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La memoria e il futuro

editoriale di Gianfranco Capitta


Via via che scopre i suoi "assi" da poker, la manovra di Tremonti perde il carattere della "cecità ingenua" per quanto sanguinaria, o del destino cinico e baro, e acquista un carattere organizzato e cosciente, che rispecchia bene lo spettro culturale del ministro commercialista e dei suoi ispiratori leghisti col forcone. Uno spettro non ampio ma sincero, direbbe il cantautore. Che ha in prima fila e massimo orrore la "cultura", in tutte le sue forme e in tutti i suoi schieramenti. Perché oltre che inutile è dannosa, e fondamentalmente esterna all'unità concettuale che nasce, cresce e si chiude entro i confini della monade televisiva berlusconiana. E certo molesta e irriverente, e sommamente pericolosa, per le giovani generazioni di trote messe a ripascimento.

Non ci sono molte altre spiegazioni per il taglio, tanto netto quanto concretamente censorio, messo a segno contro tutte le fondazioni e gli istituti culturali, di ogni parte e di ogni spessore, ma che tutti assieme raccattavano una manciata di spiccioli rispetto al montepremi di dodici miliardi annui della stagata manovriera. Ma rifilare di quel pugno di milioni le uscite dell'erario consolida e chiarisce la politica cieca della scuola targata Gelmini, il ricatto all'informazione, la dissennata gestione dei beni culturali in format coiffeur, i tagli drastici e progressivi a tutto lo spettacolo.

Con la manovra si toglie a tutto questo il pericoloso gene riproduttivo, quello che rende possibile la coltivazione insieme della memoria e del futuro. Vale per gli istituti culturali e per quelli scientifici, per quelli che funzionano finora egregiamente e con coraggio, e per quelli che magari hanno anche disperso fondi e possibilità dietro alle chimere balenate da quella politica che oggi li sega alla radice.

Insomma un vero disastro che lascia sempre più le istituzioni culturali in balìa degli enti locali e delle loro risorse prosciugate dai trasferimenti dello stato a loro volta tagliati. Con il risultato di trasformare la prospettiva di un oscuro federalismo nella certezza di un campanile esasperato. E il riferimento non è necessariamente alla Roma di Alemanno o al Nord a guida leghista.

Nella civilissima Toscana, ad esempio, i sindaci di Prato e di Firenze - l'uno di destra e l'altro del Pd - hanno decapitato d'imperio istituzioni importanti come il Metastasio e il Maggio Musicale, solo per «esemplificare» la propria volontà di cambiamento e «discontinuità», ma soprattutto di giovanilismo («la bellezza dell'asino», lo definivano le nonne). Nulla hanno potuto opporre i conti in ordine e la qualità artistica davanti alll'impulso podestale a mostrare la propria potenza.

E nel campo dello spettacolo ci sono a livello centrale due casi da vero manuale di scienza finanziera di governo. Uno è il Centro sperimentale di cinematografia cui vengono tagliati i fondi (e Bondi potrà farci poetici versi dopo la figuraccia cannense e la debacle aquilana); l'altro è la soppressione tout court dell'Ente teatrale italiano, con i suoi tre teatri storici e le centinaia di dipendenti (di cui solo una minima parte potrebbero essere riassorbiti dal ministero del medesimo Bondi). L'Ente è stato davvero in passato bacino di coltura di clientele e favori governativi, ma attualmente, e pur con un cda dominato dall'attuale maggioranza, è l'unico che persegua le sue finalità istituzionali: che sono anzi tutto la promozione del nuovo nel campo dello spettacolo, la formazione del pubblico, la diffusione dei nostri artisti all'estero in collaborazione con le istituzioni di altri paesi. Ma i teatri, come il cinema, gli studi storici, gli archivi, le biblioteche, gli istituti di ricerca, le arti (quelle visive sembrano partorire nell'informazione corrente solo quello che ne pensa Sgarbi), producono pensiero e non voti, semmai d'opposizione. Per questo dovrebbero stare al loro posto, anche, o tanto più, se ora questo viene eliminato. E come era scritto una volta sui tram, «non disturbare il manovratore». Piuttosto e in fretta, cercare di licenziarlo.

Una mannaia sulla memoria

di Roberto Ciccarelli


Le Fondazioni Gramsci, Basso, Sturzo e Feltrinelli, il nucleo più attivo dell'Associazione delle istituzioni di cultura italiane (Aici), stanno preparando un documento da rendere pubblico entro poche ore che lanci un appello al mondo della cultura mondiale contro la decisione del governo di azzerare i fondi statali per le attività degli istituti e gli enti culturali italiani.

Flavia Nardelli, segretario generale dell'Istituto Sturzo, giudica «insensato» il taglio ai 232 istituti culturali che «decapita la cultura e la memoria italiana». Ma la cosa più grave, aggiunge, «è che mette un marchio d'infamia sul modello virtuoso più interessante di collaborazione tra pubblico e privato». L'articolo 7, comma 22 della manovra finanziaria stabilisce che lo Stato cesserà da subito «di concorrere al finanziamento degli enti, istituti,fondazioni e altri organismi».

Il 30 per cento della cifra risparmiata andrà inoltre a costituire un fondo destinato a finanziare attività di enti che ne facciano «documentata e motivata richiesta». Diversamente dalla cifra diffusa ieri, il fondo messo a disposizione nell'ultimo triennio per questi enti non sarebbe di venti, ma di circa sei milioni di euro.

A preoccupare sono le modalità improvvisate, come spesso accade nelle politiche governative che si occupano di formazione e conoscenza, con le quali negli ultimi tre giorni il provvedimento è stato definito. La diffusa impressione è che al ministero dell'Economia abbiano messo nel calderone misure molto diverse e non si siano resi conto che su provvedimenti di questo genere, di bassa rilevanza economica ma di alto impatto simbolico, possa esistere un consenso trasversale.

Nella tabella ministeriale stabilita per il prossimo triennio 2008-2011, i contributi statali sono un decimo rispetto al bilancio dello Sturzo, per altri il 20 per cento e per altri ancora è più rilevante. Nella maggioranza dei casi permette di avviare processi virtuosi attraverso i quali catalizzare nuovi fondi, mettendo a disposizione del pubblico servizi e archivi di cui lo Stato non si occupa più. «Si colpisce una realtà virtuosa - aggiunge Flavia Nardelli - facendola sembrare un mondo di mangiatori ad ufo. Questa immagine la rifiutiamo. Noi anzi dovremmo essere ringraziati per il lavoro che facciamo».

Non è solo la cifra complessiva a contare, ma il peso simbolico di una decisione presa con il piglio del contabile. Si tratta di un costo molto contenuto che però è altamente produttivo. Il provvedimento colpisce innanzitutto gli enti che si occupano della storia e delle culture politiche «forti» nel nostro paese, quelle del movimento operaio come la Fondazione Basso, la Fondazione Gramsci o Feltrinelli e quelle cattoliche dello Sturzo. Ancora più grave è l'indifferenza e la distrazione con le quali, per risparmiare una manciata di euro, si sacrifica un patrimonio culturale che fino ad oggi, a dispetto dei tagli che procedono ormai da un ventennio, ha trovato un modo per essere valorizzato.

Giuseppe Vacca, direttore del Gramsci, pensa che questo sia un attacco al modello no-profit adottato dalle fondazioni e dagli istituti di ricerca per finanziare la ricerca. «Non è una novità per le politiche della destra - afferma - questa è la sua idea del rapporto tra stato e società tra pubblico e privato, tra governare e appropriarsi di risorse pubbliche. Lo si è visto in Grecia, negli Stati Uniti con Bush. Oggi lo vediamo in Italia». «Siamo un pezzo indispensabile della ricerca, in parte della formazione altamente specializzata non sostituibile da altre istituzioni - aggiunge - Noi siamo un pezzo della internazionalizzazione della ricerca italiana largamente interconnessa con le ricerche internazionali».

Giacomo Marramao, direttore della Fondazione Basso, ha contattato personalmente 150 studiosi in tutto il mondo, liberali e conservatori, di destra e di sinistra, per sollevare lo scandalo. Annuncia anche che scriverà una lettera a Tremonti denunciando la «miopia» dei tagli all'università e alla ricerca, come quelli alle fondazioni culturali. A suo avviso il governo è del tutto incapace di colpire le sacche di speculazione e di evasione fiscale, né di ricavare le cifre per rimettere in moto politiche sociali e di sostegno alla produzione.

«Scienza e sapere sono diventati da tempo la maggiore forza produttiva - afferma - dovrebbe saperlo Tremonti che conosce Marx. Questo è un governo che ha come imperativo categorico gli interessi di un uomo e della sua azienda che si sono impadroniti di un paese. Ma non hanno fatto i conti che siamo in una sfera pubblica europea e globale. Coinvolgeremo studiosi di tutto il mondo per difendere questo patrimonio».

APPELLO AGLI INTELLETTUALI

«Il progetto ora è chiaro Dobbiamo darci una mossa»

R. Ciccarelli intervista Gerardo Marotta


Mecenate, viaggiatore della cultura e cittadino del mondo. Militante della funzione civile e pedagogica della filosofia. Jacques Derrida lo descrisse circondato da «un'aura di seduzione irresistibile». Sono molte le vite, e i progetti, che l'avvocato Gerardo Marotta ha sperimentato da quando 35 anni fa ha fondato a Napoli l'Istituto Italiano degli studi filosofici. La sua reazione contro il taglio di 3 milioni di euro al suo Istituto è indignata. «Quella del governo è un'offesa all'Italia e all'Europa». Per questo ha promosso un appello al Presidente della Repubblica Napolitano, già sottoscritto da migliaia di persone, contro i tagli alla ricerca e alla cultura.

Come ci si sente ad essere definito un ente inutile?

Se l'istituto è inutile, allora è inutile anche il Collegio di Francia. Le confesso però di essere contento che lo trattino come un ente inutile. Stia sicuro che non voglio suicidarmi. Quello che conta non è la mia sopravvivenza, ma che gli intellettuali e le forze sociali prendano il coraggio di parlare chiaro contro questo governo. Vico disse che «prima vennero le selve, poi le caverne, i tuguri e infine le accademie». Oggi stiamo tornando ai tuguri. I nostri non sono tempi meno orribili dei sei secoli di anarchia e miseria in cui visse l'Italia. Io voglio capire se Napoli e l'Italia sono la mucillagine che dice De Rita oppure se da qui può nascere una nuova resistenza.

Quale progetto si nasconde dietro questi tagli agli istituti culturali?

Non credo che segua una strategia razionale. Avverto però qualcosa di ben peggiore: l'inerzia. L'incapacità di dare prevalenza al pubblico rispetto al privato. È questo l'atteggiamento che hanno avuto i governi di destra e di sinistra negli ultimi anni. Tutto viene dimenticato, anche se ti regalano una buona accoglienza quando ti ricevono a Roma.

Che cos'è oggi un'istituto di cultura, avvocato?

L'università impartisce le cognizioni utili per i professionisti, ingegneri avvocati o medici, e non apre alla vita e alla mente. Quello che vale qui è l'interesse privato del professore, non quello pubblico. Gadamer disse una cosa meravigliosa a questo proposito: «Dio creò l'università. Poi arrivò il diavolo e creò il collega». Gli istituti hanno un compito molto più ambizioso. Sono istituzioni che aprono a nuove forme contrattuali fra lo Stato e la società civile, ridefiniscono i ruoli dell'intervento pubblico e di quello privato, si radicano nel territorio. I 10 miliardi che Ciampi stanziò a nostro favore nel 1993 ci permisero di creare centinaia di scuole estive, biblioteche, enti e centri di ricerca in tutto il meridione come in Europa. 2700 giovani hanno ricevuto grazie a noi borse di studio. Storicamente è stato questo il ruolo delle accademie europee prima che Talleyrand gli cambiasse il nome in «istituti». La loro idea della ricerca e della produzione della cultura è ispirato al sodalizio disinteressato tra intellettuali in nome del publique.

Qual è la differenza tra il governo italiano che continua a tagliare scuola università e cultura e quello francese che ha destinato 7,7 miliardi alla ricerca?

L'italia non è da mettere in conto. È un paese che sta perdendo tutto, memoria, identità e pensiero. Ma non pensi che in Francia o in Germania la situazione sia migliore. Se andiamo nel profondo della loro situazione culturale, i ricercatori fanno una vita tremenda, sono insormontabili le difficoltà che affrontano. C'è una lotta feroce per conquistare non dico un posto, ma una borsa di studio. La loro condizione di lavoro è disperante. Sono paesi che hanno rifiutato le loro tradizioni intellettuali. Al punto che hanno reso facoltativo l'insegnamento della filosofia nelle scuole. Per fortuna, l'Italia non ha ancora trovato questo coraggio. Voglio fare una provocazione.

Prego...

Farò appello alla Svizzera, il paese che in Europa subisce meno la crisi. Che destini una parte infinitesimale delle sue immense ricchezze a edizioni di classici, a convegni e borse di studio. Faccia ardere la fiamma sopita della civiltà europea.

Ritiene che basti?

Può essere un segnale in un momento in cui rischiamo di diventare l'appendice geografica dell'Asia. L'Europa non ha voluto creare una federazione di Stati, né darsi una costituzione. Si accontenterà di fare da portaerei sul Mediterraneo? Trova piacevole fare il deposito di rifiuti tossici? La nostra sciagura è di avere politici che hanno costumi deteriori, pensano al particolare, si odiano, ignorano il bene comune. Siamo vittime del loro vuoto mentale. A meno che l'Europa non rilanci l'appello di Pericle che disse ad Atene di smettere di fare guerre e diventare la scuola dell'Ellade. Questo continente deve raccogliere la sua eredità culturale, l'unica che gli resta dopo la perdita dell'egemonia politica ed economica sul mondo.

A prima vista, si direbbe che due siano ormai le visioni della crisi divampata nel 2007, e dei modi di sormontarla in Italia. Da una parte c’è il film proiettato dal presidente del Consiglio per anni: la crisi è un fulmine, che non turba il cielo sereno sopra le nostre teste. La chiamano crisi, ma non è tale. Sono i giornali, le istituzioni internazionali, ad angosciarci con le loro aritmetiche cupe. Dovrebbero tacere, lasciar fare i governi. Ben diversa la visione di Tremonti, che usa metafore tutt’altro che confortanti: «La situazione non è bella. Siamo alpinisti aggrappati a una parete verticale, non possiamo traccheggiare».

Tremonti vede il disastro ma anch’egli proietta un suo film, quando paragona il marasma a un videogioco. Sullo schermo irrompe un mostro, dal nulla: o lo uccidi o perisci. Non c’è sguardo lungo. Abbatti l’orco, e passi al successivo. Non c’è tempo per traccheggiare ma neppure, molto, per pensare. Inoltre il videogame puoi spegnerlo.

Così muore il reality show che Berlusconi manda in onda sin da principio: un mondo finto, chiuso. Una sorta di quartiere sigillato, inaccessibile alle ambasce delle metropoli, simile a Milano-2 costruita negli Anni 70.

In America i quartieri sono chiamati gated community, comunità corazzate da grossi cancelli, che proteggono da incursioni esterne e spesso sono dotate di circuiti televisivi stile Mediaset o Tg1, dispensatori di distrazioni. Il reality non dice il reale; lo fa. La negazione della crisi, fino all’allarme di Tremonti, è stata un ingrediente base del film berlusconiano. Anche la negazione dei mostri nascosti (mafia, suoi patti con l’anti-Stato) è ingrediente di rilievo.

Per questo non è appropriato parlare, a proposito della manovra, di sacrifici. Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione, unita a non meno urgenti operazioni verità sulla democrazia minacciata. Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate: il vivere alla giornata, il non guardare lontano, il non voler sapere la verità sullo Stato e su se stessi. Il compito affidatoci è una gigantesca disillusione, più che una rinuncia ai beni che avevamo. Il disilluso possedeva vizi, oltre che beni: volontariamente scelse d’illudersi. Anche Manovra è parola sciapa, che implica un guidatore e masse di guidati. Meglio parlare di un comune, benefico risvegliarsi.

In fondo l’esperienza è simile a quella traversata dal cattolicesimo, dopo lo scandalo della pedofilia. Il clero ha coperto reati atroci, e ora s’accinge a punirli. Ma il compito del risanamento spetta all’intera Chiesa, e la Chiesa non si riduce alla gerarchia: per definizione, è il popolo riunito dei fedeli. Lo spiega magistralmente, sul sito del Regno, il vicedirettore della rivista Gianfranco Brunelli. Perché l’istituzione riacquisti credibilità, deve pensarsi come parte del popolo di Dio, incorporare le vittime, parlare con loro più che a loro: non c’è esclusivamente il clero, da curare. Guarire significa concepire la Chiesa «non solo come istituzione ma come popolo di Dio»: giacché «Dio è delle vittime. Dio è nelle vittime. Là egli si è fatto sentire. Là la Chiesa lo può vedere in maniera privilegiata, poiché là sempre egli manifesta il suo Spirito (Matteo 25)».

Da secoli la Chiesa ispira regni e repubbliche, e oggi come ieri la teologia aiuta a capire, soprattutto in democrazia, il farsi della politica. Lo squasso economico mette quest’ultima a dura prova, e il rimedio anche qui non consiste nel salvare gerarchie e caste ma l’intero popolo della politica: composto di governati e governanti, fondato su sofisticati equilibri fra vari poteri che si bilanciano.

L’Italia economicamente sta meglio della Grecia (grazie al governo Prodi, essenzialmente), ma in molte cose i Paesi si somigliano. Atene è precipitata perché una classe di governanti, per anni, proiettò chimere: visse senza guardar lontano, fino a truccare - in casa, in Europa - le cifre del proprio bilancio. Lo fece per immunizzare caste, politici. Non pensò (qui è la somiglianza) che in custodia aveva tutto il popolo della politica, e in primis i poveri, le vittime, i contribuenti che pagano per gli evasori, i meno organizzati e garantiti. Epifani che annuncia scioperi anti-manovra ha comportamenti immodesti e suicidi: cos’ha dato il sindacato agli italiani, quando bocciò la vendita di Alitalia a Air France, se non più licenziati e fardelli più grevi sulle spalle dei contribuenti?

Degli aspetti tecnici della manovra si sa poco, ma ci sono elementi che fanno impressione: alcune misure sono spudoratamente copiate dal governo Prodi, abbattuto due anni fa. Restano memorabili gli insulti a Visco, stratega agguerrito dell’anti-evasione: fu dipinto come vampiro, nei videogame dell’attuale maggioranza. Ora le sue misure (tracciabilità dei redditi) sono riesumate, e Tremonti non può dar torto a quel che Visco scrive sul sito della Voce: «Se si ritiene che la riduzione dell’evasione sia utile, andrebbero reintrodotte integralmente le misure varate dal governo Prodi e subito abrogate dal governo Berlusconi».

Ma le similitudini tra Grecia e Italia sono innanzitutto politiche. In ambedue i casi, il rigore riesce a due condizioni: se la tecnica è buona, e se la democrazia ha le virtù raccomandate dall’Ocse alla finanza: correttezza, integrità, trasparenza. Per imporre rigore, infatti, i governi devono avere la legittimità etica di chi non tratta il «popolo della politica» come mezzo, ma come fine.

Sulla prima condizione si può sospendere il giudizio. Ma la seconda condizione di sicuro in Italia manca. Questo è un governo che ha passato più tempo a proteggere premier e politici dai processi, che a far politica per gli italiani. Questo è un governo cui l’ex presidente Ciampi chiede solennemente la verità sui pericoli corsi dalla democrazia nelle stragi inaugurate dall’eccidio di Falcone e Borsellino (Repubblica, 29 maggio). Questi sono giorni in cui il partito fondato da Berlusconi è sospettato di un patto con la mafia, che dopo Tangentopoli avrebbe convogliato su Forza Italia i voti di vaste aree del Sud in cambio di favori e promesse.

La crisi, come a Atene, disvela i trucchi ottimisti del film berlusconiano ma anche i suoi scantinati tenebrosi. L’evento fondamentale dei giorni scorsi è stato il discorso di Piero Grasso, mercoledì a Firenze nella commemorazione della strage dei Georgofili. Il procuratore nazionale antimafia non cita Berlusconi e Dell’Utri - non ha le prove - ma dice cose gravi: «Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», e le stragi del ’92-93 volevano causare disordine per dare «la possibilità a un’entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa Nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste». Grasso in genere è uomo prudente. Nel ’98, con altri magistrati, archiviò l’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri ritenuti mandanti occulti del terrore mafioso.

Il procuratore disse queste verità già allora. Per motivi non chiari, il verbale rimase però nascosto. Lo dissotterrano Lo Bianco e Sandra Rizza, in un libro che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere («L’agenda nera»). Se Grasso torna a parlarne oggi è perché ha deciso di abbandonare le autocensure. In parte perché nuovi pentiti testimoniano. In parte perché, grazie alla crisi, il Truman Show berlusconiano si sfalda. Può darsi che la bolla sopravviva un po’, come nel film di Peter Weir. Ma il «popolo della politica» difficilmente si farà persuadere ancora da miraggi e occultamenti dell’incantatore di Palazzo Grazioli. Questo non è tempo di mostri che irrompono nel videogame. Ci sono mostri da stanare, non visibili perché non programmati per esserlo. È vero: «La situazione non è bella». Che diventi, almeno, vera.

DOMANI la manovra arriverà finalmente in Parlamento. Domani il governatore Mario Draghi leggerà la sua relazione annuale alla Banca d´Italia. Domani, alla riapertura delle Borse, si vedrà se i mercati si saranno stabilizzati o lanceranno nuovi attacchi contro i fondi sovrani e contro l´euro.

Nel frattempo la manovra ha perso per strada alcuni pezzi. La soppressione delle Province è stata per ora abbandonata. I tagli e i congelamenti stipendiali di alcune categorie, tra le quali i magistrati, sono stati attenuati.

L´opposizione parlamentare, mai consultata durante l´iter del decreto, si è incattivita. La Cgil, anch´essa platealmente ignorata, ha preannunciato lo sciopero generale per il 25 giugno. Ma l´impianto e i saldi del decreto sono quelli approvati dal Consiglio dei ministri: 24 miliardi nel biennio 2011-2012 per riportare il deficit entro la soglia del 3 per cento fissata dalla Commissione europea e dal Consiglio dei ministri dell´Unione.

Si può dunque dare un giudizio sull´insieme di questi fatti, anche se non saranno pochi gli emendamenti che il decreto subirà nel corso del dibattito parlamentare. Ma affinché il giudizio sia adeguatamente documentato occorre articolarlo sui tre obiettivi che la manovra si propone: risanamento del bilancio, equità, crescita.

La Confindustria questo giudizio l´ha già dato: positivo per quanto riguarda il risanamento del bilancio, negativo per quanto riguarda la crescita. Analogo giudizio hanno dato la Cisl e la Uil.

La Cgil è stata negativa sia sulla crescita sia sull´equità. L´Europa ha plaudito sull´abbattimento della spesa pubblica ma ha raccomandato di far di più per la crescita; identica l´opinione del Fondo monetario e dell´Ocse. La Banca centrale europea teme una crescita troppo lenta. Timori analoghi ha manifestato Draghi parlando qualche giorno fa. Ascolteremo domani la sua relazione.

Intanto la speculazione attende con le armi al piede, incoraggiata dagli articoli dell´ «Economist» e del «Financial Times». Vedremo domani se sui mercati splenderà il sole o diluvierà.

* * *

I 24 miliardi di aggiustamento erano e sono necessari. Semmai ci si può chiedere perché tanta urgenza. Potevano esser tagliati alla fine di giugno o addirittura in settembre e il governo avrebbe avuto più tempo per studiar meglio i provvedimenti e consultare l´opposizione e tutte le parti sociali.

Se la fretta ha avuto come motivazione la difesa dei titoli emessi dal Tesoro, a nostra opinione quella motivazione è sbagliata: la manovra di riduzione della spesa non incide sulle aste dei Bot e dei Btp, come non hanno inciso sull´andamento dei titoli spagnoli gli aggiustamenti di spesa approvati dal governo di Madrid.

Comunque, forse troppo in fretta, quell´aggiustamento Tremonti doveva farlo e l´ha fatto. Le vere ragioni della fretta derivano probabilmente dalla contrapposizione politica tra lui e Berlusconi che infatti - nonostante le smentite di rito - è arrivata ormai al calor bianco e non fa presagire nulla di buono. Ma questo è un altro discorso, che si sta svolgendo tutto in stretto gergo politichese e perciò di ardua traduzione.

* * *

Metà della manovra pesa sui dipendenti dello Stato, l´altra metà sulle Regioni e sui Comuni. Dal punto di vista geografico il peso maggiore si scaricherà sul Mezzogiorno perché la cosiddetta fiscalità di vantaggio in favore degli investimenti nel Sud è aria fritta come è aria fritta l´intero capitolo dedicato all´aumento della produttività: quando la domanda langue, l´investimento non è stimolato in misura apprezzabile e l´edilizia privata e pubblica sono ferme, la produttività resta un´aspirazione consegnata ad un improbabile e comunque lontano futuro.

Nel frattempo ci sono 2 milioni di giovani tra i 20 e i 30 anni di età che sono scomparsi dalla scena, hanno interrotto gli studi, non hanno alcuna formazione professionale, non si sono neppure iscritti negli elenchi dei disoccupati. Due milioni di fantasmi, in buona parte concentrati nel Sud e in Veneto, ai quali nessuno pensa salvo i genitori che debbono mantenerli. Una situazione assurda e inaudita, un bacino potenziale per le organizzazioni criminali come unica contropartita all´inedia.

La logica dei tagli e dei congelamenti previsti per i dipendenti pubblici è formalmente corretta: hanno avuto negli anni scorsi incrementi retributivi decisamente maggiori di quelli dei dipendenti privati e quindi possono «star fermi per un giro» per riallinearsi con i loro colleghi del privato.

Questa «fermata» si effettua tuttavia su livelli stipendiali molto bassi, pari mediamente a 1.200-1.300 euro netti mensili. Il taglio complessivo supera mediamente il 20 per cento se vi si comprendono liquidazioni e altri compensi; cioè riduce la media in prossimità dei 1.000 euro. E´ vero che di altrettanto si riduce la spesa pubblica la quale, ricordiamolo, è cresciuta dal 2007 al ritmo di 2 punti di Pil all´anno. Ma l´incremento stipendiale degli statali rappresenta solo una parte dell´aumento di spesa e neppure la parte maggiore. Forse si sarebbe dovuto operare con più incisività sul resto.

Infine un´altra motivazione, in questo caso politica: gli «statali» votano in maggioranza a sinistra. Il loro scontento non peserà se non marginalmente sul consenso raccolto dal governo. «Abbasso gli statali» è uno slogan che viaggia in tandem con quello di «Roma ladrona»: piace alla Lega e questa è una ragione in più per spiegare le scelte che il governo ha compiuto.

* * *

L´altra metà dell´aggiustamento grava su Regioni (8 miliardi), Comuni (3 miliardi), Province (0,6 miliardi). Lo Stato riduce per 11,6 miliardi i suoi trasferimenti. Gli Enti locali vedano loro dove tagliare, grasso ce n´è. Oppure aumentino le imposte di loro competenza. O infine taglino i servizi.

Credo che grasso da tagliare effettivamente ci sia e sarà un bene se verrà eliminato. Non vorrei che crescessero i debiti con le banche. Ma potranno anche affittare o vendere i beni demaniali in corso di trasferimento. Nel complesso questa parte della manovra non sembra pessima. Colpirà più i Comuni (che hanno però meno grasso) che le Regioni.

La Lega, una volta tanto, è divisa. Alcuni pensano che il centralismo di Tremonti faccia a pugni col federalismo; altri vedono nella manovra un colpo di frusta che affretterà il federalismo fiscale. La verità non sappiamo quale sia perché il federalismo è tuttora un oggetto misterioso. Una cosa peraltro è evidente: il federalismo avrà comunque un costo e un governo senza soldi non sarà in grado di affrontarlo fino a quando il fabbisogno non si sarà stabilizzato e il deficit non sarà rientrato nelle norme europee. Perciò se ne parlerà nel 2012 se tutto va bene. Aggiungo un´osservazione a proposito di federalismo: il passaggio all´autonomia fiscale e istituzionale, se sarà effettivo e non simulato, sarà un fatto rivoluzionario e accentuerà la disparità tra Regioni efficienti e Regioni – cicala, gran parte delle quali si trovano nel Sud.

Sull´inefficienza sudista sono state ormai scritte intere biblioteche e i numeri del resto stanno a dimostrare che non si tratta di opinioni ma di fatti. Pochi ricordano tuttavia che il livello di reddito disponibile per i meridionali è meno della metà del reddito del Nord. Dunque: gestione amministrativa inefficiente, livello delle risorse bassissimo.

Come sarà finanziato nel Sud il passaggio dall´inefficienza all´efficienza? Ci sarà una diminuzione di occupati, un taglio di consulenti, un taglio di pensioni di invalidità, insomma una compressione del potere d´acquisto dei meridionali. Questo è certo. E´ anche inevitabile e necessario. Perfino utile. Ma quella è gente che si è arrangiata per sopravvivere. Chi li deve aiutare per non crepare di stenti? O debbono arruolarsi nella camorra e nella ´ndrangheta? Le donne nella prostituzione e i maschi nella malavita?

Ci vorrà dunque un trasferimento dal Nord al Sud in quella fase; sarà cospicuo e durerà per molti anni. Impegnerà le finanze pubbliche che dovranno «metter le mani nelle tasche». Di chi? Di quali contribuenti? Ci avete pensato?

Aggiungo un´altra osservazione: il nostro Sud è qualcosa di simile alla Grecia rispetto all´Europa. La speculazione lo sa. Perciò concentrerà il tiro sull´Italia in corrispondenza all´attuazione del federalismo.

Finirà nel solo modo possibile: un federalismo al Nord e un´accentuazione di centralismo statale al Sud. Italia a due velocità. Sono prospettive raccapriccianti.

* * *

Tutto ciò detto, credo che Tremonti abbia fatto quello doveva. Molti errori, molte lacune nel risanamento del bilancio, ma l´aggiustamento ci sarà. Non al cento per cento ma almeno al 51.

Questo risanamento vuol dire che i conti non erano sani. Ci si poteva pensare prima. Molti l´avevano previsto da un pezzo. Furono insultati e chiamati anti-italiani. Tutto ciò è arcinoto e Tremonti e Berlusconi lo sanno benissimo: il fatto che continuino a insultare la sinistra nel momento stesso in cui si dimostra che la sinistra non faceva che certificare la realtà, è semplicemente vergognoso.

Ora però è il momento di dare un giudizio sulla parte della manovra riguardante la crescita economica. Ebbene non c´è assolutamente niente da dire in proposito per la semplice ragione che provvedimenti per la crescita nel decreto non ci sono. Non ce n´è neanche l´ombra. Lo stesso ministro dell´Economia, nella conferenza stampa con cui ha presentato il decreto, ha detto che la ripresa sarà molto lenta.

Bisognerebbe stimolarla, ma ci vogliono soldi che non ci sono. Ne hanno dilapidati un bel po´ nei due anni di governo ma ora la cassa è vuota, l´avanzo netto delle spese correnti è sotto zero, lo stock del debito è risalito al 117 del Pil.

Stimolare la ripresa, incrementare l´aumento del Pil, si ottiene con uno sgravio fiscale sul ceto medio, sul lavoro dipendente, sul cuneo fiscale. Per finanziarlo bisogna colpire l´evasione e i patrimoni. Non con un prelievo «una tantum» ma con un´imposta sulle cose per tassare di meno i redditi e accrescere così la domanda.

Lotta all´evasione e spostamento dell´onere tributario dalle persone alle cose per portare l´incremento del Pil dall´1 per cento almeno al 2.

Questo bisognerebbe fare. Tremonti non l´ha neppure pensato, perciò su questa questione merita uno zero. E´ sperabile che il Parlamento lo obblighi a pensarci seguendo così le indicazioni dell´Ocse, del Fmi, della Commissione europea, della Bce, della Confindustria, della Cgil, dell´opposizione parlamentare. Del Capo dello Stato. E anche dell´odiato Mario Draghi.

ROMA - La scure della manovra economica s´abbatte sull´intero tessuto culturale italiano. L´elenco degli enti che non riceveranno più i fondi del governo include gli istituti più importanti, blasoni delle diverse geografie politico-culturali, dalla Fondazione Einaudi a quella Gramsci, dalla Feltrinelli alla Ugo Spirito, dalla Cini all´Istituto Croce, dal Centro Gobetti allo Sturzo, dall´Istituto storico per il movimento di Liberazione al Gabinetto Vieusseux e alla fondazione Olivetti. Milioni di volumi, chilometri di documenti d´archivio, anche un vasto patrimonio museale che rischia di bruciarsi per mancanza di fondi. Alla vigilia del centocinquantesimo compleanno dell´Italia, un´intera tradizione culturale viene decapitata. «Siamo privati della nostra carta d´identità nazionale», sintetizza Franco Salvatori, presidente dell´associazione che rappresenta larga parte degli enti azzerati. «E tutto questo per risparmiare non più di venti milioni di euro: più o meno questa la cifra con cui il governo finanziava i duecentotrentadue istituti liquidati».

In un primo tempo era circolata una "short list" delle fondazioni colpite dalla manovra, poco più di settanta, in cui comparivano anche istituzioni importanti come l´Istituto di studi filosofici di Napoli, ma il danno sembrava limitato. In un secondo momento è stata diffusa una seconda lista molto più lunga, che include il Gotha della cultura italiana nelle sue varie discipline, la Società dantesca e la Domus mazziniana, l´Accademia nazionale di San Luca e l´Accademia Olimpica, e un lungo elenco di istituti ora sull´orlo del fallimento. «Noi rischiamo di chiudere», dice Gianni Perona, direttore scientifico dell´Istituto nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. «I finanziamenti ministeriali costituiscono il pilastro che regge il funzionamento ordinario. A causa della crisi, le fondazioni bancarie sono diventate meno generose». L´allarme investe molte altre sigle, anche luoghi della memoria di grande valenza simbolica come il museo di via Tasso a Roma, o centri come quello Sperimentale di Cinematografia. «Quei fondi», spiega Lucia Zannino, segretaria della Fondazione Basso e dell´Associazione degli Istituti Culturali, «costituiscono l´ossigeno per la gestione ordinaria. In gioco non è soltanto la vita culturale delle società, ma un patrimonio librario e archivistico di straordinario valore».

Un azzeramento che appare demagogico, non giustificato dalle risorse risparmiate. «Forse vogliono giocarsi la carta delle duecentotrenta sigle, per fare un po´ di scena», suggerisce il professor Salvatori, presidente della Società Geografica Italiana, anch´essa a rischio. «Si sacrifica la storia culturale nazionale per nulla. A meno che non vi sia una volontà punitiva». Quel che colpisce è il passaggio delle competenze dal ministero dei Beni Culturali al ministero dell´Economia e alla presidenza del Consiglio. Un articolo del decreto stabilisce che il 30% delle risorse ricavate potrà essere elargito a quegli istituti che ne facciano "documentata" richiesta. Tuttavia chi decide quali istituti salvare e quali affossare non è più Sandro Bondi, ma Tremonti e Berlusconi. Gli studiosi mostrano perplessità. «Cosa c´entrano il ministro delle Finanze e il premier con valutazioni di merito sugli istituti culturali?», si domanda Perona. «Non era mai accaduto finora».

L’assessore al territorio: coinvolgere i cittadini non è una perdita di tempo - Sul Vespucci: "Giusto renderlo più funzionale ma ha comunque dei limiti fisici" - Gli outlet: "Bisogna valutarne la costruzione se danneggiano il commercio"

Marson forse ancora non lo sa, ma Castello e l’aeroporto, prima che questioni politiche, sono psicodrammi fiorentini. Da saggia intellettuale che vuole ridare una cifra razionale alla politica, non entra nella mischia delle pressioni e degli interessi contrapposti, ma enuncia i criteri delle scelte. «La Regione deve tenere fede ai suoi impegni. Il parco è stato deciso come strumento di compensazione legato all’impatto sanitario del termovalorizzatore. Quest’ultimo e il completamento della Perfetti-Ricasoli sono già stati definiti dal governo regionale, l’atto di indirizzo del consiglio impegna a procedere con il coinvolgimento dei cittadini al fine di ottenere il massimo di condivisione sociale».

Se la pista parallela va a mangiare ettari di parco, addio pista parallela? Anche lei, come utente di Peretola, si è scontrata con i limiti operativi dell’aeroporto. «E’ giusto renderlo più funzionale ma i limiti fisici della sua collocazione riducono l’ipotesi di farlo diventare un aeroporto con collegamenti internazionali diretti. Occorre invece avviare un dibattito pubblico istruito su scelte tecniche concrete. E cominciare a integrare le due società del Galilei di Pisa e del Vespucci». 


Su Castello è al tempo stesso più severa e più elastica. «Le intercettazioni che ho letto testimoniano una insufficiente cultura del processo decisionale pubblico per la definizione degli assetti futuri. C’è stata una evidente sottovalutazione della posta in gioco».

Si riferisce, ipotizziamo, all’ex sindaco Domenici e alle parole che usava nelle sue telefonate con l’assessore Biagi. «Parliamo - dice lei - di carenze cognitive. Se ci fosse stato un ampio processo partecipativo fondato sul dibattito pubblico, queste carenze sarebbero state compensate».

Marson batte e ribatte sull’ampliamento della partecipazione dei cittadini al meccanismo decisionale. «All’inizio può sembrare che ciò faccia perdere tempo, ma poi la condivisione elimina i veti incrociati e accelera il processo decisionale. La Scuola dei marescialli è l’esempio di ciò che non è augurabile, è stato distruttivo per Castello. Se attraverso la partecipazione si fosse giunti a definire ciò che è praticabile e ciò che non lo è, non si sarebbe che migliorata la situazione. Di fronte a indirizzi e scelte concrete, anche il proprietario dell’area potrebbe essere disponibile a rivedere i termini dell’accordo».

Dunque, Marson non dice sì o no al parco di Castello o alla Cittadella dei Della Valle: dice che non si può un giorno mettere a Castello una cosa, il giorno dopo un’altra. E che solo attraverso scelte precise è possibile riavviare un rapporto con il privato, Ligresti, per arrivare a una soluzione che accontenti tutti. «Piacerebbe molto anche a me sapere che cosa dice la relazione Pericu sulla convenzione tra Ligresti e il Comune di Firenze. Capisco che una certa riservatezza serva. Ma quando si apre un dibattito, se lo si rende pubblico si eleva il tono». 


Dietro Castello e aeroporto, c’è il grande tema dell’uso del territorio. Marson è favorevole al Piano di indirizzo territoriale, varato pochi mesi fa dalla Regione o ne individua un limite nell’eccesso di autonomia di scelta concesso ai Comuni? «Il paesaggio di questa Regione ha un valore simbolico, è l’icona del bel territorio, fatto di natura e cultura, cioè di geografia e lavoro degli uomini. Ma anche qui, talvolta, gli amministratori si rivelano non all’altezza della qualità culturale di cui i toscani sono intrisi. Porsi il problema nei termini di chi ha l’ultima parola sulle decisioni territoriali, a me sembra sbagliato. Ad ogni potere deve corrispondere un contropotere, alla autonomia del Comuni devono corrispondere meccanismi di valutazione e di controllo della Regione. La legge 1 affida grande autonomia ai Comuni, la Regione partecipa solo all’avvio del piano strutturale mentre è assente nella fase di approvazione del regolamento urbanistico, quello che fissa concretamente le realizzazioni sul territorio. Siamo stati un po’ travolti da questa novità, dall’autonomia dei Comuni, non abbiamo creato strumenti che fossero capaci di correggere l’esercizio di quella autonomia laddove non funzionasse. Intendo così la lettera del procuratore Quattrocchi sul caso di Montespertoli. Se tu Regione vai avanti nel riconoscere l’autonomia di scelta dei Comuni, devi dotarti dei meccanismi di correzione quando essa devia».


Dunque, Marson annuncia un maggiore controllo regionale sul territorio. Sostiene l’idea di un uso il più moderato possibile, privilegia la riqualificazione e la ristrutturazione. Già, ma secondo quali parametri? A Firenze il sindaco Renzi parla di piano strutturale senza aumento di volumetrie, anche se a Castello la posta in gioco prevede centinaia di migliaia di nuovi metri quadrati. «Il Comune di Firenze dovrà rivedere le norme Quadra e anti-Quadra, ne discuteremo insieme. Vede, allargare il territorio urbanizzato, oltre a ridurre gli spazi agricoli una volta per tutte, porta a serie complicazioni. Una: le società di pubblica utilità non riescono più a sostenere i costi di allargamento della rete dei servizi. Riqualificare e ristrutturare è una buona risposta anche alle nuove esigenze abitative. Non sempre per dare una abitazione occorre costruire nuove case, come le cooperative stanno cominciando a scoprire».

Renzi l’ha chiamata? «No».


Ultima battuta, gli outlet. «Occorre valutare quanto costruirli ai confini della città ne danneggino il commercio tradizionale. Le società che li costruiscono sono spesso finanziate da fondi di investimento dedicati. Possibile che la Toscana non sia capace di usare questi strumenti di raccolta del credito per realizzare cose utili alla collettività, aree di insediamento dell’industria manifatturiera, ad esempio? E’ una scommessa che vorrei vincere».

l'Unità

«Tav, Cittadella, Foster: ecco tutti i miei dubbi»

di Osvaldo Sabato

Le villetta di Monticchiello, che fecero infuriare Alberto Asor Rosa, il nuovo capannone di 360 metri cubi della Laika a San Casciano, poi le inchieste fiorentine su Castello e Quadra, passando per Montespertoli e Barberino del Mugello. Non sono stati anni facili per l’urbanistica in Toscana spesso nell’occhio del ciclone.

Con la nuova giunta del neo governatore Enrico Rossi il governo del territorio è toccato all’urbanista Anna Marson docente all’università di Venezia (ex assessore per un anno e mezzo col l’allora presidente Zoggia, ora responsabile nazionale enti locali Pd). Un tecnico, senza tessera di partito ma, come ammette lei stessa, «proposta dall’Italia dei Valori ». Appena giunta nella stanza dei bottoni dell’urbanistica toscana dimostra di avere le idee chiare sulle cose da fare per recuperare «la governance e il rapporto di comando e controllo della Regione sui comuni» per trovare «il coordinamento giusto» in modo «da consentire alla Regione di esercitare la propria funzione di indirizzo». Se lo slogan elettorale di Rossi era «Toscana, avanti tutta» quello di Anna Marson è «volumi zero» e «partecipazione dei cittadini sulle scelte urbanistiche».

Il Pd metropolitano di Firenze l’accusa di essere troppo movimentista, ma lei non fa una piega; «mi confronterò, anzi vorrei incontrarli» dice la professoressa impegnata con la Cgil vicentina sul caso Dal Molin, ora titolare delle deleghe che per dieci anni sono state del democratico Riccardo Conti, non nasconde di essersi sentita una sorta di Alice nel paese delle meraviglie nella sua prima esperienza di assessore a Venezia «circondata da relazioni e avvenimenti tra il misterioso e lo strampalato ». Ora la professoressa Marson dovrà dire la sua sul nuovo piano strutturale del sindaco di Firenze Matteo Renzi.

La Regione pensa ad una deroga sui tempi? «So che è stato chiesto un primo incontro» rivela Anna Marson «quindi prima di dare dei giudizi vorrei capire la posta in gioco». Nessuna «preclusione ideologica» alla deroga, spiega l’assessore di Rossi. Castello, aeroporto di Peretola, tunnel tav e stazione Foster senza la verifica di impatto ambientale «in Italia non c’è mai stata una valutazione che si sia conclusa con il diniego dell’opera» ricorda Marson, non sono che alcuni tasselli della partita urbanistica che si dovrà giocare nel capoluogo toscano. «Su Castello la Regione non può giocare un ruolo secondario» anticipa Anna Marson. Come per il parco della piana «in questo caso è stato attivato un processo di ascolto» ricorda l’assessore «ma non di partecipazione».

La cittadella viola? «Bisogna verificare fino a che punto è fondamentale concedere al privato tanti volumi edificabili in più rispetto a quelli che servirebbero per lo stadio» è la sua tesi. È cauta. Come sullo sviluppo dello scalo di Peretola «per me la priorità non è la nuova pista ma la messa in rete dei due scali di Firenze e Pisa». Parole spesso in controcorrente, come la sua posizione sul sotto attraversamento Tav «soluzione scelta senza un confronto fra le alternative » dice Marson «avrei voluto un confronto fra le diverse ipotesi per capire meglio i pro e i contro, ma non è stato così». È musica per i comitati anti Tav.

«La stazione di Foster ? Interviene in un territorio, che dal punto di vista idrogeologico è molto complesso» osserva l’assessore regionale «potrebbero esserci dei cedimenti con possibili contenziosi lunghi dei proprietari di superficie che chiederanno i danni, allungando così i tempi e il costo dell’intervento ». Non solo. «Sotto Firenze c’è una città etrusca e romana, non mi sembra un intervento facile» avverte la professoressa.

Il Corriere Fiorentino

«Non sono una movimentista di professione»

Marson si dà un decalogo. Ma senza fare dietrofront

Il neo assessore all’urbanistica: meno mattone, più riutilizzo

di Mauro Bonciani

La giunta regionale di ieri è iniziata proprio affrontando la parte del programma che riguarda l’urbanistica e Anna Marson, la docente universitaria indicata dall’Idv come assessore (scelta al centro di molte polemiche), ha capito subito che il suo ruolo non sarà facile. E lei rilancia, senza sconti, né retromarce. Ma anche senza anatemi.

Assessore Marson, lei è il nome più «nuovo» della giunta, tutti sapevano che Rossi voleva un tecnico alla sanità ma nessuno si aspettava il bis con l’urbanistica: come è andata?

«Ad inizio della "fatidica" settimana in cui Rossi ha varato la giunta Pancho Pardi mi ha chiesto il curriculum. Poi giovedì sera il presidente mi ha chiamato e mi ha chiesto di vederci; lo abbiamo fatto, ci siamo scambiati opinioni sulla gestione del territorio, ho condiviso le sue idee ed ho detto di sì».

Dalla sua precedente esperienza come amministratore sono passati 11 anni: è perché la politica si affida ai tecnici solo nelle emergenze come lei ha scritto?

«La politica, giustamente, reclama suoi esponenti e rappresentanti e solo eccezionalmente affida l’urbanistica ai tecnici. In questo caso l’eccezionalità sta nel fatto che per troppo tempo le infrastrutture hanno avuto la meglio come energie e risorse sull’urbanistica. Ora c’è la consapevolezza che nell’attuale crisi il ruolo del territorio è fondamentale. Che non si può svenderlo».

È movimentista come molti le rimproverano?

«Non sono movimentista di professione... — sorride Marson —ma su alcune singole questioni mi sono trovata su quelle posizioni. E non sono neppure "verde", nel senso che so benissimo che la natura va protetta ma anche che il rapporto tra natura e uomo è parte dello sviluppo, anche economico, a patto di non distruggere il territorio».

Può spiegare perché in un suo saggio ha usato la parola marionette riferendosi ai sindaci e citando gli esempi di San Casciano e Montespertoli?

«La ringrazio della domanda perché mi dà l’opportunità di spiegarmi. Con la parola marionette non intendevo assolutamente offendere i sindaci, anzi. Intendevo sottolineare che i primi cittadini dei piccoli Comuni si trovano in qualche modo a non poter decidere, a vedersi imposte decisioni da aziende e promotori molto più "pesanti" di loro. Volevo evidenziare la crescente impotenza di sindaci e concittadini nell’esercitare la sovranità sul territorio e il paesaggio. Ma oggi sia Montespertoli che San Casciano, con nuovi sindaci giovani, dimostrano che le cose possono cambiare».

Cambierà idee o ruolo, adesso che è assessore regionale?

«So benissimo che ora il mio ruolo è diverso, che consiste nel mediare tra posizioni diverse e anche distinte e lo farò, ma trovando soluzioni più avanzate. E bisognerebbe riprendere a formare personale urbanistico nelle strutture comunali come faceva il centrosinistra negli anni Settanta».

Sarà possibile conciliare decisioni in tempi brevi, come il sì ad insediamenti produttivi in sei mesi, e partecipazione?

«Lo spero e lo auspico. Esiste già un atlante delle aree produttive da riutilizzare o con spazio ancora disponibile, attrezzabili ecologicamente e qui si può lavorare per snellire le procedure e attrarre investitori che si fermino in Toscana, non mordi e fuggi». Come si fa a consumare meno suolo e incentivare il riutilizzo delle aree dismesse? «Approfondirò subito questo tema, in collaborazione anche con le associazioni dei costruttori perché spesso la rendita immobiliare delle aree da riutilizzare è più alta per i proprietari di quella di aree "vergini", ma per le imprese significa procedure complesse. Dobbiamo far sì che le condizioni siano favorevoli per tutti».

Parlando della Laika ha detto che il terreno per il nuovo stabilimento poteva essere dato in affitto, invece che fatto acquistare. Pensa di introdurre questa pratica in Toscana?

«In Europa esiste da tempo e si può fare anche da noi, magari dando il terreno in concessione per 99 anni anche se non è facile perché in Italia gli espropri sono a prezzi di mercato. Si potrebbe però creare un fondo immobiliare e un’agenzia ad hoc per le aree da destinare ad insediamenti produttivi».

Ha affermato che potenzierà la partecipazione dei cittadini alle scelte: come?

«Applicando meglio la legge regionale, soprattutto sulle grandi opere come non è stato fatto per il tunnel dell’Alta Velocità a Firenze e come dovrà accadere per il Parco della Piana».

Compatibili ampliamento dell’aeroporto e Parco della Piana?

«Prima integriamo efficacemente lo scalo di Firenze e quello di Pisa e poi vediamo se, come e quanto serve ampliare il Vespucci».

E cosa pensa del corridoio tirrenico

«Che, qualunque sia il progetto, è fondamentale bloccare usi impropri dei territori limitrofi e garantire che i profitti che ne derivano vadano alla collettività».

Per concludere, obiettivi dei suoi primi 100 giorni?

«Portare avanti il mio programma, stilare un elenco di buone pratiche in Regione che già esistono. E proporre un tavolo di cooperazione e concertazione con le amministrazioni locali».

La Nazione

Marson: «Più potere ai tecnici»

di Stefano Cecchi

NON VESTE Prada ma molti sindaci (soprattutto del Pd) sospettano lo stesso sia il Diavolo. Anna Marson, neo assessore regionale all’urbanistica in quota Idv, appare per loro come il Belzebù girotondino, pronto a ingessare la Toscana sotto le insegne di un ambientalismo da crociata. All’idea, lei si fa una risata grassa e rotonda come una mina marina: «Ringrazio dell’attenzione che mi viene dedicata, ma con i sindaci spero di parlare presto, e direttamente, delle questioni che li riguardano».

Facciamo un passo indietro, allora. Il suo nome non è mai comparso nei toto-giunta. Poi...

«Poi sono esplosa improvvisamente, come un vulcano».

Quando l’ha saputo?

«La sera prima delle nomine mi ha telefonato Rossi che aveva visto il mio curriculum».

Il suo nome risulta averlo fatto in extremis Pancho Pardi...

«Qualche giorno prima lui aveva parlato con me chiedendomi il curriculum. Ho ragione per credere sia successo così».

Evangelisti non lo conosceva...

«No, non frequento il partito».

Che rapporti ha dunque con l’Idv?

«Ho grande apprezzamento per le battaglie di Di Pietro. La stagione di Mani pulite è stata molto importante per l’Urbanistica».

Dell’Idv le piace di più l’anima che molti definiscono giustizialista o quella girotondina?

«Io ho condiviso molte delle battaglie dei “girotondi”. Ovviamente non potendo esistere un partito-girotondo, quando si ragiona dell’Idv bisogna farlo su un altro piano».

Di Pietro o De Magistris: con chi andrebbe più volentieri a cena?

«Con Di Pietro».

Torniamo all’urbanistica: molti leggono la sua scelta come una rivoluzione copernicana col passato: una lettura giusta?

«Rivoluzione copernicana è parola grossa. Diciamo che mi piacerebbe immettere nella pubblica amministrazione una cultura un po’ diversa. So che sarà faticoso».

Chiede tempo?

«Penso che dovreste darmi almeno uno o due anni. Sempre se non mi faranno fuori prima».

In questo senso ha più paura del Pdl o del Pd?

«Di nessuno dei due. Non perché sono incosciente, ma perché credo che le questioni culturali legate all’urbanistica siano trasversali rispetto ai partiti».

Che giudizio dà del lavoro svolto dal suo predecessore Conti?

«L’assessorato era diverso, comprendeva più deleghe. Mi pare che lui abbia privilegiato quella alle infrastrutture rispetto all’urbanistica».

Ergo?

«Ciò ha portato un po’ a una trascuratezza dell’urbanistica e anche a una sua subordinazione».

Da professoressa che voto darebbe a Riccardo Conti?

«L’approccio che ho con i miei studenti è quello di farli maturare prima di dare loro un voto».

Non eluda la domanda...

«Mi scusi ma ho frequentato la scuola Montessori. Forse mi ha rovinato per sempre».

Proviamo con gli esempi: lei nel caso Monticchiello come si sarebbe comportata?

«Prima di rispondere vorrei approfondire quale sia effettivamente lo spazio di intervento diretto che la Regione può avere, ed è giusto che abbia, con i Comuni».

Un nodo fondamentale per la sua azione da assessore...

«La vecchia impostazione di comando e controllo sui Comuni è stata dismessa. In questo momento siamo in una fase in cui le magagne vengono fuori solo quando sono oramai realizzate».

Asor Rosa e i “comitati” chiedono per questo un ritorno alle decisioni centralistiche..

«Che io non condivido. In questo, sono federalista».

Eppure c’è chi dice che grazie a lei i “comitati” sono entrati nel governo regionale...

«Io non faccio parte dei comitati di Asor Rosa. Ho solo partecipato ad alcuni eventi sul territorio portando il mio contributo».

Però si sente più vicina alle scelte urbanistiche fatte dalla scorsa giunta regionale o alle critiche sollevate da Asor Rosa?

«Difficile rispondere. Una cosa è stare fuori, altra fare l’amministratore. Credo che anch’io per questo sarò criticata. Ciò detto, non ho certo intenzione di diventare un Riccardo Conti o di seguire le sue politiche».

Ha più punti di contatto con Beppe Grillo o con Conti?

«Con nessuno dei due, in quanto donna».

Una cosa che vuole realizzare da assessore?

«Dare maggiore competenza, anche sociale, ai tecnici che si occupano di urbanistica».

A proposito: chi sono quelli che lei ha definito i lupi di sinistra?

«Tutti quelli che si erano accordati col senatore del Pdl Maurizio Lupi per fare quella proposta di legge sull’urbanistica».

Quella proposta non è passata…

«Ma molti, nei fatti, hanno portato lo stesso avanti

Loretta Napoleoni

La bancarotta resta

dietro l’angolo

Olanda e Germania sono tra i pochi Paesi di Eurolandia che questa settimana non hanno dovuto presentare in fretta a furia misure d’austerità. A differenza dell’Italia, sulla quale sta per cadere la scure di Tremonti, queste nazioni sono solide e per ora Non corrono il rischio di essere trascinate nel gorgo dell’insolvenza. Le altre, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna e Gran Bretagna, da settimane lottano per la sopravvivenza.

La situazione è gravissima: come un de-ja-vu della crisi dei mutui spazzatura americani, solo che questa volta alla radice c’è il debito sovrano. Due anni e abbiamo raggiunto l’ultimo anello della catena di Sant’Antonio della finanza globalizzata: a chi passare il debito? Alla Banca Centrale Europea (Bce)? Improbabile. Secondo uno studio della Royal Bankof Scotland, quello accumulato da Grecia, Spagna e Portogallo ammonta a circa duemila miliardi di euro, di cui almeno un miliardo si trova nei forzieri di Eurolandia. Economisti e analisti finanziari concordano che neppure la partecipazione attiva della Germania potrebbe sanarlo. Non ci sono abbastanza soldi. Ciò significa che per evitare il crollo del sistema bancario qualcuno dovrà fallire. La prima in lizza è la Grecia. Sui mercati ormai tutti la danno per spacciata, solo la Bce le presta i soldi. I mille miliardi di euro messi a disposizione da Eurolandia non hanno convinto i mercati e senza di loro non si può procedere alla ristrutturazione del debito greco per ridurlo a cifre “pagabili”. Non rimane che la bancarotta e la successiva ristrutturazione come è successo per Argentina e Islanda. Nell’attesa che si arrivi a questa decisione e per attutire al massimo il colpo, la Bce rastrella sul mercato le obbligazioni greche, naturalmente utilizzando i soldi di noi i europei.

Salverà questo sacrificio il sistema bancario? Non è facile dirlo. Come avvenne nel 2008, i prestiti interbancari all’interno e verso Eurolandia si stanno atrofizzando, segno che i mercati temono il peggio. Il Libor, il London Interbank Offered Rate, quello al quale le banche si approvvigionano a vicenda, è risalito ai massimi del 2009, quando si temeva un congelamento totale dei prestiti interbancari. Allora intervenne la Riserva Federale, ma la Bce non ha i muscoli monetari per farlo. Fa paura pensare di essere tornati a quei momenti tragici del dopo Lehman e ancora più si teme il parallelo con la grande depressione del 1929 quando ci trovammo di fronte ad una crisi con due picchi, il secondo, quello micidiale, coincise con il crollo delle banche.

A tenere le redini del destino di Eurolandia non sono i ministri delle Finanze ma il mercato. Ed è per accattivarsi le sue simpatie che si è lanciata l’austerità, parola impronunciabile fino a poche settimane fa. Eppure da anni gli indicatori economici sono fuori dei paletti imposti dal trattato di Maastricht, solo mesi fa si sarebbero potute introdurre misure meno drastiche e improvvisate senza avere il fiato del mercato sul collo. Ma ormai lo sappiamo bene, questa classe politica lavora solo quando c’è la crisi e in gioco c’è la sua sopravvivenza, non quella del Paese che rappresenta, il resto del tempo fa spettacolo e campagna elettorale. Le misure varate rispecchiano questa triste verità. Fatta eccezione della Gran Bretagna, dove un nuovo governo di coalizione è stato da poco eletto sulla piattaforma di austerità, tutti gli altri Paesi hanno raffazzonato una serie di tagli che colpiscono quella fetta sempre più piccola della popolazione che paga le tasse e che invece bisognerebbe sostenere nei momenti recessivi. Chi negli ultimi vent’anni ha intascato più del 60%della crescita del Pil, dagli Hedge Funds al crimine organizzato, non viene toccato perché ha imboscato i guadagni, ha evaso il fisco o semplicemente opera nel mondo dell’illegalità. Ecco uno dei motivi per cui i cittadini europei questa austerità non la vogliono.

In Italia si cerca di addolcire la pillola con l’usuale propaganda: si abbattono i salari nominali e quelli sociali,ma ci si vanta di non aver aumentato le tasse. Viene spontaneo pensare che il motivo sia solo lo scarso numero di chi le paga. Si condanna l’ennesimo obbrobrio edilizio per poterlo accatastare invece di far pagare una penale salatissima a chi lo ha commesso e costringere costoro anche ad abbattere queste costruzioni come avviene in Inghilterra e nella maggior parte dei Paesi civili.

Propaganda, demagogia, austerità, neppure il bavaglio alla stampa salveranno la nostra classe politica e i loro tirapiedi dalla crisi economica. Che si tratti della tanto attesa resa dei conti?

Paolo Leon

Ma la speculazione si può fermare

Il coro è unanime: l’Europa ci chiede di rientrare rapidamente nei parametri che legano deficit e debito al Pil per evitare il pericolo greco, e cioè la corsa speculativa contro i titoli di Stato dei paesi maggiormente indebitati o in deficit. E già non ci siamo: la speculazione guarda al deficit o al debito? In Italia dovrebbe guardare al debito, in Spagna e Portogallo al deficit, ma non è la stessa cosa, perché è molto più facile ridurre il deficit del debito. Ergo: noi dovremmo essere sotto pressione più degli altri paesi,ma non lo siamo, come mostrano i rendimenti dei nostri BOT. In realtà, sia noi sia l’Europa sembriamo ipnotizzati dalla speculazione, e non ci è offerto altro ricorso se non quello di strozzare la ripresa, far crescere la disoccupazione, ridurre ancora di più il cosiddetto modello sociale europeo (istruzione, sanità, previdenza, sussidio di disoccupazione) e la sua “tecnostruttura” (l’impiego pubblico).

Non nego che occorrano misure per ridurre la spesa pubblica o aumentare le entrate, ma queste misure sarebbero molto meno dure se, contemporaneamente, l’Europa e noi cercassimo di tagliare l’erba sotto i piedi alla speculazione finanziaria. La Germania lo sta facendo alla grande: ha appena limitato la speculazione al ribasso contro i titoli di Stato in euro commerciati nel paese, e sta per approvare una legge che allarga la limitazione ad ogni speculazione al ribasso (gli Usa l’hanno proibita fin dal 2005). Ricordo cos’è la speculazione al ribasso: si vendono titoli nell’attesa di comprarli più tardi ad un prezzo più basso, e si possono vendere titoli anche senza possederli, per ricomprarli a prezzo più basso domani e consegnarli all’originale acquirente (naked shorting); questa seconda speculazione è quella più deleteria.

Quando la Merkel ha annunciato la nuova misura, il resto d’Europa non l’ha seguita. Non esiste una Consob europea, i mercati europei sono meno regolati di quello americano, né la Banca Centrale Europea poteva imporre una propria deliberazione in proposito. Nessuno ha spiegato perché la Germania si è mossa da sola, né chi stia proteggendo in Europa la speculazione al ribasso: il Parlamento sarà chiamato a votare su un decreto legge di austerity fiscale, senza che sia stato spiegato perché si sia di fronte ad una nuova crisi finanziaria.

Il caso della Grecia è chiaramente una scusa, perché per quanto grande quel debito, si tratta pur sempre di un’infima quota del debito europeo e del patrimonio europeo. C’è un grande difetto di trasparenza in Europa, ma non sappiamo nemmeno quali posizioni abbia sostenuto a Bruxelles il nostro paese in merito alla lotta alla speculazione, né se esiste una qualsiasi azione italiana per portare in Europa le stesse riforme che Obama sta mettendo in atto su banche e società finanziarie. Il timore è che non si voglia affatto lottare e il sospetto atroce è che la manovra di restrizione sul bilancio pubblico sia vista come un’opportunità per ridurre il ruolo dello Stato, sconfiggere lo Stato sociale o, alla peggio, passati due anni, tornare a largheggiare nella spesa pubblica in tempo per nuove elezioni.

Quale che sia l’esito parlamentare dell’infausto provvedimento sulle intercettazioni, un rilevante successo la campagna di stampa contro la legge-bavaglio l’ha già raggiunto: e cioè la mobilitazione dell’opinione pubblica, giuristi, intellettuali, editori, giornalisti, studenti e cittadini comuni, tutti schierati in difesa della libertà d’informazione, correttamente intesa come libertà di essere informati e quindi come libertà di informare.

Una confortante manifestazione di quella società civile, certamente sollecitata dall’impegno dei giornali e in prima linea del nostro, che spesso viene evocata come in una seduta spiritica. E che improvvisamente si materializza e si esprime come in un prodigio. Il post-it incollato sulla bocca di tanti lettori e di tante lettrici rappresenta ormai il simbolo di questa ribellione popolare, la bandiera di un’opposizione diffusa che va al di là dei numeri e dei seggi in Parlamento. Quel foglietto giallo, una delle più grandi "invenzioni minime" del nostro tempo, diventa così il distintivo di un’opinione pubblica - di destra, di centro o di sinistra - che si sente espropriata di un suo diritto fondamentale e perciò reagisce per riappropriarsene. Vogliamo sapere, insomma, per poter giudicare.

«Un individuo libero e attento ai suoi bisogni e interessi - scrive Eugenio Scalfari nel suo ultimo libro Per l’alto mare aperto - sente la necessità di inventarsi lo Stato, appunto come entità astratta, e la cittadinanza come status di massa, fondata sull’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge». Ecco, il cittadino, lo Stato e il governo. Qui il governo in carica non amministra lo Stato né difende il cittadino, ma tende piuttosto a imporre una legge autoritaria e repressiva attraverso cui conculca, viola, calpesta i diritti dei cittadini.

Nella falsa retorica del regime mediatico, il ministro della Giustizia proclama che la legge-bavaglio serve a difendere - nell’ordine - la privacy, il diritto di cronaca e infine la funzione investigativa. Ma si tratta chiaramente di un artificio, o di un’ipocrisia bella e buona, per occultare lo spirito e la sostanza di un provvedimento liberticida. È vero infatti che occorre garantire un equilibrio fra questi tre diritti costituzionali, ma l’ordine semmai andrebbe invertito o comunque adattato alle circostanze, al caso specifico: la tutela della legalità, innanzitutto, come superiore interesse collettivo, poi l’informazione e quindi la riservatezza individuale.

Non c’è dubbio che abbiamo assistito finora a molti abusi nella gestione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, all’interno e all’esterno della sfera penale. Da strumenti d’indagine "straordinari", spesso si sono trasformate in strumenti "ordinari"; da mezzi di ricerca della prova sono diventate prove in sé. Ed è fuori discussione che bisogna preservare il singolo cittadino dalla "gogna mediatica", a maggior ragione quando è incolpevole o addirittura estraneo alle indagini. Le intercettazioni tuttavia restano assolutamente necessarie nella lotta al malaffare e alla criminalità organizzata, tanto più in un Paese come il nostro contagiato da una corruzione endemica e infiltrato dalla mafia, dalla camorra e dalla ‘ndrangheta.

La controriforma del governo Berlusconi - sulla quale perfino il presidente del Senato, Renato Schifani, sembra nutrire ora qualche ripensamento - non mira affatto a correggere e a sanare queste disfunzioni, bensì a colpire l’anello debole della catena, a punire i giornalisti, a mettere il bavaglio o la museruola alla libertà di stampa. Più che a contenere i costi per l’organizzazione della giustizia e a evitare i danni per i terzi incolpevoli, il disegno di legge del ministro Alfano punta in realtà a ridurre il diritto all’informazione, anzi a negarlo e mortificarlo. Non sono insomma la tutela del segreto investigativo e la difesa della privacy i veri obiettivi di questo provvedimento, quanto piuttosto la protezione della "casta", il blackout sugli scandali di regime, il controllo dei giornali e dei telegiornali o magari la loro sottomissione al potere politico.

Nel nostro Codice, è già scritto del resto che le intercettazioni devono essere usate con la massima prudenza, solo quando ricorrono gravi indizi di reato e quando sono «assolutamente indispensabili al fine della prosecuzione delle indagini». Che cos’altro c’è bisogno di aggiungere, di precisare, di limitare? Non abbiamo difficoltà a riconoscere, come convengono da fronti opposti il giudice Carlo Nordio e l’avvocato Giuliano Pisapia nel loro dialogo editoriale intitolato In attesa di giustizia, che a volte l’uso o l’abuso delle intercettazioni configura una "incivile violenza" o addirittura "una barbarie". Più che punire i giornalisti o sanzionare gli editori di giornali, però, sarebbe opportuno individuare a monte le responsabilità effettive, impedendo che chi ha l’obbligo istituzionale di tutelare il segreto investigativo finisca poi per violarlo impunemente.

Proprio in forza del diritto all’informazione, i giornalisti hanno invece il dovere professionale e deontologico di divulgare tutte le notizie di cui entrano in possesso, una volta accertata l’attendibilità della fonte da cui provengono e verificato l’interesse generale ad apprenderle. Si può anche discutere allora sulla necessità di un Codice di autoregolamentazione in materia, da definire magari insieme ai magistrati, per darsi una disciplina migliore, rispettare ancora di più l’attività giudiziaria e la riservatezza dei cittadini. Ma di fronte a un interesse superiore della collettività la politica deve fare un passo indietro e rimettersi eventualmente a un’iniziativa del genere, se non vuole soffocare la libertà di stampa e quella d’opinione.

Postilla

Ha ragione Valentini quando scrive di “una confortante manifestazione di quella società civile, certamente sollecitata dall’impegno dei giornali”. In questa occasione la stampa si è mobilitata in modo eccezionale e il suo impegno è stato decisivo nella mobilitazione a difesa del bene comune primario dell’informazione, base della democrazia. Ma altri beni comuni non hanno visto né vedono un impegno confrontabile. Eppure molti altri beni comuni sono a rischio, trovano nella società civile reazioni altrettanto decise, ma ottengono uno spazio assai minore, un sostegno assai più misurato, una visibilità straordinariamente minore dagli organi che, informando, formano l’opinione pubblica: pensiamo alla campagna per la difesa dell’acqua pubblica, ad esempio. Altri temi ancora trovano i mass media del tutto distratti, assenti, addirittura disinformati o contro informati: come il caso della costruzione dopo il terremoto in Abruzzo (dove per mesi il nostro sito fu l’unico a denunciarne i turpi errori). E che vogliamo dire del furto del patrimonio comune che sta avvenendo con il cosiddetto “federalismo demaniale”? In realtà su tutti i temi connessi al territorio, alla sua tutela, alle condizioni di vita che le sue trasformazioni determinano, i mass media sono assenti.

I primi sindacati di base fecero capolino nella storia del conflitto sociale italiano in una stagione straordinaria. Era il secondo «biennio rosso», '68-'69, un altro mondo. La cosa più «riformista» - termine al tempo considerato dispregiativo non solo dall'«estremismo di sinistra» - nata in quell'epoca, quando i Cub della Pirelli emettevano i primi vagiti, fu lo Statuto dei lavoratori di cui oggi si festeggia il quarantennale e che in tanti vorrebbero seppellire.

Nell'arco di questi quarant'anni è cambiato quasi tutto nel mondo del lavoro. Anche i sindacati di base sono cambiati, si sono moltiplicati e spesso frantumati in microvertenze, in qualche caso si sono persino aziendalizzati. La tendenza prevalente è stata a dividersi, bruciando parte delle energie in una guerra intestina e nella contrapposizione ai sindacati confederali «traditori». Quante volte le vertenze di base sono state caratterizzate dall'autoreferenzialità, un prodotto diretto della politica del «più uno», un giorno o anche solo un'ora in più di sciopero rispetto alla mobilitazione indetta dai sindacati «venduti»?

La nascita nello scorso weekend dell'Usb - l'Unione sindacale di base - è una buona notizia. In primo luogo perché segna un'inversione di tendenza rispetto ai processi di frantumazione che riguardano, oltre al mondo del lavoro, anche le sue rappresentanze sindacali. È un segnale interessante che le Rdb, l'Sdl, parte delle Cub e altre formazioni minori si mettano insieme e che i ferrovieri dell'Orsa, accompagnati da diverse esperienze sindacali non confederali come i Cobas, guardino con interesse a questo processo di semplificazione. Se non si è obnubilati dall'antica pratica novecentesca per cui a sinistra di chi si ritiene l'unico vero rappresentante dei lavoratori non può e non deve esserci nulla, a costo di impegnarsi direttamente a far terra bruciata, non si può non accogliere la novità intervenuta in campo sindacale con atteggiamento positivo. Dunque, tanti auguri, Usb.

Infine, è apprezzabile che al centro dell'attenzione della nuova costellazione sindacale siano stati posti «gli ultimi» della filiera lavorativa postfordista, globalizzata e neoliberista: i precari e gli immigrati, i più sfruttati e meno tutelati, agiti dal capitale e sempre più spesso dalla politica, prima ancora che come forza lavoro di riserva, come una sorta di grimaldello per smantellare i diritti di tutti, contrapponendo gli uni agli altri, i penultimi agli ultimi, cercando di scatenare la guerra dei poveri. Una bella sfida, anche per Cgil, Cisl e Uil.

Se è vero che la riunificazione di sigle sindacali di base risponde a un'esigenza di semplificazione, è altrettanto vero che si profila all'orizzonte la nascita di un quarto sindacato, tendenzialmente affiancato e contrapposto alle tre confederazioni storiche. L'Unione sindacale di base potrebbe essere tentata di imboccare scorciatoie, rischiando di sommare ai propri vizi antichi di cui vorrebbe liberarsi, i vizi altrui.

Il congresso della Cgil appena concluso a Rimini ha segnato una svolta, almeno rispetto alle principali scelte degli ultimi due anni. La Cisl e la Uil, firmatarie di un accordo separato con il governo e le organizzazioni padronali che controriforma il sistema contrattuale, sono oggi un po' meno distanti dal sindacato di Corso d'Italia e si annuncia un progressivo rientro della Cgil in una logica concertativa. Questo può aprire spazi al sindacalismo di base, ma anche ricacciarlo dentro una logica settaria e incentrata più su una moltiplicazione di microconflitti che sulla costruzione di una politica sindacale capace di finalizzare i conflitti ai risultati.

Al contrario, la presenza di un nuovo potenziale soggetto sindacale competitivo potrebbe aiutare il sindacato guidato da Guglielmo Epifani a ritrovare una sua strada, autonoma, in un contesto politico e sociale che rende il conflitto obbligatorio: per ottenere risultati, naturalmente, e anche per ricostruire un feeling con le persone che vuole rappresentare. Sicuramente, l'entrata in scena dell'Usb rende oggi ancor più irrinviabile una legge sulla rappresentanza e la democrazia sindacali.

In Italia è battaglia sul disegno di legge che imbavaglia i giornali. Ma dagli Stati Uniti arriva una bocciatura. Ecco le ragioni

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON. Era il 1789 e Benjamin Franklin non ebbe alcun dubbio: «La libertà della stampa – disse l´ometto divenuto immortale grazie all´ombrello parafulmine – deve essere assoluta. I giornali devono essere lasciati liberi di esercitare la propria funzione investigativa e di controllo con forza, vigore e senza impedimenti». Sarebbe stato contento, Franklin, se avesse potuto leggere la sentenza della Corte Suprema che nel 2001 sentenziò che anche la pubblicazione di intercettazioni telefoniche "illegalmente ottenute" da un giornale (caso Bartnicki v. Vopper) è protetta dal diritto alla libera informazione e il giornalista che la diffonde non è perseguibile. Duecentovent´anni e migliaia di politicanti, presidenti, bugiardi, finanzieri, grandi ladri, magistrati corrotti, governatori, boss e ipocriti assortiti distrutti più dalla penna che dalla spada o dal martelletto del giudice, il risultato di questa magnifica ossessione per la libertà di stampa resta scolpita nella Costituzione.

Libertà garantita dai giudici e difesa anche nel caso limite del pornografo Larry Flynt contro il reverendissimo Falwell da una Corte Suprema che nel 1988 sembrò riprendere quasi parola per parola quello che due secoli prima avevano detto i Fondatori: «L´esercizio della libertà di espressione è essenziale per la vitalità della società nel suo complesso». Un principio che si può capire ancora meglio nella citazione opposta di un contemporaneo di Franklin sull´altra sponda dell´Atlantico, Napoleone Bonaparte. «Temo i giornali più di centomila baionette».

Il prezzo, e il profitto, che l´America ha pagato e incassato per la inflessibile difesa della libertà d´informazione e di investigazione giornalistica anche nei suoi eccessi ed errori, sono stati, in questi due secoli incomparabilmente più alti di quanto l´Europa abbia conosciuto. Nella tradizione che ogni spettatore di vecchi western ha visto celebrare con la figura del giornalista di villaggio che rischia la vita per sventare le trame del prepotente locale e che l´ultimo film di questo genere, State of Play del 2009, ha celebrato con il matrimonio fra giornalismo tradizionale e i «blog» contro a corruzione politica, la libertà di informare, ficcanasare, svergonare e sbagliare è qualcosa che ogni americano dà per scontata, come i barbecue d´estate e il picnic del 4 di luglio.

Niente è «off limits», tabù, di fronte all´imperativo dell´informazione. Molti ricordano ancora i fasti del caso Watergate, quando un Presidente eletto trionfalmente nel 1972 fu cacciato appena due anni dopo sotto il bombardamento dell´informazione alimentata da scoop e «gole profonde», culminate nell´apoteosi paradossale del wiretapping, delle intercettazioni che Nixon aveva fatto su se stesso, con i microfoni nello Studio Ovale. Furono quelle registrazioni, che invano la Casa Bianca tentò di bloccare, subito castigata dalla magistratura, e le grossolane cancellazioni di 16 minuti di conversazione dai nastri, a essere la leggendaria «pistola fumante» che uccise la presidenza di «Tricky Dicky» Nixon.

Ma non tutto è Grande Storia. il ruolo di critica e di investigazione che l´informazione esercita è quotidiano e tormentoso, tessuto di piccole storie. Una sorverglianza naturale che si esercita non soltanto sui grandi eventi, ma sul piccolo, sul personale, sull´apparentemente marginale. Il caso che spinse la Corte a rendere legittima anche la pubblicazione di intercettazioni telefoniche illegali, nel 2001, riguardava il caso di una grande farmaceutica che aveva tenuto nascosti gli effetti collaterali dannosi di una propria medicina. E se una guerra come il Vietnam è perduta quando Walter Cronkite, al tg della Cbs già dominata da Ed «Buonanotte e buona fortuna» Murrow, la proclama perduta, e quando il New York Times, violando sfacciatamente la legge, pubblica i documenti segreti di Daniel Ellsberg sottratti al Pentagono, con la verità sul conflitto, il pubblico s´imbufalisce giustamente anche quando scopre che i dirigenti della finanziaria d´assicurazione Aig usano i dollari del salvataggio pubblico per organizzarsi viaggi di piacere e feste sontuose. Non un crimine, ma una sconcezza.

La distanza che separa la concezione euro Napoleonica del giornalismo da quella di Franklin o di Jefferson («se dovessi scegliere fra un governo senza la libera stampa e la libera stampa senza un governo, sceglierei la stampa») è celebrata nella lingua, in un neologismo attribuito al Presidente Theodore Roosevelt 1906 che non ha traduzione o corrispettivo in italiano: il «muckraker». È colui che usa il rastrello, il «rake», per rimestare nella sordida fanghiglia, il «muck», dei segreti pubblici e privati e arieggiare le stalle del potere. Fu quel rastrello che tormentò il presidente Ulysses Grant, il vincitore della Guerra Civile nel 1865, rimescolando gli scandali di favori e commesse e appalti, e a impalare il suo successere, Grover Cleveland, padre di figli allora detti illegittimi e raccontato come il «Tattoo Man», l´uomo tatuato dagli scandali.

In una nazione dove il «wiretapping», l´intercettazione di ogni forma di comunicazione, dalle telefonate alla posta elettronica, è addirittura la principale attività della misteriosa e gigantesca Nsa, la National Security Agency, che si propone di «ascoltare tutte le telefonate, fatte da tutti, in tutti i momenti» come fu confessato al giornale Usa Today e illegalmente arruolò le grandi società di telefonia, Att, Verizon a Bell South per fare il lavoro sporco nel nome della «sicurezza nazionale», tutti devono sapere di poter essere «ascoltati» e che quanto dicono potrà divenire pubblico, sotto la protezione della Costituzione. Il sacro «timor del Dio» dell´informazione libera accompagna ogni personaggio potente o celebrità, fino al Capo dello Stato che qui non gode di nessuna immunità civile o penale, come per due volte in una generazione la Corte Suprema costituzionale ha sancito, con Nixon nel 1974 e con Clinton nel 1998 ed è soggetto ai codici. E se Clinton sopravvisse alle pizze galeotte, agli abitini macchiati di Monica Lewinsky, alle bugie giurate davanti ai magistrati, che tutta l´informazione, di ogni parte politica, gli sparava contro, usando anche le privatissime parole che l´incauto presidente invaghito lasciava sulla segreteria telefonica della disponibile Monica, fu perché il partito di opposizione, il repubblicano, non aveva abbastanza volti nel Senato per condannarlo. Ma le confidenze dell´incauta Monica fatte all´amica Linda Tripp e registrate dalla Fbi e naturlmente sgocciolate via dai segreti istruttori, perché Washington è la città dove ogni rubinetto perde, erano già finite sui media.

Basta rovesciare l´assioma di Franklin e di Jefferson, mettere il bavaglio alla libertà di informare «senza favore né timore», come insegnava ai suoi redattori il fondatore del New York Times Adolph Ochs nel 1896, per capirne la funzione nella «vitalità» di una democrazia. Quando, per scelta, per timore, per pigrizia, anche il giornalismo Usa si autoimbavaglia, conseguenze sono sempre disastrose. Per accondiscendere alle richieste di John F Kennedy, proprio il New York Times tacque la notizia dell´imminente invasione di Playa Giron, la baia dei Porci a Cuba, una scelleratezza che lo stesso Kennedy avrebbe poi maledetto e che avrebbe condotto, due anni più tardi, il mondo sul limitare della guerra nucleare se non alla morte dello stesso JFK. Il «terrore del terrore», l´onda di patriottismo e di paura che investì anche i media dopo l´11 settembre spinse tutte le principali testate ad ingoiare acriticamente le favole bushiste sugli arsenali di Saddam Hussein e sulle inesistenti complicità irakene con al-Quaeda, i due principali argomenti di propaganda usati dalla Casa Bianca per «vendere la guerra». Fu una rinuncia collettiva alla funzione critica, lenita soltanto in parte dalla denuncia delle torture e degli errori in quella guerra che da quasi 10 anni si trascina nel sangue.

«Tacere una verità fa altrettanto male alla nostra comunità che diffondere una menzogna» scriveva Ben Bradlee del Washington Post che lasciò la direzione con il rimpianto di non essere mai riuscito a smascherare «quel mostruoso casinò che è Wall Street», una definizione che nell´autunno del 2008 avrebbe avuto la sua disastrosa conferma. Non c´è bisogno del sospetto di reati commessi, per muovere il rastrello nel fango, perché lo scandalo che demolisce il politico, il trombone, il predicatore non deve necessariamente assurgere al livello del codice penale, per funzionare. Basta l´ipocrisia, dunque la bugia scrostata. Il senatore Craig, gran castiga gay, sorpreso ad adescare uomini nelle toilette di un aeroporto, certamente non un reato, ma una miserabile e micidiale smentita alla sua retorica. Il governatore dello Stato di New York, Elliot Spitzer, che aveva spiegato alla gente i rischi di usare le e-mail e i messaggini, fu colto a farsi accompagnare da escort nei suoi viaggi di servizio, comunicando via messaggini e chiedendo sconti.

Se limiti ci sono alla spregiudicatezza dell´informazione ormai esplosa nella polverizzazione via Internet, stanno nella rincorsa ormai disperata dell´audience che ha trasformato gli augusti telegiornali di Murrow e Cronkite in magazine di "infotainment", poca informazione, molto intrattenimento, nella concentrazione industriale degli editori e nella faziosità che dilaga in Rete, nelle onde radio, ormai nelle tv via cavo che puntano sulla formula della «curva sud» per raccogliere tifosi. Ogni stagione, dal 1789 ai pigolii di Twitter che ora passano per informazione, ha le proprie sfide, le proprie trappole, i media che tramontano e quelli che sorgono, ma, almeno negli Stati Uniti, il fine resta lo stesso che sbalordì Alexis de Tocqueville, aristocratico ammirato e turbato da questa mostruosità chiamata democrazia. «La libertà di informazione è la sola difesa reale contro la tirannide della maggioranza».

Direttori uniti contro la legge

"La democrazia non vuole censure"

di Alessandra Longo

ROMA - Non era mai successo prima: i direttori di quotidiani di ogni tendenza, di televisioni, di agenzie di stampa, che sottoscrivono un unico documento, che si riconoscono nelle stesse identiche parole. E´ successo ieri. Il "miracolo" l´ha fatto Berlusconi e questo governo con il ddl sulle intercettazioni. Insieme, in coro, i giornalisti italiani (eccezioni pesanti il Tg1, Mediaset e La7), riuniti sotto l´ombrello della Federazione della Stampa, lanciano un appello: «Fermiamo questa legge. La democrazia e l´informazione in Italia non tollerano alcun bavaglio». Leggerete oggi queste righe di denuncia, che chiamano alla battaglia, indifferentemente su «Repubblica» e su «Il Giornale», su «L´Unità» e su «Il Secolo». Su quotidiani di provincia, piccoli e grandi, sui siti web, le ascolterete scandite nelle news televisive.

Un no forte e trasversale, un´indignazione collettiva, che ha la sua rappresentazione plastica nella sede Fnsi di Roma, sala dedicata a Tobagi (un nome più volte pronunciato in queste ore). Foto di gruppo dietro il palco. Ecco, tra gli altri, in prima fila, Mario Sechi («Il Tempo»), Norma Rangeri (manifesto), Luigi Contu (Ansa), Emilio Carelli (SkyTg24), Concita De Gregorio («Unità») Ezio Mauro, direttore di «Repubblica». Flash dei fotografi, dirette tv. E collegamento con il circolo della Stampa di Milano dove le telecamere inquadrano un altro raduno inedito. Stesso tavolo per Ferruccio de Bortoli («Corriere della Sera»), Vittorio Feltri («Il Giornale»), Mario Calabresi («La Stampa»).

C´è un bene comune da difendere. E´ a rischio la libertà di informazione, che non è un privilegio della corporazione dei giornalisti, ma un diritto dei cittadini. Destra e sinistra, presunto radicalismo e moderatismo, qui non c´entrano. Ferruccio de Bortoli prende la parola per primo da Milano: «Le misure contenute in questo disegno di legge sono pericolose per la democrazia. Questo provvedimento non ha come obiettivo quello di scongiurare gli abusi nella pubblicazione dei testi delle intercettazioni, che pure ci sono stati, ma esprime un´insofferenza per la libertà di stampa che dovrebbe preoccupare tutti». E infatti si preoccupano anche Feltri e Sechi, certo non in sintonia con le opposizioni. «Vogliono metterci all´angolo e zittirci – denuncia Feltri, nonostante il suo editore - mi auguro che la Consulta bocci questa legge». Con ciò dando per scontato che il ddl si farà. A dispetto di tutto e di tutti, a dispetto di quel che dicono ufficialmente i giornalisti italiani, i tanti cittadini riuniti proprio ieri al Teatro dell´Angelo, padrone di casa Stefano Rodotà, e persino a dispetto dei cauti distinguo di Confalonieri.

Fermiamo questa legge!, invocano i direttori nel documento proposto in primis da «Repubblica». Fermiamo non una legge sulle intercettazioni (cui è sottoposto tra l´altro lo 0,2 per cento della popolazione a smentire le cifre di Alfano) «ma una legge che riguarda la libertà - dice Ezio Mauro - Un provvedimento irragionevole, irrazionale, che spinge l´editore in redazione ad esercitare un sindacato di contenuto sulla pubblicazione della notizia». E´ il cosiddetto «ricatto», di cui parla, da Milano, anche Mario Calabresi: «Si punta a far fare da museruola agli editori. Se penso a come sono applicate le leggi in Italia, mi sembra scontato che si darebbe vita a grandi discriminazioni che, a loro volta, produrrebbero un´informazione selvaggia e insicura».

Parla uno, gli altri annuiscono. De Gregorio è preoccupata che, «in tempi di casta», la gente viva questa battaglia come un qualcosa di corporativo. Norma Rangeri vorrebbe coinvolgere in iniziative comuni anche la free press «che vedo sull´autobus tutti i giorni, ma non vedo qui». Franco Siddi, segretario Fnsi, padrone di casa, prende appunti. Raro clima di sintonia. Vedi vicini la finiana Flavia Perina e il compagno Dino Greco, direttore di «Liberazione». Nessuno si dà sulla voce. Prego parla tu, grazie adesso tocca a te. Accenti diversi. Contu non ha fiducia nella classe politica e nella sua capacità di redimersi, Carelli, con Orioli del «Sole», invoca ancora un tavolo di concertazione.

Miracolo: arriva la sintesi scritta. Si trovano, alla fine, «le parole adeguate», simili a quelle pronunciate ieri dal professor Rodotà nel buio del teatro dell´Angelo davanti a costituzionalisti come Alessandro Pace e Gianni Ferrara. Parole adeguate e anche pesanti. I giornalisti non chiedono ma «pretendono» di esercitare il loro dovere di informare. Un dovere che si incrocia con il diritto degli italiani a conoscere in quale Paese vivono.

L’appello dei direttori e delle redazioni

dei mass media

I direttori e le redazioni dei giornali italiani, con la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, denunciano il pericolo del disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche per la libera e completa informazione.

Questo disegno di legge penalizza e vanifica il diritto di cronaca, impedendo a giornali e notiziari (new media compresi) di dare notizie delle inchieste giudiziarie - comprese quelle sulla grande criminalità - fino all´udienza preliminare, cioè per un periodo che in Italia va dai 3 ai 6 anni e, per alcuni casi, fino a 10. Le norme proposte violano il diritto fondamentale dei cittadini a conoscere e sapere, cioè ad essere informati.

E´ un diritto vitale irrinunciabile, da cui dipende il corretto funzionamento del circuito democratico e a cui corrisponde - molto semplicemente - il dovere dei giornali di informare. La disciplina all´esame del Senato vulnera i principi fondamentali in base ai quali la libertà di informazione è garantita e la giustizia è amministrata in nome del popolo. I giornalisti esercitano una funzione, un dovere non comprimibile da atti di censura. A questo dovere non verremo meno, indipendentemente da multe, arresti e sanzioni. Ma intanto fermiamo questa legge, perché la democrazia e l´informazione in Italia non tollerano alcun bavaglio.

All'iniziativa della Fnsi hanno partecipato: Ezio Mauro (La Repubblica), Emilio Carelli (Sky Tg24), Roberto Napoletano (Il Messaggero), Concita De Gregorio (L'Unità), Norma Rangeri (il Manifesto), Dino Greco (Liberazione), Antonio Lucaroni (AGI), Luigi Contu (Ansa), Gianfranco Astori (Asca), Stefano Menichini (Europa), Carmine Fotia (Il Romanista), Carlo Bollino (La Gazzetta del Mezzogiorno), Andrea Covotta (in rappresentanza del direttore del Tg2 Mario Orfeo), Corradino Mineo (Rainews 24), Mario Sechi (Il Tempo), Stefano Del Re (Nuova Sardegna), Stefano Cappellini (vice direttore de Il Riformista), Stefano Corradino (Articolo21), Gianfranco Marcelli (vice direttore Avvenire), Altero Frigerio (Radio Articolo 1), Pierluca Terzulli (in rappresentanza del direttore del Tg3 Bianca Berlinguer), Flavia Perina (Secolo d'Italia). C'era anche il presidente della Fieg, Carlo Malinconico. Collegati in videoconferenza dal Circolo della stampa di Milano, il segretario dell'Assolombarda Giovanni Negri con Ferruccio de Bortoli (Corriere della sera), Vittorio Feltri (Il Giornale), Mario Calabresi (La Stampa), Peter Gomez (il Fatto Quotidiano) e Alberto Orioli (vice direttore de Il Sole 24 Ore).

All´origine della crisi che l´Unione europea e l´euro stanno attraversando c´è il peso esorbitante che il sistema finanziario ha da tempo raggiunto sull´economia mondiale. A fine 2007 il Pil del mondo era stimato in 54 trilioni di dollari; per contro gli attivi finanziari globali ammontavano a più di 240 trilioni, cioè più di quattro volte tanto. Ciò significa che il mondo arriva a produrre, in media, appena 150 miliardi di dollari al giorno, mentre il sistema finanzario può mobilitare ogni giorno parecchi trilioni di dollari per influire sui beni ed i servizi che esso produce, sul modo in cui sono distribuiti, sul loro prezzo. Nessuna economia - nemmeno quella Ue, la più grande del mondo - può reggere a lungo una situazione del genere, in cui l´economia reale, che dovrebbe poter usare la finanza come strumento necessario per un suo equilibrato sviluppo, è in realtà totalmente assoggettata ad essa.

Se si pone mente alle origini effettive della crisi, gli interventi decisi nelle scorse settimane dalla Ue per sostenere il bilancio pubblico della Grecia, ed erigere una barriera difensiva per proteggere altri paesi da attacchi analoghi, equivalgono a tirare su il ponte levatoio d´una fortezza per impedire che oggi entrino gli assedianti, sperando che domani se ne vadano. Purtroppo gli assediati sono pochi, e dispongono di scarse risorse; mentre gli assedianti sono numerosi, hanno risorse quasi infinite, e hanno pure qualche amico tra gli assediati. Il solo mezzo per evitare una drammatica sconfitta sarebbe ridurre il loro numero e le risorse di cui dispongono. Fuor di metafora, sarebbe il momento di porre mano a una riforma incisiva del sistema finanziario. E bisognerebbe farlo presto, perché le riforme di questo tipo si riescono a fare soprattutto quando i governi e gli operatori economici hanno paura.

Lo scopo principale della riforma del sistema finanziario dovrebbe essere quello di ridurne le dimensioni complessive. In concreto andrebbero ridotte sia le dimensioni delle maggiori società finanziarie dei diversi paesi - quelle troppo grandi per fallire, costate finora ai contribuenti americani ed europei circa 15 trilioni di dollari - sia il perimetro delle loro attività, a cominciare da quelle non regolate sui mercati di borsa. I mezzi di cui si discute allo scopo di ridurre la mole delle società finanziarie, grandi gruppi che tra l´altro posseggono anche delle banche, sono principalmente due. Una consiste nello stabilire un limite percentuale fisso sia sui depositi che una banca può detenere sul totale dei depositi bancari del paese, sia sul totale delle passività, incluse quelle fuori bilancio, rispetto al Pil del paese stesso. In una recente proposta di legge presentata al Senato Usa da due democratici, Sherrod Brown e Ted Kaufmann, il primo limite era indicato nel 10 per cento, il secondo nel 2 per cento. Un altro mezzo per far dimagrire le società finanziarie consisterebbe nel separare di nuovo le banche commerciali, che si occupano di depositi e prestiti, dalle banche di investimento che operano soprattutto nella compravendita di imprese.

La grandezza di una società finanziaria o di una banca non si misura però soltanto dai suoi depositi e dagli attivi dichiarati in bilancio. Creando migliaia di società formalmente indipendenti, i cosiddetti Veicoli d´Investimento Strutturato, tutti i gruppi finanziari hanno trasferito fuori bilancio, e reso praticamente invisibili alle autorità di regolazione, capitali che sovente sono di molto superiori a quelli inscritti a bilancio. È questo il regno della finanza ombra, in merito alla quale esistono autorevoli studi che concludono tutti allo stesso modo: se non si elimina o si riduce drasticamente il peso della finanza ombra, non c´è alcuna possibilità di regolare il sistema finanziario per ricondurlo al suo ruolo di servitore invece che di padrone dell´economia.

La riduzione della finanza ombra richiede però che si intervenga sulla fabbricazione di titoli artificiosi, di cui è impossibile valutare il rischio, e che per di più sono scambiati al di fuori dei mercati regolati come le borse. Ci sono tuttora in giro per il mondo almeno 650 trilioni di dollari di derivati scambiati "al banco", come fossero merendine. E frammisti a questi ci sono i titoli costituiti da enormi pacchi di mutui ipotecari, riciclati come obbligazioni, che le banche hanno venduto ai loro SIV per poter continuare a concedere prestiti, perché in tal modo non incidono più sulle loro riserve. Una riforma indispensabile dovrebbe quindi consistere nel divieto alle società finanziarie di cartolarizzare i crediti, o almeno nel circoscrivere tale possibilità a una modesta percentuale.

Sono forse, riforme del genere, fantasie di qualche intellettuale fuori del mondo? Non esattamente. È vero che il Brown-Kaufmann Act è stato appena bocciato (il 6 maggio) dal Senato americano, con l´appoggio di 27 senatori democratici su 59: quando si dice l´importanza di avere amici tra gli assediati. Però la proposta di porre un limite alle dimensioni delle maggiori istituzioni finanziarie registra consensi crescenti, tra cui i presidenti di due banche della Federal Reserve, Kansas City e Fed; dell´ex presidente della stessa Fed, Paul Volcker; economisti dell´Fmi; direttori e ricercatori di centri di ricerca di primo piano, come il Center for Economic and Policy Research, e perfino parlamentari repubblicani. A favore della separazione delle banche commerciali dalle banche di investimento si è pronunciato in più occasioni nientemeno che il governatore della Banca d´Inghilterra, Mervin King. E la Financial Services Authority britannica, un organo che più neo-liberale non potrebbe essere, ha diffuso a fine 2009 un rapporto in cui formula indicazioni dettagliate per una indispensabile regolazione del mercato dei derivati.

In Usa l´occasione per una vera riforma del sistema finanziario fu perduta a fine settembre 2008, quando il governo, il Congresso e i banchieri erano terrorizzati dalla possibilità che "tutto ci cadesse sulla testa" (parola di Henry Paulson, allora ministro del Tesoro). Non fu fatto nulla, e pochi mesi dopo la riforma era diventata impossibile. Oggi sono i governi Ue, e non poche istituzioni finanziarie, a partire dalla Bce, ad aver paura che crollino sia l´euro che l´Unione. Sarebbe il momento per provare a rimettere la finanza al servizio dell´economia, invece di limitarsi a voler accrescere la sorveglianza o la trasparenza di un sistema finanziario che così com´è resterà per sempre opaco. Mentre le riforme "lacrime e sangue" che sono state imposte alla Grecia e presto ad altri stati - dove riforme vuol dire tagli a pensioni, salari, servizi sociali, sanità, scuola - hanno tutta l´aria di provviste che gli abitanti della fortezza sull´orlo dell´inedia lanciano ai pasciuti assedianti, illudendosi che si convincano a levare l´assedio.

Quasi pronta la «manovra correttiva». Un puzzle di tagli alla spesa pubblica in cui è certo solo chi dovrà pagare il conto. Confermata la sanatoria per due milioni di immobili abusivi. Preoccupazioni e occupazioni nelle università e negli enti di ricerca. Intanto le associazioni presentano il rapporto sui diritti: «Welfare martoriato»

L'immagine restituita da tutti i governi dell'Unione europea è questa: manovre straordinarie per far tornare il prima possibile i conti pubblici dentro i parametri di Maastricht (3% nel rapporto deficit/Pil, 60% in quello debito/Pil), in modo da «evitare l'attacco dei mercati finanziari» ai titoli di stato di questo o quel paese. Con la probabilità assai concreta di aggravare la recessione, mentre tutti stanno lì a pregare per la «ripresa». E se per l'Italia e i «mediterranei» l'immagine era già nota, per Gran Bretagna, Francia e Germania (sia pure con manovre per ora assai più leggere) si tratta quasi di uno choc. Basti pensare che Angela Merkel aveva vinto le elezioni promettendo una «riduzione delle tasse». Ora le aumenta, tagliando al tempo stesso la spesa statale.

Il tutto avviene senza che nessuno, o ben pochi, ricordino il motivo dell'improvviso dissesto dei bilanci pubblici di paesi fino a ieri mattina «virtuosi»: il salvataggio del sistema finanziario. Insomma, di banche, fondi, speculatori vari, ecc, che ora vanno all'assalto dei loro «salvatori», attirati come sempre dall'odore del sangue. Altrui.

La manovra italiana, non a caso, è quella più avvolta nel mistero. Oggi il governo dovrà illustrarla, quanto meno nelle linee generali, alle parti sociali e agli enti locali. Ma fino a ieri sera sono circolate soltanto voci e «bozze» smentite subito dopo la loro parziale pubblicazione. Nel governo, in realtà, ci sarebbe stata una contrapposizione tra il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, e Silvio Berlusconi. Con il primo a pretendere non solo un ricavo finale di 24-25 miliardi, ma fatto con «interventi strutturali». Ovvero «macelleria sociale» a scapito di dipendenti pubblici, pensionati e pensionandi, spesa sociale, sanità, istruzione, ecc. Impagabile la tempestività del Pd, con Enrico Letta che invitava il governo a «fare una manovra che comprenda riforme come il fisco e il welfare» (stesso ragionamento fatto da Vittorio Feltri, sul Giornale). Mentre il Cavaliere, fin qui «ottimista» fino al ridicolo, sarebbe preoccupato di non «mettere la faccia» su una manovra tutta lacrime e sangue. I sondaggi glielo sconsigliano.

L'inevitabile (e temporaneo) prevalere del secondo ha quindi prodotto un girotondo di ipotesi e smentite, che probabilmente è servito anche a «sondare» l'umore dell'opinione pubblica e delle infinite controparti. Partorendo infine un provvedimento fatto, come al solito, di una pletora di misure tampone pensate per non irritare troppo chi dovrà pagarne il costo. L'unico problema è che il saldo finale è elevato; perciò a qualcuno (parliamo di interi settori sociali) piacerà davvero poco.

La prima cassa, nella tradizione tremontiana, viene dall'ennesimo condono edilizio, chiamato pudicamente «regolarizzazione catastale». Punta a far registrare oltre due milioni di abitazioni su cui, fin dalla costruzione, non viene pagata alcuna tassa. Con la solita «una tantum» gli evasori si metteranno a posto. Per invogliarli a farlo, i comuni potranno incamerare il 33% delle «nuove fonti fiscali» scoperte nel frattempo. Una misura decisiva a rabbonire gli amministratori locali, che si vedranno tagliare ancora una volta i finanziamenti (una cifra oscillante tra i 7 e i 10 miliardi in tre anni, a seconda delle «bozze» uscite finora). Sempre nell'ottica «federalista», nelle regioni del sud verrebbero sospese le tasse alle nuove imprese.

Da propaganda di regime - stile «oro alla patria» - l'insistenza sul taglio del 10% agli emolumenti per ministri e sottosegretari; poi si scopre che riguarderà al massimo solo la parte eccedente gli 80mila euro annui. Conferme assolute riceve il taglio delle «finestre di anzianità» utili per andare in pensione (una sola l'anno, come nella scuola; da tre a nove mesi di lavoro in più), nonché la rateizzazione delle liquidazioni per i dipendenti pubblici. Ulteriori risparmi verrebbero da tagli alla spesa dei singoli ministeri, dalla riduzione delle consulenze e delle altre «spese di rappresentanza» (convegni, mostre, missioni, formazione, ecc). Blocco del turnover per altri tre anni: per cinque che vanno in pensione entrerà soltanto una persona.

A terra gli istituti di ricerca, con Isae, Isfol e altri enti che verranno sciolti e accorpati presso «altre istituzioni» (lasciando a spasso i precari, sia «storici» che di fresca assunzione). Caccia al «falso invalido», con almeno 100.000 controlli l'anno da assegnare all'Inps. La riorganizzazione degli enti previdenziali «entra e esce» dal testo, ma viene data ormai quasi per certa. Niente notizie, invece, sull'inasprimento fiscale a carico di bonus e stock option per megadirigenti.

Qualche flebile segnale antievasione arriva dal recupero di una misura fortemente voluta da Vincenzo Visco (odiatissimo ministro del tesoro del centrosinistra): la «tracciabilità» degli assegni diventa obbligatoria al di sopra dei 5.000 euro (o 7.500, chissà). Ah, quante firme dovranno mettere i futuri Anemone per contribuire all'acquisto di altre «case Scaiola»...

COMMENTO

Il danno economico della bellezza distrutta

di Sandro Roggio

Succederà, è facile immaginarlo, che le agenzie di rating che certificano l'affidabilità dei conti di un paese si accorgano, prima o poi, che i beni comuni contano: soprattutto, la poliedrica bellezza del paesaggio delle regioni italiane è una ricchezza che se la comprometti è per sempre. Succederà, prima o poi, che un ambasciatore ci faccia notare che il nostro debito pubblico rischia di aumentare se si disperdono le risorse patrimoniali. Perché tra i presupposti per stare nel mondo civile non ci sono solo i bilanci statali in regola, ma pure lo stop allo sciame di insediamenti illegali che avanza nella nebulosa di altre illegalità blandite. Un danno, quegli accumuli di case dove ciclicamente occorre spendere denaro pubblico: se va bene per sistemazioni alla rinfusa, se va male per soccorrere i poveracci ai quali viene a mancare la terra sotto i piedi.

Il condono edilizio è la carta pronta da giocare nel momento in cui si inasprisce una crisi incerta. E poi basta annunciarlo e in pochissimo tempo altra edilizia illegale si aggiunge alle indecenti preesistenze. E anche il condono catastale, quello degli «immobili fantasma», dispiegherà effetti nefasti.

Per questo deve restare la domanda: su cosa l'Italia può contare per assicurarsi una prospettiva di benessere? E bisogna spiegare che non gli è rimasto molto altro che la bellezza: basta guardarsi attorno da nord a sud per capire che è una fondamentale risorsa, nonostante le aggressioni subite dal territorio. Almeno il paesaggio non si delocalizza, né si replica.

Possibile che non lo sappiano? Che non capiscano il danno alle imprese che esportano i loro prodotti grazie al mito del Belpaese che fa da sfondo a ogni réclame? E agli operatori turistici che faticano a tenere alla larga i vacanzieri dai posti brutti, che purtroppo sono in crescita?

Le politiche della destra del nostro paese sono un misto tra insipienza e malafede. L'obiettivo è prendere da ogni luogo restituendo poco o nulla e secondo le convenienze di cricche organizzate per ogni occasione (basta vedere cosa si sono inventati per le «emergenze» catastrofi nella «Shock economy» all'italiana).

Il territorio è colpito dal malgoverno ordinario, bastano e avanzano le pessime scelte già fatte, come i piani-casa bene accolti pure nelle regioni governate dalla sinistra, mentre ci aspettiamo i contraccolpi dal federalismo demaniale. Un nuovo condono sarebbe davvero troppo. Resta l'interrogativo sulle reazioni dell'opinione pubblica al complesso di questi provvedimenti e sulla reale determinazione a controbattere del primo partito di opposizione.

Postilla

Intanto un condono edilizio già c’è, è stato approvato dal Consiglio dei ministri ed è in attesa di ratifica da parte del Parlamento. Qualcuno se ne è accorto e si prepara a contrastarlo? Per ora, solo i firmatari dell’appello di eddyburg. A proposito, tu lo hai firmato?

Diciotto anni fa, quando venne ammazzato Giovanni Falcone, i telefoni cellulari erano degli aggeggi grossi, rudimentali, dal funzionamento poco conosciuto e ancora poco diffusi. Il commando di Cosa Nostra che aspettò dal casotto dell’Enel di Capaci il corteo di macchine del giudice e della moglie telefonò parecchio, aspettando di azionare l’esplosivo. Furono individuati soprattutto per quel motivo: con un’iniziativa che poteva sembrare impossibile, ma che funzionò, tutto il traffico telefonico di quelle ore da e per Palermo fu schedato e analizzato, con risultati memorabili che portarono nel giro di un anno agli arresti del commando. Tutto sembrava risolto, o meglio quasi tutto: restavano alcune telefonate in Italia e in America ad utenti impossibili da rintracciare. Poi ci fu la bomba di via D’Amelio contro Paolo Borsellino e di nuovo i telefoni fecero la loro parte: «inquietanti» tabulati legavano uomini della mafia a utenze dei servizi segreti. Erano gli ultimi mesi della Prima Repubblica, quella strana cosa che un quarto della popolazione italiana non ricorda perché non aveva ancora l’età della ragione e di cui ora sente parlare come di fatti strani, muggiti e sospiri, che sembrano provenire da un mondo preistorico: carabinieri che trattarono con Cosa Nostra, nuovi patti politici da assicurare, Falcone e Borsellino uccisi perché troppo vicini alla verità e al potere. Un tipico modo italiano di passare il tempo.

Ma non credo fosse mai successo che membri del governo di Washington si esprimessero così francamente nei confronti del governo italiano deciso ad intervenire sui metodi di indagine antimafia attuato con i telefoni. Hanno detto, in pratica: se voi attuate queste vostre intenzioni, danneggiate anche noi e la nostra azione contro il crimine organizzato. Argomenti del genere sono stati usati nel recente passato contro i governi del Messico, del Venezuela, della Colombia, ma mai nei confronti di un paese europeo. Perché lo hanno fatto? Sicuramente perché all’Fbi si ricordano ancora di Giovanni Falcone che li aiutò non poco a stroncare l’importazione di eroina dalla Sicilia negli Stati Uniti; sicuramente si ricordano di quel Tommaso Buscetta che nel 1984 (otto anni prima delle rivelazioni italiane) raccontò all’Fbi che Giulio Andreotti era il referente politico di Cosa Nostra; e forse anche perché vedono - con sorpresa - un governo europeo adottare leggi che vanno solo ad oggettivo vantaggio delle mafie. E per quanto riguarda l’Italia non capiscono perché il nostro governo passi il suo tempo ad insultare il presidente Barack Obama, un oscuro dirigente di nome Bertolaso si diverta ad insultare l’ex presidente Clinton e il presidente del Consiglio abbia legami così stretti con Putin. Dal loro punto di vista, tutto ciò è molto strano, ma si sa che loro non conoscono le nostre finezze e il nostro modo di giocare al gioco del potere. Nella storia della mafia siciliana in America - una storia potente, che è arrivata anche a bussare alle porte del potere politico - alcune cose giocavano a suo favore, nel grande mercato: la famiglia, la violenza, la determinazione ad emergere, la capacità di destinare una bella fetta degli alti profitti del crimine per corrompere poliziotti, politici e giudici.

Ma c’erano anche due cose che non funzionavano nel modello: il tradimento possibile di un membro della famiglia stessa e l’uso incauto del telefono. Gli infami si cercava di ucciderli prima che testimoniassero, mail telefono (ovvero la parola che ti può fare impiccare) era una croce quotidiana, a partire da quelli a gettone all’angolo della strada. Un tallone d’Achille, che la polizia peraltro poteva utilizzare a costi veramente bassi: una chiavetta e degli impiegati che ascoltano, esperti di dialetto. Poi vennero le microspie e con loro le bonifiche elettroniche, l’infiltrato con il microfono incerottato sulla pelle, le cimici sempre più piccole, le microcamere grandi come un bottoncino, le Sim che conservano ogni bava di memoria e i siciliani in America vennero ridotti all’angolo persino nello smaltimento di rifiuti nel New Jersey, che era il loro feudo.

A diciotto anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino, senza neanche troppi eufemismi, i magistrati ci dicono che le cose non andarono come noi pensavamo. In pratica, ci spiegano che gli uccisori furono solo la manovalanza che agì per conto di altri. Ed è una storia fatta di pentiti e di intercettazioni e - specificità italiana - di ricatti, di mezze parole, di carte che ricompaiono dopo vent’anni, di trattative che chissà se sono andate a buon fine o se fallirono fin dall’inizio.

Viviamo non tanto senza sapere dove andremo,ma piuttosto da dove veniamo. Il governo fa quello che fanno i gendarmi di fronte alla folla di curiosi che si presenta sulla scena di un delitto: "Via, via, circolare, non c’è niente da vedere", poi mettono le transenne e chiamano rinforzi. Il presidente del Consiglio non va alle commemorazioni di Falcone, se ne guarda bene: il tema, d’altra parte,non gli è mai interessato. Altri membri del governo lodano l’integrità del magistrato ucciso. Lui si che era bravo e rispettoso. Ah già, è morto.

Tra pochi giorni in parlamento metteranno in votazione il bavaglio. Non si ascolta la gente per bene per telefono, non si deve violare la privacy, anche se si tratta di un mafioso; che poi non si sa se è un mafioso o non per caso un’ottima persona (anzi, può darsi che sia le due cose insieme). Non si deve scrivere niente di processi in corso, se no galera e multe da portare al fallimento i giornali. Non si possono intercettare i politici. Si possono intercettare i preti solo col premesso scritto del vescovo. Se si sente qualcosa di sconveniente, bisogna distruggere subito tutto. La televisionenon deve parlare di mafia, perché facciamo brutta figura all’estero. Gli scrittori sono invitati a occuparsi d’altro. Dice Berlusconi: per me Vittorio Mangano è un eroe, perché non ha parlato e i magistrati lo torturavano perché parlasse e mi mettesse nei guai. E va bene, sia lode all’eroe. Ma, sorge un dubbio: che cosa avrebbe dovuto dire, sotto tortura, il vecchio stalliere? Un caso è molto citato dai sostenitori del bavaglio e della privacy: quello del finanziere Stefano Ricucci che al telefono diceva "ma che me frega, io stasera mi faccio Anna Falchi" e la cui esternazione telefonica venne pubblicata dai giornali. Terribile. Chissà che trauma. Ma non era scritto su tutti i rotocalchi che stavano insieme?

Molti lettori nell’ultimo anno hanno espresso il loro disagio di fronte alle centinaia di pagine di colloqui privati, telefonate e messaggi intercettati dalla magistratura e finiti in tempo quasi reale sui giornali. Penso alle liste piene di nomi, pubblicate senza distinzioni di ruoli e responsabilità, o ai dialoghi privati riprodotti senza chiarire i necessari contesti di riferimento. Penso, per esempio, alle intercettazioni riguardanti le inclinazioni sessuali dell’inquisito Angelo Balducci, che nulla hanno a che fare con l’inchiesta che ha smascherato gli affari della «cricca» dei lavori pubblici, ma che sono state passate ai quotidiani e sono finite direttamente nelle case degli italiani. Un’anomalia, di cui parla in modo esaustivo Luca Ricolfi nell’articolo che trovate qui sotto. Un’anomalia che avremmo dovuto affrontare da tempo.

L’idea che l’Italia si sia trasformata in una società di guardoni, incollati allo spioncino delle procure in attesa di una nuova rivelazione, mi inquieta. Da mesi ne discutiamo in questa redazione, cercando di darci dei limiti quando la sera, nella fretta della chiusura, ci troviamo di fronte a centinaia di pagine di verbali e intercettazioni. Pensiamo che si debba pubblicare solo ciò che è significativo per far comprendere un’inchiesta, illuminante per i lettori.

Resto convinto che in uno Stato di diritto e in una democrazia sana spetti alla magistratura la valutazione degli indizi e delle prove e che debbano essere i tribunali e non i giornali a emettere le sentenze. L’idea di una giustizia sommaria somministrata sull’onda delle emozioni e dell’indignazione è qualcosa che mi ha sempre fatto paura e che in passato ha fatto danni che non si dimenticano. Sarebbe il tempo di aprire una discussione vera e approfondita sul rispetto della privacy, dei diritti degli inquisiti e sulla tutela che andrebbe garantita a chi finisce suo malgrado in un’inchiesta senza averne colpa.

Si potrebbe allora dire che la legge in discussione al Senato arriva al momento opportuno. Purtroppo non è così, anzi accade il contrario: il disegno di legge sulle intercettazioni è così palesemente sproporzionato e ha un sapore talmente vendicativo da risultare inaccettabile e da soffocare ogni possibilità di riflessione.

Nei mesi in cui riemergono prepotentemente la corruzione e gli intrecci tra la politica e gli affari e in cui la nostra classe dirigente mostra il suo volto più arrogante e spregiudicato, la nuova legge suona come l’estremo rimedio per coprire l’illegalità e garantire impunità. Non si capisce come siano collegate la necessità di offrire maggiore privacy e vere garanzie agli indagati con la limitazione dei tempi delle intercettazioni o l’obbligo che per autorizzarle ci voglia un collegio formato da tre magistrati. Rendere più faticosa, farraginosa e intempestiva la possibilità di intercettare va nella direzione di indagini più serene e rispettose o finisce per essere un favore a chi delinque? Prima ancora del diritto di informazione mi sta a cuore la possibilità che la magistratura possa continuare ad indagare a fondo, sia messa nelle condizioni di operare senza inciampi. Perché se anche fossimo liberi di pubblicare ogni atto e ogni intercettazione ma ai pubblici ministeri fosse impedito di lavorare, allora mi chiedo cosa ci resterebbe da raccontare.

Se il problema invece è quello di evitare di pubblicare le trascrizioni di telefonate di persone che non sono coinvolte nelle indagini o se è importante tutelare il segreto istruttorio, perché allora vietare anche di dare notizia degli atti di indagine (anche sotto forma di riassunto) fino al rinvio a giudizio degli indagati? È surreale pensare che si debba dare notizia di un arresto ma non si possa spiegare ai lettori perché quella persona è stata arrestata.

La legge in discussione prevede poi, in caso di violazione, di non condannare tanto i giornalisti quanto gli editori con multe che arrivano a sfiorare il mezzo milione di euro. Una mossa odiosa e subdola che punta a spaccare le aziende editoriali e a terrorizzarle in tempi di crisi economica, oltre che a demandare non ai direttori ma agli amministratori il controllo su ciò che si pubblica.

È tempo che i giornali e i giornalisti tornino a fare inchieste senza aspettare di essere imboccati dagli inquirenti e senza diventare ogni settimana il megafono di una diversa procura. Che si rifletta su ciò che è corretto pubblicare smettendo di giocare a chi rivela un particolare più degli altri anche se questo non aggiunge nulla ma anzi può distruggere qualcuno. È ora che il Parlamento abbia un sussulto e ripensi ad una legge che avrebbe effetti devastanti sulle inchieste.

È chiaro che questa legge ha poco a che fare con le preoccupazioni dei lettori e le sensibilità ferite di cui parlavo prima, mentre ha molto a che fare con una difesa corporativa e di casta. Ma non della casta dei giornalisti, quanto di quella dei politici.

Per Andrea Filpa, docente di urbanistica all’università di Roma 3, troppo spesso la costruzione di nuovi porti turistici è legata alla voglia di realizzare investimenti edilizi consistenti e fare affari a scapito del territorio.

Si vogliono costruire nuovi porti: ce n’è davvero bisogno?

«I posti barca ci sono, dovremmo chiederci se la richiesta è spinta da una reale domanda o da una richiesta di investimento. Dovremmo guardare alla Francia: la Bretagna che ha preferito preservare l’equilibrio delle proprie coste costruendo cale secche, piuttosto che nuovi porti».

In cosa consistono?

«La barca resta parcheggiata a secco e viene calata in acqua solo quando viene usata: è una soluzione economica che non rovina le coste. La mia impressione è che in Toscana l’investimento nel porto barca abbia sostituito l’investimento nelle seconde case. La soluzione della cala secca ha un difetto, non consente di trasformare la costruzione del porto in un affare».

Cosa pensa delle edificazioni realizzate a corredo dei porti?

«La concezione in voga dagli anni Sessanta in poi ha trasformato la realizzazione di un porto turistico in un volano per un investimento edilizio molto elevato. Gli esempi di Cala Galera e di Punta Ala sono, purtroppo, significativi. Certo, un porto ha bisogno di alcuni servizi, ma non è sempre detto che ci si debba reinventare una città, con residenze, alberghi e negozi».

E’ mancata un’opera di programmazione?

«Mi meraviglia che la Regione abbia impostato una giusta politica di contenimento delle costruzioni negli ambienti rurali, per salvaguardare le colline, e non abbia pensato di fare altrettanto per quanto riguarda il litorale. C’è solo un divieto a realizzare nuovi porti sulle coste sabbiose che viene tranquillamente disatteso, come nel caso di Talamone, con un’operazione che formalmente è di riqualificazione, ma in realtà è di costruzione di un nuovo porto. Se la Regione non svolge con convinzione un ruolo di programmazione rischia di dare spazio a singole iniziative che possono portare a costruire un porto in ogni Comune».

NEW YORK - Non è interferenza, ma un messaggio chiaro dagli Stati Uniti sullo Stato di diritto, il senso delle regole, il ruolo essenziale della magistratura. «Nessuna norma ostacoli l´ottimo lavoro dei magistrati italiani, le intercettazioni telefoniche sono uno strumento essenziale delle loro indagini». Il sottosegretario alla Giustizia Lanny Breuer soppesa bene le sue parole, parlando alla commemorazione di Giovanni Falcone. Breuer è un uomo chiave nella collaborazione tra i due paesi su terreni strategici della sicurezza: la lotta alla mafia e al terrorismo internazionale. «Niente – dice l´esponente dell´Amministrazione Obama – deve impedire ai magistrati italiani di continuare la missione svolta finora». Responsabile del Dipartimento penale, Breuer non è uno sprovveduto, non è un marziano sbarcato in Italia senza informazioni sulla situazione della giustizia. Nel bel mezzo della battaglia sulle intercettazioni, con il tentativo di mettere il bavaglio alla stampa, la sua uscita provoca naturalmente dei contraccolpi a Washington. Tutti italiani. Si muovono il nostro ministero degli Esteri, e quello della Giustizia: per ottenere il più rapidamente una smentita delle parole di Breuer. Per evitare l´impressione che l´Amministrazione Obama sconfessi l´attacco alle intercettazioni e all´informazione, le telefonate da Roma a Washington sono roventi. L´unica cosa che il governo Berlusconi ottiene è una nota dell´Ambasciata Usa a Roma. Che non smentisce né corregge le parole di Breuer ma si limita a precisarne il contesto: «Ha elogiato la collaborazione tra le giustizie dei due paesi». Un intervento quasi sibillino: per tutto ciò che non dice, e per la forza con cui ribadisce il sostegno ai magistrati italiani.

A Washington le bocche sono cucite, solo "off-the-record" e a condizione di non citare le fonti, si può ricostruire il retroscena dell´evento. Mancano solo tre giorni all´arrivo qui del presidente Giorgio Napolitano: incontrerà Barack Obama e la Speaker of the House, Nancy Pelosi. Mai come in questo momento i responsabili della politica estera americana sono aggiornati su quanto accade in Italia: nessuna sfumatura dello scontro sulla giustizia sfugge a chi sta preparando sul versante Usa il summit Obama-Napolitano. Sanno di doversi muovere su un sentiero strettissimo, in un equilibrio delicato e precario. «Il governo italiano è un alleato prezioso degli Stati Uniti, nell´impegno comune in Afghanistan l´Italia ha versato ancora di recente un pesante tributo di sangue». Alla Casa Bianca e al Pentagono non si vuole mettere a repentaglio la cooperazione su quel fronte strategico, dov´è in corso l´escalation militare e si prepara la grande offensiva su Helmand. E tuttavia questa è un´Amministrazione i cui valori sono chiari. Mai come ora c´è stato nelle stanze del potere di Washington un "clan italo-americano" schierato tutto a sinistra. Nancy Pelosi, l´ultraprogressista di San Francisco che è la seconda autorità del partito democratico dopo il presidente. Janet Napolitano, superministro degli Interni alla Homeland Security. Leon Panetta capo della Cia. E poi l´uomo dei programmi, John Podesta che dirige il Center for American Progress, il think tank di riferimento di Obama, il cui manifesto riformista uscirà tra breve alle edizioni del Mulino.

È una squadra che ha una conoscenza dell´Italia del tutto insolita per la classe dirigente americana. E i cui valori sono molto vicini, come si ribadisce nell´entourage di Nancy Pelosi, a quelli di Giorgio Napolitano. Nessuna smentita quindi alle parole di Breuer, che esprimono una cultura del diritto e della trasparenza, una scelta di civiltà prima ancora che un´ideologia. È la trasparenza che, per una coincidenza singolare, veniva esaltata proprio ieri da un editoriale del New York Times, il giornale di riferimento del partito democratico Usa. L´editoriale s´intitola: «Un´informazione completa nelle aule di giustizia». Commenta la sentenza della Corte suprema del New Jersey che ha ribadito il diritto di accesso della pubblica opinione americana, attraverso i giornali, a «tutte le istruttorie giudiziarie, anche quando non arrivino fino ad avere pubblicità nel dibattimento in tribunale». Trionfa la Costituzione, «i cittadini non possono essere all´oscuro sulle indagini di rilevanza pubblica». Dixit il New York Times, e la Corte suprema del New Jersey.

Gerardo D’Ambrosio

«Dopo la cricca si sono messi fretta»

Intervista di Oreste Pivetta

Il senatore Pd: «Norme spaventose che uccidono le inchieste e spingono verso uno Stato autoritario»

Una legge contro il diritto di informare e di essere informati, una legge che intimidisce i magistrati, una legge che allunga i processi. Gerardo D’Ambrosio, che fu il capo del pool di Mani pulite a Milano ed ora è senatore e nella commissione giustizia del Senato, è durissimo:

“Vogliono impedirci di sapere le cose. Anche quelle di rilevanza sociale. Unanorma spaventosa. Così scivoliamo neppure tanto lentamente verso uno stato autoritario”.

Come la possiamo definire questa legge: ad personam, ad castam, ad clan…

“Fino alle dimissioni di Scajola, il disegno di legge dormiva. Poi si sono messi fretta. Ci fanno lavorare fino alle tre, alle quattro del mattino. Va bene lavorare.Maper che cosa? Tutto ha preso una piega drammatica e un iter rapidissimo, dopo le vicende relative alla Protezione civile, alle deroghe sugli appalti pubblici per le grandi opere, alla scoperta che solo una certa impresa veniva beneficiata da un certo andazzo e certi personaggi venivano beneficiati dall’impresa in questione... La preoccupazione della maggioranza è comunque forte, perché la reazione non s’è fatta attendere. Tanto è vero che il presidente del consiglio ha convocato il relatore. Che, faccio notare, è relatore di una commissione parlamentare, rappresenta il parlamento e dovrebbe essere garante dell’autonomia del parlamento nei confronti del governo”.

Si legge di una infinità di mail inviate alla Presidenza della Repubblica, perché Napolitano non firmi. C’è un problema di costituzionalità?

“Certo. Si chiama in causa l’articolo 21 della Costituzione, là dove si dice che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione e che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure… E in questo caso si impone il silenzio fino all’udienza preliminare, fino quindi al rinvio a giudizio. Con sanzioni pesantissime non solo per i giornalisti, non solo per i direttori,maa carico pure degli editori…”

Non solo per gli editori dei giornali.Anche per gli editori che pubblicano libri d’inchiesta…

“Malgrado la nostra durissima battaglia, la norma che prevede la responsabilità sociale, cioè la responsabilità dell’editore, è rimasta intatta, con ammende che vanno da64 mila e cinquecento fino a 464mila e settecento euro… Una cifra enorme capace di mettere in ginocchio una infinità di testate e soprattutto una minaccia che trasforma l’editore in controllore ferreo dei giornalisti e del direttore. Inutile che da tante parte, anche dai giornalisti, si rivendichi l’indipendenza del direttore: con quella minaccia sul capo l’indipendenza scompare. Scompare la stessa determinazione a cercare notizie, a promuovere inchieste. Anche perché la legge non prende in considerazione il concetto di ‘rilevanza sociale’. Il problema che si poneva era quello di conciliare l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la segretezza e la libertà delle comunicazioni, con l’articolo 21, che prevede il diritto di informare e di essere informati, e con l’articolo 24, sui diritti di difesa. Che cosa avveniva? Che per rispettare il diritto di difesa le intercettazioni fatte andavano subito depositate, a meno che, per ragioni che riguardano lo sviluppo dell’indagine, il pm decidesse di depositarle alla fine dell’indagine preliminare. Il deposito apriva la falla, perché al difensore veniva consegnata tutta la documentazione, intercettazioni utili e intercettazioni estranee, senza alcuna selezione. Abbiamo fatto introdurre noi il concetto di ‘pertinenza all’indagine’. E’ chiaro che un avvocato difensore può aver interesse a far uscire una notizia piuttosto che un’altra…”.

Questo riguarda comunque ancora l’informazione. E per i magistrati?

“Hanno affidato la responsabilità di esaminare e consegnare il materiale delle intercettazioni ad una tribunale collegiale di tre membri, che non potranno più partecipare ai processi per i quali hanno deciso sull’uso delle intercettazioni. Non solo: un pm che rilasciasse qualsiasi dichiarazione concernente un processo (la formulazione è estremamente generica) potrebbe essere sospeso. Potrebbe essere sospeso qualora comparisse nel registro degli indagati e basta una denuncia, che chiunque volesse liberarsi di un magistrato scomodo potrebbe presentare. La conseguenza sarà comunque l’allungamento dei tempi. Altro che processo breve”.

E sulla pubblica amministrazione?

“Non hanno preso neppure in considerazione l’idea che la corruzione prevede una caratteristica che è propria della criminalità organizzata: cioè l’omertà. Perché corruttore e corrotto non hanno interesse e denunciare. E quindi limitando le intercettazioni la corruzione ha via libera…”.

Stefano Rodotà

«La privacy? Alibi del disegno eversivo»

intervista di Andrea Carugati

«Il Parlamento è immobile, la stampa sarà imbavagliata e la magistratura è già intimidita»

Mi accusavano di essere troppo pessimista e invece ecco qui, e bisogna usare le parole giuste: siamo davanti a un cambiamento di regime ».

La pacatezza del professor Stefano Rodotà non nasconde la durezza dei concetti.

«La libertà di espressione è un elemento fondativo delle democrazie e se viene toccata c’è oggettivamenteun cambiamentodi regime. Anche perché non è il solo pilastro che scricchiola».

Rodotà è al sit in del popolo viola in piazza Montecitorio e indica con la mano il portone della Camera.

«Il Parlamento è ormai chiuso, come ha ammesso lo stesso Fini, la magistratura intimidita, l’Università come fucina di sapere critico è sotto attacco. C’è un’insofferenza verso tutti i controlli, si vuole zittire l’opinione pubblica. Neppure ai tempi di Craxi...».

Perché torna a quel periodo?

«Anche allora c’era questa insofferenza, ma non si arrivò mai all’ attacco frontale contro tutte le istituzioni di garanzia».

Lei che è stato Garante dovrebbe essere il più sensibile alla privacy violata dalle intercettazioni...

«E infatti già molti anni fa con altri giuristi abbiamo scritto una proposta di legge per porre riparo agli eccessi nella pubblicazione, in particolare per quanto riguarda persone estranee alle indagini o aspetti non inerenti, come le abitudini sessuali. Per evitare questi rischi basta che i magistrati convochino le parti per eliminare tutto ciò che non è rilevante per le indagini. Si fa la ripulitura e le intercettazioni “dubbie” devono essere inserite in un archivio riservato, coperte dal segreto e sotto la responsabilità del magistrato. Mentre ciò che è rilevante, una volta conosciuto dalle parti è pubblicabile. Così si tutela la privacy e il diritto all’informazione ».

E allora perché non viene fatto?

«Perché l’argomento della privacy è solo un pretesto per forzare lamano sull’informazione, un argomento usato in perfetta malafede. Si dovrebbe fare uno stralcio per le norme che tutelano la privacy, e passerebbero all’unanimità. E invece sono partiti dalle intercettazioni per arrivare al divieto di pubblicazione di tutti gli atti di indagine, ma ormai lo scarto tra l’obiettivo dichiarato e quello reale è sotto gli occhi di tutti... con questa legge avremmo conosciuto gli atti della strage di Ustica, avvenuta nel 1980, solo nel 2000. Per non parlare del caso Scajola e dei furbetti delle banche».

Alcuni manifestanti lo fermano: “Perché in piazza non c’è il Pd?” «Non dovete chiederlo a me, dal 1994 non ho più avuto nulla a che fare. Ma non mi sono ritirato a vita privata, sono un militante».

Comevaluta il lavoro delle opposizioni su questo tema?

«È stato un buon lavoro, una vera opposizione parlamentare. Però insomma, nel passato non solo il Pci ma anche la Dc e l’Msi quando c’era una battaglia parlamentare campale la sostenevano con iniziative nel Paese, anche in piazza. È anche un modo per dare una mano a chi sta in Parlamento, per farlo sentire meno solo. E invece tutto questo non è avvenuto».

Non c’è adeguata consapevolezza dei rischi per la democrazia?

«Questa legge è coerente con un disegno eversivo di attacco ai poteri di garanzia. Se si vuole fermare non si può andare in vacanza. Vogliono coprire la nuova ondata di corruzione, diversa rispetto ai tempi di Tangentopoli: questa è concimata istituzionalmente, a partire dalle ordinanze di protezione civile costruite per agire fuori dai controlli».

Crede che nel Paese ci siano le energie per una reazione?

«Certamente sì, e lo dimostrano le 540mila firme raccolte in un mese sul referendum per l’acqua. Altrimenti non avrei promosso un appello... ».

Pensa che il ddl sia incostituzionale?

«C’èuna palese violazione dell’articolo 21 della Costituzione, e anche dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come dimostra il caso dei due cronisti francesi condannati dalla magistratura e “assolti” dalla Corte perché anche atti segreti possono essere pubblicati se coinvolgono figure pubbliche e rispondono all’interesse generale alla conoscenza. Credo che la Corte europea, se interpellata, farà vergognare i nostri parlamentari».

Come valuta la retromarcia del Pdl sul carcere per i giornalisti?

«È solo una finzione, perché restano il divieto di pubblicazione e le maxi multe per gli editori, una sorta di “censura di mercato”, che spingerà gli editori a condizionare i giornalisti per evitare sanzioni».

Le divisioni nel Pdl porteranno ad altre correzioni del ddl?

«Dico che non bisogna arretrare di Un millimetro. Più cresce la mobilitazione, più tutti saranno obbligati a un supplemento di riflessione»

Berlusconi vuole alternative ai tagli pesantissimi alla spesa pubblica di Tremonti

di Luisa Grion

«Serve -ha detto il premier- una discussione nel Pdl». Ma il Tesoro ha fretta e prepara una stretta per gli statali e un´addizionale sulle pensioni d´oro.

Il governo serra le fila, l´opposizione parte all´attacco. Il varo dei provvedimenti che dovrebbero rimettere in sesto i conti pubblici non ha più una data certa: si pensava a martedì, ma potrebbe slittare fino a giovedì o venerdì della prossima settimana. Berlusconi ora vuole che sul testo vi sia la massima coesione nella maggioranza e nello stesso Pdl e - prima del Consiglio dei ministri - intende riunire la consulta economica del partito o l´ufficio di presidenza. Rallentamenti che si riverseranno anche sulla presentazione del testo alle parti sociali prevista inizialmente per lunedì .

Il governo quindi resiste alle pressioni del ministro Tremonti - che ieri sera ha avuto una cena a palazzo Grazioli con il premier e Gianni Letta - e prende tempo. Ma in attesa di limare il contenuto del testo e trovare gli accordi si accendono le polemiche e si moltiplicano le proteste. Pierluigi Bersani, leader del Pd, ci va giù deciso: «Il governo la smetta con la penosa propaganda del tipo "non metteremo le mani nelle tasche degli italiani". La smetta con annunci di lotta all´evasione che si risolvono sempre con condoni, fino a veri e propri riciclaggi di Stato». Il Paese, ha detto Bersani, «ha un problema vero: serve coraggio, serve una vera manovra economica che non sia ulteriormente depressiva, che non sia l´ennesimo tirare a campare». La ricetta, per il Pd, è una sola: «Bisogna alleggerire rapidamente il lavoro, l´impresa e le famiglie e mettere il carico sulla rendita e sulle ricchezze».

Il governo smentisce le accuse: «Non ci saranno nuove tasse, né interventi sulle pensioni» ha ribadito il ministro Sacconi. Ma le sue parole non sono bastate a calmare le polemiche della categorie interessate: dirigenti pubblici in primis, chiamati (se con stipendio superiore agli 80-100 mila euro annui) ad un contributo di solidarietà del 10 per cento. Una misura, a detta dei tecnici, di applicazione non scontata perché a parlare di taglio secco dello stipendio si può incorrere nel rischio di anticostituzionalità per mancato rispetto dei contratti collettivi di lavoro: più facile, semmai, agire sui fondi per i risultati raggiunti o con un´una tantum fiscale. Comunque sia, i dirigenti sono sul piede di guerra: «Se ci mettono un dito nell´occhio arriveremo allo sciopero - promette Antonio Zucaro, vicepresidente del sindacato di categoria Cida-Fp - non ci stiamo ad essere additata come l´unica categoria detentrice di sprechi e privilegi». Alta tensione anche nella scuola, dove la Flc-Cgil annuncia la mobilitazione e pensa ad un possibile sciopero generale.

Statali e previdenza, due anni di una tantum

e spunta un condono edilizio da 6 miliardi

di Roberto Petrini

Mail, tabelle, scambi concitati di telefonate, tecnici mobilitati: il lungo week end della «Finanziaria» 2011-2012 da 27,6 miliardi è cominciato ieri e, se la tabella di marcia imposta da Tremonti in modo ultimativo, sarà rispettata si concluderà nella notte di lunedì. Anche se, secondo voci circolate ieri, non è escluso che la data di martedì salti e si vada verso un mini rinvio. E nelle ultime ore è spuntata anche l´ipotesi di un condono edilizio ben più consistente di quello relativo alle cosiddette case fantasma: la sanatoria potrebbe essere allargata ad altre fattispecie e portare nelle casse dello Stato fino a 6 miliardi di euro.

«Sacrifici», aveva annunciato, per primo Calderoli, e per pensionati e statali sarà così. La parola chiave che emerge con maggiore nettezza nelle ultime ore è «una tantum», o meglio «due tantum», giacché il prelievo straordinario varrà per il 2011 e 2012. Le categorie interessate sono molte (sebbene alcuni avanzino questioni di costituzionalità): in primo luogo gli statali che guadagnano più di 80 mila euro lordi annui, si tratta di una platea di circa 20 mila individui tra i quali figurano dirigenti di prima fascia, magistrati, professori universitari, dirigenti di seconda fascia delle agenzie fiscali, diplomatici e prefetti. Per la parte eccedente gli 80 mila euro di queste buste-paga il prelievo una tantum sarà del 10 per cento. L´altra una tantum biennale riguarderà le pensioni d´oro: è possibile che il tetto oltre il quale si sarà sottoposti al prelievo del 10 per cento salga dai 3.500 ai circa 5.000 euro. Dalla «tassa» tuttavia resterebbe escluso il settore privato: un intervento sarebbe possibile sugli stipendi alti attraverso i sostituti di imposta, ma in questa fase viene categoricamente escluso ogni intervento patrimoniale.

Sta lievemente cambiando nelle ultime ore il profilo dell´intervento sulle finestre pensionistiche che frutterà 1,6 miliardi. Le finestre per l´uscita in «vecchiaia» (65 anni) dovrebbero scendere da 4 a 1 (e non essere solo dimezzate come si è detto fino ad oggi), mentre per quelle di anzianità si valuta un dimezzamento (da 2 a 1) oppure un mantenimento dell´attuale livello.

Nell´ambito previdenziale, oltre alla riforma del sistema di erogazione delle indennità di accompagnamento per gli invalidi che saranno legate al reddito, si prepara una cancellazione degli enti previdenziali minori, come quelli dei marittimi, dei musicisti e dei dipendenti postali. Altri risparmi verranno dall´accorpamento degli enti di ricerca, come l´Isae e l´Isfol, da taglio alle consulenze, alle missioni e da un sforbiciata del 15 per cento alla spesa corrente. Oltre alla riforma del patto di stabilità per gli enti locali e tagli per 4 miliardi per Regioni e Comuni.

Resta confermato anche il congelamento del contratto di lavoro per gli statali, il blocco degli automatismi per il 2010, il raddoppio (da tre a sei mesi) dei tempi di attesa per ottenere la liquidazione e la conferma del blocco del turn over. Colpite anche le indennità di ministri e sottosegretari: il taglio sarà del 10 per cento, il doppio di quanto annunciato in un primo momento dal governo. Dalla manovra naturalmente non sarà esente la spesa sanitaria che dovrebbe subire un taglio di 2,5 miliardi con una stretta sui farmaci e l´istituzione dei centri di acquisto regionali. Resta in bilico l´ipotesi della reintroduzione di un ticket sulla specialistica da 7,5 euro.

Sulla lotta all´evasione si preannunciano misure «forti»: oltre all´intensificazione degli strumenti di contrasto come il «redditometro», si parla di una reintroduzione della tracciabilità del denaro contante introdotta dal governo Prodi. Una misura che non sorprenderebbe perché nei giorni scorsi è stato reintrodotto l´obbligo di segnalare l´elenco dei clienti e dei fornitori.

Caro Direttore,sono trascorsi diciotto anni dalle stragi di Capaci e via D´Amelio. Quasi due decenni, nel corso dei quali abbiamo atteso che fosse fatta luce su ragioni e responsabili di quelle stragi in cui hanno perso la vita undici persone, uomini e donne delle istituzioni. Abbiamo saputo da sempre, per usare le parole di Giovanni Falcone, che sono morti perché lo Stato non è riuscito a proteggerli. Oggi, sappiamo anche che proprio dentro lo Stato c´è chi ha fatto di tutto perché non si scoprisse la verità. E non mi riferisco alle oscure trame che a più riprese sono emerse da indagini giudiziarie e inchieste giornalistiche, senza mai trovare conferme definitive. Parlo di fatti concreti e gravissimi, che non possono essere tacciati di mero complottismo o di faziosa mistificazione.

Perché è un fatto che in tutto questo tempo, mentre la società reagiva alle stragi abbracciando e promuovendo la cultura della legalità, mentre l´ala militare di Cosa Nostra finiva in galera e la politica partecipava in pompa magna alle commemorazioni, la storia giudiziaria sulle stragi del ´92 è stata lasciata marcire in un deposito dello Stato a Bagheria, tra muffa ed escrementi, come raccontato da Attilio Bolzoni sul vostro giornale. È un fatto che oggi, a lavorare su quelle carte, ci siano solo un poliziotto e quattro magistrati. È un fatto che questi quattro magistrati si trovino a lavorare oberati dalle mille incombenze di una procura che opera in uno dei territori a maggiore densità mafiosa con solo 11 sostituti sui 16 previsti dalla pianta organica. Ed è un fatto che quando i procuratori che stanno indagando sulle stragi hanno chiesto ai servizi segreti le carte su Vito Ciancimino, si sono visti recapitare solo ritagli di giornale.

Sono questi fatti che mi fanno dire con certezza che c´è uno "Stato" che non vuole arrivare alla verità sulle stragi del ´92 e con essa, alla verità su un capitolo fondamentale della storia italiana.

Non si spiegano altrimenti le mille anomalie riscontrate dai giudici che indagano sul fallito attentato dell´Addaura. Anomalie vergognose, come la vicenda della scomparsa degli identikit dei presunti killer di Capaci, alcuni dei quali recuperati su una vecchia copia di Repubblica. Se all´epoca fosse stata in vigore una legge come quella cui si vuole oggi arrivare con il ddl intercettazioni, non avremmo avuto neppure quegli identikit.

E proprio parlando del ddl intercettazioni, non si può non sottolineare come questo disegno di legge, nato con un intento garantista, sia in realtà un bavaglio per la libertà d´informazione e un ulteriore freno per le indagini di magistratura e forze dell´ordine, indagini di mafia comprese.

La giustizia deve espletarsi nei tempi più rapidi possibili: è questo di cui ha bisogno il Paese, non di una legge del genere, né di tutelare la privacy dei boss. Il Paese ha bisogno di guardare in faccia la verità, non di nasconderla.

Il Paese deve sapere cosa e chi si nasconde dietro Capaci e via D´Amelio, così come dietro il fallito attentato dell´Addaura e le morti di Agostino e Piazza. Senza questa luce di giustizia si rischia di disperdere quell´immenso patrimonio di valori e pratiche di legalità, quell´impegno antimafia che la società è riuscita a costruire anche e soprattutto nel ricordo di Falcone e Borsellino. Per tutti questi motivi, dopo diciotto anni, non possiamo restare ciechi e muti dinanzi al deposito di Bagheria dove è stata seppellita la verità e dinanzi alle difficoltà della procura che sta cercando di riesumarla.

Eppure, cieca e muta è stata finora la politica, spesso animosa e scalpitante persino nel commentare le partite di calcio. Cieche e mute sono state le istituzioni, che saranno di sicuro in prima fila a celebrare gli anniversari del 23 maggio e del 19 luglio. Non mi piacciono le polemiche, ma alla politica e alle istituzioni, chiedo di risvegliarsi dal torpore e agire: prima di tutto, per mettere la magistratura nelle condizioni di portare avanti in tempi rapidi e con strumenti e forze adeguati le indagini sull´attento fallito dell´Addaura, sui mandanti di Capaci e via D´Amelio e sugli omicidi di Antonio Agostino ed Emanuele Piazza (vicende che oggi sembrano legate da un unico filo). Non si tratta solo di investire maggiori risorse, ma anche di fare chiarezza una volta per tutte sulle tante lacune con cui sono state condotte in vent´anni le indagini, di verificare e favorire l´effettiva collaborazione tra magistrati, forze dell´ordine e servizi segreti, di accertare le responsabilità di quanto accaduto nel deposito di Bagheria. Senza dimenticare anche tutto ciò che è custodito negli archivi della commissione parlamentare antimafia.

In altre parole, bisogna fare ordine in questo «disordine perfetto» che avvolge le stragi del ´92 e che impedisce di fare luce su quanto successo dopo, con le stragi del ´93, e sulla lunghissima stagione di sangue che spesso è stata definita come «un colpo di Stato strisciante».

Mi rivolgo pertanto al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché, come ha sempre fatto, sia garante dello stato di diritto. Sono sicura che il presidente Napolitano condivida la preoccupazione per una verità che continua a tardare. Una verità senza la quale non può esservi giustizia. E neppure democrazia.

Lo spezzatino del Belpaese

di Valentino Parlato

Mai la discussione sul federalismo (fiscale, demaniale e quant'altro) è stata così intensa e animata come in questa fase di celebrazione dei 150 anni dell'unità d'Italia. Viene da dire che gli opposti si tengono. Ma il tema è centrale e ha largo spazio sulla stampa.

A porre la questione sul tavolo (senza il minimo riferimento a Cattaneo, Dorso e altri ancora) è stata la Lega, che con «Roma ladrona» metteva in causa lo stato centrale e puntava esplicitamente alla Padania, a separare e autonomizzare le ricche regioni del Nord dalla miseria e dal malaffare del Sud. Avendo mente fredda e occhi aperti è difficile contestare che lo stato centrale sia un disastro dal punto di vista amministrativo, economico e anche morale.

Adesso, con la crisi, il ministro Tremonti deve fare tagli che già si annunciano sul fronte del sociale: pensioni, pubblico impiego, salari (licenziamento «a voce» e aumento dell'orario di lavoro). Viene da dire che se Tremonti sottoponesse a una seria inchiesta le spese e gli abusi della amministrazione centrale e avviasse un serio piano contro l'evasione fiscale potrebbe risolvere molti problemi di bilancio, non castigando i più deboli, ma rimettendo a regime la macchina dello stato. Insomma siamo al punto che Il Tempo (che non è certo un foglio di sinistra) ha messo in testa alla sua prima pagina il seguente titolo e sommario: «Menù a prezzo politico. Nuova buvette. Ristorante su una terrazza per il personale di Palazzo Chigi. Vista sui tetti di Roma e prezzi stracciati. Ecco dove non ci danno un taglio».

Ma domandiamoci: le Regioni che dovrebbero essere i soggetti del federalismo funzionano meglio, quanto a sprechi e corruzione? Insomma il federalismo - visto come è oggi l'Italia - sarebbe la frantumazione dell'Italia in bande, gruppi di potere, tra loro concorrenti e di tutto preoccupati salvo che del benessere dei cittadini della loro federazione e dell'unità d'Italia. Con il rischio che, come abbiamo la delocalizzazione delle industrie, avremmo la delocalizzazione dei poteri regionali nei territori degli antichi occupanti del nostro paese: franchi, alemanni, normanni, arabi ...

A questo punto Giorgio Ruffolo, già nel suo libro «Un paese troppo lungo» e pochi giorni fa con un articolo su Repubblica del 12 maggio ha avanzato la proposta delle macroregioni: l'Italia divisa in due stati federali tra Nord e Sud. Insomma contro il regionalismo a spiccioli il federalismo all'ingrosso, che secondo Ruffolo sarebbe più razionale e produttivo e sulla base di un patto unitario tra le due macroregioni porrebbe concretamente al centro la famosa questione meridionale, sempre reale e presente, ma largamente dimenticata dai politici e dagli uomini di cultura.

A questa proposta di Ruffolo ha prontamente replicato Eugenio Scalfari sulla Repubblica del 16 maggio. Per Scalfari (e per Napolitano, aggiunge) questo sarebbe l'obiettivo della Lega e sarebbe la fine dell'Italia, con un nord europeo e un sud magrebino. O quasi. Il Nord con l'euro e il Sud «con qualche fiorino di antica e non commendevole memoria». Fortunatamente Scalfari non condivide neppure il federalismo regionale e anch'io penso che la strada federalista sia un disastro. Ma se proprio è inevitabile mi sembrano più ragionevoli le macroregioni, con le quali il problema dell'unità si porrebbe più realisticamente evitando lo spezzatino.

La «cricca demaniale» Coste e laghi alle regioni

Primo sì. Di Pietro vota con la Lega e attacca il Pd

di Matteo Bartocci

Il federalismo è salvo. Sul filo di lana la Lega porta a casa il primo mattoncino della riforma fiscale che chiede dagli anni '90. La delega al governo scadeva domani ma la «bicameralina» ha approvato a maggioranza il parere sul primo decreto che trasferisce i beni demaniali dello stato agli enti locali: 17 sì (Pdl, Lega, Svp e Idv), 3 contrari (Udc/Api) e 10 astenuti del Pd. Oggi pomeriggio il cosiddetto «federalismo demaniale» sarà approvato anche dal consiglio dei ministri e si avvierà un gigantesco processo di trasferimento politico ed economico dal quale tornare indietro sarà molto difficile.

La proprietà e la gestione dei grandi laghi del Nord sarà trasferita alle regioni. Così tutte le coste e tutto il demanio idrico (sorgenti, fiumi e laghi regionali, etc.). Beni che le regioni dovranno comunque gestire - così impone la delega con un termine sinistro - pompando al massimo la loro «valorizzazione funzionale». Tra i beni alienabili dunque foreste, aree agricole, immobili, zone portuali dismesse, le strade non statali e gli aeroporti non «di interesse nazionale».

Sono esclusi i beni culturali e, soprattutto, buona parte del demanio militare (caserme dismesse, vecchi alloggi o poligoni in disuso, etc.): una torta da 2 a 4 miliardi di euro che rimane appannaggio della «Difesa spa». Secondo una stima ufficiale dell'agenzia del Demanio a conti fatti si tratta di 18.959 beni (tra immobili e terreni) per un valore di libro di 3,2 miliardi. Una cifra che opportunamente rivalutata è ragionevole almeno raddoppiare. La maggior parte di questi sono nel Lazio: ben 860 milioni di euro. Piemonte, Lombardia e Veneto insieme ne raccolgono per 880 milioni. In Basilicata, Calabria, Molise e Puglia restano le briciole: sul loro territorio hanno beni demaniali per appena 312 milioni.

Bossi può esultare: «Iniziamo a portare a casa quello che si può». E per l'occasione il Carroccio trova un alleato inedito come Antonio Di Pietro. Il leader dell'Idv organizza addirittura una conferenza stampa col ministro Calderoli per rivendicare il sì del suo partito al federalismo e per criticare apertamente l'astensione del Pd: un atteggiamento secondo lui «preconcetto», con cui «il Pd non ha avuto il coraggio di assumersi le sue responsabilità». «L'Idv - attacca Di Pietro - non si astiene mai, perché non è politica la politica che non decide, non sono buoni pastori quelli che non sanno indicare la strada. Chi non è né carne né pesce è bene che se ne stia alla finestra. La Lega e l'Idv - conclude - hanno il coraggio di confrontarsi sui temi veri».

In concreto, il partito di Di Pietro ha ottenuto che nel testo siano richiamati gli articoli 5 e 114 della Costituzione. Un contributo su cui perfino lo stesso Calderoli maramaldeggia un po': «Anche se si tratta di una cosa scontata a volte è utile ricordare che l'acqua calda è calda». Mentre Francesco Boccia del Pd, membro della «bicameralina», è furioso con l'ex ministro delle Infrastrutture: «Ha perso un'altra occasione per dimostrare la sua affidabilità ma le bugie hanno le gambe corte, faccio fatica a ricordare i contributi politici dell'Idv. L'80% del testo approvato dalla commissione - conclude Boccia - è stato modificato grazie al Pd».

Tra le altre novità importanti c'è un fondo di perequazione che prevede che il ricavato della vendita dei beni vada per il 75% a riduzione del debito degli enti locali, il restante 25% andrà all'ammortamento del debito nazionale. I beni potranno essere ceduti a fondi immobiliari pubblici ma aperti a privati e soggetti istituzionali. Il relatore di maggioranza sul decreto, Massimo Corsaro del Pdl (un ex An milanese vicino a La Russa) tira un sospiro di sollievo: «Siamo riusciti a fare il primo dei decreti nei tempi previsti, dando legittimità all'intero percorso e con una cospicua partecipazione alla redazione del testo da parte di tutti i gruppi».

Il Pd è stato a lungo incerto sul provvedimento. Da un lato ha lavorato al massimo per riempire di contenuti (e qualche paletto) una decreto iniziale pericolosamente vago. Dall'altro si è diviso su chi voleva votare sì (gran parte dell'area ex Ds e lo «zoccolo duro» degli amministratori locali) e chi invece voleva votare no come gli ex popolari. Dario Franceschini l'astensione finale la spiega così: «Il testo è stato molto migliorato ma non in modo soddisfacente». Linda Lanzillotta, rutelliana dell'Api. indica che il re è nudo: «Il federalismo demaniale fa partire una massiccia operazione di vendita del patrimonio di tutti che andrà a vantaggio di pochi, per di più con il rischio di alimentare la speculazione immobiliare». E sul piano politico invece «si consente alla Lega di dire che il federalismo è partito mentre è chiaro che il governo non è in grado di dire quali saranno i costi e che la crisi impone di rinviare tutto a data da destinarsi».

In effetti questo primo passo federalista potrebbe anche essere l'unico. Giulio Tremonti è come al solito sibillino quando parla di numeri: «Il trasferimento di immobili tra soggetti pubblici di fatto ha un valore economico nullo o irrilevante». Una gigantesca partita di giro essenzialmente a vantaggio di Roma e del Nord. «La vera difficoltà risiede nella vendita del patrimonio immobiliare», ammette Tremonti, facendo capire che potrebbero essere anche altri interventi, in futuro, a «semplificare» la materia. «La riforma che si sta compiendo assume di fatto una valenza di carattere costituzionale e quindi ha un elevato valore simbolico», conclude il ministro. Eclissati e completamente innocui i «finiani». Immortale un titolo del Secolo che parlava di questo provvedimento come una puntata di «Scherzi a parte». Evidentemente ridere piace a tutti.

VERDI IN RIVOLTA

Bonelli: «Così il decreto consegna l'Italia agli affaristi»

di Iaia Vantaggiato

«La più grande speculazione immobiliare ed edilizia nella storia della Repubblica italiana». Così il presidente dei Verdi Angelo Bonelli definisce l'approvazione del decreto sul federalismo fiscale. «Molti sono soddisfatti - dice - noi invece siamo disgustati anche per il modo bipartisan con cui si è deciso di vendere l'Italia».

Lei protesta ma intanto il decreto è passato grazie al voto di Di Pietro e all'astensione del Pd.

Se non ci fosse Berlusconi, Di Pietro potrebbe stare benissimo dentro un governo di destra. Del resto fu proprio Di Pietro, quand'era ministro per le infrastrutture, a impedire la chiusura della società per il ponte sullo stretto ed è sempre grazie a lui che prima o poi, con la realizzazione del corridoio tirrenico-maremmano, ci ritroveremo con la Maremma tagliata in due da un'autostrada.

Almeno Di Pietro ha votato.

Se allude all'astensione del Pd, molti se ne sono già pentiti nel senso che avrebbero volentieri votato a favore. All'interno di questo governo non esiste nessuna opposizione di centrosinistra. A questo punto la distanza tra noi e loro prima ancora che politica è culturale.

Ma di questo decreto non salviamo proprio nulla?

Con questo provvedimento lo stato trasferisce, con qualche eccezione, tutti i beni demaniali agli enti pubblici e sin qui niente di male.

Quand'è allora che nascono i problemi?

Quando con l'alienazione dei beni, cioè con la loro vendita, se ne consente anche una contestuale variante urbanistica. Con questo meccanismo tutte le superficie agricole e non sinora appartenute allo stato potranno diventare terreno edificabile.

Il Parlamento non può intervenire, magari con qualche paletto?

I decreti legislativi non sono emendabili dal Parlamento che può solo esprimere «pareri» non vincolanti. E tra l'altro nel parere già espresso non c'è nessun paletto.

Ma una parte dell'articolo 58 era stata dichiarata incostituzionale.

Sì, ma solo sino a dove si dice che l'inserimento degli immobili nel piano di alienazione ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone la destinazione urbanistica.

Vale a dire?

Che una volta che hai comprato un pacchetto di immobili dallo stato ne puoi fare quello che vuoi. Del resto se ci fossero i paletti verrebbe meno la possibilità di valorizzare il bene e dunque il fine dell'intera operazione.

Lei parla di valorizzazione economica ma se l'ente locale decidesse, chessò, di trasformare una caserma militare in una scuola sarebbe una cosa buona, no?

Il problema non sono le caserme ma, per esempio, i terreni agricoli. Non crederà mica che a comprarli saranno i coltivatori? Su quei terreni si tufferà solo chi è intenzionato a realizzare operazioni edilizie con ricadute urbanistiche e ambientali enormi.

L'Italia nelle mani di costruttori e immobiliaristi, come lei dice.

E di speculatori. Pensi al demanio idrico di cui è stata mantenuta l'indisponibilità a eccezione delle sorgenti minerali e termali.

Che c'entarno le sorgenti con gli speculatori?

Le sorgenti si chiamano «Fiuggi», «Rocchetta» e qualsiasi altra marca le venga in mente. Allo stato rendono pochissimo ma dietro c'è un giro d'affari miliardario. A chi andranno?

Le spiagge almeno ce le hanno lasciate.

Sì, ma con la possibilità di realizzare canoni di concessione di 99 anni. Il che equivale a venderle.

Postilla

Pauroso il segnale politico e culturale che emerge da questa vicenda. Dagli articoli che riportiamo registriamo tre punti: (1) il larghissimo consenso all’obiettivo della priorità della “valorizzazione economica” su qualunque altro obiettivo; (2) l’accettazione comune della liceità, per raggiungere questo obiettivo, di alienare beni pubblici, di spezzettare beni strutturalmente unitari e addirittura di modificare le destinazioni urbanistiche derogando alla pianificazione; (3) la reiterata ammissione che il “federalismo all’italiana” di per sé è un buon obiettivo politico, del quale è importante solo concordare i modi.

Sui primi due punti convergono – sia pure con sfumature diverse – sia Di Pietro (il quale non sembra avere altri meriti politici se non la sua giusta intransigenza nei confronti di Berlusconi e del conflitto d’interessi) sia i Democratici. Sul terzo il consenso sembra ancora più vasto. Al punto che perfino Valentino Parlato, nell’articolo che pubblichiamo più sopra, aaccetta come ultima spiaggia – per evitare lo “spezzatino” – la rottura dell’Italia nelle macroregioni che Giorgio Ruffolo aveva proposto.

A nessuno (o a troppi pochi) viene in mente che il “federalismo”, predicato e praticato per dividere ciò che è unito, è una contraddizione in termini, e che la rottura dello stato unitario è una negazione della storia, dal Risorgimento alla resistenza e alla Costituzione, giustificata solo in alcuni dal rapace egoismo dei più ricchi e dei più ciechi rispetto al futuro, in altri dalla rassegnazione all’impossibilità di migliorare lo stato quale oggi doroteismo, craxismo e berlusconismo lo hanno ridotto.

La commissione Giustizia del Senato ha approvato a maggioranza gli emendamenti del governo al disegno di legge sulle intercettazioni. Sono previste limitazioni inaccettabili ai poteri dell’autorità giudiziaria, una cappa plumbea di silenzio nei confronti delle indagini penali in corso. Inoltre, sanzioni severe per i giornalisti che contravvengono al nuovo regime e, soprattutto, per gli editori che consentono le pubblicazioni illegittime. Una disciplina che lascia stupefatti e che, se dovesse diventare davvero legge dello Stato, cambierebbe il volto delle indagini penali e di parte dell’informazione nel Paese.

Nonostante le critiche, le osservazioni e le proteste di una porzione consistente dell’opinione pubblica, l'azione non si è fermata. Non sono serviti i problemi economici urgenti, gli scandali della «cricca», il crollo di credibilità della classe politica, la necessità di affrontare finalmente il nodo della corruzione. In altre parole, le vere urgenze. La priorità, per il governo, era, ed è rimasta, tagliare le unghie alla magistratura che indaga e togliere voce e penna ai giornalisti che informano. Ne prendiamo atto con sconcerto, cercando di fare un bilancio di ciò che il Parlamento sta predisponendo.

In materia di indagini è risaputo che le intercettazioni costituiscono mezzo insostituibile di accertamento di molti gravi reati. Circoscrivere i casi nei quali esse possono essere disposte e stabilire che esse non possono durare più di un periodo prestabilito fisso di settantacinque giorni, e poi automaticamente cessare anche se stanno emergendo elementi utili ad individuare i responsabili, significa rinunciare ad uno strumento fondamentale nella lotta al crimine. Uno strano regalo alla criminalità, da parte di chi di tale lotta, dell’ordine pubblico e della difesa dei cittadini fa, almeno a parole, la sua bandiera. Un regalo, addirittura, alla criminalità organizzata, se è vero, che, come hanno spiegato gli esperti della materia, le restrizioni peseranno anche nelle indagini contro mafia, ’ndrangheta e camorra.

In materia d’informazione dovremo abituarci a non conoscere più nulla sulle indagini disposte dall’autorità giudiziaria. Se un ministro si fa pagare una casa a sua insaputa, non lo sapremo, perché i giornalisti non potranno più pubblicarlo. Come non sapremo più se un parlamentare, un presidente o un sindaco hanno peculato, rubato, si sono fatti corrompere o comprare e sono per questo indagati. A ciò conduce, inesorabilmente, l’avere previsto che non sarà più consentito pubblicare nulla, neppure «il contenuto» non più coperto da segreto, delle investigazioni giudiziarie in corso.

Le sanzioni previste per i contravventori sono, d’altronde, molto elevate. Chi dall’interno degli uffici rivela il contenuto di atti coperti da segreto investigativo sarà punito con la reclusione fino a sei anni, e in tale pena incapperà pure il giornalista che pubblicherà la notizia. Chi pubblica atti di un’indagine penale non più coperti da segreto, ma di cui è comunque vietata la pubblicazione, rischierà l'arresto fino a 30 giorni o il pagamento di un’ammenda da 1000 a 5000 euro, che sarà raddoppiata nel caso si tratti di un’intercettazione. Per l’editore del giornale che pubblicherà la notizia vietata è prevista una sanzione pecuniaria che potrà arrivare a 464.000 euro.

A quanto si è appreso, il varo definitivo in commissione del disegno di legge è stato sospeso fino a lunedì prossimo. In materia di sanzioni la novità più devastante è la pesantissima sanzione pecuniaria prevista per gli editori, che rischierà di alterare la relazione d’indipendenza che ha caratterizzato, fino ad oggi, il rapporto fra proprietà e direzione dei giornali. Pensate a che cosa accadrà quando, se si verificherà un’infrazione prevista dalla nuova legge, l’editore saprà di rischiare ben 464.000 euro. Credete davvero che, di fronte al pericolo di fallire e di chiudere l’azienda, si farà scrupolo d’imbavagliare, lui stesso, i direttori e i giornalisti? A quest’ulteriore scempio, a quanto pare, nessuno, nel palazzo, pensa di rimediare. La libertà di stampa è l’ultima delle preoccupazioni. L’importante è creare un clima d’intimidazione complessiva in grado di bloccare ad ogni costo le notizie.

Si obietterà, a mali estremi, estremi rimedi. Gli abusi della stampa, con la pubblicazione di notizie coperte dalla privacy, con quella, indiscriminata, d’intercettazioni che non c’entrano con le indagini, con la demolizione mediatica di colpevoli ed innocenti, esigeva una reazione adeguata. L’obiezione è del tutto inconferente: a parare gli abusi sarebbe più che sufficiente la rigorosa applicazione della legge vigente sulla privacy, l’originaria previsione del divieto di rendere pubblici gli atti irrilevanti per le indagini e la predisposizione di un archivio riservato nel quale depositare provvisoriamente tali atti in attesa di una loro distruzione.

La realtà è che, con un colpo solo, governo e maggioranza (con l’avallo, magari, anche di qualche oppositore) vogliono indebolire la magistratura, rendere meno incisive le indagini, evitare che politici e potenti finiscano in prima pagina in ragione delle loro malefatte. Un’indebita limitazione del controllo di legalità e del diritto d’informare che, se dovesse passare, cambierebbe inevitabilmente la costituzione materiale. Speriamo che, nel frattempo, qualcuno che ha potere si accorga che è, anche, violazione della Costituzione formale.

Una volta il padrone che voleva liberarsi di te scriveva nero su bianco e spediva per raccomandata: «Gentile collaboratore, le comunichiamo che non intendiamo avvalerci ulteriormente della Sua prestazione». Troppo freddo, burocratico, e poi «verba volant, scripta manent». Tutto dev'essere più agile, rapido, confidenziale e, soprattutto, inutilizzabile ai fini di eventuali rivalse. Così il governo del fare e dell'amore che ha a cuore l'interesse generale - cioè quello del più forte - ha deciso di risparmiare carta e francobollo semplificando le procedure: per comunicare a un lavoratore con contratto a termine che deve tornarsene a casa basterà una parola, pronunciata magari nello spogliatoio o alla macchinetta del caffè: «licenziato». Parola che si può anche declinare secondo l'idioma del territorio con un «fora d'le bale», o «jatevenne». Mentre il giuslavorista Ichino precisa che il «licenziamento orale» previsto nell'emendamento del governo vale non tanto per i contratti a termine quanto per quelli a tempo indeterminato, l'immarcescibile ministro Sacconi giura che il suo scopo è di favorire i lavoratori. I quali ringraziano, naturalmente a voce. Anche il presidente Napolitano ringrazia, forse solo oralmente, governo e maggioranza per aver ignorato i suoi richiami contro l'imposizione dell'arbitro al posto del giudice nelle vertenze del lavoro.

Invece. Per essere messo al lavoro per una settimana o un mese, un operaio o un centralinista in lista d'attesa con un contratto «job on call» (lavoro a chiamata), può già oggi essere convocato via sms o e-mail: in questo caso della parola del padrone deve restare traccia, per consentire al nuovo caporale di depennare definitivamente dalla lista il «soggetto» convocato, qualora non prenda servizio entro 48 ore.

Parole come «licenziato» che fanno testo e parole proibite, inaccessibili come quelle pronunciate al telefono da un imprenditore per corrompere un politico, o quelle di un politico per elencare le condizioni, le percentuali, le prestazioni dovute dall'imprenditore in cerca d'appalto pubblico. Così come proibite saranno le parole del mafioso al politico o all'imprenditore, e viceversa. Vietato indagare, registrare, raccontare. La verità è sempre relativa. E' il trionfo della privacy, la fine dello stato di polizia. Basta con le intercettazioni telefoniche, le inchieste giudiziarie compromettenti per il potere e le inchieste giornalistiche irrispettose verso i potenti. Che siano a Montecitorio come a Palazzo Chigi, in Confindustria come in Cosa Nostra. In piazza si possono mettere solo le pubbliche virtù, non i vizi privati, né quelli pubblici.

Dunque da oggi chi sbaglia paga? Prendiamo in parola il presidente del Consiglio e la sua voglia improvvisa di legalità, nata dal vortice dello scandalo Scajola, dalle paure del caso Bertolaso, dal "sistema" di scambio tra appalti di Stato e favori privati che si allarga ogni giorno di più sotto le poltrone traballanti del suo governo. C´è una strada maestra per fare sul serio dimostrando che il governo intende stroncare questo andazzo e attaccare frontalmente il malaffare: il premier si rivolga al Parlamento e blocchi la vergogna della legge sulle intercettazioni telefoniche, in nome della libertà d´indagine, della libertà di stampa e del diritto dei cittadini di essere informati, fondamento di ogni democrazia.

È altrettanto vergognoso, e incomprensibile, che non ci sia una mobilitazione generale di tutto il mondo dell´informazione, dalla stampa alla radio-televisione a Internet. Qui non è una questione di destra o sinistra, ma un problema di diritti fondamentali, del loro esercizio, del dovere di informare e del diritto di conoscere e sapere. È un tema di libertà, nel quale si mette in gioco quel soggetto fondamentale delle democrazie occidentali che è la pubblica opinione: ciò che distingue un regime da un sistema aperto, con un libero mercato del consenso basato sulla trasparenza e sull´accesso alla conoscenza e all´informazione.

Diciamo subito che le intercettazioni sono una parte del problema: ma diventano la formula-richiamo per far intendere ai cittadini che il governo si preoccupa soltanto di tutelare la loro privacy. Chi vuole infatti essere ascoltato nelle sue private conversazioni? Non è forse giusto garantire la libertà di tutti, evitando abusi ed eccessi? Ma gli abusi e gli eccessi sono un falso di Stato. Due anni fa il Guardasigilli ha detto che «una grandissima parte del Paese è intercettata e il numero delle intercettazioni è assolutamente ingiustificato in base al numero degli abitanti e all´ordinamento giuridico». Bene. In realtà i telefoni intercettati in Italia nel 2009 sono 120 mila, che tenendo conto del giro vorticoso di schede e utenze usate dai criminali e delle proroghe corrispondono a meno di 80 mila cittadini, vale a dire lo 0,2 per cento della popolazione. Ecco il falso: aggravato dalla circostanza che il numero dei "bersagli" (come si dice in termine tecnico) intercettati è sceso di 5 mila unità nel 2009 rispetto all´anno precedente, che il costo per lo Stato è fortemente diminuito e che l´80 per cento degli ascolti, addirittura, riguarda reati di criminalità organizzata.

Dunque, che cosa deve temere il cittadino? L´unico interesse generale da tutelare è la garanzia che non venga violata - come talvolta è accaduto, per colpa della pubblicazione affrettata degli atti sui nostri giornali - la riservatezza di persone che non hanno nulla a che vedere con le indagini, quando le loro conversazioni non sono rilevanti per l´inchiesta. Ma per rimediare a questo problema, abbiamo avanzato da tempo una proposta: un´udienza stralcio davanti ad un giudice terzo in cui le parti, e la magistratura ovviamente tra queste, si assumano una precisa responsabilità, stabilendo che cosa è rilevante ai fini processuali e che cosa è insignificante. Ciò che non ha peso per l´accertamento giudiziario deve essere distrutto o secretato, e certamente a questo punto devono scattare sanzioni durissime per chi lo diffonde o lo divulga su un giornale. Mentre ciò che ha un rilievo per l´inchiesta può essere divulgato perché è giusto che l´opinione pubblica conosca i meccanismi attraverso cui si realizza non solo la fattispecie di un reato, ma talvolta un vero e proprio sistema criminale di rilevanza sociale.

Il problema può dunque essere risolto facilmente, in fretta e alla radice. Ma qui, invece, l´obiettivo è quello di tutelare i potenti dal rischio di essere intercettati dal magistrato che cerca prove per un reato e dal pericolo di vedere quelle conversazioni-prova pubblicate dai giornali. E in particolare si punta a tutelare quella particolare categoria di potenti - gli uomini politici - che deve sottoporsi al giudizio della pubblica opinione, e dunque teme l´"accountability", il dover rendere conto del proprio operato, la trasparenza delle sue azioni. Ovviamente, una larga parte del mondo politico condivide il principio della responsabilità e del rendiconto. Ma il governo, con ogni evidenza, vuole evitarlo. Ecco dunque la ricerca di norme congiunte che da un lato rendano più difficili, più limitate, più ristrette le intercettazioni e dall´altro renda addirittura impossibile ai giornali pubblicare non solo i verbali delle conversazioni legittimamente registrate, ma le notizie stesse delle inchieste giudiziarie.

Con questo sistema si crea dunque un doppio "vuoto", uno nell´area delle indagini penali e l´altro nell´informazione che i cittadini hanno il diritto di ricevere su queste indagini. I criminali verranno aiutati: la pubblica opinione verrà invece sottoposta ad un regime di tutela, con il divieto di conoscere e di sapere ciò che avviene nel mondo della giustizia, negli ambienti del crimine, in quella zona critica dove i suoi stessi rappresentanti politici vengono talvolta colpiti da un´iniziativa giudiziaria.

Poiché siamo davanti ad un terremoto politico e di potere, ben più che penale, dentro il mondo impaurito del governo e del sottogoverno, è molto difficile non pensare che la sordità parlamentare e la fretta della destra berlusconiana per far approvare la legge siano una vera e propria operazione di salvaguardia in corso d´opera. Il ministro Scajola è un testimone esemplare di questo riflesso politico di difesa e d´attacco: le intercettazioni sul G8 infatti hanno messo in movimento il piano inclinato che ha fatto ruzzolare il ministro davanti all´opinione pubblica, non alla magistratura. Dunque, se con una mano il governo paralizza le intercettazioni o le limita drasticamente, e con l´altra impedisce semplicemente che i giornali informino i cittadini, un caso Scajola non si verificherà mai più. Il Parlamento voterà obbediente, i telegiornali magnificheranno la difesa della privacy, qualche giornale strepiterà e gli altri volteranno pagina: incombe o no il campionato del mondo di calcio? Che c´è di meglio, direbbe il saggio Confalonieri, per distrarsi un po´?

E invece siamo davanti ad un vero e proprio test per il circuito di funzionamento della nostra democrazia. Sul piano delle indagini, con l´irragionevole limite prefissato alla durata delle intercettazioni, con l´impossibilità di usare gli ascolti per fare altre registrazioni, se emerge dai nastri l´ipotesi di un diverso reato, gli effetti sono evidenti: non ci sarebbe stata l´inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, sarebbe già saltata l´inchiesta sul G8 e la Protezione Civile, si sarebbe bloccata l´indagine di Trani su Rai e Agcom con le pressioni del presidente del Consiglio per bloccare Santoro e la Dandini, sarebbero saltate le prove che a marzo hanno consentito l´arresto a Milano di sette persone sospettate di traffico d´armi con l´Iran, sarebbe diventato molto più difficile documentare la tangente da 10 mila euro per il consigliere comunale milanese Milko Pennisi del Pdl.

L´operazione è completata con il bavaglio alla stampa. Nessuna notizia potrà infatti essere pubblicata d´ora in poi su qualsiasi atto, nominativo, verbale che abbia a che fare con un´inchiesta in corso. L´obbligo al silenzio per i giornali dura fino alla chiusura delle indagini preliminari, cioè per un periodo di tempo che nella media va in Italia dai quattro ai sei anni e che in qualche caso patologico arriva fino ai dieci. L´opinione pubblica sarà dunque all´oscuro dei grandi reati e delle grandi inchieste per anni e anni, in forza di un divieto tombale di Stato, che blocca l´informazione. Le sanzioni sono pesantissime: carcere fino a due mesi, ammende da 2 a 10 mila euro per "pubblicazione arbitraria", galera fino a sei anni per la "talpa". In più, con una sanzione fino a 465 mila euro a notizia nei confronti delle aziende editoriali (che il Guardasigilli chiama l´"ente") si obbligano gli editori ad adottare specifici "codici di condotta" a loro salvaguardia: ciò comporta che l´editore abbia un suo interesse autonomo, collegato ma distinto da quello del giornalista, a far sì che non si pubblichino determinate notizie. Si spinge cioè l´editore a intervenire nei contenuti di un giornale, cosa che in un sistema sano non avviene, pur avendo l´editore la piena potestà sulla parte che lo compete, fino a decidere la sostituzione del direttore. Infine, la pressione del governo sull´Ordine dei giornalisti, perché il disegno di legge impone al pubblico ministero di informare "immediatamente" l´Ordine su chi ha violato il decreto di pubblicazione, e in più prevede la sospensione dall´esercizio della professione fino a tre mesi.

Il quadro è chiaro. Con il risultato che gli indagati potranno fare dichiarazioni sulle inchieste a cui sono sottoposti e i giornalisti non potranno replicare, non conoscendo gli atti. E con il rischio che nel divieto di trasparenza e nel silenzio di Stato si gonfi fuori da ogni responsabilità istituzionale una bolla di voci sulle indagini, di allusioni e di sospetti che potranno essere usati a piacimento e fuori da ogni controllo di legittimità: anche come arma politica, e soprattutto da chi controlla i mezzi d´informazione e ha già dimostrato ampiamente e con successo di saper killerare con false notizie i suoi critici.

Entreremo dunque in una fase di ricatti sospesi, di calunnie e di allusioni. Con giornali dimezzati, magistrati limitati, cittadini disinformati. Insieme con le leggi ad personam e il conflitto d´interessi questa censura di Stato è il terzo elemento che trasforma l´anomalia berlusconiana in un regime. L´opposizione non sembra consapevole del pericolo, il mondo dell´informazione nemmeno, dunque il governo va avanti. Ma ci sono battaglie che devono essere combattute indipendentemente dai rapporti di forza: lo faremo.

Lettera aperta al sindaco di Milano, Letizia Moratti. Che qualche giorno fa ha proposto un'equazione tra immigrati clandestini e criminalità. Parole che non sembrano suffragate da analisi e studi approfonditi. Perché i dati di una ricerca della Fondazione Rodolfo Debenedetti su otto comuni del Nord Italia e il primo censimento dei senzatetto a Milano offrono una lettura ben diversa della situazione. A partire dal fatto che quasi tutti gli immigrati passano per una condizione di irregolarità prima di ottenere il permesso di soggiorno.

Caro Sindaco,

è di qualche giorno fa la sua equazione tra immigrati clandestini e criminalità: “ il clandestino che non ha un lavoro regolare normalmente delinque” ha dichiarato e reiterato successivamente. Ci risulta difficile pensare a un clandestino con un lavoro regolare. Ci sta quindi dicendo che tutti i clandestini sono delinquenti? E sulla base di quali dati giunge a una tale inquietante conclusione?

Le poniamo queste domande perché i dati di cui disponiamo ci portano a conclusioni molto diverse dalle sue. E crediamo che il dovere del primo cittadino sia quello di documentarsi prima di alimentare pregiudizi diffusi.

Tra ottobre e novembre 2009, laFondazione Rodolfo Debenedettiha condotto un’indagine sugli immigrati in otto comuni del Nord Italia, tra cui Milano. L’innovativo metodo di campionamento (per blocchi di abitazioni anziché in luoghi frequentati da alcuni immigrati) rende la ricerca l’unica in Italia a essere rappresentativa degli immigrati irregolari. Tutti i comuni interessati hanno dato il patrocinio (gratuito) all’indagine, tranne il comune di Milano, che oltretutto è quello in cui sono state raccolte il maggior numero di interviste. Né lei né l’assessore alle Politiche sociali ci avete ricevuto quando abbiamo chiesto un incontro per illustrarvi l’indagine e per chiedervi di renderne edotta la cittadinanza.

I RISULTATI DELLE NOSTRE RICERCHE

Ecco alcuni dei principali risultati che abbiamo conseguito e che saremmo lieti di esporle in maggiore dettaglio se ce ne concederà la possibilità.

Primo, non ci sono differenze significative fra immigrati regolari e irregolari nella percentuale di chi dichiara di avere avuto problemi con la giustiziain Italia.

Secondo, sappiamo da altre fonti (Istat) che la probabilità di essere denunciati è più alta per gli immigrati irregolari che per quelli regolari, ma comunque è ben inferiore al 100 per cento da lei ipotizzato. Rapportando i numeri dell’Istat alla popolazione totale degli immigrati irregolari, si può stimare che circa il 18% degli irregolari è stato oggetto di una denuncia nel 2005. Almeno un quarto delle denunce riguarda, però, reati legati all’immigrazione clandestina in quanto tale e non crediamo che il senso delle sue parole fosse “è irregolare chi è irregolare”.

Terzo, l’irregolarità è una condizione da cui quasi tutti gli immigrati sono passati. Il 60% degli immigrati attualmente regolari da noi intervistati ha vissuto un periodo non breve di irregolarità. Sono arrivati senza permesso di soggiorno e hanno dovuto attendere diversi anni prima di essere regolarizzati. I tempi di attesa medi per il rinnovo o la concessione del permesso di soggiorno sono infatti di 3 anni. Non abbiamo ragione di ritenere che in questo lasso di tempo gli immigrati diventino tutti delinquenti.

Quarto, durante il periodo in cui non si ha un regolare permesso di soggiorno si incontrano maggiori difficoltà nel trovare lavoro perché non si può passare per i canali di assunzione legali: a Milano solo il 55% degli immigrati irregolari lavora e il 31% sostiene di essere in cerca di un lavoro. Anche chi trova lavoro, ha per lo più impieghi saltuari e a condizioni peggiori, forse perché sotto il ricatto del proprio datore di lavoro (salari dal 20 al 30 per cento più bassi a parità di altre condizioni, turni di notte, meno ore totali ma concentrate nei week end, etc.). Circa il 40 per cento degli irregolari sono impiegati nell’edilizia dove vengono spesso disattese norme elementari di sicurezza sul lavoro. In quest’ultimo caso, il reato è commesso dal datore di lavoro, non certo dall’immigrato.

Quinto, gli immigrati irregolari sono fortemente ghettizzati nel tessuto urbano. In via Padova il 25% degli immigrati intervistati è irregolare. L’indice di segregazione abitativa (un indice delle differenze nella distribuzione degli immigrati rispetto alla popolazione autoctona) per gli immigrati irregolari a Milano è il più alto tra i comuni considerati. Il primo censimento dei senzatetto a Milano condotto nel 2008 (1) anche in questo caso senza ricevere il patrocinio del Comune, ha messo in luce che il 68% dei senza fissa dimora a Milano è straniero (in totale 619 persone) e, di questi, il 13% non ha un permesso di soggiorno. Molte sono badanti che hanno perso il lavoro e la casa al tempo stesso. Sono persone che in gran parte potrebbero essere reinserite nel tessuto sociale.

Lasciamo comunque a Lei l’interpretazione di questi dati e soprattutto il loro utilizzo nella definizione di politiche più appropriate per gestire il fenomeno dell’immigrazione nella nostra città. Le suggeriamo di parlarne anche coi Suoi colleghi sindaci e con i ministri competenti perché il problema dell’immigrazione non può essere affrontato da un solo Comune. In questi colloqui per favore faccia precedere l’analisi dei dati, gli studi di fattibilità, alle parole. Ad esempio, faccia presente al Ministro Gelmini che la sua proposta di limitare le presenze di immigrati in ogni quartiere al 30 per cento, come nelle scuole, comporterebbe deportazioni in massa degli immigrati. Dal solo quartiere di via Padova bisognerebbe spostare più di mille immigrati trovando loro un alloggio in quartieri con bassa densità di immigrati.

I dati che le abbiamo voluto ricordare testimoniano il fatto che ci stiamo muovendo su di un terreno minato, trattandosi di fasce di popolazione che vivono in condizioni di marginalità e che, in assenza di alternative, possono finire nelle braccia delle organizzazioni criminali. Non crediamo che sia interesse di nessuno, neanche di chi vuole cavalcare sentimenti diffusi per raccogliere qualche consenso in più, gettare benzina sul fuoco.

Cordialmente

Tito Boeri, direttore scientifico fondazione Rodolfo Debenedetti

Marta De Philippis, responsabile dell’indagine sull’immigrazione irregolare nelle otto città italiane



L’indagine è stata condottada Michela Braga e Lucia Corno, due ricercatrici dell’Università Bocconi, con il sostegno della fondazione Rodolfo Debenedetti.

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