mi ha di fatto impedito di rendermi conto direttamente di eventuali irregolarità, pur obbligandoci ad una presenza continua (anche se spesso mal tollerata) a latere del cantiere. Ho due giustificazioni: la nostra totale preoccupazione sui tempi (che è stata per mesi la vera ossessione quotidiana) e la presenza nel progetto, come garanti, dei rappresentanti delle più alte cariche dello Stato. Ma sono stato complice di una condizione di controllo ridotto; della presunzione di essere più forti di chi, controllandoci, ci teneva distanti dalle decisioni.
La Protezione Civile è un “esercito buono” di giovani donne e uomini; migliaia di volontari appassionati e disponibili, con una disciplina austera ed affettiva. Ma a La Maddalena, dopo poche settimane, la Protezione Civile ha abdicato ad un ruolo che forse non avrebbe saputo nemmeno svolgere; al suo posto, al posto delle donne e degli uomini in maglietta blu sono arrivati con piglio di efficienza e rapidità i tecnici dell’”unità di missione per i 150 anni della Repubblica italiana”. Questa è una verità ancora non detta.
A La Maddalena, gli architetti con cui collaboravo giravano con macchine scassate ed improbabili, e abitavano in gruppo in appartamenti del centro. I tecnici dell’Unità di Missione – in Rayban- giravano con Audi e BMW e avevano affittato ville sulle coste dell’isola. Fuori dagli uffici e dal cantiere era impossibile che i due gruppi si incontrassero, posti e relazioni erano diversi. A volte le differenze comportamentali sono un limite alla comunicazione, a volte una difesa da relazioni pericolose. I dettagli, in una vicenda complessa, sono sempre micidiali.
8. giornalista
In pochi mesi, da direttore di un periodico di settore, ho vissuto sulla mia pelle tre forme di conflitto tra cronaca e architettura.
In una prima fase, a vincere era stata la cronaca d’inchiesta. Prima e durante il cantiere, eravamo “secretati”, cioè obbligati al silenzio in seguito ad un’ordinanza del Governo Prodi. Eppure, nonostante noi non potessimo scrivere di quello che facevamo e vedevamo, siamo stati testimoni di un giornalismo di indagine che entrava con facilità nella cortina di protezione del G8 e del cantiere: si muoveva più agile e veloce di noi conquistando sul territorio informazioni che noi non potevamo avere; e le raccontava – da lontano – sui periodici di informazione politica. Mentre nessuno conosceva quello che stavamo facendo (non avremmo potuto, per fare un solo esempio, annunciare che le opere per il G8 a La Maddalena, già in Aprile erano quasi pronte, finite, disponibili), grazie a questa cronaca da investigazione abbiamo cominciato a capire che qualcosa non funzionava lì vicino a noi, nella regia dei lavori.
Finito il cantiere, in maggio, è iniziata una seconda fase, in cui a prendere il sopravvento è stata – finalmente – l’architettura realizzata. I quotidiani italiani e internazionali (dal Corriere della Sera alla Frankfurter Allgemeine Zeitung) hanno “scoperto” in ritardo che i risultati di un G8 mai svolto erano degni di attenzione. E subito dopo sono arrivate le riviste di settore (A+U, Icon, Mark, Lotus International), quasi a consolidare la fine della fase dell’attenzione evenemenziale della cronaca: finita l’attualità, ecco l’architettura .
Ma è durato poco: nelle ultime settimane è tornata, violenta e per molti versi liberatoria, la cronaca nella sua versione politico-giudiziaria. Qui a dettare il tempo erano e sono le intercettazioni: trascrizioni e voci fuori campo di conversazioni proiettati come sottotitoli sulle immagini delle nostre architetture. Costrette, povere loro, a una nuova involontaria paternità.
Sono sempre stato attratto dal rapporto tra fatti di cronaca e architettura. Per quattro anni, ogni mese, nelle prime pagine di Domus ho pubblicato immagini di architetture celebri toccate –inconsapevolmente- dalla cronaca. E mi sono più volte chiesto perché così spesso la cronaca sfiori le opere di architettura, cosa la attragga attorno a spazi e edifici che il codice della cultura considera “opere”. Se è il simbolismo dell’architettura che attira le vicende di cronaca, che vi trovano un contrappunto o un piedestallo mediatico. O se piuttosto è la prospettiva scelta dai giornalisti per registrare la cronaca ad includere – come un valore aggiunto nell’inquadratura, un tratto curioso – la presenza accidentale delle opere di architettura.
Sta di fatto che la nemesi ha voluto che la nostra più bella architettura diventasse il simbolo – sui giornali e le tv di tutto il mondo- di una brutta vicenda italiana di corruzione.
Mi consola pensare che c’è un senso in tutto questo. Pochi mesi fa (ben prima che questa vicenda giudiziaria venisse alla luce), scegliendo come copertina del libro “Effetto Maddalena” l’immagine di un elicottero dei carabinieri che vola sopra la Casa del Mare, avevamo già capito che la nostra architettura era destinata ad avere la cronaca quotidiana nel suo sangue.
9. architetto
Le opere che abbiamo immaginato, sono state costruite. E, grazie anche alla nostra ostinazione, sono esattamente quello che volevamo, dove lo volevamo.
Sono là, al posto di un ex arsenale militare abbandonato che fino a pochi mesi fa rappresentava una bomba ecologica e che è stato bonificato nei fondali e nelle banchine. Sono una risorsa formidabile per un’arcipelago che ogni giorno, da maggio a fine settembre, viene usato come solo vasca da bagno per migliaia di imbarcazioni lasciano soldi e contratti di locazione nei porticcioli senza città della costa Smeralda e nei cantieri di Olbia. Il polo nautico voluto da Renato Soru è oggi una realtà, anche se è ancora un guscio. La Vuitton Cup, con la vela sportiva, il turismo compatibile con l’ambiente, è la migliore delle inaugurazioni possibili, ma il destino delle strutture è ancora in parte incerto. Quello che abbiamo progettato è un porto mediterraneo, a contatto con una città vera anche se in difficoltà; un porto pubblico, nella sua gran parte aperto ai cittadini e ai visitatori, che può anche ospitare aree private e ad accesso controllato; un porto polivalente, che può dar lavoro a centinaia di giovani isolani.
Basta poco per compromettere quello che abbiamo fatto. Ma ce l’abbiamo fatta.
Strana professione la nostra. Abbiamo in mano le cose del mondo, ne controlliamo la costruzione, la trasformazione, perfino l’usura. E siamo spesso convinti che siano gli spazi che progettiamo e vediamo costruire a condizionare le scelte della politica, della cultura, dell’economia. Eppure non c’è bellezza o efficienza di quel che costruiamo che giustifichi o legittimi – neppure retrospettivamente – comportamenti e scelte indegni come quelle che in questi giorni stiamo leggendo sui giornali.
L’implacabile, prepotente arroganza dell’architettura costruita – che punta sui tempi lunghi del suo successo – è poca cosa di fronte all’indignazione di un intero Paese.
Ma è tutto quello che ci resta e a cui, con un misto di dignità e di ironia, oggi ci aggrappiamo.
Un commento di Sandro Roggio scritto per eddyburg
LE PROTAGONISTE dell´8 marzo celebrato oggi al Quirinale saranno quest´anno le giovani di età inferiori a 18 anni, le cittadine e le donne di domani. A loro altre donne di altre generazioni porteranno insieme alla loro esperienza di vita un messaggio fortissimo di donne che hanno sfidato, affrontato e superato molte difficoltà anche in attività che sono tradizionalmente riserva maschile.
L´8 marzo il Quirinale sarà un forum di modelli positivi. Non è la straordinarietà del fare, l´eccezionalità degli obiettivi raggiunti quello che conterà in questo messaggio, ma il coraggio di aver osato, la caparbia determinazione a voler esprime le proprie capacità e a resistere ai contro-messaggi che vengano da ogni angolo della società.
In questi giorni sono anche usciti due volumi, unici nel loro genere, per l´Italia soprattutto, che offrono altri esempi di ruoli e che mettono a confronto esperienze di donne e società diverse: Revolution Womenomics di Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland (Il Sole24 ore) e Ma le donne no. Come si vive nel paese più maschilista d´Europa di Caterina Soffici (Feltrinelli). Sono libri molto diversi nel metodo e nello stile ma simili nel messaggio. Il primo si concentra sul mondo dell´impresa e mostra con dati aggiornati le capacità e insieme le incredibili difficoltà che le donne hanno in tutto il mondo a realizzare le loro aspettative e a mettere a frutto quello che hanno appreso; ne viene fuori lo spaccato di un presente che pur nelle sue contraddizioni è gravido di futuro al femminile. Il secondo volume spazia tra vari contesti, pubblici e privati, dello spettacolo e della politica, per tratteggiare con racconti di vita l´immagine dell´utilizzo delle donne nel nostro paese, del loro corpo e della loro mente. La comparazione tra la nostra società e quella di altri paesi - occidentali e non - non lascia spazio a giustificazione alcuna: le donne italiane sembrano davvero non solo le meno pagate e riconosciute, quale che sia la loro professione, ma anche le meno rispettate. Col passare degli anni e la conquista dei diritti pare che la situazione sia non solo rimasta immutata ma anche cambiata in peggio. Eppure l´esigenza di invertire questa tendenza esiste e le proposte non mancano anche se non ricevono l´attenzione che meritano né dai media né dal mondo politico.
Le celebrazioni al Quirinale e questi due libri sono indicativi di un atteggiamento nuovo e positivo, un atteggiamento che occorre aiutare e incentivare anche perché interrompe l´abito del negativismo e ci sfida a cercare esempi di vita che siano una forza e un bene per la società, per le più giovani prima di tutto: modelli ai quali ispirarsi. Dopo anni in cui abbiamo subito, nostro malgrado, un bombardamento mediatico che ci ha spalmato sugli occhi immagini di donne incasellate all´interno di ruoli non solo tradizionali ma anche abbruttiti, c´è bisogno di porci da una prospettiva diversa per non avvilire le nostre potenzialità con un fatalismo che è umiliante e per interrompere la cultura del lamento e tornare ad essere assertive e positive.
A partire da questa prospettiva sarebbe importante cominciare a chiedersi come una società possa permettersi il lusso di non valorizzare al meglio le risorse femminili. O si tratta di una società incomparabilmente ricca o di una società oltremodo miope e improvvida. Va da sé che la seconda risposta pare la più realistica. La nostra è una società miope che investe un enorme capitale economico e sociale per formare donne e uomini, farne adulti autonomi e cittadini responsabili per poi costringere una larga parte di loro - appunto le donne - in ruoli e funzioni per coprire i quali molto spesso la loro formazione è inutile o eccessiva. Si tratta di una perdita sia per le donne che per gli uomini; per le donne soprattutto, perché hanno contribuito, direttamente e indirettamente, alla loro formazione e si vedono spesso costrette a dover deprimere le loro aspettative.
Eppure i dati ci dicono che le donne propongono un messaggio positivo: per esempio, sono quelle che escono prima dalla famiglia d´origine (almeno tre anni in media prima dei coetanei maschi) e che finiscono le scuole con voti più alti. Le donne amano e vogliono conquistare prima possibile l´indipendenza economica e anche per questo, a parità di titolo di studio e di esiti scolastici, sono disposte ad accettare lavori meno qualificati e meno pagati, con contratti più brevi, discriminate ancora prima di diventare madri, la condizione per loro più penalizzante.
Ricerche recenti mostrano come ci sia una perdita effettiva a non valorizzare i talenti femminili, come la parità di genere fra gli occupati potrebbe favorire incrementi del Pil del 13% nell´Eurozona e del 22% in Italia. Ci mostrano anche che laddove si sono fatte giuste politiche pubbliche si è anche verificata un´ampia accettazione culturale delle pari opportunità d´impiego della manodopera femminile. Le buone politiche aiutano la formazione di buoni costumi, sono un volano di cittadinanza democratica. Da noi il cammino sembra essere ancora lungo e difficile. Le donne hanno più difficoltà a conservare nel tempo il lavoro o una posizione professionale conquistata con fatica e sacrifici e la famiglia è ancora un fattore penalizzante. Ma non è il solo. Un altro fattore penalizzante viene dagli ostacoli enormi, culturali ed etici, che esistono a trasformare il posto di lavoro in un luogo dove i talenti degli individui, uomini e donne, siano valorizzati. E´ anche per invertire questa tendenza che c´è bisogno di veder proporre modelli positivi.
CI SONO, nel decreto legge varato ieri notte dal governo, un pregio e una quantità di difetti. Ezio Mauro, nel suo editoriale di ieri ne ha già dato conto. Proseguirò sulla stessa strada da lui aperta e nelle considerazioni svolte dall´ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Ma c´è anche e soprattutto un indirizzo politico che emerge da quel decreto, che suscita grandissima preoccupazione.
Il pregio è d´aver dato al maggior partito di maggioranza e ai suoi candidati la possibilità di partecipare al voto regionale in Lombardia e nel Lazio, così da esercitare il diritto elettorale attivo e passivo. Quest´esigenza era stata sottolineata non solo dagli interessati ma anche dai partiti dell´opposizione. Bersani, Di Pietro, Casini, avevano dichiarato nei giorni scorsi di voler vincere disputando la loro eventuale vittoria «sul campo e non a tavolino». Il decreto consente che questo avvenga ed infatti avverrà se i tribunali amministrativi della Lombardia e del Lazio ne ravviseranno le condizioni sulla base del decreto già operativo nel momento in cui quei due tribunali si pronunceranno. Spetta infatti a loro – e non al decreto – stabilire se le prescrizioni previste saranno state correttamente adempiute.
I difetti – che meglio possono essere definiti vere e proprie prevaricazioni – sono molteplici. Alcuni di natura politica, altri di natura costituzionale. Cominciamo da questi ultimi. Esiste una legge del 1988 che vieta ogni decretazione in materia elettorale. Ora è chiaro che un decreto interpretativo (come è stato definito quello di ieri) non può contravvenire ad una legge vigente e sostanzialmente abrogarla senza con ciò produrre un´innovazione. Cessa pertanto la natura interpretativa che risulta essere soltanto un´appiccicatura mistificante, e riappare invece un intervento che modifica anzi contraddice norme vigenti sulla stessa materia.
C´è un´altra questione assai delicata: l´intera materia elettorale riguardante le Regioni è di spettanza delle Regioni stesse. Le stesse leggi elettorali in materia di procedura differiscono in parecchi punti l´una d´altra. E´ quindi molto dubbio che il governo nazionale possa entrare con una sua interpretazione su leggi che non sono interamente di sua diretta spettanza. Interpretazioni di tal genere spetterebbero ai consigli regionali i quali tuttavia sono scaduti in attesa del rinnovo elettorale. Su tutte queste questioni saranno certamente proposti ricorsi e quesiti alla Corte. Ove questa li accogliesse mi domando quale sarebbe la validità e gli esiti degli scrutini del 29 marzo. Il Presidente della Repubblica aveva giustamente definito «un pasticcio» la situazione venutasi a creare. Purtroppo il decreto di ieri non risolve affatto il pasticcio anzi per molti aspetti lo aggrava.
Quanto alla scorrettezza politica, la più grave riguarda la mancata condivisione della sanatoria decretata dal governo con le forze d´opposizione. Il Presidente della Repubblica ne aveva ripetutamente sottolineato l´opportunità ed anzi aveva condizionato ad esso ogni statuizione. Il suo rifiuto dell´altro ieri ad autorizzare un decreto che modificasse le procedure elettorali ad elezioni in corso era motivato anche da questo. Non solo la condivisione è mancata ma il premier ed i suoi collaboratori senza eccezione alcuna hanno incolpato l´opposizione d´aver reso impossibile l´esercizio del diritto elettorale. In particolare questa responsabilità dell´opposizione si sarebbe verificata a Roma, dove militanti radicali e di altri partiti avrebbero fisicamente bloccato i rappresentanti della lista Pdl impedendo loro di varcare la soglia dell´ufficio elettorale del tribunale.
Questa circostanza, sulla quale i radicali hanno già sollevato denuncia di calunnia, dovrà comunque esser provata dinanzi al Tar del Lazio nell´udienza di domani. E´ comunque grave un´inversione così macroscopica delle responsabilità, sulla base della quale i colpevoli vengono condonati e gli innocenti puniti.
* * *
Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha definito il decreto del governo come «il male minore», distinguendosi ancora una volta con queste parole dalla linea di Berlusconi. Ma nel caso in questione Fini ha sbagliato per difetto. Il decreto interpretativo non è un male minore. E´ un male identico se non addirittura peggiore d´un decreto innovativo. Anzitutto non si può dare un´interpretazione diversa e così estensiva ad una procedura elettorale con effetto retroattivo. L´interpretazione, se retroattiva, diventa infatti un vero e proprio condono ed un condono è quanto di più innovativo vi sia dal punto di vista legislativo.
Ma c´è di peggio. Poiché nel diritto pubblico un precedente produce una variante valida anche per il futuro, questo precedente potrà essere invocato d´ora in poi per condonare qualunque irregolarità procedurale a discrezione del governo. Non bastava il sistema delle ordinanze, immediatamente esecutive e sottratte ad ogni vaglio preventivo di costituzionalità; ad esso si aggiungerà d´ora in poi il decreto interpretativo facendo diventare norma l´aberrante principio che la sostanza prevale sempre sulla forma, come dichiarò pochi giorni fa il presidente del Senato, Schifani, dando espressione impudentemente esplicita ad un principio eversivo della legalità. Esiste nella nostra lingua la parola «sprocedato» per definire una persona scorretta che si comporta in modo contrario ai suoi doveri. La esse è privativa, sprocedato significa appunto «senza procedura». E bene, stabilire la prevalenza della sostanza sulla forma in materia di procedura non ha altra conseguenza che legittimare l´illegalità permanente nella vita pubblica, o meglio: far coincidere la legalità con il volere del capo dell´esecutivo, cioè stabilire la legittimità dell´assolutismo.
Un decreto interpretativo con potere retroattivo realizza questo gravissimo precedente. Non a caso Berlusconi lo ha preteso facendo balenare ripetutamente la minaccia di sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra il governo e il Capo dello Stato. Gianni Letta è stato il «missus dominicus» di questo vero e proprio ultimatum e – a quanto si sa – l´ha fatto valere con inusitata decisione. Questi gentiluomini del Papa ci stanno dando molte sorprese da qualche giorno in qua sui più vari terreni. Un Letta in armatura e lanciato a passo di carica non l´avevamo ancora visto anche se da tempo sotto il suo guanto appariva sempre più spesso l´artiglio di ferro.
Male minore, presidente Fini? Purtroppo non sembra.
* * *
Che fare? Chi ne ha titolo rappresenti al Tar i problemi che sono di sua competenza per quanto riguarda il giudizio di applicazione del decreto. (Il Tar lombardo ha già concesso a Formigoni la sospensiva dell´ordinanza dell´Ufficio elettorale e deciderà definitivamente nei prossimi giorni). E chi ha titolo sollevi i problemi di costituzionalità dinanzi alla Corte.
Le sortite «sprocedate» di Di Pietro nei confronti del presidente della Repubblica sono da respingere senza se e senza ma. Nella situazione data il Capo dello Stato è stato messo in condizioni di necessità e ha dovuto dare la precedenza all´esercizio del diritto elettorale, riuscendo anche a far togliere alcune disposizioni transitorie che riservavano l´applicazione del decreto alle sole Regioni di Lombardia e Lazio. Si sarebbe in quel caso creata una diseguaglianza tra gli elettori di fronte alla legge recando così un vulnus costituzionale di palese evidenza. Resta il pasticcio ed un precedente che accelera la trasformazione dello Stato dalle regole all´arbitrio del Sovrano. Gli elettori giudicheranno anzitutto i candidati e i programmi da essi sostenuti. Ma sarà bene che riflettano anche su questi aspetti politici di involuzione democratica. Non sarà un referendum pro o contro Berlusconi, ma certamente l´occasione per scegliere in favore di leggi valide per tutti o in favore delle «cricche» che hanno occupato le istituzioni usandole a favore dei loro privatissimi interessi. L´occasione per cambiare questo andazzo arriverà tra venti giorni. Errare è umano, ma perseverare nell´errore non lo sarebbe.
Fa una certa impressione rileggere gli articoli che Norberto Bobbio scrisse nelle pagine di questo giornale, tra il 1994 e il 1996, sulla forza politica edificata da Berlusconi a seguito di Tangentopoli: sull’inconsistenza dei club e circoli da lui creati, sulla loro vacuità, sullo spregio delle forme, tanto fieramente vantato.
Sulla violenza protestante della sua ribellione a liturgie e convenzioni della democrazia rappresentativa, vorremmo aggiungere: una violenza di tipo russo, alla Bakunin, che ricorda la vastità informe (la gestaltlose Weite) criticata nel 1923 dal giurista Carl Schmitt.
Fa impressione rivedere quei testi perché molte storture sono le stesse. Non furono curate allora per il semplice fatto che erano ritenute virtù nuove, e adesso la stortura s’è estesa divenendo non solo questione di codice penale ma di riti elettorali prima trasgrediti, poi mal rappezzati con leggi ad hoc. Quel che Bobbio rimproverava ai club era in sostanza questo: il disdegno delle regole, tanto più indispensabili nel regime democratico, che al popolo affida un’amplissima sovranità. E l’ideazione di una forza non solo dipendente da un’unica persona («Un partito a disciplina militare, anzi aziendale», così Dell’Utri nel novembre ’94), ma priva di statuti, progetti, chiarezza innanzitutto sui finanziamenti.
Bobbio era pienamente consapevole del discredito che la corruzione rivelata da Mani Pulite aveva inflitto ai partiti, annerendoli tutti mortalmente e rendendo ancor più pertinente il termine partitocrazia. Tuttavia i partiti restavano essenziali per la democrazia, secondo lui, perché senza partiti il potere si fa opaco, arbitrario, imprevedibile. Il non-partito propagandato da Forza Italia minacciava d’essere un’accozzaglia senza storia, una «rete di gruppi semiclandestini»: incompatibile con la «visibilità del potere» che «distingue la democrazia dalle dittature» (Stampa, 3-7-94). La pura negazione (non-partito) non diceva nulla perché infinite sono le possibilità da essa racchiuse: «Se dico “non bianco” comprendo in queste parole tutti i colori possibili e immaginabili (...). La democrazia rifiuta il potere che si nasconde», dirà il filosofo in un’intervista a Giancarlo Bosetti nel 2001. Il non-bianco equivale all’amorfa vastità descritta da Schmitt.
Agli esordi anche i professionisti della politica erano invisi, e lo sono a tutt’oggi: gli uomini che si dedicano alla causa pubblica e ne vivono. Come nel film di Elia Kazan, meglio era scovare un Volto nella Folla, trasformarlo in talentuoso comunicatore, e la fabbrica del consenso partiva. Già nel 1957, Kazan crea il prototipo del manipolatore nichilista delle folle, eterno homo ridens, dandogli il nome di Lonesome Rhodes, il «Solitario» venuto dal nulla o meglio dalla galera. Di uomini così era fatto il non-partito escogitato da Mediaset, e lo è tuttora. Tuttora si avvale dei consigli di Previti, condannato definitivamente per corruzione in atti giudiziari. O di Verdini, indagato per corruzione. Il politico di professione è considerato da costoro parassita, incapace di fare. La cerchia attorno a Berlusconi è piena di uomini che agiscono al riparo della politica e della legge: imprenditori o avvocati (soprattutto avvocati del Capo). Lo stesso Stato è sospettato, se non li serve: tanto che la sede del governo non è più Palazzo Chigi ma il domicilio del Capo a Palazzo Grazioli. Bobbio dà a questo fantasmatico potere il nome di partito personale di massa, e nel ’94 chiede al suo leader precisazioni: se il suo non è un partito cos’è, esattamente? Come s’è finanziato? Cosa farà per dare al proprio potere visibilità: dunque forme, regole rispettose del codice penale e di procedure elettorali che non avvantaggino i più forti o ricchi? Si vede in questi giorni come i riti, le sequenze formali, le procedure, siano sviliti e lisi.
Il disastro delle liste presentate tardi o malamente nel Lazio e in Lombardia conferma difetti congeniti, non sanati dal partito creato con Alleanza nazionale. All’origine: una politica al tempo stesso autoritaria e informe al punto di smottare di continuo come la terra semovente di Maierato in Calabria. Diciotto anni sono passati da Mani Pulite e i club di Mediaset hanno per questa via privatizzato la politica, screditandola agli occhi degli italiani e convincendo anch’essi che il privato è tutto, il pubblico niente. Si ascolti Verdini, sull’Espresso del 23-5-08. All’obiezione sul conflitto d’interessi replica, ardimentoso: «Il conflitto d’interessi non interessa più a nessuno. Neanche a chi non ha votato il Cavaliere. Diamo cento euro in più nella busta paga, detassiamo gli straordinari, favoriamo i premi aziendali senza tassazione e poi vediamo. Alla fine, la gente fa i conti con la propria famiglia».
La famiglia, l’affare, il favore chiesto per figli, mogli, cognati: son tutte cose che vengono prima, e se farsi strada affatica ci si serve della politica come di una scatola d’utensili cui si attinge per proteggersi dalla legge e aggirarla. Dell’Utri lo ammette: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera» (intervista a Beatrice Borromeo, Il Fatto 10-2. La dichiarazione non è stata smentita né ha fatto rumore).
Bobbio disse ancora che il berlusconismo è «una sorta di autobiografia della nazione». Autobiografia non solo collettiva ma di ciascuno di noi: cittadini evasori, onesti, non per ultimo cittadini-giornalisti. Un giorno o l’altro dovremo domandarci ad esempio, nelle redazioni, come mai inondiamo i lettori di pagine di intercettazioni che nulla c’entrano con reati penalmente perseguibili. Come mai riceviamo dai giudici 20.000 pagine di telefonate, solo in parte cruciali. Se davvero si difende il diritto degli inquirenti a tutte le intercettazioni utili, per render visibili crimini e poteri nascosti, vale la meta mettere un muro fra le intercettazioni rilevanti e quelle concernenti il privato come le scelte sessuali, a meno che le prestazioni non avvengano in cambio di favori illeciti. Anche questo innalzare muri era pensiero dominante, in Bobbio. Citando Michael Walzer ripeteva: «Il liberalismo è un universo di “mura”, ciascuna delle quali crea una nuova libertà». Il lettore non capisce più nulla, alle prese con faldoni di intercettazioni, e rischia una nausea senza più indignazione.
Il disprezzo delle forme e delle leggi caratterizza ieri come oggi il berlusconismo (con l’eccezione di Fini, da qualche tempo) e sempre ha generato regimi carismatici autoritari. Fu l’estrema destra francese, negli Anni 30, ad anteporre il «Paese reale» (o sostanziale) al «Paese legale».
Anch’essa formò Leghe, non partiti. Il partito è una parte, non rappresenta un’interezza, per natura si dà un limite. Nella stessa trappola dell’informe cade oggi il governo, e il vecchio istinto del non-partito fa ritorno. Con disinvoltura ineguagliata Schifani, di fronte all’intrico delle liste, si augura «che venga garantito il diritto di voto a tutti e che la sostanza prevalga sulla forma». Augurio comprensibile il primo, pernicioso il secondo.
Il rigetto delle forme va di pari passo con il rifiuto della legalità, con il primato dato ai diritti privati o corporativi sugli obblighi comuni, con la separazione dei poteri. Si combina alla sfrontatezza con cui l’homo ridens di Kazan, sicuro com’è del proprio talento, si sente legibus solutus, sciolto dai vincoli delle leggi. Talmente sciolto che Berlusconi non esita a dichiarare, nel novembre 1994: «Chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore». La Chiesa non ebbe mai alcunché da dire. Anche questa domanda, che Bobbio pose al Vaticano, resta senza risposta.
Tanta sicurezza può dare alla testa. Se ce ne fosse un po’ di meno, se non continuasse la pratica dei «gruppi semiclandestini», si potrebbe chiedere semplicemente scusa agli italiani e alle istituzioni, per la cialtrona gestione delle liste. Aiuterebbe. Ma forse, come scrive Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, sognare non ci è dato.
Non sappiamo come finiranno le prossime elezioni regionali. Sappiamo, però, che sono cominciate malissimo. E, prima ancora del voto, conosciamo già il nome degli sconfitti. I partiti. Nelle democrazie occidentali, compresa l´Italia, sono gli attori politici attraverso cui si è realizzata la democrazia rappresentativa. Anche dopo che la politica si è personalizzata e mediatizzata.
Perché i partiti organizzano e orientano l´azione degli eletti nelle istituzioni rappresentative. Perché, prima ancora, partecipano alle elezioni, presentano liste e selezionano i candidati. Lo stesso Berlusconi, per entrare in politica, ha dovuto fondare un partito personale. E lo ha allargato, nel 2007, annettendo An a Fi. Per inseguire il centrosinistra, dove, dopo dieci anni e oltre di esperimenti e discussioni, i Ds e la Margherita si erano alfine riuniti nel Pd.
Un progetto ancora incerto, come abbiamo già scritto nelle settimane scorse. Il Pd. Un partito senza fissa dimora. Incapace di imporre e perfino proporre candidati propri in regioni importanti, come la Puglia e il Lazio (senza nulla eccepire sulla qualità di Vendola e della Bonino. Anzi). Incapace di indicare e affermare una strategia comune di alleanze. Tuttavia il Pdl, il primo partito per consensi elettorali e per peso parlamentare, ha fatto molto peggio.
Non era facile, ma ci è riuscito. Si è dimostrato un non-partito. O, almeno, un partito con-fuso. Frutto di una fusione incompiuta e mal riuscita. Fi e An: continuano ad agire come corpi separati. Tra loro e al loro interno. Al punto che nel Nord la Lega – l´unico partito vero - ha imposto i propri candidati in due regioni importanti: Piemonte e Veneto. Quest´ultima: una roccaforte. Mentre in Lombardia si è auto-imposto Formigoni. Leader non del Pdl, ma del mondo cattolico che si riferisce a Cl e alla Compagnia delle Opere. Altrove, come in Puglia e in Campania, il Pdl ha stentato a trovare candidature valide. Al punto da non riuscire a rispettare termini e regole di presentazione delle liste. Non per colpa del Pd, dei comunisti, dei magistrati. Di Repubblica. O di Santoro, Di Pietro, Grillo, Pannella. Ma per colpa esclusivamente propria. Dell´organizzazione precaria che lo caratterizza alla base. Dei conflitti tra frazioni e fazioni. Personali, locali e di interesse. A Roma, nel Lazio, in Lombardia (nonostante le differenze significative tra i casi). Il partito che governa l´Italia, in questa occasione, si è mostrato approssimativo, povero di professionalità e professionismo. Oltre ogni attesa.
Così non sorprende – e come potrebbe ? – l´ostilità che oggi avvolge, come una nebbia densa, i partiti. Guardati con fiducia da meno dell´8% degli italiani (Atlante politico di Demos, febbraio 2010). Insomma: peggio delle banche e della borsa. Si tratta, peraltro, del dato più basso degli ultimi 10 anni, durante i quali non hanno mai goduto di grande popolarità.
I partiti a cui si riferiscono gli italiani, va precisato, sono quelli odierni. Tanto deprecati e deprecabili, agli occhi dei cittadini, da far loro rivalutare il passato. Il 45% degli italiani, infatti, considera gli attuali partiti peggiori di quelli della prima Repubblica. Solo il 20% - meno della metà – migliori. Il giudizio più positivo sui partiti di oggi è espresso dal centrodestra e in primo luogo dagli elettori del Pdl. Curiosamente, visto che proprio il Pdl ha esercitato, da qualche anno, un´opera di rivalutazione della prima Repubblica. Parallela alla svalutazione di Tangentopoli. Definita un complotto ai danni delle classi e dei partiti di governo, per favorire la sinistra. L´elogio dei partiti della seconda Repubblica espresso dagli elettori del Pdl – e della Lega – suona, per questo, come un auto-riconoscimento. E serve a rammentare come proprio loro siano stati i maggiori beneficiari del vuoto politico prodotto da Tangentopoli.
La rivalutazione dei partiti della prima Repubblica appare molto estesa. A destra come a sinistra. Il 45% degli italiani, oggi, giudica positivamente la Dc, il 35% il Pci, il 32% il Psi. L´apprezzamento nei loro confronti si è rafforzato sensibilmente negli ultimi 5 anni: di circa il 9 punti percentuali verso la Dc e il Psi; di quasi il 4 verso il Pci. Probabilmente, anzi: sicuramente, i partiti maggiori della prima Repubblica sono più apprezzati oggi che al loro tempo. Quando esistevano veramente.
D´altronde, gli italiani hanno sempre votato – in larga misura – «contro» prima ancora che «per». Un popolo di «anti»: comunisti, capitalisti, clericali. Però mai, come oggi, il sentimento antipolitico e partitico degli italiani era apparso tanto sviluppato ed esteso. In modo così generalizzato. Al punto da suscitare un´onda impetuosa di rimpianto verso un passato fino a ieri deprecato. Naturalmente, più che per merito dei partiti di un tempo è per colpa di quelli che li hanno sostituiti. Di cui il Pdl costituisce l´idealtipo. E Forza Italia il riferimento esemplare. Il modello inventato da Berlusconi e imitato da tutti. Oggi suscita delusione. E nostalgia. In senso etimologico: «malattia del ritorno». Evocazione dolorosa di un passato idealizzato, a causa delle ombre del presente. Per citare Odon Vallet: «la nostalgia è l´oppio dei vecchi». Per questo è tanto diffusa, oggi. Soprattutto fra i più vecchi. In questo paese di vecchi, dove la seconda Repubblica è invecchiata da tempo, insieme ai partiti - sedicenti - nuovi che l´hanno guidata. Insieme alla nostra democrazia. Insieme a noi, che siamo invecchiati attraversando entrambe le repubbliche, senza trovare un approdo sereno.
Sull'Italia dilaga un fiume di fango, scrive Alberto Asor Rosa. Lo ripete Alberto Burgio. È appena uscito da Bollati Boringhieri il libro di Franco Cordero, Il brodo delle Undici - quello che veniva dato al condannato prima di impiccarlo - dove il più erudito e iracondo dei nostri giuristi dipinge, dopo un primo capitolo di malefatte passate, l'Italia di Berlusconi. Perché questa massa maleodorante dilaga ora? E a chi imputarla? Al solo Berlusconi? I suoi interessi, pensamenti e modi - fra i suoi difetti non c'è l'ipocrisia, se mai l'improntitudine - erano noti agli italiani che lo hanno votato tre volte, e ogni volta per tempi più lunghi. Erano stati assai più cauti verso Bettino Craxi, che di Berlusconi era l'amico e l'uomo contro il quale Enrico Berlinguer scagliò la questione morale.
C'è dunque un'inclinazione italica al corrompere e all'essere corrotto, dovuta ai secoli di servaggio sotto lo straniero o a prepotenti signorie nostrane, con il luminoso intervallo dell'età comunale? Ma anche in quello Dante pescò dei malversatori del suo inferno, e Petrarca sedeva mesto sull'Arno mirando le piaghe mortali dell'Italia sua. Per dire che sembra fatale l'appiccicarsi al potere di una dose di malcostume. Non c'è paese del resto dove gli scandali non avvengano, e siamo appena emersi - anzi siamo dentro ancora - da una tempesta mondiale di delitti finanziari, a quanto pare assai difficili da punire e da prevenire, e per somme così strabilianti che i cinquemila euro pubblici fatti erogare dall'ex sindaco di Bologna alla donna del suo cuore, per non dire i mille o duemila alle ospiti di Berlusconi, sembrano un caffè. E tuttavia non si può dire che la principale caratteristica degli Usa di Madoff sia la malversazione diffusa, accompagnata dal dileggio per la magistratura e mutamenti delle leggi per favorire il presidente. Invece da noi sì. Parlare dell'Italia significa parlare di questo, tanto che all'estero è diventato fair play non parlarne affatto. Siamo scomparsi dalla scena internazionale.
Com'è che siamo finiti così? Già avevamo inventato il fascismo appena conclusa l'unità nazionale, ma anche dopo il duro risveglio della guerra e una resistenza che volle ripulire il paese e si dette una delle migliori costituzioni europee non mancarono le porcherie. Per non parlare della mafia e della camorra, percepite come un male genetico, il malcostume privato/politico fu pressante sempre, da Lauro che comprava voti con pacchi di pasta, ad altri esempi che non potevano ridursi a malcostume locale.
Non lo furono certo i misfatti della Federconsorzi di Bonomi, le oscurità della Cassa del Mezzogiorno, lo scandalo Lockheed (giusto, chi sarà mai stato Antelope Cobbler?) per citare i primi che mi vengono in mente, e per tacere di Gladio e dei servizi perpetuamente deviati. Tutto questo stava sulle spalle della Democrazia cristiana, il partito fatto stato, ma - disse Aldo Moro in parlamento senza che volassero gli scranni - la Democrazia cristiana non si processa. E infatti non seppero leggere il suo memoriale non solo le Brigate Rosse, travolte dal suo sequestro e uccisione, ma neanche le due Camere delle Commissione di inchiesta. Distratte? Complici?
Non penso. In tempi più seri, Pci e il primo Psi invitavano a non confondere classe dominante e forchettoni, e a delineare diverse responsabilità e colpe dell'una e degli altri, facendo emergere alle Camere o nei consigli comunali, come nel caso di Roma, gli scandali e a far passare, a prescindere dai numeri di maggioranza e opposizione, le sole riforme che fece il paese. Non si identificò mai l'Italia e né la detestata Democrazia cristiana ai suoi, grossi, episodi di malcostume.
Nel corso degli anni '70 la scena politica cambiò. Il Pci perseguì inutilmente un accordo «storico» con la Dc, disarmando e dividendo l'opposizione formale, e disorientando le liste di sinistra. Con la morte di Moro la Dc, che non aveva cercato di salvarlo come lui chiedeva e avrebbe fatto se al suo posto per un altro, restava nel massimo della confusione, mentre a Berlinguer veniva meno il solo interlocutore che scopriva di avere forse avuto, rendendo del tutto vana la strategia che aveva perseguito. Di colpo nel '79 cambiava linea; ostacolato da un gruppo dirigente e dai quadri locali che andarono invece in cerca di «larghe intese» i cui soli risultati furono lo smisurato crescere dei costi del ceto politico e la fine di ogni opposizione parlamentare e popolare.
Così una maggioranza senza più un vero capo e una sinistra scombussolata andarono incontro senza vederla a una offensiva capitalistica su scala mondiale che innescava una inversione di tendenza, riorganizzando brutalmente la proprietà e l'organizzazione del lavoro. Nel 1984 il referendum sulla scala mobile vedeva, per la prima volta dal 1948, una disfatta dei lavoratori e, tre anni dopo, le elezioni del 1987 disegnavano l'incrinarsi degli equilibri della prima repubblica. Ancora due anni e su un Pci già in difficoltà cadeva la mannaia dell'89, cui Occhetto porgeva volonterosamente il collo; a Craxi e al governo Dc-Psi Tangentopoli dava il colpo di grazia.
A distanza di diversi anni, si vede che ben pochi dei pesci imputati da Mani pulite sono rimasti nelle reti della giustizia. Ma l'impatto politico, sommato ai processi di cui sopra, fu enorme perché la corruzione non cessò di allargarsi. Sul paesaggio dei partiti devastati dai reciproci tsunami, scendeva in campo Berlusconi, simbolo del profitto, dell'azienda pura, della competitività senza scrupoli che di colpo si presentò come il solo ancoraggio solido rispetto alle fanfaluche «ideologiche» tipo le classi, lo sfruttamento del lavoro, la negatività della speculazione finanziaria e immobiliare, il primato del bene comune, e di un'etica pubblica, eccetera.
Ancoraggio solido e di manica larga. Se il suo unico comandamento era produrre al prezzo più basso, cessare ogni mediazione sociale per far largo al capitale e agli azionisti, vendere ai ricchi e obbligare anche i più poveri a comprare quel che non potevano più produrre (che altro è l'Africa?), speculare a man salva sull'azzardo e l'inesistente, perché demonizzare qualche furbizia, qualche chiusura di un occhio, qualche mercanteggiamento della cosa pubblica? In fondo negli Usa la compravendita dei membri del Congresso e del Senato è legittimata dalle lobbies, con le quali sta trattando Obama, per far passare almeno un terzo del suo progetto di riforma sanitaria.
Da noi la lobby più potente è una maggioranza blindata con il voto di fiducia, dal quale nessuno può sciogliersi senza perire. Le istituzioni perdono ogni natura neutra se mai l'avevano avuta, e a ogni buono conto si privatizzano funzioni o beni già pubblici. Se la legge vi si oppone, si cambia la legge. Il parlamento si potrebbe anche chiudere, come Berlusconi non ha esitato a dire proponendo che vi siedano a votare solo i capi gruppo in proporzione degli elettori che rappresentano, e neanche questa volta le Camere si sono levate ululando. Il nostro uomo ha il livello culturale di Sarah Palin e la mancanza di scrupoli di Dick Cheney. Solo che meta degli americani ha votato contro i due, e un po' più di metà degli italiani si esprime per lui.
Negli anni fra i Settanta e gli Ottanta stanno le radici dell'attuale espandersi della malapianta. Contro la quale si erge senza tentennamenti soltanto un magistrato ambizioso per il quale la società tutta si spiega e divide fra onesti e corrotti. Dapprima aveva proposto questa filosofia agli industriali riuniti in Cernobbio, ora ha fortuna presso il popolo, più o meno viola, di una ex sinistra, dimissionaria o a pezzi. E poi c'è chi arzigogola sull'origine dell'antipolitica.