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ROMA — «Stanno svendendo l’Italia solo per ricavare un utile immediato. Sul paesaggio, sul territorio italiani non c’è più da nutrire preoccupazione: ma autentica disperazione. Sarà una rovina irreversibile di cui soffriranno le nuove generazioni. E poi ne risentiranno il turismo, che abbandonerà il nostro Paese, e già sta avvenendo. Poi la salute, l’identità, le radici stesse degli italiani». Giulia Maria Crespi parla dalla sua casa in Sardegna, ma è in continuo collegamento con gli uffici del Fai, il Fondo ambiente italiano, trust privato che negli anni è riuscito a sottrarre straordinari beni culturali italiani alla speculazione e alla scomparsa. Un’esperienza citata in Europa come un modello di tutela in mano ai privati.

Qual è la ragione del suo allarme, signora Crespi?

«Prima di tutto la sorte del Codice dei Beni culturali, varato dal ministro Giuliano Urbani, in mezzo a mille difficoltà, sotto il precedente governo Berlusconi e concluso da Francesco Rutelli. Sandro Bondi mi aveva dato la sua parola d’onore davanti a quattro testimoni che la parte relativa al paesaggio sarebbe entrata in vigore a gennaio scorso, poi a giugno di quest’anno. Infine lo slittamento alla fine di dicembre... ».

Parla dell’articolo 146 che attribuisce ai soprintendenti il potere di esprimere un parere obbligatorio e vincolante sugli interventi nelle aree protette e che non è ancora andato in vigore? C’è un regime di proroga...

«Penso proprio a quel problema. I soprintendenti calano di numero e hanno sempre meno mezzi a disposizione. Ora c’è questa proroga che consente ai soprintendenti di pronunciarsi solo a cose fatte, a progetto varato. Intanto le regioni stanno approntando i loro piani. Il Veneto prevede la possibilità di intervenire nel 40% del territorio. La Lombardia nel 35% con la possibilità di intervenire anche nei parchi regionali. Allucinante. L’Umbria le sta seguendo. Altra tragedia: ora i comuni permettono ai costruttori di autocertificarsi l’idoneità del progetto. Sono insegnamenti che definirei di gravissimo scadimento morale dell’intero sistema italiano».

Bondi ha assicurato che la proroga finirà a dicembre...

«Spero. Anche se non ci credo più. Senza il Codice completo, il Piano Casa potrà avere effetti devastanti, purtroppo irreversibili sul paesaggio».

Dice però Berlusconi: con le nuove regole del Piano Casa verranno rimessi in circolazione tra i 70 e i 150 miliardi di euro ora inoperosi nelle banche. Non temete di apparire come ostacoli alla ripresa dell’economia?

«Questo è quello che dice Berlusconi, poi bisogna vedere se gli effetti economici saranno davvero quelli... Ma io guardo al futuro. Il Piano Casa prevede la possibilità di abbattere vecchi edifici, di aumentarne la cubatura, di stravolgere insomma interi panorami. Unico Paese in Europa: guardiamo cosa avviene in Francia o altrove. Ma qui non c’è solo il Piano Casa. È tutto un sistema... ».

A cosa si riferisce in particolare, signora Crespi?

«Ho tanti altri esempi che addolorano solo al pensarli. In Lombardia, nel cuore del parco del Curone, cioè della Brianza ancora ben conservata, un meraviglioso parco di 2.700 ettari, è pronto uno studio di fattibilità per permettere alla società australiana Australian Po Valley, per il 50% di proprietà Edison, di estrarre petrolio. Petrolio lì! Con conseguente emissione di acido solforico che avrà un’azione intossicante nell’arco di dieci chilometri, col problema dello smaltimento dei fanghi. Tutti i 21 comuni, di qualunque colore, e la provincia di Lecco protestano ma non hanno potere di bloccare il piano perché è stato dichiarato di pubblica utilità! Come si può solo immaginare tutto questo?».

Altri esempi che la preoccupano?

«Ho ancora un esempio legato alla Lombardia che, nel suo piano prevede la possibilità di intervenire addirittura nelle aree protette. Per esempio nel meraviglioso Parco Agricolo Sud: 47 mila ettari! Altro massacro che resterà indelebile che distruggerà un’area ricca di fontanili antichi, terreno ad alta fertilità, piena di antiche abbazie e cascine forzesche. Un polmone verde per i milanesi».

Se la prende con questo governo?

«Io credo che ormai circoli un ragionamento trasversale: fare soldi subito. E poi, dopo di me il diluvio. Lo disse Luigi XV, ma dopo ci fu la Rivoluzione francese. E dopo, per noi, ci sarà solo un territorio devastato per sempre. E qui nessuno è più sensibile. Non lo è la destra. Ma non lo è nemmeno la sinistra: neanche l’attuale opposizione colloca l’ambiente tra le sue priorità. Anzi, se ne disinteressa totalmente. Guardiamo cosa sta avvenendo in Toscana e presto in Umbria... Rimaniamo solo noi associazioni: Fai, Italia Nostra, Lipu, Wwf. Siamo visti da tutti come scomodi cretini. Poi, un giorno, forse qualcuno dirà che quegli scomodi cretini avevano ragione. Ma sarà troppo tardi. Un padre non svende la figlia per far cassa. Qui, lo ripeto, stanno svendendo la nostra Italia davanti all’indignazione del resto d’Europa».

È positivo che i mezzi di comunicazione di massa abbiano dato tanta attenzione alla pubblicazione del rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno. È anche positivo il fatto che, con l'eccezione de Il Giornale di Berlusconi i toni siano preoccupati. E da questo punto di vista i dati sono incontrovertibili.

In alcuni casi il significativo peggioramento della situazione è evidente. In altri non c'è nulla di nuovo e si tratta del proseguimento, senza alcuna modificazione della portata di un trend ormai decennale. È questo il caso della «ripresa dell'emigrazione dal Mezzogiorno» messa in evidenza per la prima volta dalla Svimez dieci anni addietro e ribadita annualmente nei rapporti. Insomma il vero merito della Svimez è stato quello di aver rilevato per prima dieci anni fa l'esistenza e l'importanza sociale del fenomeno, quando ancora sociologi, economisti e politici erano impegnati a spiegarsi un fenomeno che ormai non esisteva più: quello della presunta indisponibilità alla mobilità territoriale del Mezzogiorno, espressa soprattutto dal fatto che i giovani non volevano «lasciare il nido», non erano disponibili a muoversi dal paese e dalla comodità della famiglia nonostante gli elevati tassi di disoccupazione giovanile.

Passati dieci anni, e dopo che a lungo è stata sottolineata la presenza di una emigrazione significativa dal Sud, ora tutti scoprono improvvisamente che quasi un milione di persone se ne sono andate. E difatti con 70-80 mila persone all'anno (quale saldo migratorio, cioè partenze meno ritorni) si arriva a una cifra rispettabile: 780 mila persone.

Il dato non è neanche eclatante, soprattutto in considerazione delle condizioni del Mezzogiorno. Ma la questione principale è un'altra: il fenomeno effettivo è di proporzioni molto più rilevanti dal punto di vista sociale e numerico di quanto gli stessi dati statistici non mostrino. Di questo sembra non essersi accorto nessuno tranne il manifesto di ieri con l'intervista di Francesca Pilla e Enrica Morlicchio. Insomma - come si evince dall'intervista e come andrebbe studiato in dettaglio - questi dati mostrano solo la punta dell'iceberg. In Italia ci sono dei fenomeni di mobilità territoriale enormi che solo in parte risultano alle statistiche. D'altronde, anche quelli statisticamente documentati raramente sono oggetto di commento e analisi tranne che da parte di pochi specialisti. Così, ad esempio, raramente si discute di un intenso processo di mobilità territoriale, anch'esso spesso sottolineato dalla Svimez, all'interno delle stesse grandi aree del paese: cioè all'interno del Sud e del Nord e all'interno delle stesse regioni.

Per necessità o per virtù in Italia ormai ci si sposta molto e c'è da essere stufi delle lezioni sui tedeschi che vanno dalla Baviera ad Amburgo senza ritenersi emigranti. Il fenomeno che i dati invece non mostrano è quello di cui parlava l'articolo sul manifesto di ieri: il pendolarismo a lunga distanza dei lavoratori meridionali. Io ne sentii parlare per la prima volta in Italia non in un congresso di sociologi o demografi ma in uno spettacolo di Giovanna Marini, la quale raccontava di un giovanotto che, morto di sonno, le cascava addosso (senza cattive intenzioni) in un treno a lunga percorrenza tra Sud e Nord. La cantante e musicista - come per altro è suo solito - trova il tempo e la voglia per condurre l'inchiesta sociale. Scopre così, e racconta al suo pubblico, dell'esistenza del pendolarismo dei giovani che partono dalla Campania o dalla Puglia e per quattro o cinque giorni di lavoro a settimana, dormono dove hanno trovato lavoro solo due notti mentre altre due le passano viaggiando, in treno.

Questa è la nuova emigrazione: mica solo quella dei laureati della quale cianciano i giornali.

Quest'ultima è l'unica che c'è sempre stata. Quello che ora viene presentata come una novità è un fenomeno che è andato consolidandosi ormai da quasi mezzo secolo e che era forte e intenso anche quando tutti si chiedevano perché non si emigrava più dal Mezzogiorno. E difatti venti o venticinque anni addietro, quando i saldi migratori erano prossimi allo zero, c'era comunque chi partiva e chi tornava. Tornavano i vecchi operai che avevano buttato il sangue soprattutto nelle industrie del Nord-ovest, a partire dalla Fiat, all'epoca dei grandi licenziamenti e dei primi processi di deindustrializzazione. Partivano i giovani che, essendo andati a studiare alla Bocconi o al Politecnico di Milano o Torino, vi restavano e quelli che andavano a fare gli insegnanti o i segretari comunali nei comuni del Nord-est (dovendosi poi proteggere dagli insulti per avere la macchina targata Cosenza o Campobasso). Con la valigia di cartone non parte più nessuno da decenni e l'emigrazione altamente scolarizzata è al contempo una non-novità e una delle cose più enfatizzate dalle stampa quale grande notizia.

Ma torniamo alla punta dell'iceberg. Anche in passato, all'epoca della grande migrazione interna - di quella epopea migratoria ben presentata dal cinema e dalla letteratura, con poche indagini sociali veramente buone (Goffredo Fofi a Torino, Ferrarotti a Roma) - il dato statistico era insufficiente a rappresentare l'entità stessa del fenomeno. Passavano infatti molti anni prima che la gente decidesse di (o potesse, quando c'erano ancora le leggi contro l'urbanesimo) chiedere la residenza nel comune di arrivo. Ma ora i tempi dell'emigrazione senza cambiamento di residenza si sono allungati moltissimo tranne che per la componente borghese e altamente scolarizzata (magistrati, impiegati di alto livello, insegnanti e presidi, ecc.). Questi tempi sono diventati pressoché infinti per gli altri, per quelli che vanno avanti per anni con contratti a tempo determinato (quando va bene), co.co.pro e contratti analoghi (quando va meno bene ma almeno non si lavora al nero) o che lavorano semplicemente al nero, come decine e decine di migliaia di giovani, anche altamente scolarizzati. E pochi sanno che le rimesse di questi nuovi emigranti non esistono: semmai sono loro che le ricevono da casa (come risulta da più di una inchiesta), giacché con i loro salari non ce la fanno a campare.

Questi sono i nuovi emigranti Sud-Nord. Non sono ingegneri e donne magistrato (che pure ci sono e sono bravissimi, ma non sono la maggioranza). I nuovi emigranti sono i pendolari a lunga distanza, quelli che determinarono lo sdegno e l'irritazione dell'allora sindaco Veltroni per la loro cafonaggine un paio di anni addietro quando occuparono la Stazione Tiburtina (Che roba contessa!). Questo è l'iceberg che bisogna studiare e comprendere. La Svimez ha il merito di farci vedere ogni anno - e lo fa ormai da dieci anni - la sua punta.

Ignazio Marino, candidato numero tre alla segreteria nazionale del Pd, ha perso un’occasione d’oro. L’altro giorno, quando fu arrestato il giovane accusato di aver stuprato alcune giovani donne romane e si è saputo che era coordinatore di una sezione periferica del Pd, lo sprovveduto candidato ha chiassosamente dichiarato che nel partito si era aperta una grave questione morale. L’occasione persa è che non era quella la questione morale da denunciare, ma la sudditanza del suo partito agli interessi della proprietà fondiaria, com’è apparso evidente a tutti nella vicenda del vincolo di tutela proposto dalla soprintendente Federica Galloni su circa 2.700 ettari dell’agro romano fra la via Ardeatina e la Laurentina, su terreni di proprietà dei fratelli Caltagirone e altri. Qui non interessano i retroscena che alludono a uno sgarbo del ministro Sandro Bondi al sindaco Gianni Alemanno, un piccolo segnale in vista delle elezioni regionali del 2010, e sono scontate le reazioni negative dell’amministrazione capitolina e dei più autorevoli esponenti del Pdl.

Scandalizzano invece le scomposte reazioni del Pd, del presidente della provincia Nicola Zingaretti, del vice presidente della regione Esterino Montino, del capogruppo capitolino Umberto Marroni, che hanno raccolto “il grido di dolore dei costruttori romani” e hanno sollecitato la maggioranza a stabilire una linea comune contro l’invasione di campo della soprintendenza. Come osa una funzionaria mettere in discussione gli affari e le intese stipulate all’ombra del piano regolatore firmato Walter Veltroni? Silenzio assordante dal resto della sinistra, come ha scritto Anna Pacilli su eddyburg.

L’episodio dimostra con indiscutibile chiarezza che la sonora sconfitta del centro sinistra e della sinistra alle elezioni amministrative dell’anno scorso non è servita a nulla. La protesta e la contestazione di centinaia di comitati, di associazioni, di circoli, le denunce di urbanisti, intellettuali, scrittori, le inchieste di report, i libri di Paolo Berdini e Walter Tocci: tutto ciò non è servito a nulla. Mi limito qui a ricordare che il piano regolatore del centro sinistra ha sepolto l’agro romano sotto 15 mila ettari di nuova espansione e sotto 70 milioni di metri cubi di nuova edificazione (che la nuova amministrazione sta incrementando). Nella città storica e nella prima e seconda periferia ci sono sempre meno abitanti sostituiti da uffici, commercio, alberghi, altre attività. Le nuove famiglie, quelle che possono, trovano casa sempre più lontano, in remote, irraggiungibili periferie e nei comuni della cintura, senza servizi adeguati, condannate a ore di pendolarismo, di stress, d’inquinamento.

Quando, finalmente, una benemerita iniziativa della soprintendenza sembra mettere in discussione il permanente scempio urbanistico di Roma, ci aspettavamo che il centro sinistra e la sinistra cogliessero l’occasione per avviare una riflessione seria e autocritica su uno sviluppo comandato solo dal mattone, e sull’implicita questione morale. Invece no. Ieri si sono trovati tutti insieme Pd e Pdl, ministero, comune, provincia e regione per raccogliere il grido di dolore dei costruttori e trovare una via d’uscita che ripristini le vecchie regole del gioco. Auguri

Cardinale Dionigi Tettamanzi, quale messaggio ha portato ai giovani in campeggio vicino al Papa?

«Ai ragazzi ho detto “Siete benedetti da Benedetto”, cioè non soli ma accompagnati dalla vicinanza di chi crede nel futuro della società. L’enciclica sociale del Pontefice insegna che la felicità è possibile nella misura in cui ci apriamo agli altri. Dopo il G8 dell’Aquila e l’incontro tra Benedetto XVI e Obama si è diffuso un clima di speranza. E’ un’opportunità da non vanificare perché solo così possiamo progredire. La crisi economica è grave, però il lamento sistematico è deprimente, sterile. L’anima della solidarietà è la corresponsabilità, il sentirsi uniti in modo decisivo, sapendo che ogni nostra azione e ogni nostro comportamento hanno riflessi sulla vita degli altri. Non abbiamo bisogno di disperazione ma di speranza».

In che modo?

«Non c’è futuro senza solidarietà, la strada della felicità passa per forza dalla sobrietà. Per essere davvero un popolo non possiamo basare la vita privata e pubblica sull’esagerazione, sul consumismo, sull’arricchimento solo materiale. Servono maggiore senso della misura e più accoglienza verso chi è bisognoso, malato, straniero. Accogliere l’altro richiede la disponibilità ad ascoltare, ad interpretare le esigenze vere, profonde, a fare passi avanti insieme. Insomma, costruire ponti invece di alzare muri. Quando si rifiuta l’accoglienza ci si ritira in se stessi e si pensa che tutto il mondo sia racchiuso nel proprio io. Riconoscere e mettere al centro la dignità umana consente di equilibrare le istanze della sicurezza e quelle dell’accoglienza. La vera integrazione passa dal riconoscimento dell’uguaglianza degli esseri umani».

Condivide la preoccupazione del presidente Napolitano per il «giro di vite» del governo sull’immigrazione e la sicurezza?

«Non tocca a me entrare nelle dinamiche istituzionali. Una vera accoglienza implica un’apertura verso l’altro, richiede un’apertura, una disponibilità a conoscerlo, ad ascoltarlo, a leggere in profondità le istanze della sua vita. Tutti vogliamo la sicurezza, ma c’è necessità di una sicurezza che sia umana e umanizzante, altrimenti ne escono enormemente penalizzate e sminuite le dimensioni della solidarietà e dell’accoglienza. L’importante è non mettere mai in discussione l’uguale valore di ogni persona».

Cosa propone?

«Invece di rinchiudersi in se stessi occorre protendersi, sporgersi verso il prossimo. Certo, l’accoglienza implica anche il rispetto delle regole, della legalità da parte di chi arriva in Italia, però occorre un approccio realmente solidale. C’è bisogno di una mano tesa, di un aiuto a recuperare quell’umanità e quella dignità che si smarriscono nei percorsi dell’immigrazione e nella complicata transizione dai paesi più poveri all’Italia».

Dal voto in condotta della Gelmini alle polemiche sulla «generazione né, né», ossia sui giovani che non lavorano né studiano. Vede un’emergenza educativa?

«Sì. Continuiamo a giudicare gli adolescenti con i nostri occhi di adulti. Non entriamo nel loro modo di vedere la realtà, manca il coraggio di condividerne la vicenda umana. I giovani, a volte in maniera grezza o esagerata, esprimono esigenze che noi ignoriamo. La vera emergenza educativa non sono gli adolescenti, siamo noi adulti. Genitori, insegnanti, educatori non possono sottrarsi alle proprie responsabilità. Scarseggia la saggezza umile di mettersi alla pari con i ragazzi, mentre l’educazione deve essere una co-educazione perché se manca la condivisione non si ottiene alcun effetto positivo. Se non portiamo la luce della nostra esperienza nella zona grigia degli inattivi, rischiamo di perdere una generazione. Solo il dialogo e l’incontro fanno capire che c’è un valore nello studio, nel lavoro e che si diventa pienamente liberi solo se si è responsabili».

Colpa anche degli esempi negativi che arrivano dalla vita pubblica?

«Certo servono nuovi stili di comportamento quotidiano. Bisogna puntare all’essenziale per investire sul capitale umano. I ragazzi sono molto più seri dei vuoti modelli ai quali si vorrebbe conformarli. Anche la Chiesa deve sempre testimoniare valori in grado di dare significato all’esistenza. Dobbiamo essere i primi a dimostrare impegno. Lo stile di vita di Gesù non era l’egoismo, ma la generosità verso tutti. Come suoi discepoli siamo tenuti ad essere disponibili e accoglienti. Per una società diversa, migliore di quella attuale serve sobrietà. Io davanti ai giovani mi sento un mendicante. Dobbiamo imparare da loro che saranno quel che sono, ma del resto anche noi una volta eravamo quello che eravamo».

ROMA - Da Totò Riina al vaudeville. Dalla lotta alle felpate banche svizzere agli insulti. Ai testi che entrano da una quinta e escono dall’altra, al giallo. Durante la gestazione del contrastato scudo fiscale-ter, il terzo che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti è costretto a varare, si è sentito di tutto. Dalla ribellione di Di Pietro e del Pd, al nervosismo di Tremonti in conferenza stampa. Fino alle correzioni a penna e agli emendamenti scritti all’ultimo momento per evitare rampogne dalla Ue o altro ancora.

La misura ha una storia irta di polemiche e contrasti. Nei precedenti condoni del 2001-2003, che costavano il 2,5% (poi salito al 4) lo scudo, cioè una sorta di patente da opporre alla Guardia di Finanza per evitare accertamenti, passò come una misura giustificata dal passaggio dalla lira all’euro. Stavolta invece l’idea portante (almeno sulla carta) era quella di recuperare denaro per l’Abruzzo. Un meccanismo sofisticato: con una aliquota scontata avrebbe consentito agli evasori italiani di far rientrare i capitali, vincolarli per dieci anni in Bot, e soprattutto mettersi al riparo da indagini per molti reati, a partire dal falso in bilancio e dalla bancarotta.

Questa versione, anticipata nei giorni scorsi da Repubblica, ma circolata su molti tavoli, era troppo «hard» per sopravvivere. Il ministro dell’Economia non ne ha mai accettato la paternità, e ieri in conferenza stampa ha continuato a parlare di testi «apocrifi». Ma è stata sufficiente a svelare le intenzioni dell’esecutivo: un colpo di spugna generalizzato che ha portato Di Pietro a dire che piuttosto che varare lo scudo era meglio affidare lo Stato a «Totò Riina». Anche in settori della maggioranza, un simile testo era ritenuto impresentabile, soprattutto se affidato alla via parlamentare senza che il governo se ne assumesse la responsabilità, almeno attraverso i relatori. Anche Bruxelles ha trovato qualcosa da ridire sulla destinazione pro-Abruzzo e sull’aliquota speciale.

Così ieri è arrivato il primo emendamento ufficiale al decreto anticrisi. Scarno, confuso, già in odore di retromarcia rispetto alle precedenti versioni, ma ancora non chiaro sui reati esclusi dal colpo di spugna, a partire dal falso in bilancio e dalla bancarotta. In conferenza stampa, in un clima di tensione con i giornalisti, Tremonti diceva di non conoscere il testo, ma poi trascinato dalla polemica, entrava nel merito e lo difendeva. Salvo prendersela con un giornalista di Bloomberg (già insultato da Berlusconi in passato per la domanda sull’"abbronzatura" di Obama) che insisteva nel chiedere se Tremonti non vedesse una contraddizione tra la proposta di nuove regole mondiali per la finanza e il condono per i capitali esteri. «Che testa di cazzo», ha commentato il ministro parlando con Calderoli, che ha tentato di non annuire.

Ma mentre questa scena si consumava in sala stampa di Palazzo Chigi e le opposizioni tuonavano allo scandalo e insorgevano contro l’emendamento affidato agli ignari Moroni e Fugatti, già si preparava una nuova marcia indietro. Non passava molto tempo che scendeva in campo Marco Milanese, consigliere politico di Tremonti: «Arriva una nuova versione», annunciava. Le fessure per far passare il colpo di spugna sul falso in bilancio e bancarotta venivano chiuse: ai due relatori veniva affidato un nuovo emendamento che escludesse sanatorie per tutti i reati. Oltre alla "mafia" e alla "alienazione e acquisto di schiavi", entravano così nella lista dei reati non coperti anche il falso in bilancio e la bancarotta. Restava e resta aperta ancora una questione: nella norma si dice che le dichiarazioni "scudate" non possono essere usate come prova a «sfavore del contribuente» anche in sede giudiziaria. Un linguaggio criptico che potrebbe riaprire la porta a colpi di spugna. Per ora tuttavia il pericolo dello scudo versione «horror» sembra evitato. «C’avete provato», commenta Donatella Ferranti del Pd. E Stefano Fassina, anch’egli Pd, parla di «retromarcia». Il cammino parlamentare è tuttavia ancora lungo e visti i cambiamenti di rotta così repentini non è escluso che arrivino altre novità.

Qui il link alla registrazione audiovisiva della domanda del giornalista di Bloomberg, Steve Scherer, e dell’incredibile risposta del ministro Tremonti. Da YouTube

Giorgio Napolitano poteva non firmare la legge sulla sicurezza, quella delle ronde e del reato di clandestinità. Poteva chiedere, com'è scritto nella Costituzione, una nuova deliberazione alle camere attraverso un messaggio motivato. Sarebbe stata una scelta di forte contrapposizione con l'esecutivo ma pienamente nel rispetto delle regole della Repubblica: il suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi respinse per sei volte le leggi del secondo governo Berlusconi. Oppure Napolitano poteva firmare la legge sulla sicurezza, prendendo atto di non essere riuscito a migliorarla nonostante i molti consigli e avvertimenti discretamente dispensati al governo in un anno di lavori parlamentari. Ha scelto una terza via. Ha scritto una lettera mettendo in fila una lunga serie di «perplessità e preoccupazioni» per la legge, tutte molto gravi. Ma l'ha firmata.

La lettera di Giorgio Napolitano contiene tante e tali osservazioni critiche che la legge imposta dalla Lega al governo e dal governo al parlamento ne esce sostanzialmente a pezzi. A pezzi ma valida e in vigore proprio in virtù della firma del presidente della Repubblica. Il primo medico che segnalerà per l'espulsione uno straniero irregolare, il primo preside che rifiuterà l'iscrizione a scuola del figlio di un immigrato potranno ignorare le «perplessità» di Napolitano ma della sua firma dovranno tener conto. È un paradosso frutto del metodo scelto dal Quirinale, e del messaggio rivolto al governo e solo per conoscenza alle camere che pure hanno la responsabilità della funzione legislativa. Scelta pienamente politica quella del capo dello stato e per nulla da notaio della Repubblica. Eppure scelta quasi disperata nel momento in cui riconosce la ««irragionevolezza» e la «insostenibilità» della legge e poi la firma.

Perché l'ha fatto? Dal momento che si tratta di una scelta pienamente politica è legittimo cercare di interpretarla. Giorgio Napolitano aveva di fronte a sé un provvedimento blindato dal governo a colpi di fiducia. Passato in parlamento senza dibattito e senza modifiche di sostanza. Col supporto dell'informazione unica che ha suonato la grancassa dell'emergenza sicurezza.

Un provvedimento che ha messo l'Italia all'indice del resto del mondo, una legge che ha fatto litigare La Russa con le Nazioni unite. La «irragionevolezza» che il Colle ha riscontrato nella legge è un palese profilo di incostituzionalità. La legge poteva essere fermata. Ma Giorgio Napolitano ha voluto evitare lo scontro frontale con Silvio Berlusconi.

Può darsi che con questi rapporti di forza, con la maggioranza padrona del campo, il capo dello stato consideri non percorribile la via della contrapposizione. O peggio destabilizzante. Il rifiuto di promulgare una legge non è altro che una sua prerogativa, ma di certo il primo ministro lo avrebbe preso come uno strappo e un segnale di guerra. Ma è stato proprio il Quirinale a rafforzare non poco il primo ministro chiedendo per suo conto una tregua all'opposizione e ai giornali non berlusconiani.

Può darsi che - rifiutando l'idea di elezioni anticipate - il capo dello stato veda come unica alternativa al Berlusconi intemperante degli ultimi mesi un Berlusconi sorvegliato da vicino e ridotto a più miti consigli. Può darsi che il capo dello stato avverta su di sé il peso di questa responsabilità. In parte è una responsabilità che si è dato da solo, preoccupandosi di invitare alla tregua le opposizioni. In parte se l'è trovata in carico, vista la pochezza della minoranza che mentre tutto questo accade sta discutendo della tessera di Beppe Grillo. Ma con la definitiva approvazione di questa legge crudele quello che è certo è che la maggioranza è più solida e Berlusconi più forte. E niente affatto moderato.

Silvio Berlusconi deve rispondere alle domande di Repubblica sulla frequentazione di Noemi Letizia e sulle feste con le escort. Lo dice in una intervista l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. «Quando un uomo di Stato è invitato a dare spiegazioni in Parlamento - sottolinea - l’appello non può restare inascoltato. Qui si tratta di questioni che presentano oggettivi profili di tutela dello Stato».Applicare due dottrine diverse a vita privata e vita pubblica è un costume al quale mi sono sempre ribellato

ROMA - Silvio Berlusconi, che tanta stima proclama e comuni sentimenti con Obama, impari da Obama l’amore per «la verità, la chiarezza e il dialogo. Tutti e tre insieme». È questo l’invito di Oscar Luigi Scalfaro al premier, convivente-rivale durante il suo settennato. «Chiarezza e verità» che l’ex capo dello Stato chiede siano applicate in tutte le occasioni.

Presidente Scalfaro, Repubblica pone da mesi domande che ritiene di interesse pubblico al capo del governo il quale tace. Lei che pensa: dovrebbe rispondere?

«Mi sono posto il problema. Penso che dovrebbe rispondere. Quando un uomo di Stato è invitato a dare spiegazioni in Parlamento su comportamenti che possono apparire privati ma lasciano ampi margini alla discussione pubblica, l’appello non può restare inascoltato». Anche se, come sostiene una parte del centrodestra, il tutto potrebbe tradursi in un pubblico processo su materie private?

«Nessuno ha titolo per pretendere confessioni pubbliche. Ma non c’è dubbio che su fatti che comunque interferiscono nelle responsabilità di governo, il Parlamento, che secondo la Costituzione è al centro della nostra vita democratica, abbia il diritto di sapere».

Lei che idea si è fatto dell’affare Noemi-D’Addario?

«Non voglio entrare nel merito. Il punto fondamentale è che le risposte arrivino e, soprattutto, che siano vere. Altrimenti si finirebbe solo per dar vita a una infinita catena di polemiche, procurando altri danni a questa democrazia tormentata. Gli interrogativi che vengono posti - e manteniamoci tutti al di là, e lontano, dalla morbosa curiosità che può facilmente subentrare - presentano degli oggettivi profili di tutela dello Stato nei suoi poteri e nell’attività all’interno e più ancora all’esterno del paese, e nell’intreccio dei suoi rapporti internazionali. Non dimentichiamo che donne come quelle di cui si parla e scrive sono le destinatarie, in genere, di chi fa spionaggio in casa nostra».

Quale dovrebbe essere l’atteggiamento di Berlusconi?

«Io credo che un uomo intelligente che si presentasse a dire: "Signori, assicuro sul mio onore che non ho mai violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione, nel senso più ampio. Chiedo scusa al Parlamento e ai cittadini se ho dato adito a interrogativi e garantisco che non si ripeterà"... un uomo che si presentasse così, cospargendosi il capo con un pizzico di cenere, potrebbe vincere la partita. Ma se consente vorrei affrontare un discorso più generale, che mi è stato sempre a cuore nella attività politica. Riguarda appunto il tema della coesistenza tra politica e verità».

Restiamo comunque nei dintorni, mi pare.

«Sì, ma voglio uscire per un momento dalle ristrettezze dell’attualità. Vede, noi dobbiamo riconoscere che la distinzione fra una morale pubblica e una privata è sempre stata una tentazione marcata, anche in ambienti di convinzioni religiose cattoliche. Aggiungo che il riserbo spesso è un dovere, non sempre costituisce un arbitrio. Ma quando si viene al rispetto della verità, io ritengo che non si possa e non si debba affermare una specie di dottrina morale differenziata per la vita pubblica e per quella privata. E’ una distinzione alla quale mi sono sempre ribellato. Ecco perché sono rimasto ammirato dalla figura di Obama in questo suo primo viaggio in Europa e in Africa».

Non è il solo a professare ammirazione. Ma qual è esattamente l’attinenza?

«Sia nell’incontro con il presidente russo Medvedev per trattare della riduzione degli armamenti; sia nella presenza al G8, al quale indubbiamente ha dato un’impronta particolare e positiva; sia nella visita a Benedetto XVI, dove pure sono stati trattati temi irrinunciabili per la dottrina cattolica come la difesa della vita; sia, infine, nell’incontro in Ghana con gli africani attraverso un discorso veramente alto, da africano, Obama è sempre partito da una chiarezza assoluta delle posizioni. Non si è mai sentita, in questa prima esperienza di vertice del presidente statunitense, una precisazione, una marcia indietro, l’accusa di fraintendimenti. E questa chiarezza, unita al rifiuto della violenza e della guerra, ha imposto la ricerca del dialogo come fondamentale risorsa politica».

Tornando all’Italia, come tradurrebbe il metodo americano?

«Nella nostra tradizione, dove pure ce ne sono stati di uomini che si sono battuti per la verità, si è sempre dovuto constatare una certa tendenza a provare più attrattiva per la furbizia che per il rispetto spietato della verità. Ma se posso citare parole che ebbi modo di pronunciare in Parlamento anni addietro, "io voglio sperare di non aver mai negato la verità. Se per caso l’avessi fatto, la colpa è solo mia. Perché non è la politica che ci costringe a tormentare o occultare la verità. Quando accade, siamo noi i responsabili". Ecco, se dopo le esperienze di questi anni ci si invitasse reciprocamente a un ripensamento, la scelta del dialogo sarebbe certo la migliore. A condizione che il dialogo parta sempre dalla constatazione del vero».

Giorgio Napolitano è persona seria, nel senso antico della parola, e con una storia politica che Barak Obama - nonostante le differenze - ha sentito il dovere di apprezzare al pari della sua «integrità».

Fatta questa doverosa premessa - e con tutte le differenze da Di Pietro - questo giornale non concorda affatto con l'invito alla tregua, sia essa - come dice Napolitano - portatrice di pace o di riapertura delle ostilità. Nella situazione data una tregua sarebbe solo un regalo a Berlusconi, la cui crisi non è stata affatto cancellata dal successo di «anfitrione» (come ha scritto Eugenio Scalfari) ottenuto all'Aquila. La crisi economica si aggrava come ci dice anche la Consob e dal governo vengono solo annunci di provvedimenti e regali ai grandi evasori fiscali, in un paese dove la metà degli italiani dichiara meno di quindicimila euro. Dare respiro al Cavaliere non è proprio cosa utile.

E poi. Il ritorno «a un clima più civile» dovrebbe, come neve al sole, dissolvere tutte le vergogne pubbliche che si sono accumulate sulla persona del presidente del consiglio? Giustamente Stefano Rodotà su la Repubblica di ieri si domanda se «un nuovo corso politico può cominciare all'insegna di una omissione?». E, sempre Rodotà aggiungeva: «Il premier ha un'opportunità. Andare in un luogo che non ama, ma centrale per le istituzioni come il Parlamento, e rispondere alle domande che gli sono state poste». Insomma una tregua che divenga di fatto una rimozione di quel passato che fino a qualche giorno fa ha animato la stampa di quasi tutto il mondo e che, certo, non tornava ad onore dell'Italia, aggiungerebbe male al male. Non si può alfanizzare tutto (avete presente il lodo Alfano?).

Le parole del Presidente della Repubblica, del tutto condivisibili pure in una situazione di straordinaria polemica politica, sarebbero, a nostro avviso, assai controproducenti nell'attuale contesto; rischiano di trasformarsi in una inaccettabile assoluzione non solo del Cavaliere, ma di tutta la sua politica.

Cinque euro e 18 centesimi l'anno. Cioè 43 centesimi al mese. È questa la cifra stanziata per ogni africano dal G8 dell'Aquila. Ed è questa la ragione per cui il Papa, denunciando «sperequazioni sociali e ingiustizie strutturali non più tollerabili», tocca una ferita che butta sangue. Tanto più che la somma degli aiuti complessivi ai Paesi poveri arriva appena appena allo 0,13% dei soldi stanziati in questi mesi per arginare la crisi nei Paesi ricchi.

Si dirà: l'aiuto massiccio alle banche, alle imprese, all'economia occidentale era prioritario per contenere l'onda di piena e rimettere in moto quei meccanismi che, passata la grande crisi, consentiranno di redistribuire ricchezza. Difficile negarlo: un tracollo del mondo più forte non aiuterebbe certo quello più fragile. Di più: lo stesso Obama ha spiegato ad Accra che «il futuro dell'Africa dipende dagli africani» e che «se è vero che l'Occidente ha avuto spesso un approccio da padrone non è responsabile della distruzione dell'economia dello Zimbabwe, delle guerre coi bambini-soldati, della corruzione o del tribalismo che pesarono anche sulla vita di mio padre». Insomma: a ciascuno le proprie responsabilità. Colpisce tuttavia lo squilibrio tra i due investimenti, quelli per «noi» e quelli per «loro».

La Banca Mondiale, ha scritto Iacopo Viciani su lavoce.info, aveva chiesto mesi fa «ai Paesi industrializzati di destinare lo 0,70% delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare di base nei 43 Paesi in via di sviluppo più esposti alla crisi». Non per carità cristiana: perché siamo dentro un sistema globale dove tutto si tiene e dunque tutti insieme si affonda, ricchi e poveri, e tutti insieme si resta a galla. Due conti? Stando a un rapporto della Bank of England, Financial Stability Review, gli Usa, i Paesi dell'area euro e la Gran Bretagna hanno investito in aiuti vari contro la crisi (comprese le garanzie) 14.800 miliardi di dollari. Una somma stratosferica. In rapporto alla quale, se i Paesi ricchi avessero accolto l'invito a versare lo «0,70% delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi», avrebbero dovuto mettere insieme 103,6 miliardi di dollari. Cinque volte più di quei 20 miliardi decisi a L'Aquila (i più tirchi siamo noi, che tagliamo e tagliamo dal 1993) pari appunto allo 0,13%. Insomma, ogni mille euro andati ai «ricchi» ne andranno ai poveri 13. Per carità, può darsi che le due tabelle non siano perfettamente confrontabili. Ma certo fa effetto mettere a confronto i toni dell'annuncio per quei «venti miliardi di dollari in tre anni!» con i grandi numeri. Non solo quei venti miliardi (pari a circa 14,4 miliardi di euro) sono pari a un trentunesimo di quanto persero le sole Borse europee nella sola giornata nera del 21 gennaio scorso.

Ma in rapporto ai 920 milioni di abitanti del continente nero, ammesso che quei soldi siano reali e arrivino solo lì, significano 21,7 dollari per ogni africano in tre anni. Cioè, come dicevamo, 5 euro e 18 cent l'anno a persona. Cosa ci viene ripetuto da sempre: che bisogna smettere di regalare ai miserabili un pesce perché è meglio dargli una canna e insegnar loro a pescare? Bene: con quei soldi un africano può comprare, una volta l'anno, si e no un amo e due metri di filo. La canna e i vermi deve procurarseli da sé. Dopodiché, s'intende, gli resterà il problema dell'acqua. Immaginiamo l'obiezione: la via d'uscita non può essere la carità. Vero. Come ricorda la stessa voce.info c'è chi, quale Adrian Wood, professore di economia a Oxford, ha sostenuto sul Financial Times che poiché in molti Paesi «gli aiuti costituiscono più del 10% del prodotto nazionale e quasi metà del bilancio pubblico» e poiché questa dipendenza «è causa di una serie di gravi problemi, dovuti soprattutto al fatto che i governi devono rendere conto principalmente ai Paesi donatori invece che ai propri cittadini», bisognerebbe «limitare i flussi degli aiuti a ciascun Paese al 50% delle tasse che il governo è in grado di raccogliere a livello domestico». Giusto? Sbagliato? Il dibattito è aperto. Certo è che, come gli stessi grandi hanno riconosciuto al G8, la rimonta dei Paesi poveri non può cominciare senza nuove regole del commercio mondiale. «I dazi imposti dai Paesi industrializzati su alimenti base quali carne, zucchero e latticini sono circa cinque volte superiori ai dazi imposti sui manufatti. Le tariffe doganali dell'Ue sui prodotti della carne raggiungono punte pari all'826%» accusava nel 2001 Kofi Annan. Tre anni fa, lo United Nations Development Programme confermava: «Le tariffe commerciali più alte del mondo sono erette contro alcuni dei Paesi più poveri. In media le barriere commerciali per i Paesi in via di sviluppo che vogliono esportare verso i Paesi ricchi sono da tre a quattro volte più alte di quelle in vigore tra i Paesi ricchi». Per non dire degli aiuti agli agricoltori: un miliardo al giorno in sussidi per prodotti coi quali, a quel punto, i contadini dei Paesi in via di sviluppo non possono sognarsi di competere. Nel 2006 la Oxfam (una grossa ong britannica) ha fatto una stima: se Africa, Asia e America Latina aumentassero la loro quota del commercio mondiale dell'1% (l'uno per cento!) uscirebbero dalla povertà 128 milioni di persone.

Eppure, spiega Paolo de Renzio, dell'Università di Oxford, le cose sono addirittura peggiorate: «Nel 2009, l'Overseas Development Institute di Londra ha accertato che il valore del commercio per i Paesi in via di sviluppo sta scendendo. In Indonesia, le esportazioni di prodotti elettronici, 15% del totale, sono calate in un anno del 25%. Nel settore tessile in Cambogia, il valore delle esportazioni è sceso da 250 milioni di dollari al mese a 100 milioni. Il prezzo di materie prime come rame e petrolio è calato drasticamente, con effetti devastanti, in Nigeria, Zambia, Bolivia». Conclusione: «Quei venti miliardi, di cui solo una parte dovuti a nuove iniziative, sono in realtà una semplice pezza per i problemi, aggravati, che tanti Paesi devono affrontare a causa di una crisi globale di cui non sono affatto responsabili».

Archiviato il G8, con un indubbio successo personale del presidente del Consiglio, dovranno pure essere archiviate tutte le vicende che, negli ultimi turbinosi tempi, hanno riguardato la sua figura pubblica? Può un nuovo corso politico cominciare all’insegna di una omissione? Non è un accanimento ingiustificato a sollecitare queste domande, ma proprio la necessità di avere una vita politica davvero limpida. Peraltro, era stato lo stesso Silvio Berlusconi a annunciare una svolta sul piano dei comportamenti. Un proposito limitato ai giorni aquilani o destinato a produrre qualche frutto anche in futuro? Il premier ha un’opportunità. Andare in un luogo che non ama, ma centrale per le istituzioni come il Parlamento, e rispondere alle domande che gli sono state poste.

Ricordava ieri Eugenio Scalfari che la maggiore sobrietà mostrata da Berlusconi durante il G8 può darsi che sia stata determinata anche dalla chiarezza con la quale una parte del sistema dell’informazione ha criticato il suo modo d’impersonare la più alta responsabilità politica del Paese, con echi globali che certamente non hanno giovato né alla sua credibilità, né a quello che enfaticamente si chiama il buon nome dell’Italia. È così emersa, inaspettatamente, la forza d’una opinione pubblica che si pensava ormai indifferente o addirittura dissolta, incapace di avere reazioni politicamente significative. Gli effetti si sono visti in occasione delle elezioni europee, nelle parole taglienti del segretario della conferenza episcopale italiana. Proprio questa risvegliata opinione pubblica, questo mondo che non ha dimenticato i doveri della moralità pubblica, sono ancora in credito. I buoni propositi sono sempre importanti, ma la loro fondatezza si deve subito misurare dal modo in cui si dimostra consapevolezza piena della responsabilità degli uomini pubblici nei confronti dei cittadini, di tutti i cittadini.

È giusto non alzare inutilmente i toni, ma questo non può significare dimenticare frettolosamente quel che è avvenuto e che, per altri versi, continua a essere oggetto di accertamenti giudiziari e inchieste giudiziarie. Se si scegliesse questa strada e non si continuasse a chiedere con voce sommessa ma chiara la verità, il già debole tessuto civile sarebbe ulteriormente logorato. Sono state proprio le troppe compiacenze e assoluzioni a buon mercato dei potenti a dare una spinta decisiva all’antipolitica, a creare un clima politico che ha spalancato le porte a una ricerca del consenso che fa leva più sui vizi che sulle virtù repubblicane. Illegalità sempre blandita, razzismo sempre meno strisciante, frequentazioni a dir poco disinvolte hanno legittimato una clima diffuso che costituisce un brodo di coltura che certo non fa bene alla democrazia.

Qui è il punto. La vicenda delle frequentazioni di Berlusconi, che nessun criterio consente di confinare nel privato, dev’essere chiarita per evitare che, per l’ennesima volta, la resistenza passiva dei politici, il loro "ha dda passà ‘a nuttata" o "chinati juncu che passa la china", alla fine trionfino, non solo garantendo impunità, ma dando un pessimo esempio sociale. Non si tratta di andare alla ricerca di responsabilità penali, ma di rimettere in onore la responsabilità politica, praticamente cancellata in questi anni. È una impresa impegnativa, perché il fronte della responsabilità politica deve essere presidiato da molti soggetti. Quanta parte del sistema dell’informazione ha fatto il suo dovere? Quanta parte del ceto politico non vede l’ora di chiudere la "parentesi moralistica" per tornare agli usati costumi? Se attingiamo alla cultura pop, ci imbattiamo in Caterina Caselli: «La verità ti fa male, lo so…Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu». Probabilmente queste sono oggi le fonti, consapevoli o no, alle quali ci si ispira in un momento che esigerebbe meno leggerezza e maggiore consapevolezza di che cosa voglia dire far politica in un sistema democratico. Non suggerisco altre canzoni o altre letture. Richiamo il senso della verità in politica, che è componente essenziale della legittimazione stessa delle istituzioni, e che non può essere accantonato con una mossa cinica o di malinteso realismo politico (che, peraltro, non ha finora dato alcun profitto alle opposizioni).

L’obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d’informazione sul versante dei cittadini. Nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu si afferma che «ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere». Questo diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell’assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l’espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie. Proprio questa ovvia considerazione ci dice che la partita in corso intorno alle mille verità, contraddizioni, reticenze, bugie sulla vicenda personale del presidente del Consiglio deve concludersi in modo da evitare ogni inquinamento del sistema democratico. Aspettiamo pazienti. Ma della pazienza si può abusare, come si disse per quel Catilina citato a sproposito nei paraggi berlusconiani. Perché l’abuso non si consolidi, e diventi regola, bisogna non stancarsi di insistere.

La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi. Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente.

Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.

Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.

Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.

Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.

Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.

Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.

Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac - che intima di alzarsi.

Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.

Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto. Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.

L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento.

Per Berlusconi sarà stato forse un successo (mediatico), ma per l’Africa, il nostro pianeta e le persone in carne ed ossa che subiscono il peso della crisi il G8 dell’Aquila è stato un clamoroso fallimento.

Gli stanziamenti per l’Africa (passati da 25 a 15 per poi assestarsi a 20 miliardi di dollari) non sono altro che merce riciclata (e anche un po’ avariata) delle promesse fatte al G8 di Glenagles e, prima ancora, all’Assemblea del Millennio delle Nazioni unite nel 2000 (ed ad altri appuntamenti internazionali). Non si sa questi soldi chi e come li raccoglierà e da dove verranno, né come – se trovati - verranno spesi. L’accordo sul clima è al di sotto delle aspettative delle Nazioni unite e il loro Segretario generale se ne è lamentato pubblicamente. Fissare tra 41 anni (nel 2050) l’obiettivo della riduzione dei gas serra è il modo più comodo per prendere tempo, salvo poi rivedere al ribasso gli obiettivi ora posti, via via che si dimostreranno irrealizzabili. La conclamata lotta ai paradisi fiscali e agli inusitati profitti dei petrolieri è una pura petizione di principio. E “people first” (prima le persone) è solo un vacuo slogan per nascondere l’assenza di misure vere per fronteggiare la crisi economica e finanziaria globale. Per nuove regole sul commercio si rinvia al vertice di Doha del 2010. E per i mercati l’enfasi è che continuino a rimanere “aperti” (non sia mai, il protezionismo!), non sul fatto che si stabiliscano regole dure e stringenti per evitare il casinò finanziario che ha dominato indisturbato in questi anni. Dei “diritti” del mercato si parla in lungo e in largo nelle dichiarazioni dei G8, dei diritti del lavoro non c’è traccia.

Il G8 continua ad essere un club inutile (per il mondo) e anzi, spesso dannoso. Inefficace nel regolare le politiche globali ed ambientali sullo sviluppo ed egualmente inefficace nel fare fronte comune per rispondere ad una crisi economica e finanziaria senza precedenti nel secondo dopoguerra. Con un’operazione di maquillage politico e mediatico il G8 si allarga – a seconda dei giorni - a G14 e poi a G20, ma nella sostanza nulla cambia. I paesi emergenti rimangono alla finestra, ma soprattutto sono tenuti fuori dalla porta gli altri 180 e passa paesi sulla cui testa ricadono alcune decisioni prese dal G8. Le Nazioni unite sono isolate ed emarginate, fuori dal gioco: eppure sarebbero le uniche titolate a parteciparvi.

Anche l’invito – nella dichiarazione finale - a seguire l’esempio del “trattato di non proliferazione e l’impegno a creare le condizioni di un mondo senza armi nucleari” suona un po’ strano alle orecchie di chi aspira alla pace. Sicuramente giusto. Ma mentre si lavora per creare “le condizioni” di un mondo senza armi nucleari, il G8 si dimentica di dirci che ogni anno si spendono oltre 1.200 miliardi di dollari per le armi (l’80% a carico dei paesi del G8) e basterebbe ridurre del 4% la spesa militare mondiale per avere a disposizione il doppio dei soldi stanziati per l’Africa.

Per l’Africa di soldi ne sono stati stanziati in questi anni. A parole. Infatti gli obiettivi del Millennio – per mancanza di risorse - sono nel frattempo falliti e Berlusconi di promessa in promessa è arrivato a ridurre del 56% i fondi per la cooperazione allo sviluppo nell’ultima finanziaria, portando allo 0,11% la percentuale del PIL destinata ai paesi poveri. Rivendicare il “successo”del G8 è un’ipocrisia assoluta di fronte a tante migliaia di persone che muoiono di fame e di malattia nel continente africano – e ai milioni di lavoratori che perdono il posto - alle quali si fanno continue promesse che non vengono mantenute. Il G8 è ormai un vecchio arnese degli anni del neoliberismo. E’ ora di cambiare rotta, di tornare alle Nazioni unite e ad un’idea di mondo diversa, fondata sulla pace, la democrazia, un’economia di giustizia. Ovviamente di questo al G8 non si è parlato.

Ora che «il mondo» ci ha lasciato di nuovo soli, con le nostre anomalie, ricordiamo dove ci siamo interrotti. Con la solita mossa da lupo, mentre ciascuno con responsabilità segnava una pausa «per il bene del Paese» (Repubblica, 8 luglio), il premier ha approfittato del G8 per afferrare qualche beneficio personale (abusivo, come se i «Grandi della Terra» fossero venuti all’Aquila per soddisfare il loro Ego con giudizi personali e non a rappresentare gli interessi nazionali).Berlusconi – «sorriso, piagnisteo, ringhio» – si è illuso di acconciare alla meglio la sua infelice reputazione. Ha rilanciato il suo mantra («Calunnie!») per esorcizzare i fatti nel caleidoscopio delle verità rovesciate che si è combinato. Ci ritorna per due giorni di seguito. «Sulla strada delle menzogne si sbatte contro il muro dei fatti», dice (la Stampa, 9 luglio). «Ci sono due tipi di realtà, quella vera della gente comune e l’altra, la realtà descritta dai giornali che è pura fantasia», ripete (Repubblica, 10 luglio)

Dunque, se non a ugole gregarie per vocazione (come Piero Ostellino, soi-disant liberale di via Solferino, parolaio indifferente ai fatti, che vede separazione dei poteri dove c’è – macroscopico – un "potere unico" che liquida il principio costituzionale d’eguaglianza), almeno al capo del governo è chiaro di che cosa si discute. Parliamo di «fatti» e di «menzogne», quindi di una tecnica della politica contemporanea che trova in Berlusconi un artefice ineguagliato nel mondo evoluto: valgono ancora le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che domina? Ci si interroga su una strategia che riduce i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà. Ci si chiede se siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Ci si domanda quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell’epoca dell’immagine, della Finktionpolitik. Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l’opinione pubblica italiana o il «carnevale permanente» l’ha già uccisa? Di questo discutiamo.

Se gli interrogativi fanno massa intorno ai comportamenti privati del premier, accade perché egli stesso – guadagnandone grande consenso – lo ha voluto. Ha eliminato, fin dall’inizio della sua avventura politica, ogni confine tra il suo "privato" e il suo "pubblico". Ha preteso – una volta al governo – di legiferare con mano ferma quale debba essere il nostro "privato": dal momento in cui nasciamo fino all’ultimo respiro. Infine, ha negato in pubblico (Porta a Porta, 4 maggio) i comportamenti che la moglie giudica inaccettabili.

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Bisogna definire, ora, quali siano – in questa storia – i fatti e quali le menzogne a uso degli spiriti cortigiani – nella lobby c’è chi declassa a notiziuccia anche le parole terribili del segretario generale della Cei: «Nessuno deve pensare che non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati, soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio» (Ansa, 6 luglio).

Finora Silvio Berlusconi ha mentito a ogni posta di questa storia. Lo si può documentare, al di là del chiasso sollevato da un’informazione servile, e dire di lui con quieta serenità: il capo del governo è Gran Bugiardo.

a. Ha negato di aver voluto candidare veline al parlamento europeo. È stato contraddetto finanche dalle veline deluse per l’esclusione e smentito dalle prostitute a cui aveva promesso un seggio a Strasburgo.

b. Ha negato di aver frequentato minorenni, ha giurato di aver incontrato Noemi Letizia soltanto «tre, quattro volte e sempre alla presenza dei genitori». Ha dovuto ammettere di aver avuto Noemi, minorenne e senza genitori, prima accanto ad una cena del governo, poi tra le ospiti del suo Capodanno 2009 a Villa Certosa.

c. Ha dichiarato di non aver mai conosciuto l’avvocato David Mills. È stato accertato che il corrotto (Mills) e il corruttore (Berlusconi) si sono parlati per lo meno in un’occasione e incontrati in un’altra, ad Arcore.

d. Ha dichiarato di aver usato i "voli di Stato" soltanto per «esigenze di servizio» anche quando erano a bordo musici e ballerine, ma ha dovuto proteggere con il segreto di Stato le liste dei passeggeri e i piani di volo degli aerei presidenziali.

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La quinta posta di questa storia, ancora per esclusiva responsabilità di Berlusconi, parla di prostituzione e di abitudini sessuali che il capo del governo vuole punire con il carcere. Anche in questo caso, il presidente del Consiglio ha ingannato il Paese che governa.

Patrizia D’Addario racconta di aver fatto sesso a pagamento con il capo del governo, la notte del 4 novembre 2008 (la paga un prosseneta, abituale ospite delle feste del premier). La donna raccoglie, a Palazzo Grazioli, fotografie e registrazioni di quella notte. La sua testimonianza è indiscutibile. Berlusconi e il suo avvocato ne sono consapevoli e accennano a una manovra di aggiramento. Ghedini si preoccupa innanzi tutto di evitare guai giudiziari al Capo: «Ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza, e vere non sono, il premier sarebbe l’utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile". (Affaritaliani.it, 17 giugno)

Berlusconi, dice l’avvocato, «sarebbe soggetto inconsapevole». Magari incantato, una notte, dalla bellezza di quella donna che non sapeva si prostituisse. Un povero diavolo, insomma, un po’ ingenuo e citrullo. Ne ha approfittato gentaglia rapace e ingrata. È la linea di difesa che il premier accentua. «Purtroppo abbiamo sbagliato l’ospite, e lui ha sbagliato l’ospite dell’ospite», dice dalla «capitale del dolore», L’Aquila. (Ansa, 25 giugno). E poi perbacco, gli dà manforte Ghedini, davvero qualcuno può credere che un "sultano" debba pagarsi il sesso? «Il presidente è uomo ricco di denari e di simpatia e di voglia di vivere. Certamente non ha bisogno che qualcuno gli porti le donne. Pensare che Berlusconi abbia bisogno di pagare 2000 euro una ragazza, perché vada con lui, mi sembra un po’ troppo. Penso che potrebbe averne grandi quantitativi, gratis» (Corriere, 17 giugno). Grandi quantitativi, gratis. Lo lascia intendere anche Berlusconi. Si fa chiedere da un salariato della Casa: «Ha mai pagato una donna perché restasse con lei?». Risponde: «Naturalmente no. Non ho mai capito che soddisfazione ci sia, se non c’è il piacere della conquista…» (Chi, 24 giugno). Il piacere della conquista.

Questa è la scena. Già vista, la strategia di banalizzazione. Nessun eccesso, nessuna disinvoltura. Soltanto qualche decisione infelice, un carnet disordinato, un’incuria nell’aprire la porta di casa a chi non lo merita. Nulla di cui Berlusconi si debba vergognare: «Io non ho nulla di cui dovermi scusare. Non c’è nulla nella mia vita privata di cui mi debba scusare» (Chi, 24 giugno).

Anche stavolta Silvio Berlusconi inganna chi lo ascolta perché – anche se non c’è alcun rilievo penale in questi comportamenti, come teme Ghedini, né la magistratura pare interessata al "caso" – i ricordi invincibili dei testimoni, le parole intercettate da un’inchiesta giudiziaria, raccontano come le residenze private di Berlusconi (Villa Certosa, Palazzo Grazioli) si affollino con regolarità di prostitute di caro prezzo – «grandi quantitativi», direbbe Ghedini – ingaggiate dagli amici e dalle amiche del presidente secondo un rituale preciso e sempre uguale. Convocazione a Roma; obbligo di vestire in nero; di truccarsi con leggerezza; di essere gentile con il «presidente»; di trascorrere la notte con lui in pratiche che la malavita, a Bari, definisce «torte» (ma questa è un’altra storia).

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Ora che «il mondo» ci ha lasciato di nuovo soli con noi stessi, immaginiamo di poter attribuire ai «Grandi della Terra» quel che si può assegnare al nostro premier. Immaginiamo di poter dire, senza timore di essere contraddetti, che Barack Obama è un bugiardo e ha mentito al suo Paese; che Nicholas Sarkozy va in vacanza con minorenni; che Angela Merkel porta con sé in voli di Stato musici e ballerini che allietano le sue serate; che Gordon Brown, imputato in un processo, ha corrotto un testimone; che Taro Aso si riempie la casa di prostitute a frotte, pagate da un suo amico a cui poi promette affari. Pensate che, con questo peso, le opinioni pubbliche consentirebbero a chiunque di quei «Grandi» di restare al loro posto? Perché questo da noi non avviene dovrebbe interessarci: ci mostra la malattia organica di un’Italia moralmente «gobba». A meno di non voler pensare, con Giolitti, che convenga soltanto tagliarle addosso un abito deforme.

Etica pubblica. Parole perdute, e al loro posto un deserto, dove scompare la responsabilità della politica, privacy vuol dire fare il comodo proprio, il senso dello Stato è ormai un’anticaglia. Ogni giorno, più che una nuova pena, porta una mortificazione continua del vivere civile, con un circuito di imbarazzanti ospitalità, che vanno da quella generosamente offerta a schiere di ragazze dal Presidente del Consiglio fino a quella elargita con altrettanta generosità allo stesso Presidente da giudici costituzionali.

Registrare questi fatti vuol dire moralismo, eccesso di voyeurismo, ultima spiaggia di una opposizione senza idee, antiberlusconismo da abbandonare? O siamo di fronte ai segni di un processo di decomposizione di cui i protagonisti non sembrano neppure consapevoli, tanto sono sgangherate le difese loro e dei loro sostenitori, affidate alla disinvoltura del mentire e del contraddirsi senza pudore, a censure televisive, a lettere imbarazzanti e più rivelatrici d’una confessione?

Il catalogo è questo, ed è lungo. Tutto comincia con la pretesa dell’impunità, ma una impunità totale, che non si concentra solo nel lodo Alfano e dintorni, ma si estende in ogni direzione, diventa diritto assoluto di stabilire che cosa possa essere considerato lecito e che cosa (poco, assai poco) illecito, che cosa sia pubblico e che cosa debba rimanere privato. Il voto popolare diventa un lavacro e una unzione. Ancora oggi, quando si parla di conflitto d’interessi, spunta una schiera di avvocati difensori che esibisce un argomento in cui si mescolano arroganza e disprezzo d’ogni regola: "Di conflitto d’interesse si è parlato mille volte, i cittadini lo sanno e il loro voto a Berlusconi, quindi, respinge nell’irrilevanza politica e giuridica quel conflitto". Non si potrebbe trovare una mortificazione della democrazia e della sovranità popolare più eloquente di questa. Il voto dei cittadini è degradato a scappatoia per sottrarsi alle regole e alla decenza etica. E, quando, finalmente qualcuno dice che il re è nudo (ahimè, in tutti i significati possibili), il re s’infuria, si comporta come se chiedere spiegazioni fosse un delitto di lesa maestà.

Improvvisamente lo spazio pubblico gli sembra insopportabile, proprio quello spazio che aveva voluto costruire a propria immagine e somiglianza, e nel quale si radica non piccola parte del suo consenso. Alla vigilia di una tornata elettorale di qualche anno fa, milioni di italiani ricevettero un colorito libretto dove Silvio Berlusconi esibiva e rivelava infiniti dettagli della propria vita privata, compresi il nome del suo camiciaio e quello del fornitore di cravatte. Campagna all’americana si disse, ovviamente. Ma l’America è un’altra cosa, è il paese dove la Corte Suprema fin dal 1973 ha stabilito che gli uomini pubblici hanno una minore "aspettativa di privacy", dove proprio in questi giorni, sull’onda di uno scandalo che rischia di spegnere le ambizioni del governatore della Carolina del Sud, si sono unanimemente ribaditi due capisaldi dell’etica pubblica: un uomo politico non può mentire; deve accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la coerenza tra i valori proclamati e i comportamenti tenuti. Niente doppia morale, niente vizi privati e pubbliche virtù per chi riveste funzioni pubbliche, alle quali è giunto per scelta e non per obbligo, e del cui esercizio deve in ogni momento rendere conto alla pubblica opinione. Ma il contagio berlusconiano si è diffuso, come dimostra l’imbarazzante vicenda che ha visto protagonisti due giudici costituzionali.

"A casa mia faccio quello che mi pare", diceva il Presidente. "A casa mia invito chi mi pare" (con contorno di assicurazioni sulla riservatezza della fedele domestica), viene di rincalzo il giudice. E chi non accetta queste sbrigative forme di autoassoluzione viene bollato come gossipparo, guardone dal buco della serratura, spione, nostalgico dell’Inquisizione, fautore della società della sorveglianza… Ma le cose non stanno così, e basta un’occhiata alle regole della tanto invocata privacy per confermarlo. Certo, anche le "figure pubbliche" hanno diritto a un loro spazio di intimità, ma questa tutela è garantita solo se le informazioni non hanno "alcun rilievo" per definire il ruolo nella vita pubblica della persona interessata (articolo 6 del codice deontologico sull’attività giornalistica in tema di privacy).

Proprio così’: "alcun rilievo". Non solo questa formula è netta, senza equivoci, ma proprio l’attenzione della stampa internazionale è prova evidente dell’esistenza di un interesse forte a conoscere, così come è clamoroso il fatto che vi sia stata una cena "privata" tra il Presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia che ha dato il nome al famoso "lodo" e due tra i giudici che dovranno valutare la costituzionalità della più personale tra le leggi ad personam. Non si può invocare la privacy per interrompere il circuito del controllo democratico.

Proviamo di nuovo a dare un’occhiata alle regole, alle odiatissime regole. Qui troviamo un’altra formula eloquente: "commensale abituale". Dobbiamo ritenere che questa sia la condizione del Presidente del Consiglio, visto che il giudice costituzionale invitante ha detto che quella cena non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli implicati in questa vicenda protestano, dicendo che quella situazione, che obbliga ogni altro magistrato ad astenersi quando abbia frequentazioni della persona che deve giudicare, non è prevista per i giudici costituzionali. Ma questo non vuol dire che i giudici della Consulta possano fare i loro comodi. Proprio perché la loro funzione richiede indipendenza assoluta da tutto e da tutti, sì che giustamente il Presidente della Repubblica ha escluso la possibilità di un suo intervento, massimo deve essere il rigore del loro comportamento. Non un meno, ma un più, rispetto agli altri giudici.

Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell’etica pubblica? Proprio questi riferimenti sembrano scomparsi. Mentre la quotidiana attività legislativa smantella pezzo a pezzo lo Stato costituzionale di diritto, negando diritti fondamentali agli immigrati o dando in outsourcing a ronde private l’essenziale compito della sicurezza pubblica (qui s’incontrano le pulsioni della Lega e la concezione aziendalistica del Presidente del Consiglio), è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo, considerato un inciampo dal quale liberarsi.

Interviene qui la questione del moralismo, del quale in altri tempi ho scritto un pubblico elogio e del quale torno a dichiararmi un fedele. Non voglio nobilitare le miserie di questi tempi invocando la lettura di quelli che, giustamente, vengono detti "moralisti classici". Registro due fatti. Il primo riguarda l’uso italiano e inverecondo dell’esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. E’ una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d’una politica senza respiro.

Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell’etica pubblica ha scosso le fondamenta d’un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d’opposizione non riuscivano a scalfire. Lo conferma l’annuncio che il Presidente del Consiglio vorrebbe compiere una "svolta personale". Ancora uno sforzo, moralisti!

La crisi, iniziata nel 2007 in un piccolo segmento del mercato del credito Usa (quello dei mutui subprime), è oggi una recessione globale. Essa ha quattro caratteristiche distintive. La prima è il suo essere veramente globale, poiché è iniziata proprio al centro del sistema. La seconda è che, più di quanto non sia accaduto in altre crisi del passato, la crisi attuale è dominata da un senso diffuso di ingiustizia. La terza peculiarità è che le sue radici affondano tanto in cause strutturali quanto nella rilassatezza della cornice di regolamentazione del settore finanziario. La quarta è che è «un prodotto della dottrina». L'aver creduto nella capacità di autoregolazione dei mercati ha portato alla deregulation e a una diffusa sfiducia nell'intervento pubblico.

La crisi finanziaria, scatenata da un numero modesto di inadempienze sui mutui subprime, si è trasformata in una crisi di sistema a causa della catena di innovazioni finanziarie indotte dal lassismo della politica monetaria e dalla rilassatezza della cornice di regolamentazione, che hanno moltiplicato gli effetti dello shock iniziale. Il contagio dell'economia reale avviene principalmente attraverso l'inasprimento delle condizioni del credito per le famiglie e le imprese. Nel tentativo di ricostituire rapporti più ragionevoli, le banche o accumulano liquidità, o prestano a tassi più alti. D'altro canto, le imprese tendono a usare il loro flusso di cassa per ricostituire rapporti più prudenti tra debito e capitale, posticipando così l'investimento. Le famiglie subiscono un effetto negativo sulla ricchezza. Il risultato è una diminuzione generalizzata della domanda aggregata, che spinge la maggior parte degli economisti a prevedere il prolungarsi della recessione anche nel 2010, con effetti eccezionalmente forti di disoccupazione e povertà in tutto il mondo. Oggi appare probabile che gli scenari più foschi prefigurati dall'Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), secondo cui la disoccupazione sarebbe destinata ad aumentare di 50 milioni di unità in tutto il mondo nel 2009, si riveleranno eccessivamente ottimistici. Oltre 200 milioni di lavoratori potrebbero essere sospinti in una condizione di povertà estrema, soprattutto nei paesi in via di sviluppo ed emergenti, dove non ci sono reti di protezione sociale. Ciò significa che il numero di lavoratori poveri, cioè persone che guadagnano meno di 2 dollari Usa al giorno per ciascun membro del nucleo familiare, potrebbero arrivare a 1,4 miliardi di unità. Il 60% delle persone povere nel mondo è costituito da donne.

La crisi ha radici strutturali. La carenza di domanda aggregata ha preceduto la crisi finanziaria ed è stata dovuta a cambiamenti strutturali nella distribuzione del reddito. A partire dal 1980, in quasi tutti i paesi avanzati il salario mediano è stato stagnante, e sono aumentate le disuguaglianze a tutto vantaggio dei redditi alti. Ciò rientra in un processo più ampio che ha investito anche svariati settori dei paesi in via di sviluppo. Questo trend ha molte cause, tra cui una globalizzazione asimmetrica (con una maggiore liberalizzazione del mercato dei capitali rispetto al mercato del lavoro), le carenze nella corporate governance (le regole che presiedono alla gestione delle imprese, ndt) e il crollo delle convenzioni sociali egualitarie emerse dopo la seconda guerra mondiale. Poiché la propensione al consumo nei redditi bassi è generalmente maggiore, questo trend a lungo termine nella redistribuzione del reddito avrebbe avuto di per sé l'effetto macroeconomico di deprimere la domanda aggregata.

Negli Usa la compressione dei redditi bassi è stata compensata dalla riduzione del risparmio delle famiglie e da un crescente indebitamento. Ciò ha permesso che i modelli di spesa restassero virtualmente inalterati. Allo stesso tempo, la limitatezza delle reti di protezione ha costretto il governo a perseguire attivamente politiche macroeconomiche per combattere la disoccupazione, anche facendo aumentare il debito pubblico. Così, la crescita è stata mantenuta al prezzo di far aumentare l'indebitamento pubblico e privato.

La maggior parte dei paesi europei segue un percorso diverso. La redistribuzione verso i redditi più alti si è tradotta in un maggiore risparmio nazionale e in una depressione della crescita. Negli ultimi quindici anni l'assetto istituzionale, e in modo particolare le limitazioni al deficit contenute nei parametri di Maastricht e nel Patto di stabilità e crescita, hanno prodotto una bassa reattività delle politiche fiscali e di una politica monetaria restrittiva. Questo, insieme a un settore finanziario meno propenso all'innovazione, ha limitato l'accesso al prestito per i consumatori. La diversa distribuzione ha prodotto una crescita modesta.

Questi due percorsi si sono rafforzati a vicenda perché i risparmi provenienti dalla zona Ue hanno contribuito a finanziare l'indebitamento negli Usa, insieme ai surplus di altre regioni che per diversi motivi - sostanzialmente, per garantirsi contro l'instabilità macroeconomica causata dalla crisi della bilancia dei pagamenti e dalla conseguente perdita di sovranità dovuta all'intervento delle istituzioni finanziarie internazionali - hanno registrato anch'esse alti tassi di risparmio (in modo particolare i paesi produttori di petrolio dell'Asia orientale e del Medio Oriente). Così, la combinazione di squilibri strutturali che va sotto il nome di «sbilanciamento globale» si è tradotta in un fragile equilibrio che ha momentaneamente risolto il problema della domanda aggregata su scala globale a discapito della crescita futura. Una componente importante di questo fragile equilibrio era il lassismo della politica monetaria. In effetti, senza una politica monetaria di continua espansione la carenza di domanda aggregata avrebbe influito negativamente sull'attività economica. La politica monetaria, in un certo senso, era endogena rispetto allo squilibrio strutturale della distribuzione del reddito

(*) Quest'anno i Grandi della Terra si incontrano in un momento critico della storia, quantomeno della storia economica e sociale. Essi dovranno misurarsi con la crisi economica e sociale più grave in quasi ottant'anni. Parafrasando Keynes, il destino del mondo è nelle mani dei Grandi della Terra. Con le loro scelte essi potrebbero farci uscire da questa situazione, creando un futuro in cui la crescita sia più sostenibile, più amica dell'ambiente, e i cui frutti siano distribuiti in modo più equo sia all'interno dei singoli paesi, sia tra di essi. Diversamente, avranno una responsabilità enorme innanzi alla storia, quella di non aver onorato il compito affidatogli dalla loro gente, pur essendosi trovati in circostanze eccezionali che gli hanno concesso più spazio di manovra di quanto ne avrebbero avuto in tempi "normali". Ecco perché un gruppo di "esperti", senza altro impegno se non quello di essere cittadini del mondo, ha deciso di incontrarsi per riflettere su cosa si potrebbe fare, sperando che dalla sua riflessione emergano raccomandazioni utili ai potenti del mondo. Questo gruppo, che si è autobattezzato «Gn ombra», si è costituito sotto la guida di Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi, grazie a una partnership tra la Luiss e la Columbia University. E si è incontrato due volte: una a New York alla Columbia University il 4-5 febbraio 2009, e una a Roma il 6-7 maggio 2009.

Traduzione Marina Impallomeni

Dopo tanto tergiversare dei laici é arrivata infine la scure della Conferenza Episcopale Italiana che per bocca del suo Segretario generale ha in un colpo solo liquidato qualche secolo di arte liberale della distinzione per dire quello che molti italiani in cuor loro pensano: che il nostro Presidente del consiglio é un immorale e il suo comportamento non può essere rubricato come affare privato. Monsignore Mariano Crociata lo ha detto dal pulpito di una chiesa, non in un luogo pubblico-civile. Il suo é un giudizio morale e così vuole essere. Ma, nelle condizioni eccezionali nelle quali versa il nostro paese, questo giudizio morale ha immancabilmente una valenza pubblica e politica. Quando i padri fondatori del liberalismo hanno messo in chiaro la distinzione tra le sfere di vita - quella economica e politica, quella privata e pubblica, quella religiosa e civile - essi presumevano che alla base di questa distinzione ci fosse una sostanziale condivisione da parte di tutti i membri della comunità di un codice di comportamento che viveva nel senso comune senza dover essere imposto con la forza. Perché solo a questa condizione sarebbe stato possibile edificare una società di individui autonomi, dotati cioè di un senso della norma che li rendesse in grado di agire moralmente senza la presenza di un´autorità coercitiva che li controllasse direttamente. Se per operare correttamente ci fosse sempre bisogno del gendarme, si avrebbe una società di soffocante autoritarismo nella quale nessuno sarebbe libero. La distinzione tra pubblico e privato, quindi, non é un dualismo schizofrenico perché non contempla individui doppi come il Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Presume invece persone che sappiamo valutare le conseguenze delle loro azioni e in alcuni casi, come quelli che riguardano gli uomini pubblici, le azioni private non possono che avere molto spesso conseguenze pubbliche. È dunque obsoleta la distinzione liberale? No, non é obsoleta. Occorre però interpretarla senza semplicismi.

La regola aurea della distinzione é che il potere civile (lo stato, per intenderci) debba giudicare le azioni dei suoi cittadini con il metro non del moralmente "buono" ma del legalmente "giusto". La legge non può punire chi invita a casa propria uno stuolo di ragazze non minorenni. Ma la legge deve e non può esimersi dal punire chi, avendone la possibilità, promette incarichi pubblici (per esempio un seggio in un parlamento o in un consiglio comunale) in cambio di favori privati - quali che essi siano, sessuali o monetari. Ora, provato che la persona pubblica in questione non sia incorsa in questa o altre azioni penalmente perseguibili, quale é il ruolo del giudizio pubblico? È ammissibile che le azioni private diventino oggetto di scrutinio pubblico? Detto altrimenti, é giustificabile l´applicazione della regola aurea della separazione delle sfere di vita in un caso in cui é coinvolto non un cittadino ordinario, ma un rappresentante eletto (le cui azioni devono poter essere monitorate perché i cittadini abbiano la possibilità di giudicarle)?

In circostanze normali, il giudizio pubblico dovrebbe contenersi nei limiti dei comportamenti pubblici o che abbiano rilevanza pubblica. Si tratta come si può intuire di categorie molto scivolose e lasciate all´interpretazione del buon senso; fino a quando il comportamento del politico non ha così tanto tracimato i limiti del senso comune da non poter essere ignorato, anche con la buona volontà dei liberali più ortodossi. Ad un certo punto, la quantità si fa qualità.

Scriveva John Stuart Mill nel Saggio sulla libertà che se é vero che non si può con la legge interferire nelle decisioni personali di un adulto qualora non arrechino danno ad alcuno (un concetto, quello del "danno", di per sé molto complicato e controverso), é altrettanto vero che noi possiamo decidere di non voler come amico colui le cui azioni disapproviamo. Tradotta questa decisione morale in termini di opinione pubblica, l´esito é questo: tutti noi possiamo decidere di non approvare e anzi di criticare pubblicamente quelle azioni che, sebbene non illecite, confliggono gravemente con le nostre concezioni morali. La critica, il giudizio pubblico, é anzi la sola arma ammissibile in una società liberale, anche se non va mai trasformata in incitamento alla violenza o alla discriminazione. L´opinione pubblica é un potere molto efficace e per questo lo si dovrebbe usare sempre con cautela. Ma é un potere fondamentale senza il quale nessuna democrazia può essere al riparo da chi detiene il potere (e cerca di nascondere i propri misfatti).

A maggior ragione quando si tratta di giudicare le azioni di uomini politici, poiché se queste diventano, cosíccome succede oggi in Italia, un vero e proprio caso nazionale, allora é chiaro che non é in questione il giudizio morale semplicemente, ma la fiducia politica stessa. E noi sappiamo che la democrazia moderna riposta su due pilastri: la volontà che si esprime con il voto, e la fiducia che si esprime con il giudizio pubblico. Il primo pilastro é depositario dell´autorizzazione formale a governare (legittimità istituzionale), il secondo dell´autorizzazione informale nel tempo che intercorre tra un´elezione e l´altra (legittimità politica). Anche se il voto resta il dato incontrovertibile, può tuttavia succedere che nel corso del suo mandato un governo perda la fiducia dei cittadini, e il giudizio negativo espresso dagli organi di informazione e dalla società civile é un segno importante di questo declino di fiducia.

La Chiesa dunque ha le sue buone ragioni a criticare l´operato degli uomini pubblici con argomenti morali e privati; e in questo senso di partecipare indirettamente alla costruzione del giudizio. Ma il suo linguaggio non é il solo di cui noi disponiamo e possiamo avvalerci. La politica, o se si vuole l´etica pubblica, ha anch´essa strumenti altrettanto severi e, nel rispetto della distinzione tra pubblico e privato, sa comprendere quando i limiti vengono travalicati e un´azione, anzi una serie di azioni private hanno un impatto che é decisamente pubblico. Del resto, qui é in questione l´immagine intera del paese perché un popolo si porta addosso l´immagine che di esso dà il suo rappresentante politico. A questo punto le azioni immorali del nostro leader hanno effetti politici diretti, non solo effetti morali. L´immoralità di chi ci governa costituisce un gravissimo danno all´immagine di ciascuno di noi; é da questo punto di vista che occorrerebbe criticarla, ovvero per il danno politico che arreca.

«Arriva Bertolaso, l'emergenza fatta persona», così titolava l'editoriale di Gabriele Polo sul manifesto di mercoledì 2 luglio. Mi viene subito da aggiungere (è una scommessa) che, con i tempi che corrono, sempre più tempestosi, Guido Bertolaso arriverà a Palazzo Chigi al posto del cavaliere o, al peggio, come reggente di un presidente in riposo. Bertolaso, scrive ancora Gabriele, è «un uomo per tutte le emergenze, in un paese che di emergenza vive».

Quest'ultima è la frase chiave della situazione presente e del prossimo futuro e dei modi in cui saranno affrontati i problemi. Le emergenze sono tante, provo a indicarne solo tre:

1) C'è l'attuale, ennesima, crisi capitalistica. Non voglio pensare alla «crisi finale», ma certo è più complicata e vasta di tutte le precedenti. In Italia poi il governo ha difficoltà a intervenire con una grande spesa pubblica, per mancanza di soldi e debiti.

2) La maggioranza parlamentare di Berlusconi è vasta, ma è solo un affastellamento di individui e che con Berlusconi in crisi andrebbe in crisi anche lei, capace di trovare concordia

3) Berlusconi è «malato» come, con cognizione di causa, ha autorevolmente detto Veronica Lario.

Ha poi, secondo la saggezza etiopica, una malattia inguaribile che è la vecchiaia. Per di più attraversa una fase di sfortuna: l'Aquila, Viareggio, le foto e quant'altro verrà: ai vescovi chi ci avrebbe pensato? E, forse, è solo un inizio, come cantavamo una volta.

Date le premesse, la crisi di governo sembra inevitabile, ma non sarà una normale crisi parlamentare e mi sembra da escludere un governo tecnico. Sarà una crisi emergenziale (quindi pericolosa) come già anticipano arresti, pacchetti sicurezza, intercettazioni e altro (qualche giornale ha titolato di anarchici attentatori del treno Orte-Ancona e di residuati delle Br).

Insomma in una situazione di pericolosa emergenza, altamente probabile mi sembra l'emergere dell'«emergenza fatta persona», peraltro capo e garante della «Protezione civile», insomma di Guido Bertolaso. Potrebbe avere il consenso di maggioranza e opposizione.

P.s. Giuliano Ferrara è tornato a scrivere di «24 luglio».

Non sappiamo se nel tempismo di monsignor Crociata ci sia più un omaggio alla virtù illibata di Santa Maria Goretti o un intervento a gamba tesa sui vizi impenitenti di Silvio Berlusconi alla vigilia del G8. Fatto sta che il giudizio del segretario della Cei sul «libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria» e non è rubricabile sotto la voce «affari privati» sembra non ammettere retromarce. Se si somma questo giudizio a quello espresso domenica sera alla festa del Pd da Massimo D’Alema, sull’«eccessivo ritegno» avuto dal suo partito a denunciare «un’esibizione di volgarità che quando viene da alte cariche istituzionali è un fatto inequivocabilmente pubblico», è lapalissiano che il cerchio magico di autoprotezione del premier si è spezzato. Quel cerchio era imbastito sulla base dell’impresentabile argomento della tutela della sua privacy violata. Ma ormai è chiaro a tutti che di privato la sua politica della sessualità non ha proprio niente. Ed è rimasto solo lui con i suoi più fedeli velini a pensare di poter sostenere che le prossime foto in libera uscita all’estero sui fasti e i festini di Villa Certosa siano un «fotomontaggio» intrusivo della sua intimità, e non una ulteriore prova del «sistema di intrattenimento dell’imperatore» denunciato due mesi orsono da sua moglie.

Mentre minaccia la stampa internazionale come ha fatto fin qui con quella nazionale, Berlusconi ostenta, come al suo solito, una sicurezza pari alla fragilità su cui traballa. Lui è «il più esperto» fra i leader che si incontreranno all’Aquila, lui sa come infondere fiducia per uscire dalla crisi, lui sa come si sta vicino a chi perde il posto di lavoro, lui sa come soccorrere i paesi africani che finora hanno avuto nella sua agenda un rilievo pari a zero, lui può esibire al G8 «un bel biglietto da visita» per via del suo cruciale ruolo sulla crisi in Georgia e sui rapporti Usa-Russia. A fare da megafono a questa ennesima esibizione di sicumera è il «suo» Giornale, ma perfino la potenza mediatica di Berlusconi pare ormai piccola cosa a confronto con il discredito in cui è precipitato, e ci ha precipitati, sui media internazionali. Cresciuto grazie alla sua speculazione antipolitica sul declino della politica nazionale, Berlusconi ha sottovalutato anche sul terreno dei media la forza dirompente della globalizzazione; e non solo sul terreno dei media.

Opponendo al «complotto» mediatico internazionale e agli «agguati della sinistra» alla sua privacy la sua ostentata sicurezza di presidente del G8, Berlusconi non fa che tentare di occultare, ancora una volta, la triste verità che lo riguarda. E la triste verità è che il suo declino, deciso e accelerato dalla sequenza di disvelamenti iniziata con il caso-Veronica e proseguita con il caso-Noemi e il caso-D’Addario, ha agito in realtà non contro la sua forza ma in concomitanza con la sua debolezza internazionale. Una debolezza che non si può nemmeno imputare direttamente a lui, alla sua inadeguatezza, alle gaffe che l’hanno reso tristemente famoso nel mondo fin dalle sue performance nei suoi precedenti governi; e che va piuttosto ricondotta ai cambiamenti dello scenario geopolitico e culturale che si sono innescati con la fine dell’era Bush e l’elezione di Barack Obama. Molto più che un cambio di governo nella potenza alleata di riferimento, l’elezione del presidente «abbronzato» ha segnato fin dallo scorso autunno, per Berlusconi, la fine di una sponda politica e ideologica che dava una parvenza di plausibilità internazionale al laboratorio italiano della destra neoliberista e neoconservatrice. E vista a-posteriori, appare tutt’altro che casuale l’imbarazzante coincidenza fra la notte dell’elezione di Obama e la notte trascorsa dal premier italiano con Patrizia D’Addario a palazzo Grazioli, quasi un rito, aggressivo e mortifero, di rimozione di un evento per lui catastrofico. Così come a posteriori acquista un’altra luce, anch’essa decadente e profetica, l’imbarazzante sequenza di performance del premier italiano al G20 di Londra, il suo patetico tentativo di entrare nella scia carismatica del giovane presidente americano, di farsi fotografare con lui, di ottenere l’invito alla Casa bianca, di surrogare con un protagonismo improvvisato la solitudine di un leader privo di first lady. Già in quei giorni, quando il Pdl era stato da poco battezzato alla Fiera di Roma inneggiando alla «leadership carismatica» del suo Capo, fu un collaboratore di Zapatero a dichiarare che all’estero Berlusconi era considerato «uno senza vergogna, altro che carisma». Eppure, le foto di villa Certosa non circolavano ancora, Sofia Ventura non si era ancora pronunciata contro le candidature delle veline, Veronica Lario non aveva chiesto il divorzio, non c’era nessuna Noemi Letizia e nessuna Patrizia D’Addario all’orizzonte, e nemmeno una giudice, donna anche lei, che di lì a poco avrebbe emesso la sentenza sul caso Mills.

Poi si sono manifestate una dietro l’altra, smontando uno dopo l’altro i trucchi di una finta potenza pulsionale e politica. E’ con questa compagnia femminile, per una volta indesiderata, che il premier bianco affronta di nuovo il confronto col presidente «abbronzato». Fra carisma e seduttività, si sa già che non c’è gara.

Badanti, una parola entrata nel lessico quotidiano e persino in quello giuridico-amministrativo. È stato coniato allorché il fenomeno delle donne immigrate che si prendono cura di persone non autosufficienti si è diffuso. Ed è diventato visibile nella vita e negli spazi quotidiani. È una parola sottilmente svalutativa, sia per chi "bada" che per chi "è badato". Quasi si volesse sminuire, specie quando si tratta di persone a pagamento e per di più straniere, non solo il lavoro, ma il mondo di significati e l´intensità relazionale che si producono inevitabilmente nelle relazioni di cura. E tuttavia è una parola che designa una categoria di immigrati che molti ritengono "meritevoli", per cui fare una eccezione rispetto alla durezza delle norme sulla immigrazione. Persino il ministro per la famiglia Giovanardi si è svegliato da un lungo sonno per avanzare una proposta in questo senso. Lo chiede anche il responsabile per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana.

Perché le badanti e le colf appaiono ai cittadini, ai politici, ai vescovi, come più meritevoli di indulgenza rispetto al manovale sfruttato in nero, all´operaio che, perso il lavoro regolare e con ciò il permesso di soggiorno, se non si allontana subito dal territorio italiano diventa automaticamente un clandestino? Perché sono diventate un pezzo indispensabile di quel welfare familiare che le famiglie italiane si sono inventate per far fronte ai bisogni di cura posti da un lato dall´invecchiamento, dall´altro dal, pur lento e difficile, aumento della occupazione delle madri con figli piccoli. In un paese in cui i servizi per bambini sotto i tre anni sono cresciuti del 3 per cento in dieci anni, in cui i servizi domiciliari per le persone non autosufficienti sono una chimera, in cui anche il tempo pieno scolastico viene ridotto per ridurre i costi, l´immigrazione ha fornito una alternativa a basso costo – tanto più se irregolare. Lasciate sole da un welfare inefficiente – per riprendere il titolo di un pamphlet ricco di dati di Daniela Del Boca e Alessandro Rosina appena uscito dal Mulino (Famiglie sole. Sopravvivere con un welfare inefficiente), le famiglie si sono inventate il welfare fai da te delle badanti, da integrare nel patchwork della solidarietà famigliare allargata. È un welfare i cui costi sono tutti a carico delle famiglie e delle donne migranti. Eccettuate alcune eccezioni locali, lo stato non si assume alcuna responsabilità, salvo, nel migliore dei casi, quella di chiudere gli occhi. Nel peggiore, come oggi, l´unica iniziativa è di tipo repressivo. In ogni caso, vengono ignorati sia i bisogni delle persone, sia la fatica delle famiglie (in particolare delle donne), sia i diritti delle lavoratrici immigrate ad un compenso adeguato, ad un minimo di sicurezza sociale, alla possibilità di mantenere rapporti con le proprie famiglie. Ci sono immigrate che non vedono i propri figli e propri genitori per anni. Non solo perché il viaggio costa troppo, ma perché, essendo presenti irregolarmente, non possono rischiare di uscire dall´Italia per timore di non poter più rientrare. Proprio a coloro che ci aiutano a prenderci cura dei nostri famigliari spesso viene negato il diritto ai propri rapporti famigliari. Il risultato è una permanente situazione di incertezza, che rende facili sfruttamenti, ma anche ricatti, da una parte e dall´altra. Tutto il contrario dell´obiettivo della sicurezza tanto sbandierato per giustificare le nuove norme.

Ma anche altre figure di immigrati, oltre alle badanti, si trovano in situazioni simili. Se ci appaiono meno "meritevoli" di eccezioni è perché le viviamo come meno indispensabili al funzionamento della nostra vita quotidiana. E perché ci aspettiamo da loro una dedizione che va al di là del puro rapporto di lavoro. C´è una non tanto sottile forma di egoismo nel mettere a fuoco solo la situazione delle badanti. Anche la tardiva resipiscenza di Giovanardi risponde a questa logica: un governo che nulla ha fatto e fa per sostenere le famiglie, teme di vedersi presentare il conto da chi è riuscito ad arrangiarsi da sé e ora vede vanificati i propri sforzi. Ma non basterà una eccezione per le badanti a modificare un welfare slabbrato e diseguale. Non basterà neppure a restituire dignità a un paese che ha inventato l´aggravante del reato di clandestinità per rendere ancora più precaria, e più ricattabile, la situazione di chi neppure volendo riesce a regolarizzare la propria presenza – onesta, laboriosa, spesso necessaria – in Italia.

Ce l'ha con i fabbricanti e con i mercanti della paura, il premier. Quelli che fanno previsioni buie, per il futuro. Analisti, specialisti, banchieri, giornalisti. I fabbricanti della paura fanno profezie che si autoavverano.

Alimentano la recessione perché generano comportamenti recessivi. Inducono i consumatori a non consumare, gli imprenditori a non intraprendere e a non rischiare. Per questo Berlusconi ripete, come un mantra, che "l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la nostra paura". Echeggia una frase famosa, pronunciata da Roosevelt in un momento emblematico. La grande crisi del 1929. Per questo, insiste il premier, chi fa del catastrofismo, oggi, prepara la catastrofe. I partiti di opposizione, gli economisti e le autorità del sistema bancario, gli organismi internazionali. Mentre prevedono la crisi in effetti la creano. Per questo gli imprenditori devono scoraggiare i mercanti della paura. E soprattutto i giornali, quei giornali, quel giornale, quella Repubblica della paura. Va punita. Le va negata la pubblicità. Perché non è lecito fare e dare pubblicità alla paura.

Come uno psicoterapeuta di massa, il premier è impegnato in una sistematica e martellante campagna contro l'angoscia. Un progetto difficile. Perché è da tempo che questo paese convive con l'angoscia. Un paio di occhiali che tutti indossano. Berlusconi, d'altronde, non è il solo ad aver polemizzato contro la "cultura della crisi". Senza incitare gli imprenditori a negare la pubblicità ai giornali, anche il predecessore, Romano Prodi, sosteneva che la sfiducia era alimentata dai media. In modo largamente ingiustificato. D'altronde, due o tre anni fa l'andamento dell'economia globale e nazionale era sicuramente migliore di adesso. Tuttavia, non ricordiamo che Berlusconi, a quel tempo capo dell'opposizione, abbia pronunciato le stesse dure parole. Contro la paura e chi la alimenta. Ci pare invece che anch'egli lamentasse la crisi incombente. Allora, evidentemente, la sfiducia dei cittadini - rivolta contro un governo di sinistra - gli appariva fondata.

Berlusconi. Non si ribellò quando, nell'inverno 2007, la stampa internazionale - New York Times e Newsweek in testa - dedicava inchieste spietate all'Italia, la "Penisola della paura" (titolo di una nostra mappa). A quell'epoca, evidentemente, la stampa internazionale non congiurava contro di noi. Il nostro Psicoterapeuta, allora, non si preoccupava troppo di questo popolo angosciato. Ma, anzi, ne traeva beneficio. Perché la paura, la sfiducia, l'angoscia, quando si attaccano alle radici della società, minano anzitutto l'albero dove sta appollaiato chi governa.

Per questo, il messaggio sulla Paura pronunciato da Berlusconi oggi suona, per così dire, un po' artificiale. Visto che la maggioranza di governo ha costruito il proprio consenso e il proprio successo degli ultimi anni sulla paura. Paura del "declino" economico - un altro mantra recitato a fasi alterne, da chi sta all'opposizione. D'altronde, di fronte mille proteste delle mille categorie e corporazioni, indisponibili a rinunciare ai mille privilegi di cui erano e sono titolari, Berlusconi, nell'autunno del 2006, non si tirò indietro. Non esortò alla fiducia. Ad aver paura della paura. Ma organizzò una serie di manifestazioni contro le politiche del governo. Per fare (legittimamente) opposizione: alimentò sfiducia e paura. La paura, d'altronde, è la risorsa infinita - la principale - a cui ha attinto il centrodestra quand'era all'opposizione. Ma anche oggi che è al governo. La Lega, soprattutto.

Oggi l'Italia è paese fra i più angosciati d'Europa. Non c'è un altro luogo dove lo squilibrio fra paura e criminalità, fra paura e immigrazione (visto che l'equazione immigrazione=criminalità è data per scontata) sia tanto forte. Spostato verso la paura. Basta consultare le statistiche di Eurostat e di Eurobarometro. E se gli indici dei reati, in Italia, hanno subito un significativo declino - negli ultimi anni - non importa. La paura ha continuato a crescere. Complici i media. Come ha rilevato l'Osservatorio di Pavia nel II Rapporto sul sentimento di sicurezza in Italia, curato da Demos per Unipolis (novembre 2008).

La concentrazione di notizie ansiogene sui tg di prima serata è cresciuta costantemente dal 2005 alla primavera del 2008. Trascinata soprattutto dal Tg5 e da Studio Aperto, con il Tg1 a ruota. Le tivù e i media di proprietà del premier: non si sono risparmiati nella "costruzione della paura". Salvo rallentare la spinta l'anno seguente. Finita la campagna elettorale.

Tuttavia, la "Paura degli altri" sposta consensi a destra. Sempre. La sfiducia economica e nel lavoro, invece, solo quando governa la sinistra. Per questo oggi il premier si è trasformato nell'Authority della Paura. Che stabilisce quando sia legittimo oppure no: avere Paura. Sentimento incoraggiato quando ne sono bersaglio gli immigrati. Che è lecito contrastare e respingere con durezza. Mobilitando l'esercito e le ronde. Mentre nel caso dell'economia e del lavoro: la paura fa paura. I fatti e le opinioni. Ormai è difficile fare distinzioni troppo nette, visto l'impatto dei media sulle nostre emozioni. Per cui oggi si piegano i fatti alle opinioni e si assecondano le paure, quando riguardano gli "altri": immigrati, zingari e barboni. Ma quando i problemi coinvolgono l'economia e il lavoro, le ragioni dei fatti passano dalla parte del torto. Meglio silenziarle in via precauzionale e preventiva. Per non accreditare l'idea della crisi, meglio non parlarne.

Negli ultimi 7 mesi la quota di famiglie in cui qualcuno ha perduto il lavoro è salita dal 13 al 19% (indagine dell'Osservatorio di Demos-Coop, di prossima pubblicazione). E dal 12,5 al 21% quella della famiglie in cui c'è un cassintegrato. Persone che si sentono precarie. E si dicono - comprensibilmente - pessimiste e sfiduciate. Sbagliano. La disoccupazione e la cassa integrazione. Non fatti, ma opinioni. Costruite ad arte. Dagli economisti, dai giornalisti e dai sondaggi. Per citare un filosofo degli anni settanta: "Tu chiamale - se vuoi - percezioni".

Non si può non essere d'accordo - come sempre del resto - con il Presidente Giorgio Napolitano quando invita a sospendere per un po' le «polemiche politiche» in vista della partecipazione italiana al G8. Il resto, però, - e cioè lo sterminio «non politico», l'enorme zavorra che deborda, nonostante gli sforzi, da tutti i peggiori contenitori, - ci sovrasta, e temo non ci si possa far niente. La vergogna italiana è ormai consumata al cospetto del mondo, parlarne o non parlarne è più o meno la stessa cosa. Le incerte origini di una fortuna economica colossale, la disinvolta (!) gestione dei propri affari, gli avvocati internazionali comprati, lo stalliere mafioso, il rifiuto sistematico di sottoporsi alla giustizia del proprio paese (da cui, conseguentemente, il benemerito «lodo Alfano»), l'interesse pubblico interamente giocato a favore di quello privato, lo spropositato dominio sui media e, da ultimo, il prossenetismo di massa e un'esibizione senza precedenti di abitudini personali scandalose e di vizi privati che of course non sono riusciti a diventare pubbliche virtù, costituiscono oggi, ahimé, un patrimonio nazionale peculiarmente italiano, di cui è difficile, anzi impossibile liberarsi, anche tacendone. Da questo punto di vista, ci si può affidare solo alla fortuna, ovvero allo «stellone italiano», la categoria concettuale e pratica esattamente speculare, per superficie e approssimazione, dei guai inverosimili in cui gli italiani sono capaci da sé di cacciarsi.

Se però, nonostante fortuna e buona volontà e riservatezza e discrezione, del «resto» di dovesse continuare a parlare anche in prossimità di un evento internazionale tanto importante come il G8, e magari al suo interno e durante il suo svolgimento, si tenga presente quanto segue. Noi italiani dobbiamo rassegnarci all'idea che da soli non ce l'abbiamo mai fatta: che abbiamo avuto sempre bisogno di una mano amica per tirarci fuori dai gorghi dove eravamo precipitati. Dall'interno, beninteso, affinché il meccanismo si rimettesse in moto, c'è stato bisogno che piccoli gruppi destinati solo dopo a diventare grandi, esibissero la loro propria, personale e nazionale, volontà di riscatto e di liberazione. Ma perché questi piccoli diventassero efficaci al fine coraggiosamente prescelto, fu necessario che dall'esterno altre mani si protendessero a incontrare le nostre. Questo è stato vero anche nei momenti più esaltanti e fondativi della nostra storia: il Risorgimento (Francia e Inghilterra); l'antifascismo e la Resistenza (gli Alleati, ovviamente).

Potrebbe darsi che questo sia vero anche oggi. Sarebbe bello perciò che il G8 fosse occasione per qualche manifestazione di tal natura. Sarebbe sufficiente lanciare qualche modesto messaggio da parte degli ospiti stranieri: basterebbe voltare le spalle nel corso di una pubblica esibizione: declinare dignitosamente ma fermamente qualche invito; rifiutarsi di stringere qualche mano servilmente protesa; esibire una grave serietà quando ci si trovi di fronte ad una risata troppo ghignante ed esibita. Al resto penserebbero la stampa, i fotografi, le televisioni. Fra i Grandi del G8 qualche personalità capace di questo dovrebbe pur esserci: dal sobrio laico laburista inglese Brown al multietnico e «libero pensatore» Obama all'onesta luterana tedesca Merkel. Se no, in che cosa consisterebbe la loro conclamata superiorità di comportamenti rispetto ai nostri, insomma, la «differenza» su cui anche noi italiani siamo costretti, e ridotti, a contare?

Mi rendo conto che questo discorso potrebbe esser considerato disfattista. Sono grande abbastanza tuttavia per ricordarmi che negli anni prima e durante la seconda Guerra mondiale gli italiani che parlavano da Radio Londra o militavano nelle diverse Resistenze europee prima che la nostra avesse inizio, venivano tacciati dai fascisti di alto tradimento, lesa maestà e, appunto, di disfattismo (anche questo, del resto, fa parte del doloroso "destino italiano": gli italiani buoni, per esser buoni, sono costretti a farsi accusare dai loro connazionali d'esser traditori). Da che parte stava allora l'onore d'Italia? Dove sta ora? L'onore non sta sempre dalla parte di chi più o meno legittimamente ci rappresenta. Oggi in Italia di sicuro sta altrove.

Quando il presidente del Consiglio arringa gli imprenditori e li incita a non investire sui giornali che lui considera "catastrofisti", o peggio ancora "disfattisti", fa un torto alla pubblicità e nello stesso tempo un danno al sistema economico. Un torto agli inserzionisti pubblicitari, perché – come ha dichiarato Lorenzo Sassoli de Bianchi, appena confermato alla presidenza dell’Upa, l’associazione che raccoglie 400 imprese pari all’85 per cento degli operatori – si tratta di «professionisti che investono in base al mercato» e non si sono «mai fatti condizionare dalla politica». Un danno all’economia, perché l’istigazione del premier-tycoon minaccia comunque di ridurre le risorse pubblicitarie o magari distrarle a vantaggio delle sue televisioni private.

In questo senso, senza invocare per l’ennesima volta il conflitto d’interessi, si potrebbe anche parlare di interessi privati in atti d’ufficio. Ma tant’è. Ora che alla presidenza di Panama s’è insediato l’italiano Ricardo Martinelli, imprenditore e proprietario delle principali reti tv nazionali, c’è da temere che il "modello Berlusconi" venga esportato su scala planetaria o che viceversa la "democrazia caraibica" sia destinata a imporsi nel cuore della vecchia Europa, con tanto di legislazione fiscale offshore. E nell’Ottocento, come ricorda John Le Carré in apertura di un suo celebre romanzo che ha per protagonista un sarto-spia, si usava l’espressione francese "Quel Panamà!" per dire appunto "Che gran casino!".

Ma la pubblicità, la buona pubblicità, non fa politica. Si rivolge a un mercato di consumatori, non a una folla di elettori. Punta a promuovere e vendere prodotti, non ad aggregare consensi o a raccogliere voti. E quindi, almeno nell’interpretazione della parte più avanzata e prevalente degli operatori del settore, si conviene generalmente che debba essere veritiera, corretta, trasparente. Tutto questo nell’interesse degli stessi inserzionisti oltre che dei destinatari o "utilizzatori finali", come direbbe l’ineffabile avvocato Ghedini.

Prendiamo l’esempio più recente: quello del "product placement", la tecnica di pubblicità indiretta che tende a piazzare il prodotto all’interno di un film o di un programma televisivo. Si tratta evidentemente di un messaggio subdolo, quasi subliminale. Perciò l’ultima direttiva europea in materia esordisce con il divieto del "product placement" nelle trasmissioni tv. Ma poi contempla la possibilità di deroghe, lasciandone facoltà ai singoli Stati. E alcuni, a cominciare dalla liberale Gran Bretagna, hanno già deciso di non consentire questo inserimento in difesa del mercato e dei consumatori: secondo il governo inglese, i benefici economici sarebbero stati minori dell’impatto negativo che avrebbe sulla qualità dei programmi e della perdita di fiducia dei telespettatori.

In Italia, invece, la legge comunitaria approvata recentemente dal centrodestra attribuisce una delega al nostro governo che sembra ammettere il "product placement" senza limiti, o perlomeno senza limiti maggiori di quelli molto blandi che la stessa direttiva prevede, in un settore caratterizzato da un’alta concentrazione. Ciò servirebbe a evitare che i prodotti italiani di fiction siano svantaggiati rispetto a quelli degli altri Paesi europei che così potrebbero godere di ricavi superiori e risulterebbero più competitivi. Ma evidentemente l’argomento non può valere per i programmi di intrattenimento e per i reality che non sono destinati a essere esportati e nei quali l’affollamento è già elevato.

Se la pubblicità, la buona pubblicità, non fa politica, da noi accade dunque che la politica fa pubblicità. Le arringhe del premier-tycoon contro i giornali "catastrofisti" o "disfattisti" – tra i quali bisognerebbe includere la stampa di mezzo mondo a cominciare dal Financial Times e dall’Economnist, organi ufficiali della business community internazionale – appartengono proprio a questo genere. E al di là degli interessi aziendali e commerciali di Berlusconi, sono fondate in realtà su un modello di consumo che la crisi globale si sta incaricando di correggere o comunque di superare.

Non è in discussione, ovviamente, il capitalismo né l’economia di mercato. Ma piuttosto un iper-consumismo – cioè un consumismo bulimico, esasperato – che non tiene conto degli equilibri sociali e delle compatibilità ambientali. Torna in mente così la suggestiva rappresentazione di una delle città invisibili di Italo Calvino: «Più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove». Una profezia sulla degenerazione della società consumistica che oggi, piaccia o non piaccia al nostro presidente "escortista", appare più che mai attuale.

Il fatto. In una sera di maggio si incontrano a cena due giudici costituzionali, il premier, il sottosegretario alla presidenza del consiglio, il ministro della giustizia, i presidenti delle commissioni affari costituzionali di camera e senato. Il luogo è la casa di uno dei giudici costituzionali. Si discute, tra l'altro, la prospettiva di una radicale riforma della giustizia, volta a ridisegnare in specie la figura del pubblico ministero, non più magistrato. Nei giorni successivi circola una bozza di riforma costituzionale in tal senso, si dice ispirata da uno dei giudici presenti alla cena. E tra non molto la corte deciderà sul lodo Alfano, che impedisce per la durata del mandato di sottoporre il presidente del consiglio a giudizio, o di proseguire i giudizi in corso. Di tutto, la stampa dà notizia.

Il diritto. Interpellato, il giudice ospitante risponde con parole sprezzanti che in casa sua invita chi gli pare. E comunque un giudice costituzionale incontra politici di ogni calibro e colore. Da ultimo, invia al presidente del consiglio una lettera aperta - come tale rivolta al popolo italiano - in cui ribadisce anzitutto il «diritto umano» di invitarlo a cena, e di vederlo «insieme a persone a me altrettanto care e conversare tutti insieme in tranquilla amicizia». Ovviamente, le notizie di stampa sono «frottole» raccontate a «ignari lettori». Il tutto condito con ampi riferimenti alla libertà e alla democrazia.

Tutti argomenti privi di sostanza.

Partiamo dai fondamentali. La corte costituzionale è il principale organo di garanzia del sistema. Deve essere - e mostrare di essere - assolutamente autonoma e indipendente. Di mestiere, la corte si contrappone al legislatore, quando valuta la conformità a Costituzione di una legge. Se la legge è recente, si contrappone anche alla maggioranza politica del momento. Da qui la necessità che nessuna contiguità ci sia o appaia tra i giudici e chi ha poteri formali o sostanziali nella formazione della legge. Anzitutto, i titolari - come il presidente del consiglio o un ministro - dell'iniziativa legislativa del governo. Ovvero i presidenti di commissione, che sono il braccio armato della maggioranza. Ancor più quando si discute di temi che direttamente toccano i potenti. Ed in specie quando liste bloccate e scelta oligarchica dei parlamentari rendono le assemblee legislative un obbediente parco buoi. Più è asservito il parlamento, più indipendente e autonoma deve essere la corte in difesa della Costituzione. E la notte della Repubblica che viviamo preclude a un custode della Costituzione - come la corte - opinioni e suggerimenti su eventuali e stravolgenti riforme della stessa Costituzione.

Né vale l'argomento che tra giudici e politici il contatto è inevitabile. Altro è se il giudice incontra il politico in una occasione istituzionale, o a casa di amici che hanno invitato entrambi. In tal caso il giudice si trova in una situazione che non ha contribuito a determinare, non avendo in alcun modo scelto i partecipanti. Nulla gli può essere imputato, ad esempio, se incontra il presidente del consiglio a un ricevimento del Quirinale. CONTINUA|PAGINA7 Diversamente, nel caso di una cena a casa del giudice. L'argomento «a casa mia invito chi voglio» diventa decisivo. La libertà del domicilio rende la scelta dell'invitato rilevante: si potrebbe decidere di non invitarlo. Dunque si è responsabili della scelta degli invitati. Si risponde di una scelta per qualsiasi motivo inappropriata.

Chi può escludere che siano state scambiate assicurazioni sul futuro voto dei due giudici per il lodo Alfano? Non sfugge a nessuno che solo la sentenza della corte separa Berlusconi dalla ripresa dei processi a suo carico. Né sfugge che già la prima sentenza - quella sul lodo Schifani - non fu particolarmente incisiva sul principio di eguaglianza. Il voto di due giudici potrebbe alla fine determinare una maggioranza, e quindi la decisione della corte.

Stupisce che dell'accaduto si sia parlato - in fondo - poco. Qui non è questione di tregua per il G8. Non di bassa cucina si tratta, ma della salute delle istituzioni. E dov'è la torma di opinionisti e costituzionalisti veri o presunti che di norma intasa carta stampata e talk show? Conformismo e autocensura calano sul paese. Non si considera che l'etica pubblica pone parametri più stringenti di quelli giuridici. Non si vuole vedere che il privato dei potenti ha spesso un rilievo pubblico. E si richiama a sproposito la privacy, dimenticando che in paesi di più solida democrazia rispetto al nostro si ritiene che per le figure pubbliche debba prevalere l'informazione. Leggi in itinere apprestano bavagli per la stampa e la magistratura, quando le cronache dimostrano l'assoluto bisogno del contrario. Alla fine, accade in Italia quel che altrove sarebbe impensabile.

Per questi motivi la cena de qua, e la lettera che ad essa ha dato seguito, sono gravemente lesive del ruolo della corte costituzionale, e pericolose per la Repubblica.

Non ci sono pesci piccoli nella catena delle responsabilità per la tragedia di Viareggio. Questo è quello che sappiamo finora. A muovere il treno è il gigante Fs. I vagoni sono della Gatx, un colosso del settore, che ne gestisce 20 mila. Gli standard di sicurezza a cui devono attenersi sono stati fissati al massimo livello, la Commissione europea di Bruxelles. Il contenuto dei vagoni è gpl prodotto dalla Sarpom, proprietà del maggior gruppo petrolifero mondiale, la Exxon. Che ha affidato la verifica finale degli stessi vagoni di nuovo alle Ferrovie dello Stato, nella veste privata di Fs logistica. Non ci sono piccoli imprenditori disinvolti e faciloni, piccoli burocrati inesperti o poco competenti. Siamo di fronte ad una serie di protagonisti, con storia, esperienza, mezzi e strutture. Ma ognuno, in questa storia, sembra portare una porzione di responsabilità.

Il locomotore Trenitalia arriva alla stazione di Viareggio ad una velocità di 90 chilometri l’ora. La velocità massima prevista, su quel tratto di binari, è di 100 chilometri l’ora, ma c’è da chiedersi se 90 chilometri l’ora all’ingresso in una stazione non sia una velocità un po’ troppo sostenuta quando si trasportano carichi così pericolosi. In ogni caso, a quanto pare, l’asse del carrello di un vagone cede, la cisterna si apre, il gpl, compresso a 15 atmosfere, schizza fuori con una forza enorme che lo trascina a distanza, si ritrasforma in gas, incontra una scintilla ed esplode. Fosse avvenuto di giorno, anziché di notte, il massacro si sarebbe moltiplicato. Il vagone è della Gatx, società con sede a Vienna. La normativa europea impone una revisione dei vagoni merci – carrelli compresi – ogni 4-6 anni. Non sappiamo ancora dove sia avvenuta. Non necessariamente in Italia: di fatto, nel paese in cui il vagone si è trovato, vuoto, al momento in cui gli scadeva il «bollino» quadriennale. Questo stabilisce la Commissione europea, spesso criticata – evidentemente al di là del dovuto – per l’eccesso di occhiuta scrupolosità. È una garanzia sufficiente? Non pare proprio, soprattutto per un veicolo che, presumibilmente, la Gatx, che ci guadagna sopra, si sforza di tenere sui binari e in movimento 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per tutti i quattro anni di durata della revisione. Lo riconosce apertamente il vicepresidente della Commissione Ue, Antonio Tajani, anche se il riconoscimento suona, a questo punto, un po’ tardivo. Tajani ha comunque ragione ad indicare che maggiori garanzie si avrebbero da un sistema di revisione che, anziché su una scadenza a tempo, si basasse sul chilometraggio effettivamente percorso dal vagone e sul carico trasportato, cioè sullo sforzo sostenuto dalla sua struttura.

È la prima grossa falla di sicurezza, portata alla luce dalla tragedia di Viareggio. Ma non è l’unica. Osservano i dirigenti della Gatx che, una volta affittato il vagone, la sua gestione e manutenzione ricadono sotto la responsabilità di chi lo affitta. E la Sarpom sostiene di essersi affidata, per la verifica tecnica dei vagoni, a Fs Logistica. Rispuntano, insomma, le Ferrovie dello Stato, questa volta, però, nella veste di consulente tecnico privato, presente sul mercato, accanto e in concorrenza con altri consulenti, per fornire un servizio a pagamento ad un cliente. Una situazione che, bizzarramente, ricorda quella delle società di rating che, sulla qualità dei titoli-salsiccia all’origine dell’attuale crisi finanziaria, fornivano un giudizio in cambio di un pagamento da parte degli stessi presentatori dei titoli. È assolutamente prematuro individuare in Fs logistica l’anello finale delle responsabilità della tragedia di Viareggio. Saranno le inchieste a stabilirlo o a individuare altrove, come è perfettamente possibile, chi ha peccato di omissione o di leggerezza. Ma è con disagio e sconcerto che si registra come, in questo processo, dalla revisione alla verifica, la sicurezza e, di fatto, la vita delle persone siano affidate ad un processo sostanzialmente di autocertificazione, in cui l’autorità pubblica è presente solo all’inizio e non nel momento cruciale in cui il treno, materialmente, affronta i binari e parte verso le stazioni.

Manca, insomma, una presenza, esterna ed estranea al mercato, che imponga e, poi, controlli in proprio il rispetto delle regole. Non è questa assenza che si può intendere per «liberalizzazione». Un mercato liberalizzato non è una partita senza arbitro: è una partita in cui l’arbitro non gioca, ma accerta e fischia i falli. Anche se avere un arbitro efficiente può rappresentare un costo.

Per le Fs e per chi governa il sistema dei trasporti in Italia, è il momento di riflettere. Le Fs hanno colmato il disavanzo di bilancio pur portando, contemporaneamente, l’Italia nell’era moderna: con l’alta velocità, il Milano-Roma in tre ore e mezza e la concorrenza all’aereo. Ma bisogna chiedersi a quale prezzo: sulla rete, sul resto dei treni, sulla sicurezza. Se il prezzo deve essere lo scandalo quotidiano delle traversie di milioni di pendolari, il collasso di infrastrutture di rete, come due settimane fa sulla Firenze-Bologna, tragedie della sicurezza come a Viareggio, il prezzo è inaccettabile. Un Freccia Rossa efficiente e funzionale e un sistema ferroviario complessivamente obsoleto, fatiscente e pericolante è esattamente la fotografia del sistema ferroviario in India. Del resto, si diceva una volta che le catastrofi in cui, per cedimenti di un materiale obsoleto, muoiono un sacco di persone sono i disastri tipici del terzo mondo. E, adesso, Viareggio.

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