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Non va sottovalutato il valore simbolico e politico delle affermazioni del ministro della Repubblica Roberto Calderoli. Non va sottovalutato il segnale che danno al Paese, proprio perché quel segnale viene dalla forza di governo che appare di gran lunga la più compatta, e sempre più determinante all´interno della coalizione.

Certo, anche nelle celebrazioni del 1911 e del 1961 non erano mancati momenti polemici, alimentati dalle forze intellettuali e politiche che si sentivano in qualche modo ai margini del processo (repubblicani, socialisti e cattolici, nel 1911), o non si riconoscevano per intero nell´orizzonte culturale che improntava le celebrazioni (e che risentiva ampiamente, nel 1961, dell´egemonia politica della Democrazia Cristiana). Erano momenti di riflessione - talora anche segnali di delusione, come già nel 1911 - che dialogavano con un´impostazione "forte" e prevalente delle celebrazioni e dell´identità: non ne mettevano in discussione le fondamenta né la svilivano. Erano, insomma, posizioni nobili. Avevano a che fare con un´idea alta di nazione, facevano parte a pieno titolo di quel confronto culturale di cui le identità si nutrono.

Non è così oggi, e le parole del ministro Calderoli - nel loro non eccelso profilo culturale - appaiono realmente contundenti proprio per questo: proprio perché non si infrangono contro un solido e condiviso muro ideale ma rivelano ancor di più, semmai, la fragilità crescente - pericolosamente crescente - delle barriere che sono state erette. La vicenda stessa delle celebrazioni ufficiali, del resto, ha mostrato più del dovuto quella fragilità. Ha illuminato anch´essa il dramma di un paese che sembra impaurito dal futuro e infastidito dal passato.

La riflessione deve muoversi allora su due versanti. Deve riguardare le dinamiche politiche che queste e altre sortite leghiste possono innestare (poco importa se contraddette o "interpretate" da altre forze del governo), ma anche - e soprattutto - lo "stato della nazione". Sul primo versante appare in tutta la sua pericolosità il rinsaldato connubio fra l´offensiva leghista - che i risultati elettorali avevano inevitabilmente preannunciato - e una egemonia del premier che da tempo mette sempre più apertamente in discussione i tratti costituzionali essenziali della Repubblica (anche per questo, forse, l´intervento del cardinale Angelo Bagnasco assume un valore particolare e in qualche modo impegnativo anche rispetto al riemergere di umori anti-risorgimentali che nel mondo cattolico non sono mancati).

La pericolosità del connubio fra Berlusconi e Bossi è aumentata a dismisura proprio dallo "stato della nazione", e il confronto con il 1911 e il 1961 è purtroppo illuminante. Nel 1911 il paese era attraversato sì da contraddizioni sociali e da tensioni anche forti ma si era ormai avviato all´industralizzazione e a forme democratiche meno incompiute: in quello stesso anno, ad esempio, il governo annunciava la riforma elettorale che avrebbe portato di lì a poco al suffragio universale maschile. Si pensi anche al centenario dell´unità nazionale, nel 1961: era celebrato nel pieno del "miracolo economico", e le euforie del boom nascondevano semmai le contraddizioni pur esistenti, sia nel presente che nel passato.

Oggi, invece, vengono al pettine tutti i nodi di una crisi della Repubblica che aveva avuto la sua incubazione negli anni ottanta e il suo primo esplodere all´inizio del decennio successivo. Superati i momenti più drammatici di quel trauma il paese scelse - nella sua grande maggioranza - di non fare i conti con quei nodi. E quindi di aggravarli. Nel 1993 un bel libro di Gian Enrico Rusconi aveva come titolo Se cessiamo di essere una nazione. C´è da chiedersi se in un prossimo futuro non dovremo ricorrere a un titolo ancor più pessimistico.

Gli antichi consideravano la democrazia il governo dei poveri. Esiste democrazia, si legge nella Politica di Aristotele, quando il potere supremo dello stato è nelle mani della moltitudine che è fatta di poveri, sempre più numerosi dei ricchi, i quali vogliono governi oligarchici. Ma per noi moderni la democrazia è governo di tutti perché governo di una società di individui che si prendono cura direttamente di se stessi, non vivendo né sulle spalle di famiglie aristocratiche né su quelle degli schiavi. I moderni hanno adattato la democrazia alla società di mercato, la quale ha bisogno di una moltitudine non di poveri ma di consumatori, di gente cioè né troppo ricca né troppo povera; essi hanno promosso una trasformazione fondamentale dalla quale si deve far cominciare la storia della cittadinanza democratica: la fine del lavoro servo e schiavo. Per questa ragione, tutte le democrazie moderne sono fondate sul lavoro, anche quelle che non lo scrivono nella loro costituzione.

Lavoro, eguaglianza politica e di rispetto, libertà individuale sono intimamente connessi. E alla loro base vi è l´idea che l´individuo sia il bene primario, una persona intraprendente e attiva che vede nel lavoro non soltanto un mezzo per soddisfare bisogni materiali primari, ma anche per esprimere i propri talenti e le proprie capacità. Dignità della persona e lavoro dignitoso hanno dato vita a un connubio etico sul quale le democrazie moderne si sono consolidate.

Non è che questa associazione tra lavoro ed eguaglianza politica abbia eliminato le ingiustizie o liberato il lavoro dal peso della necessità. Essa ha tuttavia contribuito a considerare la fatica del vivere come una condizione che può essere umanizzata, benché mai vinta. Avere diritti politici ha contribuito a fare del lavoro una condizione sociale soggetta a regole e a responsabilità mutue e condivise. Il secondo Novecento è stato il secolo che ha dimostrato concretamente gli effetti umanizzanti della democrazia nel mondo del lavoro. Gli scienziati politici che si occupano dei processi di democratizzazione sono generosi di dati che dimostrano il miglioramento socio-economico e culturale che la trasformazione democratica porta con sé: migliori condizioni lavorative, diritto all´assistenza e contributi previdenziali, servizi sociali alle famiglie e scuole pubbliche decenti. Verrebbe da concludere che, se questo è vero per le società di recente democratizzazione (come per esempio molti stati dell´America Latina), ancora di più lo sarà per quelle con una democrazia consolidata.

Ma il paradigma democrazia-benessere non pare davvero così granitico, e quel che può valere per le società di recente democratizzazione sembra non reggere bene nelle nostre società. Dove due fenomeni si sono manifestati negli ultimi anni: la diminuzione del lavoro associato ai diritti e la crescita della povertà. Per esempio, come le cifre ci dicono quasi ogni giorno e il nostro Presidente della Repubblica ci ricorda regolarmente, gli incidenti sul lavoro sono ormai fatti ordinari. È ragionevole dire che un lavoro dissociato dalle garanzie di sicurezza è lo specchio di una società nella quale il lavoro non è più pensato in termini di diritti, ma è tornato ad essere sacrificio e pura fatica semplicemente. E inoltre, un lavoro dissociato da alcune basilari certezze, un lavoro messo nella cornice del rischio anziché in quella dell´opportunità e della possibilità è un lavoro che cambia di identità e da condizione associata a diritti e dignità passa ad essere luogo di diseguaglianze sociali crescenti e di paura della povertà. In tutti i casi, ad essere messa a repentaglio è proprio la relazione tra lavoro e indipendenza, la condizione appunto della cittadinanza democratica. Questo è il segno della crisi sociale e culturale delle democrazie consolidate.

È sulla povertà che occorre riflettere (non per legalizzarla con la social card, come ha fatto il governo italiano in uno dei suoi primi provvedimenti), e in modo particolare sulla relazione tra un lavoro sempre più povero di diritti e il rischio sempre meno aleatorio di povertà. Il presente insicuro del lavoratore a contratto a tempo determinato è una porta aperta alla sua povertà futura. Un lavoro senza diritti è come un passaporto all´indigenza. Ma non è che il presente sia meno a rischio. Non soltanto perché c´è un´oggettiva diminuzione di opportunità di impiego, ma anche perché si è consolidata nel frattempo la pratica di accettare lavori senza diritti; questo rende i lavoratori naturalmente più vulnerabili e deboli ma anche più disposti a barattare la loro libertà e sicurezza in cambio di pochi soldi in più. E la propensione a dissociare lavoro e diritti induce ad associare il lavoro con una fatica qualunque, in cambio di denaro. E questo è a un tempo segno e premonizione della paura più grande, che è la povertà.

La povertà genera vergogna, fa vergognare. Non è solo segno di nuda necessità. In una società dove il consumo e la pubblicità sono il paradigma quotidiano di rappresentazione di sé e delle relazioni con gli altri, non riuscire a possedere determinati oggetti rende esposti al riconoscimento da parte degli altri come esseri falliti, persone da emarginare. La povertà è uno stigma, peggiore di qualsiasi lavoro misero e mal pagato, peggiore di un lavoro senza diritti. E´ comprensibile che sia così poiché in una società che si regge sulla condizione dell´eguaglianza, non avere un´eguale considerazione (non importa in relazione a che cosa) genera i più intollerabili sentimenti: l´umiliazione e il risentimento. Sentimenti intollerabili perché mentre non cambiano in meglio la condizione di chi li subisce, impediscono la crescita di altri sentimenti senza i quali una società democratica rischia l´interna disgregazione: l´empatia e la solidarietà. È per questa ragione che l´associazione del lavoro al diritto non solo non può essere considerata come un optional del quale si può fare a meno, ma è a tutti gli effetti un fattore di stabilità democratica.

ROMA Quasi 10 mila terreni, 9.127 fabbricati, 5.050 chilometri di spiagge, 69 laghi naturali per un'estensione di 550 chilometri quadrati, e poi le miniere e i piccoli aeroporti. Beni che oggi appartengono allo Stato e che domani con il federalismo demaniale, prima tappa concreta della "devolution" ormai avviata in Parlamento, potranno essere trasferiti a Regioni, Province, Comuni e alle future Città metropolitane. Gratuitamente, e con un unico scopo, la valorizzazione. Si, perchè tutto quel ben di Dio oggi ha un valore stimato di 3,2 miliardi di euro, ma frutta una miseria: appena 189 milioni l'anno secondo la Ragioneria generale dello Stato.

Qualche esempio? Il demanio marittimo rende allo Stato 97 milioni di euro l'anno, cioè 190 euro per ogni 100 metri di spiaggia, le miniere fruttano appena 347 mila euro, mentre dai canoni di concessione per l'uso delle acque pubbliche si ricavano 2,7 milioni, meno di quanto si guadagna dalla gestione dei beni confiscati alle mafie (2,8 milioni). E questo succede non solo per incuria o inefficienza. Il fatto è che se lo Stato è il padrone, spesso non ha gli strumenti adatti per far fruttare il suo patrimonio. Torniamo alle spiagge: le Regioni hanno la competenza legislativa sul turismo, ma i canoni demaniali li riscuote lo Stato. Così i Governatori non hanno alcun incentivo a legiferare bene sulla materia. Lo stesso discorso vale per gli immobili. Le caserme in disuso sono state trasferite al demanio dello Stato, ma lo strumento per valorizzarle, trasformandole in alberghi o in centri commerciali, cioè la variante urbanistica, è in mano ai Comuni. E poi c'è la polverizzazione delle competenze, che ad esempio non ha mai reso possibile la navigazione del Po. Eppure alleggerirebbe non poco il traffico al Nord, se si pensa che su una sola chiatta possono starci 80 camion.

Ce n'è abbastanza per cambiare il sistema, anche se il federalismo demaniale approdato in Parlamento con il decreto legislativo del governo, da approvare entro il 21 maggio, e che comunque non contempla in nessun caso la cessione dei beni storici e culturali, lascia indefinite parecchie questioni ed apre una lunga serie di nuovi problemi. Il primo è il criterio con il quale i beni dovranno essere trasferiti, che non è chiaro, ma che rischia di segnare il destino dell'intero processo federalista. Saranno ceduti alle Regioni e da queste alle loro province e comuni, come chiedono i governatori che vogliono imboccare la strada del "regionalismo", oppure partendo dal basso, cioè dai comuni, come vogliono i sindaci che puntano al "municipalismo"?

Il decreto non lo dice. Il testo portato in Parlamento prevede che lo Stato compili un elenco dei beni cedibili, che Regioni ed enti locali scelgano cosa prendersi e che l'attribuzione si faccia considerando le dimensioni territoriali, le funzioni esercitate e la capacitˆ finanziaria degli enti che li domandano. Giustissimo. Non ha senso dare ad un comune di mille abitanti una caserma di 500 mila metri quadri, perchè non avrebbe mai le risorse economiche per poterla valorizzare. Questo è un caso-limite, ma la capacità finanziaria di ciascun ente locale è destinata a cambiare, e di parecchio, con il federalismo fiscale e con l'intervento della perequazione statale e regionale. Che tuttavia arriveranno solo in un secondo momento, comunque dopo il federalismo demaniale.

E ancora, cosa succederà al debito pubblico italiano, che è in parte garantito da questi beni di cui si spoglia? Anche se quei 3,2 miliardi rappresentano una minima parte del patrimonio pubblico, iscritto nel bilancio dello Stato per un valore di 49,5 miliardi (ma che a prezzi di mercato ne vale almeno 200), il problema esiste. Finchè i beni devoluti dallo Stato restano di proprietà degli enti locali che li riceveranno, in teoria cambia poco. Ma se li vendono? Lo Stato è obbligato a usare i proventi delle sue dismissioni per la riduzione del debito pubblico, ma Regioni, Comuni e Province non hanno questo vincolo. Pare che l'orientamento del governo sia quello di imporre anche a loro la medesima regola. Potrà anche essere così, ma se i beni, una volta valorizzati, vengono conferiti a un fondo immobiliare, dove entrano i privati, che succede?

C'è, poi, un problema di equilibrio. Cedere beni che possano essere messi a frutto ècome mettere benzina nel serbatoio di Regioni ed enti locali. Ma non di tutti. Di quei 3,2 miliardi di beni trasferibili, addirittura un quarto sta in un'unica regione, il Lazio (859 milioni). Il Veneto (364 milioni) ne ha più della Lombardia (315) che però ha il doppio degli abitanti. Liguria e Marche hanno quasi la stessa popolazione, ma la prima ha beni demaniali cinque volte superiori alla seconda (184 milioni contro 38).

I problemi da risolvere sono tanti e rilevanti, ma forse non tali da mettere in discussione il progetto. Del resto quei pochi esempi di federalismo demaniale già attuati in Italia funzionano. E non è certo un caso se la provincia autonoma di Trento, proprietaria del tratto dell'Adige che scorre nel suo territorio, abbia il piano di gestione delle acque più avanzato di tutta Europa.

[Non molto coerente la conclusione con il resto dell'articolo! - n.d.r.]

Quando Rosarno è salita agli onori delle cronache per la tragica rivolta del gennaio scorso, il rosarnese Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa dal 1999 (lascerà il prossimo ottobre), ha provato “dolore, perché un luogo relegato alla marginalità otteneva gli onori delle cronache per un episodio così terribile”; e “stupore, perché Rosarno è stato sempre un paese di emigranti: ad esempio, nella famiglia di mio padre sette fratelli su sette sono emigrati e mio nonno, Salvatore come me, è stato sia in Argentina sia a New York”. Ma non solo, perché “Rosarno all’inizio del ‘900, dopo le bonifiche e grazie alle coltivazioni di agrumeti che rendevano molto, ha anche accolto altri calabresi provenienti da zone ancor più povere, come l’Aspromonte, e nel giro di pochi anni la popolazione crebbe da poche migliaia a 20 mila abitanti: tanti rosarnesi di oggi discendono da quell’esperienza di immigrazione interna, da quel tempo in cui Rosarno era chiamata “Americhedda”, piccola America, quindi i fatti di gennaio sono stati un paradosso nel paradosso”.

Facciamo un passo indietro. Sempre a Rosarno, 1980, altro tragico evento, l’assassinio di Peppino Valarioti, intellettuale e dirigente del Pci locale, per mano della ‘ndrangheta in una storia mai chiarita fino in fondo (ancora oggi non c’è nessun responsabile). Che ricordi ha di quei giorni?

Ho avuto modo di conoscere Valarioti personalmente, quando dopo molti anni ritornai a Rosarno da archeologo per fare degli scavi negli anni ‘70. Mi legava a lui una grandissima simpatia. Valarioti faceva parte di una specie molto rara nel Sud: intellettuale, giovane, radicale nelle sue posizioni e soprattutto deciso a rimanere a Rosarno, a restare nella sua terra. Non voglio criticare con questo chi va via, perché dovrei criticare anche me stesso, ma lui rappresentava qualcosa di importante: una speranza. E quando fu ucciso venne meno proprio questo, la speranza. Non era un magistrato che aveva mandato qualche capomafia all’ergastolo, era semplicemente una persona che aveva deciso di non scendere a compromessi ed è morto per questo.

Dagli anni ’80 a oggi la civiltà culturale della Calabria, del Sud, ha fatto ulteriori passi indietro?

Ho l’impressione che la situazione non sia molto cambiata. Alcune reazioni individuali ci sono, ma manca la capacità di organizzare un movimento, anche per colpa dei partiti che non sono stati in grado di rappresentare la voglia di rinnovamento e offrire un’immagine diversa. Anzi, hanno proprio fallito i partiti. Pur con qualche tentativo generoso: penso all’assessore Domenico Cersosimo, dell’ultima giunta Loiero, per i suoi investimenti considerevoli nella scuola con l’introduzione di meccanismi per aiutare soprattutto le fasce più svantaggiate, i più poveri.

Eppure l’unica certezza per la Calabria pare essere l’arretratezza a cui la condanna soprattutto una criminalità antichissima nella liturgia, ma modernissima nella capacità di esser protagonista dell’economia.

Pensando sempre a Rosarno, l’immagine dei cartelli stradali bucherellati dai proiettili indica proprio questo, il degrado di un posto che ha pur dato i natali a un discepolo di Platone, Filippo di Medma. Invece è un luogo sotto la cappa di una ‘ndrangheta che ai miei tempi faceva piccole estorsioni, piccole rapine, “controllava” i campi. Poi l’evoluzione: mantenendo sempre gli stretti legami familiari e sociali, ma alzando la mira sul traffico internazionale di droga e di armi, raggiungendo guadagni incredibili. Ma quel qualcosa di molto arcaico rimane, come rimane il pellegrinaggio annuale delle ‘ndrine al santuario della Madonna di Polsi.

Ci sono state, però, anche delle grandi illusioni: come il porto di Gioia Tauro che, se a pieno regime, potrebbe garantire migliaia di posti di lavoro in più. Ma resta, appunto, un’illusione, perché?

Forse perché, nel caso specifico, è nato male quel porto. È stato devastato uno dei più bei luoghi della Calabria, distruggendo olivi secolari, spianando tutto con i camion della ‘ndrangheta. E non per un porto: doveva sorgere il quinto centro siderurgico d’Italia in un momento in cui gli altri quattro non funzionavano più. Era l’epoca della lotta tra poveri, il “boia chi molla” della rivolta di Reggio contro Catanzaro capoluogo. Si porta dietro questa maledizione il porto.

Le responsabilità politiche non mancano. Anche il centrosinistra, che ha governato dieci anni prima della recente vittoria di Scopelliti, è ampiamente responsabile, non crede?

Sì e al di là di quello che è stato fatto o meno, rimprovero alla sinistra di non essere più in grado di costruire una speranza, ma non solo al Sud dove l’immobilismo produce effetti ancor più gravi. Non c’è più un’idea, tutto viene sistematicamente copiato: come il federalismo dalla Lega, copiare dal Carroccio è una moda poi. Invece, parlare di unità d’Italia è ora rivoluzionario, come nel 1848. C’è stata qualche eccezione a sinistra, bisogna ricordarlo, come Nichi Vendola, la sua storia è la più bruciante sconfitta del Pd: il piano era perdere in un colpo solo la Puglia e Bari, e a volerlo, diciamolo, era un normalista (il riferimento è a Massimo D’Alema, che in gioventù studiò alla Normale senza però conseguirne il diploma, ndr).

Mentre la crisi del Sud è senza fine, al Nord non si può neppure più cantare “Bella ciao”… perché anche gli intellettuali non parlano più, non fanno sentire la loro voce?

È vero, è una cosa che manca sempre di più. Gli intellettuali sono sempre più ridotti al silenzio, all’auto-bavaglio. Scetticismo? Sfiducia? Stanchezza? In parte anche eterna capacità di trasformismo, come dal 1922 al ’43, perché per afferrare piccole briciole di potere molti sono pronti a genuflettersi davanti a chiunque o almeno a tacere, ambiguamente.

In un’Italia sempre più spaccata e divisa almeno il sindacato cerca ancora, pur tra mille contraddizioni e limiti, di trovare ancora dei simboli, per questo la manifestazione nazionale oggi è proprio a Rosarno.

È positivo se dentro il simbolo, però, c’è qualcosa. Perché i simboli se sono vuoti si consumano in fretta: qual è il progetto del sindacato per l’Italia? Anche questo, a dir il vero, non mi è molto chiaro.

Mentre il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza Sergio Zavoli dichiara che «la credibilità della Rai è crollata, perché non si rispettano autonomia e qualità», il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi le infligge il colpo mortale annunciando una campagna pubblicitaria a favore dell´energia nucleare sulla tv di Stato a colpi di spot. Reduce dall´incontro con il suo amico Putin, ultimo esemplare di comunista autentico in circolazione, il nostro premier non esita così a dissipare l´autonomia residua della televisione pubblica, certificandone la subalternità strumentale alla politica del governo nell´indifferenza o addirittura con l´acquiescenza dei dirigenti di viale Mazzini.

Quello di Berlusconi è un ragionamento inquietante nella sua banale semplicità: il progetto del ministro Scajola - già, proprio quello degli 80 assegni "neri" per un valore di 900 mila euro utilizzati per pagare più della metà di una casa al Colosseo per la figlia - prevede di iniziare i lavori della prima centrale nucleare in Italia entro tre anni. Ma, avverte lo stesso presidente del Consiglio, «prima di individuare il luogo in cui realizzare una centrale nucleare, bisogna che cambi l´opinione pubblica italiana». Da qui, la fulminante idea degli spot sulle reti della Rai per «fare una vasta opera di convincimento».

L´energia, dunque, come un fustino da lavatrice o una confezione di pannolini. Paghi uno e prendi due. Magari con i punti fedeltà, i bollini premio o lo sconto convenienza. Una campagna pubblicitaria, più che di informazione e persuasione, che fa torto innanzitutto alla vera pubblicità, onesta, trasparente, corretta e veritiera. Come quelle per le creme miracolose che promettono di far crescere i capelli, i muscoli o il pene.

C´è tutta la cultura politica - si fa per dire - di Berlusconi in questo annuncio. Il presidente del Consiglio non chiede al servizio pubblico di dedicare alla questione energetica i talk show televisivi, i programmi di approfondimento, trasmissioni d´inchiesta o eventualmente di confronto e di dibattito. No, pretende d´imporre la logica della propaganda governativa, come ai tempi infausti del Minculpop, il Ministero della cultura popolare di marca fascista. Un lavaggio del cervello, insomma, a livello di massa.

La televisione pubblica come megafono del potere. La tv di Stato come tv di regime. La Rai come succursale o dépendance di Palazzo Chigi.

Si dirà, magari, che così è sempre stato. Ma francamente la degenerazione del servizio pubblico non era mai arrivata fino a questo punto di totale subalternità e asservimento alla politica. Tanto più che - ricordiamolo sempre - il capo del governo è anche il principale concorrente della Rai, il suo competitor diretto sul mercato degli ascolti e della pubblicità. E quindi, il maggior beneficiario della crisi che attanaglia l´azienda di viale Mazzini.

Il governo di un Paese civile e democratico non può, tuttavia, affrontare legittimamente una scelta fondamentale come quella energetica a colpi di spot, di slogan, di effetti speciali. Se fosse vero - come dice Berlusconi - che oggi il 54% degli italiani considera necessario il ritorno all´energia atomica, che cosa ne facciamo del restante 46%? Li esentiamo dal canone d´abbonamento alla Rai? Oppure, li dirottiamo tutti sulle reti Mediaset?

La questione in realtà è troppo seria e importante per essere risolta con una campagna pubblicitaria. Qui non si tratta di vendere un prodotto commerciale o di "piazzare" una merce. Si tratta piuttosto di discutere apertamente, dati e cifre alla mano, per confrontare pareri e opinioni diverse attraverso il contraddittorio più ampio. La decisione evidentemente non può essere rimessa al ministro Scajola, già troppo occupato a maneggiare assegni di provenienza quantomeno sospetta.

Nel 1987 fu un referendum abrogativo a respingere a larga maggioranza la scelta nucleare. Giusto o sbagliato che fosse quel responso, al momento rappresenta tuttora la volontà popolare. E per ribaltarla, occorre semmai una consultazione pubblica libera dalle suggestioni e dagli imbonimenti propagandistici del regime televisivo.

Ammesso che i lavori per la costruzione della prima centrale inizino davvero entro tre anni, ce ne vorranno almeno altri dieci per realizzarla. Nel frattempo, rischieremo di perdere la "chance" delle fonti rinnovabili, aggravando ulteriormente la nostra dipendenza energetica che vale per il petrolio, per il gas o per il carbone come pure per l´uranio. E intanto la Rai continuerà ad andare alla deriva, o naufragherà definitivamente, tra i diktat, gli spot e gli slogan governativi.

Accapigliarsi a Firenze, è una onesta tradizione. Anche il Primo maggio è una mirabile tradizione. Di accapigliarsi, e proprio a Firenze, per il Primo maggio, non si sentiva il bisogno. Ne scrivo – la disputa avviene anche in altre città, e la posta riguarda tutti – rallegrandomi di stare dalla parte dell´attaccamento al passato. Centovent´anni più o meno, non è un passato vetusto, in un Paese di antichità come il nostro, ma è quello comune al resto del mondo, e di cui andare fieri. È il giorno in cui non si lavora per far festa alle otto ore e alla dignità del lavoro. Dopo che sono crollati gli argini delle feste comandate, sabati e domeniche comprese, a servizio dei quali è stato rifatto l´uomo e anche la donna, una legge toscana ha stabilito che quattro feste siano inderogabili, salvi i servizi necessari alla sicurezza pubblica e alla tutela dei cittadini: il 25 e il 26 dicembre, Capodanno, e il Primo maggio.

L´intenzione sottintesa è di preservare qualche cerchietto rosso nel calendario, rosso di Natale o di scioperi: neanche le dita di una mano. L´intenzione ragionata è di consentire ai membri di una comunità, dalla famiglia in su, di avere almeno in quei giorni di gala un riposo e una festa comune. La legge prevede bensì deroghe "concertate" quando ci siano necessità speciali o eventi straordinari. Si capisce che a Torino durante l´esposizione della Sindone la deroga sia venuta in modo concertato.

A Firenze il sindaco Renzi aveva tempestivamente provveduto con un´ordinanza dello scorso dicembre ad annunciare la chiusura dei negozi per il Primo maggio. Alla cui vigilia però, cedendo alle pressioni della Confesercenti, ha annunciato di voler autorizzare l´apertura. Ciò che è avvenuto ieri d´autorità, come a Milano e in parecchie altre città. La motivazione offerta è la crisi economica: poco persuasiva, non perché la crisi non ci sia, ma perché c´era già a dicembre, e non le gioverebbe molto un giorno in più di apertura. A Firenze venerdì 30 è anche in programma la notte bianca, e si è sostenuto che i reduci dalla moltitudine attesa per la notte avrebbero popolato la città anche il giorno dopo: una sindacalista ha commentato che gli avventori del giorno dopo avrebbero trovato bar chioschi e ristoranti aperti, ma avrebbero potuto fare a meno di comprarsi il golfino. L´effetto paradossale sarebbe di far lavorare le persone nel commercio, alcune decine di migliaia, la notte "bianca" e la giornata dopo, festa del lavoro. Che la notte bianca sia un pretesto è provato dalla quantità di altre città, in Toscana e fuori, in cui si vuole aprire il Primo maggio.

La discussione ha affrontato un tema interessante come la riduzione della convivenza e della "modernità" al consumismo, cui il Primo maggio festivo si opporrebbe come un´anticaglia. Dopo i sindacati, anche tutte le associazioni di consumatori hanno indetto lo sciopero degli acquisti, avvertendo che il Primo maggio è la festa del lavoro e non del consumo. L´economicismo dei fautori dell´apertura, sia detto con tutto il rispetto che i soldi pretendono, ha ispirato qua e là un´inavvertita premura da borseggiatori: «Il punto è – così il responsabile di Confesercenti a Milano – che si tratta di un sabato d´inizio mese, la gente ha lo stipendio in tasca e può spendere». Il punto, si obietta peraltro, è che molta gente ha le tasche vuote e i famosi outlet sono sempre di più luoghi domenicali in cui si va con la famiglia a guardare quanto costano le cose e mangiare un gelato. Il presidente di Unicoop toscana, Turiddo Campaini, cui si accredita o si addebita una personale sobrietà vicina all´ascetismo, ha escluso di aprire i suoi mercati, e va facendo discorsi interessanti – e non di beneficenza – sulla crescente inadeguatezza del gigantismo degli ipermercati. Ma tutto questo è secondario. Devono esserci giorni in cui i soldi sono secondari, in cui il tempo non sia denaro. Feste di liberazione. Giorni – pochissimi, abbiamo visto – in cui si sospenda d´essere uomini d´affari, e si sia semplicemente uomini, e donne e bambini. Chi lavora in un esercizio commerciale, grande o piccolo, assunto o precario, con orari che fanno sorridere o piangere, come preferite, al ricordo della conquista eroica delle otto ore, non è affatto "libero" di accettare o no la richiesta del suo datore di lavoro. Non c´è parità fra padrone e dipendente, né ci si può appellare al padrone buono e comprensivo. I commessi che abbiano prenotato il weekend con famiglia da qualche parte, o abbiano deciso di partecipare a qualche manifestazione del primo maggio, o di starsene in casa in poltrona, metteranno a repentaglio il proprio posto o anche solo la propria serenità per dire: «Preferirei di no, grazie». Piuttosto che chinare la testa e ascoltare in cuffia il concerto di Piazza San Giovanni mentre infilano l´ennesima scarpa col tacco alto a una signora di Parigi o a un signore di Milano. I sindacati che hanno proclamato lo sciopero – bel paradosso, scioperare il Primo maggio, la storia a ritroso – non si propongono tanto la bellezza della lotta quanto una minima misura di tutela dei lavoratori dalle ritorsioni. A Firenze la disputa oppone il Comune ai sindacati e probabilmente anche alla Regione, che si propone di rivedere la licenziosità di aperture domenicali e festive: disputa in famiglia, per così dire. Come nella tradizione. Costarono care, le dispute in famiglia. Mi dispiace che il Comune di Matteo Renzi, giustamente fiero di aver restituito a fiorentini e viaggiatori lo spazio sociale del Duomo, la piazza bella piazza, figuri questa volta come liquidatore del tempo liberato del Primo maggio, e di una bella memoria. «In Comune lo sanno che noi lavoriamo già tutte le domeniche?», si è domandata una commessa del centro. Invece, un negoziante: «Ma in che mondo vivono i sindacati?». Ecco, a me è ora sembrato un gran complimento. In un altro mondo.

l decreto in discussione sul federalismo demaniale dovrebbe essere il più «leggero» dei tre previsti per attuare il federalismo fiscale. Ma rischia di finire in secca o di venire approvato chiudendo gli occhi sul baratro. Esso trasferisce, in modo «non oneroso», agli Enti locali spiagge, rade, lagune, laghi, foci di fiumi, aeroporti regionali, miniere, terreni agricoli inutilizzati, caserme, edifici che non siano «di valore culturale» (concetto già ambiguo, chi stabilisce quel valore?), ecc. Secondo stime attendibili, lo stock immobiliare pubblico è pari a 1 miliardo di mq, circa il 20 % del totale nazionale. Tempo massimo per il varo del decreto: il 21 maggio. I lavori della Bicamerale tuttavia sono appena cominciati, fra non pochi ostacoli. Ma la Lega preme, senza posa.

Le prime osservazioni inquietanti provengono dal Servizio bilancio della Camera: il gigantesco trasferimento demaniale può «far affievolire gli strumenti di garanzia dello Stato» impedendo anche di destinare i proventi delle dismissioni alla riduzione del debito pubblico. Gli enti locali infatti, a differenza dello Stato, non sono obbligati a ripianare con essi il debito. Potrebbe così peggiorare il «saldo di bilancio strutturale della Pubblica Amministrazione». Ci manca solo questo. Ma il ministro Calderoli semplifica: niente paura, avanti verso il federalismo. Lui e Bossi hanno fretta.

Il fine di questo colossale trasferimento di demanio? La sua «valorizzazione». Termine dei più ambi- gui. «Finora, valorizzare ha voluto dire dismettere», dichiara al Sole 24Ore il presidente del Consiglio Superiore dei LL.PP, Franco Karrer. I Comuni, del resto, indebitati dalla demagogica soppressione dell’Ici sulla prima casa, saranno portati a vendere il prima possibile. Purtroppo il mai abbastanza deprecato Titolo V della Costituzione ha separato tutela e valorizzazione, anche se poi si è cercato di ricucire i due termini. Proprio il Codice dovrebbe essere una garanzia contro svendite e speculazioni irresponsabili nei Comuni con l’acqua alla gola. Ma dove sono i piani da esso previsti? La suprema Corte ha ribadito, in gennaio, che non si possono variare a piacimento i piani urbanistici né derogare da essi per alienare beni demaniali (lo permetteva un Dl Berlusconi del 2008). Per ora, tuttavia, vanno avanti soltanto i Piani Casa imposti da Roma. In Sardegna quello del centrodestra, detto Piano Cemento, punta a far saltare i validi piani paesaggistici della giunta Soru. Insomma, dove non ci sono, i Piani non si fanno, e dove c’erano, si fanno saltare. Fossi nel Pd, indurirei subito l’opposizione a questo pasticciato e pericoloso demanio federale. Con esso Bossi e Berlusconi ci portano verso il precipizio.❖

Cari compagni del manifesto, poiché sono convinto che il vostro giornale possa e debba avere un ruolo importante nella vicenda referendaria sul diritto all'acqua, e poiché in questa vicenda ho deciso di starci, vorrei segnalare alcune questioni che dovrebbero essere tenute presenti nella campagna appena iniziata e che ci accompagnerà nei mesi prossimi. Con una premessa. L'avvio è stato straordinario: centomila firme raccolte in due giorni sui quesiti referendari. Questo significa almeno quattro cose: esistono grandi temi sui quali è possibile mobilitare le persone; la disaffezione per la politica è l'effetto di una politica drammaticamente impoverita; è possibile modificare l'agenda politica con iniziative mirate e fondate sull'azione collettiva; la leadership, pure nel tempo dell'immagine trionfante, non si identifica necessariamente con la personalizzazione o con il carisma, vero o presunto che sia.

Nessun trionfalismo, d'accordo. È stata imboccata una strada difficile, e molti e forti interessi sono già in campo per bloccare questo cammino. Ma un risultato politico è già davanti a noi. Un tema nascosto nelle pieghe di un decreto è divenuto oggetto di grande discussione pubblica. I partiti cominciano a muoversi e, anche quando lo fanno in modo sgangherato, danno la conferma che siamo di fronte a un tema ormai ineludibile. Un tema davvero globale che, senza retorica, riguarda il governo del mondo. Guerre dell'acqua minacciano il nostro futuro. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una «società idraulica», che consentiva un controllo autoritario dell'economia e delle persone.

Questa vicenda storica ci ricorda che il tema dell'acqua è sempre stato intrecciato con quello del potere, e proprio con poteri assai forti si devono ora fare i conti: questo referendum si distingue da tutti quelli che l'hanno preceduto perché riguarda l'assetto e la distribuzione del potere in una materia decisiva per la vita delle persone.

Ma, proprio perché stiamo parlando di un potere concreto, non ci si deve impantanare in una guerriglia ideologica. Bisogna smontare gli argomenti usati per difendere l'assetto attuale e quello progettato, con precisione e senza trascurare i dettagli, seguendo il metodo indicato da Corrado Oddi nel suo intervento di domenica su questo giornale. E allora:

a) sottolineiamo che non siamo di fronte alla tradizionale alternativa tra proprietà pubblica e proprietà privata. L'acqua appartiene ai beni comuni, che sono caratterizzati dal fatto di essere «a titolarità e tutela diffusa», il che vuol dire che sono le persone e i loro bisogni che individuano gli interessi da garantire: per l'acqua è necessario un regime giuridico coerente con questa sua natura. Questa non è una posizione astratta, ma si ritrova in disegni di legge presentati al Senato dalla Regione Piemonte e dal gruppo del Pd, dove viene proposta appunto una nuova classificazione dei beni. Questo è il mutamento qualitativo che il referendum vuole realizzare, indicando un orizzonte nel quale compaiono altri beni comuni, dall'aria alla conoscenza;

b) ricordiamo al ministro Ronchi che significa poco o nulla insistere sul fatto che la proprietà formale dell'acqua rimane in mano pubblica. Fin dalla grande ricerca degli anni Trenta di Berle e Means sulla scissione tra proprietà e controllo e dai contributi dei giuristi italiani sulla distinzione tra proprietà formale e sostanziale, è un punto acquisito che il potere sta nelle mani di chi ha l'effettivo governo del bene;

c) contestiamo che gli indubbi limiti di molte gestioni pubbliche obblighino a concludere che l'unica soluzione stia nel privato. A parte le smentite venute anche dalle privatizzazioni italiane, quando si è di fronte a un bene comune bisogna ripensare il pubblico non rifugiarsi nel privato. I quesiti referendari sono strutturati proprio in modo da indicare questa via, partendo dalla esclusione del profitto e considerando nuove modalità di gestione del bene, andando oltre l'ottica di uno Stato regolatore che si rifugia nella creazione di una nuova autorità indipendente;

d) prepariamo e diffondiamo materiali che trasformino ogni quesito referendario in una formula sintetica immediatamente comprensibile; che forniscano i dati sul costo dell'affidamento ai privati, con riferimento puntuale all'aumento delle tariffe; che analizzino casi concreti come quello di Aprilia; che indichino le soluzioni possibili, da aziende pubbliche rinnovate a modelli riconducibili alla logica delle comunità di lavoratori e utenti di cui parla l'art. 43 della Costituzione;

e) evitiamo l'ennesima puntata delle polemiche interne alla sinistra: quali che siano le posizioni ufficiali assunte più o meno strumentalmente dai partiti di opposizione, i primi due giorni di raccolta delle firme hanno anche mostrato una grande adesione degli iscritti a quei partiti. Il tema dell'acqua, come tutti i grandi temi, ha l'effetto benefico di rendere autonome le scelte politiche. Non immiseriamo questa occasione in inutili ripicche;

f) parliamo più di Bernard Delanoe, e della pubblicizzazione dell'acqua nella vicina Parigi, e meno di Evo Morales, con tutto il rispetto per la sua azione;

g) dobbiamo essere consapevoli che una battaglia è stata già vinta, che la campagna per la raccolta delle firme e poi quella referendaria produrranno una mobilitazione che, quale che sia l'esito finale, non lascerà le cose come prima.

Auguri a tutti noi.

Qui il sito del Forum per l'acqua bene comune, che ha indetto ilmreferendum

In quello stesso spazio televisivo dov´era nato sedici anni fa il "miracolo" berlusconiano, ieri si è scatenato l´inferno del Cavaliere: il numero due del Pdl, cofondatore del partito e terza carica dello Stato, che contesta pubblicamente la sua leadership e critica la sua politica, rispondendogli colpo su colpo, chiamandolo per cognome, e poi durante la replica concitata del premier si spinge sotto il palco col dito alzato, negando le accuse e restituendole. Il partito è sotto shock per la ferita inferta in diretta al corpo mistico del leader più ancora che al suo ruolo, per il delitto inconcepibile alla sovranità perenne berlusconiana, per il primo gesto di autonomia e di indipendenza del quindicennio, vissuto non solo come una rottura ma come un sacrilegio. Il Cavaliere, abituato alle apoteosi, resta palesemente senza copione, sotto lo sguardo delle telecamere e degli italiani, in uno psicodramma che è insieme privato e di Stato, come tutto ciò che lo riguarda. I numeri sono tutti dalla sua. Ma il sipario del suo lungo talk show con l´Italia è irrimediabilmente strappato. Ci vorrebbe infatti Hitchcock, più che qualche scienziato della politica, per spiegare lo spettacolo inedito di ieri, la profondità teatrale della ferita in scena, la tempesta in arrivo sul fondale.

I volti, le mani, i gesti, contavano più delle parole, come accade nei rari momenti della verità, quando davvero i nodi vengono al pettine. Qui il nodo è talmente aggrovigliato, e da anni, che può scioglierlo solo la spada. E infatti finirà così. Cozzano insieme, con il fragore spettacolare di ieri, due mondi alleati ma inconciliabili, due figure politiche legate ma divaricate, due uomini che si devono reciproca riconoscenza ma non si sopportano più, e infine e soprattutto, due culture politiche che la velocità del predellino e la cartapesta televisiva non sono riuscite a fondere, perché negli ultimi due anni sono cresciute in direzioni opposte e per questo dovranno separarsi. Una è una cultura conservatrice in senso moderno, repubblicana e costituzionale. L´altra è estremista e rivoluzionaria, proprietaria e post-costituzionale.

Dopo le elezioni regionali, vinte grazie alla Lega, il premier ha fatto capire a tutto il sistema che questo finale di legislatura si giocherà a destra e nel governo interamente sotto il segno della diarchia Bossi-Berlusconi. Fini è escluso, ridotto a un ruolo di comprimario, fuori dall´asse ereditario, estraneo anche alle strategie che preparano il futuro: nessuna riforma interessa in realtà il Cavaliere, il patto con Bossi riguarda esclusivamente il federalismo e la difesa blindata di questa legge elettorale. Tutto il resto, è specchietto per le allodole (o per qualche oppositore perennemente con la mano tesa, abituato a ballare alla musica altrui), paesaggio di comodo per i telegiornali di regime, meccanismo tecnico di divagazione parlamentare, per puntare in realtà alle uniche cose importanti per il Cavaliere, l´eliminazione della par condicio televisiva, il blocco delle intercettazioni, il lodo Alfano costituzionale per fermare definitivamente ogni inchiesta della magistratura. Assorbita An nel Pdl, assorbiti molto più facilmente gli ex colonnelli rivelatisi semplici brigadieri, Fini se non voleva degradare se stesso a colonnello aveva davanti a sé la scelta obbligata di una strada indipendente ed autonoma. Ha deciso di rendersi autonomo, restando nel partito, e questa scelta da sola lacera la ragione sociale del Pdl e dello stesso berlusconismo.

Berlusconi è pronto a rompere con chiunque e quasi a qualsiasi prezzo, pur di affermare la sua sovranità indiscussa: ed è pronto a negoziare con chiunque e a un prezzo ancora più alto, pur di riaffermare il suo comando. Ciò che non può accettare è la lesione continua, visibile e manifesta, del suo busto imperiale, che è il vero simbolo fondatore e imperituro del Pdl, secondo la sua concezione. Ciò che non può reggere è un´opposizione organizzata, pubblica e permanente, che lo ingabbi al di là dei numeri a suo favore in una discussione quotidiana, in una trattativa senza fine, in una contestazione alla luce del sole, ingigantita nel gioco parlamentare e mediatico. Che tortura diventerà, in questo schema, la discussione sul Dpef? Che rischi correranno le spericolate misure sulla giustizia ad uso personale? Che logoramento subirà la potestà suprema del leader unico, obbligato ogni volta ad infilarsi nei corridoi delle notti democristiane dei lunghi coltelli?

Ma sono soprattutto la cultura politica, la natura leaderistica, la simbologia carismatica e vagamente messianica del Cavaliere che risultano incompatibili davanti al gesto di un numero due che stravolge i ruoli, lotta alla pari, punta sull´età e sullo scudo istituzionale, e rovescia il tavolo-altare della beatificazione perenne del Supremo. Quei gesti di Fini sono l´inferno di Berlusconi, la prova che un´altra destra è possibile, l´annuncio che la democrazia interna può mandare in tilt un partito nato per essere un blocco unico e nient´altro, la promessa di un´alternativa che risolve alla radice il gioco della successione promessa e dell´eternità praticata dal premier.

Ciò che i Bondi ieri hanno visto sul volto del Cavaliere è il dopo-Berlusconi, improvvisamente anticipato ad oggi come in una premonizione televisiva, in un corto-circuito politico ed emozionale (molto più emozionale che politico) senza precedenti. Senza la finzione della calza sulle telecamere, dei finti cieli sui fondali, dei cori egemoni per "Silvio", l´irruzione della realtà e della verità ha sconvolto il palinsesto del Pdl, rendendo il Cavaliere per la prima volta afasico politicamente, incapace di condurre al suo esito un´assemblea e una giornata giocate tutte di rimbalzo, sui nervi, e clamorosamente senza nemmeno una conclusione politica. Un rovesciamento spettacolare per un leader che da casa interviene addirittura nei talk show, li domina al telefono togliendo la parola a tutti, per dire ciò che vuole, salutare e andarsene con l´ultima parola che conta.

Va visto con rispetto il travaglio del Cavaliere, che alla sua età e dopo tanti successi entra nell´inesplorato della guerriglia politica dentro casa, ipnotizzato da quella crepa che gli scandali estivi di un anno fa, il castello di contraddizioni e di bugie in cui si era avventurato, gli hanno aperto sotto i piedi: che i voti perduti delle regionali hanno allargato, e che Fini ieri ha indicato con quel dito alzato, perché le telecamere metaforicamente la mostrassero agli italiani. E va seguito con attenzione il passaggio spericolato del presidente della Camera, tradito dai suoi che avevano da tempo trovato un padrone e oggi gridano al tradimento, dimostrando che il dissenso in quel partito è un esercizio sicuramente rischioso (vedremo adesso il killeraggio della stampa di famiglia, che già si è distinta per il pestaggio degli eretici e dei critici), probabilmente impossibile.

Fini tenterà di restare nel Pdl parlando alla parte più moderata della destra e del Paese, ma intanto preparerà le sue truppe risicate, perché dovrà andarsene, più presto che tardi. Il Cavaliere ondeggerà tra paternalismo e pugno di ferro, e alla fine romperà definitivamente. Ma non solo con Fini, con tutto. Incapace di reggere, chiederà il giudizio di Dio nelle elezioni anticipate, per riavere dal voto quel che perde con la politica, tentando di andare al Quirinale con il controllo diretto della maggioranza parlamentare, trasformando il populismo nella religione finale: ieri il documento votato dal partito lo dice esplicitamente, quando spiega che il Pdl non è un partito ma un "popolo", che si riconosce nelle "democrazie degli elettori", e dunque non può contemplare il dissenso. L´avventurismo sarà la fase suprema, l´ultima, del berlusconismo al potere.

A meno di nuovi colpi di scena – comunque possibili, perché queste vicende così cariche di umori sono sempre imprevedibili nel breve periodo – lo scontro tra Fini e Berlusconi sembra ora spostarsi sul piano di una lunga e difficile guerra di posizione. Adesso, dopo uno scambio di inaudita violenza, i due contendenti sembrano aver fatto entrambi un passo indietro: ma nulla lascia pensare che si tratti di una tregua; piuttosto di un disimpegno tattico, per poter manovrare meglio, e guadagnare linee più vantaggiose. E intanto, ipnotizzati dallo spettacolo, sono in troppi a dimenticare che se la politica si riduce solo a questo tipo di contese, siamo tutti perduti, veramente; e che mentre si svolge la non proprio titanica lotta, il Paese a rischio, e stiamo tutti cominciando ad affondare. Ma qui dovrebbe cominciare un altro discorso.

È evidente che il Presidente del Consiglio ha subito in questi giorni un duro colpo d´immagine – tanto più grave per lui, che d´immagine vive. Egli ha ora bisogno innanzitutto di recuperare ruolo e statura – la "maestà" della funzione e del carisma costruiti mediaticamente intorno alla sua persona – così gravemente sminuiti e sfregiati dal discorso e dai gesti di Fini. Ha già iniziato a farlo ricordando l´anniversario della Liberazione con parole per lui inconsuete, e cercando di nuovo un dialogo con l´opposizione. Gli anni che lo aspettano saranno per lui tutti in salita: e sarà ben difficile – se ne sta convincendo anche il leader dell´opposizione – che il suo orizzonte possa ancora coincidere con la fine fisiologica della legislatura.

Berlusconi era in difficoltà, a dire il vero, già da prima. Non era uscito bene dalle elezioni, malgrado il risultato del Lazio debba essere considerato un suo successo personale. I veri vincitori vanno cercati altrove: Bossi, naturalmente, e insieme, il silenzioso ed enigmatico Tremonti, che sta portando un pezzo importante del Pdl del Nord a una confluenza di fatto con la Lega, lungo un asse che prefigura la nascita di un blocco culturale e sociale, prima ancora che politico, quale da anni non si vedeva in Italia. Un esito che non confligge con l´idea sempre più "bavarese" di Bossi: fare del controllo completo del Nord il perno di un´Italia minore, arroccata, divisa e sotto l´ala protettrice della Chiesa.

È ben possibile che il presidente del Consiglio sia più o meno consapevole di tutto ciò, e che, in fondo, non gliene importi più di tanto. L´impressione è che egli – in certo senso – abbia rinunciato ormai a far politica, se con questa si intende il tentativo di imporre al Paese una visione, un disegno, una strategia, e di realizzare obiettivi di carattere generale. Ci ha provato, nell´esordio della sua carriera, e in qualche modo c´è persino riuscito. Ma è da tempo ormai che non ha più nulla da proporre, se non la statua vivente di se stesso e del suo passato, l´icona delle emozioni che aveva saputo una volta suscitare, e che sopravvivono nello stato mentale di una parte rilevante di italiani (ci sarebbe da capire perché). Non ha più nemmeno da difendere il suo partito (dice ormai, non a caso, il suo "popolo"). E questa rinuncia è – credo – il suo modo, più o meno consapevole, di accettare realisticamente il proprio declino, e di preparare, nonostante tutto, il lieto fine della sua incredibile storia: l´ascesa al Quirinale – l´unica cosa che gli stia ormai veramente a cuore. Che in queste condizioni – al di là di molte altre ragioni – sia ben difficile avviare con lui una stagione di riforme mi sembra il minimo che si possa pensare: credo che Bersani su questo abbia perfettamente ragione.

Per Fini, invece, la partita è appena iniziata. Egli sì, che ha un´ispirazione e un progetto: dare finalmente all´Italia quello che egli stesso ha chiamato una destra "moderna". Per riuscirvi, ha bisogno di numeri e di idee. I primi, per ora non sembra averli, ma può conquistarli, se gli si lasciano tempo e mezzi sufficienti, e se saprà muoversi bene. Il suo bacino potenziale è assai più ampio di quanto le cifre risicate di questi giorni lascino supporre. Quanto alle idee, vedremo: il lealismo costituzionale e la difesa dei diritti sono una buona base di partenza, ma non bastano. Bisogna mettere in campo una strategia economica, una cultura politica, una proposta complessiva sul sistema-Italia. È giusto che la sinistra segua con interesse e attenzione il suo tentativo: ma, per carità, eviti gli abbracci. Fini deve rimanere, con assoluta chiarezza, una controparte, un avversario. Finalmente, "normale", al di fuori dell´eterno eccezionalismo della nostra ormai troppo lunga transizione. Ma pur sempre il protagonista di un altro schieramento.

Nell’articolo di domenica scorsa intitolato «Che cosa farà Fini quando sarà grande» avevo cercato di capire quale sarebbe stato lo sbocco politico dello scontro tra Berlusconi e Fini partendo da un presupposto: il presidente del Consiglio non ha alcun interesse alle future sorti del partito da lui fondato, non è su di esso che si basa la sua fortuna politica e il suo potere.

I fatti avvenuti subito dopo, la drammatica e pubblica rottura con il cofondatore, le reazioni della Lega, hanno clamorosamente confermato quel presupposto. Lo stesso Berlusconi ne ha fornito la prova più evidente quando ha ricordato che il Pdl non si chiama «partito della libertà» ma «popolo della libertà». Il rapporto dunque non è tra lui e un partito ma tra lui e il popolo, un rapporto diretto, senza mediazioni, carismatico e populista.

Quale sia quel popolo è tutto da vedere, ma le sue dimensioni quantitative debbono esser ben presenti: rappresenta (comprendendovi anche le liste collegate nelle ultime elezioni regionali) il 37 per cento dei votanti i quali, a loro volta, sono stati il 65 per cento del totale del corpo elettorale. Compresi in quel 37 per cento anche gli elettori che simpatizzarono per Fini. Difficile valutarne il numero ma il netto dei berlusconiani doc è comunque al di sotto di un terzo di quelli che hanno messo le schede nell’urna.

Molti osservatori sostengono che la stragrande maggioranza degli italiani non è interessata a questi temi che sanno di muffa e di politichese. Concordo, ma resta il fatto che il governo è comunque la sede dove vengono decise le questioni che toccano da vicino gli interessi di tutta la nazione, dei ceti sociali che la compongono e dei singoli individui.

Per tutto l’Ottocento il corpo elettorale delle nazioni europee non superava mediamente il 15 per cento della popolazione attiva. In Italia era nettamente al di sotto di quella media: l’elettorato era soltanto maschile, c’era un limite di censo al di sotto del quale si era esclusi dal voto, gli elettori erano per conseguenza nettamente al di sotto del 10 per cento. Un’oligarchia di proprietari fondiari con una spolverata di professionisti e di dirigenti aziendali, che si allargò lentamente fino a comprendere una parte degli impiegati pubblici e di piccoli imprenditori e un primo nucleo di operai specializzati. Non toglie che quei governi, sorretti da un consenso così ristretto, decidessero della felicità o dell’infelicità dei governanti, in gran parte contadini, braccianti, manovalanza generica.

Bisogna dunque stare attenti quando si batte il tasto di interesse o non interesse degli italiani. Il concreto individuale fa inevitabilmente parte del concreto collettivo; la politica del governo, sostenuto da una maggioranza parlamentare che vota a comando, incide su quel concreto, lo manipola lo indirizza, ne tiene conto o lo trascura, distribuisce felicità e sacrifici. Se tutto questo non interessa – e spesso accade – si tratta di incultura o di stato di ipnosi. Non è bene.

* * *

Il fatto più evidente dell’attuale situazione consiste nel disfacimento diventato sempre più rapido in questi ultimi mesi del sentimento di unità nazionale. Mentre si celebra proprio oggi la ricorrenza del 25 aprile 1945, cioè la liberazione dal nazifascismo e l’inizio della democrazia e della storia repubblicana (giugno 1946) e mentre si celebrerà il 5 maggio l’impresa garibaldina, l’imbarco dei Mille a Quarto, il loro sbarco a Calatafimi e poi, in pochi mesi, la battaglia del Volturno, l’incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele e infine la nascita di lì a poco dello Stato italiano; mentre queste ricorrenze incalzano, quello Stato che ha 150 anni di vita, si sta disfacendo sotto i nostri occhi.

Quelle ricorrenze hanno perso ogni significato epico non suscitano entusiasmi e neppure tenerezza, neppure orgogliosa memoria, neppure condivisione di valori. «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor» cantava il Manzoni. Ma dove mai? Siamo mille miglia lontani da quell’unità auspicata dai nostri grandi, mai realizzata nel profondo se non nel fango delle trincee, nei sacrifici dei più deboli, nelle speranze di quanti, malgrado tutto, hanno costruito, hanno prodotto, hanno dato un volto moderno, hanno tentato di estirpare i vizi e seminare le virtù civiche.

Magro è stato il raccolto ma tuttavia sufficiente per continuare a sperare e ad avanzare verso il futuro. Ma ora tutto sembra dissolto. Lo Stato si disfa sotto gli appetiti e la cupidigia; la nazione sta cessando di esistere nell’indifferenza sempre più diffusa. Non c’è un soprassalto collettivo contro ciò che avviene sotto i nostri occhi. L’indignazione è diventata quasi una professione di pochi.

Quando questo avviene, quando l’indignazione resta in appalto a poche voci, il segnale è quello d’una campana a morto mentre ci vorrebbe il suono di campane a martello che battessero da tutti i campanili. Quando il regionalismo arriva al limite di imporre nelle scuole maestri e docenti nati sul territorio e capaci di insegnare il dialetto locale come presupposto alla capacità di insegnare cultura, vuol dire che è in atto la scissione non più silenziosa ma dichiarata orgogliosamente dalla nazione e dallo Stato che la rappresenta.

Carlo Azeglio Ciampi si è dimesso per ragioni d’età dalla presidenza del comitato per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Conoscendolo io credo alla sua motivazione, ma proprio perché lo conosco da quarant’anni posso testimoniare della sua amarezza per il disfacimento morale e politico che è sotto gli occhi di tutti. Dell’unità nazionale e costituzionale Ciampi è stato uno dei più validi assertori. Possiamo ben comprendere la sua tristezza e l’amarezza che la pervade.

* * *

C’è chi guarda soltanto all’albero e chi è responsabile della foresta. È normale che un individuo ed una famiglia guardino all’albero della propria felicità ed è normale che una classe dirigente si dia carico dei problemi dell’intera foresta, la faccia potare, ne faccia tagliare le piante secche e ne faccia germogliare nuovi arbusti.

Ciò che non è normale è una classe dirigente che guardi anch’essa soltanto ad un suo albero mandando tutto il resto in malora. Ciò che non è normale è quando il senso civico si trasforma in puro egoismo e localismo e i paesi si cingono di torri e porte e mura merlate e difendono il territorio dalla contaminazione degli altri.

Una Chiesa cristiana dovrebbe denunciare chi compie questa strage dell’impegno civico. La coscienza nazionale dovrebbe denunciarla.

La Lega di Bossi, dopo la vittoria che gli ha consegnato il comando delle Regioni del Nord, sta seguendo questa strada: torri e mura merlate si moltiplicano nei Comuni e nelle Province leghiste; le Regioni incoraggiano e danno senso politico a questo scempio. Da Palazzo Grazioli Berlusconi acconsente e chiede contropartite. Alla Lega ha concesso il Piemonte ed il Veneto, i suoi ministri, la Gelmini in testa, forniscono i necessari supporti legislativi; il federalismo fiscale, per ora rimasto scatola vuota, dovrà essere una priorità nelle prossime settimane. In cambio Berlusconi chiede analoga priorità per la legge sulle intercettazioni, per il lodo Alfano, per il processo breve se la Corte costituzionale boccerà la legge sul legittimo impedimento, e sulla riforma della Giustizia così come l’ha pensata e redatta il suo avvocato Ghedini.

Questo è lo scambio. Dopo la rottura con Fini, che proprio su questi punti ha attaccato la politica del governo, Bossi ha minacciato le elezioni anticipate, poi ha tirato indietro la mano se i decreti attuativi del federalismo saranno approvati con precedenza assoluta. Il monito ha Fini come destinatario: attento, se vorrai metterci del tuo nei decreti sul federalismo, se incepperai il meccanismo da noi pensato e voluto, andremo alle elezioni e addio Fini e finiani.

Così funziona la diarchia tra Bossi e Berlusconi. L’albero cui guardano è il medesimo: il loro potere e l’incrocio degli interessi, io guardo le spalle a te e tu le guardi a me. Fini deve essere distrutto, la sinistra è irrilevante, Napolitano dovrà rassegnarsi e avrà il nostro rispetto e perfino le nostri lodi fino a quando sgombrerà il Quirinale.

* * *

Può funzionare questo sistema? Esso si basa sull’irrilevanza del centrosinistra, sulla rassegnazione del Presidente della Repubblica e sull’indifferenza passiva dell’opinione pubblica democratica.

Ebbene, pur con tutto il pessimismo che mi rattrista io non credo che questi tre presupposti ipotizzati dal tandem Berlusconi-Bossi corrispondano alla realtà.

Bersani proprio ieri ha lanciato un appello a tutte le forze d’opposizione includendovi anche Fini, affinché stringano tra loro un patto in difesa della Costituzione repubblicana di fronte alla deriva che si sta verificando. È un passo avanti nella giusta direzione, ma contemporaneamente il segretario del Pd dovrebbe indicare alcuni punti concreti che possano costituire il nerbo di un nuovo futuro governo. L’alternativa non è soltanto un problema di schieramento ma è soprattutto un problema di contenuti. In questo caso i contenuti riguardano soprattutto i temi dell’occupazione, della crescita, del fisco.

Ho letto con molto interesse la proposta di Carlo De Benedetti (sul «Foglio» di giovedì scorso) sulla riduzione delle imposte sul reddito dei lavoratori, sul cuneo fiscale e sulla tassazione «delle cose» (immobili, cespiti patrimoniali) il fatto che sia l’editore di questo giornale non mi impedisce di dire che mi sembrano proposte valide che un governo di centrosinistra dovrebbe far proprie.

Quanto al presidente Napolitano, puntare sulla sua "amichevole neutralità" come fanno Berlusconi e Bossi sarà una delusione per loro. Napolitano farà ciò che gli compete senza guardare a chi giovi o chi danneggi. Lo abbiamo sentito ieri alla Scala e lo sentiremo il 5 maggio dallo scoglio di Quarto. Nel discorso alla Scala ha incoraggiato le riforme e in particolare il federalismo, purché condivise e nel quadro dell’unità nazionale. Ha avuto gli applausi di Calderoli e Berlusconi. Buon segno ma di scarso significato poiché le riforme, a cominciare dal federalismo, sono finora scatole vuote e la condivisione dovrà misurarsi con i contenuti di merito. Napolitano dal canto suo firmerà le leggi se può firmarle. Le respingerà se non saranno conformi secondo quanto gli compete di accertare. Non farà sconti. E se Bossi e Berlusconi pensano che sia facile ottenere dal Capo dello Stato lo scioglimento anticipato delle Camere, stiano certi che il percorso non sarà affatto facile e se ci sarà una maggioranza parlamentare per formare un nuovo governo, Napolitano adempirà rigorosamente al dovere di accertarne e convalidarne l’esistenza.

Quanto all’indifferenza della pubblica opinione democratica, quest’ipotesi riguarda direttamente noi e quanti come noi e ciascuno con le sue modalità considerano con preoccupazione il disfacimento del paese e la deriva che ne risulta. Si tratta di un’ipotesi senza fondamento. I nostri lettori ci confortano a proseguire questa battaglia di democrazia e di libertà. È ciò che abbiamo sempre fatto e sempre faremo.

La prima mossa del governatore Caldoro

La Campania grazia le ville abusive

di Antonio Salvati

E pensare che qualche giorno fa l’ex capo dell’Antimafia napoletana, quel Franco Roberti ora procuratore capo di Salerno, aveva annunciato l'avvio delle demolizioni degli abusi edilizi in Costiera amalfitana. Tempo perso, visto che adesso il Governo è pronto ad approvare un decreto legge che dovrebbe sospendere le procedure di demolizione delle abitazioni abusive in Campania, per dare modo alla Regione di legiferare e riaprire i termini del condono edilizio.

Potrebbe essere questo il primo atto della nuova «era Caldoro» e a comunicarlo è Carlo Sarro, senatore del Pdl che già aveva tentato di fermare le ruspe inserendo una sospensione nel decreto milleproroghe. L'emendamento avrebbe consentito la riapertura dei termini del condono fino al 31 dicembre 2010 per abusi commessi entro il 31 marzo 2003, ma venne bocciato dalla Commissione affari costituzionali. Così il testo è stato trasformato in una proposta di legge firmata dai senatori del Pdl in Campania. «Ma in questi giorni il presidente Caldoro ha sollecitato il governo a una soluzione più veloce rispetto alla via parlamentare». Il neo governatore della Campania - spiega Sarro - avrebbe «interloquito con il presidente Berlusconi e con il sottosegretario Letta e l'ipotesi di decreto potrebbe essere in tempi brevi all’esame del Consiglio dei Ministri».

Il decreto sarebbe arrivato sul tavolo del pre-consiglio dei ministri di ieri mattina su proposta del ministero delle Infrastutture. Ma i tecnici di alcuni dicasteri - in particolare dell’Ambiente e dell’Interno - avrebbero espresso alcune riserve, considerando il rischio di vanificare gli effetti delle sentenze penali di condanna a carico di chi costruisce abusivamente. È dal novembre scorso che le ruspe, scortate dalle forze dell’ordine, girano in lungo e in largo tutta la Campania. Nel casertano e nel napoletano, soprattutto, epicentro dell’abuso edilizio dove sono oltre trentamila gli edifici da abbattere a seguito di sentenze inappellabili. Diecimila costruzioni abusive sono state individuate solo nell’agro Aversano, la terra controllata dal clan dei Casalesi. Il record spetta al comune di San Cipriano d'Aversa, poco più di tredicimila abitanti spalmati su un territorio di sei chilometri quadrati di superficie. Solo qui si contano 1380 abitazioni abusive: più di tutte quelle che esistono in Francia.

Sono mesi che in tutta la regione si susseguono cortei e proteste di piazza contro le ruspe. Proprio ieri, a Torre del Greco, in quattrocento hanno sfilato per chiedere di fermare le demolizioni. Tre mesi fa, a Ischia, il malcontento degli abusivi si era manifestato anche con tensioni e scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Aspetta di leggere il testo del decreto Aldo De Chiara, procuratore aggiunto di Napoli in prima linea nella lotta all’abusivismo: «Non posso pronunciarmi su un decreto che non ho letto, oggi sarebbe prematuro commentare l’iniziativa dell’Esecutivo senza conoscere il testo - ha risposto sollecitato sull’argomento - Aspetto di leggere il testo del decreto».

Si dice incredulo, invece, il leader regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli: «A questo punto manca solo il condono per gli abusi non ancora commessi. E cosa diranno i proprietari di immobili già demoliti? Bisognerebbe farglieli ricostruire».

La Sardegna sempre più esclusiva

di Nicola Pinna

Sette stelle possono vantarle in pochi. Ma la Costa Smeralda non si poteva privare di questo primato. E dopo sette anni di battaglie burocratiche la Colony capital di Tom Barrack ha conquistato il permesso che sognava: gli alberghi migliori di Porto Cervo e dintorni diventeranno ancora più lussuosi. Più grandi e più splendenti.

Il restyling, che il patron della Colony progettava dal 2002, ora può partire. Storia vecchia e dimenticata quella del blocco delle costruzioni a due passi dal mare imposto dall'ex governatore Renato Soru. Ieri la Regione ha dato l'ultimo parere necessario e così Tom Barrack, il magnate texano che ha acquistato gli alberghi più lussuosi realizzati (nel 1962) da Karim Aga Khan, è pronto a lucidare i suoi gioielli. I russi, gli arabi e gli altri magnati che ogni estate passano le vacanze in Sardegna lo chiedevano da tempo. Ora sono stati accontentati. Ma per la prossima estate non ci sarà il tempo di concludere i lavori, che prevedono un investimento di 80 milioni. Il progetto di ampliamento riguarda i quattro super-resort della Colony: Cala di Volpe, Pitrizza, Hotel Cervo e Romazzino. Le volumetrie cresceranno del 25% e le stelle passeranno da cinque a sette.

Per concludere la trattativa, Tom Barrack, ha trattato col presidente della Regione, Ugo Cappellacci, e ieri c'è stato l'ultimo passaggio: la «verifica di coerenza volumetrica con il contesto paesaggistico e ambientale». Nessuna colata di cemento, ma lavori di ristrutturazione a basso impatto. Compresa la realizzazione di nuove suite, centri benessere e altre stanze, per così dire, un po' meno lussuose. Il Comune di Arzachena (il paese che vanta un territorio da favola come quello della Costa Smeralda) avrà grandi benefici da questa operazione: cinque milioni di euro per le concessioni e altri due milioni per realizzare nuove opere pubbliche.

Il Cala di Volpe, il più bello dei quattro alberghi, è un lusso alla portata di pochissimi. Di gente che può permettersi di chiedere sei Ferrari grigie per una gita tra i tornanti della Gallura. E che ha il coraggio di rispedirle indietro perché una è di colore diverso. La suite presidenziale è ai primi posti della classifica di Forbes sulle stanze più costose del mondo. Quando Jacques Couelle l'ha disegnato, nel 1963, l’aveva immaginato come un villaggio sospeso sull'acqua e invecchiato dal tempo: un diamante incastonato in quel gioiello che era la nascente Costa Smeralda . L'ha voluto sobrio, stile rustic-luxurious.Ora tutto sarà ancora più scintillante. Compresa la suite presidenziale: 30 mila euro a notte per 70 metri quadrati, tre camere da letto, due salotti, piscina privata e una piccola palestra.

La suite era nata per teste coronate e affini. Margareth d'Inghilterra aveva organizzato una festa nel 1967, Carlo d'Inghilterra e Diana avevano passato alcuni giorni della luna di miele. Ma chi vuole risparmiare può ripiegare su una «normale» doppia: 2300 euro a mezza pensione.

Tramonta il sogno di Soru

di Jacopo Iacoboni

Non è solo superlusso, è (anche) il tramonto postumo della politica di Renato Soru; molto più che un Evento: un segnale dello spirito del tempo.

Durante un'estate in cui si battè per far pagare a russi e sauditi una tassa sul lusso, l’ex governatore che voleva impedire gettate di cemento entro 12 km di costa, e forse sognava di guidare un Pd vittorioso, confidò: «E’ gente che vive come in una soap opera». Ce l’aveva col mondo-Billionaire di Briatore ma anche i proprietari di yacht, i frequentatori degli alberghi di Barrack, nani e ballerine delle estati lelemorate.

È tutto finito, ora. La Sardegna vuole godere, non studiare i nuraghi. A Soru piaceva La Maddalena, «piccola Parigi» cantata da Mario Soldati. Amava Irgoli, e Capo Comino, un’oasi unica, gli olivi, il mare che si avvicina. Ma il mare - a forza di non ammetterlo la sinistra le becca sempre - è anche quello dei tramonti incantati dall’hotel Cala di Volpe, che estasiavano Faye Dunaway e l'Aga Khan, dove oggi magari incontri il Cavaliere in bandana, o la sera puoi assistere alla saga kitsch di Zucchero che insulta le signore... Anche quello, indimenticabile

Sono passati quarant'anni da quel 22 aprile del 1970 che era stato dichiarato in tutto il mondo "Giornata della Terra" (Earth Day), la prima "giornata" delle tante che sono poi seguite nel nome "della Terra", "dell'ambiente", "dell'ecologia". Quante speranze e quante delusioni in questi quarant'anni.

La primavera del 1970 arrivava portata dal vento dei grandi movimenti di contestazione ambientali: contro le esplosioni atomiche nell'atmosfera, che stavano avvelenando con atomi radioattivi le acque e il corpo di tutti i viventi, umani compresi;contro i pesticidi clorurati persistenti, denunciati dal libro di Rachel Carson Primavera silenziosa; contro il piombo tetraetile, il "miracoloso" additivo per benzina che permetteva alle automobili di correre rombando e che lasciava uscire dai tubi di scappamento il velenoso piombo in forma volatile, respirato da tutti gli abitanti delle città; contro il "miracoloso" catalizzatore mercurio che le industrie chimiche scaricavano, velenoso, nell'aria e nelle acque; contro il petrolio sversato dalle petroliere in tutti i mari e oceani.

Arrivava dopo la sequenza di frane della Calabria e dopo la grande alluvione di Firenze, Venezia e Trento che aveva fatto vedere ancora una volta la fragilità del nostro territorio. Il mondo intero scopriva, in quella lontana primavera, l'"ecologia", la parola magica che prometteva, ricordando le ineludibili leggi della natura, un mondo più pulito e meno violento, in cui le singole persone e l'intera comunità mondiale, nei paesi capitalisti, in quelli comunisti e in quelli del terzo mondo, poteva sperare di cancellare almeno alcuni degli errori delle scelte economiche del passato.

Naturalmente anche allora c'erano i volonterosi portavoce degli inquinatori, grandi e piccoli, che negavano i pericoli ambientali; d'altra parte la compagnia petrolifera di stato, l'ENI, aveva fatto fare uno studio in cui dimostrava che la prevenzione dei guasti ambientali sarebbe costata, anche solo in termini di soldi, meno di quanto il paese avrebbe dovuto spendere se si fosse continuato con frane, alluvioni, inquinamenti, congestione urbana.

In quel 1970 c'erano anche governanti che vollero vederci chiaro; l'allora presidente del Senato Fanfani convocò una serie di audizioni, durate tre mesi, di studiosi e senatori di tutti i gruppi, sui "Problemi dell'ecologia"; nel 1971 fu approvata all'unanimità (cosa anche allora non comune) una mozione che elencava le azioni che sarebbe stato necessario intraprendere per avere un ambiente migliore. Il governo del tempo nel 1973 predispose e pubblicò la prima relazione sullo stato dell'ambiente, meritevole di essere letta ancora oggi.

Si può ben dire che da quella lontana "Giornata della Terra" si sia messa in moto, per alcuni anni, una politica di revisione delle leggi esistenti, di nuove leggi in difesa delle acque, dell'aria, di modifica dei cicli produttivi, di identificazione e eliminazione dalle merci di molte sostanze dannose. Nei decenni passati da allora sono nati e morti partiti verdi, associazioni ambientaliste, sono state scritte miliardi di parole, si sono tenute diecine di conferenze "ecologiche", si sono moltiplicate le cattedre universitarie. Ma, purtroppo, è diminuita l'indignazione per le violenze all'ambiente, sono quasi scomparse le speranze. Più o meno a partire dal 1990 sono aumentate, a parole, le dichiarazioni di amore ecologico, ma nello stesso tempo l'abusivismo e i condoni edilizi hanno soffocato gli spazi urbani, la divinizzazione dell'automobile e dei consumi ha convinto la maggior parte delle persone che il successo economico deve mettere in secondo o terzo piano la difesa dell'aria e delle acque.

La privatizzazione delle coste e delle spiagge, dei terreni soggetti a usi pubblici, una dissennata compiacenza verso il turismo di assalto, ha portato all'erosione delle spiagge e alla distruzione di vaste estensioni di boschi; l'abbandono dell'agricoltura delle zone collinari e montuose ha reso più frequenti le frane e le alluvioni, i cui danni si stanno facendo più gravi perché le presenze umane si sono insediate nei fondovalle, lungo il corso o addirittura "dentro" il corso dei fiumi e dei torrenti e delle lame, proprio nelle zone in cui ogni pioggia più intensa spazza via strade e case e vite umane. L'abbandono di molte attività industriali ha lasciato vasti terreni contaminati con i rifiuti spesso nocivi che percolano nelle acque sotterranee e aspettano da anni le promesse "bonifiche".

Ben orchestrate operazioni pubblicitarie negano le responsabilità umane per i guasti ambientali e mascherano di "verde" e di "biologico" mode consumistiche, dai deodoranti ai divani, dalla benzina alle minicar. Quarant'anni di "ecologia" a parole non sono riusciti ad evitare che in molte zone d'Italia (per non parlare dei problemi planetari) manchi l'acqua, che molte grandi città del Nord abbiano un'aria così inquinata da costringere gli amministratori a vietare la circolazione, almeno per alcune ore domenicali alla settimana. Grandi città, a cominciare da quelle pugliesi, adornano i tetti con graziosi pannelli fotovoltaici, pagati con incentivi pubblici, ma sversano ancora parte delle fogne nel terreno o nel mare. Si susseguono affollate tavole rotonde sulla migliore raccolta differenziata, ma i sacchi dei rifiuti, nel Sud finiscono nei campi e nelle discariche spesso gestite dalla criminalità organizzata, e nel Nord finiscono negli inceneritori inquinanti che si moltiplicano perché i contributi statali assicurano un alto prezzo per l'elettricità che essi producono spargendo fumi nocivi nei polmoni degli abitanti vicini. Alcune buone leggi, come quella sulla difesa del suolo, sono state abrogate, altre sono state attenuate nei vincoli necessari.

Che ambiente fa, che ambiente farà domani ? L'Italia possiede incredibili ricchezze ambientali e culturali che potrebbero farne una guida per tutti i paesi industriali e arretrati, se ritrovassimo la carica di speranza e di volontà politica, la forza di indignazione, che attraversò il paese quarant'anni fa ? Ci riusciremo ?

Sentiremo parlare degli avvoltoi aquilani che ridevano per il terremoto. Ma tra qualche tempo. Forse. La legge di Berlusconi sulle intercettazioni prevede che i giornali possano pubblicare i materiali di un'inchiesta solo a conclusione delle indagini preliminari. Nemmeno un riassunto del contenuto sarà consentito. Poi, ieri, un'altra perla: non si potrà registrare una conversazione di cui si è parte, a meno che la persona registrata non commetta un reato. Se una donna vuole incastrare il violentatore che in quel giorno non si esibisce nel suo sport preferito, rischia fino a quattro anni di carcere. È il cosiddetto «emendamento-D'Addario». Lo stesso vale per le riprese pirata, i «fuori-onda» che hanno fatto la storia di Striscia, Le iene, Report, Annozero e in genere della tv d'inchiesta.

Da questi dettagli si capisce meglio perché il disegno di legge, all'esame della commissione giustizia del senato, sia il più atteso da Berlusconi, insieme alla riforma della giustizia. Cancellare il diritto di cronaca è questione di fondamentale importanza per chi ci ha regalato il Tg1 di Minzolini. Non stupisce che in un paese in testa alle classifiche per corruzione si voglia spuntare un'arma senza la quale giornalisti e magistrati sono poteri dimezzati, non più controllori ma controllati. In un paese, non lo ricorda quasi più nessuno, divorato dal conflitto di interessi.

Stupiscono invece i commenti positivi di alcuni esponenti del Pd, solo perché nel disegno di legge al posto di «evidenti indizi di colpevolezza» ora si parla di «gravi indizi di reato» per consentire le intercettazioni. Basta un passo avanti e due indietro del centrodestra per tirare avanti. La gravità della situazione non è sfuggita invece alla Federazione nazionale della stampa che ha già convocato una manifestazione per il 28 aprile, giorno del nostro trentanovesimo compleanno. Sarà un buon modo per festeggiarlo.

L’appoggio politico al presidente Hamid Karzai e i nuovi progetti di sviluppo che l’Italia si è impegnata a sostenere certamente hanno pesato sulla trattativa. Però la vera svolta per sbloccare l’impasse e ottenere la scarcerazione dei tre detenuti sembra essere arrivata con il trasferimento a Kabul di tutti gli operatori umanitari che lavoravano nell’ospedale di Lashkar Gah, determinandone così la chiusura.

È questa la condizione che il governo italiano ha dovuto accettare per soddisfare gli afghani, ma anche il vertice militare britannico che di quella zona a Sud del Paese detiene il comando. E tanto basta a confermare definitivamente come la perquisizione ordinata una settimana fa nella struttura fosse soltanto un pretesto che serviva a tenere sotto pressione l’organizzazione di Gino Strada finita nel mirino per il suo ruolo pubblico e per aver mediato negli anni scorsi con i talebani ottenendo la liberazione di Gabriele Torsello e Daniele Mastrogiacomo, sequestrati mentre erano in quell’area.

Gli uomini dell’intelligence e della diplomazia si sono mossi in parallelo nel negoziato con gli 007 locali, riuscendo a dimostrare come Marco Garatti, Matteo Pagani e Matteo Dell’Aira fossero del tutto estranei a qualsiasi progetto di complotto o di attività terroristica, come invece era stato veicolato inizialmente pur senza alcuna contestazione ufficiale.

La realtà è che tutte le notizie false di questi giorni — comprese quelle su un coinvolgimento di Garatti nel sequestro Mastrogiacomo e addirittura l’esistenza di telefonate registrate — servivano soltanto ad alzare il prezzo. Alla fine il conto è stato saldato assicurando che l’eventuale riapertura dell’ospedale avverrà soltanto con il consenso unanime delle autorità di Kabul. E forse anche con il via libera dei britannici. Una sorta di ricatto che Emergency è stata costretta ad accettare, almeno per adesso, pur di riportare a casa i tre operatori.

Troppo alto era il rischio di tenerli un mese nelle prigioni afghane fino alle eventuali contestazioni definitive. Troppo forte il pericolo di ritorsioni, tenendo conto che dell’atteggiamento di ostilità nei loro confronti dopo la gestione della trattativa per Mastrogiacomo. A Emergency i servizi segreti locali contestano soprattutto di non essere riusciti a ottenere anche la liberazione dell’interprete Adjmal Nashkbandi, il nipote di un alto funzionario della polizia, che fu giustiziato venti giorni dopo. Ora invece ci sarebbe l’impegno dell’Italia a versare un indennizzo alla sua famiglia.

Adesso il fascicolo passa alla magistratura italiana e dunque ai carabinieri del Ros che dovranno verificare quanto accaduto, collaborando con gli inquirenti di Kabul anche a smascherare eventuali complotti a danno degli italiani. Per questo — dopo l’interrogatorio dei tre che sarà effettuato martedì al loro arrivo in Italia — una squadra di specialisti guidata dal colonnello Massimiliano Macilenti potrebbe trasferirsi in Afghanistan. E verificare come e perché siano finiti in quel magazzino dell’ospedale pistole, bombe a mano e giubbotti esplosivi.

C'è, a mio avviso, un palese e stretto rapporto tra la tematica delle riforme istituzionali così come è stata riproposta in questi ultimi tempi da Silvio Berlusconi e dallo schieramento di centrodestra e l'obiettivo di una «grande riforma» tutta imperniata sull'idea di «governabilità» che fu al centro della politica praticata da Bettino Craxi negli anni Ottanta del secolo scorso.

Al riguardo è significativo, del resto, che proprio ad opera di Craxi veniva allora affacciata per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, un'idea di «riforma» (anzi di «grande riforma») con contenuti sostanzialmente rovesciati rispetto alle tradizioni della sinistra riformatrice. In precedenza, infatti, con espressioni di questo tipo o più o meno analoghe, si era fatto sempre riferimento a interventi diretti a incidere in senso progressivo sui rapporti economici e sociali, al fine di migliorare il livello di vita dei lavoratori e della parte più povera della popolazione, di realizzare una maggiore eguaglianza, di assicurare condizioni più favorevoli per l'esercizio dei diritti di cittadinanza: in sostanza con l'obiettivo di un ampliamento della democrazia reale.

Al contrario la «grande riforma» che Craxi proponeva era essenzialmente un insieme di proposte di revisione istituzionale e costituzionale, che avevano l'obiettivo fondamentale di dare più forza al governo rispetto agli altri organi dello Stato, in particolare quelli rappresentativi: giungendo a prospettare anche soluzioni di tipo presidenzialistico, ma intanto modificando i regolamenti parlamentari, facendo ricorso sempre più frequente al voto segreto e ai decreti legge, rendendo più rigido il controllo sui gruppi parlamentari della maggioranza in modo da limitare nei fatti il ruolo del Parlamento sia sul piano legislativo sia su quello della vigilanza e del controllo.

L'obiettivo, in sostanza, era quello di spostare il centro effettivo dei poteri decisionali verso l'Esecutivo, diminuendo il compito delle Assemblee rappresentative. Alla base di questo disegno c'era la motivazione - logica dell'ideologia decisionista che si era venuta affermando negli ultimi anni in tutto l'occidente con l'ascesa al governo di Margaret Tatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti - che per modernizzare il Paese occorreva dare maggiore forza e maggiore efficacia al potere governativo affrancandolo dai freni e dagli impacci derivanti dagli «esorbitanti» poteri di controllo del Parlamento, dall'eccessiva lentezza delle procedure legislative, dai freni rappresentati dall'azione condotta dai partiti di opposizione. Era un disegno che in buona sostanza andava in senso contrario - in nome di un supposta «modernizzazione» - rispetto allo spirito democratico che costituiva il fondamento della nostra Costituzione repubblicana.

Certo, è bene ricordare che il progetto di Craxi non giunse a realizzarsi, e non riuscì a tradursi in formali modifiche delle norme istituzionali e costituzionali; e ciò per vari motivi: soprattutto per la ferma opposizione del Pci di Enrico Berlinguer e per il precipitare della crisi di Tangentopoli che investì personalmente il leader socialista. Ma l'ideologia decisionista fece presa nello spirito pubblico e nel senso comune, anche per il consenso che la posizione craxiana circa la modernizzazione del sistema politico raccolse in settori rilevanti della sinistra di orientamento comunista, in particolare nel gruppo dirigente che fu protagonista della «svolta della Bolognina». Fu così che quando agli inizi degli anni Novanta maturò la frana del sistema dei partiti su cui si reggeva la cosiddetta «Prima Repubblica», una grande parte della classe politica che si raccolse attorno alla suggestione che dalla crisi si potesse e anzi si dovesse uscire attraverso modifiche istituzionali che attribuissero di fatto maggior potere all'Esecutivo, se non altro attraverso la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con un sistema marcatamente maggioritario.

Fu così che si crearono le condizioni per l'ascesa al governo di Berlusconi e per l'affermazione del suo blocco di potere, che aveva le sue radici in un nuovo impasto ideologico in cui le parole d'ordine del decisionismo e della modernizzazione si intrecciavano col personalismo, col populismo, col mito della maggiore «democraticità» dei meccanismi dell'elezione diretta. Ma, soprattutto questa nuova situazione apriva la strada a un progressivo mutamento di fatto della «Costituzione materiale», nel senso di spostare il centro del potere dalle assemblee legislative al governo reso più forte da un'ampia e stabile maggioranza parlamentare; ma soprattutto nel senso di dare al premier la convinzione che la designazione diretta da parte degli elettori gli affidava un mandato a governare che non poteva essere vanificato o paralizzato da regole procedurali, da conflitti di competenze o da cavilli giuridici circa il ruolo dei diversi poteri dello Stato. Le polemiche di questi mesi sono divenute espressione di questo modo di intendere il proprio ruolo - secondo una visione decisionista che risale alla «grande riforma» di craxiana memoria - da parte del Presidente del Consiglio.

È perciò facilmente comprensibile che i risultati delle elezioni regionali, consolidando il governo e rafforzando nel Paese lo schieramento di centrodestra che lo sostiene, abbiano incoraggiato Berlusconi a procedere con decisione sulla strada che già aveva annunciato di voler intraprendere, ossia quella di una riforma della Costituzione che sia imperniata sulla centralità del ruolo del premier attraverso l'adozione di soluzioni presidenzialistiche o semipresidenzialistiche o anche solo attraverso l'introduzione del cosiddetto «premierato forte», che preveda però la designazione diretta del Presidente del Consiglio da parte degli elettori e l'attribuzione al premier del potere di decidere lo scioglimento delle Camere e la convocazione di nuove elezioni.

Si tratterebbe, in ogni caso, di una riforma che significherebbe il passaggio da una Repubblica di stampo democratico- parlamentare a una Repubblica con marcata impronta autoritaria o semiautoritaria: tanto più se l'ossessione della governabilità finirà col tradursi nella diretta investitura elettorale di chi sarà chiamato a dirigere il Paese. Non credo che rispetto a una prospettiva tanto pericolosa una strategia difensiva adeguata possa consistere semplicemente in una rivendicazione di metodo, ossia nella richiesta che si sviluppi un confronto che coinvolga tutte le forze parlamentari al fine di acquisire il contributo di tutti all'elaborazione delle regole che debbono disciplinare la convivenza comune; e neppure nella rivendicazione che sia in ogni caso salvaguardata l'integrità dei princìpi affermati nella prima parte della Costituzione.

Certo, il richiamo ai principi è importante; ma l'essenziale è un impegno politico e culturale rivolto a rovesciare la prevalenza di uno spirito pubblico ispirato all'ideologia decisionistica e a un senso comune populistico e plebiscitario, puntando invece a riaffermare la sostanza reale della democrazia, che può fondarsi soltanto sulla piena partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni, sulla divisione dei poteri tra gli organi dello Stato, su un sistema elettorale che assicuri l'equa rappresentanza dei cittadini negli organi legislativi e che dia alle assemblee rappresentative un potere di indirizzo e di vigilanza nei confronti degli organi esecutivi. Riaffermare pienamente lo spirito democratico e ridisegnare su queste basi il sistema politico del Paese, stravolto dall'ondata decisionistica e dal mito ossessivo della governabilità è il compito essenziale cui sono chiamate, in questo difficile momento, le forze democratiche e di sinistra.

Il manifesto partecipa da sempre alla battaglia politica e culturale contro la privatizzazione ed il saccheggio dei beni comuni. Dopo il 1989, mentre gran parte della sinistra ideologica si accalcava sul carro autocelebrativo della "fine della storia", privatizzando anche la propria identità, noi abbiamo resistito perfino alla pressione di togliere la scritta quotidiano comunista dalla prima pagina. Siamo stati vicini a tutte le battaglie culturali per il bene comune e per la difesa di un diverso modello di sviluppo basato sulla solidarietà, sulla cooperazione sociale e sul rispetto della diversità. Abbiamo cercato di seguire queste battaglie ovunque nel mondo esse si svolgessero, dalla foresta amazzonica alla valle di Susa. Questa declinazione del comune costituisce secondo molti di noi la prossima frontiera dell' elaborazione di un pensiero di sinistra al passo coi tempi, proprio perché la proprietà comune supera tanto l'idea di proprietà privata quanto quella di proprietà pubblica, permettendoci di uscire dalla gabbia della contrapposizione mercatostato.

La cultura critica internazionale si sforza di declinare sul piano teorico, politico e della prassi l'idea di bene comune al fine di costruire istituzioni capaci di promuoverlo e difenderlo. Proprio in questi giorni a Cochabamba si celebra il decennale della vittoriosa battaglia dell'acqua, rigenerando qualche speranza, ormai difficile da coltivare nei paesi sovra-sviluppati dell' occidente, per un'alternativa globale fondata sul dialogo piuttosto che sullo sfruttamento e sul saccheggio.

In Italia i lavori per l'elaborazione di una teoria e di una prassi del bene comune sono in corso. Nella loro più autorevole definizione giuridica (in attesa di discussione in Senato), i beni comuni sono quelli che «esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall'ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future e ne deve essere garantita in ogni caso la fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge....essi sono collocati fuori commercio. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque» (Art. 3 D. Min. Giust. 21.06.07 progetto Legge Delega della c.d. Commissione Rodotà). Questa definizione colloca la riflessione giuridica italiana sui beni comuni all'avanguardia internazionale, anche se le probabilità che la Legge Delega sia discussa in Senato dipendono dalla capacità delle opposizioni di far valere i regolamenti, cosa purtroppo non banale nel Parlamento meno libero della nostra storia repubblicana.

Ma sul piano delle prassi dall'Italia non provengono certo buone notizie per i beni comuni. Infatti oggi taluni fra i più importanti beni comuni, l'acqua, la fauna selvatica, la conoscenza, l'informazione, indispensabili per la vita materiale e per quella spirituale di ogni comunità, sono oggetto di un attacco violentissimo e continuativo. La privatizzazione obbligatoria del servizio idrico (Decreto Ronchi), la "federalizzazione" della caccia e dei beni demaniali, l'attacco alla scuola e all' università pubblica a fini razzisti e classisti, e naturalmente quello all'informazione sotto forma di abolizione del diritto soggettivo al contributo pubblico per la stampa no-profit, sono tutti informati alla stessa logica egemonica: quella del saccheggio e della distruzione dei beni comuni al fine di profitto ed accumulazione privata.

Alla costruzione di prassi contro-egemoniche e resistenti il manifesto cerca di partecipare senza risparmio di energie. Vogliamo difendere la gestione pubblica dell'acqua aiutando il movimento referendario; vogliamo difendere la fauna selvatica lottando contro la sua ri-privatizzazione sostanziale; vogliamo difendere l'Università e la scuola pubblica, accompagnando i precari nelle loro battaglie; vogliamo difendere il patrimonio pubblico evitandone la vendita dissennata camuffata da "federalismo demaniale", e vogliamo naturalmente difendere il nostro diritto di esistere liberi e critici come siamo sempre stati, contribuendo con questo sol fatto a declinare nuove prassi del bene comune. Infatti i beni comuni non sono una mera entità fisica: sono spazi materiali e spirituali di democrazia ed uguaglianza, proprio come proviamo ad essere in questo giornale, e come speriamo molti nostri lettori amici e compagni facciano nei circoli autogestiti del manifesto che si stanno costituendo un po' ovunque. Questo è il nostro contributo alla rinascita della sinistra che se non sarà forse più in maggioranza comunista speriamo possa diventare almeno comune.

Il 28 aprile il manifesto cercherà di diventare anche fisicamente un bene comune. Saremo in edicola a 40 centesimi perché vogliamo che i nostri lettori ci presentino ai loro amici che non ci conoscono. Al solito prezzo si potranno comprare tre copie. Quelle in più si possono dare ad un amico con cui abbiamo parlato di acqua pubblica, e l'altra la possiamo sciare in comune al bar sotto casa... Se poi ne potete comprare di più, che so 10 a testa per regalarle ai banchetti del si acqua pubblica, ditelo in anticipo all'edicolante in modo che almeno per il nostro compleanno la distribuzione sia eccellente. Il 28 aprile vogliamo triplicare i nostri lettori sperando di mantenerne il doppio dei soliti dal 29 in poi: tutti impegnati per i beni comuni.

L'acqua si difende andando a firmare i referendum a partire dal 24 aprile e la libera informazione in edicola quattro giorni dopo. È la stessa prassi di battaglia per il bene comune: lo vedrete sulle nostre pagine per tutta la durata della campagna si acqua pubblica.

Doveva succedere: mercoledì 7 aprile il Capo dello Stato promulga la legge con cui due Camere ubbidienti al quasi padrone d´Italia stabiliscono che nei prossimi 18 mesi possa mandare a monte le udienze penali dichiarandosi impedito dal lavoro governativo; nel latino degli avvocati, l´impedimento è presunto iuris et de iure; l´udienza sfuma e il processo dorme, quando anche consti che in quelle ore Berlusco felix sbrigasse affari suoi, relativi all´enorme patrimonio, ad esempio cercando l´ennesima villa da acquisire mentre i consumi italiani scendono al minimo storico nella lunga coda d´una crisi ignota al governo. Nasce morta come le due precedenti, lo vede qualunque scolaro del secondo anno, modestamente informato: il pubblico ministero solleverà la questione; e salvo impensabili coups de théâtre (tale sarebbe l´ordinanza che la dichiarasse manifestamente infondata), riascolteremo la Corte competente. «Atto protervo», esclama il custode dei Beni culturali. Sua Eccellenza parla «Newspeak» e qui sta a pennello l´ultimo dei tre slogan nei "Due Minuti d´Odio" (G. Orwell, 1984, ed. Penguin, pp. 16 sg.): "ignorance is strenght"; gli altri due identificano guerra e pace, libertà e schiavitù; apparso Big Brother, una donna tende le braccia allo schermo esclamando «mio Salvatore», indi prega, mani sul viso; la platea intona un canto ipnotico, «B-B … B-B … B-B …»; canta anche Winston Smith, vulnerabile dalla polizia del pensiero, perché conserva fondi d´anima.

La nota ufficiosa dal Quirinale, 7 aprile, ravvisa punti positivi nel piccolo mostro: in particolare, l´avere ancorato la casistica del legittimo impedimento a figure tipiche; inoltre, niente esclude che il giudice valuti l´evento impediente. Discorso piuttosto fumoso, suppongo che vada inteso così: valgono solo gl´impedimenti da affari ministeriali; sarebbe autocertificato irrilevante, ad esempio, «quel giorno devo esibirmi a una platea» o «non posso, prevedo sedute con i miei cervelloni, perché studiamo misure contro le toghe rosse», ma sono ipotesi da tè matto nel settimo capitolo delle Avventure d´Alice, dove Cappellaio, Lepre, Ghiro discorrono in chiave lunatica; addurrà motivi serissimi, quali il ricevimento d´uno sceicco, un consiglio dei ministri permanente, come le vecchie gare di ballo all´ultimo fiato, viaggi in Russia et cetera; né il tribunale o la Corte da cui sta lontano, luoghi appestati, perderanno tempo nella partita a carte false con chi ne cava quante vuole dalla manica. Desta ilare stupore l´augurio d´una «leale collaborazione» tra l´esecutivo e Dike. Suonerebbe bene qualche sillaba su due punti interessanti. Primo: questa diciannovesima legge fornisce all´augusta persona l´immunità che due volte s´era affatturata perdendola, e cade sotto lo stesso segno, clamorosamente invalida; finché viga l´attuale Carta, non esiste l´intoccabile dai giudici. Secondo, in lingua penalistica il parvum monstrum è definibile estorsione, qual era il cosiddetto lodo Alfano: l´estorsore ottiene un profitto ingiusto costringendo qualcuno a fare od omettere qualcosa; l´alternativa è finire peggio. In entrambi i casi i soliti neutrali, più o meno dolenti, raccomandano il «male minore»; due anni fa la minaccia era blocco dei dibattimenti e paralisi dell´apparato; ancora più calamitosa la prospettiva, sfoderata negli ultimi mesi, del cosiddetto «processo breve».

Strategie d´estorsione e teoremi del male minore lasciano pochi dubbi sulle mosse future. Qualcuno saluta la diciannovesima ad personam come credito giudiziosamente aperto al Bien-Aimé: la politica s´era incarognita (l´invettiva facinorosa batte bandiera berlusconiana: chi paragonava i magistrati scomodi alla banda della Uno Bianca?); la tregua viene provvidenziale; diciotto mesi d´un possibile dialogo offrono occasioni da non perdere. Vecchia musica impudente. Sappiamo chi sia, cosa voglia, quali metodi usi: «metánoia», parola greca, indica uno scenario psichico trasformato in meglio (pentimento operoso ecc,); e nel caso suo non ha corso, ostandovi l´impossibilità biologica. Del resto, non è materia d´ipotesi introspettive. Cosa covi, l´ha detto e sta scritto. Vuol rifare la res publica sulle sue misure: presidente egemone, pochi e scelti parlamentari plauditores, al diavolo i poteri separati, disturbano i dinamismi «del fare» (non li abbiamo visti, a parte gl´interventi pro domo sua e l´euforia d´appalti anomali). Ci vorranno occhi fini per distinguere l´Italia dall´impero berlusconiano. Andiamo verso lo Stato patrimoniale. Ma esiste una priorità assoluta, la questione giustizia. Dominus Berlusco ha idee chiare: nel nuovo ordinamento spariscono pubblico ministero e azione penale obbligatoria, abominevoli entrambi; la polizia indaga; sotto l´occhio del guardasigilli gli avvocati dell´accusa scrivono o declamano requisitorie; meccanismi dilatori, forme labirintiche, contraddittorio vizioso (prendo l´aggettivo dal napoletano Joseph Aurelius de Januario, Viziose maniere del difendere le cause nel Foro, 1745) garantiscono vita comoda agl´imputati eccellenti, perché meritano riguardo, mentre va in scena una giustizia esemplare contro i relitti. Inutile dirlo, non nasceranno mai più un processo Mills o quelli dei quali s´è faticosamente liberato nei casi Mondadori o Ariosto-Sme. Gli avvocati dell´accusa morderanno gli antigovernativi. Disponendo d´ogni leva, parlamentare, ministeriale, giudiziaria, economica, mediatica, e mettiamo nel conto versatili mani nere, sarà onnipotente. Fantasia paranoica? No, le fondamenta sono lì, erette mentre gli oppositori blasés parlavano d´altro: "l´antiberlusconismo non porta da nessuna parte"; e distiamo diciotto mesi dagli ultimi eventi.

Caro direttore, si introducono – direttamente o con la complicità di qualcuno che vi lavora – alcune armi in un ospedale, poi si dà il via all´operazione… Truppe afgane e inglesi circondano il Centro chirurgico di Emergency a Lashkargah, poi vi entrano mitragliatori in pugno e si recano dove sanno di trovare le armi. A quanto ci risulta, nessun altro luogo viene perquisito. Si va diritti in un magazzino, non c´è neppure bisogno di controllare le centinaia di scatole sugli scaffali, le due con dentro le armi sono già pronte – ma che sorpresa! – sul pavimento in mezzo al locale. Una telecamera e il gioco è fatto. Si arrestano tre italiani – un chirurgo, un infermiere e un logista, gli unici internazionali presenti in quel momento in ospedale – e sei afgani e li si sbatte nelle celle dei Servizi di Sicurezza, le cui violazioni dei diritti umani sono già state ben documentate da Amnesty International e Human Rights Watch. Anche le case di Emergency vengono circondate e perquisite. Alle cinque persone presenti – tra i quali altri quattro italiani – viene vietato di uscire dalle proprie abitazioni. L´ospedale viene militarmente occupato.

Le accuse: «Preparavano un complotto per assassinare il governatore, hanno perfino ricevuto mezzo milione di dollari per compiere l´attentato». A dirlo non è un magistrato né la polizia: è semplicemente il portavoce del governatore stesso.

Neanche un demente potrebbe credere a una simile accusa: e perché mai dovrebbero farlo? La maggior parte dei razzi e delle bombe a Lashkargah hanno come obiettivo il palazzo del governatore: chi sarebbe così cretino da pagare mezzo milione di dollari per un attentato visto che ogni giorno c´è chi cerca già di compierlo gratuitamente? Questa montatura è destinata a crollare, nonostante la complicità di pochi mediocri – che vergogna per il nostro Paese! – che cercano di tenerla in piedi con insinuazioni e calunnie, con il tentativo di screditare Emergency, il suo lavoro e il suo personale.

Perché si aggredisce, perché si dichiara guerra a un ospedale? Emergency e il suo ospedale sono accusati di curare anche i talebani, il nemico. Ma non hanno per anni sbraitato, i politici di ogni colore, che l´Italia è in Afghanistan per una missione di pace? Si possono avere nemici in missione di pace? In ogni caso l´accusa è vera. Anzi, noi tutti di Emergency rendiamo piena confessione. Una confessione vera, questa, non come la "confessione choc" del personale di Emergency che è finita nei titoli del giornalismo nostrano.

Noi curiamo anche i talebani. Certo, e nel farlo teniamo fede ai principi etici della professione medica, e rispettiamo i trattati e le convenzioni internazionali in materia di assistenza ai feriti. Li curiamo, innanzitutto, per la nostra coscienza morale di esseri umani che si rifiutano di uccidere o di lasciar morire altri esseri umani. Curiamo i talebani come abbiamo curato e curiamo i mujaheddin, i poliziotti e i soldati afgani, gli sciiti e i sunniti, i bianchi e i neri, i maschi e le femmine. Curiamo soprattutto i civili afgani, che sono la grande maggioranza delle vittime di quella guerra. Curiamo chi ha bisogno, e crediamo che chi ha bisogno abbia il diritto ad essere curato. Crediamo che anche il più crudele dei terroristi abbia diritti umani – quelli che gli appartengono per il solo fatto di essere nato – e che questi diritti vadano rispettati. Essere curati è un diritto fondamentale, sancito nei più importanti documenti della cultura sociale, se si vuole della "Politica", dell´ultimo secolo. E noi di Emergency lo rispettiamo. Ci dichiariamo orgogliosamente "colpevoli". Curiamo tutti. In Afghanistan lo abbiamo fatto milioni di volte. Nell´ospedale di Lashkargah lo abbiamo fatto sessantaseimila volte. Senza chiedere, di fronte a un ferito nel pronto soccorso, «Stai con Karzai o con il mullah Omar?». Tantomeno lo abbiamo chiesto ai tantissimi bambini che abbiamo visto in questi anni colpiti da mine e bombe, da razzi e pallottole. Nel 2009 il 41 percento dei feriti ricoverati nell´ospedale di Emergency a Lashkargah aveva meno di 14 anni. Bambini. Ne abbiamo raccontato le storie e mostrato i volti, le immagini vere della guerra, la sua verità.

«Emergency fa politica», è l´altra accusa che singolarmente ci rivolgono i politici. In realtà vorrebbero solo che noi stessimo zitti, che non facessimo vedere quei volti e quei corpi martoriati. «Curateli e basta, non fate politica». Chi lo sostiene ha una idea molto rozza della politica. No, noi ci rifiutiamo di stare zitti e di nascondere quelle immagini. Da tempo la Nato sta compiendo quella che definisce «la più importante campagna militare da decenni»: la prima vittima è stata l´informazione. Sono rarissimi i giornalisti che stanno informando i cittadini del mondo su che cosa succede nella regione di Helmand. I giornalisti veri sono scomodi, come l´ospedale di Emergency, che è stato a lungo l´unico "testimone" occidentale a poter vedere "gli orrori della guerra".

Non staremo zitti.

Emergency ha una idea alta della politica, la pensa come il tentativo di trovare un modo di stare insieme, di essere comunità. Di trovare un modo per convivere, pur restando tutti diversi, evitando di ucciderci a vicenda. Emergency è dentro questo tentativo. Noi crediamo che l´uso della violenza generi di per sé altra violenza, crediamo che solo cervelli gravemente insufficienti possano amare, desiderare, inneggiare alla guerra. Non crediamo alla guerra come strumento, è orribile, e mostruosamente stupido il pensare che possa funzionare. Ricordiamo «la guerra per far finire tutte le guerre» del presidente americano Wilson? Era il 1916. E come si può pensare di far finire le guerre se si continua a farle? L´ultima guerra potrà essere, semmai, una già conclusa, non una ancora in corso.

La risposta di Emergency è semplice. Abbiamo imparato da Albert Einstein che la guerra non si può abbellire, renderla meno brutale: «La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire». Nella nostra idea di politica, e nella nostra coscienza di cittadini, non c´è spazio per la guerra. La abbiamo esclusa dal nostro orizzonte mentale. Ripudiamo la guerra e ne vorremmo la abolizione, come fu abolita la schiavitù. Utopia? No, siamo convinti che la abolizione della guerra sia un progetto politico da realizzare, e con grande urgenza. Per questo non possiamo tacere di fronte alla guerra, a qualsiasi guerra. Di proporre quel progetto, siamo colpevoli.

Ecco, vi abbiamo fornito le risposte. E adesso? Un pistoiese definì il lavoro di Emergency «ramoscello d´ulivo in bocca e peperoncino nel culo». Adesso è ora che chi "di dovere" lavori in quel modo, e tiri fuori "i nostri ragazzi". Può farlo, bene e in fretta. Glielo ricorderemo sabato pomeriggio, dalle due e mezza, in piazza Navona a Roma.

La festa del convegno confindustriale di Parma è stata parzialmente rovinata dall'assenza di Silvio Scaglia. Il titolo del convegno era Libertà e benessere e il manager di Fastweb era la persona più adatta per dimostrare la bontà del binomio. Libertà, perché attualmente costretto in istituto di pena. Benessere perché avrebbe potuto fare una vera lezione alla plaudente platea su come fosse stato possibile costruire l'impressionante arricchimento di pochi sfruttando ricchezza pubblica costruita in decenni di investimenti pubblici e di immense capacità tecniche e professionali. Di come sia stato possibile appropriarsi e saccheggiare i beni comuni, le città e il territorio.

Silvio Scaglia e Francesco Micheli, il primo manager Omnitel e il secondo finanziere, fondano alla fine di giugno del 1999 la Astico srl con capitale sociale di 20 milioni di lire (10 mila euro circa). Il 30 luglio l'impresa cambia nome e nasce e-biscom. Il 4 ottobre il capitale sociale viene aumentato a 38 miliardi di lire (19,6 milioni di euro). Il 22 dicembre nuovo aumento di capitale a 24 milioni di euro mediante emissione di circa 11 milioni di azioni del valore nominale di 25 euro: la valutazione della società arriva pertanto pari a 1 miliardo e 223 milioni di euro.

Come è stato possibile? Semplice, lucrando sui beni pubblici. Il 29 luglio 1999 era stato infatti concluso un accordo con Aem, storica azienda del comune di Milano. Era nata nel 1910 nel solco della nascente cultura delle municipalizzate. Decine e decine di anni di investimenti, dalle dighe in Valtellina a gigantesche infrastrutture tecnologiche. Il povero ranocchio da 10 mila euro, dunque, convola a giuste nozze con un gigante, il secondo fornitore di energia in Italia. Poi si quota in borsa e il gioco è fatto. Per raggiungere l'apice del capolavoro, il 21 marzo 2000 e-biscom viene nuovamente capitalizzata attraverso l'emissione di oltre 10 milioni di azioni del valore nominale di 160 euro: essa vale 7,7 miliardi di euro. In nove mesi si è passati da 10 mila euro a 7,7 miliardi di euro sfruttando una ricchezza pubblica costruita con giganteschi investimenti pubblici.

Una lezione così sarebbe stata accolta con ovazioni dai cinquemila intervenuti, perché i prossimi affari di cui vogliono appropriarsi sono quello dell'acqua e quello del patrimonio immobiliare dello Stato. Per compiere l'ultimo assalto, possiedono tutte le pedine di comando, ad iniziare dalla pubblica amministrazione. Le riforme Bassanini, insieme alla legge sull'elezione diretta del sindaco del 1993, hanno cancellato ogni possibilità di controllo. Ormai le amministrazioni pubbliche sono diventate come le porte girevoli degli alberghi: si entra e si esce con molta eleganza, tanto nessuno obietta nulla. Stefano Parisi, city manager (una terminologia nata dalle leggi di riforma delle amministrazioni pubbliche dopo tangentopoli) della giunta Albertini al momento della conclusione dell'accordo tra Aem e e-biscom, nel 2004 diventa amministratore delegato e direttore generale di Fastweb. Sergio Scarpelli, assessore del comune diventa nel 2001 direttore delle relazioni esterne della stessa Fastweb.

La politica è ormai asservita e anche chi, come il consigliere comunale di Milano Basilio Rizzo, denunciò con forza l'indegno imbroglio venne lasciato solo. Ha dunque ragione Guglielmo Ragozzino ad affermare sul manifesto di sabato scorso che è soltanto dalla società civile e dai movimenti di resistenza che essa esprime che può venire una vera alternativa. La politica è ormai incapace di leggere questi fenomeni strutturali e di costruire una cultura differente. E la vicenda della privatizzazione dell'acqua può diventare l'occasione per ricostruire il profilo di un'alternativa sempre più urgente per fermare il saccheggio dei beni comuni.

Liberate la pace

di Valentino Parlato

L'arresto dei tre medici di Emergency a Lashkar-gah e la sua eco in Italia sono molto istruttivi sulla situazione internazionale e sullo stato del governo italiano e della sua stampa. Tutti sanno, in Italia e all'estero, quel che fa Emergency in varie parti del mondo e non solo in Afghanistan, dove sono stato e ho potuto visitare i suoi ospedali, quasi tutti, e non solo quello, splendido, di Kabul, che ha sede in un asilo d'infanzia, costruito a suo tempo dai sovietici.

L'attacco a Emergency è la prima conseguenza dell'«Operazione Moshtarak», iniziata dalla Nato in febbraio. Anche questa è un'operazione assurda: l'Afghanistan non può essere conquistato militarmente come ci aveva spiegato Federico Engels e hanno appreso gli inglesi prima e i sovietici dopo.

L'inizio di una guerra chiede barbarie e l'eliminazione di tutte le testimonianze scomode. Gli ospedali di Emergency curano tutti coloro che ne hanno bisogno, sono aperti, ma proprio per questo sono anche luoghi di osservazione assolutamente fastidiosa per chi bombarda e ammazza. È di qualche settimana fa il documentario che prova che i bombardieri Usa hanno massacrato, a Kunduz (in Afghanistan) 140 civili, donne e bambini del tutto disarmati. Kunduz non è un caso isolato - ieri a Kandahar sono stati uccisi quattro civili e 18 feriti da truppe atlantiche - e non va bene che un ospedale di Emergency veda, curi i sopravvissuti e magari ne parli. Liberarsi di osservatori scomodi è preoccupazione condivisa dalla Nato. L'attacco a Emergency in Afghanistan ci illumina sulla feroce assurda guerra nuovamente scatenata.

Poi c'è l'Italia - il suo governo, la sua maggioranza, la sua stampa. Prova del patriottismo e italianità del nostro attuale governo sono le prime dichiarazioni del suo ministro degli Esteri, che senza alcuna informazione, prende subito le distanze dai tre medici italiani arrestati (di Emergency, ma anche italiani) dichiarando che «non sono riconducibili né direttamente, né indirettamente alle attività finanziate dalla cooperazione italiana». Patriottico e umanitario il nostro ministro. Poi c'è la stampa governativa. «Gli amici di Strada: confessione choc» è il titolo che campeggia in testa alla prima pagina de Il Giornale. Tuttavia nell'articolo sottostante, firmato da Fausto Biloslavo, si legge: «Peccato che il portavoce del governatore, contattato telefonicamente da Il Giornale abbia smentito i virgolettati del Times. "Non ho mai accusato gli italiani di Emergency di essere in combutta con Al Quaeda"», ha detto il governatore. Ma c'è di più: a pagina 11 dello stesso giornale e sempre in testata il titolo grande recita: «Gli uomini di Strada confessano. Anzi, no». Un bell'esempio di stampa d'informazione; non dico altro.

Ma come si fa a non citare l'ineffabile Maurizio Gasparri che si affretta a dichiarare che il governo italiano deve intervenire contro Emergency che danneggia la reputazione dell'Italia (lui, invece, la esalta?). In ogni modo, noi che stiamo a Roma e chi vuole venire da fuori, incontriamoci sabato alle 15:00 in piazza Navona. Noi stiamo con Emergency.

Ps. per meglio capire leggetevi l'intervista al generale Fabio Mini, sempre su questo giornale.

FABIO MINI Atto inedito di estrema gravità

«Testimoni scomodi, a Kabul come in Italia»

di Tommaso Di Francesco

Al generale Fabio Mini abbiamo rivolto alcune domande sull'ormai vero e proprio sequestro degli operatori sanitari di Emergency in Afghanistan. Come giudica la vicenda che ancora una volta mostra il conflitto tra civile e militare in un teatro di guerra?

Mi sembra che una perquisizione ed un arresto di personale delle organizzazioni umanitarie sia una novità in assoluto anche per l'Afghanistan. Mi sembra anche unico il fatto che i servizi segreti afgani si facciano accompagnare da membri dell'esercito e della polizia e perfino da personale di Isaf. È vero che questo supporto reciproco è abbastanza normale in operazioni contro ribelli e insorti in armi. Ma in quel caso sono gli afgani a fare da supporto. Qui in teoria si trattava di un accertamento di polizia e nessuno stava sparando su bambini innocenti o si era barricato. La messa in scena è stata evidente e quindi è lecito chiedersi cosa sia cambiato sia fra gli afgani sia all'interno di Isaf. Nell'ambito di Isaf non contiamo più niente, non come individui o come unità militari, ma come paese. Inoltre le autorità locali afgane cominciano ad accusare la stanchezza e non sono abituate al controllo democratico. Emergency dà fastidio a molti non tanto e non solo perché cura tutti, ma soprattutto perché denuncia tutti. Parla, fa attivismo sociale e riesce a mobilitare molte coscienze. Per le autorità afghane l'ospedale è un pericoloso esempio di sostegno ai ribelli, diretto e indiretto, medico e sociale, umanitario e politico. Per le autorità militari internazionali Emergency è un punto di riferimento per i ribelli e quindi va smantellato o almeno delegittimato. Ma soprattutto è un occhio vigile e ipercritico nei riguardi del loro operato. È un testimone non tanto nel senso che va in giro raccogliendo informazioni o curiosando, ma nel senso che raccoglie in primissima battuta la realtà delle operazioni. Non c'è nulla di più credibile di un corpo straziato per raccontare la verità. Emergency ha fatto di questa possibilità di accesso alla verità uno strumento politico e perciò dà fastidio a tutti quelli che hanno qualcosa da nascondere e quelli che da nove anni inventano una formula al giorno per giustificare le morti di civili. In questo senso si può dire che si stia tornando alla guerra ai civili cominciando da quelli che hanno qualcosa da recriminare, da testimoniare e da denunciare.

Come va la guerra della Nato-Isaf nel frattempo?

La guerra non va bene sotto il profilo operativo e malissimo sotto quello strategico e politico. Le operazioni sono sempre meno incisive, ma non sono integrate da una chiara strategia civile. Le forze stanno aumentando ma si ha la sensazione che l'Afghanistan non sia più lo scopo delle azioni militari. Molte zone dell'Afghanistan hanno meno presenze internazionali di alcuni mesi fa mentre altre vedono concentrarsi forze militari. Tutto il settore al confine con l'Iran pullula di soldati di Isaf e americani. Ad Herat e Farah, nei settori teoricamente sotto il comando italiano e dove i talebani sono assenti fin dal 2001, le forze americane sono triplicate. Molti segnali indicano un possibile cambiamento di obiettivo strategico da parte americana: dall'Afghanistan ed i suoi problemi interni si è passati prima al Pakistan, poi al complesso Pakistan e Afghanistan e ora all'Iran sempre rimanendo in Afghanistan. Mi sembra che un ampliamento strategico di questo tipo comporti innanzitutto una preponderanza americana e del comando di Centcom rispetto alla Nato e poi la completa indifferenza per ciò che può succedere al popolo afgano. La stabilità dell'Afganistan come «stato finale» delle operazioni non ha funzionato, di guerra al terrore internazionale da condurre in Afghanistan non si parla quasi più e allora si cerca di far diventare questo paese una base di partenza per una nuova avventura politico-militare con il rischio di far saltare tutta l'Asia Centrale e oltre. Spero tanto di sbagliarmi.

Cosa pensa delle reazioni del governo italiano, impegnato più a prendere le distanze dagli italiani arrestati che non a difenderli?

In queste ore si assiste ad un progressivo disgelo da parte della Farnesina, ma quello che è successo nei giorni passati non è consolante. Abbiamo visto mobilitazioni e prese di posizione ufficiali molto decise per eventi e cause molto meno importanti di questa. Abbiamo pagato riscatti di milioni di dollari a dei terroristi per stabilire il punto che i cittadini italiani vanno salvaguardati soprattutto se si dedicano a cause umanitarie. Non abbiamo mai chiesto perché fossero nei guai e come ci fossero finiti. Non abbiamo neppure applicato la regola che normalmente si applica ai soldati: sono volontari e se la sono cercata. Abbiamo pagato e ci siamo anche fatti ammazzare per portarli a casa. In questa circostanza è sembrato quasi che si sperasse che i nostri connazionali fossero veramente colpevoli. Non è neppure stato applicato il beneficio del dubbio o la presunzione d'innocenza che merita chiunque ma che che Emergency si è guadagnata facendo un mestiere che non fa nessun altro in Afghanistan: salvare la vita di tutti senza chiedere a quale parte o fede appartengono. Si sono usate figure retoriche per dire una cosa e farne capire un'altra e questa è la prova che Emergency dà fastidio anche a qualcuno del nostro governo. Da dove venga questa avversione non è chiaro. Che si tratti soltanto di diverso schieramento politico mi sembra un insulto alla democrazia e una dimostrazione di meschinità. Su Giuliana Sgrena si disse di tutto, ma mentre certa stampa la faceva a pezzi, il governo, di tutt'altro segno della giornalista, stava trattando la sua liberazione. Poi partì uno dei più alti funzionari dei servizi segreti per tirarla fuori. Rimettendoci la pelle. È vero che il clima da allora è cambiato, ma non credo si tratti solo di faziosità. Può trattarsi di imbarazzo nei riguardi degli americani, degli inglesi e della Nato. Essi sanno essere molto persuasivi quando si mettono in testa di eliminare un ostacolo. Ma non necessariamente dicono sempre la verità. Non è escluso che qualcuno abbia convinto le nostre autorità che Emergency sia veramente collusa con il terrorismo. Tuttavia anche in questo caso dovrebbe prevalere la forza della sovranità nazionale a salvaguardia dei nostri cittadini. Chiunque si trovi in quelle condizioni e in paesi che non danno alcuna garanzia di rispetto dei diritti umani e di quelli legali deve prima essere tirato fuori e poi processato. Ma sembra che noi ci vergogniamo di essere italiani e piuttosto che fare le cose che gli altri invece fanno normalmente preferiamo alludere alle collusioni o accreditare una presunta legalità afghana.

È accaduto dove, forse, l'evento era meno atteso. La frana che ha investito il treno e ha ucciso nove persone è venuta giù in una regione, il Trentino Alto Adige, che per costituzione fisica e qualità della politica ambientale è tra quelle meno esposte al rischio idrogeologico. Ma è avvenuta. E, a quanto pare, per la cattiva gestione di un sistema di irrigazione. Ovvero, per una piccola mancata tutela del territorio che ha avuto un effetto tragico. Il che non può affatto consolarci. Anzi, dovrebbe indurci a una maggiore riflessione.

Il Trentino Alto Adige, dicevamo, è per costituzione fisica una delle regioni meno esposte in Italia: solo il 33% dei comuni e l'1,8% del territorio sono classificati a rischio idrogeologico. In Italia la media è del 70% dei comuni e del 7,1%% del territorio. Ci sono regioni - la Calabria, l'Umbria e la Valle d'Aosta - in cui il 100% dei comuni è classificato a rischio. In Valle d’Aosta, regione alpina in apparenza simile all’Alto Adige, l'area a rischio è pari al 20,2%: un’estensione relativa dieci volte superiore a quella trentina. Il rischio idrogeologico è la somma del rischio alluvioni e del rischio frane. Ebbene in Trentino, come in Val d’Aosta, il rischio frane è di gran lunga la parte dominante del rischio complessivo. L’area franosa è pari, tuttavia, per all'1,7% dell’intero territorio: un’estensione relativa molto maggiore che in Sardegna (0%), Puglia (0,1%), Veneto (0,2%), Sicilia (0,5%) e Friuli Venezia Giulia (1,3%); ma comunque molto minore che in Val d'Aosta (19,5%), Campania (11,8%), Molise (11,2%) ed Emilia Romagna (10,0%). Tuttavia una buona gestione del territorio può minimizzare il rischio. E non c’è dubbio che il Trentino Alto Adige, pur tra qualche contraddizione, è tra le regioni italiane che mostrano sia una più sviluppata cultura ecologica diffusa - è, per esempio, la regione che storicamente ha sviluppato prima e meglio la gestione integrata dei rifiuti - sia una più attenta politica ambientale da parte delle istituzioni locali.

La frana di ieri mostra che ancora non basta. Che l'attenzione da prestare al territorio deve fare un ulteriore salto di qualità. E se ciò è vero in Trentino Alto Adige, è tanto più vero nel resto d'Italia. Paese che per conformazione, storia e attualissime incurie è a elevatissimo rischio di dissesto idrogeologico. Ogni anno succedono, in media, 1.200 frane e 100 piene rilevanti, che nel complesso uccidono decine di persone. La cronaca ci dice che gli incidenti mortali possono avvengono a ogni latitudine: eventi luttuosi sono accaduti di recente non solo nella Calabria ad altissimo rischio, ma anche nella Sicilia a rischio minimo. Non solo nelle aree più povere, ma anche a Ischia, in Toscana e, ora, in Altro Adige. Perché? Certo ogni frana fa storia a sè. L’evento può dipendere tanto dalla natura del terreno quanto dall’incuria umana. La verità è che bisognerebbe saperne di più - realizzando per esempio mappe dettagliate delle aree a rischio - e bisognerebbe anche agire di più.

Agire di più significa fare del dissesto idrogeologico un’emergenza nazionale – la prima grande opera da realizzare – per porre in sicurezza le zone che possono essere consolidate e, al limite, evacuando le zone in cui il rapporto costo/beneficio dell’azione è proibitivo. Ora, senza volere affibbiare colpe specifiche a nessuno, non è questo ciò che sta avvenendo. La ricerca scientifica - in generale - e quella specifica (ci riferiamo, per esempio, alla umiliante situazione dell’ISPRA) è sottoposta dal governo Berlusconi a un combinato disposto di riduzione sistematica delle risorse e dell’autonomia.

A fare ricerca per la tutela del territorio sono sempre più strutture sottoposte a controllo politico e, in futuro, con forti intrecci di interesse con imprese private. Non è quello che ci vuole. Sul fronte dell’azione di tutela è ancora peggio. Non solo il dissesto idrogeologico non è una priorità del paese, ma è sempre meno contrastato. Basta andare in Calabria, a Messina, persino a Ischia nei luoghi di recenti e tragici eventi, e guardarsi intorno, per verificare che persino le azioni di contrasto dell’emergenza sono sostanzialmente ferme. E intanto si è gettata la prima pietra di un faraonico quanto, allo stato, socialmente inutile ed ecologicamente dannoso Ponte sullo Stretto in una delle zone più geofisicamente fragili della fragilissima Italia.

Una sfida sul destino della democrazia

Stefano Rodotà

È mai possibile che si accetti senza reagire una politica che si manifesta con la distorsione dei fatti, l´aggressione alle istituzioni, l´esibizione di un potere ispirato da una logica autoritaria? Questi sono i temi nitidamente posti da Eugenio Scalfari, e conviene seguire la strada da lui indicata tornando su alcune delle cose dette sabato dal presidente del Consiglio ad una platea di imprenditori. E tuttavia, prima di seguire Berlusconi lungo l´abituale suo itinerario di aggressioni e vanterie, bisogna sottolineare la novità rappresentata dai tre fatti gravissimi narrati da Scalfari, rivelatori non tanto di una inammissibile doppiezza, ma di un sistematico mentire al presidente della Repubblica, che configura un caso clamoroso di slealtà costituzionale. Mentre Giorgio Napolitano si adopera per creare un clima propizio per una riforma rispettosa della Costituzione, Silvio Berlusconi tiene comportamenti pubblici e privati che mettono in discussione la funzione esercitata dal presidente e gli lancia una sfida che può sfociare in un gravissimo conflitto al vertice delle istituzioni.

A Parma il presidente del Consiglio si è descritto come prigioniero di lacci e lacciuoli che gli impediscono un´azione efficace, come se non avesse una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana e come se non avesse nei fatti mostrato che, quando le convenienze lo spingono, è in grado di far approvare rapidamente qualsiasi provvedimento. Ha imputato l´origine della crescita del debito pubblico ai "governi del compromesso storico", mentre proprio gli imprenditori dovrebbero sapere che quella vicenda comincia con il governo Craxi, un politico dal quale l´attuale presidente del Consiglio non era poi così lontano. Ha detto meraviglie di riforme che si sa bene che non saranno in grado di produrre i miracoli che ad esse vengono associate. Ma soprattutto ha descritto la Presidenza della Repubblica come un luogo che interferisce impropriamente nell´azione di governo, controllando «minuziosamente anche gli aggettivi» dei provvedimenti. E per l´ennesima volta ha definito la Corte costituzionale un "organo politico", che sta lì per smantellare la legislazione che non piace ai pubblici ministeri e ai giudici di Magistratura democratica. Un attacco frontale è stato così portato alle due istituzioni che in questo periodo hanno garantito la legalità costituzionale.

Quest´insieme di falsificazioni è il frutto di una strategia deliberata, basata sulla ripetizione degli stessi concetti e delle stesse parole, ispirata all´antica regola "calunniate, calunniate, qualcosa resterà". In questo modo si è già creato un perverso senso comune, al quale si fa appello nel momento in cui si deve raccogliere consenso. E ora, gonfiate le vele dal vento elettorale, si pensa di poter portare tutto all´incasso. Che cosa si sta facendo per contrastare questa che non è soltanto una strategia comunicativa, ma una sempre più pesante strategia politica?

L´obiettivo di Berlusconi è chiaro e ormai esplicitamente dichiarato. Spazzar via tutte le garanzie e i controlli che "disturbano il manovratore", concentrare il potere nelle mani di una sola persona, invocando quel che accade in altri paesi europei, ma ignorando del tutto i contrappesi che lì esistono. Così, quello che con approssimazione viene chiamato semipresidenzialismo si presenta come concentrazione di potere nelle mani di una sola persona. Non a caso si rifiuta ogni modifica della legge elettorale, che si è rivelata un docile strumento per avere parlamentari scelti dall´alto, vanificando proprio quella sovranità dei cittadini alla quale Berlusconi strumentalmente si richiama quando vuole avere le mani libere da qualsiasi controllo. Si scoprono le carte a proposito della riforma della magistratura. Viene annunciata una antidemocratica riforma elettorale del Csm. La separazione delle carriere dovrebbe portare alla creazione di due consigli superiori, uno per i magistrati e l´altro per i pubblici ministeri, quest´ultimo presieduto dal ministro della Giustizia. Dalla proclamazione della volontà di cancellare la politicità della pubblica accusa si passerebbe così ad un controllo politico, anzi governativo, dei pubblici ministeri con l´evidente possibilità di distogliere il loro sguardo da indagini che potrebbero riguardare chi è vicino alla maggioranza e di indirizzare la loro azione verso chi si muova in modo sgradito al potere.

A Berlusconi la democrazia dà fastidio, e non a caso annuncia un plebiscito. Non vuole una riforma, vuole un referendum sulla "sua" riforma. Un referendum che inevitabilmente spaccherebbe il paese, e farebbe percepire la nuova architettura costituzionale come il progetto di una parte, nella quale gli altri non potrebbero riconoscersi. Dalle riforme condivise si passerebbe alle riforme "divisive".

Avendo deciso di imboccare questa strada, Berlusconi ha fatto una mossa che, per chi conosce la sua attenzione per il sistema della comunicazione, era prevedibile. Si è materializzato su Facebook. Da tempo, e non solo in Italia, si sottolinea che Internet non è di per sé uno strumento di democrazia e che, anzi, proprio l´insieme delle nuove tecnologie può dare sostegno al crescente populismo.

Si torna così all´interrogativo iniziale. Come contrastare questa pericolosa deriva? Contare solo sulla dialettica interna alle forze politiche, sperare nel dissenso dei finiani, cercare pontieri tra maggioranza e opposizione perché la minacciata eversione costituzionale venga ricondotta nel più ragionevole alveo della "buona manutenzione costituzionale"? Guardiamo pure in questa direzione, anche se la sconsolata ammissione del pontiere per eccellenza, Gianni Letta, riferita da Eugenio Scalfari, non autorizza alcun ottimismo.

Il compito dell´opposizione si è fatto più difficile, perché non basta contrapporre una bozza Violante ad una bozza Calderoli. Bisogna contrastare Berlusconi sul terreno che lui stesso ha scelto, quello della mobilitazione dell´opinione pubblica che dovrebbe sostenere l´impresa di riforma. Ma bisogna fare un passo oltre la registrazione di questa difficoltà, mostrando a tutti che cosa sia effettivamente diventata la questione della riforma costituzionale: una sfida sul destino della democrazia italiana.

Se così stanno le cose, vi è una responsabilità più ampia di quella che riguarda partiti e gruppi di opposizione. Vi è una responsabilità collettiva legata ad una cittadinanza attiva, alla necessità che tutti prendano la parola. La difesa della democrazia non è stata mai affidata a maggioranze o minoranze "silenziose". Proprio perché le tecnologie hanno fatto diventare "continua" la democrazia, continua dev´essere pure l´azione dei cittadini. E oggi il silenzio si rompe in molti modi, da quelli tradizionali a quelli che si affidano alla faccia democratica delle tecnologie, né plebiscitaria né populista. Di tutto questo bisogna parlare, per non lasciare solo il Presidente della Repubblica nella difesa della Costituzione, per scongiurare un cambiamento di regime, per non rassegnarsi al destino di spettatori. Esattamente quello che il Cavaliere vuole.

Fenomenologia dell´elettore scettico

di Ilvo Diamanti

Alle regionali 15 milioni di elettori non hanno votato. È l´astensione più elevata del dopoguerra, considerando tutte le elezioni di rilievo nazionale dal ´46 ad oggi (referendum esclusi). Ma il fenomeno ha subito una accelerazione significativa nella seconda Repubblica. Se consideriamo le 13 regioni dove si è votato due settimane fa, la partecipazione è scesa dall´87% nel 1994 all´81% nel 2008 – alle elezioni politiche (3 punti in meno rispetto al 2006). Dal 75% nel 1994 al 70 % nel 2009 – alle europee (5 punti in meno rispetto al 2004). Infine, dall´82% nel 1995 al 64% del 2010 alle regionali (8 punti in meno rispetto al 2005). Insomma, a seconda delle elezioni, tra 2 e oltre 3 (anzi, quasi 4) persone su 10, ormai, non votano. E il dato si allarga nelle elezioni amministrative dei comuni oltre 15 mila abitanti, dove, in caso di ballottaggio, tra il primo e il secondo turno la percentuale di votanti scende ulteriormente.

Da ciò la tentazione di evocare un "partito dell´astensione", considerando il non-voto come un voto. Il primo in Italia, viste le dimensioni. Per usare una formula nota (di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino): il "voto di chi non vota". Tuttavia, è difficile ricondurre quelli-che-non-votano a "un" partito, visto che sommano componenti molto diverse e contrastanti. Vi si incontrano: (a) quelli che non votano per forza maggiore; (b) le persone marginali – apatiche e disinteressate; (c) quelli che esprimono protesta contro il sistema; (d) quelli che non si sentono rappresentati; (e) quelli che, al contrario, si fidano, chiunque vinca; (f) quelli convinti che il loro voto non conti; (g) e quelli che, invece, intendono usare il voto come "ammonimento" ai partiti – soprattutto di governo. Sfruttando, a questo fine, le elezioni amministrative o europee.

Insomma, l´area dell´astensione si è dilatata, ma ha assunto, al tempo stesso, significati molto diversi. Tanto che la quota degli astenuti "per forza maggiore" – un tempo prevalente – oggi appare ridotta. Mentre è cresciuta quella degli "intermittenti" (come li definisce Paolo Segatti). Che scelgono "se" votare a seconda delle occasioni. Non è, ovviamente, un fenomeno solo italiano. Anzi. L´Italia è tra i paesi europei dove l´affluenza elettorale resta più elevata. Tuttavia, nel nostro paese, questa tendenza, negli ultimi anni, è cresciuta in modo rapido e impetuoso. Per alcune ragioni, in parte specifiche.

a) Il rovesciamento e il rimescolamento continuo del sistema partitico. Il che ha reso sempre più difficile non tanto identificarsi, ma almeno "affezionarsi" a un soggetto politico, visto il turbinio di sigle, aggregazioni e leader. Pensiamo al Pd, al Pdl. Alla galassia della Sinistra. Unico partito ad aver mantenuto lo stesso marchio dai tempi della prima Repubblica: la Lega. Non a caso, il prodotto più riconoscibile sul mercato elettorale.

b) Il cambiamento e la diversità delle leggi elettorali hanno disorientato l´elettore. La logica maggioritaria del voto utile ha, inoltre, spinto a votare per un partito o un candidato competitivo. Quindi, non sempre – e sempre meno – per quello più vicino.

c) La personalizzazione dei partiti, il declino dell´identità a vantaggio della fiducia, della partecipazione a favore delle tecniche di marketing. Hanno reso i "prodotti" del mercato elettorale volatili e deperibili.

d) Il mutamento della società, del contesto culturale e del territorio. Sottolineato dal profondo mutamento territoriale dell´astensione. Se consideriamo le 20 province dove alle regionali recenti il fenomeno è cresciuto maggiormente rispetto alle europee del 2009, solo 2 sono del Sud (Crotone e Avellino). Le altre sono del Centro-nord e comprendono realtà a forte tradizione democristiana (Sondrio) ma soprattutto di sinistra (Livorno, Rimini, Pesaro Urbino, Siena). Zone ad alta partecipazione, anche per questo colpite – più delle altre – dall´astensione.

Non è più corretto, quindi, considerare il "voto" come la "regola", trattando il "non-voto" come un comportamento "deviante". Quasi fossimo ancora al tempo delle fedeltà di partito. Perché quel tempo è finito. E quelle fedeltà si sono erose profondamente. Se utilizziamo una scala che misura l´orientamento degli elettori verso i partiti (sondaggio di Demos, febbraio 2009, campione nazionale rappresentativo, 1000 casi), la quota di coloro che esprimono vicinanza – e quindi appartenenza esclusiva – verso un solo partito appare molto ridotta. Intorno al 10% del totale, mentre il 20% si dice lontano da tutti. La maggioranza, invece, è costituita da elettori "tiepidi". Incerti fra diversi partiti. Rispetto ai quali si dicono – più che vicini – "non lontani". Incerti anche "se" votare. Si tratta, peraltro, degli elettori politicamente più interessati e informati.

Da ciò il declino del senso di appartenenza; la disponibilità a cambiare voto e partito. Anche senza salti di schieramento, visto che alcune fratture restano. Una, soprattutto: scavata da Berlusconi.

Tuttavia, in caso di elezioni amministrative, anche queste fratture scompaiono. E nello stesso giorno, gli stessi elettori, in elezioni diverse, possono decidere di votare per candidati di schieramenti opposti. A Venezia, a Lecco, come in numerosi altri comuni: per la Lega alle regionali e, al contempo, per un sindaco del Pd. Non era così nella prima Repubblica, quando tutti – o quasi – votavano sempre e allo stesso modo, in tutte le elezioni.

Oggi, invece, un´ampia quota di elettori decide di volta in volta. Per chi e "se" votare. Ciò costituisce un problema soprattutto per i partiti maggiori, frutto di aggregazioni complesse. Con un´identità opaca. Poco presenti nella società. Il Pd. E a maggior ragione il Pdl: il più colpito alle ultime elezioni. Ma nessuno ne è immune. Perché nessuno dispone di un elettorato fedele, come i partiti di massa della prima Repubblica. Neppure la Lega. Che dal 1992 ad oggi ha visto oscillare le sue percentuali di voto – oltre che il numero di elettori. Dal 10% al 4%. Per poi tornare al 10%. Non è stata la fedeltà a favorirne la risalita degli ultimi anni. Semmai, la capacità della Lega di intercettare domande locali, rivendicazioni territoriali, sentimenti di incertezza. Oltre all´insoddisfazione verso gli altri partiti. Ma ora che governa a Roma, in Veneto e nel Piemonte sfruttare i vantaggi di chi fa la maggioranza e l´opposizione, al tempo stesso: le riuscirà più difficile.

Il tempo dell´elettore fedele è finito. Siamo nell´era dell´elettore scettico. Non è privo di valori, non è senza preferenze politiche. Ma ha bisogno di buone ragioni per votare un partito o un candidato. E prima ancora: per votare.

STORIA. La proposta di legge urbanistica messa a punto nel 1963 dal ministro Dc Sullo. Affossata dallo stesso scudocrociato, fu il primo (e ultimo) tentativo di regolamentare lo sviluppo delle nostre città.

Era il 3 aprile 1963… il secolo scorso. I meno giovani tra un momento ricorderanno il senso di quella data, per i più giovani sarà invece l’occasione per sapere qualcosa di quella che lo storico inglese Paul Ginsborg ha (cortesemente) definito “una delle pagine più infelici della storia politica della Repubblica”. Quel giorno, dunque, in testa alla prima pagina del Popolo, organo ufficiale della Dc, apparve una “precisazione degli ambienti responsabili della Democrazia cristiana”. Precisazione tanto anonima quanto facilmente attribuita all’allora segretario del partito Aldo Moro. “Lo schema di legislazione urbanistica – si leggeva nella nota – è stato inviato direttamente dal ministro competente all’esame del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro prima di sottoporlo all’approvazione del Consiglio dei ministri. Pertanto, per quanto siano apprezzabili talune disposizioni, è chiaro che nello schema non è in alcun modo impegnata la Dc”.
 
Il ministro (dei Lavori pubblici) chiamato in ballo dalla precisazione era Fiorentino Sullo, democristiano riformista: piantato in asso seccamente, e così buttata a mare ogni prospettiva di una reale pianificazione urbanistica in Italia. Di più: Sullo verrà di lì a poco estromesso da ogni incarico prima di governo, poi anche di partito, né verrà più eletto parlamentare. Sopravvivrà trent’anni a questa sconfitta, annegando in acuta sofferenza (che lo porterà alla morte) quella che fu per lui e per molti altri una vera tragedia. Un passo indietro, a spiegazione di tutto. Nel febbraio 1962, appena entrato nel quarto governo Fanfani (un tripartito con Pri e Psdi, l’anticamera del centrosinistra), Fiorentino Sullo aveva mobilitato le migliori intelligenze dell’urbanistica italiana per stendere un progetto di legge di riforma urbanistica, la prima del dopoguerra.
 
A luglio il progetto era pronto: si trattava del primo (e ultimo) serio tentativo di fare i conti con i problemi della rendita, della speculazione fondiaria, del caotico sviluppo urbano che ha devastato il Paese. La riforma si fondava su due elementi, nuovi per l’Italia ma già comuni in molti paesi europei. Per un verso si concedeva agli enti locali il diritto di esproprio preventivo di tutte le aree fabbricabili incluse nei piani regolatori. Sarebbero stati poi gli stessi comuni a realizzare le opere di urbanizzazione (strade e acqua, elettricità e fogne), e quindi a rivendere ai privati i terreni così attrezzati: certo ad un prezzo più alto, ma controllato.
 
Per un altro verso si introduceva il principio del diritto di superficie: i nuovi proprietari sarebbero entrati in possesso solo di quanto veniva costruito ma non del terreno che sarebbe rimasto ai comuni così come avviene per esempio da un secolo e mezzo nell’Inghilterra da tempo in mano a trinariciuti comunisti. Più tardi (in una intervista concessa sedici anni dopo) Sullo avrebbe sottolineato che “lo Stato, allora, aveva ancora i quattrini per fare gli espropri, eravamo in pieno boom economico. Avremmo potuto ancora salvare il destino di alcune grandi città, Milano, Torino, Roma, Genova….”
 
Nella primavera del 1963, alle viste delle elezioni politiche generali, il lungimirante progetto di riforma provocò la furibonda reazione della destra interna ed esterna alla Dc. Uno per tutti, il Tempo accusò Sullo di intenzioni “bolsceviche” e di voler “nazionalizzare la terra”. Tale e tanta fu la cagnara che lo stesso ministro raccontò poco dopo (nel libro “Lo scandalo urbanistico”, Firenze, 1964) che i suoi parenti gli avevano chiesto atterriti se egli intendeva davvero privarli dei loro diritti di proprietari.

Per fronteggiare gli attacchi, Sullo cercò l’appoggio del presidente del Consiglio, ma Amintore Fanfani se ne lavò le mani spiegando che tutto dipendeva da Moro, allora al vertice del partito. Sullo si rivolse allora a Moro che rispose senza mezzi termini che costruttori e piccoli proprietari erano in rivolta con quel che significava a meno di tre settimane dalle elezioni.
 
Sullo non esitò allora a replicare di essere disposto a sacrificare la seconda parte del suo progetto, a lasciar cadere insomma la distinzione tra proprietà e possesso del suolo. Non bastò. Il ministro chiese allora di poter spiegare in tv a tutti gli italiani la vera natura delle sue proposte. Richiesta respinta. Ed ecco invece d’improvviso, e senza che Fiorentino Sullo ne sapesse nulla, la “precisazione” ufficiale della Dc. Ne abbiamo riferito all’inizio il passo con cui il partito scindeva seccamente le proprie responsabilità da quelle del suo ministro. Ora il seguito, tutto mirato a tranquillizzare l’elettorato: la Dc “persegue l’obiettivo di dare la casa in proprietà a tutti gli italiani senza limitazione alcuna nella tradizionale configurazione di questo diritto. Anche nella legislazione urbanistica saranno pienamente rispettati, per quanto riguarda la Dc, i principi costituzionali e i diritti dei cittadini”. Da quel giorno di riforma urbanistica non si parlò più.



La storia dei tentativi di riforma urbanistica è nelle pagine di eddyburg , e nei libri spesso segnalati in questo sito. Una storia molto triste, su cui occorre riflettere per comprendere bene perchè siamo giunti al punto più basso della nostra storia recente e - quindi - come si può fare per riprendere il cammino nelle condizioni di oggi.

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