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Insabbiare

di Enzo Mauro

Non potendo rispondere, se non con la menzogna, Silvio Berlusconi ha deciso di portare in tribunale le dieci domande di Repubblica, per chiedere ai giudici di fermarle, in modo che non sia più possibile chiedergli conto di vicende che non ha mai saputo chiarire: insabbiando così – almeno in Italia – la pubblica vergogna di comportamenti privati che sono al centro di uno scandalo internazionale e lo perseguitano politicamente.

è la prima volta, nella memoria di un Paese libero, che un uomo politico fa causa alle domande che gli vengono rivolte. Ed è la misura delle difficoltà e delle paure che popolano l’estate dell’uomo più potente d’Italia. La questione è semplice: poiché è incapace di dire la verità sul "ciarpame politico" che ha creato con le sue stesse mani e che da mesi lo circonda, il Capo del governo chiede alla magistratura di bloccare l’accertamento della verità, impedendo la libera attività giornalistica d’inchiesta, che ha prodotto quelle domande senza risposta.

In questa svolta c’è l’insofferenza per ogni controllo, per qualsiasi critica, per qualunque spazio giornalistico d’indagine che sfugga al dominio proprietario o all’intimidazione di un potere che si concepisce come assoluto, e inattaccabile. Berlusconi, nel suo atto giudiziario contro Repubblica vuole infatti colpire e impedire anche la citazione in Italia delle inchieste dei giornali stranieri, in modo che il Paese resti all’oscuro e sotto controllo. Ognuno vede quanto sia debole un potere che ha paura delle domande, e pensa che basti tenere al buio i concittadini per farla franca.

Tutto questo – la richiesta agli imprenditori di non fare pubblicità sul nostro giornale, l’accusa di eversione, l’attacco ai "delinquenti", la causa alle domande – da parte di un premier che è anche editore, e che usa ogni mezzo contro la libertà di stampa, nel silenzio generale. Altro che calunnie: ormai, dovrebbe essere l’Italia a sentirsi vilipesa dai comportamenti di quest’uomo.

La menzogna come potere

di Giuseppe D’Avanzo

Avanzare delle domande a un uomo politico nell’Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un’offesa che esige un castigo? L’Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d’imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all’opinione pubblica. È interessante leggere, nell’atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del consiglio sono «retoriche, insinuanti, diffamatorie».

Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché «non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l’idea che la persona "interrogata" si rifiuti di rispondere». Sono diffamatorie perché attribuiscono «comportamenti incresciosi, mai tenuti» e inducono il lettore «a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti». Peraltro, «è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l’offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio "domande" non sono».

Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.

Non c’è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c’è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.

È utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. È Veronica Lario ad accusare Berlusconi di «frequentare minorenni». È Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l’Egoarca giura di aver incontrato la minorenne «soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori». Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell’autunno del 2008 guardandone un portfolio); l’ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009). La terza domanda chiede conto al presidente del consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano "papi". La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai "storia nota", ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità – un fatto – è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio. L’ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. È Berlusconi che annuncia in pubblico «un progetto eversivo» di questo giornale. È un fatto. È lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l’interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la "sovranità popolare"? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie. La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. È Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, «non sta bene». È un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.

Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi – anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri – una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. È un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l’interesse pubblico dell’affare è evidente.

Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l’opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all’ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un’opinione che già s’era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un’altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l’irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria. La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. È il paradigma di una macchina politica che intimorisce. È la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. È una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c’è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest’affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell’epoca dell’immagine, della Finktionpolitik? Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l’opinione pubblica italiana o il «carnevale permanente» l’ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un’informazione conformista. La questione è in fondo questa: l’opinione pubblica può fare delle domande al potere?

L'APPELLO DEI TRE GIURISTI

L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.

Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.

Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.

Franco Cordero, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky

Qui per firmare l'appello

La morte dei 73 eritrei ha evidenziato crudelmente una questione non nuova, ma che faticava a manifestarsi. Il tema dell’immigrazione costituisce una frattura profonda per le società contemporanee. Dunque, questa vicenda sembra poter rappresentare un punto di svolta. Sia chiaro: contrariamente a quanto si sente ripetere, l’immigrazione non è questione di solidarietà- i buoni sentimenti contrapposti al truce cattivismo della Lega -, bensì di economia e demografia, diritti e doveri, politiche pubbliche e strategie di inclusione, welfare universalistico e integrazione. Insomma, non è un problema di «generosità verso gli ultimi», bensì un fattore essenziale dei moderni sistemi di cittadinanza e un test cruciale per la qualità delle democrazie contemporanee.

Certo, è buona cosa che la Chiesa cattolica si sia mossa, e con tanta forza, in questa circostanza, ma è un errore pensare che la tutela dei diritti irrinunciabili della persona debba avere, di necessità, un’ispirazione religiosa. Quella tutela è, deve essere, fondamento di ogni politica democratica degna di questo nome. Dall’intransigente difesa di quei diritti discende la natura stessa dei regimi democratici: essa non può affidarsi alle virtù individuali e collettive (pure preziose), ma all’elaborazione di un sistema di garanzie che, quei diritti, renda esigibili ed effettivi. Per questo, la questione dell’immigrazione rappresenta davvero un discrimine che attraversa la società e il sistema politico.

Con l’introduzione del reato di clandestinità, il nostro ordinamento ha subito una lesione profonda come mai in passato: viene sanzionato non un comportamento criminale, bensì una condizione esistenziale. Si viene penalizzati per ciò che si è, non per ciò che si fa. Ma battersi contro questa mostruosità non è sufficiente, se non si hanno ben chiare le conseguenze di quella norma, nella vita sociale e nei livelli di tutela giuridica dei singoli e delle minoranze: ovvero il fatto che la società si organizza, di conseguenza, per selezionare, discriminare, sperequare tra chi è parte del sistema di cittadinanza, chi ne è fuori e chi (tantissimi) vive precariamente ai suoi margini, tra inclusione ed esclusione. Dunque, è tutta l’organizzazione sociale - l’idea e la struttura di comunità - che ne viene informata, intervenendo nei rapporti tra gruppi e classi, tra privilegiati e deprivati. L’atteggiamento verso gli immigrati e i profughi, cioè, condiziona profondamente la concezione dei diritti di cittadinanza per tutti e gli stessi connotati essenziali della vita democratica.

È probabile che oggi la maggior parte della società italiana esprima diffidenza, se non ostilità, verso le politiche di accoglienza-integrazione: non è una buona ragione per arrendersi. È fondamentale, certo, saper scegliere le parole e le politiche: ben venga il discorso profetico della Chiesa, ma a noi serve un altro linguaggio. Quello, appunto, dell’economia e della demografia, dei diritti e delle garanzie. E la capacità di far intendere che chiudere le frontiere, prima ancora che una manifestazione di egoismo, è segnale indubbio di autolesionismo.

la Repubblica

Pdl all´attacco di RaiTre spuntano Minoli e Mentana

Sotto tiro i programmi di Fazio, Dandini, Gabanelli

di Mauro Favale

ROMA - All´attacco di Raitre. Con l´obiettivo di ammorbidire l´unica rete Rai sgradita a Palazzo Chigi e mettere da parte Fabio Fazio, Luciana Litizzetto, Milena Gabanelli e Serena Dandini. Un disegno che prevede il cambio del direttore di Raitre Paolo Ruffini con Giovanni Minoli. Sembra questo l´obiettivo di Berlusconi e del direttore generale di Viale Mazzini Mauro Masi. Ed è ai «colpi di mano» che il Partito Democratico prova a trovare un argine.

Lo scontro al settimo piano di Viale Mazzini è aspro. Masi annuncia che le «nomine devono restare slegate dal congresso Pd», adombrando l´ipotesi che i "frenatori" al cambio dei vertici di Tg3 e RaiTre siano proprio i consiglieri di opposizione in Cda. Nino Rizzo Nervo e Giorgio Van Straten rigettano al mittente le accuse.

La quiete sulla Rai è durata il tempo di un temporale estivo. Nemmeno due settimane di tregua. E ora si ritorna a parlare di nomine in vista del prossimo Cda del 9 settembre. Obiettivi puntati sulla terza rete. Diretta da Paolo Ruffini dal 2002, aspramente criticata da Silvio Berlusconi nelle sue ultime uscite oggetto, pare, di un tentativo di "normalizzazione". Che il direttore generale proverebbe ad attuare portando in Cda un nome solo: Giovanni Minoli. Su di lui puntano Berlusconi e Masi. Ma il direttore di Rai Educational e Rai Storia, storico volto tv, ha una controindicazione di carattere anagrafico: è a otto mesi dalla pensione, visto che nel maggio del 2010 compie 65 anni. I più maliziosi, poi, ricordano le telefonate intercettate un anno fa ad Agostino Saccà che, da direttore di Rai Fiction, vicinissimo al Cavaliere, cercava di tessere una tela per portare Minoli alla direzione generale. Potrebbe passare dall´inventore di Mixer il ridimensionamento di "Report", "Che tempo che fa", "Parla con me"? Rizzo Nervo si guarda bene dal commentare quelli che definisce "nomi d´agosto". Però conferma: «Prima di qualsiasi cambio Masi ci deve dire esplicitamente che non ha intenzione di toccare né la satira né l´inchiesta di RaiTre. Se non ci dà questa garanzia ogni nome che propone diventa discutibile». Senza trascurare il fatto che, da sempre, le nomine per la Terza Rete, per consuetudine assegnate al centrosinistra, sono sempre state concordate.

La quadratura del cerchio, per il Pd, sarebbe mantenere Ruffini alla Rete e promuovere Bianca Berlinguer alla direzione del Tg3. Trovando una collocazione adeguata (probabilmente all´estero) per l´attuale direttore Antonio Di Bella. Proposte che il Pd afferma di aver avanzato al dg già prima della pausa estiva, per fugare i dubbi di voler attendere il congresso e i nuovi equilibri interni ai democratici. Masi, però, avrebbe detto di no, puntando ad un cambio di Ruffini e proponendo per l´attuale direttore di Rete una ricollocazione al Gr Parlamento. Una proposta definita dal Pd «indecente».

Il totonomine impazza e vedrebbe alla direzione del Tg3 anche Enrico Mentana o Barbara Palombelli. Il primo "epurato" da Canale 5 dopo aver denunciato che Mediaset era diventata «un comitato d´affari». La seconda è giornalista e scrittrice. La destra attacca parlando di «lottizzazione». Vincenzo Vita, Pd, membro della Commissione di Vigilanza risponde: «C´era una volta la lottizzazione. Ora, invece, c´è la berlusconizzazione della Rai». Con Di Pietro che accusa: «Ormai il servizio pubblico è una costola di Mediaset. Chiamiamola Raiset».

il manifesto

Raitre, il Cavaliere tenta il «filotto»

di Micaela Bongi

Il colpo di mano non sarà facilissimo né, eventualmente, immediato. Ma ormai l'allarme per le sorti del Tg3 e di Raitre è scattato. Il sogno proibito di Silvio Berlusconi - «normalizzare» il terzo canale - potrebbe diventare realtà, anche grazie alla battaglia intorno alla «riserva indiana» dell'attuale opposizione aperta tra le varie anime del Pd.

Nel partito si esclude che qualcuno - in particolare il segretario Dario Franceschini che puntava a mantenere l'attuale assetto - abbia chiesto, all'inizio dell'estate, il rinvio delle decisioni a dopo il congresso di ottobre. Più difficile negare che su chi dovrà dirigere la rete e la testata le opinioni nei democrat siano piuttosto diverse, soprattutto per quanto riguarda la prima, guidata ora dal cattolico Paolo Ruffini. E' un fatto che, dopo un tira e molla, per Tg3 e Raitre il rinvio all'autunno è stato deciso, complici anche le divisioni nella maggioranza su chi, tra Alberto Maccari, area pidiellina forzista, e Alessandro Casarini, leghista, dovrà dirigere la testata regionale. E nella polemica agostana sull'incertezza per le sorti del terzo canale - polemica rilanciata con forza domenica dal Corriere della sera - il Pdl si inserisce a gamba tesa, cercando e a quanto pare trovando sponda anche in pezzi di Partito democratico per procedere alla sostituzione di Ruffini e Antonio Di Bella, attuale direttore del tg.

E così ieri tra viale Mazzini e le location estive dei partiti risuonava il tam tam: per Raitre è pronta la nomina di Giovanni Minoli, mentre a dirigere il tg potrebbe arrivare Enrico Mentana. Decisa anche la sostituzioni di Corradino Mineo, direttore di Rainews 24, con il berlusconiano di provata fede (la dimostrò quando conduceva Punto e a capo su Raidue) Giovanni Masotti.

Delle tre ipotesi, la meno probabile sembra quella di Mentana, licenziato bruscamente da Mediaset, ma al quale Berlusconi, durante i festeggiamenti del 2 giugno al Quirinale, aveva pubblicamente lanciato segnali distensivi con un «coraggio, incontriamoci presto».

Al di là dei nomi, il comitato di redazione del Tg3 è già sulle barricate contro le «scelte liquidatorie del ruolo della testata nel sistema informativo italiano». I giornalisti chiedono ai sindacati Usigrai e Fnsi di continuare a vigilare, opponendo a chi trova il Tg3 «deviato» (il Cavaliere) o «noioso» (Aldo Grasso sul Corriere della sera), il successo in termini di ascolti e gradimento. Ma il cdr respinge anche «il principio che qualsiasi nomina debba dipendere dall'esito di un congresso». Per concludere: «Noi continueremo a fare il nostro lavoro senza accettare colpi di mano». L'Usigrai, il sindacato dei giornalisti della tv pubblica, risponde a stretto giro: il segretario Carlo Verna si dice d'accordo con il vicepresidente della commissione di vigilanza Giorgio Merlo, Pd, che chiede ai vertici Rai di prendere subito una decisione all'unanimità. Ma Verna chiede anche perché si dovrebbero sostituire direttori con ascolti in crescita. E il segretario della Federazione della stampa, Roberto Natale, chiede ai vertici di viale Mazzini di stoppare il «turbinio di chiacchiere».

Sulla possibilità di conquistare e smantellare l'ex Telekabul Berlusconi probabilmente scommette poco. Sulla rete l'offensiva sembrerebbe più decisa. I programmi e i conduttori di Raitre, da Milena Gabanelli a Giovanni Floris a Serena Dandini a Fabio Fazio, ma anche Federica Sciarelli con Chi l'ha visto, sono tutti finiti nel mirino di governo e maggioranza. E da tempo Sua emittenza accarezza l'ipotesi di una nomina «bipartisan», che insomma non sia platealmente berlusconiana ma nemmeno da lui ritenuta ostile. Il nome di Minoli era circolato già in passato. Tra l'altro l'attuale direttore di Raieducational aveva difeso l'ex responsabile di Raifiction Agostino Saccà ai tempi dello scandalo delle sue telefonate con il Cavaliere.

Ma in pista non c'è solo Minoli. L'altro nome che torna in circolazione con insistenza e con il quale il premier punta a sparigliare anche nel Pd, è quello di Barbara Palombelli.

L'allarme è così scattato nello stesso Partito democratico. «Compiuta la prima parte dello scempio - denuncia Vincenzo Vita - pare chiara la voglia matta di chiudere l'esperienza di Raitre e Tg3 e forse di Rainews. Battiamoci tutti contro i colpi di mano assestati e quelli in fieri».

PADOVA - Il muro di via Anelli, la recinzione antispaccio costruita a Padova, «non serve più» e se non fosse per il costo dell´eliminazione il Comune potrebbe toglierlo. È l´annuncio fatto dal sindaco di Padova Flavio Zanonato ospite, insieme a Don Mazzi, di un dibattito sulla sicurezza alla Festa nazionale del Pd di Genova. «Il muro, che in realtà è lamiera non serve più a niente. Non l´ho tolto perché costa soldi», ha detto Zanonato rivendicando la funzione del muro antispaccio e spiegando che ormai è inutile perché «le 250 famiglie di immigrati sono state trasferite da tuguri a case decenti».

Mafia, l’ira dei prefetti sul caso Fondi:

senza precedenti il no allo scioglimento

di Claudia Fusani

Un caso unico nella storia. La legge sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni è del luglio 1991 e in diciotto anni di vita mai era successo che la Presidenza del Consiglio respingesse la richiesta del ministro dell’Interno di sciogliere l’ente sotto inchiesta. Succede oggi, con il comune di Fondi. Una prima volta che arriva quasi a mettere in mora i responsabili politici e tecnici della sicurezza, dal prefetto di Latina Bruno Frattasi che chiede il commissariamento del comune dal settembre 2008 al ministro dell’Interno Roberto Maroni che ha presentato la stessa richiesta a febbraio scorso. In mezzo ci sono le inchieste della magistratura, arresti e indagini che raccontano un comitato d’affari di camorra, ‘ndrangheta, imprenditori e politici locali.

La battaglia del Pd

Una situazione gravissima, denunciata dal Pd (che in Commissione antimafia ne fa una battaglia da mesi), Idv e dalla stessa maggioranza. «In tanti anni non ho mai visto una situazione del genere» attacca Angela Napoli (Pdl), membro della Commissione Antimafia. L’eurodeputato Luigi De Magistris (Idv) vuole organizzare «una grande mobilitazione proprio davanti al mercato ortofrutticolo di Fondi», la vera calamita degli appetiti dei clan. Si muovono anche i prefetti, categoria per solito molto cauta a prendere posizione pubblicamente. Prima il piccolo Unadir, poi il Sinpref (Associazione sindacale dei funzionari prefettizi), sigla assai rappresentativa a cui non è piaciuto affatto l’intervento del presidente del Consiglio che il giorno di Ferragosto, mettendo in un angolo mesi di lavoro del prefetto e del ministro, ha detto che Fondi non sarà sciolta «perchè non ci sono indagati tra i membri della giunta e del consiglio comunale».

Una clamorosa inesattezza visto che il 6 luglio sono stati arrestati, tra gli altri, un ex assessore, il direttore dei Lavori pubblici, delle Attività produttive e del Bilancio, il comandante dei vigili e il suo vice. «Noi vogliamo prima di tutto ribadire la nostra vicinanza e solidarietà al prefetto Frattasi - spiega al telefono il segretario del Sinpref Giuseppe Forlani - e poi rimarcare stupore e preoccupazione per questo ennesimo rinvio». Molto attenti alla scelta delle parole, i prefetti però denunciano in un comunicato dell’8 agosto che «mai prima d’ora lo scioglimento di un ente locale era stato rinviato per motivi tecnico-giuridici o comunque attinenti al merito della proposta fondata su elementi di fatto già rigorosamente accertati e documentati dal prefetto». Significa che mai prima d’ora era stato messo in dubbio il lavoro di indagine di un prefetto. O di un ministro. Cosa che succede invece per Fondi visto che Frattasi prima e Maroni poi hanno entrambi chiesto, senza ottenerlo, lo scioglimento del Comune per infiltrazione mafiosa. Attenzione, scrivono ancora i prefetti, si rischia di indebolire la lotta alle mafie: «Altre ragioni - si legge nel comunicato del Sinpref - devono restare estranee alla conclusione di una procedura essenziale nell’azione tenace e continua contro l’infiltrazione mafiosa nelle pubbliche amministrazioni, vero cancro della legalità e della democrazia».

Governo sotto pressione

Una protesta con molti fronti, a cui si aggiungono associazioni come Libera e Legaambiente, E che mette sotto pressione Palazzo Chigi in serata costretto a promettere: «Il caso Fondi sarà presto in consiglio dei ministri, il tempo di adeguare il dossier alle nuove procedure».

Gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Interno, aggiornati al 2008, dicono che dal 1991 sono stati 185 i decreti di scioglimento tra cui due Asl e un’azienda provinciale sanitaria. Con i decreti di quest’anno si fa in fretta ad arrivare a 200 scioglimenti. Curiosità: il 24 luglio il Consiglio dei ministri ha sciolto i comuni di Fabrizia e Vallelunga. Le regole sono uguali per tutti. Tranne che per Fondi.

La Fondi-connection: Asl, voti e ’ndrine all’ombra del Pdl

di Enrico Fierro

Nell’inchiesta scoperchiato il sistema: coinvolti il sindaco e altri funzionari. Nulla si muove che non voglia il senatore Fazzone, vero «re» della zona con una dote di 50mila schede elettorali. E il Comune «si salva»

Il Comune non si scioglie. Qui la mafia comanda, prende appalti, fa i soldi a palate, ha buoni amici dentro l’amministrazione comunale, ma il Comune non si scioglie. Carabinieri, questori e prefetti, vadano a farsi benedire con le loro inchieste e le loro scartoffie. Non si scioglie. Perché comanda la politica, l’ultima parola spetta a chi tiene i voti. E Claudio Fazzone i voti li produce a palate. 50mila per la precisione, percentuali bulgare a Latina, Fondi e dintorni. Tutti per Silvio Berlusconi, tantissimi da mettere la mordacchia anche al ministro Maroni. Ne ha fatta di strada l’ex appuntato della Ps. Sveglio da sempre, da quando indossava la divisa e entrò nelle grazie di Nicola Mancino quando l’attuale numero due del Csm era ministro dell’Interno. Autista, guardaspalle, uomo di fiducia, ma soprattutto intelligente galoppino elettorale della Dc. Ambizioni stratosferiche. Uomo dal fiuto politico sopraffino, l’ex appuntato capisce che la Dc è al tramonto e salta sul band wagon di Berlusconi. Anni di gavetta, poi l’elezione a consigliere regionale con la giunta Storace. Un mare di voti e la conquista dello scranno di presidente dell’assemblea. Fazzone costruisce una poderosa macchina clientelare. «Caro Benito ti segnalo... ». Era questo l’incipit che apriva tutte le lettere destinate al direttore della Asl di Latina. Decine di assunti, famiglie sistemate. Voti. L’elezione a senatore è scontata, il potere pure. Quando Berlusconi afferma che Fondi non si scioglie perché alcuni ministri gli hanno detto che nessun membro della giunta o del consiglio è stato raggiunto da avvisi di garanzia, non fa nomi. Ma a Fondi e Latina tutti sanno chi protegge Fazzone. Giorgia Meloni, Renato Brunetta, Maurizio Sacconi. Tutti in qualche modo legati al Sud Pontino. E tutti in buoni rapporti col padrone dei voti e dei seggi in questa parte del Lazio.

Dove imperano i fratelli Tripodo, Venanzio e Carmelo, uomini della ’ndrangheta calabrese. I loro legami con la politica sono riassunti in un dossier che fa tremare Fazzone e il suo sistema. 500 pagine e 9 faldoni. C’è tutto. Il tenente dei carabinieri Mario Giacona ha dettagliato i rapporti tra i Tripodo, la famiglia Trani e Peppe Franco. Il quale, secondo alcuni pentiti sentiti nel processo «Anni 90», mise a disposizione di Venanzio Tripodo i suoi mezzi di trasporto per consegnare armi al clan camorristico dei casalesi. «Peppe Franco – nota l’ufficiale dei carabinieri – è cugino di primo grado del sindaco di Fondi Luigi Parisella, suo fratello Luigi è socio in affari sia con il sindaco che con il senatore Fazzone nella gestione della Silo srl, società titolare di un capannone sito in località Pantanelle». Un struttura destinata alla lavorazione di frutta e ortaggi, che ha incassato contributi pubblici per oltre 2 miliardi di vecchie lirette. «Tuttavia – scrive sconsolato l’ufficiale dei Cc – questa attività non è mai iniziata, mentre l’area su cui sorge il capannone inutilizzato è stata interessata ad una variante al Piano regolatore generale approvata tra il 2002 e il 2004 che ha determinato un forte incremento delle infrastrutture viarie». Ma non è finita qui. Perché «l’ex autista di Carmelo Tripodo, Pasqualino Rega, è consigliere comunale a Fondi». I due sono stati indagati per reati contro il patrimonio, «attualmente il procedimento pende in fase dibattimentale». Rega ha ottenuto una palestra in affitto dal Comune. «La cosa singolare – mettono a verbale i Cc – è che lui se ne infischia di pagare il canone. È moroso da anni e il Comune non lo sfratta, anzi ha elargito sovvenzioni per alcune decine di migliaia di euro all’associazione Olimpica 92 dello stesso Rega». Un altro consigliere comunale di Fondi, Antonio Ciccarelli, eletto in Forza Italia e poi dimessosi, per i carabinieri «è sicuramente collegato alla criminalità calabrese, posto che lo stesso è stato arrestato unitamente a Salvatore Larosa, esponente del clan Bellocco-Pesce di Rosarno, insediato da anni anche lui a Fondi».

C’è un clima da Giorno della civetta a Fondi, il comune che non si deve sciogliere. Le note del tenente Mario Giacona sono tristi come quelle del capitano Bellodi di Sciascia. «Tutto questo intrecciarsi di rapporti familiari, economici e criminali, ha sicuramente condizionato l’attività amministrativa del Comune. L’amministrazione, dopo aver stabilito in modo francamente irrazionale di destinare l’area denominata Pantanelle (un pantano, appunto) ad area industriale – con la conseguenza che per costruire insediamenti produttivi sono necessarie spese di palificazione e bonifica sicuramente più rilevanti che in aree asciutte – ha poi previsto la costruzione di una grossa strada che sostanzialmente è al servizio della Silo srl». La società del senatore Fazzone, del sindaco e di suo cugino, fratello di uno che aveva legami strettissimi con i Tripodo. La mafia e gli imprenditori amici degli amici hanno sempre spadroneggiato a Fondi. Una sola società di Carmelo Tripodo, la «Lazio Net Service», ha ottenuto dal Comune 105mila euro dal 2003 al 2007. Grandi affari a Fondi, il Comune del senatore Claudio Fazzone, l’amico dei ministri. Quelli che...a Fondi la mafia non esiste.

La «guerra santa» del collega Ciarrapico

contro il nuovo ras

di Claudia Fusani

Il senatore scatenato per contrastare l’ascesa del rivale in quello

che è sempre stato il «suo» regno: interrogazioni parlamentari

e giornali sguinzagliati a denunciare il metodo-Fazzone

Una volta era il feudo del ras delle acque minerali, uomo d’affari della Dc andreottiana e nostalgico del Duce. Oggi è il territorio di un giovane senatore ex poliziotto, ciuffo sbarazzino, fedelissimo di Nicola Mancino e con un passato «nei ruoli della Presidenza del Consiglio». Giuseppe Ciarrapico e Claudio Fazzone: in realtà dietro il caso di Fondi, comune dell’agropontino infiltrato dalla mafia che il governo non vuole sciogliere, c’è uno scontro all’arma bianca tra anime diverse del Pdl. Uno scontro senza esclusione di colpi e in cui il gioco dei ruoli consegna proprio al Ciarra il compito di essere il più determinato accusatore di una presunta «malapolitica» di Fazzone. Sul piatto interessi economici e il controllo di un bacino di decine di migliaia di voti.

L’intramontabile e proteiforme Ciarrapico, da qualche anno anche prolifico editore, diventa senatore nel 2008 tra mille polemiche, rinnegando Fini, ma non la fede fascista, protetto da Silvio Berlusconi in persona. Dal 2006, però, l’anima destrorsa dell’agro pontino ha già un suo legale rappresentante: Claudio Fazzone, 48 anni, «cavallo di razza» - dicono - e astro nascente di Forza Italia. Un fenomeno, questo Fazzone: dal nulla, era un poliziotto seppur dalle ottime conoscenze, nel 2000 si candida alle regionali e tira su 27 mila voti. È il più votato d’Italia, dopo Berlusconi. Record bissato nel 2005 con 38 mila preferenze. Accade così dal 2008 i due, il Ciarra e l’ex sbirro, ingaggiano una battaglia che quasi quotidianamente attraversa l’aula del Senato e quelle dei tribunali. Se Fazzone ha presentato qualcosa come quaranta querele per diffamazione contro Ciarrapico, quest’ultimo ha scatenato i suoi giornali (una dozzina di testate tra la Ciociaria e Latina) per raccontare le malefatte vere o presunte di Fazzone & c, dal sindaco di Fondi Luigi Parisella al presidente della Provincia Armando Cusani, appalti truccati, tangenti, abusi edilizi, raccomandazioni, e chi più ne ha più ne metta. Latina oggi e Fondi News sono stati i più solerti e puntuali nello spiegare i passaggi delle inchieste giudiziarie che hanno portato l’amministrazione Fondi, tutti uomini di Fazzone, a un passo dallo scioglimento.

Non se ne sono risparmiata mezza, in questi anni. Il 17 giugno, per dirne una, mentre palazzo Chigi ha già da mesi sul tavolo la richiesta di scioglimento, Ciarrapico interroga il governo «sull’ennesima dimostrazione di cosa accade nell’allegro consiglio comunale di Fondi dove vengono assunti 5 giocatori di calcio arruolati nel “Football club Fondi”».

Appena mette piede in Senato (luglio 2008) il Ciarra presenta un’interpellanza contro il procuratore di Latina Giuseppe Mancini per la vicenda, tre le altre, del campeggio Holiday village «sequestrato per lottizzazzione abusiva e dissequestrato dopo l’inopportuno intervento di Fazzone presso l’ufficio dl giudice». Sempre Fazzone, secondo Latina oggi, salì al Viminale nell’autunno scorso appena arrivò la richiesta di scioglimento di Fondi da parte del prefetto Frattasi. In un modo o nell’altro, quella relazione fu congelata dal ministro Maroni che ne ordinò un approfondimento (giunto poi alle stesse conclusioni). Un dito nell’occhio, il Ciarra. E difatti Fazzone, un mese fa, ne ha chiesto «l’espulsione dal partito».

Vedi anche l'Unità del 5 agosto 2009

Con un'impegnata intervista al Corriere Maurizio Sacconi lancia la campagna d'autunno del governo. Il ministro del welfare disegna il suo modello sociale che propone ai colleghi di esecutivo e ai sindacati «complici», firmatari dell'accordo sulla (contro)riforma dei contratti. Infine, invia un messaggio ultimativo alla Cgil.

Di che modello sociale si tratta? Dalle parole del ministro emerge un sistema di relazioni incentrate sull'esaltazione della competitività e sulla liquidazione di ogni forma di solidarietà generale tra i lavoratori e tra le generazioni. Primo, si ribadisce lo svuotamento dei contratti nazionali di categoria, rinviando ogni forma di simulata contrattazione al secondo livello. Secondo livello che - sotto i colpi della crisi, in un paese segnato dalla frantumazione del sistema industriale in piccole e piccolissime aziende e con un Mezzogiorno in cui i contratti aziendali sono inesistenti - è solo un lusso per pochi. Secondo, con una truffaldina mossa del cavallo il ministro boccia le gabbie salariali di Bossi (tanto ci sono già, sia per i lavoratori che per i pensionati) ma le ripropone in termini, se possibile, ancor peggiori: salari differenziati decentrando i contratti, definiti dalle parti sociali sulla base del costo della vita e della produttività. Siccome, dice Sacconi, non siamo tutti uguali, bisogna differenziare, cioè dividere. Terzo, che ne facciamo di chi resta indietro, di chi perde il lavoro o guadagna poco perché è meno «competitivo», di chi non ha accesso a sostegni e solidarietà? Presto detto: garantiamo a questi pezzenti un welfare caritatevole basato sul «dono», fino a usare il termine stesso di «carità». Si chiama sussidiarietà per nascondere un progetto fondato sullo svuotamento del welfare pubblico, sostituito da assicurazioni private (contrattate tra le parti sociali complici) su salute e previdenza, accompagnate o sostituite da donazioni caritatevoli da parte di chi più ha. Una strage dei diritti, sostituiti dalle donazioni dei ricchi di buona volontà. Le disuguaglianze non sono un effetto collaterale delle politiche economiche, ne sono un elemento costitutivo.

Sacconi ha origini socialiste, pensa di essere di sinistra e ha a cuore bisogni e tutele dei meno fortunati. Dice che il suo governo metterà al centro il «capitale umano». Come? Difendendo il valore della vita. Ed eccoci alla bioetica e all'etica senza bio, con cui Sacconi, dopo essersi presentato come mediatore tra la Lega e le parti sociali amiche, tenta di lusingare le gerarchie vaticane. Fino a pretendere, sempre in difesa della vita, l'alimentazione forzata.

Sacconi ha già raccolto gli applausi di due sindacati su tre. La Cgil si accomodi, o tolga il disturbo. Non è solo un modello sindacale in gioco ma quel che resta della nostra storia sociale, politica e culturale. Riguarda tutti e chiede una risposta forte, all'altezza della campagna d'autunno del governo.

La prima reazione del governo italiano alla morte di 73 cittadini eritrei nel Canale di Sicilia è stata di fastidio e incredulità. Per bocca del suo ministro dell’Interno, che si è ben guardato dall’esprimere cordoglio e pietà, si è gettato discredito sul racconto dei cinque sopravvissuti. Sopravvissuti che – non fossero apparsi in pericolo di vita – sarebbero stati quasi certamente respinti, nonostante il diritto internazionale assegni loro lo status di rifugiati politici. I notiziari televisivi hanno fatto da cassa di risonanza a tale ignominia, lasciando sottintendere l’insinuazione che i disperati giunti a Lampedusa dopo aver visto morire di stenti i loro congiunti, potessero avere chissà quale interesse a mentire.

Sul piano morale, una tale prova di cinismo nei confronti di vittime inermi, che non ha precedenti nella storia repubblicana, giustifica il paragone avanzato ieri da Marina Corradi su Avvenire: evoca cioè l’indifferenza di tanti europei, 65 anni fa, di fronte alla discriminazione e alla deportazione degli ebrei considerati untermensch, sottouomini. Pure allora una martellante propaganda sollecitava a distinguere fra vite degne e vite indegne.

La pietà, come la bontà, è tornata a essere, nella propaganda governativa, un lusso che non ci potremmo permettere. Il dovere assoluto del soccorso in mare rischia di procurare a chi vi ottemperi accuse di favoreggiamento del reato di immigrazione illegale. Le motovedette della Guardia di Finanza hanno ricevuto l’ordine di procedere in mezzo al mare, frettolosamente, alla selezione degli stranieri dei paesi in guerra, titolati a richiedere asilo; anche se è palese l’impossibilità di condurre a bordo le indagini accurate che sarebbero obbligatorie.

Così lo scandalo del prolungato omesso soccorso in mare, denunciato dai pochi superstiti di un’odissea lunga venti giorni, ha trovato legittimazione postuma nell’insensibilità conclamata del ministro Maroni. Assistiamo a un abbrutimento delle coscienze che produce un guasto di civiltà e disonora chi l’ha perseguito. Non è solo la dottrina evangelica a uscirne calpestata, come denuncia la Conferenza episcopale italiana, ma il più elementare senso di umanità.

Da mesi assistiamo allo spettacolo di esponenti politici che esultano per i respingimenti, quasi che ci liberassimo di scorie tossiche e non di persone bisognose. Quando un partito di governo come la Lega diffonde su Facebook un gioco di società intitolato "Rimbalza il clandestino", festeggiando col suono di un campanello la sparizione di ogni barca di migranti, vuol dire che la velenosa ideologia dell’untermensch è di nuovo entrata a far parte del nostro senso comune.

La viltà di tale comportamento è suggellata dallo scaricabarile delle colpe su di una nazione infinitamente più piccola e meno attrezzata della nostra, qual è Malta. Crediamo forse di lavarci la coscienza addossando su la Valletta la responsabilità dei soccorsi? O non stiamo piuttosto assistendo a una lugubre replica della favola del lupo e dell’agnello?

La Libia sta giocando spregiudicatamente con la vita di migliaia di persone e con le aspettative politiche mirabolanti del governo italiano. I migranti vengono trattenuti per mesi nei suoi campi di lavoro e di prigionia; vengono sfruttati con la promessa di guadagnarsi i soldi necessari a salpare verso la sponda nord; e ora vengono di nuovo mandati allo sbaraglio in mare: perché ogni tanto bisogna pur saziare l’avidità dei trafficanti che godono di protezione all’interno del regime corrotto di Tripoli.

Rivelando che fra il 1 giugno e il 20 agosto 2009 le nostre motovedette hanno effettuato 13 interventi, prestando soccorso a 420 profughi del mare, il Viminale riconosce implicitamente che l’accordo bilaterale con la Libia, spacciato sui mass media di regime come risolutivo, è invece un colabrodo. Invece di rifugiarsi dietro al mancato sos di un gommone con 78 persone a bordo prive di strumenti di comunicazione, il ministro Maroni farebbe meglio a chiedere scusa alle persone di cui ha messo in dubbio la parola. Commettendo una bassezza morale.

Per mesi egli ha cercato di darci a bere un’altra favola, secondo cui sarebbe possibile fermare un esodo biblico dall’Africa all’Europa rinforzando la marina militare di Gheddafi. Come se potessimo ignorare che gli affamati nel mondo sono 1 miliardo e 20 milioni di persone, 100 milioni in più del 2008 (stima Fao del 19 giugno). Di questi affamati, 265 milioni vivono nell’Africa subsahariana, 42 milioni nel Vicino Oriente e nell’Africa del nord. Di fronte a una tragedia di tale portata, l’Italia ha finora reagito tagliando i fondi per la cooperazione allo sviluppo e disinteressandosi al rispetto dei diritti umani concernenti le persone che respinge.

Può capitare che per fare buoni affari petroliferi i nostri manager corrompano dei funzionari governativi, come in Nigeria; o che il fior fiore della nostra imprenditoria vada a rendere omaggio a Gheddafi sotto la tenda che un governo compiacente gli ha lasciato piantare nel parco di Villa Pamphili a Roma. Ma di progetti per lo sviluppo, per combattere la fame e le malattie, ci si riempie la bocca solo di fronte alle telecamere del G8, salvo poi dimenticarsene. Perché una cultura miope e razzista trova più conveniente assecondare l’istinto popolare. Si prendono più voti dicendo che abbiamo già troppi problemi noi per poterci interessare ai problemi di persone talmente disperate e diverse da apparirci minacciose.

Il Senatur e Tremonti hanno fatto l'uovo

di Enrico Pugliese

Tra le esternazioni estive dell'on Bossi, quella relativa al recupero produttivo di terreni agricoli male utilizzati affidandoli a giovani imprenditori appare come una delle più sensate. E il coro di apprezzamenti è stato vasto e unanime: ha visto, oltre che la Confidustria, anche il principale giornale di opposizione al governo, la Repubblica. Sulle pagine di quel giornale (rispettivamente lunedì 17 e martedì 18) un amichevole duetto di Carlo Petrini di Slow Food e del ministro dell'agricoltura Zaia esponente della Lega, ha mostrato i grandi vantaggi, le prospettive e - perché no? - i rischi connessi all'inziativa. Con chiaro e netto orientamento di classe, Petrini ha raccomandato con enfasi, tra l'altro, di semplificare la modulistica necessaria per accedere ai benefici dell'iniziativa. Insomma, l'idea è buona, si tratta gestirla al meglio. E il ministro ha prontamente ringraziato

D'altra parte la proposta di Bossi è un po' come l'uovo di Colombo: ci sono le terre male utilizzate, ci sono i giovani pronti a farle fruttare con grande risparmio per lo stato, allora perché non dare ai giovani una opportunità? Poi si tratta di terre demaniali: un anacronismo. O no?

Forse no. Pur riconoscendo un certo radicamento populista (che poi è l'altra faccia della xenofobia) della Lega, a me la cosa puzza un po' di bruciato. È dall'epoca delle ultime leggi eversive della feudalità (un paio di secoli addietro) che le terre demaniali hanno fatto gola ai privati, i quali in generale se ne sono appropriati con la frode o con la violenza. Lo stesso è avvenuto con i beni della mano morta espropriati a ordini religiosi e diventati di proprietà pubblica dopo l'Unità d'Italia.

Le terre dello stato e dei demani comunali se le sono accaparrate prima i galantuomini, poi, quando hanno potuto, anche strati piccolo borghesi. E a volte ce l'ha fatta pure qualche contadino ricco. Ricordo da ragazzo «le terre della comuna» a Montalto delle quali si era appropriato uno che di soprannome veniva detto 'U jngu' (il giovane toro) o, forse, i suoi antenati. Ora a privatizzare i beni pubblici ci pensano Bossi, Zaia e Tremonti.

Questa storica ingiustizia di classe, questa usurpazione, fu oggetto di lotta e di una polemica della sinistra (e nella sinistra). Era un chiodo fisso di Paolo Cinanni che ancora negli anni settanta pubblicava un libro importante per spiegare l'attualità del problema e l'esigenza di intervento dello stato. Non se ne fece nulla. Alle terre usurpate (questo è il termine tecnico) si aggiungono quelle ancora di effettiva proprietà demaniale, ma che sono già in mano a privati con vecchi contratti di affitto a canori irrisori per pascoli che in realtà sono sterminate stalle per bufale all'aperto dove il mangime (prodotto nelle produzioni estensive di mais e cereali) viene portato giornalmente a tonnellate. E si tratta di allevatori vecchi e giovani.

La questione delle terre demaniali venne portata all'attenzione del pubblico e della politica negli anni Settanta dal movimento di lotta per l'occupazione giovanile. Con la loro carica di illusioni e di speranze i giovani alla ricerca di un lavoro (e di un lavoro possibilmente diverso) costruirono cooperative, occuparono terre e le ebbero in concessione, ne presero anche in affitto e tentarono di viverci lavorando etc. Non andò benissimo. Ma fu un movimento importante e qualcuno imparò un mestiere Non è qui il caso di parlarne, salvo per ricordare che allora erano i giovani e non i ministri a chiedere che le terre, pubbliche e private, incolte o malcoltivate, venissero messe a profitto.

L'on Bossi ha parlato anche di spreco del danaro pubblico. E a ragione. Ma questo, per quel che ne so, riguarda soprattutto le grandi aziende private. Nel perverso meccanismo di sostegno alle aziende agricole si possono ricevere (e si ricevono) in maniera del tutto legale contributi per terreni che non si coltivano affatto.

È là che sta il vero spreco. C'è una spinta alla concentrazione che riguarda in maniera particolare le aziende zootecniche, che è l'effetto della PAC, della politica agricola comunitaria spesso sostenuta nei suoi aspetti peggiori dall'Italia. I compagni di Piadena hanno parlato sul manifesto degli orrori della produzione zootecnica su vasta scala e dei disastri ambientali che ad essa spesso si accompagnano. Queste problematiche non sono entrate affatto nel dibattito di questi giorni.

Eppure si sono sprecati paroloni. Federico Orlando alla lettura commento dei giornali su Rai Tre ha parlato di Riforma Agraria. A sinistra si è pensato che per una volta Bossi ha preso una iniziativa che avremmo dovuto prendere noi. Ma non è proprio così. Nel vuoto politico lasciato dalla crisi delle tradizionali organizzazioni degli agricoltori (a partire dal poderoso blocco di potere rappresentato dall'intreccio DC-Coldiretti) è facile inserirsi con proposte populiste e corporative. Ma non so ora i contadini poveri part-time, i semi-proletari agricoli (come si diceva una volta), del Mezzogiorno ( e non solo del Mezzogiorno) avranno nulla da guadagnare dalla proposta di Bossi. E comunque non sembrano esserne al corrente. Con buona pace di Federico Orlando, alla base delle riforme agrarie ci sono le mobilitazioni dei contadini, non le trovate dei ministri.

A rifletterci, più che di un uovo di Colombo forse si tratta di un uovo di Tremonti, come la proposta della privatizzazione delle spiagge.

«Terra e illibertà»

di Tommaso Di Francesco

Antonio Onorati «Problema vero, ma la Lega pensa solo al Nord. E sbaglia sul demanio»

Ad Antonio Onorati, esperto di politiche agricole internazionali - è stato docente universitario presso l'Instituto agronomico d'Algeri e segretario generale del «Comitato italiano per la Fao», e inoltre lui stesso agricoltore, abbiamo rivolto alcune domande sulla cosiddetta «provocazione» estiva di Bossi che in realtà rivela un terreno di intervento specifico del governo che già prevede in finanziaria la voce «terra ai giovani» e un «militante» già schierato nel ministro leghista dell'agricoltura Zaia, pronto a veicolare verso l'agricoltura del Nord i fondi interfnazionali dell'Unione europea previsti allo scopo. Il tutto sempre dentro una ideologia da piccola patria padana ma dentro una sorta di «rimascimento agricolo», per un nuovo «comunitarismo socialisteggiante e prealpino» in difesa e a protezione dei settori sociali sconvolti dai processi della globalizzazione.

Come rispondi alla proposta di Bossi di dare le «terre demaniali ai giovani» e a quella del suo ministro Zaia che lancia il «Rinascimento agricolo»?

Di certo non possono essere considerate alla stregua degli altri «lanci estivi» perché la Lega, con capacità, identifica un problema - quello della crisi dell'agricoltura nazionale ­ e lo riconduce ad un'area di privilegio e consenso e lo trasforma in programma politico. In agricoltura questo è più facile visto che la sinistra, cosiddetta, da oltre un ventennio insegue l'idea che l'agricoltura è un problema e non una risorsa per il paese. In Italia, come in gran parte dei paesi europei, l'accesso alla terra per i contadini è di fatto impossibile e dagli anni novanta in poi assistiamo ad un processo tremendo di espulsione dalla terra con una enorme riduzione del numero delle aziende e del numero degli addetti.(cfr. « Un'agricoltura senza agricoltori»). Con il risultato di una forte concentrazione delle terre agricole in un numero ristretto di aziende. In Italia le aziende con taglia superiore ai 50 ettari coltivano il 40% delle terre ma sono solo il 2,38% delle aziende. Le aziende con taglia inferiore ai 5 ettari coltivano il 15,6% della SAU ma sono il 77.4% del numero totale delle aziende. Le aziende con taglia inferiore ai 2 ettari coltivano solo il 6% della terra e rappresentano la metà del numero totale delle aziende. Con queste dimensioni nessun giovane può iniziare un'attività agricola anche perché esiste un doppio mercato della terra, un falso prezzo «agricolo» ed un vero prezzo, in media 10 volte superiore, di vendita. Per effetto dell'accaparramento di una parte consistente del supporto della Unione Europea (PAC), per l'acquisizione di terreni da parte delle aziende agricole o da parte di investitori extrasettore che era avvenuta a partire dal 2000, non deve sorprendere se «...la crescita maggiore (della dimensione economica) si verifica nelle regioni del Nord (+20,3%), seguite da quelle del Mezzogiorno (+9,3%) e del Centro (+7,7%)». Confermando così il detto «piove sul bagnato», poiché le regioni del Nord stanno trascinando verso di sé - producendo così un forte processo di concentrazione - alcune delle attività agricole con maggior valore (allevamenti ) e di più semplice industrializzazione, senza peraltro arrestare la forte mortalità delle aziende. Infatti ad oggi la creazione di nuove aziende agricole ­ forse non piacerà al ministro Zaia - è un fenomeno scarsamente significativo nel centro e nord Italia, mentre è molto forte nel Mezzogiorno, a testimonianza che in quella parte d'Italia l'attività agricola continua ad esercitare una forte funzione sociale (occupazione e reddito) e che il modello agricolo lì perseguito ha degli elementi di originalità rispetto al resto del paese, elementi che andrebbero compresi a fondo.

Ma se non si vuol mettere mano ai processi di concentrazione delle buone terre in poche aziende di grandi dimensioni sempre più industrializzate, perché si promettono ai giovani che vogliono tornare in agricoltura le terre demaniali? Che terre sono?

Intanto si sa che terre sono e non c'è bisogno di fare una nuova indagine, basta prendere il censimento dell'agricoltura, comune per comune, e rilevare la voce «forme giuridiche - Ente pubblico ­ Stato, regione, provincia, comune e comunità montana». Una parte di queste terre sono coperte da diritti di uso civico che fino ad oggi ­ con grande difficoltà ­ ne hanno preservato l'uso agricolo (spesso per allevamenti bradi), un'altra parte sono di scarsa o cattiva qualità agricola, una parte effettivamente possono essere messe in valore per attività agricole di qualità ma necessitano comunque di supporto per potervi riavviare attività agricole tali da dare reddito. E soprattutto spesso mancano di tutte quelle condizioni che possano rendere la vita di giovani che si istallano accettabile (strade, scuole rurali chiuse da questo governo, sanità, comunicazione, accesso al mercato locale, etc). Chi metterà le risorse necessarie? Chi giudicherà «i buoni progetti»? Chi avrà il privilegio di ricevere le terre demaniali? E a che titolo: uso, concessione, affitto, proprietà? Ci sarà una nuova Opera Nazionale Combattenti alla base del Rinascimento Agricolo? C'è puzza di uso spregiudicato del potere, di privilegi, di diseguaglianze e di illibertà.

L'attenzione all'agricoltura è una novità tutta italiana o un affetto delle crisi globali attuali, tra cui quella agricola è forse la più pericolosa visto che è difficile confrontarsi con un miliardo di affamati?

Nessuna novità. Perfino il governo britannico, che due anni fa aveva sostenuto che «all'Europa non serve una sua agricoltura» oggi lancia un piano di «rivitalizzazione» della sua agricoltura. E negli Usa dopo oltre mezzo secolo di leggi di sostegno finanziario all'agroindustria, il presidente Obama mette nel suo programma elettorale un riferimento forte all'agricoltura, in particolare quella familiare ­ perché negli Stati uniti quasi non esiste più, tanto è stata massacrata proprio dall'intervento federale - che deve produrre per nutrire meglio gli americani. Occorre riconoscere però che il ministro Zaia e la Lega con il loro costante riferimento alla territorialità delle produzioni riescono a far dimenticare altre iniziative prese dai governi di cui fanno parte che hanno già dato i loro effetti rendendo sempre più difficile la sopravvivenza delle piccole e medie aziende familiari, come quella di aver liberalizzato il mercato delle quote latte togliendo la «riserva regionale» (una specie di protezione per evitare che la produzione di una regione si sposti altrove dove c'è chi può ricomprarsi il diritto a produrre), con il risultato che in tutte le regioni c'è stata un'ecatombe di stalle che sarà impossibile riaprire. Anche con le terre demaniali a disposizione.

Diciotto mesi dopo la sua caduta in Senato, e cioè 18 mesi dopo la fine del centrosinistra (dell'Unione, dell'Ulivo e tutto il resto) Romano Prodi ha scritto un articolo, molto importante, per il Messaggero e ha demolito le basi politiche del suo governo e del centrosinistra. Anzi ha fatto di più: ha demolito l'intera esperienza di centrosinistra sul piano europeo e forse mondiale. E ha affermato, con grande nettezza, che è necessario, ai riformisti, cambiare del tutto strada, azzerare l'idea dei compromessi con le politiche moderate, sfidare lo stesso elettorato e prepararsi a progettare una società nuova che modifichi sostanzialmente il capitalismo e la vecchia idea di società di mercato.

L'articolo di Pordi è uscito il giorno di Ferragosto ed è passato abbastanza inosservato, ma è una vera e propia bomba, sul piano politico. Se qualcuno leggesse quell'articolo senza conoscerne l'autore, e poi gli fosse chiesto a bruciapelo: "chi l'ha scritto? , risponderebbe a colpo sicuro: Bertinotti. Non penserebbe mai che invece l'autore di una critica così feroce sia proprio il leader che guidò quella esperienza, sia nella sua prima fase, dal 1996 al 1998, sia nel tratto finale, dopo le elezioni del 2006 fino alla sconfitta definitiva del febbraio 2008.

L'articolo sul Messaggero è molto significativo proprio perché è di Prodi, ed è molto interessante perché mette in discussione tutto, ma proprio tutto quello che il cosiddetto riformismo ha fatto in questi 13 anni. Mette in discussione persino la parola, la parola riformismo, contestando l'ipotesi che il riformismo abbia tentato di compiere delle riforme. No, dice Prodi, da quando è nato, e cioè subito dopo la caduta del governo Thatcher in Gran Bretagna (poco dopo il ritiro di Reagan e la sconfitta di Bush padre negli Stati Uniti) il centrosinistra europeo "ha preso decisioni che non si discostavano da quelle precedenti, sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali...". A pagina 4 pubblichiamo integralmente l'articolo di Prodi. Comunque la sostanza è questa. E forse la parte più interessante dell'articolo è la parte finale, nella quale Prodi incita le forze politiche che si richiamano al centrosinistra o al riformismo a gettare via tutta l'eredità del passato e a ricominciare da capo a progettare una società diversa da quella attuale. Anche a costo di di dover rinunciare a una parte del proprio elettorato e di dover cercare nuovi pezzi di elettorati in settori nuovi della società.

Cosa dice, in sostanza, Prodi? Quello che da un po' di tempo cercano di dire gli esponenti più "illuminati" (per usare la vecchia terminologia politica) della sinistra. Azzeriamo e proviamo a ricostruire una nuova sinistra, non più divisa tra moderati e radicali e non più costretta a schiacciarsi sul centro o addirittura sulla destra. E neppure - viceversa - a invocare ogni piè sospinto la sua purezza rivoluzionaria. Facciamo saltare le vecchie barriere politiche, azzeriamo i vecchi campi degli schieramenti e delle vecchie correnti, e vediamo se possiamo mettere insieme un progetto di riforma della società che non dia per scontati i pilastri sui quali oggi si regge il capitalismo. Cioè la dittatura del mercato e il valore-competitività.

Naturalmente si può rispondere a Prodi anche con stizza. Non è stato forse lui a guidare l'esperienza, che oggi tratta persino con qualche derisione, del cosiddetto "Ulivo mondiale"? E dunque non pensa di avere qualche responsabilità nel suo fallimento, e di dover dire che aveva torto quando respingeva con sdegno le osservazioni che gli venivano da sinistra, sulla riforma del welfare, ad esempio, o sulla guerra, o sulla mancanza di strategia e di progetto del suo governo?

Però, diciamoci la verità, è abbastanza difficile trovare tra i dirigenti dei vari partiti di sinistra e di centrosinistra qualcuno che sia senza colpe, privo di responsabilità per la sconfitta. E allora, magari, possiamo anche dirci: chissenefrega, oggi, della ricerca dei colpevoli o dei "più colpevoli". E' l'ora forse, di interrompere il processo ai responsabili e le accuse reciproche. E persino è l'ora di sospendere la tiritera sulla necessità di una nuova generazione dirigente, e sull'accantonamento dei vecchi eccetera eccetera. Se c'è una nuova generazione dirigente, benissimo, facciamogli spazio. Ma non stiamo a trasformare il rinnovamento politico in un controllo delle carte d'identità e della nate di nascita, piuttosto prendiamo per buona l'analisi di Prodi e vediamo se ci sono le forze sufficienti per rifondare un centrosinistra che rinunci alle attrazioni fatali verso Berlusconi ( il moderatismo veltroniano ) e si proponga non come pura e semplice forza di governo, ma come forza di governo del cambiamento, e cioè di un progetto politico che porti ad un ridimensionamento del mercato, a una fortissima riduzione delle differenze sociali, e ad un netto innalzamento delle libertà

Il nostro Paese, oggi, è impegnato in un grande dibattito sul futuro dell’assistenza sanitaria in America. Nel corso di queste ultime settimane, gran parte dell’attenzione dei media si è concentrata sulle voci di coloro che gridavano più forte. Ciò che non abbiamo udito sono le voci dei milioni di americani che silenziosamente lottano ogni giorno con un sistema che spesso avvantaggia più le compagnie di assicurazione che loro.

Sono persone come Lori Hitchcock, che ho incontrato nel New Hampshire la scorsa settimana. Lori, attualmente, è una lavoratrice autonoma e sta cercando di avviare un’attività commerciale, ma a causa di una epatite C non riesce a trovare un’assicurazione che le stipuli una polizza. Un’altra donna mi ha raccontato che una società di assicurazioni non copre le patologie dei suoi organi interni, provocate da un incidente avvenuto quando aveva 5 anni. Un uomo ha perso l’assicurazione sanitaria durante un ciclo di chemioterapia perché la società assicuratrice ha scoperto che aveva i calcoli biliari, di cui egli non era a conoscenza quando aveva stipulato la sua polizza. Poiché la cura è stata sospesa, l’uomo è morto. Ho ascoltato tutti i giorni tante storie come queste, ed è per questo che stiamo lavorando con rapidità affinché la riforma sanitaria possa essere approvata entro quest’anno.

Non devo spiegare ai quasi 46 milioni di americani sprovvisti di copertura sanitaria quanto ciò sia importante. Ma è altrettanto importante per gli americani che sono assicurati. Sono quattro i modi in cui la riforma che proponiamo darà più stabilità e sicurezza ad ogni americano. Primo, se non avete un’assicurazione sanitaria, potrete avere comunque una copertura di qualità ad un costo accessibile, per voi e per le vostre famiglie, copertura che vi seguirà anche se vi trasferirete, se cambierete lavoro o se lo perderete.

Secondo, la riforma metterà finalmente sotto controllo una spesa sanitaria che è alle stelle, il che significa un risparmio reale per le famiglie, per l’economia e per il governo. Taglieremo centinaia di miliardi di dollari di sprechi e di inefficienze che si nascondono nei programmi sanitari federali come Medicare e Medicaid (i due programmi di assistenza pubblica destinati agli anziani e ai poveri, ndt), e nei sussidi ingiustificati dati alle società di assicurazione che non fanno nulla per migliorare l’assistenza e tutto per aumentare i loro profitti.

Terzo, rendendo Medicare più efficiente, saremo in grado di garantire che venga destinato più denaro a favore dell’assistenza agli anziani, anziché per arricchire le assicurazioni.

Infine, la riforma darà ad ogni americano alcuni strumenti di tutela del consumatore che metteranno le assicurazioni nella condizione di rispondere del loro operato. Un’indagine nazionale del 2007, in effetti, dimostra che nei tre anni precedenti, le assicurazioni avevano discriminato più di 12 milioni di americani che avevano malattie o disturbi già in atto. Le società assicuratrici si sono rifiutate di stipulare loro una polizza, oppure hanno fatto pagare un premio più elevato. Noi metteremo fine a questa pratica. La nostra riforma proibirà alle società assicuratrici di rifiutare la copertura a causa della storia medica di un individuo. Né permetteremo loro di revocare l’assistenza in caso di malattia. Non potranno più ridurre la copertura proprio quando se ne ha più bisogno. Non potranno più limitare arbitrariamente il livello di copertura assicurativa che può essere ricevuta in un determinato anno o nel corso della vita. Nessuno in America deve rovinarsi in caso di malattia. Più importante di tutto, chiederemo alle società assicuratrici di coprire anche i controlli di routine, le cure preventive e gli esami di controllo, come le mammografie e le colonoscopie. Non c’è ragione per la quale non dovremmo affrontare queste malattie in via preventiva. È ragionevole, può salvare delle vite e far risparmiare denaro.

Il lungo e acceso dibattito sull’assistenza sanitaria che si è svolto negli ultimi mesi è un segno positivo. L’America è questo. Ma assicuriamoci di parlare gli uni con gli altri, non gli uni sopra gli altri. Possiamo essere in disaccordo, ma dobbiamo esserlo sui temi veri, non su assurdi travisamenti che non hanno nulla a che vedere con ciò che è stato proposto. Questo è un argomento complesso e delicato, e merita un dibattito serio.

Malgrado ciò che abbiamo visto in televisione, credo che in tutte le case americane si stia discutendo con serietà. Negli anni recenti ho ricevuto innumerevoli lettere e domande riguardo all’assistenza sanitaria. Alcuni sono favorevoli alla riforma, altri sono preoccupati. Ma quasi tutti si rendono conto che bisogna fare qualcosa. Quasi tutti sanno che dobbiamo iniziare a rendere le società assicuratrici responsabili e dare agli americani un maggior senso di stabilità e di sicurezza in materia di assistenza medica. Sono certo che quando tutto sarà stato detto e fatto, potremo avere il consenso di cui abbiamo bisogno per raggiungere questo obiettivo. Siamo più vicini ad avere una riforma della copertura sanitaria di quanto sia mai accaduto in passato. Abbiamo dalla nostra parte l’American Nurses Association e l’American Medical Association, perché le infermiere e i medici del nostro Paese sanno bene quanto sia necessaria questa riforma. Abbiamo un largo consenso al Congresso sull’80 per cento di ciò che stiamo tentando di fare. Abbiamo un accordo con le società farmaceutiche per rendere più economiche le prescrizioni mediche per gli anziani. L’AARP (associazione di tutela dei pensionati, ndt) sostiene questa linea politica e concorda con noi che la riforma deve entrare in vigore quest’anno.

Nelle prossime settimane, i cinici e gli oppositori continueranno a sfruttare politicamente i timori e le preoccupazioni. Ma ciò che è veramente spaventoso, e rischioso, è la prospettiva di non fare nulla. Se manteniamo lo status quo, continueremo a vedere ogni giorno 14.000 americani perdere la loro assicurazione sanitaria. I premi continueranno ad aumentare. Il nostro deficit continuerà a crescere. E le società di assicurazione continueranno a fare profitti discriminando chi è malato. Questo non è il futuro che voglio per i miei figli, o per i vostri. E non è il futuro che voglio per gli Stati Uniti d’America. Alla fine, questo non riguarda la politica. Riguarda la vita e la sopravvivenza della gente. Riguarda le attività economiche. Riguarda il futuro dell’America, se saremo capaci, negli anni a venire, di guardare indietro e dire "quello fu il momento in cui abbiamo fatto i cambiamenti di cui avevamo bisogno e abbiamo dato ai nostri figli una vita migliore". Sono convinto che possiamo farlo e che lo faremo.

(Copyright New York Times Syndicate/La Repubblica. Traduzione di Antonella Cesarini)

Negli ultimi quindici anni all’Italia sono riusciti alcuni autentici capolavori. I governi hanno tolto fondi ai Comuni incoraggiandoli, in pratica, a "spingere" la sola edilizia di mercato al fine di rattoppare i bilanci.

Gli enti locali hanno autorizzato fra 1995 e 2006 ben 3,1 miliardi di metri cubi di nuove costruzioni, tra residenziali (il 40 per cento) e non. E però, nel contempo, si è acuita la mancanza di alloggi non di mercato, cioè a fitto medio-basso essendo stata compressa a uno scandaloso 0,6-0,7% la quota nazionale di edilizia sociale, quella per i più deboli. Così, sette anni di "boom" edilizio hanno paradossalmente creato una vera emergenza-casa e ferito il paesaggio (grande risorsa nazionale e locale) anche in regioni splendide, Veneto in testa che ha il record di "costruito" e di suoli liberi "mangiati" (oltre 100 chilometri quadrati), con una produzione di cemento e un numero di cave da primato (quasi 600).

IL FAR WEST EDILIZIO

Sull’Annuario dell’Istat 2009 si può leggere che "la coperura dei piani territoriali di coordinamento (competenza delle Province) è quasi completa al Centro-Nord, con le significative eccezioni del Veneto e del Lazio, mentre è quasi assente nel Mezzogiorno". Inoltre il Codice per il paesaggio del 2008 (Settis/Rutelli) è stato congelato dal governo Berlusconi che ha proposto il rinvio della sua entrata in vigore, e quindi l’avvio della co-pianificazione paesaggistica Stato-Regioni, al 2011.

Proprio mentre infuria una sorta di far west edilizio e paesaggistico. Molte Regioni, Toscana in testa, hanno scaricato sui Comuni la tutela del paesaggio con risultati altamente negativi. Sempre l’Istat ci dice che ormai quartieri, case, ville, fabbriche, fabbrichette, capannoni, ipermercati si susseguono senza tregua lungo la pedemontana tra Veneto e Lombardia, una splendida collina ormai distrutta.

UN CONDONO TIRA L’ALTRO

L’effetto dei due condoni edilizi (1994 e 2004, firmati Berlusconi) è stato spaventoso e ancora non se ne conosce fino in fondo l’impatto sul territorio. Sempre l’Istat osserva però che "nel triangolo veneto-lombardo-romagnolo l’edificato invade il territorio extra-urbano". O occupandolo tout court, oppure frazionando le coltivazioni al punto che diventano "enclavi intercluse tra le aree edificate". Di fatto non più libere anch’esse (e non più agricole).

L’EFFETTO PIANO CASA

Ora c’è il Piano casa che, come effetto-annuncio, ha già ridato fiato all’abusivismo presentandosi coi suoi "premi" in cubature (sul già costruito) come una sorta di "condono preventivo". La Conferenza Stato-Regioni, presieduta dal governatore dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, ha bloccato il progetto governativo rivendicando alle Regioni alcune competenze e cercando di migliorare quel primo documento. Il braccio di ferro è ancora in corso. Risulta cancellata in toto la norma che consentiva al proprietario di cambiare la destinazione d’uso, per esempio di un magazzino in una serie di appartamenti, senza limiti di sorta, purché all’interno di quelle mura. Errani sta cercando di strappare un altro risultato importante e cioè il rinvio dell’attuazione del Codice per il paesaggio non al 2011 bensì alla fine di quest’anno, accompagnato da una norma che consenta di finanziare il potenziamento delle Soprintendenze territoriali competenti.

UNDICI REGIONI ALL’ARREMBAGGIO

Mentre a Roma è in corso questa complessa e decisiva partita, ben undici Regioni sono partite per conto loro (in testa il Veneto, la più massacrata dall’edilizia di ogni genere, da cave e altro, e la Toscana, con più limiti) varando o predisponendo piani-casa regionali comunque ispirati alla "filosofia" dei premi del 20 per cento e altro a quanti costruiscono o a quanti demoliscono e ricostruiscono in modo ecologico (più 30 per cento di cubatura). È dell’altro ieri il blitz della Campania, con aumenti fino al 50 per cento. Una corsa sfrenata che ci dice come ormai questo Paese rischi di frantumare la propria unità rinunciando in partenza a leggi-quadro nazionali.

AREE PROTETTE IN PERICOLO

Sono in pericolo pure le aree protette e i centri storici. Non in Toscana dove li si vuole salvaguardare, ma nella grande e già ben cementificata Lombardia, il cui assessore regionale alla pianificazione territoriale Davide Boni (Lega Nord) ha dichiarato che autorizzerà interventi di demolizione/ricostruzione anche nei parchi (già in pericolo sono il Parco Milano Sud e quello del Ticino) e nei centri storici. E le Soprintendenze? Per lui i tempi delle verifiche e delle concessioni non sono garanzia di oculatezza e di trasparenza, ma solo "burocrazia", mentre "la crisi non permette altri ritardi".

I DANNI COLLATERALI

L’ossessione è, secondo l’indicazione di Berlusconi, ridare slancio all’edilizia. Già, ma quale? Quella che serve alla domanda di giovani coppie, immigrati, ceti più deboli, anziani soli?

O quella che serve agli interessi dei costruttori? Quella che si può recuperare nei quartieri già edificati, invecchiati e da ristrutturare? Oppure quell’altra che si mangerà con cemento&asfalto altre decine di migliaia di ettari di terreni agricoli e che ci ha posto in testa alle classifiche del consumo di suolo in Europa? E poi come la mettono con l’articolo 9 della Costituzione secondo cui "la Repubblica", cioè anzitutto lo Stato, "tutela il paesaggio"?

Un’ultima notazione: si vogliono rilanciare insieme l’edilizia (purchessia) e il turismo (di qualità), due cose che fanno palesemente a pugni. Se roviniamo ulteriormente i nostri paesaggi (che contengono tutto, centri storici, castelli, siti archeologici, natura, ecc.), avremo sempre meno turismo qualificato. Ora, il Prodotto interno lordo dell’edilizia supera di poco il 10 per cento del totale nazionale. Quello del turismo gli è inferiore di un punto o poco più, e muove una occupazione ben più diffusa. Anche in termini strettamente economici non sarebbe il caso di prestare attenzione a questi dati evitando politiche cieche e individualistiche del tipo quand le bâtiment va, tout va, vecchie e stravecchie in tempi di new, soft e green economy?

170 mila maxi evasori

Befera (Entrate): il crollo dell'Iva non c'entra nulla

di Sara Farolfi

Sono 170 mila i cittadini italiani nel mirino dell'Agenzia delle entrate nell'ambito delle indagini contro i paradisi fiscali. Dopo averne dato notizia, ieri il direttore delle Entrate, Attilio Befera, ha voluto rassicurare i paperoni: «L'obiettivo non è quello di perseguire i miliardari, ma di intensificare l'azione nei confronti di tutti coloro che hanno capitali detenuti illegalmente all'estero». I quali, per riportare in Italia senza conseguenze giuridiche i capitali illecitamente detenuti all'estero, potranno servirsi dello scudo fiscale ter (il terzo di Tremonti) che il governo ha inserito nel pacchetto anticrisi. I 'grandi' evasori potranno cioè rimpatriare i loro capitali pagando un'aliquota più che amica del 5% e con la garanzia che il loro rientro non verrà accompagnato da misure investigative e di controllo. Ma i 170 mila grandi evasori in questione potranno utilizzare lo scudo se le Entrate notificheranno gli atti entro ottobre (a partire da quando lo scudo entrerà in vigore). «Stiamo facendo il possibile per riuscire a notificarli nel più breve tempo possibile», dice al manifesto Attilio Befera.

Della lotta ai paradisi fiscali, come capitolo di una più generale battaglia per l'etica contro gli animal spirits del mercatismo, Tremonti vorrebbe fare la sua bandiera. Non lo aiutano provvedimenti come lo scudo, appunto, che molti commentatori hanno definito, non solo come l'ennesimo condono ma anche come una sorta di amnistia (perché estinguerebbe il reato). Tanto più se si considera - come fanno gli economisti de Lavoce.info - che «solo una parte trascurabile dei capitali rientrati in Italia con gli scudi fiscali dei primi anni Duemila si sono diretti verso investimenti nell'economia, mentre del terzo potrebbero ora approfittare le holding mafiose».

Non è tutto: dichiarare guerra ai paradisi fiscali senza la stipula di accordi bilaterali - come quelli siglati da Obama negli Usa - che impegnino i paesi in questione alla pubblicizzazione di dati, altrimenti coperti da segreto, sarà operazione ardua. Sollecitato, così risponde Befera: «La Svizzera e San Marino stanno dando segnali di collaborazione, quanto agli accordi noi siamo in Europa e gli Usa sono in un altro continente. Su questo comunque stiamo lavorando e sta lavorando soprattutto il ministero».

Ha spiegato ieri Befera che le Entrate sono in possesso di «una lista di nominativi sequestrati a un avvocato svizzero arrestato di recente dalla procura di Milano, una lista di conti presenti presso Ubs Italia e che si presume abbiano qualche riferimento con Ubs Svizzera e una lista di detentori di capitali nel Liechtenstein». Questo per quanto riguarda i «grandi», ma l'Italia come si sa è un paese fatto soprattutto di piccoli e medi evasori, un paese, per dirla con l'ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, «dove l'evasione è fenomeno di massa». «I dati - dice al manifesto l'ex ministro - dicono che c'è un crollo micidiale dell'Iva, e questo è da ricondurre direttamente a un aumento dell'evasione». Befera d'altro canto contesta questa lettura e risponde: «Se così fosse allora paesi come la Spagna, la Gran Bretagna e la Francia, dove il calo Iva è stato decisamente più marcato, dovrebbero avere tassi di evasione di gran lunga più alti che da noi. A diminuire è stata l'Iva sugli investimenti, che è al 20%, e questo non significa affatto evasione fiscale».

Certo, le dichiarazioni dei redditi 2008 (relative ai guadagni 2007) rese note poche settimane fa dal dipartimento delle finanze, dicono tutt'altro. Ristoratori che dichiarano redditi da pensionati, metà paese sotto i 15 mila euro, una società di capitali su due che ha dichiarato di essere in perdita e solo lo 0,2% dei contribuenti italiani a dichiarare guadagni superiori ai 200 mila euro. Non sarà un caso se, come certificano i dati della Banca d'Italia, l'economia irregolare viene stimata in 230 mila miliardi di euro. Oltre il 15% del Pil.

Il PD Fassina: smantellati tutti gli strumenti

«Non conosceremo mai i nomi dei trasgressori»

di Antonio Sciotto

«Il governo intensifica i controlli fiscali? Più verifiche ci sono, meglio è, certo: ma in realtà è pura propaganda. Perché dall'altro lato l'esecutivo ha smantellato, sin dal suo insediamento, tutti gli strumenti per una vera lotta all'evasione, e questa è aumentata: lo dicono i dati sul gettito Iva». Stefano Fassina, responsabile Finanza pubblica del Pd, ha lavorato a lungo con l'ex ministro Vincenzo Visco, e conosce a fondo i provvedimenti adottati dal passato governo di centrosinistra, come i problemi legati al fisco. Boccia senza mezze misure il comportamento del governo verso gli evasori, e spiega che l'annuncio dell'accertamento sui 170 mila conti esteri, è motivato dal «rassicurare l'opinione pubblica interna dopo le cifre sul calo del gettito diffuse da Bankitalia, due giorni fa» e, dall'altro lato, «serve a giustificare il nuovo condono operato con lo scudo fiscale». Mentre «dall'estero l'Agenzia delle entrate non potrà avere in realtà i nomi degli evasori, per il semplice fatto che non ci sono accordi politici analoghi a quelli realizzati da Obama con le banche svizzere, o dalla Germania e dal Regno Unito con il Liechtenstein».

Insomma, non ci può consolare il fatto che questa lista di 170 mila nomi è in mano all'Agenzia delle entrate... Secondo voi hanno le armi spuntate.

Credo che sia solo propaganda. Ci sono due modi per combattere l'evasione, entrambi importanti e da attivare insieme. Se è bene che ci siano i controlli, dall'altro lato in un paese come l'Italia, con 40 milioni di contribuenti e 150 miliardi di euro di evasione, non puoi basarti solo sulle verifiche: per quanto le potenzi, al massimo potrai arrivare allo 0,5% dei contribuenti. Serve anche innalzare la cosiddetta «adesione spontanea», cioè tutti quegli strumenti che spingono chi evade a denunciare prima che ci sia un controllo. Con il governo Prodi avevamo creato un sistema che è stato smantellato del tutto da Berlusconi, appena si è insediato: con il decreto del giugno 2008, e poi con la finanziaria triennale del luglio 2008.

Ma l'evasione secondo i dati in vostro possesso è aumentata nell'ultimo anno?

Sì, dalla seconda metà del 2008 a oggi si sono persi circa 10 miliardi di gettito Iva, pari a un calo di circa il 10%. Al contrario, la base imponibile su cui principalmente questo gettito si forma, cioè i consumi delle famiglie, è lievemente aumentata. E attenzione: stiamo parlando di aumento effettivo dei consumi e di gettito Iva, dunque sono dati al netto della crisi. Ebbene: se aumenta la base imponibile e diminuisce il gettito corrispondente, non è forse un chiaro segno di evasione? Inoltre, all'Iva evasa, corrisponde anche un tot di Irpef evasa, dato che parliamo di reddito nascosto al fisco.

Quali strumenti ha smantellato il governo Berlusconi?

Quelli principali sono tre: 1) l'obbligo per le partite Iva di fornire l'elenco clienti-fornitori: permetteva di incrociare i dati sulle fatturazioni; 2) la tracciabilità dei corrispettivi e l'innalzamento del limite per emettere assegni circolari e pagare in contanti: noi lo avevamo fissato a 5 mila euro, l'attuale governo lo ha portato a 12.500 euro; 3) l'accertamento con adesione: sono state abbattute le sanzioni a un livello tale per cui conviene non dichiarare e aspettare l'eventuale comunicazione di accertamento; a quel punto dichiari e paghi la sanzione, che tanto è molto bassa. Comunque sui controlli dico: se è vero, come dice il direttore dell'Agenzia delle entrate Befera, che il gettito da controlli è salito da 600 milioni a 1 miliardo, dall'altro lato va considerato che sull'Iva perdiamo 10 miliardi.

Ma almeno adesso ci saranno gli accertamenti sui 170 mila evasori con i conti esteri.

Lo ripeto: è propaganda. Nei paradisi fiscali resta in vigore il segreto bancario, per cui finché non hai ottenuto, con precise negoziazioni e accordi, la possibilità di accedere agli elenchi - come di recente gli Stati Uniti con le banche svizzere, o il Regno Unito e la Germania con il Liechtenstein - è perfettamente inutile che inasprisci le sanzioni o inverti l'onere della prova sul contribuente, come ha fatto il governo. Tanto i nomi non te li danno: l'attuale esecutivo non ha raggiunto accordi precisi con i paradisi fiscali, non ci ha lavorato come gli altri Paesi.

Allora perché dichiarano di essere avanti su questo fronte?

Per rassicurare l'opinione pubblica dopo i dati diffusi da Bankitalia sul calo del gettito. Ma anche per spingere questi 170 mila evasori - di cui possono pure avere i nomi, ma che non possono accertare con la collaborazione delle banche dei paradisi fiscali - ad aderire allo scudo fiscale. Uno strumento, quest'ultimo, immorale e anche inefficace. Innanzitutto renderà al massimo il 2% del capitale rientrato: perché tutti dichiareranno di avere evaso solo nell'ultimo anno. E pensiamo che quei capitali, tassati normalmente, renderebbero il 40-45%. Poi è anonimo: dunque permette il rientro anche a capitali frutto di attività illecite o criminali. Infine è l'ennesimo condono, quindi alimenta inevitabilmente nuova evasione futura.

«Segnali di ripresa? Non ne vedo. A parte che un +0,3 di Pil non è una gran cosa, anche se ci si aspettavano valori negativi, non è certo a una cifra trimestrale puramente contabile che bisogna guardare. Il vero indicatore è la disoccupazione, e questa è disastrosa, in Europa come in America». Jean-Paul Fitoussi, uno dei più prestigiosi economisti europei, professore a Parigi e alla Luiss di Roma, non è per niente convinto che si stia imboccando la via virtuosa di uscita dal tunnel. «Le dirò di più: si stanno ripetendo gli stessi errori che hanno portato alla crisi: squilibri mondiali, disavanzo di bilancio americano, surplus della Cina, e via dicendo».

Eppure la stessa Bce ha fatto un’inconsueta professione di ottimismo.

«Sono sorpreso. La crisi non è passata, né in America né in Europa né in nessun paese. Il dato del Pil trimestrale non significa nulla. Primo, perché è destinato ad essere continuamente rivisto, e diventa affidabile ben cinque trimestri più tardi. Secondo, perché è composto di elementi palesemente forzati come i sussidi pubblici che non si sa quando finiranno ma non potranno essere eterni. Terzo, perché non tiene conto dell’indicatore principale, appunto il tasso di disoccuazione, che è sotto gli occhi di tutti. E non voglio parlare delle banche».

Le banche?

«I loro bilanci entrano nel Pil, e questo è il paradosso più irritante. A parte i contributi pubblici, le banche hanno bilanci fantastici solo perché prestano soldi alle imprese, che hanno disperate esigenze di finanziamento, a condizioni durissime».

Ma la politica della Bce e della Fed non tiene sotto controllo l’insieme degli interessi?

«Macché, il prime rate non lo applicano per nessuno. Riescono sempre per un motivo o l’altro ad applicare dei "risk premium" da capogiro. Altrimenti non si spiegherebbe perché le aziende ricorrono in misura crescente al mercato obbligazionario, emettendo titoli che costano loro il 6 o 7% ma sono sempre più convenienti del credito bancario».

Sta di fatto che la Germania ha ripreso ad esportare. Non è un segno di buona salute?

«No, è uno degli squilibri di cui parlavo all’inizio. La Germania esporta solo perché ha ridotto i costi in modo spietato, comprimendo di fatto la domanda interna perché ha un mare di disoccupati e di sottopagati, fenomeno che inevitabilmente si allarga all’intera comunità europea».

Fin quando continueranno, allora, le difficoltà?

«Ripeto, fin quando non cesserà di aumentare la disoccupazione, il che non è in vista. In Europa ci siamo assuefatti ad una disoccupazione di massa, ma è inaccettabile».

Servirebbero grandi investimenti pubblici, ma le risorse?

«Un po’ più di coraggio sull’indebitamento pubblico non guasta. L’America avrà anche spalle più forti, ma a fine anno avrà un rapporto deficit/Pil del 12%. E l’Europa?»

«I senzatetto non sono una falla del sistema, ma la condizione del suo funzionamento». Questa citazione, tratta da uno dei suoi libri, decora le pareti dell'ufficio newyorchese di Peter Marcuse, figlio del «filosofo del '68» Herbert e professore di pianificazione urbana alla Columbia University. Oggi potremmo sostituire i senzatetto con le migliaia di americani che si trovano in mezzo a una strada in seguito alla crisi dei mutui. Cambiano le forme, ma non il meccanismo che regola il sistema. Per questo con Marcuse, e con Neil Brenner, professore di sociologia e di metropolitan studies alla New York University, proviamo a discutere della crisi attuale e dei suoi effetti sulla geografia delle città, delle nazioni e del mondo. E degli spazi che questa potrebbe aprire per le sinistre e i movimenti sociali.

In che modo la crisi può costituire un'opportunità per la sinistra e i movimenti sociali?

Peter Marcuse: Il punto da cui partire per capire quali sono i limiti e le possibilità per la sinistra in questa crisi economica è la situazione attuale del mercato immobiliare, in particolare quello cittadino. Negli Stati Uniti c'è grande solidarietà verso coloro che perdono la propria casa e si moltiplicano i tentativi di evitare i pignoramenti. Tra i più radicali, vi è un movimento di occupazione delle case sequestrate, attivo in varie zone: a New York prende il nome di Picture the Homeless, a Miami si chiama Take Back the Land. Gli attivisti aiutano le persone a occupare le case rimaste vuote, conquistando così molta simpatia da parte della popolazione. Alla domanda su quale fossero i loro obiettivi, hanno tuttavia spesso risposto che sono coscienti che le loro azioni sono illegali e che le famiglie occupanti dovranno prima o poi andarsene. Quello che cercano di fare è solo rendere pubbliche le tragedie di chi è sbattuto fuori dalla propria abitazione. Il passo seguente, a rigor di logica, dovrebbe essere il riconoscimento che il libero mercato è lo strumento sbagliato per distribuire le case e che gli edifici occupati dovrebbero essere messi in modo permanente al servizio di chi ne ha bisogno. Questo ragionamento però non viene fatto. La recente formazione e crescita di movimenti sociali radicali è indubitabile. Al tempo stesso, non riescono a esplicitare il carattere politico delle loro rivendicazioni.

Neil Brenner: Se le persone capissero che questa è la logica inevitabile del capitalismo si arriverebbe ad una critica sistemica e ad una soluzione. Non si tratta infatti di correggere alcuni «casi isolati» di espulsione di persone che si sono trovate in «circostanze sfortunate». La situazione attuale è infatti il risultato di oltre un decennio di una speculazione di un mercato immobiliare orientato a trarre profitto dalle fasce più deboli della popolazione.

Quali sono dunque gli effetti della crisi economica sulle metropoli statunitensi?

Peter Marcuse: Per il momento, non vi sono cambiamenti significativi nel modo in cui il capitalismo interviene sulle città. Ma le gerarchie di potere potrebbero risultarne modificate, anche se non è ancora chiaro in quale direzione. È forte la possibilità che accada qualcosa sul fronte politico, il che influenzerebbe il governo cittadino. Con l'elezione di Obama c'è stato uno spostamento generale verso sinistra, anche se certamente non in modo radicale. Si è così diffuso il bisogno di un ruolo più forte delle istituzioni pubbliche e di una maggiore regolazione dell'economia di mercato. Inoltre, non c'è più un'accettazione acritica del ruolo centrale della finanza nel settore dello sviluppo urbanistico. Allo stesso tempo, l'uso che si sta facendo degli aiuti di stato suggerisce però l'importanza continua se non crescente del settore finanziario.

Neil Brenner: La domanda che la sinistra si deve porre non è «crisi o stabilità» ma cosa distingue questa crisi dalle altre. Questa, infatti, è un'occasione per politicizzare la finanziarizzazione dell'economia in generale e dell'economia urbana in particolare. Il ruolo della finanza come meccanismo centrale del capitalismo è stato dato per scontato, mentre sottende decisioni e rapporti di forza che decidono della distribuzione delle risorse pubbliche. Con questo oggi ci dobbiamo confrontare in modo molto esplicito e a tutti i livelli: locale, nazionale e globale.

Peter Marcuse: La parola chiave è «politicizzare». Non è ancora accaduto. La sfiducia nel settore finanziario non è molto distante dal diventare una critica del capitalismo, ma questa possibilità resta ai margini della discussione pubblica. Il che mette in evidenza i limiti nel funzionamento della democrazia rappresentativa. Suggerisce che l'unidimensionalità prodotta dal sistema è molto profonda. Quando Obama parla nei campus universitari, le questioni sollevate riguardano però la necessità di prevenire gli aborti piuttosto che limitare il potere di Wall Street.

Si può dunque parlare di una distanza se non di una frattura tra il livello della rappresentanza democratica e quello dei fenomeni sociali che si manifestano nelle metropoli?

Neil Brenner: Una delle risposte potrebbe essere questa: le istituzioni rappresentative garantiscono un certo livello di diritti civili propedeutici al perseguimento di altre forme di democrazia radicale. Il punto è però un altro, cioè se i movimenti globali operano per affermare un progetto di democrazia popolare, o di autogestione, più radicale delle procedure elettorali sulle quali si basa la democrazia parlamentare. Ci si deve dunque chiedere se i processi di ristrutturazione economica globale negli ultimi due decenni, oltre a limitare i movimenti sociali, abbiano anche contribuito a far sorgere nuove strategie in questa direzione nelle città di tutto il mondo.

Peter Marcuse: Io vedo una situazione di grande ambiguità. Il luogo in cui la democrazia diretta è possibile sono le città, il livello locale, perché è lì che vivono gli uomini e le donne. Il malcontento nei confronti di questa crisi si esprime nelle città e, in una certa misura, nelle politiche cittadine. Però il fenomeno non è locale, ma nazionale e globale. Quindi abbiamo delle risposte ambigue: l'indignazione si esprime a livello locale ma il suo obiettivo è sovralocale. Una conseguenza negativa della crisi sulle politiche locali è la subordinazione dei problemi relativi alla qualità della vita o ai salari e alla distribuzione delle risorse alle misure per la crescita economica. È quello che sta succedendo a New York, dove l'amministrazione sta investendo in infrastrutture nel lower Manhattan per ottenere maggiore sviluppo economico invece di investire nelle scuole pubbliche, nella sanità. In questa situazione di crisi, il perdurare del dominio della sfera economica avrà effetti negativi sui movimenti sociali progressisti a livello locale.

La globalizzazione, in tutte le sue forme, mette in gioco il rapporto tra il capitale e la trasformazione spaziale del mondo. Che relazione c'è oggi tra lo sviluppo capitalistico e la creazione di nuovi spazi?

Neil Brenner: La trasformazione spaziale è al centro dell'accumulazione di capitale, perché l'estrazione del plusvalore implica la creazione di una rete globale di infrastrutture per facilitare l'accumulazione. Questi temi sono il cuore del nostro progetto «città per le persone, non per il profitto». Da una parte vi sono i processi di accumulazione e di mercificazione che producono vari modi di appropriazione dello spazio orientati al profitto. Dall'altra vi sono lotte per appropriarsi dello spazio per uso popolare, per la riproduzione sociale. Ma il confine tra mercificazione e riproduzione sociale è fluttuante. La crisi ha evidenziato l'estensione crescente della mercificazione del mercato immobiliare e l'opposizione che ha incontrato. È, questa, un conflitto sulla produzione dello spazio. Prende forme diverse rispetto a trenta, cinquanta o centocinquanta anni fa, ma è endemico al capitalismo come il conflitto per estrarre plusvalore dal lavoro.

Peter Marcuse: La crisi attuale è stata prodotta dalla ricerca di luoghi ulteriori per l'investimento di capitale: i salari non erano sufficienti per far fruttare il settore immobiliare in termini di investimenti, dunque si è deciso di estendere il credito per produrre profitto. Quando i salari non sono abbastanza alti per ripagare il credito si ha una crisi come questa.

Negli Stati Uniti la teoria critica non si manifesta più negli ambiti del pensiero politico o della scienza politica, ma negli studi di geografia e di urbanistica critica. Perché? Ha a che fare con i processi di globalizzazione e denazionalizzazione?

Neil Brenner: A partire dagli anni Ottanta abbiamo assistito a una significativa riarticolazione dello spazio politico-economico. Alcuni studiosi ne hanno parlato in termini di globalizzazione, deterritorializzazione o denazionalizzazione. Io preferisco parlare di rescaling,, di ridefinizione delle scale spaziali. Una delle sfide oggi è dare un senso a queste nuove geografie. Penso che il termine «denazionalizzazione» sia problematico. La dimensione nazionale è significativa in termini strutturali e politici come lo era in passato, ma è inserita in un contesto geografico mutato. Quindi, è necessario comprendere la riarticolazione del livello nazionale con il livello locale e quello globale dell'autorità politica. L'Unione europea è un case study molto importante per comprendere questa nuova configurazione dello spazio politico e dell'autorità politica a partire dal nuovo sistema di relazioni tra nazionale, subnazionale e sovranazionale. Si tratta di un ridimensionamento dello spazio politico nazionale più che la sua dissoluzione

Peter Marcuse: La geografia ha un rapporto mediato con il politico. Se si deve analizzare cosa sta accadendo negli Stati Uniti con la crisi utilizzando gli strumenti di una buona scienza politica, la conclusione sarebbe immediatamente che serve una rivoluzione. Se si prende in considerazione il sistema spaziale, bisogna fare alcune inferenze ulteriori prima di giungere alla stessa conclusione, perché, introducendo il livello spaziale, si produce una formulazione mediata della crisi. Sono stupito dal fatto che la geografia sia oggi più radicale della scienza politica o dell'economia, perché è in un certo senso illogico. La crisi sottostante riguarda le relazioni economiche e politiche nella società e lo spazio è uno strumento per influenzarle e strutturarle, ma ne è un riflesso.

Caro direttore, da vent’anni le urla roche di Bossi costruiscono l’immaginario geografico e la mappa costituzionale dell’Italia. Performano la sua intelaiatura territoriale. Ora spostano il gioco direttamente sui simboli. Un dispositivo semiotico dall’intento sfacciatamente separatista per marcare differenze, frantumare la faticata unità, giustificare le gabbie, gli sbarramenti culturali, le xenofobie. Icone inventate, sconosciute, pure finzioni. Sulle identità regionali, qui sta il paradosso.

Tutta la geografia delle regioni è inventata. Eppure esiste dall’atto costituente. Le regioni costituzionali potrebbero infatti rientrare a pieno diritto tra i falsi storici. Non sono mai esistite prima del 1948. Quelle che noi chiamiamo regioni, e sulla cui istituzione in organi di governo periferico i costituenti hanno discusso lungamente, erano in realtà i "compartimenti statistici" che vennero ritagliati per l’organizzazione del primo censimento del Regno. Ribattezzati con noncuranza "regioni" a inizio Novecento senza che ne fossero mutati fisionomia e significato. Partizioni disegnate per la raccolta dei dati ma prive di altre implicazioni, se non per qualche vago e impreciso riferimento a denominazioni tramandate (come tante altre toponomastiche locali che pure non hanno avuto medesimo riconoscimento: perché non anche una Daunia o una Lunigiana, di cui pure si discusse in Assemblea?).

Un equivoco che ai costituenti poco importava, il problema vero era la natura della statualità. Il reticolo astratto dei compartimenti statistici, forse proprio perché non intriso di sentimenti di appartenenza, alla fine è sembrato il modo migliore per maturare il compromesso tra centralismo e autonomismo che arroventavano gli schieramenti. Non a caso si attueranno solo nel 1970, in clima politico ed economico ben diverso (avvisaglie della crisi economica, crisi di consenso dei partiti, del centralismo, ecc.) con la finalità di presiedere alla programmazione economica, nel tentativo di controllare la crisi frantumando e decentrando il dissenso – operazione mal riuscita come sappiamo.

Si commette però il primo degli scivoloni, cadendo in un’ambiguità mai sanata sulla forma dello stato. Ambiguità perdurante, sul cui terreno Bossi si è sempre mosso con destrezza, giocata sulle mille, diversissime, opposte accezioni attribuite al federalismo (ogni volta evocando il fantasma dolente di Cattaneo). Ma se il regionalismo dei costituenti (la regionalizzazione, avrebbe precisato Gobetti) è stata la sconfitta del federalismo alto scaturito dalla critica al centralismo fascista, il federalismo voluto dalla Lega segna la sconfitta del regionalismo. Quando con regionalismo si intenda una visione condivisa di identificazione territoriale – che pure è esistito in alcuni (rari) momenti e situazioni.

La vicenda regionale italiana ha sempre marciato sul filo del rasoio: chi vuole e ha voluto le regioni? Come in Assemblea costituente, dove il balletto delle posizioni ha visto un ribaltamento diametrale degli schieramenti, anche dopo l’attuazione, poi il perfezionamento in chiave di sussidiarietà e ora di nebuloso federalismo fiscale, il gioco avviene sempre su posizioni sfuggenti. Si è sempre preferito, per tatticismi politici del momento (il più eclatante la Bicamerale), rimanere nel vago e strappare di volta in volta qualche concessione. L’identità regionale, in tutto questo mercanteggiare tra potere centrale e potestà decentrate, è l’ultimo dei paraventi.

La pretesa di attribuire personalità (nazionalità?) alle regioni stride con la sterilizzazione delle identità avvenuta negli ultimi decenni. La loro fisionomia è da sempre pallida – salvo alcune che hanno voluto emergere dal panorama piatto di un decentramento rappresentato come meramente amministrativo, esecutivo, e mostrare invece capacità di autodeterminazione; un’epoca anche questa tramontata. Neppure sul piano funzionale le regioni si presentano come autonomi sistemi territoriali. Al punto che alla fine degli anni ‘90 un’indagine della Fondazione Agnelli arrivava a proporre aggregati multiregionali, "mesoregioni". Anche in quel caso dopo la provocazione di Miglio e Bossi sulle "macroregioni": Nord-Centro-Sud. Siamo di nuovo qui a parlarne, lungo la strada intanto abbiamo perso il Centro.

Le metafore territoriali sono ballerine, come ritagli di carta volano al primo soffio. Alcune sono più eteree, altre si stabilizzano se ispessite di narrazioni, di conferme. In questa nostra era dominata dalla capacità affabulatoria e mediatica, creare rappresentazioni territoriali e fissarle nel palinsesto comunicazionale con marcatori simbolici può diventare pericoloso, attualizzante. La Padania è una figura nuova, ma resta lì, ben inchiodata dai segni cari al popolo leghista, tanto più efficaci quanto più rudimentali. Uno dei travestimenti della cosiddetta questione settentrionale, tanto insistita da scatenare analoga richiesta di visibilità, attenzione - e traduzione in privilegi - da parte del Sud.

Cambiano insomma le formule ma non la sostanza del contendere: le relazioni di potere tra centro e periferia. Il federalismo ibrido e incompiuto entro cui vivono le istituzioni locali avrebbe bisogno di ben altri contributi. La governabilità territoriale è ingolfata da un apparato pletorico, sovraffollato, obsoleto. Anche la sola mappa dei reticoli confinari riproduce uno scenario intricato e contorto di competenze sovrapposte che attendono semplificazione e ri-forma. Ma per questo bisogna sfuggire alle comode scappatoie della retorica identitaria, ai tranelli della governance, alle contraddizioni della sussidiarietà e ripensare il territorio come soggetto della decisione politica.

La recessione ridisegna l’universo del gioco d’azzardo. A farlo è l’ingresso in massa in questo settore delle classi medie e medio basse, quelle colpite dall’aumento della disoccupazione. Mentre sprofondano nella povertà sognano di salvarsi vincendo la lotteria o ottenendo il cosidetto jackpot, i tre simboli identici alle slot machines che producono una pioggia di monetine. Non si gioca più per divertimento ma per disperazione, questo il messaggio che arriva dai paesi anglosassoni, da sempre all’avanguardia nel gioco d’azzardo. Questo è quel che ci racconta “The Millionaire”, il film pluripremiato agli Oscar in cui la febbre per la «ruota della fortuna» diventa la malattia e la cura di milioni di disperati negli slum di Mumbai. Di questo, anche di questo, parla la corsa collettiva al Superenalotto che in Italia accomuna classi sociali e categorie, suore preti e immigrati, poveri e amministrazioni comunali, classe media, tutti: l’ultima carta, la carta della fortuna.

I giocatori incalliti sono stati duramente colpiti dalla recessione, ecco perchè i grandi casinò sono ormai semivuoti; se non ci fosse il crimine organizzato che li usa ancora per riciclare il denaro sporco molti sarebbero costretti chiudere. La recessione sembra schivare quel settore del gioco d’azzardo non frequentato dai professionisti: lotterie e bingo. Ecco spiegato perchè mentre Las Vegas, tempio dei piaceri proibiti degli adulti, è ormai semideserta, i piccoli casinò disseminati nelle riserve indiane dell’Ovest pullulano di gente che tenta la sorte al Kino, una specie di lotteria permanente. Uno studio della società britannica Global Betting and Gambling Consultants (GBGC) descrive la crisi come la tempesta perfetta per il gioco d’azzardo tradizionale. Il settore sta mutando profondamente perché la recessione cambia le motivazioni del gioco. Tentare la sorte diventa un modo per esorcizzare la disperazione di una classe che sa benissimo di non essere più in grado con il proprio lavoro di ottenere la mobilità sociale dei propri genitori.

La distanza tra le classi medie e medio basse e i ricchi è talmente tanta che solo un colpo di fortuna può colmarla. In questo mondo che tanto assomiglia al nostro passato remoto, quella antecedente alla nascita della classe operaia, un mondo senza coscienza politica né identità di classe, il fato è tornato di moda. Tutti si affidano alla sorte e tutti giocano. Una sorta di tassa sulla perdita di speranza nei propri mezzi. In netto aumento il gioco d’azzardo online, quello che si fa seduti comodamente in casa, lontano dagli occhi degli altri. Costa poco e crea una dipendenza quasi immediata. A detta di GBGC gran parte della crescita prevista nei prossimi anni nel settore dell’azzardo proverrà proprio dai casinò virtuali.

Nonostante la crisi, dunque, le proiezioni per il settore sono molto ottimiste: dai 345 miliardi di dollari del 2001 si passerà a 433 miliardi nel 2012. Ne basterebbe una piccolissima percentuale per iniziare a finanziare la riconversione industriale verde dei paesi occidentali e interrompere la crescita della disoccupazione. Ma nessun governo ha pensato di tassare pesantemente il piccolo azzardo.

L´Egocrate è ossessionato. Diventa isterico, quando lo si contraddice con qualche fatterello o addirittura con qualche domanda. Se non parli il suo linguaggio di parole elementari e vaghe senza alcun nesso con la realtà; se non alimenti le favole belle e stupefacenti del suo governo; se non chiudi gli occhi dinanzi ai suoi passi da arlecchino sulla scena internazionale; se non ti tappi la bocca quando lo vedi truccare i numeri, il niente della sua politica e addirittura le sue stesse parole, sei «un delinquente», come ha detto di Repubblica qualche giorno fa.

O la tua informazione è «giornalismo deviato»: lo ha detto di Repubblica, ieri. Che al Prestigiatore d´affari e di governo appaia «deviato» questo nostro giornalismo non deve sorprendere e non ci sorprende. È "naturale", come la pioggia o il vento, che il monopolista della comunicazione giudichi il nostro lavoro collettivo una «deviazione». Lo è in effetti e l´Egocrate non sa darsene pace: ecco la sua ossessione, ecco la sua isteria. Deviazione – bisogna chiedersi, però – da quale traiettoria legittima? Devianza da quale "ordine" conforme alla "legge"? E qual è poi questa "legge" che Berlusconi ritiene violata da un giornalismo che si fa addirittura "delinquenza"? La questione merita qualche parola.

Il potere e il destino di Berlusconi non si giocano nella fattualità delle cose che il suo governo disporrà o ha in animo di realizzare, ma soltanto in un incantato racconto mediatico. Egli vuole poter dire, in un monologo senza interlocutori e interlocuzione e ogni volta che lo ritiene necessario per le sue sorti, che ha salvato il mondo dal Male e l´Italia da ogni male. Esige una narrazione delle sue gesta, capace di creare – attraverso le sinergie tra il "privato" che controlla e il "pubblico" che influenza – immagini, umori, riflessi mentali, abitudini, emozioni, paure, soddisfazioni, odi, entusiasmi, vuoti di memoria, ricordi artefatti. Berlusconi affida il suo successo e il suo potere a questa «macchina fascinatoria» che si alimenta di mitologie, retorica, menzogna, passione, stupidità; che abolisce ogni pensiero critico, ogni intelligenza delle cose; che separa noi stessi dalle nostre stesse vite, dalla stessa consapevolezza che abbiamo delle cose che ci circondano. Mettere in dubbio questa egemonia mediatica che nasconde e, a volte, distrugge la trama stessa della realtà o interrompere, con una domanda, con qualche ricordo il racconto affascinato del mondo meraviglioso che sta creando per noi, lo rende isterico.

È una «deviazione» – per dire – ricordare che non si ha più notizia dei mutui prima casa e della Robin tax o rammentare che dei quattro "piani casa" annunciati, è rimasto soltanto uno, e soltanto sulla carta. È una «deviazione» ripetere che non è vero che «nessuno è stato lasciato indietro», come non è vero che i nostri «ammortizzatori sociali» siano i «migliori del mondo». È "criminale" chiedere conto a Berlusconi della realtà, delle sue menzogne pubbliche, delle sue condotte private che disonorano le istituzioni e la responsabilità che gli è stata affidata. Lo rende ossessivo che ci sia ancora da qualche parte in Italia la convinzione che la realtà esista, che il giornalismo debba spiegare «a che punto stanno le cose» al di là della comunicazione che egli può organizzare, pretendere, imporre protetto da un conflitto di interessi strabiliante nell´Occidente più evoluto.

Nessuna sorpresa, dunque, che l´Egocrate ritenga Repubblica un giornale di «delinquenti» indaffarati a costruire un´informazione «deviata». Più interessante è chiedersi se, ammesso che non l´abbia già fatto, il governo voglia muovere burocrazie sottomesse – queste sì, nel caso, «deviate» – contro questa «deviazione» – e deviazione deve apparirgli anche una testimonianza contro di lui di una prostituta che ha pagato o l´indagine di un pubblico ministero intorno ai suoi comportamenti. È un fatto che Berlusconi esige e ordina che la Rai si pieghi nei segmenti ancora non conformi, come il Tg3, a quel racconto incantato della realtà italiana.

Ancora ieri, Berlusconi – mentendo a gola piena e manipolando le circostanze – ha tenuto a dire che «è inaccettabile che la televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, sia l´unica tv al mondo ad essere sempre contro il governo». Sarà questa la prossima linea di frattura che attende un paese rassegnato, una maggioranza prigioniera dell´Egocrate, un´opposizione arrendevole. Lo si può dire anche in un altro modo: accetteremo di vivere nel mondo immaginario di Berlusconi o difenderemo il nostro diritto a sapere «a che punto siamo»? Se questa è la prossima sfida, i dirigenti i lavoratori della Rai, del servizio radiotelevisivo sapranno mettere da parte ambizione, rampantismo, congreghe e difendere la loro "missione" pubblica, la loro ragione di essere? Per quanto riguarda Repubblica, Berlusconi può mettersi l´anima in pace: faremo ancora un´informazione deviata dall´ordine fantastico, mitologico che vuole imporre al Paese.

Misura perversa Vanno contro la Costituzione e provocano effetti negativi a catena - Il Meridione sconta già stipendi più bassi e un Pil pro capite considerevolmente inferiore

Più che uno studioso qui ci vorrebbe un comico. Eh sì, perché questa storia delle gabbie salariali è un perfetto esempio di umorismo nero. Il Meridione se la passa male? Si può anche riuscire a farlo stare peggio... Insomma, se Berlusconi ha deciso di dare retta ad una delle ultime richieste strampalate della Lega il motivo può essere individuato nella politica, non certo nella ricerca del bene comune». Professore emerito dell’Università di Torino, il sociologo Luciano Gallino è persona dall’esposizione pacata, che però questa volta non può esimersi dall’utilizzare toni forti. Troppo squinternato il progetto governativo dell’Agenzia per il Sud, con i suoi annessi e connessi, per consentire una riflessione asettica.

Il premier, come al solito, celebra le sue iniziative in pompa magna. Per il piano destinato al Mezzogiorno si è evocato nientemeno che il New Deal di roosveltiana memoria.

«Che dire? Visto che l’architrave del progetto consta, appunto, nel differenziare i salari fra Nord e Sud, oppure, usando il linguaggio edulcorato di questi giorni, parametrare le buste paghe al costo della vita, è bene sottolineare che si tratta di un’idea che non sta in piedi da qualunque prospettiva venga considerata».

C’è il risvolto etico-politico...

«Che è assolutamente insostenibile. La nostra Costituzione spiega che ad uguale lavoro dovrebbe corrispondere uguale compenso, il che, usando un eufemismo, mi sembra una cosa un po’ diversa dalle gabbie salariali».

Ci sono poi le conseguenze economiche e sociali.

«Che sarebbero semplicemente devastanti. Pagare delle retribuzioni più basse nel Meridione provocherebbe una catena di effetti negativi. Basti pensare all’ammontare delle pensioni, che dopo le micidiali riforme succedutesi a partire dagli anni Novanta si sono già impoverite arrivando a scendere fino al 40% dell’ultimo salario corrisposto. E che ne sarebbe della domanda, del livello dei consumi, a fronte di stipendi ancora più bassi? Il tutto in un territorio che sconta già un cospicuo arretramento rispetto al Nord del Paese. Insomma, con le gabbie salariali verrebbe alimentato una sorta di circolo perverso della diseguaglianza. Senza contare i paradossi pratici che sarebbero causati da una tale iniziativa».

Vale a dire?

«Di fatto, a parità di impiego, gli stipendi nel Sud dell’Italia sono già più bassi rispetto a quelli pagati al Nord, in media inferiori del 15% per quanto riguarda gli operai e del 22% per impiegati e quadri intermedi. E allora che cosa si vuol fare? Non applicare a questi sfortunati lavoratori i prossimi contratti, o magari tagliargli da subito gli emolumenti? Il tutto in un’area del Paese dove, è sacrosanto ricordarlo, il Pil pro capite è gia inferiore del 40% rispetto a quello prodotto nel Settentrione, 18.000 euro contro 30.000».

Per i sindacati sarebbe ancora possibile gestire dei rinnovi nazionali dei contratti?

«Non credo proprio, se già consideriamo le attuali difficoltà da parte delle forze sociali nel restare unite e tenere tutti i lavoratori dentro i contratti. In realtà, con l’introduzione delle gabbie salariali diverrà ancor più frenetico un fenomeno drammatico: l’esodo di massa verso le zone più benestanti. Del resto i numeri parlano chiaro: negli ultimi 10/11 anni sono partiti verso il Nord qualcosa come 700.000 persone, molte delle quali in possesso di laurea o diploma. Per le regioni del Mezzogiorno si tratta di una colossale perdita di capitale umano, ma anche di soldi e servizi, qualcosa come 70 miliardi di euro che hanno attraversato il Paese dal basso verso l’alto».

Nel giorno in cui in questo paese la condizione di clandestinità diventa reato Fini e Napolitano onorano la memoria degli italiani morti a Marcinelle, emigrati in cerca di lavoro e sepolti nella tomba di una miniera cinquant’anni fa. È una piccola Italia questa che dimentica Little Italy, Rocco e i suoi fratelli, Pane e cioccolata. Da Sud a Nord, da Est a Ovest. Stranieri siamo tutti, lo siamo stati - additati per strada - appena ieri. Scrive oggi nel blog una lettrice, Concetta: «In Svizzera gli italiani li chiamano “tschinke”. Pare derivi da “cinque” perché i primi immigrati giocando a dadi invocavano l’uscita del 5, venivano perciò identificati col suono di quella parola. Per gli svizzeri equivaleva a “zingari”, “pezzenti”. Ma non a “delinquenti” perché i delinquenti fanno paura e quelli veri venivano solo denunciati, non aggrediti. I semplici “tschinke”, invece, venivano offesi e maltrattati e anche picchiati (in gruppo, di solito). Gli italiani - del Nord (quanti veneti!), del Sud e delle Isole - le hanno subite queste cose e se le ricordano. Ma avevano sempre un atteggiamento dignitoso, onesto ed erano alla lunga affidabili. Gli svizzeri se ne sono accorti anche se periodicamente, ogni due tre anni, c’era il Bossi della situazione (Schwarzenbach, si chiamava) che proponeva un referendum per cacciarli. Andava in tv in cravatta nera. Aveva argomenti del tipo “bisogna aprire le porte, ma non abbattere le staccionate” e una volta disse che bisognava tenere i laureati (aveva molto a cuore i medici, mi ricordo) e rimandare in patria gli altri». Noi teniamo le badanti, abbiamo molto a cuore loro.

È una piccola ipocrita Italia quella che finge di concedere l’accesso ai regolari e poi li truffa e li costringe alla clandestinità, come accade a San Nicola Varco - ci racconta in una bellissima inchiesta Gabriele Del Grande - ma anche nelle periferie e nelle campagne del Nord. Si fa così: un’azienda chiede di assumere immigrati dalle “quote”, li chiama attraverso intermediari (il servizio ha un prezzo, l’immigrato paga), loro arrivano in aereo e con le carte in regola, quando sono a destinazione si accorgono che la ditta che li ha chiamati non esiste. Vuoto, niente: non c’è. Otto giorni e diventano clandestini, sfruttabili per la raccolta di pomodori, per l’edilizia e certo per la manovalanza del crimine, se disperati, davvero a poco prezzo. Basterebbe andare a vedere, controllare, avere, anziché ronde in costume, un servizio pubblico di polizia messo in grado di lavorare con dignità in modo capillare: sarebbe facile allora sapere cosa accade davvero attorno a noi, dietro e oltre il terrore per lo straniero che ogni giorno si instilla. Alessandro Dal Lago, sociologo, racconta di quel che già succede a Genova e profetizza che il reato di clandestinità avrà il solo effetto di far nascondere i clandestini. Un popolo invisibile, braccato e ricattabile. Preda di chi voglia servirsene. A volte sarebbe sufficiente ascoltare la lingua del popolo: Anna Finocchiaro ci racconta dei «cristiani» di Sicilia, cristiani che vuol dire persone, cristiani bianchi e neri. Musulmani, comunque cristiani. Parlando di cinema, del Padrino e di Sacco e Vanzetti, Alberto Crespi conclude che sì, abbiamo esportato in America sia mafiosi che anarchici. I mafiosi sono stati trattati molto meglio.

Il premier sulle escort: "Non sono ricattabile". Il Pd: pronti a mobilitarci

Un uomo politico che di criminali se ne intende, come provano le condanne inflitte per reati molto gravi ad alcuni dei suoi più stretti amici, ieri si è permesso di attaccare i cronisti politici di Repubblica, indicandoli così: «Quelli sono dei delinquenti».

Bisogna risalire a Richard Nixon nei nastri del Watergate per trovare un simile giudizio nei confronti di un giornale. Oppure bisogna pensare alla Russia dove impera a carissimo prezzo la verità ufficiale di Vladimir Putin, non a caso amico e modello del nostro premier.

Questa isteria del potere rivela la disperazione di un leader braccato da se stesso, con uno scandalo internazionale che lo sovrasta mandando a vuoto il tallone di ferro che schiaccia le televisioni e spaventa i giornali conformisti, incapaci persino di reagire agli insulti contro la libertà di stampa.

Quest´uomo che danneggia ogni giorno di più l´immagine del nostro Paese e toglie decoro e dignità alle istituzioni, farà ancora peggio, perché reagirà con ogni mezzo, anche illecito, al potere che gli sta sfuggendo di mano, un potere che per lui è un fine e non un mezzo.

Noi continueremo a comportarci come se fossimo in un Paese normale. In fondo, questo stesso personaggio ha già cercato una volta di comperare il nostro giornale e il nostro gruppo editoriale, ed è stato sconfitto, dopo che – come prova una sentenza – con i suoi soldi è stato corrotto un magistrato: a proposito di delinquenti. Non tutto si può comperare, con i soldi o con le minacce, persino nell´Italia berlusconiana.

Il discorso pubblico sull’Unità d’Italia è rapidamente scivolato nel discorso sulla sua disunione. Non c’è da meravigliarsene: si parla sempre del medesimo oggetto, del ruolo che la politica ha, o non ha, nella vita del nostro Paese.

Alla sua origine l’Unità fu l’esito di un’azione politica, non di una necessità storica: nonostante le grandi narrazioni delle intelligenze più generose e progressiste, da Mazzini a Manzoni, non vi era un’Unità in potenza, un popolo unito dalla storia, pronto a diventare una realtà effettuale. Quando l’Italia fu fatta, fu chiaro ai suoi stessi artefici che si trattava di una arrischiata scommessa, di uno Stato nazionale senza Nazione.

Fatta l’Italia, toccò alla politica fare anche gli Italiani. Il che avvenne – al prezzo di dolorosissime esclusioni (i milioni di emigranti) – attraverso le istituzioni (dal Parlamento nazionale ai Regi Licei al Regio Esercito), ma anche con la nazionalizzazione delle masse (indotta dalle mitologie patriottiche postrisorgimentali, e dalla Grande Guerra), col nazionalismo sociale e imperialistico del fascismo, e infine con la democrazia. Nella quale la forza civile di una cittadinanza pensata finalmente per tutti si è combinata con la formidabile potenza inclusiva del capitalismo, in un rapporto di dura competizione ma anche di collaborazione con le rappresentanze politiche del lavoro (sindacati e partiti di sinistra), sotto la garanzia della Democrazia Cristiana.

È da questa modernizzazione democratica – all’insegna dello Stato sociale, della produzione, e dei consumi – che sono risultati gli Italiani: che sono oggi una società di massa occidentale, e quindi relativamente omogenei quanto a cultura, lingua, stili di vita, esperienze, aspettative. Ma mentre, durante la Prima Repubblica, venivano fatti gli Italiani, era scarsamente manutenzionata l’Italia politica: la sua esistenza veniva data per scontata, e non era un vero problema. Anche il suo funzionamento pareva accettabile: dopo tutto, le istituzioni democratiche e l’Unità d’Italia sembravano avere retto bene o male, le prove del dopoguerra: i separatismi, le contrapposizioni ideologiche, i terrorismi, le rivoluzioni di costume (anche le Mafie, benché mai sconfitte, parevano entità parassitarie, in fondo subalterne, rispetto alla forza della democrazia).

Che dietro agli Italiani ci fosse in realtà poca Italia – che l’omogeneità della società di massa fosse percorsa da contraddizioni e da scomposizioni che sempre meno trovavano sintesi politica – è apparso chiaro quando, dopo la paralisi dei partiti costituzionali negli anni Ottanta, e dopo le inchieste giudiziarie degli anni Novanta, su questa Italia si è abbattuta una politica giocata sulla forzata contrapposizione e sulla strumentale mobilitazione permanente di una parte degli Italiani contro l’altra (dei ‘liberali’ contro i ‘comunisti’): la politica di Berlusconi. Cioè, paradossalmente, di un uomo che molto ha contribuito con le tv commerciali all’unificazione, e all’omologazione, degli Italiani, a renderli ciò che oggi sono; e che all’Italia – trasfigurata in uno slogan sportivo – ha intitolato il proprio partito, e dedicato la dichiarazione d’amore con cui ha iniziato la sua carriera politica ("l’Italia è il Paese che amo").

Fino a quando Berlusconi ha conservato il suo potere politico, l’italianità fittizia – di cui egli produceva la rappresentazione con le sue televisioni, e con la sua stessa persona, dilatata a icona in cui gli Italiani si immedesimavano – compensava, apparentemente, le divisioni che egli creava, o che acuiva, fra gli Italiani; e col suo populismo egli in parte copriva, o almeno lo pretendeva, anche l’indebolimento delle istituzioni democratiche, il deficit di spirito pubblico e di patriottismo costituzionale dell’Italia politica, che il suo stile di lotta e di governo produceva o accelerava.

Ma oggi il suo potere si è parecchio affievolito, tanto per le sue vicende private (che egli stesso ha da sempre voluto far valere come pubbliche, e che ora gli si rivoltano contro, in patria e all’estero) quanto per la crescente difficoltà che egli incontra a supplire con la sua fittizia immagine unitaria d’Italia le lacerazioni reali che la crisi economica, poco governata, induce e amplifica fra gli Italiani. I quali restano sì uniti dallo stile di vita, dalla cultura, dalla lingua, ma si dividono per redditi, per interessi sempre più parziali e confliggenti, secondo linee di frattura sia sociali sia locali.

Mentre barcolla la sua capacità di produrre identificazione simbolico-emotiva per gli Italiani, Berlusconi si trova di fatto a inseguire i suoi alleati che scommettono sulla frammentazione e sulla divisione d’Italia: ovvero tanto la Lega Nord, alle cui assurde provocazioni su dialetti e territori non ha saputo opporre una risposta dignitosa (e del resto l’incalzante offensiva leghista sulle gabbie salariali e sul tricolore fa parte di una calcolata strategia di disunione), quanto l’embrione della Lega Sud, ricettacolo di antiche e nuove clientele notabilari e frustrazioni popolari, che egli ha per ora tacitato elargendo denari virtuali.

È dunque l’attuale estrema debolezza della politica – prima di tutto del governo e del premier, ma anche dell’opposizione, tutta presa dalle sue interne difficoltà – a far dire che oggi esistono sì gli Italiani, ma che nel frattempo, cosa impensabile ai tempi dell’Italietta del cinquantenario (nel 1911) e dell’Italia del boom del centenario (nel 1961), l’Unità d’Italia è tornata a essere un problema politico, serio e incombente.

Stagione terribile per il lavoro. Ogni giorno l'elenco delle società che chiudono i battenti si allunga, accompagnato dallo scempio di professionalità, che si tratti di ricercatori o di operai. Eppure, c'è chi ci racconta che il peggio della crisi è passato, magari perché quelle banche che tanta responsabilità hanno nella crisi, salvate con i soldi dalla collettività, riprendono a girare con gli stessi meccanismi taroccati di sempre. Pazienza se gli effetti sociali dello tsunami finanziario e industriale stiano cominciando a precipitare proprio ora. Ebbene, se in una stagione come questa arrivano delle mezze buone notizie, siano le benvenute.

La prima mezza buona notizia è che per la Innse una soluzione produttiva esiste, grazie a un'offerta d'acquisto avanzata da una società italiana di reindustrializzazione. Dunque, non è vero che l'unico modo per rendere produttiva quella fabbrica consista nella svendita delle macchine a un rottamatore, e dell'area in cui sorge, una volta «liberata» dagli operai, agli speculatori. È una mezza buona notizia, perché fino al momento in cui scriviamo questa proposta non è stata presa sul serio dalle istituzioni locali, quelle che fanno le gradasse con la lombarditudine e poi sottostanno agli input leghisti e romani. Come se la proposta d'acquisto della Innse minacciasse di rovinare le vacanze a presidenti e consiglieri accaldati che avrebbero preferito mettere una croce sopra la vecchia Innocenti e i 49 combattenti che la difendono. Cosicché, la polizia al servizio del rottamatore non è ancora stata tolta dai cancelli. È normale che i cinque operai arrampicati sul piano ponte proseguano la battaglia, insieme ai loro compagni ai cancelli.

La seconda mezza buona notizia viene da Torino: al termine di una lotta durata 5 anni, fatta di sacrifici e persino di rinuncia alla liquidazione per pagarsi l'amministrazione straordinaria, 1.137 operai dello storico marchio del carrozziere Bertone potranno tornare al lavoro. Sotto un altro padrone, la Fiat di Marchionne. Anche questa notizia, pur nella sua straordinarietà, è buona per metà: la Fiat compra a Grugliasco e vuole chiudere a Imola la Cnh e la produzione di automobili a Termini Imerese. E ancora, se è vero che a Grugliasco Marchionne intende produrre per il «suo» nuovo marchio, la Chrysler, le vetture che usciranno dalle linee di montaggio saranno modelli ecologici, oppure suv?

La terza buona notizia arriva dall'isola di Wight. Da giorni oltre 600 lavoratori occupano un impianto di produzione di energia eolica che una multinazionale danese, colosso europeo del settore, vorrebbe chiudere. La parte buona di questa storia è data dal fatto che, insieme agli operai, stanno presidiando l'impianto gli ambientalisti inglesi. Segno che il conflitto tra ambiente e lavoro può essere evitato e la solidarietà è ancora possibile. La parte negativa della storia sta nel fatto che un esito positivo della lotta non è ancora arrivato.

Morale? L'unica possibile è che, invece di affidarsi al destino o al buon cuore dei padroni dell'economia e dei loro delegati in politica, bisogna battersi per riprendersi in mano il futuro. Qualche volta si può anche vincere.

Le favole sono sovente metafora della realtà od anche lettura mascherata dell’inconscio. Ce lo fa venire in mente Angelo Panebianco ("Corriere" del 3 u.s.) quando ripropone la versione di una sinistra sovrastata "dall’ingresso in politica dell’Uomo Nero Silvio Berlusconi", paralizzata "di fronte all’Orco, simbolo di tutti i vizi e le turpitudini del Paese", tanto infantile da raccontare da quindici anni questa fiaba ai propri elettori. Così precipitando nella rovina, ingannata per sovrappiù dai "giornali di riferimento", alias "la Repubblica", che in questo scenario svolge evidentemente la parte del Lupo, con le sue astute lusinghe intento ad adescare la sperduta bambina nel bosco, l’innocente Cappuccetto Rosso.

Può spiacere - e a me personalmente spiace - che uno studioso di scuola liberale sostituisca i fratelli Grimm ad Hayek e Popper, ma cosa non si farebbe al giorno d’oggi nel regno degli struzzi, pur di non porsi il problema di Berlusconi, del significato del suo agire politico, della sua concezione dell’etica pubblica? Riluttanti, quindi, nel riconoscere l’incolmabile antinomia, creata tra comportamenti, pulsioni, proponimenti del Cavaliere e principi irrinunciabili di uno stato liberale: la separazione dei poteri e il loro dialettico rapporto, l’indipendenza della magistratura, il rispetto dei diritti dell’uomo, come individuo e come cittadino, come credente e come ateo, la libertà dell’informazione, sia pur spiacevole ai governanti, la gelosa custodia dei diritti delle minoranze, evitando ogni dittatura della maggioranza.

Basta scorrere le cronache dell’ultimo quindicennio per percepire quanto siano lontane e avverse a tutto ciò la concezione e la pratica berlusconiana del potere. Questo non fa del premier un Orco o un Uomo Nero ma un "monstrum", nel senso latino della definizione (vedi dizionario Georges-Talonghi). Cioè una figura che può essere mostruosa in quanto diversa, ma altresì vista come "strana", "prodigiosa" e persino "meravigliosa", tutti aggettivi che i tanti fans possono, dunque, tranquillamente attribuire al loro Capo: ferma restando la piena attinenza del giudizio espresso da quanti, per contro, paventano il picconamento dello stato liberale e, senza abbandonarsi ad affabulazioni, percepiscono e giudicano il Demolitore come un personaggio alieno alla nostra vicenda nazionale quanto avverso ai valori sui quali, dalla Destra storica alla Repubblica democratica e solidale, era venuta tessendosi la trama dell’unità d’Italia.

C’è bisogno di una casistica per rammentare che Berlusconi, "scendendo in campo", segnò l’avvento al governo della Repubblica dell’uomo più ricco d’Italia, le cui fortune erano in primo luogo determinate dal controllo pressoché monopolistico delle televisioni private e, ben presto, pubbliche, una lesione gravissima che anziché suturata è stata col tempo vieppiù aggravata? Sono ben conscio, ripetendo queste cose ormai vetuste, d’incorrere nella conclamata noia di quanti amerebbero esistesse una decorrenza dei termini anche per la denuncia giornalistica delle pubbliche indecenze, Ma questo benefit mediatico, se è entrato ormai nell’uso di tante anime prudenti, seguita pur sempre a scontrarsi con la testarda reiterazione della denuncia da parte di qualche residuo manipolo di spiriti critici, vocati ad infastidire i potenti.

Così, sotto analoga rampogna, cade chi ancor rammenta le infinite vicende giudiziarie di un premier sfuggente a ogni processo, ed elenca le sentenze abortite per decorrenza dei termini o per prescrizione, per patteggiamento o per sospensione del giudizio (legge Alfano), per intervenuta legislazione ad personam o per indulto. E che sequela di campagne contro la magistratura, indicata al popolar ludibrio, e quanti fendenti alla giurisdizione e quante riforme tese a soggiogare l’indipendenza di giudici e procuratori.

Insomma, Silvio Berlusconi non è - e ha dimostrato di non saperlo, e di non volerlo neppure diventare - un normale leader della destra democratica europea. Non è un Sarkozy, una Merkel, tanto meno un David Cameron, il distinto conservatore, capo dell’opposizione di Sua Maestà, la regina Elisabetta. Per questo non è l’opposizione ad aver le traveggole e ad inventarsi l’Uomo Nero, ma l’aliena natura politica e morale del Cavaliere a rendere la contesa politica italiana simile alla commedia greca (o all’opera dei Pupi?) con personaggi contrapposti, inchiodati a un ruolo e a una maschera fissi, senza variabili all’orizzonte.

Obiettano, peraltro, Panebianco e molti altri che il popolo è con Lui.

Lo vota, lo plaude e quando pronuncia quattro paroline magiche - «non sono un santo» - anche di fronte "alla sua disordinata e sconsiderata vita privata", gli fa l’occhiolino e si sente complice. Una volta ancora la sovrapposizione tra pubblico e privato provoca stravolgimenti di giudizio. Un uomo politico, tanto più un leader, non può non aver presente il pubblico giudizio anche quando agisce privatamente. Da questo punto di vista, il suo diritto alla privacy risulta affievolito. Berlusconi avrebbe dovuto saperlo in partenza, ma anche in questo caso la sua "alienità" o "anti-politicità" che dir si voglia, lo ha assai mal consigliato. Se fosse rimasto solo un tycoon della Tv commerciale e avesse voluto trascorrere le notti nelle sue ville e palazzi tra escort, ballerine, ruffiani e attricette, sarebbe stato affar suo e solo la moglie e i figli avrebbero avuto diritto a protestare.

Come ricca di precedenti sarebbe apparsa la promessa alla favorita del momento di un provino o di una particina. Ma così non è: un presidente del Consiglio che trasforma la sue dimore ufficiali, vigilate in permanenza da carabinieri e servizi segreti, in rutilanti set dove si sfiora l’orgia collettiva e dove la fiction erotica si trasforma in reality, promette seggi a Strasburgo, partecipa a ludici incontri in una capitale della camorra per festeggiare un protetta che compie la maggiore età, rivela di considerare l’etica pubblica alla stregua di un satrapo asiatico dotato di potere assoluto.

Del tutto ignaro della prudenza di comportamento e di rapporti propria dell’uomo di stato occidentale. Per cui, se un rimprovero si può muovere alla opposizione in questo caso, è di essersi attenuta ad una timidezza eccessiva, ai limiti del timore. Altro che di aver cavalcato il moralismo. Aggiungo, a scanso di equivoci, che tutto quello che son venuto fin qui elencando non cancella affatto il giudizio critico sulla insipienza tante volte analizzata delle confuse e contraddittorie velleità della minoranza riformista, sulla sua incapacità di sfuggire al populismo dipietrista, sulla sua carenza di proposte autonome anche in materia di giustizia.

Per contro, di fronte alla noncuranza di certi commentatori liberali, c’è da chiedersi se considerino accettabile il concetto berlusconiano di maggioranza, come potere sottratto a vincoli, norme, contrappesi ed efficaci istituti indipendenti di garanzia e, soprattutto, dominus della Tv. Eppure proprio questa è la filosofia di questo singolare imprenditore che ha trasformato la sua Mediaset in un partito politico. Di qui la convinzione che lo Stato altro non sia che una azienda, più o meno con le stesse regole di governance: fino a quando è lui il padrone, è lui che comanda. Gli avversari, se vogliono sostituirlo, lancino una Opa ostile, se ce la fanno si prendono il pacchetto di maggioranza con quel che segue. Se no, se ne vadano con le pive nel sacco.

Ha un senso in questa situazione suggerire un riformismo di ricasco, che si accodi alla maggioranza, contrattando su qualche briciola di benevolenza padronale? O anche contrapporre il consenso di cui gode il leader alle inutili velleità di una opposizione destinata a restare minoritaria? A chi sostiene una simile arrendevolezza val forse la pena ricordare che anche Mussolini godette per lunghi anni del consenso degli italiani ma l’esigua opposizione non avrebbe mai conosciuto il giorno della rinascita se si fosse rifugiata in un silenzio senza futuro. Paragone forse azzardato perché Berlusconi non è Mussolini e l’opposizione vegeta nei dintorni del Palazzo e non in esilio, ma per favore non spieghiamo tutto ciò con la sindrome dell’Uomo Nero e dell’Orco mangiabambini.

Non poteva esserci più singolare coincidenza nella vicenda della Innse, la storica fabbrica meccanica milanese della quasi contemporanea approvazione da parte della regione Lombardia del cosiddetto piano casa. Nella vicenda da una parte ci sono persone in carne ed ossa che tentano di difendere il proprio lavoro, il proprio sapere, la propria dignità. Dall'altra parte il proprietario, uno dei tanti esponenti della "classe dirigente" cui sarebbero affidati i destini del futuro dell'Italia. Anzi, un esponente molto rappresentativo, poiché ha venduto alla chetichella i macchinari e ora vuol farci una delle infinite speculazioni immobiliari cui siamo abituati in questi anni di delirio del cemento.

Ma nella vicenda c'è anche il "potere pubblico", comune e regione Lombardia, quello che ai sensi della Costituzione repubblicana dovrebbe tutelare gli interessi della collettività. Il primo, il comune assiste senza intervenire sperando che dalla consueta valorizzazione immobiliare arrivi qualche soldo nelle sempre più esangui casse pubbliche. La regione, invece interviene. Eccome. Ha approvato il 16 luglio scorso il piano per il rilancio del settore dell'edilizia. Prevede, tra le altre sconcezze, che i proprietari di immobili produttivi possano aumentare la volumetria esistente (nel caso delle vecchie fabbriche è enorme!) del 35% e cambiare la destinazione d'uso da produttiva a residenziale. Per farlo basta soltanto una semplice deliberazione del consiglio comunale che lo consenta (comma 5 dell'articolo 3). E, dati i rapporti di dipendenza della politica dall'economia, c'è da giurare che tutti i comuni si precipiteranno a consentire la dismissione degli impianti produttivi. La regione Lombardia così silenziosa nella vicenda Innse, è stata invece molto efficiente nel tutelare gli interessi degli speculatori.

Altri palazzi, allora, per la felicità degli energumeni del cemento. Come dare torto al proprietario, al secolo Silvano Genta, se manda a casa gli "esuberi" e si mette a fare speculazione immobiliare? Fare impresa significa investire, innovare, essere in grado di valutare opportunità di mercato. Un mestiere difficile in cui si rischia continuamente. Molto più comodo e senza rischi fare speculazione edilizia. Del resto era stato il piano casa del governo nazionale serviva soltanto a questo, a premiare le grandi proprietà immobiliari; le grandi catene dei supermercati sempre più in difficoltà; le grandi catene di alberghi; i proprietari di grandi fabbriche dismesse.

Ma ancora non bastava. I famelici "imprenditori" nostrani non erano evidentemente soddisfatti ed hanno imposto e ottenuto un altro enorme regalo per la rendita. I primi due scudi fiscali, e cioè il ritorno dei capitali illegalmente esportati all'estero, furono preparati dal ministro Tremonti a partire dal 2001. Rientrarono circa 80 miliardi di euro e non furono utilizzati per investimenti produttivi. Lo disse anche un berlusconiano di ferro come Vittorio Feltri. Ecco un passo dell'editoriale di Libero del 10 aprile 2005: «Berlusconi e Tremonti hanno agevolato il rientro dei capitali dall'estero imponendo una tassa ridicola. I capitali sono rientrati, ma non erano certo i soldi della signora Maria, bensì dei ricchi. E non sono servito a rilanciare l'economia, semmai ad incrementare gli investimenti immobiliari, sicché gli immobili sono aumentati vertiginosamente di prezzo, rendendo impossibile l'acquisto ai non miliardari». Parole sante, ma oggi che si è varato il terzo scudo fiscale tutti zitti. Come sulla vicenda Innse. Un altro fiume di denaro sarà indirizzato verso gli investimenti immobiliari. Mentre l'Europa cerca di costruire un'uscita produttiva dalla crisi, l'Italia berlusconiana è preda della rendita speculativa immobiliare. Un paese senza futuro.

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