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Il Corriere della Sera (il «Corriere dello Zar» scriveva il nostro Luigi Pintor) questa volta ha proprio esagerato affidando a Piero Ostellino la richiesta di condanna a morte di quel poco di stato sociale che ancora c'è in Europa.

Ostellino comincia con una citazione del Washington Post, che è un annuncio di morte: «L'eccezione europea, il modello sociale più generoso del pianeta, ha i giorni contati». E prosegue: «Lo stato sociale moderno è oggetto di statolatria. L'attributo sociale è il distintivo residuale delle politiche progressiste del Novecento». Tutto questo sistema - sempre secondo Ostellino - massacra «il singolo individuo, non protetto da una qualche corporazione, e le aziende che operano sul mercato». E poi ancora c'è l'accusa ai «media che invece di guardare dentro la macchina dello stato moderno e denunciarne costi e pericoli»... «ancora tacciono, vuoi per conformismo, vuoi per riflesso degli interessi extraeditoriali dei loro editori».

Morale della favola: lo stato sociale moderno è dannoso e va liquidato a vantaggio degli interessi extraeditoriali dei media, che, evidentemente, non toccano il Corsera nel cui consiglio d'amministrazione figurano (copio dal Corsera) Piergaetano Marchetti, Giovanni Bazoli, Luca Cordero di Montezemolo, Diego della Valle, Cesare Geronzi, Antonello Perricone, Giampiero Pesenti e Marco Tronchetti Provera. Tutte persone rispettabilissime, ma i cui sani interessi sono tutti «extraeditoriali».

Da tutto questo argomentare possiamo trarre almeno tre conclusioni:

1) l'attuale crisi è colpa di quel poco di stato sociale che c'è. Cioè delle pensioni, dei salari, dell'assistenza sanitaria, della scuola pubblica e di quant'altro. Morale: lo stato sociale va liquidato al più presto con tagli a pensioni, salari e quant'altro;

2) si proceda al più presto alla detassazione di capitali, profitti e rendite, aumentando la tassazione dei redditi di lavoro, gli unici che non riescono a evadere il fisco;

3) cancellando quel poco di stato sociale che c'è e anche la Costituzione (che dice che l'Italia è «una repubblica fondata sul lavoro) si deve concludere che a comandare nel nostro paese (e anche sui media) debbono essere gli interessi forti dei capitalisti e degli sfruttatori.

Ps. Vorrei chiedere allo stimato amico Ferruccio De Bortoli come e perché si è lasciato sfuggire questa «stravaganza» autolesionista anche per il Corriere. Sono proprio così forti gli interessi «extraeditoriali» da sfidare anche il comune buon senso? Molto più saggia la signora Emma Marcegaglia, che ha rifiutato di prendere il posto dell'ex ministro Scajola e ha detto no al Cavaliere. Ostellino invece si dichiara sua coraggiosa avanguardia.

Questo non è un articolo di commento, è un articolo di protesta. Sarà, perciò, breve, diretto, persino un po’ rozzo e brutale. Altri esporranno, spero, pacatamente le loro ragioni, io qui mi limiterò a urlare le furibonde ragioni dei miei oppressi e i miei oppressi sono i lavoratori salariati vittime della vessazione fiscale.

Protesto perché nel nostro Paese, al principio del nuovo secolo e millennio, la principale causa d’ingiustizia sociale è la sperequazione fiscale. Protesto da dipendente pubblico perché la principale forma di sperequazione fiscale non è tra Nord e Sud (come vorrebbe una parte politica i cui elettori hanno finanziato le loro imprese con l’evasione fiscale e con il lavoro nero) ma tra salariati (per lo più dipendenti statali) e lavoratori autonomi. Protesto perché, sul piano fiscale, la popolazione italiana è divisa in due parti.

Da un lato c’è un ceto produttivo (quelli a cui le tasse le prelevano alla fonte), dall’altro un ceto di parassiti evasori (per lo più commercianti, liberi professionisti, imprenditori). Protesto perché, per colmo della beffa, la prima metà è quella più povera, la seconda quella più ricca, la quale diventa ancora e sempre più ricca grazie al sangue fiscale succhiato ai più poveri. Protesto perché sono stufo di pagare con il mio modesto stipendio di ricercatore universitario la scuola d’élite al figlio del ristoratore dove una volta al mese posso forse permettermi di andare a mangiare il pesce, perché sono stufo di pagare con quel modesto stipendio la polizia che sorveglia la sontuosa villa del dentista da cui mi sono fatto otturare un dente cariato, perché sono arcistufo di pagare le strade su cui sfreccia con il suo SUV corazzato il commercialista arricchito o il pronto soccorso a cui ricorre in una notte sbagliata l’imprenditorello impippato, protesto perché non ne posso più di pagare con i miei 1500 euro mensili la escort da duemila euro a botta al riccastro viziato.

Lo Stato Moderno, ombrello della convivenza civile, nasce sulla base di un patto preciso: sottomissione contro protezione, soggezione (anche fiscale) contro sicurezza. In questi giorni assistiamo a una versione caricaturale, degenerata, di quell’antica alleanza. Una violenta cricca internazionale di grassatori dell’alta finanza decide, dai suoi grattacieli dorati di New York, Lussemburgo o Shanghai, una razzia ai danni della povera gente di alcune antiche e dissestate nazioni mediterranee. E i governanti di quelle nazioni che fanno? Per ergere una barriera finanziaria a difesa della loro gente non trovano di meglio che salassare ulteriormente i già vessati salariati e pensionati. Io contro questa barzelletta di democrazia protesto e denuncio la rottura fraudolenta del contratto sociale.

La più grande democrazia moderna, quella statunitense, comincia da una protesta fiscale. No taxation without representation. Niente tasse senza rappresentanza politica, urlarono i ribelli delle colonie della Nuova Inghilterra. Non essendo questi - purtroppo o per fortuna, per fortuna o purtroppo - tempi di rivoluzioni, io propongo di invertire la formula: no representation without taxation. Si tolgano i diritti civili, a cominciare dal diritto di voto, a tutti gli evasori fiscali (prima, però, bisognerebbe, ovviamente, pescarli). Chi di fatto non fa parte del consesso civile statale che si costruisce e conserva grazie al contributo fiscale di tutti, non ne faccia parte nemmeno di diritto. Altrimenti, il paradosso è che un ceto di evasori fiscali, parziali o totali, continuerà a eleggere un ceto politico che poi ne preserverà il privilegio d’immunità, perpetuando questa tremenda ingiustizia sociale. Contro la quale io, personalmente, protesto e spero protestino in tanti.

Potrebbe essere stata raccolta in uno dei banchetti lungo l'itinerario della marcia per la pace Perugia-Assisi la simbolica firma 500.000 (mezzo milione) che ci consente di entrare in una nuova fase della nostra campagna per l'acqua bene comune. Naturalmente continueremo a raccogliere firme fino al 21 luglio perché il peso politico è direttamente proporzionale al loro numero, ma registriamo che finora si è fatto meglio che per l'aborto e il divorzio.

«Mission accomplished», «missione compiuta», verrebbe da dire evocando la follia di bushiana memoria, nel giorno in cui, significativamente assente Emergency cacciata da Kabul, si ritorna a parlare di una guerra assurda prima ancora che incostituzionale. Una guerra di aggressione, camuffata da missione di pace, di cui i nostri politici parlano oggi solo perché ha lasciato sul terreno altri due militari italiani. Dimenticando i tanti civili afghani uccisi e i quattro milioni di euro al giorno che ci costa.

«Missione compiuta», dunque, quanto meno dal punto di vista delle forme giuridiche necessarie per investire la Corte Costituzionale sull'ammissibilità dei tre referendum con i quali il popolo italiano ha la possibilità concreta di invertire la rotta sull'acqua, rifiutando la teoria e la prassi della privatizzazione dei servizi pubblici e del bene comune. Certo la battaglia è ancora lunghissima e sarà molto difficile vincerla in un'Italia in cui un altro bene comune fondamentale, quello della libera informazione critica, è stato già privatizzato da molto tempo. Infatti il 1994, anno della legge Galli che rende possibile la gestione privata del Servizio idrico integrato, è anche l'anno della discesa in campo di chi della libera informazione (tanto pubblica che privata) e della Costituzione che ripudia la guerra ha fatto più di altri strame. Presto i lettori dei giornali "normalizzati" che hanno fatto la fila ai banchetti del Forum cominceranno a domandarsi perché di quelle file non si dia alcuna notizia. Presto ci si domanderà perché ai talk show televisivi si parli di ogni rissa politica e non si dia invece conto di questa straordinaria mobilitazione democratica.

Il primo mezzo milione di firme è un segno che va oltre l'acqua. Dimostra che rispetto, inclusione, condivisione e pace possono prosperare soltanto all'interno di un settore pubblico efficiente, attento al bene comune e non colluso con gli interessi privati. Sostiene Ronchi che solo i privati possono apportare i 4-5 miliardi annui necessari per ristrutturare i nostri acquedotti e che quindi la loro gestione «va messa a gara». In verità nel decennio successivo all'entrata in vigore della legge Galli e della sua logica del profitto gli investimenti nel settore sono crollati e le tariffe aumentate.

In un paese in cui non dominasse il Caimano si "metterebbe a gara" lo spettro delle frequenze (un bene pubblico sovrano, secondo la definizione della Commissione Rodotà) che rende oggi alla collettività 50 milioni l'anno, a fronte dei 5 miliardi di sterline che la Gran Bretagna vi ricava annualmente. Ecco qui oltre quattro miliardi di denaro pubblico per riparare gli acquedotti, cui aggiungerne immediatamente un altro abbondante da dare magari alla scuola: quello che ci costa la carneficina afghana.

Traffico di droga, contrabbando di griffe della moda falsificate in Cina, sfruttamento di manodopera clandestina. E - ancora - riciclaggio di denaro sporco, appalti truccati per le opere pubbliche e racket. Le cosche della mafia e della ’ndrangheta sono sempre più attive sui porti laziali. Già nel 2000 erano stati smascherati traffici illeciti riconducibili alla famiglia Rinzivillo e ad alcuni clan minori. Ora però non si tratta più di situazioni episodiche. Ma di un sistema strutturato. E soprattutto pericolosamente in fase di rapida espansione. Secondo l’ultimo rapporto della Direzione investigativa antimafia al ministero dell’Interno, infatti, «sul litorale nord, in special modo nei comuni di Ladispoli, Cerveteri, Santa Marinella e Civitavecchia, si riscontra la presenza di alcune ramificazioni dei sodalizi Gallo, Misso, Mazzarella e Veneruso, attivi nel narcotraffico». E anche Luigi De Ficchy, capo della procura di Tivoli dopo una lunga parentesi all’antimafia, ha sottolineato come il porto di Civitavecchia sia diventato «approdo di importanti partite di droga».

Secondo l’antimafia, i porti del sud, da Gaeta a Formia, da Nettuno a Anzio, sono ormai terreno di battaglia dei clan della camorra. Dopo aver investito in attività immobiliari e commerciali, ora le cosche stanno organizzando vere e proprie basi operative. Sono segnalati continui tentativi di racket sulle attività commerciali, fenomeni diffusi di caporalato sia per chi lavora a terra, sia sul personale imbarcato. E nel basso Lazio, oltre a controllare parte della compravendita dell’immenso mercato ortofrutticolo di fondi, la camorra adesso comincia a condizionare il florido mercato del pesce.

Il litorale romano fino a poco tempo fa era spartito fra gang di albanesi, rumeni e fra gli eredi della banda della Magliana. Ora sono stati costretti a scegliere: o finire stritolati dalle cosche, oppure mettersi al servizio delle stesse cosche. E la maggior parte dei piccoli delinquenti a scelto di «mettersi a padrone». L’antimafia sta cercando di monitorare anche i flussi di denaro collegati alle operazioni immobiliari legate allo sviluppo dei nuovi porti turistici di Ostia e Fiumicino. Alcuni movimenti di soldi sarebbero «sospetti». Diversa la matrice delle infiltrazioni nel litorale nord. La camorra - spiegano i magistrati - avrebbe puntato il porto di Civitavecchia perché meno sorvegliato rispetto a quelli di Napoli e Gioia Tauro, un tempo importanti terminali del narcotraffico. E poi nella zona di Civitavecchia sono in corso importanti infrastrutture pubbliche. Appalti ricchissimi, che fanno gola alle cosche.

Ma sono anche un modo di celebrare la fine dell´inverno (che secondo molti calendari agrari termina il 30 aprile) e l´arrivo della bella stagione con i suoi raccolti. Ce ne sono in ogni territorio, città e regione: alcuni hanno resistito, si celebrano ancora, e quasi tutti sono legati al cibo. È il caso delle "Virtù teramane": la tradizione le vuole legate al primo maggio ma oggi, visto che le tradizioni sono malleabili, si celebrano anche la prima domenica del mese. È un rito di cui voglio parlare perché ci insegna qualcosa. Anche se la società che l´ha concepito non esiste più è perfettamente valido e attuale per questi tempi spreconi e distratti, in cui l´individualismo sfocia quasi automaticamente nell´egoismo.

Diremo che se quando sono nate si doveva "fare di necessità virtù", oggi le "Virtù" sono diventate una necessità.

Già il nome è una meraviglia: "le Virtù". Se raccontiamo cosa sono però acquisterà ancor più poesia, significato, bellezza. Si tratta di un piatto, una ricetta di Teramo, ma è diffuso con altre varianti in tutto l´Abruzzo, tanto da essere pure stato esportato in certe comunità romane.

Protagoniste, come sempre in questi casi, sono le donne le cui virtù, in questo caso, stavano nel riuscire a fare bene questa preparazione complessa, per cui non esiste un´unica regola e in cui il savoir faire è decisivo. Sono virtù perché la base di partenza sono gli avanzi rimasti nella dispensa dopo l´inverno: legumi secchi, pasta di varie tipologie, resti del maiale che la donna doveva essere brava a recuperare e riutilizzare. I legumi allora andavano essiccati in casa con sapienza perché durassero il più a lungo possibile e dovevano essere conservati con molta cura per salvarli da tarli e muffe. Chi ne aveva tanti e ancora buoni era una brava donna di casa. Il piatto unisce poi questi "avanzi" alle verdure nuove come legumi freschi e i primi frutti dell´orto, e poi pasta fresca e carne, come pezzetti di prosciutto, cotenne, polpettine fritte. Una generica lista d´ingredienti comprende un mare di cose: fagioli, ceci, lenticchie, fave, cicerchie, piselli, carote, zucchine, bietole, indivia, scarola, lattuga, cavolo, cavolfiore, rape, cicoria, spinaci, finocchi, misericordia, aglio, cipolla, menta, maggiorana, salvia, pipirello, aneto (ingrediente decisivo), sedano, prezzemolo, carciofi, prosciutto crudo, cotenna, carne di manzo, carne d´agnello, noce moscata, pepe, chiodi di garofano, lardo, parmigiano, pasta di semola di grano duro di varia qualità, carne tritata, olio d´oliva, sugo di carne mista alla "macellara" e pasta fatta in casa con uova. Però non c´è una ricetta unica, l´abilità (altra virtù) sta nel saper rendere questa infinita lista d´ingredienti che comporta un´altrettanto lunga preparazione qualcosa di diverso da un semplice minestrone: amalgamato, omogeneo, equilibrato, delizioso, con le diverse parti - che hanno diversi tempi di cottura - singolarmente cotte a puntino. È una ricetta low cost, perché si deve utilizzare ciò che c´è in casa e ciò che si può raccogliere nei campi, ma ci vuole tempo.

Non soltanto è illuminante perché ci insegna il valore del risparmio, del riuso e del riciclo, perché è un inno contro lo spreco che ci attanaglia sempre più ed è uno schiaffo alla povertà e alla crisi (4.000 tonnellate di cibo edibile buttate via ogni giorno nella sola Italia!), ma è anche un simbolo di condivisione e di appartenenza a una comunità. Le famiglie devono offrirla ai vicini e ai parenti. Mandano qualche "coppino" (ciotola) di virtù nelle altre case e pure ai poveri. Dimenticarsi di qualcuno spesso dava anche adito a litigi, causava l´incrinarsi di rapporti o ne sanciva la rottura. In origine era il pranzo che la promessa sposa elaborava per la futura suocera dimostrando la sua bravura a fare tanto con poco. C´è anche un dettaglio curioso: la suocera in quell´occasione regalava alla ragazza un gioiello molto bello in filigrana d´oro detto la "presentosa". Alcuni dicono che il nome derivava dal fatto che la ragazza si "presentava" alla famiglia allargata, altri però sostengono che in realtà il nome attiene a quella «presuntuosa che si vuole prendere mio figlio!»

Quando mi dicono che il cibo buono costa caro gli rispondo citando le Virtù teramane, perché oltretutto sono un piatto di una bontà rara. E se una volta erano fatte davvero a costo zero, oggi non ci fanno certo svenare. Ma più che consigliare di riproporle ovunque tali e quali e non soltanto in quel di Teramo cogliamo invece il senso di questa tradizione: bisogna tornare alla cucina degli avanzi, essere parsimoniosi con il cibo non quando lo comperiamo facendo le pulci su pochi centesimi che sono decisivi per il reddito del contadino ma dopo che lo abbiamo messo in frigorifero, prima di buttarlo. Le virtù ci insegnano che il cibo è prezioso, ha valore e non soltanto prezzo, che possiamo tirare fuori cose geniali da ciò che ci avanza. Ci riconducono anche al significato sociale del cibo, a una reciprocità che in tempi di crisi tremebonda e spesso drammatica diventa un elemento economico rivoluzionario. Cerchiamo nel nostro piccolo di realizzare le Virtù a casa nostra, e partiamo da maggio: facciamone il mese della lotta allo spreco in campo alimentare. Per noi, per il Pianeta e per chi ne ha un dannato bisogno. Che la tradizione si rinnovi e che dimostri la sua modernità.

Aggiungo: facciamo pure i "presentosi". Vorrei proporre ai grandi chef creativi, stellati e meno stellati, di mettersi un poco al servizio della cucina degli avanzi e di inventare per noi nuove ricette atte a recuperare e riutilizzare gli ingredienti che abbiamo in casa. I piatti della tradizione che molte osterie continuano a proporre sono già un barlume: timballi, ripieni per paste come tortellini e agnolotti, zuppe con il pane raffermo. Ma vorrei che i cuochi più avanguardistici provassero anche loro a cimentarsi con il tema dello spreco. Visto che sono gli attuali preziosi e giustamente celebrati custodi del nostro savoir faire culinario (una volta erano le nonne, ma i tempi cambiano) sarebbe bellissimo che ci regalassero qualche novità anche in questo campo. Non finiremmo mai di esser loro grati. Pubblichiamo insieme un libro sulle ricette degli avanzi: potrebbe essere l´inizio del futuro della gastronomia, partendo dal passato. Ecco come si fa a passare dal fare di necessità virtù al rendere le Virtù una nostra necessità. Perché sono parte fondamentale del diritto di tutti al bello e al buono.

Postilla

L’antica minestra “le Virtù” è “anche un simbolo di condivisione e di appartenenza a una comunità”, scrive Petrini. Infatti raccontavano nel Teramano che quella minestra era anche una produzione collettiva del villaggio: ciascuno portava nella pentola comune i prodotti della sua madia e del suo orto. E raccontavano ancora che, ai tempi del Regno, alla vigilia del Primo maggio i Carabinieri arrestavano a scopo precauzionale, e mettevano in guardina, i “caporioni” sindacali, i combattenti delle lotte dei contadini, per evitare che essi organizzassero la festa e, con questa, un’occasione festosa di mobilitazione e di presa di coscienza, preludio di lotte future. Per far parteciparte i loro uomini alla solidarietà di classe e di villaggio le donne portavano loro le gavette con la loro generosa porzione di Virtù.

Volevano una Sardegna sfregiata. Non più torri nuragiche tra il Golfo degli Angeli e l’Asinara ma giganteschi mostri d’acciaio, pale eoliche più alte della cupola di San Pietro, 200 tonnellate di peso ciascuno. Dovevano sorgere sotto il Limbara cantato da Fabrizio De Andrè e il monte Ortobene dei pastori di Grazia Deledda. Erano i primi anni Duemila, col centrodestra al governo della Sardegna guidata, a fine legislatura, da un assessore tecnico alla Programmazione, Ugo Cappellacci, commercialista figlio del papà-commercialista che curava gli affari di Silvio Berlusconi tra Costa Smeralda e Porto Rotondo.

Era stata scritta una sentenza di condanna ad metalla dal Sulcis alla Nurra, perfino davanti a basiliche dell’arte romanica. Numeri da incubo: 2.814 aerogeneratori, uno ogni otto chilometri quadrati (in Germania, fra le nazioni leader per le energie pulite, il rapporto era di una pala per 23 chilometri quadrati). Sarebbe stato uno scempio. Emanuele Sanna, oggi sindaco Pd di Samugheo nell’Oristanese, ex presidente del Consiglio regionale negli anni ’80 quando la Regione dei Quattro Mori era guidata dal sardista Mario Melis, presidente del comitato sardo per il paesaggio, nel 2002 denunciava in convegni e articoli manovre losche: “L’eolico che ci stanno proponendo rischia di essere più inquinante del petrolio e del carbone”. A vantaggio dei laureati sardi senza lavoro? No. “I benefici – scriveva Sanna - sono facilmente individuabili fra le imprese italiane e straniere che su scala europea dànno la caccia ai siti meno costosi per intercettare non tanto il vento quanto incentivi finanziari e fiscali”.

I signori con la valigia

Una profezia? No. Buon fiuto politico. In quegli anni i Comuni dell’Isola erano meta quotidiana di “signori con la valigia” per promettere ai sindaci posti di lavoro a gogo e vagonate di soldi in nome del vento, dell’energia pulita destinata a trasformarsi in affare sporco e untuoso. La Sardegna – con quelle strategie sciagurate - sarebbe diventata “il territorio più eolizzato del Pianeta”. Vigeva la regola del progetta e raddoppia. Perché se l’Italia intera doveva produrre entro il 2012 circa 2.000 Megawatt di energia dal vento, solo in Sardegna erano previsti impianti per 4.000. Alla Regione guidata dal centrodestra ridens (tra i presidenti Mario Floris ex Dc, Mauro Pili pupillo del re di Arcore e Villa Certosa, Italo Masala ex An col superassessore Cappellacci filius) in soli due anni erano state presentate istanze “per 81 parchi eolici con un totale di 2814 aerogeneratori e una capacità produttiva di 3.765 Megawatt”.

I boss bussavano, gli assessori aprivano le porte. Per fortuna quella catastrofe paesaggistica viene evitata. Nella primavera 2004 la Regione passa al centrosinistra presieduto da Renato Soru. I primi atti sono di svolta radicale, in linea col programma elettorale. Si evita subito di gravare l’isola di servitù energetica oltre che di quelle, già pesantissime, militari. Il 23 luglio si fa tabula rasa del pasticciaccio. Tutte le autorizzazioni concesse a destra e manca, a imprese nazionali ed estere, a qualche amichetto da “cricca” locale più o meno legato ad ambienti massonici, vengono annullate. Perché? La nuova giunta rileva che, contrariamente a quanto disposto dalle leggi, “non era stato valutato l’impatto ambientale” e “non è stata rispettava la legislazione vigente”. Protestano in tanti, la Confindustria sarda agisce per conto terzi. È un no all’eolico? Alle energie pulite? No. È un no alla speculazione, all’arrembaggio energetico.

Eolico sì, ma (legge del 29 maggio 2007) “solo nelle aree industriali o in siti già compromessi o degradati ad esse contermini”. Non è il caso di sconvolgere colline e vallate con una selva di campanili d’acciaio che, tra l’altro, “arricchiscono l’estero aggravando i conti economici nazionali” senza risolvere il caso-energia. Che per la Sardegna si trasforma in caro-energia, essendo l’unica regione italiana senza metano aggravando per questo i bilanci di tutte le aziende industriali, anche non energivore.

Il ritorno della destra

Il resto è cronaca recente. Il centrosinistra litigioso e rissoso perde la guida politica della Regione. Che nel 2009 è nuovamente a regia centrodestra eterodiretta da Arcore e palazzo Grazioli. Cappellacci toglie i paletti issati dalla giunta Soru. In viale Trento tornano “i signori con la valigia”. Fa capolino il faccendiere Flavio Carboni. Ha i disco verde di Loris Verdini e può intrattenersi quanto vuole con Ugo Cappellacci. Tutti lì, per agitare i fili mossi dal vento. Ma anche quei fili dànno la scossa.

La procura della Repubblica di Napoli ha chiesto gli arresti domiciliari per il senatore del Pdl Vincenzo Nespoli. Appena due mesi fa, durante la campagna per le elezioni regionali il nostro eroe - che è anche sindaco di Afragola - aveva presentato una proposta di legge per aprire la strada ad un nuovo condono edilizio, il quarto della serie. Vinte trionfalmente le elezioni in Campania, la destra è passata all'incasso e in uno dei recenti consigli dei ministri si è già previsto il primo passo, e cioè il blocco delle demolizioni. Di sanatoria edilizia si continuava comunque a parlare e, finalmente, il teorico dei condoni ha rotto gli indugi. Il ministro dell'Economia Tremonti ha proposto di aprire le procedure di sanatoria anche per gli oltre due milioni di edifici che erano stati recentemente scoperti dagli uffici del Catasto.

Nel 2009 i tecnici di questi uffici avevano infatti effettuato il confronto tra le mappe catastali, quelle che certificano la legittimità delle nostre case, e le recenti foto satellitari. Solo con un controllo limitato al 25% dell'intero territorio si è scoperto che mancavano all'appello 571 mila edifici. Oltre due milioni sull'intero territorio nazionale costituite per lo più da edifici che hanno deturpato i luoghi più belli del paese e il paesaggio agricolo. Sono le ville di Ischia, della costa amalfitana, dell'Appia antica, delle coste siciliane e calabresi. In un paese normale sarebbe stata allertata la Guardia di Finanza per accertare caso per caso i motivi delle mancate denuncie e per applicare i provvedimenti previsti dalla legge: dall'acquisizione dei beni al patrimonio pubblico alla demolizione.

Siamo nel pieno di una crisi morale che investe il cuore delle strutture pubbliche e ci si aspetterebbe un segnale di discontinuità con il passato, teso a dimostrare che esistono ancora le regole del vivere civile, come il rispetto del paesaggio. Al contrario il centro destra presenta l'ennesimo condono. Siamo ormai nell'Italia fai-da-te. La serie delle sanatorie edilizie è infatti così ininterrotta e sistematica da non lasciare scampo. Nel 1985 il governo Craxi sana gli abusi storici. Nel 1994 il primo governo Berlusconi onora le promesse elettorali del "padroni a casa nostra". Nel 2003 sempre Berlusconi approva la terza sanatoria che farà felici e ricchi tutti i proprietari dei capannoni del nord-est. Lo scorso anno si aprono le porte al piano casa: chiunque ha una "villa" - così si è espresso lo statista brianzolo - potrà alzarla di un piano a prescindere dalle regole urbanistiche.

Come ha ben argomentato ieri su queste pagine Ugo Mattei, c'è un lucido disegno per disarticolare lo stato, annullandone ogni ruolo e prerogativa. Con il nuovo condono si distruggerà per sempre l'autorità dello Stato. Ne sarà certo felice il senatore Nespoli, così da ripagarlo un po' dell'amarezza della persecuzione giudiziaria. Ma come è possibile che nessuna forza politica di opposizione faccia sentire la sua voce per sfidare la destra sul terreno della legalità?

Aderite all’appello di eddyburg

Mentre la marea della corruzione monta come un oceano in tempesta, il presidente del Consiglio promette che i singoli responsabili pagheranno per gli errori, che le mele marce verranno selezionate e scartate. E così tutto potrà continuare come prima. Ma si tratta di una rassicurazione che non rassicura poiché più i giorni passano più appare chiaro che qui non si tratta di casi individuali ma di una rete nazionale di illecito, di un vero e proprio sistema di arricchimento alimentato e coperto anche da norme specifiche, come quella sulla Protezione Civile. In aggiunta c´è che questo è un tempo di crisi economica grave, e la corruzione, il furto delle risorse pubbliche, sono un delitto se possibile ancora più grave.

Non ci sono ancora dati statistici capaci di confermare la relazione diretta tra regime democratico e sviluppo economico; quella stabilita dagli studiosi è solo una relazione indiretta. Ci sono invece dati certi sulla relazione, diretta, tra corruzione e sviluppo economico o benessere generale. La triangolazione di questi tre fattori - democrazia, sana politica, sviluppo economico - è uno dei temi più studiati e anche quello che ci offre molti interessanti argomenti per contestare la favola delle mele marce. Detto a rovescio, è provato che indirettamente la democrazia serve a mitigare gli effetti economici negativi della corruzione. La prima e fondamentale ragione di questa "utilità" della democrazia sta nel fatto che il meccanismo elettorale consente ai cittadini di mandare a casa i politici corrotti (se un paese dovesse affidarsi solo ai tribunali, non avrebbe una società civile efficiente e libera). In buona sostanza, è l´effetto di deterrenza delle elezioni che dovrebbe riuscire a tenere sotto controllo i politici, ed è la sconfitta elettorale la punizione più efficace (proprio perché, come si vede, gli uomini di potere tendono a non volersene andare spontaneamente). Molto più chiara è la relazione tra salute politica e sviluppo economico. Detto a rovescio, la corruzione politica ha effetti diretti di impoverimento della società.

Perché corruzione e impoverimento vanno insieme? La risposta ci viene dalla natura stessa della corruzione. La corruzione è "l´abuso dei pubblici uffici o delle funzioni pubbliche per scopo di arricchimento" di privati o/e di gruppi. L´obolo offerto in vista di un calcolato guadagno dagli uomini d´affari ai politici può andare sia nelle tasche di un singolo ministro sia in quelle di un partito. La corruzione per il partito (che comunque non riguarda questo nuovo sistema di illecito) è corruzione. La natura del fatto non cambia con l´identità dell´«utilizzatore finale». La necessità che ha di celarsi alla legge e all´informazione qualifica la corruzione come una gravissima violazione di tutti principi, non solo quelli morali, etici, giuridici e politici, ma anche quelli economici. E veniamo così alla relazione diretta tra corruzione e impoverimento.

Lo scambio di favori - sul quale si raccontano casi tra i più bizzarri in questi giorni - agevola privati che operano nell´impresa, in quella delle costruzioni o industriale, commerciale o dei servizi. L´impresa del signor Anemone ha fatto grandi affari con i politici italiani in barba alle regole della libera competizione. Come un baro, il corruttore trucca il gioco e si arricchisce con e a spese di tre cose: il denaro dei contribuenti, le leggi e le norme, i potenziali competitori. Prestando attenzione a questa terna (fatale in tutti casi di corruzione) si intuiscono gli effetti devastanti che la corruzione ha sull´economia di un paese. E siccome nel caso della corruzione il danno è sempre fatto a tutte e tre insieme le vittime (le finanze dello stato, le leggi, il mercato) risulta evidente che davvero la corruzione deturpa la società democratica impoverendo l´intera società.

Impoverisce per l´ovvia ragione che si alimenta con i soldi che sono di tutti e che violando la trasparenza delle regole (per esempio quelle per l´attribuzione di appalti nelle Grandi opere o nei lavori pubblici ordinari) fa saltare il principio che presiede al contenimento dei costi: competenza su un piede di parità. La corruzione è un caso vero e proprio di attentato monopolistico all´economica di mercato. E una delle conseguenze perverse di questa turbativa delle buone pratiche è che gli imprenditori, sapendolo, si premuniscono in anticipo e si preparano a fare quello che fan tutti. Ecco spiegata la ragione per la quale la storia delle "mele marce" è una favola: la corruzione deve farsi sistema per avere successo; deve essere messa in conto da tutte le imprese che vogliono lavorare per il pubblico.

L´effetto escalation della corruzione - e la prova che la storia delle mele marce è una favola per gli stupidi - è molto ben descritto da queste parole usate da due studiosi (Shleifer e Vishny) a proposito del paese governato da Vladimir Putin: «Per investire in una compagnia russa, uno straniero deve corrompere ogni agenzia coinvolta nella transazione, inclusi il ministero degli esteri, quello dell´industria e dello sviluppo economico, quello delle finanze, il governo locale dell´area dove avverrà l´investimento, la banca centrale, l´ufficio centrale delle opere pubbliche e così via. L´ovvio risultato è che gli stranieri non investono in Russia». E qui siamo nella perfetta condizione di impoverimento generale a causa dell´arricchimento di pochi o pochissimi per vie illecite. Gli impoveriti non fanno notizia. Ne farebbero, e farebbero un gran rumore, se la democrazia funzionasse. E qui veniamo al punto: la democrazia ha le regole adatte per disincentivare la corruzione mandando a casa i politici corrotti. C´è da pensare, proprio perché questo teorema è noto a chiunque, che chi vive di corruzione non ami la democrazia e voglia fare di tutto per imbavagliarne la voce libera e pubblica. Questa è una storia di casa nostra.

E’ impressionante la forza che possiede la stupidità, nella vita degli Stati europei e in quella dell’Unione. La crisi economica iniziata nel 2007 avrebbe dovuto insegnar loro un po’ d’intelligenza supplementare, e persuaderli che i tempi dell’incertezza erano finiti, che la politica doveva riacquistare un primato, che l’ora di un governo europeo era infine sopraggiunta. Invece si direbbe che la crisi non abbia impartito lezione alcuna, nonostante le grandi spese che l’Unione si sta sobbarcando. Si versano soldi in quantità e nelle nazioni si predispongono piani di sacrifici dolorosi, ma come dissero a suo tempo Fruttero e Lucentini: la cretineria prevale, e quel che l’Europa sa far meglio è l’ottusa «manutenzione del sorriso». L’euro vacilla sempre più, ma i capi di governo fingono letizia, immaginando di suggestionare i mercati col buon umore.

Della tempesta non parlano, per non dover parlare delle proprie responsabilità, e sperano che come per miracolo i mercati si calmino. Intanto pagano e questo non è male, ma pagare non è tutto quel che occorre. La politica, hanno l’impressione di averla già fatta. La leadership, di averla già esercitata: con il trattato di Lisbona, con qualche vertice fra i governi più importanti. Così vivacchiano ancor oggi, grosso modo soddisfatti.

La costituzione è fallita in questi anni, ma il trattato di Lisbona ha preso il suo posto e il grosso è fatto. L’unico elemento positivo della crisi è che i governi non se la prendono più con gli eurocrati di Bruxelles, d’un tratto. In cuor loro sanno perfettamente che se l’Europa è considerata nel mondo un’impresa minacciata di morte, la colpa è degli Stati e dei politici nazionali.

Il cretino molto spesso si dissimula dietro le vesti del pragmatico, del moderato, di chi pretende di aver appreso la feconda arte della disillusione, dello spirito blasé. Nessuna passione lo agita più, nessuna grande idea innovatrice, se non il desiderio di posti e di cariche. L’Inghilterra è maestra in quest’arte solo apparente del disincanto, impastata in realtà di illusioni e incanti: illusione di potercela fare da sola, come nazione erede di un impero; incanto che occulta i fatti reali e riempie il vuoto con l’affaccendarsi più che col fare. In questi giorni c’è chi parla addirittura di rivoluzione in Gran Bretagna, e tutti sono eccitati perché per la prima volta gli inglesi fanno l’esperienza, molto continentale, di un governo di coalizione. Ma al momento, l’esperienza è un guscio vuoto. Tutto quello che i liberal-democratici di Clegg hanno fatto è retrocedere nella loro battaglia europeista, pur di fare un governo giovane, fotogenico e ilare con Cameron, l’antieuropeista. Il colmo è stato raggiunto, il giorno dell’accordo, da Graham Watson, deputato liberale al Parlamento europeo. «Sull’Europa non c’è problema», ha detto alla Bbc: primo perché nell’euro l’Inghilterra non entrerà comunque; secondo perché l’Unione ha già operato tali e tanti cambiamenti, da quando ha approvato il trattato di Lisbona, che il riposo e le pantofole sono più che legittimi. Per un bel po’ di tempo, ha aggiunto, altri trasferimenti di sovranità non sono né previsti né auspicati.

Così ragionano i pragmatici, o meglio i rinunciatari, quasi camminassero in una fresca radura e non in mezzo a incendi. Proprio ora ci vorrebbero nuovi trasferimenti di sovranità, perché l’Europa diventi finalmente un soggetto politico credibile (credibile davanti ai mercati, agli Stati Uniti, alla Cina, all’India) e proprio ora i suoi dirigenti dicono, come quando ti si accampano davanti un secondo e un terzo mendicante: «Abbiamo già dato».

Eppure quasi ogni giorno la cosa appare evidente: la crisi che traversiamo e i sacrifici che saranno chiesti ai cittadini sono tali, che senza trasformazioni decisive dell’Unione c’è poco da sperare. Non lo affermano solo i mercati, che non sembrano credere nell’Europa ma di cui si può pensare: hanno l’istinto del gregge, ascoltano il primo che passa.

L’Europa e l’euro sono ritenuti moribondi anche da politici americani di primo piano come Richard Haass, direttore del Council of Foreign Relations e consigliere di vari presidenti. Anche dall’ex governatore della Federal Reserve Paul Volcker. Lo storico Niall Ferguson, esperto in declini di imperi (romano, britannico, americano), lo dice a chiare lettere, su Newsweek: «La grande decisione che l’Unione deve prendere non è se salvare la Grecia. È se trasformarsi in Stati Uniti d’Europa, o essere una versione moderna del sacro romano impero, una bislacca accozzaglia “a geometria variabile” che prima o poi si frantumerà». Economicamente l’Europa sta meglio degli Stati Uniti. Ma questi non muoiono perché sono un sistema politico federale, dunque un soggetto visibile. Dietro il dollaro c’è uno Stato, che riequilibra le disparità interne: «In America il salvataggio del Michigan viene fatto dal Texas in modo automatico, attraverso la ridistribuzione del reddito e i proventi della tassa sulle imprese». Dietro l’euro c’è un’armatura e dentro l’armatura un cavaliere inesistente.

Bisogna davvero esser lenti a capire e sconfinatamente svogliati, per pensare dopo il tremendo biennio 2007-2009 che i mercati e l’economia siano tutto, e talmente bravi ed efficaci da dettar legge. Che la moneta unica e la prosperità del vecchio continente possano sussistere senza un potere politico, alle spalle, che coincida con l’area dell’euro. Che mercati e agenzie di rating restino infallibili, abilitati a ripetere i disastri e le bolle speculative degli ultimi anni. Nonostante questo suo impazzimento, l’economia continua a essere l’idolo davanti al quale la politica, svuotata dal di dentro, senza timoniere, molto pragmaticamente si adatta.

È come se l’Europa non avesse, nel proprio bagaglio, una grande cultura fatta di scetticismo verso i mercati e il predominio dell’economia: una cultura che ha prodotto guerre fratricide ma ha anche saputo difendersi da esse inventando la democrazia, la separazione dei poteri, l’autonomia della politica, lo Stato sociale. Una cultura che nel dopoguerra ha dato vita a un’unione di Stati consapevoli dei propri limiti e decisi a mettere insieme le proprie vecchie sovranità. Un’unione che ha custodito inoltre il Welfare, in modo da spegnere in anticipo gli estremismi scatenati nel secolo scorso dalla questione sociale.

È come se nella nostra storia non ci fosse stata, contro il predominio del mercato e dell’economia, una lunga tradizione che va dalle visioni etiche e politiche di Condorcet e Adam Smith alle proposte sociali e politiche di Beveridge e Keynes. È dal Settecento che l’Europa produce idee in questo campo, oggi dimenticate. Condorcet, che pure credette nella razionalità degli economisti a lui contemporanei, vide già allora i pericoli: «Agli occhi di una nazione avida, la libertà non sarà più che la condizione necessaria alla sicurezza delle operazioni finanziarie».

L’euro è nato con questo vizio, fondamentale. Il mercato e le banche erano tutto, il grande demiurgo era a Francoforte. La politica era chiamata a garantire la libertà necessaria alla sicurezza delle operazioni finanziarie. L’armonia si sarebbe imposta spontaneamente, e al peggio non urgeva pensare. Invece il peggio è venuto. È già qui fra noi. Si può fingere che non esista, e dare alla finzione il nome di pragmatismo. Ma il pragmatismo senza una trasformazione dell’Europa non è pragmatismo né tanto meno disincanto. È un’ideologia con aspirazioni egemoniche acutissime. Ha la forza della stupidità quando impigrisce. La forza di bloccare i nuovi necessari trasferimenti di sovranità, come nei desideri degli inglesi o della Corte costituzionale tedesca. Ha il potere, magari gratificante ma enormemente inutile, di chi è addetto alla manutenzione del sorriso mentre la crisi economica si abbatte sulle società e le democrazie per spezzarle.

Parla Ivan Cecconi, presidente dell'Istituto per la trasparenza degli appalti pubblici: «La spartizione dei finanziamenti è stata legalizzata. Imprenditori e politici si spartiscono la torta delle commesse di stato. Che ci costano due o tre volte di più del loro prezzo di mercato»

Le inchieste di questi giorni sono un «cascame» della vecchia Tangentopoli, una trasformazione di un animale che tende sempre a risorgere. Ivan Cicconi, direttore dell'Istituto «Itaca» per l'innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, finanziato dalle regioni. Si occupa di tangenti e corruzione nella pubblica amministrazione dai tempi della prima tangentopoli. E' un attento analista delle tematiche legate agli appalti. «Quello che accade oggi è molto peggio del sistema scoperchiato dalle inchieste di mani pulite» ripete più volte, mentre prepara l'intervento che terrà questa mattina a Milano ad un convegno di Libera dedicato, appunto, al rapporto tra Mafia e appalti.

Perché dice che questo momento è peggiore di Tangentopoli?

Tangentopoli era un sistema occulto che aveva delle regole. Si celebrava fuori dal funzionamento economico delle imprese e dell'amministrazione pubblica, era palesemente parallelo. C'era una cupola forte di partiti con tesorieri che avevano il controllo puntuale di tutto quello che avveniva e una cupola altrettanto forte di imprenditori, le maggiori imprese nazionali, che per far funzionare il sistema passavano soldi dalle imprese ai partiti. La situazione è peggiorata perchè il sistema di relazione fra politici, boiardi di stato e imprese ha inquinato il rapporto fra pubblico e privato; è entrato nei meccanismi, nella gestione della spesa pubblica e nella gestione delle stesse imprese attraverso un fenomeno poco indagato e poco analizzato dalla stampa nazionale che è la privatizzazione della spesa pubblica attraverso società di diritto privato controllate da comuni, regione, province e stato.

E' un riferimento a modalità per realizzare le opere come il project financing?

Esatto. Mentre la spesa pubblica durante tangentopoli aveva un carico dal 5 al 10% della tangente occulta ma che doveva essere contabilizzata, oggi il sistema è entrato nei meccanismi strutturali e il totale della spesa pubblica è diventata una sorta di tangente. La spartizione si celebra in maniera quasi palese, alla luce del sole, con opere che non sopportano il peso del 5% in più ma diventano il doppio o il triplo del costo reale che hanno. Un esempio tipico è quello dell'alta velocità: la Corte dei Conti in una relazione del 2008 e la stessa Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici in una relazione del 2009 attesta che i costi sono stati quattro, cinque volte superiori delle infrastrutture fatte con le stesse tecnologie realizzate in Spagna e Francia.

Nelle notizie di questi giorni sulle inchieste grandi appalti c'è un esempio di questa nuova tangentopoli?

Le vicende che emergono sono un fatto residuale, è il cascame di tangentopoli senza più le cupole forti dei partiti e degli imprenditori. Chi celebra queste cerimonie dei favori? Boiardi di stato che hanno pezzi di potere, Balducci piuttosto che Bertolaso, che approfittano della loro situazione di potere per avere favori e il politico di turno. Gli imprenditori gestiscono scatole vuote: Anemone o Tarantini fanno affari gestendo favori. E' il cascame perché Balducci o Bertolaso con la cupola dei partiti e i tesorieri che controllavano i flussi non si sarebbero mai permessi di fare queste operazioni. Il sistema vero della nuova tangentopoli è il keinesismo alla rovescia che si celebra nelle istituzioni e nella spesa pubblica privatizzata. Nelle migliaia di società miste costituite da comuni, provincie e regioni che consentono di spendere denaro pubblico senza nessun controllo e con sistemi di nomina delle società e dei cda gestiti da questo sistema partitocratico senza nessun partito.

Quali sono, se ci sono, sistemi di contrasto a questo nuovo sistema?

Ci sono due strade: adeguarci seriamente alle norme europee sugli appalti pubblici. Sul piano delle procedure in Italia ci sono le stesse procedure che ci sono in Europa. Il problema è la definizione degli istituti contrattuali del rapporto pubblico-privato, degli oggetti che si affidano tramite le procedure: le gare e le opere pubbliche regolate dalle direttive europee. Abbiamo modificato profondamente gli istituti contrattuali definiti dall'Europa e li abbiamo adattati consentendo di fatto il trasferimento di un potere enorme alle imprese. L'altro elemento di contrasto è la trasparenza, ovvero rendere evidente il tutto, con norme che non sono applicate.

Un esempio di una norma non applicata sulla trasparenza?

Le vicende di cronaca degli ultimi giorni riguardano affidamenti secretati. Rendere segreto l'affidamento per il G8 o per la ricostruzione de L'Aquila è semplicemente una follia, una forzatura della normativa. Questi hanno potuto fare quello che hanno fatto anche per questo motivo: erano liberi di fare quello che volevano. Esistono norme sul sistema delle nomine delle società: nella finanziaria 2007 si obbligano i comuni e gli enti loclai a pubblicare sui siti le nomine delle società partecipate, con le rispettive restribuzioni. Viene applicata dal 10% dei soggetti obbligati.

Il parziale sblocco del cosiddetto federalismo demaniale non deve ingannare. L’avvio del censimento dei beni pubblici da "devolvere" alle autonomie locali è poco più che un passo nel vuoto del mitico "federalismo italiano". Il più drammatico "effetto collaterale" della tragedia greca che ha sconvolto i mercati, infatti, riguarda proprio il federalismo fiscale.

Nel governo berlusconiano e nella maggioranza forzaleghista nessuno ha il coraggio di dirlo pubblicamente, al Paese e al Parlamento. Ma è ora di chiarire l’equivoco. Il federalismo fiscale non si fa più. E’ ormai fuori dall’agenda della legislatura. Il vessillo della Lega, l’obiettivo mistico vagheggiato da Bossi fin dai tempi dell’ampolla pagana sul Dio Po, sventola ormai solo nelle adunate padane del Carroccio. Ma non sventola più sui palazzi romani, da Palazzo Chigi a Via XX Settembre.

Anche se non lo confessa, perché non può farlo per evidenti ragioni politiche, quella bandiera l’ha ammainata Giulio Tremonti per ragioni economiche. Costretto dal collasso della Grecia e dall’attacco della speculazione contro la moneta unica e i debiti sovrani di Eurolandia. Il ministro del Tesoro deve alzare le mani. Per il federalismo fiscale non c’è un euro a disposizione. Dopo mesi di silenzi e di equivoci sul costo effettivo dell’operazione, è ormai chiaro a tutti che non ci sono le risorse necessarie per farla decollare. Fatta la legge delega, una scatola vuota costruita solo per accontentare la Lega, ora non c’è niente da mettere dentro i decreti delegati.

C’è un vincolo "interno", che pesa come un macigno. E’ il debito degli enti locali sul versante sanitario, che a legislazione vigente impone ad almeno quattro regioni (Lazio, Campania, Calabria e Molise) di ripianarlo a colpi di inasprimenti fiscali. Ed è, più in generale, il costo stimato del federalismo tanto caro al Senatur. L’ultima stima, aggiornata sui bilanci delle regioni nel 2008, l’ha fornita la Commissione tecnica paritetica per il federalismo, nel rapporto curato da Luca Antonini e appena depositato in Parlamento. E’ una cifra scioccante: per assicurare il passaggio al federalismo nelle materie strategiche (cioè sanità, istruzione e assistenza sociale) occorrerebbero quasi 133 miliardi di euro calcolati in termini di spesa storica (caratterizzata da sprechi, iniquità e inefficienze di ogni genere). La riforma federale, com’è noto, ruota intorno al principio dei "costi standard" delle prestazioni, cioè quelli considerati ottimali secondo i livelli dei servizi raggiunti dalle regioni più efficienti. Ebbene, anche a voler dimezzare l’esborso necessario, nel passaggio dalla spesa storica a quella standard, il federalismo fiscale costerebbe allo Stato non meno di 60 miliardi. Dove può trovarli, il pur fantasioso Tremonti, dentro un bilancio pubblico in cui non c´è un centesimo neanche per finanziare uno 0,1 per cento di sgravi dell’Irpef sulle famiglie meno abbienti?

Ma c´è soprattutto un vincolo "esterno", che è tornato più che mai a gravare sulle antiche disinvolture contabili del Paese. C’è un prestito ad Atene da 5,5 miliardi, da approvare nei prossimi giorni. C’è una manovra aggiuntiva in agguato, tra l’estate e l’autunno, che porterà l’insieme delle misure di contenimento del deficit e del debito a sfiorare i 30 miliardi. E c’è un’Europa in questo momento a forte impronta tedesca, ben rappresentata dalla Commissione europea e dalla Bce, che in cambio del colossale piano di aiuti per difendere i debiti sovrani esige cure draconiane dagli stati membri più esposti. L’Italia è tra questi, nonostante le chiacchiere consolatorie del governo. Quando in una "normale" giornata sui mercati finanziari gli speculatori "puniscono" la Borsa di Milano e quella di Madrid, mentre premiano quella di Francoforte, c’è con tutta evidenza un giudizio di merito che non riguarda solo l’alta esposizione debitoria di uno Stato, ma l’inadeguatezza competitiva di un intero Sistema-Paese. E quando a Bruxelles nasce un "superpotere" che impone ai singoli governi di anticipare alla prima parte dell’anno i programmi di stabilità e irroga sanzioni più severe ai paesi che sforano, fino ad imporgli un deposito cauzionale "in caso di politiche di bilancio inadeguate", allora è evidente che l’Italia non ha più alcun margine di autonomia.

Siamo a tutti gli effetti un Paese "a sovranità limitata". Per questo, nonostante gli artifici verbali del "mago dei numeri" che abita al ministero dell’Economia, non ci sono e non ci saranno i soldi per il federalismo fiscale. Sarebbe il caso di ammetterlo, con grande onestà e assoluta chiarezza. Ma le conseguenze politiche di questo riconoscimento sono devastanti. Chi può assumersi questo compito immane? Nessuno ha il coraggio, tra Berlusconi, Bossi e Fini, che "Economist" in uscita oggi definisce sprezzantemente "The three Stooges", i "Tre marmittoni", riprendendo una vecchia serie televisiva americana degli anni ‘40. «L’effetto della decentralizzazione federale – scrive persino il settimanale inglese – sarà quello di aumentare la spesa, non certo di ridurla».

Per questo, dichiarare apertamente di fronte ai cittadini e alle Camere che il federalismo fiscale salta, significa proclamare sostanzialmente finita l’attuale maggioranza e virtualmente conclusa la presente legislatura. Nelle condizioni attuali, interne e internazionali, tutto questo può avere due sbocchi. Uno porta dritto alle elezioni anticipate. Bossi e i suoi ministri, a Roma, non possono incassare la sconfitta sul federalismo, senza pagare un pegno elevatissimo nelle valli padane dove hanno trionfato grazie a quel feticcio verde sospeso tra politica e mitologia. Dunque la Lega, se con il federalismo perdesse la sua "ragione sociale", aprirebbe subito la crisi e punterebbe al voto anticipato. Anche Berlusconi, a sua volta inguaiato dagli scandali nel Pdl e imbrigliato dai Poteri Forti delle tecnocrazie europee, sarebbe pronto a cavalcare la rabbia leghista, e a tornare alle urne. Ci sarebbe già una data, secondo i bene informati: marzo 2011.

Ma c’è una variante, ed è proprio l’Europa. Con questa crisi rovinosa, e con il fucile puntato della speculazione sul mercato dei titoli di Stato, non c’è spazio per elezioni anticipate. Sarebbero un suicidio, che il Paese rischierebbe di pagare con la bancarotta. Il presidente della Repubblica non scioglierebbe mai le Camere, e un governo di salute pubblica, magari con Mario Draghi premier, otterrebbe davvero una maggioranza "in dieci minuti", come disse Casini qualche mese fa. Per questo, alla fine, lo sbocco più probabile di questa situazione porta a una crisi di fatto, anche se non di diritto. Ad un impasse totale: né elezioni anticipate, né riforme. Il nulla, cioè. Un governo di pura sopravvivenza, sotto tutela e praticamente "commissariato" da Bruxelles, che per i prossimi tre anni si limita a non fare e a non spendere, per non dover poi portare i libri in tribunale. E’ il peggiore degli incubi. Non solo per Berlusconi che ormai, comunque vada, si avvicina al capolinea. Ma per tutti gli italiani che aspettano più lavoro, più crescita, meno sprechi e meno tasse.

La madre, la moglie, la figlia, la suocera. Il fratello della fidanzata, il cognato, la ragazza dell’amico del figlio, l’ex ragazza. L’amante, la segretaria, l’autista. Il figlio del giardiniere della casa di campagna. Il capo di gabinetto, il capo dell’ufficio legislativo, il capo del dipartimento, l’archivista, il dirigente Rai, il giornalista, il regista, il produttore, il generale. L’assistente del generale. Il ragioniere, suo genero l’attore. L’ex moglie. La sorella. Il miglior falegname della città, come lo chiama Bertolaso, ha la mappa dettagliata delle parentele e delle relazioni fino al quinto grado, coppie di fatto e clandestine comprese, dei suoi clienti. Siccome è preciso - la mole di lavoro, del resto, possente - annota in un quadernetto. A volte col solo nome di battesimo. Altre volte col solo indirizzo. In casi di intimità estrema con l’iniziale, con un nomignolo affettuoso.

Il miglior falegname della città è generoso: non segna cifre, niente importi, non un pagato o da pagare come succede, per dire, a chiunque di voi porti il cappotto in lavanderia. No, con le case ai Fori o a Cortina non funziona così. A volte dimentica persino di aver realizzato i lavori o di aver fatto dono di un appartamento. Nel mucchio può succedere. Poi capita anche che qualcuno pretenda di pagare, per i lavori ottenuti: una bizzarria, una forma di moralismo che va compresa e assecondata. Qualcuno certamente ha pagato. C’è chi ha persino conservato le ricevute, gente d’altri tempi. Per il resto: tutto in un conto unico. In cambio di che cosa lo dirà la magistratura, voi intanto siete liberi di immaginare per quale motivo un falegname così prodigioso da esser divenuto il titolare delle ristrutturazioni per conto dei servizi segreti oltre che delle più costose e grandi opere pubbliche degli ultimi anni si adoperasse a riparare tapparelle a casa della suocera del funzionario del ministero, si figuri se disturba, ci mancherebbe.

La moglie di Guido Bertolaso lavorava per lui. Non è vero che l’abbia fatto solo prima che Anemone si aggiudicasse gli appalti, come ha detto suo marito in conferenza stampa. Il falegname con gli occhiali a specchio faceva lavoretti per Bertolaso - in casa e in ufficio - da molto, molto prima che la signora rimettesse a posto i giardini del Salaria Village. Una piccola menzogna, certo, nel monte di falsità e nella palude di corruttela che la cricca gelatinosa ha costruito e poi abitato per anni. Bisogna partire da quelle spudorate menzogne (omissioni? dimenticanze?) e tirare il filo. Basta, davvero. Devono andarsene, la cloaca di corruzione non può ingoiare il paese intero. Lo divoreranno. Non lasciamoglielo fare. Pretendiamo le dimissioni di chi ha corrotto e chi si è fatto corrompere, pazienza se strilleranno che è una congiura, una gogna, un complotto. Hanno sempre fatto così: colti in flagrante, messi di fronte all’evidenza dei fatti hanno protestato cose tipo: state violando la privacy. Loro invece stanno violando l’ultimo residuo di dignità. Anemone ha avuto anche i lavori di ricostruzione della scuola di San Giuliano, quella dove morirono 27 bambini e un insegnante. Di terremoto in terremoto hanno fatto miliardi e lasciato a noi le macerie. Non sono gli italiani senza lavoro né speranze a dover lasciare il paese. Sono loro che devono andarsene. Ricostruiremo da capo. Staremo meglio.

ROMA - Fiumi e laghi che attraversano più regioni, come il Po e il Garda, rimarranno in capo allo Stato. Così come il Quirinale, le sedi di Camera e Senato e quelle degli altri organi di «rilevanza costituzionale». Spiagge e caserme dismesse passeranno invece agli enti locali. Mentre in commissione bicamerale compare la bozza di parere sul federalismo demaniale - che prevede un via libera condizionato al progetto leghista - è braccio di ferro tra Carroccio e opposizione sul calendario. La Lega è decisa a portare la creatura del ministro alla Semplificazione Roberto Calderoli al prossimo Consiglio dei ministri utile, probabilmente quello della prossima settimana, mentre Pd, Idv e Api hanno chiesto qualche giorno in più per risolvere i nodi ancora aperti, costi dell´operazione demaniale in testa.

La bozza sul primo tassello del federalismo fiscale è stata discussa ieri dalla bicamerale. A sorpresa presente il leader leghista Umberto Bossi, arrivato a dar manforte a Calderoli. La proposta di parere messa a punto da Marco Causi (Pd) e Massimo Corsaro (Pdl) pone alcuni paletti in grado di dare qualche nuova indicazione sulla faccia che assumerà l´Italia federalista. Per quanto riguarda il demanio idrico, i relatori hanno suggerito di escludere i beni «di ambito sovra regionale», come appunto il Po e il Lago di Garda, da quelli trasferibili. Gli specchi d´acqua «chiusi e privi di emissari di superficie», come il Lago di Bracciano, andrebbero invece alle province. Per il resto i beni del demanio idrico e marittimo, come le spiagge, saranno trasferiti alle regioni, anche se una quota dei proventi derivanti dalle concessioni andrà alle province.

Secondo il parere, entro un anno andranno quindi individuati i beni del ministero della Difesa, le caserme dismesse, da trasferire agli enti locali. Sono previste anche sanzioni per gli enti che non rispetteranno gli obiettivi per cui hanno richiesto l´assegnazione di un bene. Ad ogni modo le spese per la gestione non peseranno ai fini del Patto di stabilità interno per un importo pari a quanto lo Stato già spendeva per la gestione dello stesso bene. Se un ente venderà il bene ricevuto dovrà usare l´85% dell´incasso per abbattere il suo debito (in caso di attivo dovrà reinvestire) mentre il 15% andrà al fondo per l´ammortamento dei titoli di Stato. La bozza della bicamerale suggerisce poi che ogni 2 anni vengano attribuiti agli enti locali i nuovi beni «eventualmente resisi disponibili».

Dopo la discussione del testo la Lega ha fatto sapere di voler portare il federalismo demaniale al più presto al Consiglio dei ministri. Un modo per centrare l´obiettivo della sua approvazione entro un anno dall´entrata in vigore della delega, e cioè il prossimo 21 maggio. L´opposizione ha invece chiesto più tempo per affinare il testo. Bossi ha smentito qualsiasi tipo di problema sulla questione dei costi («col federalismo lo Stato ci guadagna») o con Tremonti («con lui è tutto a posto») ma ha sottolineato: «Vedo che la sinistra vuole allungare un po´ i tempi». Anche per questo il Senatur si è fatto vedere nel pomeriggio alla bicamerale insieme a Calderoli, che da mesi è al lavoro sul decreto demaniale, il primo tassello della realizzazione pratica del progetto federalista approvato un anno fa. E sul calendario ha vinto il centrodestra, approvando a maggioranza (contrario il Pd) la proposta che fissa il voto sul parere per mercoledì prossimo. Il democratico Francesco Boccia ha avvertito che la fretta potrebbe essere letale. L´Udc deciderà nei prossimi giorni il proprio orientamento: «Ci siamo riservati di riesaminare il testo che ha accolto alcune nostre spiegazioni», ha spiegato il centrista D´Alia. Critica l´Api, che con Linda Lanzillotta ha sottolineato il rischio di un «supermercato del patrimonio», mentre l´Idv ha chiesto i costi del provvedimento contro il quale ieri i Verdi hanno organizzato un sit-in di denuncia di fronte a Montecitorio.

Nelle prossime settimane si aprirà una potente campagna mediatica che, oltre a far scomparire le responsabilità della crisi, tenterà di ridurre la spesa pubblica assestando un altro colpo alle condizioni di vita dei lavoratori. Se non vogliamo far vincere ancora "mano lesta", cioè il partito di coloro che nonostante il tragico fallimento del neoliberismo continuano a proporre le stesse ricette, dovremmo iniziare a fare proposte efficaci e immediatamente comprensibili. Partendo, ad esempio, dalla grande opportunità offerta dalla vicenda della protezione civile.

Diego Anemone, un modesto e giovane uomo d'affari, aveva nel granaio così imponenti provviste economiche da potersi permettere di pagare un milione di euro per aiutare ad acquistare casa ad un solo ministro. Stando alle anticipazioni giudiziarie, c'è una fila interminabile di uomini politici o alti dirigenti statali che non disdegnavano concreti favori da Anemone: ristrutturazioni di case, manutenzioni, fornitura di mobili. Tutti soldi anticipati dall'imprenditore ma che rientravano nel suo portafogli con giganteschi interessi attraverso l'affidamento di opere pubbliche. Ricchezze che venivano alimentate da una spesa pubblica senza controllo. Dicono le indagini in corso che il solo Angelo Balducci pretendeva il 10% dell'importo dei lavori. Mettiamoci gli altri soggetti tecnici, dai direttori dei lavori ai collaudatori amministrativi e tecnici e arriviamo a somme da capogiro.

La Corte dei Conti ha stimato in oltre 60 miliardi di euro l'ammontare dei soldi che vengono sottratti dalle casse dello Stato attraverso il sistema della corruzione. Ad ogni cittadino italiano vengono sottratti mille euro all'anno, una impressionante tassa aggiuntiva occulta. A metterci le mani nelle tasche non è soltanto la cricca. C'è il sistema delle grandi opere, a cominciare dal Ponte sullo Stretto che ha già fatto guadagnare ricche prebende ai soliti noti. C'è il buco nero dell'Anas. C'è l'alta velocità ferroviaria, costata alle casse dello stato 51 miliardi di euro che sono andati ad ingrossare i bilanci di non più di venti grandi imprese nazionali. Ma di questo, ovviamente, la severissima Confindustria non parla: preferisce accanirsi contro ogni spesa a favore dei lavoratori e non ha interesse a mutare questo indecente stato delle cose. Uno dei centri vitali dello stato, quello della spesa per le opere pubbliche, è sequestrato da una struttura di potere di uomini politici, di tecnici compiacenti e di imprese che spesso controllano i grandi mezzi di informazione. Tagliando questo sistema malavitoso un comune di duemila abitanti potrebbe avere un ritorno di 2 milioni all'anno. Una cifra utile a interrompere la spirale degli ultimi anni in cui i comuni per fare cassa sono stati istigati a vendere beni pubblici o a incrementare la realizzazione di nuovi inutili quartieri. Con quei soldi si potrebbero mettere in sicurezza le scuole, curare i parchi, i beni culturali o lasciare aperti i pochi servizi sociali ancora esistenti. Il comune di Roma avrebbe in dote quasi tre miliardi all'anno, molto di più dei 500 milioni stanziati dal governo con grandi squilli di tromba.

Mettere fine a un sistema perverso che fa affluire miliardi a pochi speculatori e ad un sistema politico marcio è un modo efficace per evitare un ulteriore taglio dello stato sociale. Ma la sinistra è muta, incapace di incalzare su un terreno estremamente favorevole. Per tornare ad essere credibili basterebbe chiedere che il controllo della spesa per le opere pubbliche e per la sanità sia affidato a galantuomini estranei alla politica e con il conseguente taglio di spesa evitare ogni altra macelleria sociale.

Confesso di aver capito poco o nulla dell’utilità pratica (e dell’equità) del federalismo demaniale e di quello fiscale spiegate a «Ballarò» dal governatore del Piemonte Roberto Cota (Lega Nord). Ne sono uscito più allarmato che mai. L’Italia unita rischia di impiccarsi alla data-capestro del 21 maggio entro cui il primo va approvato in forza della legge-delega n. 42 del 2009.

Sappiamo da ieri che Bossi, dismesso l’elmo celtico e vestito non so se da Urbano II, papa francese, promotore della Militia Christi e della Prima Crociata, o da Godefroy de Bouillon (Goffredo di Buglione), muoverà da Piacenza verso sud con una “crociata” leghista. Non sappiamo invece quanto costerà il federalismo fiscale. Noi ridiamo, però c’è chi ci crede e la Lega, il più fedele alleato di Berlusconi, va avanti: il Pdl marcerà compatto sul il federalismo demaniale, prima tappa di quello fiscale? Il solo a levare moniti severi sull’Unità d’Italia è il presidente Napolitano. Le opposizioni non alzano barricate (forse per non dispiacere i propri sindaci e governatori). L’italico “spezzatino” può anticipare la secessione del Nord che Bossi vuole da sempre.

Il federalismo demaniale trasferisce beni sinora di tutti agli enti locali e regionali per supportare altre competenze trasferite alle Regioni. Il loro valore era stimato sui 5 miliardi di euro. Poi ridimensionato a 3,2 e anche meno (escludendo le Regioni a statuto speciale). Beni fino ad oggi posti a garanzia del crescente debito pubblico e che ora verrebbero “valorizzati”, cioè svenduti (il mercato immobiliare è fermo e gli enti locali affamati di soldi), e addio garanzia. Inoltre, la maggior parte di tali beni è al Nord e il 27% nel Lazio. C’è un meccanismo perequativo? Cota vi ha accennato, ma non s’è capito. Per ora è certo che ne trarrebbero vantaggi il Nord e il Lazio e svantaggi il solito Sud.

Sono caserme, tratti di costa, spiagge (le concessioni sono già gestite dalle Regioni peraltro), il demanio idrico e quello marittimo, poligoni di tiro, importantissimi dal punto di vista paesaggistico perché ragioni di sicurezza hanno imposto di conservare intatte enormi aree tutt’intorno. Avremo il sacco di beni oggi di tutti? Non rendono molto e però sono collettivi. Mancano nove giorni alla data-capestro e mancano anche elenchi dettagliati di quei beni. Ne sono esclusi quelli di “alto valore culturale”. Chi li individua? Non si sa. Le Soprintendenze? Non è certo.

Siamo dentro una crisi epocale che esige una cabina di regìa forte e un ferreo controllo della spesa. Mentre il federalismo i centri di spesa li moltiplica. Perché dovremmo impiccare l’Italia alla data del 21 maggio? Per l’alleanza Bossi-Berlusconi? Per i deliri dei Crociati leghisti stile 1096? Noi ridiamo, ma loro vanno avanti.

Se l’ignaro spettatore, senza nessuna conoscenza del nostro paese, leggesse la presentazione di Draquila-L’Italia che trema al festival di Cannes contenuta nel catalogo ufficiale che accompagna le proiezioni, avrebbe l’impressione di un’Italia sull’orlo della dittatura [e non avrebbe torto! n.d.r.]. «Perché gli italiani votano Berlusconi? La virulenza della propaganda, l’impotenza dei cittadini, un sistema economico precario, giochi di potere illegali, una città devastata dal terremoto: sono questi - si legge nel catalogo nella presentazione del film in programma domani - i fattori che, combinati insieme, possono spiegare come la giovane democrazia italiana sia stata assoggettata». E ancora «la caricatura di Berlusconi - una delle imitazioni più celebri dell’attrice - passeggia nella tendopoli dell’Aquila e vaga nella città deserta, come un imperatore alla fine di un regno... ». Perfino più pesanti le considerazioni della rivista Le film français: l’Aquila, devastata dal terremoto - si legge - «diventa lo spazio ideale per raccontare la deriva autoritaria dell’Italia, l’imbroglio dei ricatti, gli scandali, la corruzione e l’inerzia di una classe politica, dei media, degli abitanti e di tutto ciò che paralizza il paese».

Parole forti, che gettano benzina sul fuoco delle polemiche che in Italia hanno già reso il film un "caso", già infuocate dopo la decisione del ministro Bondi di prendere le distanze dal film rinunciando a una visita al festival. Secondo la rivista Le film français, Draquila risponde non solo alla domanda sulle ragioni del voto a Berlusconi, ma anche al «perché gli italiani non considerano la democrazia un sistema adatto al governo della nazione» o «perché credono di più a quello che dice la televisione piuttosto che alla realtà di quello che vedono». E ancora: «Perché gli abitanti dell’Aquila hanno scambiato ciò che avevano di più prezioso, la loro comunità, una città dinamica piena di studenti e di opere d’arte, con un piccolo appartamento fornito da Berlusconi nelle periferie?».

Anche le recensioni del film non vanno per il sottile: Screen International, analizzando le tesi della Guzzanti, sottolinea che «in nome dell’emergenza, si è permesso alla Protezione civile di agire senza controllo e al di fuori della legge». E secondo Screen questo fatto «dovrebbe avere come conseguenza processi ed arresti».

Altrettanto partecipe la critica di Variety: «Un tragico terremoto, scioccante corruzione e gigantesco abuso di potere. Anche per gli italiani abituati agli scandali del loro paese Draquila è un pugno nello stomaco». La rivista riconosce alla Guzzanti il merito di essere «scrupolosamente corretta. Non ignora i fan di Berlusconi ed è pronta a denunciare l’inefficienza dell’opposizione. Tuttavia il ritratto di questo disastro e il modo in cui Berlusconi ha convinto la maggioranza degli italiani del suo benevolo paternalismo, suscita un profondo disturbo. E soprattutto, dando voce all’Aquila, suggerisce che le sofferenze della città dopo il terremoto siano il risultato di una deliberata politica di disinformazione».

La Banca Centrale europea acquisterà obbligazioni dei paesi deficitari. Cioè venderà titoli «buoni» per prendersi quelli «tossici». Chi pagherà questa operazione? I già indebitatissimi contribuenti...

Torna la sfiducia sui mercati e ieri l’Italia, per collocare l’ennesima emissione, ha dovuto maggiorare il tasso d’interesse. Possibile che mille miliardi siano insufficienti a ripristinare la fiducia nel debito sovrano di Eurolandia? Ecco qualche cifra per aiutarci a rispondere a questa scomoda domanda. I soldi stanziati equivalgono all’8,4% del PIL dell’Unione Europea, ma coprono il 10,6% del suo debito pubblico complessivo, poca cosa quindi. Bastano appena a coprire fino al 2012 il deficit del Portogallo, della Spagna e forse anche dell’Irlanda (500 miliardi di euro), ma se il contagio si estende anche all’Italia e al Belgio, allora bisognerà ricorrere a ulteriori iniezioni di denaro. I mercati si chiedono dove troveremo tutti questi fondi, ricorrendo a un ulteriore indebitamento? Poiché non illudiamoci è il debito il cavaliere bianco che dovrebbe salvare dalla bancarotta la giovane moneta europea.

Tutti sanno che l’Europa non ha a disposizione la liquidità stanziata nel fine settimana e quindi la deve creare. E lo farà indebitandosi. La Commissione Europea venderà obbligazioni per 60 miliardi di euro usando come collaterale i 141 miliardi stanziati per il suo bilancio. Questi soldi andranno a rimpinguare il fondo d’emergenza della bilancia dei pagamenti europea, già usato nel 2008 per correre in aiuto di altri paesi dell’Unione: Lituania, Romania e Ungheria. Allora però l’esborso fu di appena 15 miliardi di euro.

I paesi membri ed il FMI stanzieranno 440 miliardi di euro; l’ammontare che ogni stato dovrà fornire dipenderà naturalmente dal peso economico che ciascuna nazione riveste nell’Unione, ciò significa che i tedeschi dovranno pagare di più dei portoghesi. Ma dato che nessuno ha a disposizione tanto contante tutti andranno sul mercato e venderanno obbligazioni, in altre parole s’indebiteranno.

In un déjà vudell’acquisto dei beni tossici delle banche da parte del Tesoro americano, la Banca Centrale europea s’impegna poi a intervenire sul mercato internazionale per acquistare le obbligazioni dei paesi deficitari, spingendosi fino al mercato repo, quello dove finiscono quelle spazzatura prima di andare in bancarotta, e le acquisterà ogni volta che sarà necessario. E dato che non ha fondi a sufficienza per farlo dovrà vendere titoli “buoni” per acquistare quelli “tossici”. Tutte queste decisioni, naturalmente, vanno contro gli accordi di Maastricht e di Lisbona che vietano alla Banca Centrale Europea di comportarsi come una banca centrale di uno stato sovrano.

Non è però detto che questa strategia funzioni o che basti ad arginare la sfiducia nel debito sovrano dei mercati. Sebbene sulla carta il grande salvataggio di Eurolandia sembri perfetto ed infatti lunedì i mercati si sono concessi una giornata di totale euforia -, in pratica però si tratta di un gigantesco indebitamento di cui nessuno è a conoscenza delle modalità. Tra le domande che gli operatori si pongono ce ne sono alcune che pesano più di altre: il fondo di stabilità è una garanzia di solvibilità o un semplice fondo? Il mercato vuole sapere cosa succederà quando non ci saranno più soldi nelle sue casse e bisognerà “salvare” l’ennesima nazione. Quali le condizioni per accedere al fondo e chi lo monitorerà, l’UE, il FMI o tutti e due? Quando entrerà in vigore e sarà operativo questo fondo?

Ma anche se trovassimo una risposta a tutte le domande tecniche esistono dietro l’angolo altri ostacoli: il meccanismo di salvataggio proprio perché va contro lo spirito dell’Unione e poggia sull’indebitamento dovrà essere ratificato dai parlamenti di ciascun paese ed in alcuni di questi, ad esempio la Germania e l’Olanda, questa potrebbe essere un’impresa non facile. L’intervento della BCE anche se “sterilizzato”, e cioè tenuto lontano dalla creazione di moneta nell’Unione, rappresenta una minaccia per l’indipendenza delle banche centrali e farà gravitare le aspettative di inflazione e naturalmente la posizione debitoria di Eurolandia. Infine rimane la questione della ristrutturazione del debito dei paesi deficitari. La Spagna ha già detto che quest’anno taglierà il deficit dell’0.5% e dell’1% l’anno prossimo, con un tasso di disoccupazione al 22% ci si chiede come farà a farlo. Il Portogallo ha annunciato tagli dell’1% nel 2010 e del 1,5% nel 2011, ma si tratta di poca cosa di fronte alle dimensioni del debito pubblico europeo.

Il problema più serio è chi nel lungo periodo si accollerà il debito, i già indebitatissimi contribuenti europei? E tutte le piazze affari concordano che costoro non ce la fanno a tirare ulteriormente la cinghia. A che serve salvare l’Europa se per farlo dobbiamo sacrificarne gli abitanti?

L'Italia non è la Grecia, possiamo dormire sonni tranquilli. Ce lo dicono tutti, persino le società di rating si sono fatte più prudenti. Eppure c'è qualcosa che lega l'Italia alla Grecia: è la risposta alla crisi globale, un'opportunità per il capitalismo colpito al cuore da se stesso che tenta di ripartire utilizzando gli stessi meccanismi che l'hanno quasi affondato.

Il primo obiettivo è modificare i rapporti di forza cancellando regole, resistenze e contropoteri per avere mano libera sulla forza lavoro, spazzando via o inglobando i sindacati. Un processo coerente con la riduzione di spazi democratici e l'accentramento delle decisioni in pochissime mani in atto nella sfera politica e istituzionale. È il sogno di una governabilità garantita dalla cancellazione delle regole democratiche e degli anticorpi.

Il Congresso della Cgil doveva tentare di sciogliere questo nodo. Dentro la crisi, con un governo servile verso i poteri forti e aggressivo con i deboli senza potere, va in scena lo smantellamento dei diritti dei lavoratori attraverso la cancellazione di regole, garanzie e contropoteri. Il lavoro frantumato dalla globalizzazione è libero di agire senza alcun controllo politico - quello sociale ridotto al lumicino per l'inadeguatezza dei sindacati rispetto a una sfida, appunto, globale. Saltate le sicurezze e dunque le speranze di futuro, chi lavora è solo di fronte a chi lo comanda, non più classe ma numero, insieme di individui. La precarietà è una condizione che comprende l'intera vita delle persone.

Ai sindacati viene imposta una scelta: adeguarsi, rinunciare al conflitto e accettare le nuove regole «oggettive» in cambio di un lasciapassare ai luoghi del comando con un ruolo da uscieri, legittimati non più dagli «azionisti di riferimento», non dagli iscritti e dal mondo del lavoro, ma dalle controparti, governi e padroni. Uscieri a cui affidare crescenti pezzi di welfare privatizzati. Altrimenti, fuori dal gioco e dai tavoli (truccati).

Due le scelte possibili per la Cgil, dopo la controriforma dei contratti realizzata con un accordo separato imposto ai lavorati espropriati anche della parola. La prima è avanzata da una minoranza della Cgil, i metalmeccanici Fiom insieme a dirigenti e settori importanti: non basta dire no allo smantellamento delle regole, serve una risposta diversa da sostenere con un forte movimento di lotta. L'unità con Cisl e Uil, complici delle controparti, è un obiettivo da ricostruire. Chi non sa che uniti si vince e divisi si perde? Oggi però questa unità non è praticabile.

La seconda scelta è quella della maggioranza epifaniana della Cgil: non possiamo restare nell'angolo, un sindacato esiste in quanto contratta, dunque riprendiamo posto ai tavoli di trattativa. All'unità sindacale non c'è alternativa e chi lo mette in dubbio finisce fuori gioco. Non basta. Per sancire questa svolta la maggioranza ha imposto la modifica delle regole interne alla Cgil, a partire dallo statuto. E le categorie (in cui può crescere la mala erba del dissenso) perdono il diritto di parola. Proprio come l'insieme dei lavoratori.

La Cgil cambia natura? Un passo in questa direzione è stato sancito da un Congresso debole nei contenuti, fortissimo nell'esclusione del pensiero critico.

Un passo pericoloso, ma strada è ancora lunga.

Per un anno ha camminato nelle strade romane di Tor Pignattara, è entrata nei palazzi e nei negozi. «Secondo la nostra ricerca questo quartiere è fra quelli più a rischio. C’è un pericolo banlieue perché c’è una seconda generazione di immigrati che è alla ricerca di una propria identità. Sono giovani che subiscono angherie e prima o poi reagiranno. Il disagio si sente, si tocca, e può diventare una polveriera».

Stefania Della Queva è una delle ricercatrici che ha lavorato per la facoltà di sociologia dell’università Cattolica di Milano per studiare «processi migratori e integrazione nelle periferie urbane». Dopo avere letto questa ricerca il ministro Roberto Maroni ha annunciato il rischio-banlieue per l’Italia. Nella relazione presentata dal professor Vincenzo Cesareo si rileva anche che le periferie critiche possono diventare «recruitment magnets», calamite di reclutamento, «ovvero luoghi di incubazione e progettazione di eventi eversivi».

Tor Pignattara è una delle sei aree studiate dai sociologi della Cattolica. «Dal 1997 al 2007 - dice Stefania della Queva - in questo quartiere gli immigrati sono aumentati dell’81%. In alcune strade vedi quasi soltanto bengalesi con negozi alimentari e internet point e cinesi con ristoranti e laboratori. Meno visibili i romeni, impegnati nei cantieri. La tensione è pesante. «Non siamo più a casa nostra», dicono gli italiani, che accusano soprattutto i bengalesi di sporcare la città, di fare chiasso fino a notte fonda davanti ai loro negozi, di infestare i condomini con gli odori di aglio e altre spezie… Ci sono stati assalti ai negozi di stranieri. Finora i giovani bengalesi, in gran parte nati in Italia, non hanno reagito, ma c’è il pericolo che una scintilla provochi l’esplosione. Per i bambini la scuola funziona, anche se la percentuale di stranieri alle elementari Pisacane (l’82,2%) è la più alta d’Italia. Alle medie Pavoni è del 28,5%. I problemi iniziano dopo, quando i giovani non trovano più un luogo dove incontrare gli altri giovani del quartiere e si riuniscono in gruppi etnici».

L’Italia non è la Francia ma i segnali di allarme non mancano. «Le banlieue parigine - racconta Rita Bichi, docente di metodologia della ricerca sociale - hanno la loro ossatura nei palazzoni periferici di edilizia popolare anni ‘50 poi occupati da chi arrivava dalle ex colonie. Là c’è stata una ghettizzazione pesante. Da noi le banlieue sono a pelle di leopardo, occupano pezzi di periferia e anche centri storici. Ma ciò che manca, anche in Italia, è quella che noi sociologi chiamiamo mixité, mescolanza, quella voglia di conoscenza reciproca che caccia gli stereotipi e abbassa le paure. Nel 2005 in Francia protagoniste della rivolta sono state le seconde e terze generazioni di francesi che non si sentivano francesi. Da noi queste generazioni stanno crescendo adesso».

Due le zone di Milano sotto inchiesta: via Padova e San Siro - Gratosolio. «Uno dei problemi più seri - dice il ricercatore Davide Scotti che ha seguito via Padova - è rappresentato dagli adolescenti che arrivano qui tramite il ricongiungimento familiare. Sognano di trovare la ricchezza e si trovano in case fatiscenti, magari con una famiglia per stanza, nelle quali non se la sentono di invitare i compagni di scuola italiani. Qui le tensioni sono soprattutto fra le diverse etnie, in particolare fra magrebini e sudamericani. I rapporti fra italiani e immigrati in questi ultimi mesi sono meno tesi che in passato. Dopo gli incidenti, tutti hanno interesse a tenere un profilo basso. La tensione nasce dalla coabitazione non governata di persone arrivate da tutto il mondo. Qui l’edilizia è soprattutto privata e i privati affittano badando soltanto al denaro. Non ci sono custodi sociali, come nelle case comunali. Un’azienda svizzera affitta stanze in ex albergo. L’hotel degradato è diventato il rifugio dei transessuali. Il presidente della zona 2, che voleva visitare il palazzo, è stato accolto con il lancio di wc dai balconi. Il nuovo si costruisce quando si capisce che l’integrazione non può essere un obiettivo ma una conseguenza. Faccio un esempio: non si organizza un "torneo di calcio per l’integrazione" ma un torneo aperto a tutti. Se va bene, potrà nascere la scintilla giusta».

I ricercatori hanno lavorato anche lontano dalle metropoli. «Qui ad Acerra - dice Emiliana Mangone - sarà difficile arrivare ad una integrazione fra italiani e immigrati perché c’è divisione anche fra gli italiani. Siamo poco lontano da Napoli e in sette anni la popolazione è aumentata del 19,8%. Migliaia di napoletani sono venuti ad abitare qui e c’è ancora una distinzione netta fra loro e gli acerrani doc. La periferia è cresciuta in modo abnorme, causa "immigrazione" dal capoluogo e anche perché il centro storico, davvero malridotto, è stato abbandonato dagli acerriani. Nei "bassi" ora ci sono soltanto immigrati dell’Est, soprattutto donne, e magrebini. Gli africani sono nelle campagne, pronti a lavorare per pochi euro al giorno. Anche questa potrà diventare una banlieue, quando gli immigrati chiederanno una vita migliore. E anche perché le tensioni della città sono arrivate da noi, ad esempio con la trasferta dei gruppi disoccupati organizzati».

Sesta e ultima inchiesta nella città di Chieri, sulle colline piemontesi. «È stata scelta quasi a caso - spiega Paolo Parra Saiani - per capire cosa succede in una città "normale". Abbiamo studiato i numeri e fatto tante domande. Questa sembra davvero un’isola felice. Non c’è un’alta criminalità, non ci sono ghetti. Ma i residenti doc e gli stranieri arrivati da 70 paesi diversi vivono in mondi paralleli e separati. Lo straniero è arrivato anche qui. La convivenza ancora no».

Procede a marce forzate la Grande Festa dello smantellamento dello Stato in favore del profitto privato. Qualche esempio. Da anni è in corso la vendita del patrimonio immobiliare pubblico, anche se le due società a cui Tremonti nel 2002 prevedeva di cederlo in blocco («Patrimonio dello Stato S.p.A.» e «Infrastrutture S.p.A.») hanno prodotto un gettito minimo rispetto alle previsioni. Di fronte a quel decreto, la Frankfurter Allgemeine affibbiò al nostro governo di allora (non poi tanto diverso da quello di oggi) l’etichetta di "talibani di Roma". Ma mentre la svendita del patrimonio statale va più lentamente del previsto, Comuni, Province e Regioni si danno da fare, anche perché secondo la L. 133 del 2008 (art. 58) devono allegare al bilancio di previsione il «piano delle alienazioni immobiliari». E infatti Treviso vende la chiesa di San Teonisto (sec. XIV), che al Comune fu donata nel 1811 dal viceré d’Italia; Prato getta sul mercato il monastero di San Clemente (fondato nel 1515), già destinato ad archivio comunale; la provincia di Salerno mette in vendita Palazzo d’Avossa (sei-settecentesco), sede della locale Soprintendenza. Esemplare il caso di Verona: il Comune, con l’avallo del direttore regionale ai Beni Culturali Soragni, vende Palazzo Forti, donato alla città nel 1937 per destinarlo alla Galleria d’Arte moderna, che ancora vi ha sede. Il Comune ne ha mutato la destinazione d’uso (da culturale a commerciale), e utilizzerà l’incasso (33 milioni) per l’acquisto di un’area che, secondo un piano dello stesso Comune, potrà essere cementificata (280.000 metri cubi). Intanto, sulla base del "federalismo demaniale" promosso da Calderoli, il Comune chiede la proprietà degli immobili del demanio dello Stato siti in Verona (mura, forti, bastioni, porte antiche e altri beni vincolati): visti i precedenti, è facile immaginare quel che ne farà. Intanto il ministero della Difesa «ha debuttato a Venezia al salone del turismo immobiliare», annuncia lietamente ItaliaOggi (16 aprile): saranno destinati «a fini turistici» fari di tutte le coste italiane, il forte Cavour dell’isola Palmaria (di fronte a Portovenere), caserme in centro città a Firenze e a Venezia. A Brescia è in vendita la centralissima caserma Gnutti, dal nucleo sei-settecentesco, dopo che il Comune ha approvato (2009) variante urbanistica e cambio di destinazione d’uso. Modifiche interessate, visto che i Comuni, se adeguano le normative urbanistiche e le destinazioni d’uso alla nuova vocazione turistica della Difesa e del Demanio, possono ottenere fino al 15% del ricavato. Stratega dell’operazione Difesa, secondo La Sicilia (13 aprile) è il ministro La Russa, sull’attenti davanti alle soverchianti forze del mercato. Scatta intanto il "federalismo demaniale", figlio non tanto minore del "federalismo fiscale" della L. 42/2009. Il testo Calderoli prevedeva il trasferimento a Comuni, Province e Regioni di beni del demanio marittimo e idrico, caserme e aeroporti, nonché monumenti vincolati, salvo quelli appartenenti al «patrimonio culturale nazionale». Questa inedita categoria, non prevista nel Codice dei Beni Culturali, presuppone quella non meno inedita di «patrimonio culturale regionale»: si straccerebbe così con una sola mossa l’art. 9 della Costituzione, secondo cui il patrimonio culturale è elemento costitutivo della Nazione, peraltro «una e indivisibile» (art. 5). Spezzettare il patrimonio e sbriciolare lo Stato è la stessa identica cosa. Qualche giorno dopo il ministro Bondi si vantò (giustamente) di aver ottenuto che il patrimonio storico-artistico fosse escluso dalle devoluzioni; ma non mancano tentativi di reintrodurre la norma. In ogni caso, che ne sarà del nostro paesaggio se «tutti i beni appartenenti al demanio marittimo e idrico» verranno dismessi dallo Stato (art. 5), perdendo la loro natura di bene demaniale? Per sua natura, il demanio marittimo e idrico è di proprietà pubblica perché comprende beni comuni di uso collettivo; ma il decreto Calderoli non prevede (come sarebbe possibile) il passaggio dal demanio statale a quello regionale, bensì la sdemanializzazione, per cui tutto, comprese le coste, diventa istantaneamente commerciabile, e dato lo stato comatoso delle finanze locali molto verrà gettato sul mercato. L’art. 6 prevede infatti l’attribuzione gratuita degli immobili già demaniali a "fondi immobiliari" di proprietà privata, purché i privati versino nel medesimo fondo proprietà di valore equivalente: ed è chiaro che solo i grandi costruttori sono in condizione di farlo. Perché qualcosa si salvi da questa svendita, le amministrazioni competenti devono chiederlo nel termine iugulatorio di 30 giorni. In altri termini, il demanio dello Stato viene disfatto e degradato a una condizione residuale; i suoi beni vengono polverizzati e ceduti al miglior offerente (o al peggiore). La svendita viene etichettata come "valorizzazione", ignorando cinicamente che secondo il Codice dei Beni culturali la valorizzazione ha l’unico fine di «promuovere lo sviluppo della cultura» (art. 6).

Riparte intanto puntuale il condono edilizio, che mediante una minima ammenda sanerà tutti gli abusi contro il paesaggio (la scadenza è il 31 dicembre 2010, ma anche questa è una festa mobile). E mentre in Campania le costruzioni abusive sono oltre il 20%, in buona parte da riciclaggio di introiti della camorra, il governo appronta un "decreto antiruspe" bloccando l’abbattimento, già deciso, delle costruzioni abusive. Allo "stato d’eccezione" che alcuni protagonisti della politica pretendono per se stessi si aggiunge un "paesaggio d’eccezione", in cui le norme di legge non valgono nulla, e le strutture della tutela vengono o asservite o defenestrate. Un bell’esempio è l’ordinanza 3840 del presidente del Consiglio, che assegna al sindaco di Milano, in quanto commissario per l’Expo 2015, il potere di agire in deroga (fra l’altro) al Codice dei Beni Culturali e alle norme su esproprio, opere idrauliche e contratti pubblici: cinque anni di azzeramento delle leggi in nome dell’emergenza. È la logica con cui alla Protezione Civile si assegnano commissariamenti d’ogni sorta (anche l’archeologia di Roma e Pompei, anche l’allestimento del Museo Nazionale di Reggio Calabria). Il ricorso al commissariamento, giustificato in nome dell’urgenza, non è neutro: al contrario, delegittima l’amministrazione ordinaria avviandone la finale dissoluzione, proclama la vittoria delle nomine politiche sulle competenze tecniche, accresce l’arbitrarietà delle decisioni e ne riduce la responsabilità. Precisamente il contrario della funzionalità di un’amministrazione, pubblica o privata che sia.

Al banchetto della Grande Festa ci sono queste ed altre ricche portate, ma nessuno le mette in fila leggendo l’intero menu; anzi, la segmentazione dei provvedimenti oscura la percezione del processo d’insieme. Ancora abbiamo nelle orecchie le sinistre risate di chi a poche ore dal terremoto d’Abruzzo si spartiva gli appalti. Non meno sinistre sono le manovre in corso, sotto gli occhi di tutti a cominciare dall’inerme "opposizione", per dividersi il grande bottino. Questa spartizione non è il frutto casuale delle leggi, è anzi vero il contrario: decisa la spartizione, si confezionano leggi ad hoc, e quel che resta della macchina dello Stato opera per disfarlo. Il nobile assetto di valori della Repubblica è calpestato ogni giorno, sostituito da un continuo negoziato al ribasso, nello spirito (non dimentichiamolo) non della Costituente, ma della Bicamerale. Mitridatizzati dal veleno che, boccone dopo boccone, assorbiamo ogni giorno, sapremo trovare nella Costituzione un ultimo

Col decreto n. 199 torna la logica del “ciascuno è libero a casa sua”. Senza controlli. “Ciascuno è padrone a casa sua”. E’ uno dei punti forti della “filosofia” politica con la quale Silvio Berlusconi ha “sedotto” milioni e milioni di italiani insofferenti di leggi, regolamenti, vincoli tesi a far prevalere, prima di lui, l’interesse generale. No, con la Casa delle Libertà devono trionfare gli interessi individuali. Meglio se cementizi. E ora arriva bel bello il ministro Sandro Bondi col decreto n.199/17.3.10, che “semplifica” (attenzione) le procedure per l’autorizzazione paesaggistica agli “interventi di lieve entità” (attenzione, due volte). Il ministro ha tenuto in vita il Codice per il paesaggio e però vara norme che lo aggirano. Il pacco plana su città in cui – basta girare l’occhio nella Roma di Alemanno – l’abuso è già la norma, con insegne, le più trucide, dovunque, anche in piena area storica, coi maxi-cartelloni tornati a vigoreggiare (contro tale giungla la Rete dei Comitati avanza domani una proposta di legge popolare), con balconi divenuti verande chiuse. Uno spettacolo da metropoli stracciona. Il decreto proposto diventa dunque la legalizzazione preventiva dello sfregio al paesaggio.

E l’opposizione parlamentare? Non pervenuta. Eppure il provvedimento prescrive tempi, di fatto, impossibili. “Il procedimento autorizzatorio semplificato deve concludersi con un provvedimento espresso entro 60 giorni dal ricevimento della domanda”. Se poi la Soprintendenza rigetta la richiesta e l’interessato ricorre, l’organo di tutela ha appena 30 giorni di tempo per dire di sì o di no. Ora, le Soprintendenze ai Beni architettonici, in quasi tutta Italia, sono afflitte da una tale carenza di tecnici che ognuno di questi si trova a dover sbrigare, nei 200 giorni lavorativi, un migliaio di pratiche, appena 4 o 5 al giorno. Aggiungiamoci le perentorie “semplificazioni” alla Bondi e avremo una alluvione di carte. Quando il parere del Soprintendente è vincolante, i giorni per esprimerlo scendono a 25…

Una parte di queste “semplificazioni”, va detto, non si applica ai centri storici (purché definiti però da piani urbanistici comunali), cioè alle zone “A” tutelate dalla legge-ponte per l’urbanistica nel 1968 quando l’Italia ancora pianificava. Ma il paesaggio non è fatto soltanto di centri storici, e inoltre vi sono Comuni che non li hanno definiti, oppure non li tutelano in modo rigoroso. Dunque, dentro quelle mura secolari, le semplificazioni berlusconiane potranno produrre sfracelli. Intanto il decreto prevede aumenti delle volumetrie fino al 10 per cento (zone A escluse): è la logica del Piano Casa che per ora è un flop clamoroso, ma loro ci riprovano. Riguarda la chiusura di balconi e terrazze, la tinteggiatura (spesso fondamentale per il paesaggio, urbano e non) delle pareti esterne e la stessa copertura degli edifici esistenti. Con quali materiali? Non si sa. Mentre è importante sapere se si tratta di coppi tradizionali, di lastre di pietra o invece di tegole marsigliesi o di plastica. Libertà, finalmente, anche per una selva di abbaini, canne fumarie, comignoli, terrazzine, lucernari. E’ o no la casa delle libertà per padroni e padroncini? Alla faccia della “lieve entità”. Poi ti affacci da questi edifici e ti appare (era ora!) una colorata e autorizzata foresta di cartelloni e di insegne pubblicitarie, i primi fino a 12 mq. Più tende e tendoni, con quelle vezzose “mantovane” che a Roma e altrove esibiscono scritte pubblicitarie. Una gioia per la vista. Tutto “semplificato”, cioè libero.

Capitolo “pesante” quello dell’adeguamento alle norme antisismiche: tutta Italia è a rischio, esclusa la Sardegna, la corona delle Alpi e la pianura padana (in parte). In questo caso l’autorizzazione “veloce” investe pure i centri storici. Così come le regole per il contenimento energetico. Esclusi controlli penetranti, i pericoli di stravolgimento a base (nel primo caso) di cemento appaiono incombenti. Altre semplificazioni minacciano gli alvei, già depredati, di fiumi e torrenti. I leghisti sono convinti (una fesseria, secondo i tecnici) che la mancata escavazione di ghiaia a monte provochi alluvioni a valle. Una tesi ovviamente cara ai cavatori di sabbia e ghiaia. Ora accontentati per decreto. Lo stesso per il ripascimento delle spiagge, da realizzare con sabbia dello stesso tipo. Non come al Poetto di Cagliari, dove quella magnifica spiaggia bianca – racconta l’ex parlamentare verde Sauro Turroni, uno dei più competenti e combattivi – venne sostituita con una rena grigia, quasi cementizia. Perché non c’era stata nessuna verifica tecnica di livello. E così sarà ora, sempre di più, sempre più estesamente, nell’Italia inquinata dal berlusconismo, dove “ognuno è padrone a casa sua”. Anche Claudio Scajola il quale può comunque godersi la vista del Colosseo.

Il dibattito nato attorno alle proposte di referendum sulla gestione dell'acqua vede in campo tante voci. Capisco che non è facile sfuggire alle schematizzazioni che di posizioni tendono a riconoscerne solo due: chi promuove i referendum è a favore dell'acqua pubblica, tutti gli altri sono per la privatizzazione. Capisco che non è facile, ma ci provo lo stesso. Io e tanti ecologisti del Pd condividiamo l'obiettivo fondamentale dei promotori dei referendum: impedire la privatizzazione forzata e obbligatoria dei servizi idrici voluta da questo governo, affermare il principio che i servizi idrici non sono un affare del mercato. E, detto per inciso, rivendichiamo come nostro merito quello di avere portato su questa stessa posizione quasi tutto il Pd, che nella sua pur breve storia aveva mostrato su tale materia indirizzi non proprio univoci (chi si ricorda il disegno di legge dell'allora ministro Lanzillotta, che equiparava l'acqua ai servizi locali di rilevanza economica?). Dopo di che, molti di noi hanno dubbi di metodo e di merito sull'iniziativa referendaria. Non è un'opinione, è un fatto, che negli ultimi 15 anni ogni volta che si sono raccolte firme a sufficienza per indire un referendum e poi si è andati al voto, la partecipazione è rimasta ben al di sotto del quorum. Il rischio assai concreto è che un'eventuale ripetizione dello stesso scenario - francamente probabile - suoni come certificazione dello status quo, come definitivo via libera alla privatizzazione dei servizi idrici. Qualcosa di analogo del resto è accaduto in altri casi recenti: per esempio con il referendum sulla fecondazione assistita, e ancora se ne pagano le conseguenze.

Quanto al merito dei quesiti, io non penso affatto e non ho mai sostenuto - come mi fa dire Andrea Palladino sul manifesto - che nel caso dell'acqua «la questione centrale è quella del prezzo». Invece ritengo, questo sì, che accanto al tema del carattere pubblico del servizio idrico - assolutamente centrale - ce n'è un altro non meno importante: quello di un uso razionale della risorsa acqua, che è un bene naturale scarso e che va utilizzato con parsimonia. Perciò, io credo, mentre è sacrosanto riaffermare il principio che il costo dei servizi idrici dev'essere in parte a carico della fiscalità generale, bisogna al tempo stesso fare in modo che la tariffa soddisfi due condizioni entrambe decisive: una fascia sociale che dia a tutti la disponibilità di acqua per i bisogni essenziali (40/50 litri per persona al giorno; oggi il consumo pro-capite è ben sopra i 200), forme di progressività che scoraggino gli sprechi e gli usi impropri. Questi criteri, che si è cercato di calare nella proposta di legge del Pd, sono gli stessi che animano da decenni le mobilitazioni del movimento ecologista sul tema. Tacciarli, come fa Daniela Preziosi sempre sul manifesto, di «cautele bersaniane condivise dall'area vicina a Legambiente», o considerarli, come fa ancora Palladino, una sorta di stampella offerta a gestioni inefficienti e opache del servizio idrico fino a quella, famigerata, di Acqualatina, mi pare ridicolo.

Il concetto espresso dal senatore Della Seta (Pd) era chiaro: dato che l'acqua è una risorsa scarsa ne va regolato l'uso attraverso il prezzo, che in Italia è troppo basso. Per quanto riguarda la questione del prezzo sociale è utile ricordare che questa tipologia è molto spesso finanziata dal pubblico e non dai gestori idrici privati. Questo avviene, ad esempio, con Acqualatina, dove la tariffa sociale è pagata dalla Provincia di Latina. (a.p., d.p.)

Meno male che c'è Ignazio La Russa a preoccuparsi dei festeggiamenti per il 150°. Stando a una sua intervista (ad Antonella Rampino, su La Stampa) il programma è ricchissimo, e le intenzioni del ministro della Difesa, aspirante coordinatore degli eventi, sono assai serie: annuncia, in accordo con il presidente del Consiglio, l'intenzione di dar vita «accanto ai convegnoni», a «un evento popolare». E che c'è di più «popolare» della televisione? Infatti, ecco affacciarsi Festival di Sanremo, Lega Calcio, e Coni. Siamo a posto. Cavour e Garibaldi, Mazzini e Cattaneo, Gioberti e Pisacane, riposino il loro sonno eterno, tranquilli. Apicella canterà dai microfoni di Rai-Mediaset, in un tripudio di sfilate di carri armati, giacché, come spiega il solerte ministro, «bisogna far coincidere le quattro feste delle Forze armate con le celebrazioni».

Insomma, tra canzonette e marce militari, anche noi, malgrado la Lega, e i suoi sussulti antinazionali, ricorderemo l'Unità. Malgrado la Lega, appunto: e per una volta sono d'accordo con Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere della Sera, ha ammonito Calderoli e Bossi: «Non si governa un Paese contro la sua storia». Aggiungo, che coloro che con sufficienza o arroganza, deprecano, fuori tempo massimo, il Risorgimento e irridono all'Unità, sono semplicemente estranei a una pur minima conoscenza della storia: possono anche tentare di governare «contro» di essa, in quanto la ignorano.

Il Risorgimento, intanto, non fu un fatto italiano: esso si colloca in un contesto europeo frutto di un moto che fu tra gli effetti di lungo periodo della Grande Rivoluzione del 1789. Il nazionalismo della prima metà dell'Ottocento ha un carattere progressivo: basti scorrere gli scritti di Marx ed Engels, o i loro carteggi, per rendersi conto di quanto peso abbiano quei moti, a cui i fondatori del «socialismo scientifico» guardarono con attenzione e simpatia. Il Risorgimento italiano, collocato nell'ambito dei movimenti nazionalpatriottici del XIX secolo, mentre servì a cancellare residui di Stati paternalistici, fondati su concezioni proprietarie del potere, ebbe un carattere indubbiamente emancipatorio su vari piani, da quello economico-sociale a quello politico, non trascurando l'ambito della cultura. Una larga fetta della migliore produzione letteraria o di teoria politica italiana si colloca in quella fase ed è frutto di scrittori e pensatori che hanno espresso variamente l'istanza unitaria. Che era tutt'altro che un mero bisogno di statualità, che pure rappresentava un'esigenza significativa in un Paese frammentato, sottoposto all'estro ghiribizzoso di piccoli, mediocri o mediocrissimi sovrani locali, spesso mandatari di poteri reali lontani, a cominciare da quello degli Asburgo che faceva il bello e il cattivo tempo nella Penisola.

Ma quello era anche un Paese economicamente bloccato; solo l'Unità gli diede la spinta decisiva per avviare il decollo industriale, e la sua trasformazione capitalistica: insomma, ne rese possibile ciò che chiamiamo lo «sviluppo». Esso, con tutti i suoi enormi limiti (denunciati da una schiera di studiosi, politici e intellettuali: Antonio Gramsci per tutti) costituì un dato di progresso, a dispetto, appunto, delle contraddizioni e delle sperequazioni, prima fra tutte quella Nord- Sud.

Già, proprio qui, come è noto, si appunta l'angusta polemica della Lega degli ignoranti: il Sud che drenerebbe le risorse realizzate dal Nord. A costoro bisognerebbe innanzi tutto ricordare che lo squilibrio tra le due aree, al di là delle situazioni storiche pregresse, è stato favorito da un processo di industrializzazione che si è localizzato nelle regioni settentrionali, a scapito del Mezzogiorno; e ribadire che quel Sud, fu ed è tuttora un mercato essenziale per le imprese produttrici del Nord; e infine, rammentare che i protagonisti di quel terzo moto unitario (il secondo è stata la lotta di liberazione nazionale contro il nazifascismo, del '43-45), ossia gli immigrati meridionali a Torino, Milano e nelle altre aree industriali, resero possibile la fortuna delle imprese (e degli imprenditori) ivi collocate.

E se nel Risorgimento e nella Resistenza, l'opera dei meridionali fu limitata - ma non irrilevante -, nelle migrazioni Sud/Nord degli anni Cinquanta/Sessanta, sono stati i meridionali poveri a fornire il «materiale umano» per le industrie del Nord, dopo aver costituito carne da macello, accanto ai poveri del resto d'Italia, nei due conflitti mondiali e nelle altre guerre fasciste.

D'altra parte, l'Unità fu un affare anche per il Mezzogiorno, malgrado le storture e gli errori, gravissimi. Per tanti versi, lo sappiamo, «è andata male»; ma fu il moto unitario, e lo Stato nazionale, a ricuperare il Sud, inserendolo in circuiti dai quali secoli di monarchia borbonica (oggi rivalutata dai soliti revisionisti), l'aveva tenuto fuori. Così la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870, mise fine a un regime tirannico e oscurantista come quello del Papa. Che, nelle sue rinnovate manifestazioni, non più statuali, ma simboliche (oltre che economico-finanziarie), non ha chance alcuna di essere restaurato, a dispetto dei Concordati vecchi e nuovi, e della crescente ingerenza delle gerarchie nella vita politica. Anche questo lo si deve al Risorgimento, e al processo unitario: sul quale, oggi come allora, dobbiamo esprimere tutte le riserve critiche, da studiosi, e da cittadini consapevoli (innanzi tutto informati), ma che possiamo e dobbiamo considerare un punto di non ritorno. Perciò a quei personaggi pittoreschi che ostentano la cravatta verde, marchio di una inesistente «Padania», e sputano su Garibaldi, Mazzini, e Cavour (inneggiando al «federalista» Cattaneo, dimenticando che si tratta di uno dei più coerenti e convinti sostenitori dell'Unità!), ci permettiamo di dare un modesto consiglio: prendano tra le mani un manuale di storia, e comincino a leggerlo. Non è mai troppo tardi per imparare.

Dalle spiagge ai fiumi e alle caserme

Mario Sensini,

«Federalismo» e «demanio» son già, prese a sé stanti, due parole o, forse meglio, due concetti difficili da capire. Ma nel «federalismo demaniale» proposto dal governo come primo passo concreto di quella che un tempo si chiamava devolution, e che da qualche giorno riempie la cronaca politica italiana, si rischia davvero di perdere la strada. Che significa veramente? Cosa cambia per noi cittadini? Quanto ci costa? E, alla fine, chi ci guadagna?

Entro poche settimane il Parlamento, che sta esaminando il decreto legislativo che lo attua, e il governo, che dovrà poi recepirne le indicazioni prima di trasformarlo definitivamente in legge, dovranno dare risposte concrete. Il testo è vago, e i quesiti in ballo sono tanti. Almeno quanto è alta la posta in gioco, perché dietro quelle due parole così misteriose si nasconde una partita che vale miliardi di euro. Che può significare la fortuna di una città, ma anche la rovina di un’amministrazione incapace. Proviamo a capire.

La posta in gioco

Il Codice civile del 1942 stabilisce che lidi, spiagge, porti, fiumi, laghi, acque pubbliche, miniere, aeroporti, beni storici, archeologici e artistici, ferrovie, grandi strade, acquedotti, caserme, foreste appartengono allo Stato e sono gestiti dal Demanio. Nel frattempo, però, la nostra Repubblica è cambiata. Per la nuova Costituzione non è più formata solo dallo Stato, ma anche da Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane. E dunque anche loro hanno diritto ad avere e a gestire una parte del patrimonio pubblico.

Il decreto all’esame del Parlamento prevede, appunto, che a essi possano essere trasferiti alcuni beni demaniali, e introduce un concetto del tutto nuovo, la valorizzazione degli stessi. Non si parla di beni culturali, ma di spiagge, fiumi, laghi, immobili e terreni, caserme inutilizzate, miniere e piccoli aeroporti, per un valore di 3,2 miliardi di euro. È una valutazione a spanne, ma attendibile, fatta dal Demanio considerando i beni pubblici oggi inutilizzati. Sono valori sottostimati, calcolati sui prezzi ai quali sono iscritti nel bilancio pubblico, ma è comunque una «quota irrisoria» del patrimonio pubblico, come ha detto il direttore dell’Agenzia del Demanio, Maurizio Prato, l’altro giorno in Parlamento.

Un patrimonio sconosciuto

Calcolato con gli stessi parametri il patrimonio pubblico vale 49,7 miliardi di euro, anche se a prezzi «di mercato», secondo l’istituto di ricerche «Scenari immobiliari», ne vale quattro volte tanto, 200 e passa miliardi di euro, escludendo dal conto le università e i loro beni, il patrimonio artistico e culturale, il Demanio militare. E si tratta sempre di valori stimati, perché un censimento di tutti i beni pubblici, per assurdo che sia, non esiste. Lo stanno costruendo in questi giorni, perché lo impone l’ultima Finanziaria. Il termine concesso a tutte le amministrazioni per comunicare i beni posseduti scadeva il 31 marzo scorso, ma siamo ancora a metà dell’opera. Ci vorrà tutto il 2010, spiegano al Tesoro, per avere i dati completi.

Rendite misere

Anche se hanno un valore «irrisorio» rispetto al resto, alle Regioni e agli enti locali potrebbero andare 10 mila terreni e altrettanti immobili, 5 mila chilometri di spiagge, 234 corsi idrici, 550 chilometri quadrati di specchi lacustri. Un sacco di roba. Che oggi non rende praticamente nulla: secondo il Demanio 237 milioni di euro, ai quali vanno sottratti i costi di manutenzione (sconosciuti pure quelli!). Cedendoli a Regioni ed enti locali, comunque, lo Stato non ci rimetterà nulla, perché ridurrà i trasferimenti a chi li prenderà in carico per una somma pari a quella rendita (per giunta risparmiando sui costi di manutenzione). L’idea di base è quella di far fruttare questo patrimonio, girandolo a chi ha i mezzi per farlo rendere davvero: ad esempio i Comuni, che possono cambiare la destinazione d’uso di immobili e terreni con una variante urbanistica, oppure le Regioni, che oggi non hanno incentivi a legiferare sul turismo marittimo, che pure è di loro competenza, perché i canoni di concessione delle spiagge (la miseria di 97 milioni l’anno) li incassa lo Stato.

Valorizzare o vendere?

Mettere a reddito, però, può anche essere la premessa per vendere, visto che gli enti locali sono sempre a corto di soldi. E oggi non c’è una regola che gli impone di usare le somme incassate dalle privatizzazioni per ridurre il debito, come invece è obbligato a fare lo Stato. Anche se valgono poco, quei beni garantiscono comunque un pezzettino del debito pubblico, che domani sarebbe scoperto. Un problema molto serio, ma non l’unico, che il Parlamento e il governo dovranno chiarire.

Tempi troppo stretti?

Sciolti i nodi e varata la legge (si deve fare entro il 21 maggio), inizierà la corsa contro il tempo: entro il 21 agosto tutte le amministrazioni pubbliche centrali dovranno dire quali immobili e terreni vogliono tenersi e perché, e un mese dopo l’Agenzia del demanio pubblicherà l’elenco dei beni disponibili. Per la verità una prima lista all’Economia già ce l’hanno ed è su quella base che hanno stimato i 3,2 miliardi dei beni trasferibili. Ma la tengono chiusa a chiave in un cassetto, proprio perché, dicono, la scelta deve essere «motivata e responsabile». Entro il 21 dicembre Regioni ed enti locali dovranno, a loro volta, dire quali di quei beni vogliono prendersi. A partire dal 21 gennaio 2011 potranno essere varati i decreti per l’attribuzione ai nuovi proprietari. Tempi strettissimi anche a giudizio dell’Agenzia del demanio, che non a caso ha suggerito al governo di allungarli. Immaginiamo tuttavia che tutto fili liscio, e che dai primi mesi dell’anno prossimo il processo sia in moto. Chi ci assicura che la caserma abbandonata nel centro della città sia bonificata, restaurata, liberata dalle erbacce, se non dagli occupanti abusivi?

Si vota su Internet

La palla a questo punto passa agli amministratori locali. Sindaci, governatori, presidenti di provincia dovranno indicare sui siti Internet dell’amministrazione cosa intendono fare con i beni ricevuti. E qui entriamo in gioco noi contribuenti. Sì, perché la legge prevede che su questi progetti si possano indire delle consultazioni pubbliche, anche telematiche, tra i cittadini. Si vota, signori. Si può dire sì o no al nuovo supermercato o al nuovo albergo, al cinema o al museo. Le amministrazioni locali non sono obbligate a consultare i cittadini, ma le più avvedute e sagge lo faranno. E in quei casi la parola del popolo sarà legge. Ve l’immaginate il nuovo sindaco che, infischiandosene di quel che vogliono i suoi concittadini, decida di fare un bel centro commerciale al posto di un giardino pubblico?

«Non facciamola diventare una corsa all’oro»

Pierluigi Panza – intervista a Giulia Maria Crespi

«Atrii muscosi» e «fori cadenti» finiranno in mano ad avidi governatori e sindaci senza scrupoli pronti a far cassa affidando le spiagge ai bagnini e le rovine ai baristi?

Forse non accadrà nulla di tutto ciò, ma «prevenire è meglio che, poi, criticare». Questo lo slogan della combattiva Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai.

«Sono d’accordo con l’allarme lanciato ieri da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera. I provvedimenti federalisti sul passaggio del patrimonio dallo Stato alle Regioni non sono ancora andati alla Camera; meglio bloccarsi ora, una volta approvati sarebbe più difficile modificarli».

Non che tutto vada protetto, nemmeno per la Crespi, perché altrimenti potremmo recintare l’intera Penisola...

«Sì, è vero, tanti immobili sono inutili, crollano e sono lì a far niente. E trovo che sia giusto affidarli a qualcuno perché possano servire a fruttare qualche soldo! Ma mi spaventa il passaggio del patrimonio dallo Stato alle Regioni, perché si apre una falla pericolosa nella nostra Costituzione. La Corte costituzionale ha ribadito nel 2007 che la tutela del paesaggio è di esclusiva competenza dello Stato».

La Crespi porta a sostegno della propria valutazione gli «omenoni» della Repubblica, anzitutto Einaudi, che diceva di non dividere «l’Italia in pillole».

«D’accordo, il processo di regionalizzazione è inarrestabile. Ma c’è un bene che la Costituzione affida con chiarezza allo Stato: questo è la tutela del patrimonio artistico e paesaggistico, perché i beni demaniali sono di tutti. E trovo che sia pericoloso passarli alle Regioni perché in questo momento c’è un’inarrestabile e avida corsa a depredare il territorio, e questa cosa spaventa. Avendo eliminato l’Ici, un errore grave, i Comuni saranno spinti a voler fare soldi altrove».

Insomma, bisogna sottrarre il «patrimonio» a quelli che fanno la corsa al «denaro». Quasi un ossimoro. Ma una soluzione c’è già: non cedere i beni vincolati.

«Sì, lo so, e in questo è stato bravo il ministro Bondi a ribadire che niente di quanto è vincolato si può toccare. Ma mi chiedo: sarà davvero così?».

Lei aveva timore, ricordiamo a Giulia Maria Crespi, anche quando entrò in vigore il codice Urbani; qualcuno parlava di Colosseo che sarebbe stato venduto. Poi con Rutelli il codice è stato approvato ed è diventato operativo con Bondi.

«La mia paura è che si terrà poco conto del vincolo, nonostante l’altolà di Bondi».

Per ovviare a questo rischio va tutelato il ruolo delle sovrintendenze, veri organi periferici, già «federalisti», dello Stato centrale.

«Trovo che il parere delle sovrintendenze debba rimanere, debba restare vincolante sul patrimonio e anche su ogni struttura urbanistica che va a incidere su paesaggi vincolati. È vero che le sovrintendenze sono organi sul territorio, ma si rifanno a una legge nazionale. Le Regioni potrebbero agire autonomamente».

Se i beni passassero alle Regioni, ma restassero anche le sovrintendenze, si creerebbero problemi decisionali...

«Anche se un terreno è vincolato, la Regione diventa più forte della sovrintendenza. Oggi un padre vende persino la figlia per denaro, figuriamoci se non si venderanno i terreni! Il patrimonio deve essere fonte di finanziamento per il turismo, invece siamo scesi al sesto posto. Il nostro patrimonio è una riserva aurea per turismo consapevole e di qualità».

Cosa teme di più?

«Ad esempio che tutte le spiagge vadano in concessione. S’inizia con il realizzare un gabinetto, poi un bar che diventa ristorante, quindi gli si aggiunge un negozio. E così la distruzione del patrimonio è fatta. Penso anche alle sponde dei laghi: vede cosa hanno già fatto? Si fanno abusi e poi non si tolgono. Se si trasferisce agli enti locali anche questo aspetto si apre una falla pericolosissima. Anche se per alcuni immobili inutili va bene. So che stanno predisponendo un elenco di beni che possono essere ceduti».

Sotto tiro ci sono anche i poligoni di tiro!

«È grave anche questo. I poligoni andrebbero sistemati e aperti come giardini. Anche quello di Milano, lungo viale Certosa. Per ora non è stato permesso».

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