loader
menu
© 2024 Eddyburg

Fin dal 1982, quando l’eccentricità tedesca sembrava a molti un irremovibile dato della storia, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ruppe le regole con un saggio che fece parecchi scontenti in patria e nelle sinistre. Il saggio s’intitolava Difesa della normalità, e raccontava la perseveranza, il silenzio pieno di saggezza, il senso comune un po’ ottuso, materiale, della Germania ricostruitasi dopo il ’45. Le parole altisonanti le erano divenute detestabili, avendo generato disastri. L’eroe da celebrare non era romantico e idealista, non aveva colori smaglianti, non era stregato dal verbo che trascina. Non era un originale.

Il vero eroe era la Trümmerfrau, la donna che raccatta i detriti del paese bombardato e piano piano, cocciuta, taciturna, irriducibile, riaggiusta prima la propria casa sventrata, poi la città, infine la Germania. Angela Merkel risveglia il ricordo di quelle donne, anche se è una donna dei detriti prodotta dalla versione comunista e orientale dell’idealismo nazionale.

Anche lì non son restate che macerie, rovine. Il miracolo tedesco nell’89 si ripeté e produsse ancora una volta la filosofia delle rovine su cui si è edificata la normalizzazione tedesca. Anche il candidato socialdemocratico Steinmeier, con il suo eloquio misurato, incarna questa filosofia. Ascoltiamo ancora Enzensberger: «La normalità è una forza difensiva, ma incapace di rassegnarsi. Non la si lusingherà con opinioni, visioni del mondo, ideologie. Nella sua piccola vita - ma può la vita essere qualcosa di piccolo? - ci sono enormi riserve di laboriosità, astuzia, disponibilità all’aiuto, indocilità, energia, voglia di vendetta, prudenza, coraggio, selvatichezza». Con queste riserve la Germania è diventata profondamente democratica, allergica a politici carismatici gridati. Le scosse estreme le ha superate con un lavoro su di sé, e sulla memoria, senza eguali in Europa. Qui i grandi dibattiti non s’insabbiano come da noi: né sul nazismo, né sul ’68 e il terrorismo, né sul revisionismo storico.

Ne è risultata una sorta di ottusità noiosa, che Roger Cohen descrive magistralmente sul New York Times del 24 settembre e che ha grandi virtù e anche vizi: c’è qualcosa nella dullness tedesca che secerne massima puntualità, e poca sottigliezza. Ma è questa non sottile puntualità che ha infine consentito la «digestione del crimine», e ha estinto la catastrofe che è stata, nel cuore d’Europa, l’«eruzione dello Stato-nazione tedesco» fra il 1871 e il 1945. La storia della normalità tedesca ha oggi 64 anni: poco meno della storia dell’eruzione.

Il desiderio di normalità ha coinciso con l’adesione entusiasta all’Europa unita, dopo il ’45. Grazie a politici come Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, la Germania si è sgermanizzata, come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi, e nell’Unione è stata il Paese che con più convinzione ha scelto la fine della sovranità nazionale assoluta e il doppio patriottismo tedesco ed europeo. Più che sgermanizzarsi, in realtà, il Paese si liberava dell’idealismo romantico e tornava alla cittadinanza del mondo di Schiller, alla letteratura mondiale di Goethe. Nell’Est tedesco il lavoro su di sé è più lento, essendo cominciato da poco: è il motivo per cui la socialdemocrazia è alle prese con una sinistra ( Die Linke) che sarà difficile da assorbire. Se Angela Merkel governasse con i liberali, la socialdemocrazia avrebbe più tempo per accingersi a un compito che sarà lungo e faticoso.

La normalizzazione ha tuttavia i suoi demoni nascosti. Come il pragmatismo, è una virtù che secerne anche chiusure, avversioni al rischio, pensieri e calcoli corti. Un’involuzione simile la Germania la sta vivendo oggi: soprattutto sull’Europa e l’economia. È una svolta iniziata dopo l’89: prima impercettibilmente, poi in maniera più palese, qualcosa è accaduto nella mente tedesca e ha preso a mutarla. D’un tratto, è stato come se tutte le cose in cui la Germania aveva creduto grazie alla filosofia delle rovine - l’Europa, il mondo più vasto della propria casa - avessero perso attrattiva, senso. Come se l’Europa fosse stata, negli anni in cui la Germania aveva tanto creduto in essa, un mezzo più di un fine: un mezzo che aveva riabilitato il Paese, mettendo fine alla sua eccentricità. Che aveva i vantaggi del Persilschein: dello speciale lasciapassare che nel dopoguerra veniva rilasciato dalle forze d’occupazione e ripuliva i tedeschi dalle loro colpe con la forza del detersivo Persil.

La maggioranza dei tedeschi resta europeista ma in modo apatico, anche nelle élite. Riconquistata l’unità si riscoprono le delizie di una certa separatezza, perfino della vecchia specificità nazionale. Si fanno sogni niente affatto nuovi sullo Stato-nazione autosufficiente, sulla sovranità, sulla cura esclusiva del proprio giardino, dei propri interessi immediati. Il negoziato su Opel ha disvelato questa tendenza, ma il culmine è stato raggiunto con la sentenza della Corte Costituzionale sul trattato costituzionale di Lisbona, il 30 giugno scorso: una sentenza che ha detto sì al Trattato, ma no a un’unione europea più perfetta. Per la prima volta, un’istituzione tedesca di massimo rango mette in guardia contro salti di qualità della costruzione europea e ricorda che la sovranità della nazione è un principio costituzionale irrinunciabile. Riccardo Perissich, che per anni ha lavorato nelle istituzioni europee, ha criticato il verdetto con pertinenza, in un articolo per Astrid, parlando di gollismo tedesco: «I giudici tedeschi non negano la possibilità di una prospettiva federale, sembrano quasi dire che essa è necessaria. Tuttavia nel definirne le caratteristiche e negando che la legittimità “europea” possa svilupparsi parallelamente a quella nazionale senza sostituirsi ad essa, pongono anche chi vorrebbe fare il salto di fronte ad un fossato talmente ampio e così “tedesco”, da renderlo di fatto invalicabile». La Corte ha svilito perfino la legittimità del Parlamento europeo, contraddicendo le tante battaglie tedesche per l’Europa politica democratica.

Questa regressione è un frutto tardivo della perseveranza un po’ torpida delle generazioni postbelliche, e rischia non solo di paralizzare l’Europa ma di ottundere le menti tedesche nel momento preciso in cui nel mondo si tentano nuove vie di cooperazione. La normalità non impedì in passato alla Germania di essere all’avanguardia nell’inventare l’Europa, lo Stato post-nazionale, la stabilità economica condivisa. Al momento decisivo sacrificò perfino il suo principale attributo di sovranità: la moneta. La questione del clima fu lei a porla e affrontarla per prima. Ora assapora i piaceri non sempre sottili della retroguardia, del rinchiudersi, del potere esercitato per mantenerlo e non per agire azzardando il nuovo e lo slancio. Da realista che era, rispolvera una sovranità non più aggressiva ma non meno illusoria. «I tedeschi stanno accovacciati: non infelici e non ispirati», scrive Cohen. Altri sono ispirati oggi dalla filosofia delle rovine: a cominciare da Obama, che constata la crisi dello Stato-nazione onnipotente, solitario. Sta cambiando posizione perfino Kissinger, che per decenni teorizzò la balance of power alla Metternich, l’equilibrio-competizione fra potenze nazionali: un concetto che giudica superato, dopo la crisi dell’economia e dell’egemonia Usa (La Stampa, 23-8-09).

Proprio questo è il momento in cui la Germania della Merkel, invece di tesaurizzare la saggezza postbellica, guarda indietro, si ri-germanizza. Su questo giornale Marcello Sorgi ha evocato con acume la Ostalgie, l’irrazionale nostalgia di muro e di provincia che pervade l’Est tedesco. Ma c’è qualcosa di nostalgico anche nella scoperta tardiva della sovranità nazionale. Qualcosa che rende la Germania un po’ vendicativa come l’Est europeo, e un po’ boriosa come la Francia.

Non credo proprio di essere anti-italiano se rilevo che, di fronte ai grandi problemi del Paese, questo governo e il suo leader risultano inadeguati, portati allo spot autopromozionale anziché a quelle scelte concrete che pure Berlusconi rivendica per sé ad ogni minuto, vantando che nessuno si è portato meglio di lui e di loro. Frottole. Nella graduatoria del BIL (Benessere Interno Lordo) le prime regioni sono Emilia-Romagna, Marche e Toscana, in testa la provincia di Forlì-Cesena. Non le regioni, non le province governate dal Pdl e dalla Lega. Solo un caso?

Torniamo al governo, al premier e alla loro superficialità e inadeguatezza. Nel post-terremoto d’Abruzzo, malgrado le frequenti marce di Berlusconi e del suo proconsole sull’Aquila, i prefabbricati sono in ritardo (i primi consegnati erano della Provincia di Trento) e insufficienti di numero. Anche perché non si è sprezzantemente voluto tener conto delle esperienze positive del Friuli, dell’Umbria, delle Marche dove enti e comunità locali furono fortemente responsabilizzate e motivate nella ricostruzione. Mentre qui risultano disperse, frustrate, tagliate fuori dalla Protezione Civile.

E’ così nella vicenda della nave dei veleni ritrovata nel fondo dello Jonio grazie alla tenacia di un assessore regionale, Salvatore Greco, stimatissimo biologo marino, che “l’Unità” intervista, di magistrati che non si sono persi d’animo di fronte ad una vicenda oscura che dal 1994-95 (gli anni dei dossier di Legambiente e Wwf) esigeva di venire scoperchiata. Risale a quel tempo la prima commissione bicamerale d’inchiesta sui rifiuti tossici presieduta da Massimo Scalia. Ne feci parte e ricordo come rimanemmo scioccati già al primo giorno quando dall’audizione degli ufficiali dei Noe, della Finanza, del Corpo Forestale, della Ps emersero crimini inimmaginabili sintetizzati nella frase di uno di loro: “Smaltire una cisterna di rifiuti tossici è facilissimo: basta superare di notte il casello di una autostrada, poi il contenuto viene sversato dove capita”. La stessa facilità rivelata da un collaboratore di giustizia per l’affondamento criminale della nave dei veleni.

Lo Stato assente, il governo latitante. Basterebbe finanziare seriamente quei corpi speciali, potenziare e integrare le loro reti. Con soli 77.000 euro la cooperativa Nautilus ha individuato, in due giorni, il pericoloso relitto. Tanto assente il governo italiano che l’assessore regionale Salvatore Greco (un altro anti-italiano, evidentemente) ha avanzato l’ipotesi di un intervento straordinario della UE essendo quei veleni un pericolo gravissimo per i 22 Paesi affacciati sul Mediterraneo. Come dargli torto?

Vogliamo poi parlare della arrendevolezza del governo verso quanti evadono, eludono, speculano? Il provvedimento sullo “scudo fiscale” passa un autentico colpo di spugna su vari reati finanziari, a cominciare dal falso in bilancio. “Una schifezza”, l’ha definito la senatrice Anna Finocchiaro. Una schifezza che nessun ministro di questo governo ha avuto il coraggio di illustrare ai senatori. “Così finanzieremo le scuole”, si è vantato il senatore Gasparri. Magari quelle private. Coi soldi “mafiosi” di ritorno però.

L'attacco terroristico che a Kabul ha spento la vita di sei soldati italiani, assieme a quella di circa venti civili afghani, dovrebbe indurci ad una seria riflessione politica, molto al di là del cordoglio d'occasione. Dovrebbe anzitutto ricordarci che oggi, più di sempre, la guerra comporta la strage di vite umane e che la guerra in Afghanistan ha già sacrificato la vita di decine di migliaia di persone e continuerà a sacrificarla. Altre centinaia di civili afghani e di militari occidentali moriranno nei prossimi mesi. L'imponente operazione «Colpo di spada», voluta dal presidente Barack Obama all'inizio del suo mandato, non si fermerà facilmente. Fra le vittime ci saranno inevitabilmente altri giovani italiani. Sembra che i combattenti afghani abbiano ben capito quello che il ministro La Russa ha sbandierato in lungo e in largo nelle ultime settimane: gli italiani sono in Afghanistan non per una missione di pace ma per fare la guerra.

Che senso ha tutto questo? Che cosa legittima questo fiume di sangue? Quali sono gli obiettivi perseguiti dai combattenti occidentali, quelli italiani inclusi? In gioco sono valori irrinunciabili come la libertà e la democrazia o la guerra ha invece origine in spietati interessi economici e in strategie di dominio neocoloniale?

In questi giorni di lutto i rappresentanti del governo e del parlamento italiano si sono espressi in termini singolarmente concordi: i militari italiani sono impegnati in una guerra legittima che deve continuare nonostante le perdite umane. La missione Isaf-Nato alla quale essi aderiscono - si sostiene - è stata legittimata dalle Nazioni Unite ed è dunque in perfetta sintonia con il diritto internazionale vigente, oltre che con la Costituzione italiana. E ciò che rende nobile oltre che legale la presenza militare dell'Italia in Afghanistan è la volontà di contribuire alla ricostruzione dello Stato afghano e alla esportazione in Afghanistan dei valori della libertà e della democrazia.

Si tratta - da Ignazio La Russa a Pier Ferdinando Casini, a Pier Luigi Bersani, a Massimo D'Alema - di una sconfortante retorica bipartisan, espressione della dipendenza della politica estera italiana dalla volontà degli Stati Uniti e, di conseguenza, dagli ordini della Nato. Come è noto, in Afghanistan la Nato non è che la longa manus europea della superpotenza americana. E l'intesa bipartisan si alimenta di una complice deformazione delle circostanze di fatto e di diritto, oltre che di una opportunistica declamazione della missione umanitaria dell'Italia nel mondo.

Ciò che si deve dire con fermezza è che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu non ha mai autorizzato la guerra scatenata nell'ottobre 2001 dal presidente Bush contro l'Afghanistan - la famigerata missione Enduring Freedom -, né ha mai consacrato come legittima la leadership di potere del collaborazionista Hamid Karzai, sostenuto dagli occupanti statunitensi. E neppure ha mai incaricato l'Isaf (poi passata nel marzo 2003 sotto il controllo della Nato) di dar vita ad una operazione bellica contro gli insurgents afghani, in particolare dell'etnia Pashtun, fermamente impegnati nella resistenza agli invasori.

Assecondando una richiesta emergente dai controversi «Accordi di Bonn» del 5 dicembre 2001, il Consiglio di Sicurezza aveva assegnato all'Isaf (non a caso denominata International Security Assistance Force) il solo compito di «assistere l'Autorità afghana provvisoria nel mantenimento della sicurezza nella città di Kabul e nei suoi dintorni, in modo che l'Autorità provvisoria e il personale delle Nazioni Unite fossero in grado di operare in un ambiente sicuro». Se è questo che aveva affermato la Risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, allora la missione dell'Isaf non aveva nulla a che fare con la guerra sanguinosissima che la Nato avrebbe poco dopo scatenato nell'intero territorio afghano, spesso agli ordini di comandanti statunitensi, con l'obiettivo di distruggere per sempre il movimento talibano.

Quanto alla motivazione umanitaria della guerra - l'esportazione in Afghanistan della democrazia e dei diritti di libertà - basterebbe a sottolineare che in oltre otto anni di occupazione la struttura politica afghana non è stata neppure sfiorata dai valori e dalla procedure della democrazia rappresentativa. Nessuno osa più negare che le elezioni del 2004 e del 2008 sono state una farsa grottesca voluta e organizzata dagli Stati Uniti. E non c'è chi non riconosca che il governo che fa riferimento ad Hamid Karzai è, oltre che illegittimo, profondamente corrotto e senza la minima autorità rappresentativa. Chi in questi anni ha visitato l'Afghanistan conferma che la tradizione politica afghana è incompatibile con la democrazia ed è lontanissima dalla sue procedure. E riconosce che non esiste alcuno «Stato nazionale» afghano. Emerge qui il delicato problema del possibile rapporto fra democrazia e mondo islamico, un problema complicato dal tribalismo che caratterizza l'organizzazione politico-sociale dei paesi islamici o a maggioranza musulman. In Afghanistan il problema è reso ulteriormente complesso da una struttura tribale policentrica - pashtun, tagiki, uzbeki, hazara, ecc. - molto differenziata e con spiccate identità etniche. Ciascun gruppo tribale, come ha mostrato Louis Dupree (Afghanistan, Oxford, 1997), è un network delicato di diritti e di doveri, sorretto da strutture di potere fortemente personalizzate. Uno Stato unitario non dispotico forse potrebbe riuscire ad affermarsi solo a condizione di assimilare progressivamente - non di cancellare - alcune funzioni politiche svolte dalle unità tribali, rispettandone pienamente l'autonomia e l'identità.

La pretesa occidentale di trasferire coattivamente nei paesi di religione musulmana il modello della democrazia rappresentativa come se fosse un valore assoluto e universalmente praticabile, è un'ottusa pretesa neocoloniale che ha caratterizzato in particolare la presidenza Bush. C'è da augurarsi su questo tema - dopo i primi passi che sembrano in linea con la strategia concepita dal suo predecessore - che il nuovo presidente degli Stati Uniti si ravveda, come mostra lo scontro in atto tra la Casa bianca e l'establishment militare Usa che chiede più truppe «altrimenti la guerra è persa». Ai generali Obama, per ora, risponde: «Non è vero che più truppe vuol dire automaticamente più sicurezza a casa nostra».

George Bush dichiarava di voler «democratizzare» con la forza l'intera area medio-orientale - il Broader Middle East -, ben consapevole che quest'area è il più ricco deposito di risorse energetiche del mondo oltre che uno spazio strategico di eccezionale rilievo. C'è da sperare che Barack Obama si renda conto che una guerra di aggressione camuffata con vesti umanitarie non può che essere percepita dalle popolazioni afghane come una guerra terroristica, alla quale esse resistono con i mezzi spietati di cui dispongono. Al «terrorismo umanitario» della coalizione occidentale, gli insorti afghani oppongono il terrorismo suicida, ottenendo risultati esattamente opposti a quelli che le potenze occidentali dichiarano di voler raggiungere.

“Oramai abbiamo il sovversivismo al governo...». Aldo Schiavone, storico, direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, non usa mezzi termini per descrivere lo stato presente dell’Italia. «Certo, la democrazia corre rischi seri,ma io sono convinto che il berlusconismo stia tramontando », aggiunge con sicurezza. «Questo premier non interpreta più il sentimento degli italiani».

Professore, a proposito dei sovversivi al governo il premier ha di nuovo attaccato l’opposizione accusandola di essere anti-italiana. Davvero la nostra democrazia è in pericolo?

«Guardi, Berlusconi sta stressando la democrazia, la tira per i capelli. La sta impoverendo. Per lui democrazia vuol dire: si vota, chi vince comanda. In questa idea non c’è più ruolo per il Parlamento, si figuri la divisione dei poteri. Resta solo il rapporto carismatico del leader con il popolo che lo ha scelto. In questo senso certo che c’è un rischio per la democrazia. Però, anche se l’Italia rappresenta una versione estrema, la questione democratica è globale. Io dico che in tutto ilmondoc’è bisogno di un rinvigorimento della democrazia».

Ha visto quel che ha detto il ministro Brunetta? Ha parlato di golpe e di una sinistra che deve “morire ammazzata”...

«Questi atteggiamenti ricordano molto quello che Gramsci chiamava il “sovversivismo delle classi dirigenti”. Ceti fragili e senza storia, proiettati all’improvviso al potere, assumono posizioni sovversive, ai limiti dell’anarchia. Chi guida questa logica è Berlusconi, Brunetta non fa altro che interpretare ».

Ma è sicuro che Berlusconi sia al capolinea? Lo abbiamo sentito dire tante volte...

«Sì, il declino c’è. Ma non per la storia delle escort. Il berlusconismo è esaurito, evaporato. Si ricordi che lui vince negli anni Novanta con un messaggio di ottimismo: arricchitevi senza regole. Allora interpretava una voglia di dinamismo della società italiana. Oggi invece è costretto a rovesciare il suo discorso. E infatti nel 2008 ha vinto facendo leva sulla paura. Il disfacimento che vediamo attorno a lui è conseguenza di questa perdita di rappresentanza».

È possibile che nasca in Italia una destra non più populista?

«Credo di sì. In Italia ci sono due destre possibili. C’è quella di Bossi e Tremonti che hanno in mente un’Italia divisa, con un regionalismo lacerato. È una destra arroccata, ringhiosa, contraria al multiculturalismo, paurosa dell’Europa e della globalizzazione e che cerca di ritagliarsi un angolino ai margini. Su questa si posa l’ala protettiva della Chiesa. Poi c’è una destra che fa riferimento a Fini di cui ancora non capisco i confini ma che sembra più moderna, aperta, legalista. Possiamo dire: una destra dei diritti. Queste due destre si contendono il campo. E l’esito è ancora difficile da intravedere».

Come ha fatto secondo lei Berlusconi a cambiare lo spirito degli italiani? Come ha fatto a vincere culturalmente?

«Berlusconi è l’erede di Craxi. Lui e Craxi sono stati gli unici, anche se con pesanti limiti etici e culturali, che hanno letto la modernizzazione, hanno capito l’Italia post-industriale. Diciamo che, in un modo un po’ straccione, sono stati i Reagan e le Thatcher italiani. Berlusconi ha potuto svolgere questo lavoro in un vuoto politico, con una sinistra ancora legata al passato e incapace di interpretare il presente. Così è passato il suo messaggio: individualismo, consumismo, egoismo sociale, niente regole».

Insomma,la sinistra gli ha lasciato campo libero?

«Certo, alla fine della prima repubblica la sinistra non è stata capace di fare una proposta al Paese. Ha compiuto troppi errori, si è trasformata tardi e in modo pasticciato. Se il Pci avesse avuto il coraggio di cambiare prima, credo che Berlusconi non ci sarebbe stato. Possiamo dire, in un certo senso, che Berlusconi è la conseguenza del ritardo della sinistra ».

Ma chi ha sbagliato, Berlinguer?

«No, perché Berlinguer non poteva fare di più, era dentro la storia del comunismo. Gli errori più grandi li hanno commessi i suoi eredi tra l’84 e l’89. Si è perduto troppo tempo».

Oggi come la vede l’Italia:un paese stanco,depresso?

«Vedo un paese provato, toccato dalla crisi che avrà conseguenze che ancora non abbiamo visto. Stiamo andando verso un autunno che sarà pesante. Però io credo che l’Italia ha le risorse per reagire. Noi diamo il meglio nei momenti di difficoltà, quando siamo con le spalle al muro».

Ma come uscirne?

«Questo paese ha un grande bisogno di una leadership politica. Berlusconi non è più in grado di rispondere a questa domanda, la sua visione è entrata in crisi. All’Italia serve un leader che racconti un’altra storia».

Un bel compito per la sinistra...

«Sì, la sinistra ha una grande occasione, si sta aprendo uno spazio enorme: ora deve saper essere espressione della modernizzazione del Paese. Quando negli anni Sessanta e Settanta ha interpretato la spinta verso l’industrializzazione il Pci è diventato polo di attrazione per tante forze diverse per provenienza e matrice culturale. E lo sa perché? Perché vedevano quel partito come soggetto forte del cambiamento».

Ma che vuol dire modernizzazione? È una parola che si può declinare in modi diversi...

«Le dico alcune parole fondamentali. Uguaglianza, ma non intesa in modo seriale: penso invece all’uguaglianza del merito. Nuovi legami sociali. Solidarietà. Nuovi rapporti tra generazioni. E nuovi rapporti anche tra vita e innovazione tecnologica, perché non si può lasciare tutto al mercato. Questi devono essere, per il centrosinistra, i capisaldi della modernità. Qualcuno potrà dirmi: facile a dirsi. Lo so,ma questa è la grande sfida».

Nel suo ultimo libro “L’Italia contesa”lei sostiene che c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Ce la farà il Pd?

«Penso che il Pd abbia bisogno di una forte leadership unita a una forma partito robusta. È sbagliato mettere in contrasto partito del leader e partito organizzato, devono tenersi insieme. C’è bisogno di una pesantezza territoriale. Però attenzione alla fretta, queste sono operazioni che richiedono tempo. Quello del Pd è sicuramente un amalgama difficile ma guai se interpretassimo questa difficoltà come una impossibilità e quindi si reagisca con la voglia di tornare indietro, ai Ds e alla Margherita. Oggi non vedo altra prospettiva oltre al Pd».

Scusi, professore: che cosa c’è di sinistra nel Pd?

«Veltroni ha compiuto diversi errori ma ha avuto un’intuizione giusta. Oggi serve una nuova cultura politica. La sinistra deve essere un’altra cosa rispetto al Novecento, non si può tornare alla vecchia cultura socialista».

Qualcuno le obietterà: ma in Europa i socialisti ci sono...

«Sì, ma guardi bene. Guardi i socialisti francesi che cosa sono diventati, ormai sembrano ridotti a un’ombra di se stessi. E in Germania? La Spd soffre, non sa indicare una prospettiva e infatti vince la Merkel. Persino in Inghilterra è fallito il modello Blair che pure aveva tentato un certo rinnovamento. Questo succede perché tutte e tre le socialdemocrazie (anche se meno quella inglese) sono state esperienze legate al mondo industriale strutturato in classi, non sono state capaci di cogliere le novità dirompenti che entravano in scena. Non hanno compiuto la loro rivoluzione culturale».

C’è un’eccezione: Zapatero. Che ne dice?

«Dico: aspettiamo, bisogna vedere come va a finire. Anche nei paesi dove la tradizione socialista è forte ci sono difficoltà. Bisogna sapere vedere il nuovo: sono cambiati i confini dell’uguaglianza, dello stato sociale, del lavoro. È ora di chiudere con il Novecento. Non dico di cancellare il passato. Dico: usiamolo per fare qualcosa di veramente nuovo».

Chi è Aldo Schiavone

Studioso di diritto e di storia Ha raccontato l’«Italia contesa» Aldo Schiavone è nato a Napoli nel 1944. Laureato in Giurisprudenza, insegna Diritto romano ed è attualmente direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane (Firenze - Napoli).Dal 1980 al 1988 è stato direttore dell’Istituto Gramsci. Autore di numerosi saggi di diritto ha pubblicato recentemente con Laterza «L’Italia contesa». La tesi del libro è che il berlusconismo è al declino e che nel Paese si apre un immenso spazio politico e di pensiero che la sinistra deve essere in grado di occupare costruendo un’altra idea di Italia.

Che cosa è la libertà di stampa? Per stare al presente e al concreto è qualcosa che l’attuale capo del governo non ha mai apprezzato né coltivato. Guglielmo Zucconi e il sottoscritto, chiamati nel 1983 come esperti d’informazione a preparare il telegiornale di Canale 5, la sua televisione, ci trovammo di fronte a questa sorpresa (nostra non sua): che a lui l’informazione importava solo in quanto pubblicità e potere.

E che, avendo già l’una e l’altra con la struttura di Publitalia e con l’alleanza con Craxi, del telegiornale avrebbe fatto volentieri a meno. Infatti lo ritardò per anni. La libertà di stampa per Silvio è un lusso, una stranezza, uno snobismo che viene dopo la pubblicità e «il fare», inteso come buon affare.

Che cosa è la libertà di stampa? Per stare al presente e al concreto è un bene di cui l’uomo moderno non può fare a meno e che rimpiange se ne è privato. Generazioni di uomini sono vissute senza democrazia e senza libertà d’informazione nei secoli passati. Oggi, dopo la Riforma, le rivoluzioni borghesi, l’Enciclopedia, la libertà d’informazione è diventata necessaria e fortemente desiderata come l’aria che si respira. Oggi la conoscenza dei rapporti tra gli individui e lo stato, fra gli individui e le Chiese non può più essere nascosta sotto la cappa delle sacralità, oggi è diventato un diritto naturale. Tutto ciò è ostico e forse incomprensibile al nostro capo del governo. Egli è solito dire che il nostro è uno strano paese, dove la RAI e i giornali che appartengono allo stato si permettono di essere critici verso un governo democraticamente eletto. E lo ripete di continuo, credendo di aver trovato l’argomento inoppugnabile, che invece è la dimostrazione della sua estraneità alla democrazia, dove lo Stato non è la stessa cosa del Governo, e dove la libertà d’informazione non è la stessa cosa, anzi molto diversa, dalla pubblicità, semmai un suo necessario correttivo.

Che cosa è oggi in Italia la libertà di stampa? Direi che è il contrario del berlusconismo attivista e ingordo. La trasmissione televisiva a reti riunite in occasione della consegna delle prime case ai terremotati abruzzesi è stata una riedizione delle «opere del regime» mussoliniano, cioè propaganda. La libertà di stampa è la presa di cognizione e di coscienza del suo insostituibile valore in una società civile e moderna. E allora come può un uomo, che si crede «fatale» come Berlusconi, volere, anzi pretendere, uno spettacolo così arcaico di un autocrate che non ammette critiche, interruzioni, domande, e che in pubblico rivendica meriti ridicoli, come di aver salvato il mondo dalla crisi economica, e l’Italia dai malvagi catastrofisti che preferiscono al bene del paese la sua rovina.

La libertà di stampa è anche questo: di essere l’unico freno, l’unica difesa che restino quando si scatenano le maree autoritarie, assurde ma reali. La libertà di stampa non è un lusso e non è un capriccio, è una conquista dell’homo sapiens, che i vari autoritarismi credono di poter sostituire con le tentazioni del denaro e del comando. La rinuncia alla libertà di stampa equivale a un suicidio per la società moderna, la pesantissima crisi economica per cui stiamo passando è in notevole parte dovuta proprio ai limiti che le avidità imperanti hanno imposto all’informazione e alla conoscenza. La libertà di stampa è la voglia di verità, la voglia di conoscenza, innate in ogni essere che ambisca a essere homo sapiens.

Il buon informatore deve sapere che questa libertà non è illimitata e irresponsabile, che come tutte le libertà deve rispettare le libertà degli altri, ma nella mia lunga esperienza di giornalista mi pare di aver capito che la libera informazione è oggi, forse, l´unica difesa a nostra disposizione contro le irresponsabilità della scienza e del progresso senza limiti e ragione. E anche l’unico freno alle ricorrenti follie degli uomini che non dormono mai, che non invecchiano mai, che, come il nostro, rivendicano il diritto al potere assoluto, all’obbedienza totale del popolo, che poi amano chiamare sovrano. La libera informazione è il nostro specchio: serve a vedere come siamo e a quali tentazioni esposti.

Mezzo secolo fa gli alloggi non occupati risultavano a Roma pochissimi: uno ogni 30 alloggi esistenti. Oggi so­no invece tantissimi: 245.000, uno ogni 7 esistenti. La capitale viene da un «boom» edilizio durato sette anni, tutto dedicato al mercato. Tuttavia si chiede a gran voce di poter costruire nuove case, e si protesta contro il vincolo che la So­printendenza ai Beni Architettonici in­tende porre sulla porzione di Agro Roma­no (5.400 ha), molto bella, fra Laurenti­na e Ardeatina. Vincolo che doveva figu­rare fra le 130 osservazioni («inascolta­te » a detta di ministro e Ministero) al re­cente PRG.

A Roma, come e più che in altre città, abbiamo dunque tante case vuote, fra centro e semi-centro, e, contemporanea­mente, una vera «fame» di case. Anche se i residenti sono in stallo o diminuisco­no. Negli anni passati i governi italiani, un po' tutti, hanno lasciato deperire ad un miserabile 0,7 per cento la quota de­stinata all'edilizia pubblica che in Euro­pa sta, in media, sul 30 per cento. Inclusi i paesi più sviluppati dove poi l'offerta di affitto viaggia fra il 40-50 per cento (gran­de calmiere, di per sé) contro il 24 per cento di Roma a canoni di fuoco. In tal modo i pendolari, malamente serviti dal­le ferrovie, sono molto aumentati e spen­dono 3-4 ore della giornata nel percorso casa-Roma-casa.

Prima di aggiungere altre colate di ce­mento a quelle ancora da smaltire, con­verrebbe riflettere su cosa e come costru­ire. Il Piano Casa riguarda per lo più chi la casa (villa, villetta,ecc.) ce l'ha già e po­trebbe ampliarla. Bisogna puntare sul re­cupero del vasto patrimonio edilizio vuo­to o sotto-utilizzato, a cominciare da quello pubblico. È la sola in grado di sod­disfare la domanda, sin qui trascurata, di giovani coppie, immigrati, studenti, an­ziani soli (sfrattati dalle cartolarizzazio­ni, o smarriti in alloggi troppo grandi).

L'esigenza di risparmiare suoli - agri­coli, verdi, comunque liberi - s'impone pure a Roma. Dove l'Agro superstite rap­presenta una straordinaria riserva di bio­diversità (1/5 di tutte le piante italiane, moltissime autoctone; nidi per metà de­gli uccelli del Lazio, ecc.), di agricoltura qualificata, di beni culturali: quasi 700 casali, 84 torri, 16 borghi e castelli, 31 chiese, gli imponenti acquedotti roma­ni, ecc. Fino a quando, se tanti, troppi suoi terreni sono degradati a pratacci in attesa dell'inesorabile cemento/asfalto?

Le politiche di respingimento contro i migranti, attuate dal governo Berlusconi nelle acque del canale di Sicilia, incassano il cartellino rosso anche dalle Nazioni unite. La dura condanna arriva direttamente dall'Alto commissario dell'Onu per i diritti umani, Navi Pillay, che denuncia il trattamento riservato ai migranti «abbandonati e respinti senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto internazionale». È quando emerge dal discorso, anticipato ieri a Ginevra, che Pillay pronuncerà oggi all'inaugurazione della dodicesima sessione del Consiglio Onu dei diritti umani.

Riferendosi al caso del gommone degli eritrei rimasto in mare senza soccorsi, lo scorso mese di agosto per 20 giorni fra la Libia, Malta e l'Italia, l'Alto commissario spiega che «in molti casi, le autorità respingono questi migranti e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi».

Oggi inoltre «partendo dal presupposto che le imbarcazioni in difficoltà trasportano migranti, le navi le oltrepassano ignorando le suppliche di aiuto, in violazione del diritto internazionale». Gli stessi pescatori siciliani, che negli anni hanno sempre aiutato i natanti in avaria, intervistati dal Manifesto qualche settimana fa, hanno detto che dopo l'introduzione del reato di immigrazione clandestina, e quindi del favoreggiamento per coloro i quali li aiutano ad entrare nel paese, evitano di avvicinare e addirittura di segnalare alle autorità le barche con i migranti a bordo anche se richiedenti soccorso.

Con queste premesse, prosegue l'Alto commissario allargando il campo dell'analisi ad altre aree critiche del pianeta, il «loro destino è così segnato mentre cercano di attraversare il Mediterraneo, il Golfo di Aden (fra la Somalia e lo Yemen, n.d.r.), i Caraibi, l'Oceano indiano o altre zone di mare». A cadere sotto le critiche delle Nazioni unite è anche «la pratica della detenzione dei migranti irregolari, della loro criminalizzazione e dei maltrattamenti nel contesto dei controlli delle frontiere» che deve «cessare». Il fenomeno dell'immigrazione è diventato uno «dei più seri problemi» legati ai diritti umani nel «mondo contemporaneo», poichè «milioni di persone, che rischiano la vita in cerca di una vita migliore», spesso cadono «preda dei trafficanti di esseri umani che prosperano soprattutto dove il controllo dei governi è più debole». Richiami a molti paesi dell'Unione europea, fra cui l'Italia, giungono anche sulla questione delle «discriminazioni e dei trattamenti degradanti» riservati alla popolazione Rom. Secondo la Pillay, «nonostante gli sforzi intrapresi dagli stati membri, dalle organizzazioni internazionali e regionali, il sentimento anti-Rom in Europa resta forte».

Le critiche rivolte dalle Nazioni unite contro le politiche di respingimento hanno acceso le polveri della discussione fra maggioranza e opposizione. «Le gravissime affermazioni dell'Alto commissario Onu - ha detto Margherita Boniver, deputata del Pdl e presidente della Commissione Schengen - dovranno essere supportate da testimonianze e riscontri concreti. È inaudito che simili infamanti accuse siano mirate contro il nostro paese che ha sempre rispettato il diritto internazionale». Nella levata di scudi del centrodestra il capogruppo Pdl al senato, Maurizio Gasparri, ha spiegato che l'Italia rispetta «pienamente tutti i principi e le norme del diritto internazionale», mentre il ministero degli Esteri precisa che «il richiamo alle violazioni del diritto internazionale non è rivolto all'Italia». L'opposizione, a testa bassa, ha attaccato la maggioranza. Secondo il candidato alla segreteria del Pd, Pierluigi Bersani, con queste politiche il paese rischia «figuracce internazionali». La sua collega di partito, Rosy Bindi, rincara la dose spiegando che «l'immagine e il prestigio dell'Italia sono irrimediabilmente sfigurati». «O qualcuno - chiude la Bindi - pensa di tappare la bocca all'Onu con ricatti morali, come si è fatto con la chiesa e si vorrebbe fare con il presidente della Camera?» Dal 7 maggio, data di inizio degli accordi italo-libici, ad oggi 800 migranti sono stati respinti nel paese nordafricano.

C’è qualcosa che gli italiani non sanno, ma soprattutto non debbono sapere, dietro la violenza dell’assalto finale di Silvio Berlusconi al valore di cui s’è sempre orwellianamente riempito la bocca, la libertà.

La libertà d’informazione e di critica del giornalismo, perfino la semplice libertà di scelta degli spettatori televisivi. C’è, deve esserci una disperata ragione se il premier, già osservato speciale delle opinioni pubbliche di mezzo mondo, invece di rientrare (lui sì) nei ranghi del gioco democratico, continua a sparare bordate contro le riserve indiane che ancora sfuggono al suo controllo.

L’ultimo episodio, l’oscuramento di Ballarò su Raitre, e ora anche di Matrix su Canale 5, per concentrare tutta l’audience di oggi sulla puntata celebrativa di Porta a Porta per la consegna alle vittime del terremoto abruzzese delle prime case, aggiunge un ulteriore tocco "coreano" al disegno dell´egemone. Volenti o nolenti, milioni di spettatori sono chiamati stasera all’appello, da bravi soldatini, per plaudire al «miglior presidente del Consiglio in 150 anni», che si esibisce nell’ennesimo spettacolare sfruttamento del dolore, fra le lodi dei ciambellani. Si ha un bel dire che ci vuole prudenza nell´adoperare certe parole, ma queste cose si vedono soltanto nei regimi. Più spesso, alla fine dei regimi, quando l´egemone è parecchio in là con gli anni e con l´incontinenza egolatrica.

La vicenda è grave in sé, come ha subito commentato Sergio Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza e memoria storica della Rai. E lascia perplessi che invece il presidente di garanzia della Rai la riduca a scompenso organizzativo. Si tratta quantomeno di un eufemismo. Ma l’affare Ballarò diventa ancora più inquietante perché s’inserisce in una strategia del ragno governativa per intimidire o tappare direttamente la bocca all’informazione critica. Le denunce e le minacce contro Repubblica e Unità e perfino la stampa estera, il pestaggio mediatico di questo o quel giornalista, gli avvertimenti mafiosi a questo o quel conduttore perché si pieghino alle censure o dicano addio ai loro programmi, questi sono i metodi. Non si può neppure dire che si tratti di una trama occulta. Gli obiettivi sono palesi, dichiarati, in qualche caso rivendicati. Berlusconi sta usando tutto il suo potere di premier, primo editore e uomo più ricco d’Italia, per strangolare economicamente la stampa d’opposizione, epurare i pochi programmi d´informazione degna di un servizio pubblico, a cominciare da Annozero di Santoro, Report di Gabanelli e Che tempo che fa di Fazio, infine destituire l’unico direttore di rete televisiva, Paolo Ruffini di RaiTre, che non obbedisce agli ordini.

Non sappiamo se tutto questo si possa definire «l’agonia di una democrazia», come ha scritto Le Monde. Ma certo gli assomiglia moltissimo. Del quotidiano francese si può condividere anche il conciso titolo del commento: «Basta!». Nella speranza che siano in molti ormai in Italia a voler dire «basta!», non tanto, non più per convinzione politica, ma per buon senso, decenza e amor di patria. Lo si vedrà anche alla manifestazione di piazza del Popolo il prossimo sabato.

Al giornalismo libero rimane il compito di chiarire il mistero dietro l’offensiva finale di Berlusconi contro la libertà d´informazione. Oltre a quanto già gli italiani sanno, o almeno la minoranza che non si limita a bersi i telegiornali. E cioè il terrore governativo per il calo (reale) di consensi, l’incombere degli effetti autunnali della crisi sempre negata, il dilatarsi dei noti scandali di escort e minorenni, l’avvicinarsi di una sentenza della Consulta che potrebbe restituire Berlusconi alle proprie responsabilità davanti alla legge. E poi forse ci sarà dell´altro da nascondere, che all´informazione indipendente spetta d’indagare. Salvo che il potere impedisca ai giornalisti di fare il proprio lavoro. Come sta accadendo in Italia, con questa guerra preventiva, sotto gli occhi di tutto il mondo.

Anticipiamo l’inizio del saggio di , "Politica della vergogna" (a cura di Edoardo Acotto), che esce oggi per nottetempo

Il 16 settembre 2007, il ministro degli Affari Esteri francese Bernard Kouchner avvertì che il mondo si sarebbe dovuto preparare a una guerra causata dal programma nucleare iraniano: "Dobbiamo prepararci al peggio, e il peggio è la guerra". Quest’affermazione, com’era prevedibile, fu causa di notevole scompiglio e di critiche rivolte a ciò che Sir John Holmes, a capo dell’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite, definì "il contagio iracheno": dopo lo scandalo delle armi di distruzione di massa, agitate come pretesto per l’invasione, evocare analoghe minacce aveva perso per sempre ogni credibilità - perché dovremmo ancora credere agli Stati Uniti e ai loro alleati, se già siamo stati brutalmente ingannati?

C’è tuttavia un altro aspetto, molto più preoccupante, che riguarda il monito di Kouchner. Quando il presidente Sarkozy, appena eletto, nominò Bernard Kouchner, noto per i suoi orientamenti umanitari e politicamente vicino ai socialisti, a capo del Quai d’Orsay, persino alcuni oppositori di Sarkozy salutarono questa scelta come una piacevole sorpresa. Adesso il significato di questa nomina è chiaro: il ritorno in forza dell’ideologia dell’"umanismo militaristico" o anche "pacifismo militaristico". Il problema insito in quest’etichetta non è tanto che si tratta di un ossimoro che richiama alla mente lo slogan "la pace è guerra" di Orwell in 1984: la semplicistica posizione pacifista "più bombe e uccisioni non porteranno mai la pace" è illusoria; spesso è necessario combattere per la pace.

Il vero problema non è nemmeno che, come nel caso dell’Iraq, l’obiettivo è nuovamente scelto non certo sulla base di pure considerazioni morali, ma per interessi strategici, geopolitici ed economici non dichiarati. Il problema insito in un "umanismo militaristico" non risiede nel "militaristico" ma nell’"umanismo": poiché l’intervento militare è presentato come aiuto umanitario, giustificato direttamente da diritti umani depoliticizzati e universali, chiunque vi si opponga non solo prende le parti del nemico in un conflitto armato, ma compie una scelta criminale che lo esclude dalla comunità internazionale delle nazioni civilizzate.

Ecco perché, nel nuovo ordine mondiale, non abbiamo più guerre nel vecchio senso della parola, cioè conflitti regolari tra Stati sovrani in cui si applicano determinate convenzioni (il trattamento dei prigionieri, la proibizione di certe armi, ecc.). Ciò che resta sono "conflitti etnico-religiosi" che violano le regole dei diritti umani universali. Essi non contano come vere guerre e richiamano l’intervento "pacifista e umanitario" delle potenze occidentali: a maggior ragione nel caso di attacchi diretti agli Stati Uniti o ad altri rappresentanti del nuovo ordine mondiale, quando, di nuovo, non si ha a che fare con vere guerre, ma solo con "combattenti illegali" che resistono colpevolmente alle forze dell’ordine universale.

In questo caso, non è neanche possibile immaginare che un’organizzazione umanitaria neutrale, come la Croce Rossa, medi tra le parti in conflitto, organizzi lo scambio di prigionieri ecc.; una delle parti in conflitto (l’esercito mondiale guidato dagli Stati Uniti) già assume il ruolo della Croce Rossa: non percepisce se stesso come una delle parti in guerra, ma come un mediatore, un agente di pace e di ordine globale che annienta le agitazioni locali e particolaristiche elargendo, simultaneamente, aiuto umanitario alle "popolazioni locali".

Dunque, la domanda fondamentale è la seguente: CHI è questo "noi" in nome del quale parla Kouchner, chi vi è incluso e chi, invece, ne è escluso? Questo "noi" è veramente il "mondo", l’apolitica comunità "mondiale" dei popoli civilizzati che agiscono in nome dei diritti umani? Abbiamo avuto una risposta a questa domanda quattro giorni dopo, il 20 settembre, quando sette pescatori tunisini furono arrestati in Sicilia per aver commesso il crimine di salvare quarantaquattro migranti africani da morte certa per annegamento. Se saranno condannati per "favoreggiamento dell´immigrazione clandestina", dovranno trascorrere da uno a quindici anni in carcere. Il 7 agosto avevano gettato l’ancora su un banco di sabbia a trenta miglia a sud dell’isola di Lampedusa, vicino alla Sicilia, ed erano andati a dormire. Svegliati dalle grida, videro un gommone stipato di persone, tra cui donne e bambini in uno stato di estrema prostrazione fisica, scosso da forti marosi e sul punto di affondare. Il capitano prese la decisione di imbarcarli fino al più vicino porto dell´isola di Lampedusa, dove l’intero equipaggio fu arrestato.

Coloro che esprimono comprensione per questa misura si comportano allo stesso modo dei negazionisti dell’Olocausto quando devono giustificare le loro problematiche affermazioni: sostengono che gli accusatori sottraggono i provvedimenti presi al loro contesto; proprio in quanto problematici, dovrebbero essere inquadrati nelle condizioni specifiche e più ampie che li circondano. Ora, in che cosa consiste tale contesto? Evidentemente, nella paura della fortezza europea di essere invasa da milioni di rifugiati affamati: il vero obiettivo di quest´assurdo processo è dissuadere altri equipaggi dal fare lo stesso. Significativamente, non sono state intraprese azioni legali contro altri pescatori che, trovandosi in una situazione simile, hanno com´è noto allontanato i migranti a colpi di bastone lasciandoli affogare.

Ciò che è dimostrato da quest’incidente è che la nozione, dovuta a Giorgio Agamben, di homo sacer, cioè dell’escluso dall’ordine civile che può essere ucciso impunemente, opera a pieno regime nel mezzo di un’Europa che pretende di essere l’assoluto bastione dei diritti umani e dell’aiuto umanitario.

Come può accadere che, nel cuore di QUESTA Europa, quei pescatori tunisini che compiono semplicemente l´elementare dovere morale di salvare vite innocenti da morte certa siano chiamati in giudizio? Il capitano del peschereccio, Abdelkarim Bayoudh, ha dichiarato: "Sono contento di ciò che ho fatto". Noi, cittadini dell’Unione Europea, decisamente non dovremmo essere contenti di fare parte di un "noi" che include il tribunale di Lampedusa.

L’impasse in cui si trova la costituzione europea è un segnale del fatto che il progetto europeo è in questo momento in cerca della sua identità. Il dibattito viene generalmente dipinto come uno scontro tra i multiculturalisti liberali, che desiderano allargare i confini dell´Unione Europea alla Turchia e oltre, e i cristiani eurocentrici della linea dura, che esprimono dubbi sulla democraticità e il rispetto dei diritti umani all’interno dello stato turco. E se questo dibattito fosse quello sbagliato? Se facessimo meglio a restringere i confini e a ridefinire l’Europa in modo da escludere non la Turchia, ma il tribunale di Lampedusa? Forse è tempo di applicare all’Italia (o alla Polonia, o ad altri paesi...) gli stessi criteri con cui valutiamo la Turchia.

Se un cittadino dalla pelle non perfettamente candida aspirasse a incarichi politici in Italia, sarà meglio che ci ripensi. «Non vorrei tra cinque anni e un mese trovarmi un presidente abbronzato», ha dichiarato Roberto Calderoli l´altra sera a Treviso.

Il ministro leghista si era già distinto per un´analoga sortita nei confronti della sua concittadina italiana Rula Jebreal. Imitato dal presidente del Consiglio che rivolse la stessa «carineria» a Barack Obama. Tali affermazioni desterebbero scandalo se pronunciate da uomini di governo in qualsiasi altro paese occidentale. E delineano, all´interno della maggioranza di centrodestra, una spaccatura su principi della massima rilevanza per il futuro della nostra democrazia. Chi ha diritto a essere considerato italiano, e quali devono essere le procedure di ottenimento della cittadinanza?

La proposta di legge che divide la destra è stata presentata in Commissione Affari Costituzionali da Fabio Granata (Pdl) e da Andrea Sarubbi (Pd). Le modifiche mirano ad abbreviare da dieci a cinque anni il periodo di residenza continuativa necessario per ottenere il passaporto italiano a un immigrato che dimostri inoltre stabilità di reddito e una sufficiente conoscenza della lingua. Granata e Sarubbi propongono ancora che venga naturalizzato il minore nato in Italia da stranieri, se uno dei genitori vi soggiorna da cinque anni; così come il minore che abbia completato un percorso scolastico nel nostro paese.

Quando poi il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha ribadito la sua idea di attribuire il diritto di voto amministrativo agli stranieri residenti da almeno cinque anni sul territorio nazionale, Umberto Bossi ha reagito dandogli del «matto». Ma più pesante ancora giunge il no di Silvio Berlusconi a concedere la cittadinanza e il diritto di voto amministrativo agli stranieri: «Io difendo la sicurezza di tutti, evitando che la sinistra apra le frontiere, per poi concedere loro la cittadinanza e il diritto al voto, un subdolo stratagemma per garantirsi una futura preminenza elettorale».

È interessante notare che Berlusconi e Bossi non si limitano a definire prematura o frettolosa la revisione delle norme sulla cittadinanza. In più occasioni pubbliche questi leader della destra si sono dichiarati contrari all´idea stessa di una «società multietnica»; come testimonia anche la greve battuta di Calderoli sul pericolo di ritrovarci fra cinque anni e un mese con un «presidente abbronzato». Probabilmente non se ne rendono conto, ma con le loro parole stanno propugnando un ritorno all´indietro dai principi di cittadinanza così come li definì oltre due secoli fa la Rivoluzione Francese. Berlusconi e Bossi rigettano la teoria democratica secondo cui lo Stato-nazione è luogo di attuazione di diritti universali civili e politici. Da secoli a una nazione democratica non si appartiene più per mera discendenza, bensì per cittadinanza. Un passo avanti storico rispetto all´ideologia reazionaria Blut und Boden, «sangue e terra», perché la nazione non può venire ridotta al «pezzetto di terra dove si è nati e cresciuti» teorizzato da Justus Moser.

A furia di inseguire consensi promettendo «meno stranieri», Berlusconi e Bossi rifiutano l´idea che possano esserci «più italiani» e «nuovi italiani». La loro idea di italianità è ferma agli anni Trenta del secolo scorso: l´appartenenza razziale. Lungi dal farsi interpreti di un nuovo patriottismo, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dello Stato unitario, essi paventano come minacciosa l´eventualità che uno straniero possa diventare italiano se non per concessione arbitraria. La divergenza emersa all´interno della destra, quindi, non riguarda solo la volontà o meno di integrare gli stranieri residenti attraverso una politica lineare dei diritti e dei doveri. La prossima discussione parlamentare renderà manifeste due opposte nozioni di cittadinanza. Ma non facciamo finta che siano entrambe compatibili con una democrazia in cui vivono già quattro milioni di immigrati.

Stiamo affrontando un tempo difficile in piena regressione culturale, radice e fondamento d’ogni cattiva politica. Pur sapendo quanto lunga sia la schiera dei detrattori dell’Illuminismo, ad esempio, mai mi sarei aspettato che, nel 2009, fosse definito "bieco", con un ritorno nello spirito e nel linguaggio all’invettiva contro Pio IX che Giuseppe Gioachino Belli mette in bocca al suo popolano romano, nostalgico del "papa morto", Gregorio XVI, "nun fuss’antro pe avé mess’in castello,/Senza pietà, cquela gginia futtuta", per aver imprigionato i biechi "giacubbini". Di quella ingombrante eredità – che continua a parlarci di libertà, eguaglianza e fraternità - bisogna liberarsi nel momento in cui i diritti fondamentali delle persone diventano l’offerta sacrificale per riguadagnare il favore della Chiesa, la libertà d’opinione appare intollerabile e, soprattutto, si insiste sull’investitura elettorale e sul favore dei sondaggi per riproporre un uso del potere della maggioranza che non tollera né limiti, né pudore.

In agosto, il Presidente della Cei aveva messo in evidenza i limiti del principio di maggioranza, al quale non dovrebbero essere sottomessi i valori. L’annuncio di questi giorni del presidente del Consiglio e dei suoi, invece, va nella direzione opposta, per il modo in cui si torna a parlare di testamento biologico, pillola Ru 486, insegnamento della religione, procreazione assistita, unioni di fatto. Sono questi i temi che la maggioranza annuncia di voler sottomettere a quella forza dei "numeri" dalla quale il cardinal Bagnasco, per un momento, sembrava aver allontanato la discussione sui valori. Una maggioranza prepotente proprio sui valori vuole di dire l’ultima parola, dando concretezza alla pretesa di trasformare le istituzioni nel veicolo di un’etica di Stato, nel braccio secolare di convinzioni religiose.

Al presidente del Consiglio vale la pena di ricordare un brano del discorso pronunciato da Aldo Moro nel 1974, all’indomani della sconfitta della Democrazia cristiana nel referendum sul divorzio, mettendo in guardia contro le forzature «con lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani»; e si consigliava «di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una posizione, questa, nella quale si rifletteva anche la consapevolezza dei limiti costituzionali all’ingerenza del legislatore nella vita delle persone.

Ma la questione della maggioranza e dei suoi poteri si pone anche in campi diversi, in primo luogo per la riforma dei regolamenti parlamentari che si annuncia come uno dei temi centrali della prossima stagione politica. Il Governo, fin dal primo giorno di questa legislatura, ha sistematicamente mortificato il Parlamento, usando la propria maggioranza per forzature continue, abusando del voto di fiducia, del decreto legge, dei maxiemendamenti. Ora si avanzano proposte di riforme regolamentari che dovrebbero almeno limitare questi abusi. Ma, considerandone i contenuti, si ha la sgradevole sensazione che, nella gran parte dei casi, si trasformino in procedure formali quelle che oggi sono forzature, spianando la strada al Governo anche con strumenti attinti alla parte più autoritaria (e oggi contestata) della costituzione gollista, come il voto "bloccato" che cancella gli emendamenti agli articoli delle leggi in discussione. In cambio, all’opposizione verrebbe concesso un ingannevole "statuto", che dovrebbe rafforzarne il ruolo. Ma si tratta di concessioni che la maggioranza può sempre vanificare appunto con la forza dei numeri. Ricordo, come ammonimento, quel che accadde diversi anni fa, quando una riduzione dei poteri dell’opposizione venne "compensata" con la concessione del parere di costituzionalità in sede di commissione parlamentare. Bene, maggioranze più o meno blindate hanno sempre dato via libera, a occhi chiusi, anche a provvedimenti di cui la incostituzionalità era evidente, e sarebbe stata poi dichiarata dalla Corte.

Mi auguro che l’opposizione se ne renda conto, e non si lasci intrappolare da questo diversivo, che avrebbe come unico effetto quello di rendere rispettabile ciò che oggi ha il carattere di una forzatura. Un diversivo doppiamente pericoloso, perché distoglie l’attenzione da quelli che oggi sono i veri punti critici di una riforma del Parlamento, non riducibile al solo superamento dell’attuale bicameralismo (che tuttavia, in tempi di prepotenze e di ignoranze, ha almeno reso più difficile qualche forzatura, come sta accadendo ad esempio per la legge sulle intercettazioni telefoniche). Da tempo scrivo che, con l’avvento della democrazia "continua", segnata da una presenza sempre più variegata e costante dei cittadini, dev’essere ripensato il rapporto tra il Parlamento e la società, dando così nuovi fondamenti sia al principio maggioritario che al rapporto tra maggioranza e opposizione. Molte sono le vie percorribili.

Rivitalizzare l’iniziativa legislativa popolare, prevedendo presenze dei promotori nell’esame parlamentare in commissioni e vincoli temporali per la discussione delle proposte. Cogliere l’indicazione del Trattato di Lisbona, che accompagna la democrazia rappresentativa appunto con il diritto di proposta da parte di un milione di cittadini europei. Sviluppare questa indicazione nel senso reso visibile dalla strategia di Barack Obama, che non ha ridotto il ricorso alle tecnologie della comunicazione alla logica del marketing politico, ma sta integrando la sfera della democrazia rappresentativa con quella delle reti sociali. Solo così è possibile una riforma che non sia un gioco sterile all’interno delle attuali istituzioni parlamentari.

Ma, per imboccare questa strada, è indispensabile uscire da una forma di schizofrenia che percorre la discussione politica. La forza delle cose ci mette di fronte alla concentrazione personale del potere, all’affossamento della separazione dei poteri, alla distruzione dei controlli, all’infeudamento del sistema della comunicazione, alla disunione del paese, in sintesi a quello che è stato chiamato lo sfascio dell’Italia. E, tuttavia, mai ci si pone una domanda, che pure dovrebbe essere ineludibile: come è potuto accadere, quali sono state le condizioni istituzionali che hanno contribuito a rendere possibile tutto questo? La domanda viene elusa perché esigerebbe una riflessione sul modo in cui è stato realizzato il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario. Una politica debole, incapace di immaginare il proprio futuro, si è consegnata ad una modellistica costituzionale che, a destra come a sinistra, esaltava il solo momento della decisione e per ciò scioglieva la maggioranza da ogni vincolo che non fosse il giudizio pronunciato dagli elettori alla fine della legislatura, aprendo la strada alla democrazia d’investitura e al potere personale.

Senza ammortizzatori costituzionali e senza le forme di mediazione fino a quel momento assicurate dai partiti di massa, la politica è fatalmente degenerata in conflitto personale, in scontri oligarchici, in una ricerca del consenso senza esclusione di colpi .

Non per nostalgie del passato, ma per fronteggiare il presente e costruire il futuro, abbiamo bisogno di questa consapevolezza. È venuto il momento di abbandonare l’ingegneria costituzionale e di tornare ad una politica costituzionale capace di riportare la maggioranza alla sua giusta funzione, in un quadro di principi che essa stessa non può violare.

Ieri mi è arrivata una e-mail di protesta di un telespettatore: mi accusava di aver descritto una Novellara stile «Mulino Bianco».

Poi nel pomeriggio sono stato ospite a Fahrenheit, la bellissima trasmissione di RadioTre ed è riuscita fuori, per tutt'altra strada, la stessa argomentazione : «Talmente siamo poco abituati a vedere gli aspetti positivi, le cose buone della presenza degli stranieri in Italia, che quelle scene sembravano finte. Che ne pensa Iacona ?», mi ha chiesto il conduttore.

E ho risposto, sì che questo è precisamente il risultato dell'aver schiacciato il dibattito politico sull'immigrazione solo sul terreno militare, dell'aver trasformato la presenza degli stranieri quasi esclusivamente in una questione che riguarda la «sicurezza»: se di stranieri si parla solo e sempre così i venti minuti di racconto della «normale integrazione» che abbiamo fatto a Novellara ti colpiscono come se fossero scene girate in un altro Paese.

Eppure di «Novellara» ce ne sono centinaia in tutta Italia: basta entrare in qualsiasi scuola elementare di una grande città che vede la presenza di stranieri per rendersene conto; bambini stranieri e bambini italiani crescono insieme, arricchendosi l'uno con l'altro; le differenze sembrano improvvisamente annullarsi di fronte ad un processo di integrazione che è veloce e forte come la vita, e nel quale sono proprio i genitori stranieri ad investire di più. L'ho toccato con mano quando sono andato l'anno scorso a Bologna a raccontare le conseguenze della riforma Gelmini sulla scuola del tempo pieno: le mamme e i papà dei bambini stranieri non mancavano ad una riunione, ad un colloquio, ad una inziativa della scuola, un attaccamento anche commovente se pensiamo che spesso sono gli stessi figli ad insegnargli l'italiano che stanno imparando sui banchi delle elementari.

Gli stranieri hanno capito subito che la scuola è la porta principale per la quale passa l'integrazione e la promozione sociale dei loro figli e i loro figli fanno di tutto per essere all'altezza della scuola e delle aspettative dei genitori. Ma è la stragrande maggioranza degli stranieri che vivono in Italia ad avere questa forte voglia di integrazione! Del resto come potrebbe essere altrimenti se i loro figli nascono e crescono nel nostro Paese?

Tutti gli stranieri, poi, aspirano a vivere in Italia con una piena cittadinanza che consenta loro, per esempio, di votare e di partecipare alla vita politica del Paese. Poi ci sono i delinquenti, anche quelli, che riempiono le carceri italiane. Quanto pesa l'una e l'altra considerazione? Sul piatto della bilancia del nostro futuro la quota di piccola e grande criminalità legata alla loro presenza può cancellare la forza straordinaria dell'integrazione, con tutta l'energia che si porta dietro, fatta di persone che lavorano, producono, assimilano il nostro modo di vivere e ci consegnano come un regalo i loro figli, i cittadini del futuro? Io penso di no. Perché la delinquenza si può combattere se solo si vuole, la voglia di integrazione invece, una volta persa, è molto più difficile ricostruirla.

A Novellara non c'è stato tempo per riflettere: in meno di dieci anni si è passati da duecento stranieri a quasi duemila. Immaginate che rivoluzione in un paese di neanche dodicimila abitanti! Allora si son detti: lavoriamo in modo che tutti abbiano lo stesso accesso ai servizi, che siano trattati cittadini come tutti gli altri e in cambio chiediamo rispetto delle regole e legalità.

Ha funzionato. Lo leggi negli occhi sorridenti delle ragazze e dei ragazzi che in pochi anni si sentono più italiani che pakistani o indiani. La politica della «faccia feroce» del «finalmente cattivi», oltre ad essere poco efficace nel contenere veramente l'immigrazione clandestina, rischia di creare conflitti al nostro interno e di spegnere quei sorrisi. Siamo sicuri che ci conviene?


Altri grandi paesi europei non celebrano la loro unità. Per alcuni è troppo remota per avere un significato attuale. Altri come la Francia preferiscono celebrare il loro più grande conflitto storico: la rivoluzione. Tutti considerano l´unità come un fatto acquisito che non ha bisogno di essere celebrato. Per noi non è così. Perciò finiremo per celebrarla controvoglia.

Il fatto è che l´unità italiana è scarsamente sentita dagli italiani. Lo testimonia la svogliatezza con la quale l´attuale governo, pur pressato dal Presidente della Repubblica, ha abbandonato le celebrazioni ormai prossime del centocinquantesimo anniversario alla fantasia burocratica e dissipatrice di Regioni e Comuni. Né maggiore interesse è dimostrato dall´opposizione.

Solo una minoranza politica, diciamo la verità, coltiva il mito del Risorgimento. Per la maggioranza Mazzini e Garibaldi fanno parte del folklore domestico, non certo di una salda coscienza patriottica. C´è anche chi, come un giovane e intelligente studente, addirittura se ne vergogna pubblicamente. E in effetti ragioni, se non di vergogna, di grande perplessità non mancano sul modo in cui quell´unità fu raggiunta: tra l´altro, in forme impreviste e persino indesiderate dai suoi protagonisti.

Tra questi il suo massimo artefice, Cavour, l´aveva fin quasi al suo compimento definita una "sciocchezza" restando all´ipotesi del "Belgio grasso" al Nord e di un Regno del Mezzogiorno al Sud, con una mediazione pontificia al centro: il tutto nell´ambito, al massimo, di una lasca confederazione.

È vero dunque che l´unificazione politica del Paese fu il risultato di una conquista sabauda, non di una patriottica intesa. Se poi si vuole infierire, fu anche il risultato di umilianti sconfitte militari. Ma due cose non sono vere.

La prima è che manchi all´unità del Paese la sua base storica. L´Italia si riconosce non solo nella pizza, nel gioco del pallone e nell´autocompiacenza amatoria, ma in una grande lingua e in una grandissima civiltà. La seconda è che il Risorgimento non fu soltanto conquista effimera e frutto di fortunose sconfitte. Fu anche movimento di popolo. Ci fu certamente il Risorgimento freddo, ma ci fu anche un Risorgimento caldo, fiammeggiante nelle giornate di Milano e di Brescia, nella repubblica romana, nella resistenza di Venezia, nell´avventura garibaldina.

Non soltanto. Contrapposto alla storia che inopinatamente si realizzò, il Risorgimento fu anche un grande disegno alternativo fallito ma ancora oggi carico di significato. Fu il progetto di una Federazione nella quale le realtà storiche del Paese, così ricche di irriducibile "personalità", costruissero, sulla base di una loro gelosa autonomia, una cangiante e meravigliosa unità.

Questo era il grande disegno di Cattaneo, di Salvemini, di Dorso. Un federalismo unitario, come tutti gli autentici federalismi vittoriosi, da quello americano a quello svizzero a quello tedesco. Unitario e patriottico. Niente da spartire con un leghismo protezionistico, tendenzialmente separatista e desolantemente, caro ragazzo, bigotto.

Questo grande disegno alternativo risultò sconfitto con grave danno dell´intero Paese al quale veniva a mancare la dorsale di sostegno: l´integrazione tra il Nord e il Sud d´Italia.

Ciò che ancora i "belgi" del Nord non hanno capito è la diversità sostanziale tra la questione meridionale e quella settentrionale. Quest´ultima è la sacrosanta espressione di interessi locali e di culture specifiche da tutelare. La prima invece è la colonna vertebrale dell´intero Paese.

Ecco perché i grandi meridionalisti hanno sempre mantenuto le distanze da un sudismo becero: hanno parlato non a nome di Palermo e di Napoli, ma dell´Italia e dell´Europa.

La prima vittima della soluzione unitaria-autoritaria è stato proprio il meridionalismo. All´ombra di quella la questione meridionale si è sbriciolata in una poltiglia di pretese locali; la classe politica si è decomposta in una serie di consorterie clientelari; il disegno dell´intervento straordinario, concepito inizialmente come grande progetto unitario di scala nazionale si è sminuzzato in una serie di interventi particolari esposti alle sollecitazioni e pressioni "private".

La tremenda minaccia che si addensa oggi sul Mezzogiorno non è più, come Gramsci denunciava, l´asservimento del Sud agli interessi dominanti del Nord. La depressione politica del Mezzogiorno non si identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa e nello scambio elettorale tra la garanzia politica che essa assicura al governo centrale e le risorse finanziarie che ne riceve e che gestisce come un gigantesco "pizzo" attraverso i governi locali.

La "tremenda minaccia" è che il governo di quelle risorse sfugga anche a quella intermediazione e cada direttamente nelle mani delle grandi reti della criminalità internazionale.

Non accade già in certe regioni del Sud?

Queste domande ripropongono a centocinquant´anni di distanza il problema dell´unità d´Italia. Non è mai troppo tardi.

Una guerra mentale è in corso in Italia, condotta dall’esecutivo per tacitare, intimidendola, il controllo esercitato dalla stampa e per neutralizzare ogni sorta di contropotere. Nei confronti della stampa assistiamo a vere rese dei conti, e per capire quanto sta accadendo è più che mai urgente distinguere tra due attività: la diffusione di dicerie, e l’accertamento dei fatti. La guerra non ha come soli protagonisti l’élite politica e giornalistica: ogni cittadino - se vuol restar cittadino - è chiamato a distinguere l’opinione dal fatto, la calunnia dal disvelamento di reati. L’offensiva di Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il potere esecutivo ma è al contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in essi uno stato confusionale diffuso.

All’origine del dispositivo bellico c’è una sensazione di debolezza acuta: l’esecutivo ha l’impressione di non poter fare politica senza un’opinione pubblica che non solo approvi i suoi programmi ma esalti il capo considerandolo legibus solutus, non soggetto alla legge.

Manuel Castells, studioso dell’informazione, si sofferma sui metodi delle guerre mentali nei media. Il termine fu coniato a proposito del conflitto in Vietnam da Paul Vallely, analista di Fox News: «Se perdemmo la guerra - così Vallely - non è perché fummo sconfitti sul campo ma per la guerra psicologica dei media», e perché il potere non seppe contrapporre una sua «guerra mentale» (Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi 2009). È simile la guerra mentale di Berlusconi, e simili sono gli strumenti, da lui maneggiati con perizia e risorse sovrabbondanti prima ancora di entrare in politica: sin dall’inizio la sua battaglia fu di trasformare i mezzi televisivi d’informazione in mezzi di distrazione, infotainment, gossip. «Per questo è così importante - prosegue Castells - che i magnati dei media non diventino leader politici, come nel caso di Berlusconi». Per questo è legittima la domanda del direttore di Famiglia Cristiana, don Sciortino: «Quello che accade non riguarda solo il giornalismo. Quando in un Paese è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di criticare o di commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo controllo del sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?».

La guerra mentale ha fini e mezzi specifici. Il fine è il pensiero dell’uomo della strada («questa creatura mitologica che ha rimpiazzato la cittadinanza nel mondo mediatico», scrive Castells). Il mezzo è la confusione dei concetti, il caos nell’uso delle parole. Si parla molto, in questi giorni, di killeraggio o imbarbarimento generale: concetti perversi oltre che diseducativi, perché escogitati per rendere appunto confondibili, in un magma indistinto, i due comportamenti radicalmente diversi che sono la diceria e l’accertamento dei fatti. Tutti sarebbero killer: il giornalista che interroga criticamente il Premier (rapporti di suoi collaboratori con la mafia, corruzione di testimoni e magistrati, coinvolgimento in giri di prostituzione) e quello che costringe alle dimissioni il direttore dell’Avvenire Dino Boffo, usando veline anonime. Proviamo dunque a distinguere quel che viene confuso.

Una cosa è la diceria. Nella Russia di Putin si chiama kompromat, materiale che compromette e può anche spedirti in Siberia. È la calunnia che insinua fabbricando prove, e mira a distruggere il carattere dell’avversario politico (character assassination, in inglese). In genere la diceria ha come obiettivo la vita privata del politico, non il suo programma o la cura che egli ha della repubblica e dei suoi vincoli.

Altra cosa è l’indagine sui comportamenti dei politici (comprese le massime cariche dello Stato) e sulla verità dei fatti. L’oggetto della ricerca sono condotte che hanno rilevanza pubblica. Da questi comportamenti può derivare un carattere personale più o meno ostico, ma il bersaglio non è il carattere.

Ambedue i procedimenti, è vero, si propongono di indebolire chi è preso di mira, di delegittimare il leader. Sono ambedue guerre mentali, volendo persuadere chi l’uomo della strada, chi il cittadino, ma il funzionamento della democrazia è influenzato in modi ben diversi dai due operati.

La democrazia accetta il conflitto, esige e stimola la ricerca del vero, anche se il vero è scomodo per il potente. E l’accetta continuativamente, non solo il giorno del voto, perché democrazia non è Unzione dell’Eletto ma un arcipelago di poteri che si frenano l’un l’altro affinché nessuno commetta abusi. Questo gioco di equilibri è garantito dalle costituzioni e da poteri autonomi, tra cui campeggiano la stampa e la televisione. È in tale ambito che la differenza fra accertamento dei fatti e calunnia diventa cruciale. La verità sul comportamento del politico è il fine di chi esercita un contropotere, e l’effetto che si vuol ottenere è la correttezza e l’autolimitazione del potere. Non vuol distruggere, ma correggere. Può darsi che la verità si riveli falsa. È per questo che il cercatore del vero raduna prove, fatti, sentenze di tribunale.

La diceria vuole non salvaguardare ma abolire l’equilibrio dei poteri: personalizzando-privatizzando la politica, accentrando tutti i poteri. La sua guerra mentale è distruttiva: nella testa degli elettori, dei telespettatori, dei lettori, va lacerato tutto quel che li lega alle norme costituzionali, alla politica, allo Stato, alle istituzioni, ai giornali, alla chiesa stessa. È uno strumento antico, è l’anti-Stato teorizzato nelle stagioni terroriste. Fruga, non cerca. La diceria ha un rapporto singolare con la verità, non più fine ma mezzo di scambio utile a sganciare il principe dalle leggi: se tu dici una verità amara su di me, io ne dirò una peggiore su di te. Da tempi immemorabili la calunnia viene usata in tempi di torbidi, non quando lo Stato è forte ma quando vacilla (Rivoluzione francese, uscita dal Terrore nel Termidoro).

Se tutto è diffamazione privata, anche la ricerca della verità pubblica scade al rango di diceria, di assassinio di carattere. Perfino chi condanna l’attacco al direttore dell’Avvenire, perfino chi chiede più prudenza alla Chiesa (un direttore gay è ricattabile se dirige il quotidiano della Cei, scrive Vittorio Messori sul Corriere della Sera), dimentica che la parola chiave nella questione Boffo non è l’omosessualità, ma le minacce a un privato cittadino: un decreto penale di condanna, nel 2004, lo giudicò colpevole di molestie telefoniche, nei confronti di una giovane donna, durate 6 mesi. L’omosessualità non c’entra niente: quel che conta è un comportamento (l’intimidazione) di rilevanza pubblica. Patteggiamenti o risarcimenti aboliscono la pena, non il fatto.

La cosa più grave per i giornalisti sarebbe reagire all’offensiva contro alcuni giornali e reti televisive dividendosi. Accusandosi l’un l’altro di temerarietà o codardia, a seconda. Sostiene Berlusconi che alle dieci domande risponderebbe, se fossero altri giornali a porle. Dicendo questo, egli ammette che domandare è lecito e che rispondere è doveroso. Motivo di più perché tutti continuino a porre domande al premier.

Ricordiamo quel che accadrebbe in Francia e Germania, in simili circostanze. In entrambi i paesi è ben raro che i giornalisti si aggrediscano l’un l’altro (tranne in presenza di reati). Ma se una o più testate sono attaccate per la determinazione con cui indagano sui potenti, tutta la professione fa quadrato. È come se valesse, non scritta, una legge simile all'articolo 5 del Patto Atlantico: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse... sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti». Fare lo stesso in Italia aiuterebbe a preservare l’arcipelago di poteri di cui è fatta la democrazia.

Liquami in mare. Un deplorevole incidente: è la formula elegante usata nella curiosa propensione a minimizzare il “fenomeno” ( proprio così: “fenomeno” hanno detto, sostantivo buono a indicare ogni evento che la natura ci riserva). Ma per precisione: non è un acquazzone che ha fatto nera l'acqua cristallina, ma l' insipienza degli uomini che credono ad altri uomini: quelli che la tecnologia “tutto può”, anche fare scomparire nelle condizioni più estreme la sporcizia dei vacanzieri. Basta un un filtro in più. E ci si crede come alla crema che toglie il sovrappeso in tempo per mettersi in mostra nella spiaggia alla moda.

Ci piacerebbe quella sola faccia luccicante della medaglia. Quella che consente di dire, a metà di luglio, con toni trionfali, di navi e aerei a pieno carico, di ingorghi di auto e di barche, di surplus di veline e vip in costa che non bastano sei pagine di giornale per raccontarlo ogni giorno. E invece c'è anche l'altra faccia, i risvolti maleodoranti di un uso del territorio eccedente la soglia di sopportazione. La calca attorno alla mercanzia per una settimana richiede un apparato smisurato di attrezzature che non reggono. Così ti svegli una mattina e vedi il fiume nero. Finita la festa. Il paesaggio mozzafiato non è più una metafora.

Si potrebbe ironizzare sulle vanterie del turismo a cinque stelle. E invece la prudenza induce a pensare al danno che patiscono gli operatori turistici seri da queste cose.

Pensando anche a quelli che si chiamano consumatori (e produttori di sporcizia) che hanno 72 ore di ferie (perché la crisi si ha mangiato pure le vacanze) e si trovano senza mare per un pezzo delle brevi ferie nel mare trasparente (?) di Sardegna. Danno grave “d'immagine”( si dice così, come Briatore per chiedere i danni da plebeo pic-nic nel suo Rubacuori).

Ma chi tiene al futuro della Sardegna dovrebbe avere meno fretta a rubricare i liquami tra i contrattempi estivi (gli screanzati, i vandali fracassoni, i conti abnormi, ecc.)

E contenere il blabla su efficienza della tecnologia, ricerca dei responsabili tra i gestori degli impianti, task force per studiare il caso e così via. Perchè il tema è un altro. Non piace sentirlo ma è il modello di sviluppo senza limitazioni che è una follia. La disseminazione di attrezzature per l'accoglienza dovunque e comunque. Tutto esaurito? Mai! Serve volume per altra ricettività un mese all'anno? Pronto. Da qui il danno, altro che immagine.

E per stare alle opere di urbanizzazione, occorre dirlo che è roba da matti immaginare dotazioni misurate per il picco di gente a Ferragosto. Il tempo breve nel quale si mette in moto un sistema frammentato in mille nuclei. Nulla di più squilibrato, squilibrante, energivoro, dissipatore, oneroso, ecc.

Della discussione per ridare efficienza al sistema inefficiente ( per colpa di chi?) interessa ora l'aspetto economico. A proposito di obsolescenza di impianti, sarebbe bene sapere chi pagherà gli adeguamenti. Capire le convenienze: cosa ci torna da un investimento pubblico.

Esiste la regola che impone alle imprese che trasformano i suoli per farli diventare case da vendere o da affittare, di pagare le opere di urbanizzazione. Tanto più nel caso di villaggi distanti da insediamenti si pone la necessità di provvedere -non solo con denaro pubblico - alla realizzazione di quanto occorre per tenerle in efficienza. E non è serio immaginare di accollare a una comunità povera i costi di un modello che esibisce lo spreco. Le cinque stelle, le bandiere blu, non dipendono dal pregio dei pavimenti di una suite.

Lo scenario politico degli ultimi anni sta arrivando a consunzione. Non sarà facile metterne alla luce uno più decente tanta è la bassezza, istituzionale e culturale, in cui siamo per responsabilità di molti, forse di tutti, nell'inseguire una transizione verso una seconda repubblica che, in assenza di un progetto di qualche spessore, si è risolta soltanto nel tentativo di minare lettera e spirito della Costituzione del 1948 - largo a un mercato da Far West, concessioni illimitate a una proprietà senza coraggio, abbattimento, e possibilmente fine, di ogni diritto sociale. Risultato, un decisionismo cialtrone sommato alla tradizione nazionale di evadere il più possibile la legge e il fisco.

In questo quadro, l'ascesa folgorante di una figura come quella di Silvio Berlusconi ha la sua logica. Non è solo per le sue imprese sessuali - ciliegina sulla torta della legge sulla sicurezza più indecente d'Europa - che si ride di noi, perduto quel rispetto che nel dopoguerra eravamo con fatica riusciti a conquistarci. Tale è l'imbarazzo che circonda l'Italia che siamo usciti perfino dalle abituali statistiche, non siamo neanche un'anomalia, siamo da non prendere sul serio.

Gli scricchiolii si avvertono a destra e a sinistra. Sulla sinistra è perfino superfluo tornare, è detta estrema solo perché ha una certa attenzione alle sofferenze del lavoro e una certa sensibilità allo scombussolamento delle coscienze, ma non è in grado di uscire dalla ripetitività di formule da una parte, Ferrero e Diliberto, e dall'altra dal troppo silenzio di un Vendola diventato oggetto di tiro regionale al bersaglio.

Né è possibile attendersi dal Partito democratico almeno un aggiornamento del keynesismo a livello 2009 - la crisi è tornata tutta nelle mani di chi l'ha provocata e a pagarne le spese sono i ceti più deboli e i lavoratori di ogni tipo, per il calo continuo dell'occupazione. Questo non è solo un problema nostro, anche Obama è in pericolo, incastrato com'è fra il corporativismo della società americana e l'eredità sempre più avvelenata del Medio Oriente.

Insomma "sinistra", parola che credevamo impraticabile per mollezza, è diventata addirittura simbolo di estremismo, neanche il Pd la pronuncia senza scusarsi, cosa che non succede neppure alla Spd, per non dire della Linke. Di Bersani non ricorderemo certo i voli di pensiero, noioso com'è a forza di buon senso emiliano, e di Franceschini ci rimarrà in mente lo sforzo d'un democristiano perbene per tenere assieme ai ds un settore cattolico lusingato da sirene da tutte le parti.

Questa inaffondabilità dei cattolici è il solo processo che emerga con qualche chiarezza assieme alla crisi del ciclo berlusconiano. Come succede con i personaggi del suo tipo, sarà una fine agitata, a colpi di coda, ma il suo blocco si è rotto.

La scelta del cavaliere per la Lega - unica vera tendenza di fascismo localista e in abiti nuovi - ha posto Fini in posizione di challenger, in nome di una destra meno turpe che non gli sarà facilissimo rappresentare; certo ce la mette tutta. Se l'ex Forza Italia non sa bene dove guardare, An è divisa fra lui e un Gasparri che lo sfida. Lega e Pdl sono entrati in conflitto con la Chiesa (s'erano tanto amati!) per le intemperanze del cavaliere e di Feltri: così pieni di sé che la prudenza è andata a farsi benedire.

Così sotto traccia riappare la voglia di un partito cattolico, sia in chi sta scomodo nel Pd sia in chi sta scomodo nel Pdl, via Casini. L'Italia continua a replicare la partizione tricolore, con un rosso sempre più sbiadito, un bianco sempre più sporco e un verde da giocare non con la Lega, ma con il Vaticano.

Verrebbe da dire "tanto rumore per nulla", se il suicidio del Pci e del Psi non avesse spostato a destra l'asse del centro. È curioso che il paese dove più lunghe sono state le code del sessantotto sia destinato a diventare di nessuna, o scarsa, importanza per l'Europa.

Il delitto è compiuto

di Giuseppe D’Avanzo

Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, si è dimesso e non tiene conto discutere del sicario. È stato pagato per fare il suo sporco lavoro, se l’è sbrigata in fretta. Ora se ne vanta e si stropiccia le mani, lo sciagurato. Appare oggi più rilevante ricordare come è stato compiuto il delitto; chi lo ha commissionato e perché; quali sono le conseguenze per noi tutti: per noi che viviamo in questa democrazia; per voi che leggete i giornali; per noi che li facciamo. Dino Boffo è stato ucciso sulla pubblica piazza con una menzogna che non ha nulla a che fare - né di diritto né di rovescio - con il giornalismo, ma con una tecnica sovietica di disinformazione che altera il giornalismo in calunnia. Il mondo anglosassone ha un’espressione per definire quel che è accaduto al direttore dell’Avvenire, character assassination, assassinio mediatico.

Il potere che ci governa ha messo in mano a chi dirige il Giornale del capo del governo - una sorta di autoalimentazione dell’alambicco venefico a uso politico - un foglio anonimo, redatto nel retrobottega di qualche burocrazia della sicurezza da un infedele servitore dello Stato. C’era scritto di Boffo come di «un noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato». L’assassino presenta quella diceria poliziesca come un fatto, addirittura come un documento giudiziario. È un imbroglio, è un inganno. Non c’è alcuna «nota informativa». È soltanto una ciancia utile al rito di degradazione. L’assassino la usa come un bastone chiodato e, nel silenzio degli osservatori, spacca la testa all’errante. L’errore di Boffo? Ha criticato, con i toni prudentissimi che gli sono propri e propri della Chiesa, lo stile di vita di Silvio Berlusconi. Ha lasciato che comparissero sulle pagine del quotidiano della Conferenza episcopale l’amarezza delle parrocchie e dei parroci, il disagio dei credenti e del mondo cattolico più popolare dinanzi all’esempio di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto.

Ora che c’è un morto, viene il freddo alle ossa pensare che anche una prudente critica, una sorvegliata disapprovazione può valere, nell’infelice Paese di Berlusconi, il prezzo più alto: la distruzione morale e professionale. Ma soltanto le prefiche e gli ipocriti se ne possono meravigliare. Da mesi, il presidente del Consiglio ha rinunciato ad affermare la legittimità del suo governo per mostrare, senza alcuna finzione ideologica, come la natura più nascosta del suo potere sia la violenza pura. Con l’assassinio di Dino Boffo, prima vittima della "campagna d’autunno" pianificata con lucidità da Berlusconi (ha lavorato a questo programma in agosto dimenticando la promessa di andare all’Aquila a controllare i cantieri della ricostruzione), questa tecnica di dominio politico si libera di ogni impaccio, di ogni decenza o scrupolo democratico. Berlusconi decide di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti, tutte intere le articolazioni del multiforme potere che si è assicurato con un maestoso conflitto d’interesse. Stila una lista di nemici. Vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono pirla, fessi, cacaminuzzoli. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. È il padrone di quell’industria di notizie di carta e di immagini. Muove come vuole. È anche il presidente del Consiglio e governa le burocrazie della sicurezza (già abbiamo visto in un’altra stagione i suoi servizi segreti pianificare la demolizione dei "nemici in toga"). Il potere che ci governa chiede e raccoglie nelle sue mani le informazioni - vere, false, mezze vere, mezze false, sudicie, fresche o ammuffite - che possano tornare utili per il programma di vendetta e punizione che ha preparato. Quelle informazioni, opportunamente manipolate, sono rilanciate dai giornali del premier nel silenzio dei telegiornali del servizio pubblico che controlla, nell’acquiescenza di gruppi editoriali docili o intimiditi. È questo il palcoscenico che ha visto il sacrificio di Dino Boffo ordinato da Quello-Che-Comanda-Tutto.

È la scena dove ora salmodiano il coro soi-disant neutrale, le anime fioche e prudenti in cerca di un alibi per la loro arrendevolezza, gli ipocriti in malafede che, riscoprendo fuori tempo e oltre ogni logica la teoria degli "opposti estremismi" mediatici, accomunano senza pudore le domande di Repubblica alle calunnie del Giornale; un’inchiesta giornalistica a un rito di degradazione sovietico; la vita privata di un libero cittadino alla vita di un capo di governo che liberamente ha deciso di rendere pubblica la sua; la ricerca della verità all’uso deliberato della menzogna. È questa la scena che dentro le istituzioni e nel Paese dovrebbe preoccupare chiunque. Per punirlo delle sue opinioni, un uomo è stato disseccato, nella sua stessa identità, da una mano micidiale che ha raccolto contro di lui il potere della politica, dello Stato, dell’informazione, dei giornali di proprietà del premier usati come arma politica impropria. Nei cromosomi della democrazia c’è la libertà di stampa e, come si legge nell’articolo 21 della Costituzione, «il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». È questa libertà che è stata umiliata e schiacciata con l’assassinio di Dino Boffo. Lo si vede a occhio nudo, anche da lontano. «Un giornalista è l’ultima vittima di Berlusconi», scrive il New York Times. Chi, in Italia, non lo vuole vedere e preferisce chiudere gli occhi è un complice degli uccisori e di chi ha commissionato quel character assassination.

Don Sciortino: una pagina triste della storia italiana

"La democrazia scricchiola ma non ci fermeranno"

di Conchita Sannino

Massa LUBRENSE - «Gli attentati possono procurare ferite e sgomento, ma non possono cancellare la verità odiata, anzi qualche volta avviene che la esaltino. I sicari non hanno fermato la voce della Chiesa, della sua dottrina sociale, in tanti secoli. Non la fermeranno ora». Don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, già finito nel mirino dei media di casa Berlusconi per le posizioni espresse contro i provvedimenti sulla sicurezza e gli stili di vita del premier, commenta quasi in diretta le dimissioni del direttore di Avvenire. «È una pagina triste della storia italiana. La nostra democrazia sta scricchiolando». Da una terrazza sospesa sulla costiera sorrentina, a Massa Lubrense, don Sciortino presenta il suo libro («La Famiglia Cristiana») di fronte a centinaia di persone, la luce ispira quiete, i Faraglioni di Capri quasi troppo vicini. Ma il sacerdote indica le ombre. Non solo la crisi che falcidia le famiglie, l’emergenza povertà, gli immigrati «di cui vorremmo prenderci solo le braccia e buttare il resto», i precari. «Non sono tempi buoni. Il Paese si interroghi. Quello che accade non riguarda solo il giornalismo. Quando in un Paese è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di criticare o di commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo controllo del sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?»

Don Sciortino interviene sulle azioni civili promosse contro i giornalisti. «Da noi, già fatto. Il ministro Maroni ha querelato "Famiglia Cristiana" per le critiche al pacchetto sicurezza». E ancora. «Siamo al pensiero unico, non c’è un’opinione pubblica, si vuole istituzionalizzare questa mancanza nel Paese. Perciò il giornalismo indipendente è minacciato». Sul caso Boffo, il direttore annota ancora: «Se un giornale di casa Berlusconi sferra un attacco di questa gravità contro il giornale dei vescovi, si può credere davvvero alla sua dissociazione? Se fosse vero, dovrebbero esserci conseguenze su chi ha compiuto il killeraggio».

In architettura sembra che, nei nostri anni, la saggezza (quando non sia solo mediocrità) sia diventata una qualità molto sottovalutata. È invece proprio sotto questo segno che è cresciuta in poco meno di una quarantina d’anni Milton Keynes, una «new town» inglese di seconda generazione che ha raggiunto oggi i 220 mila abitanti, con un invidiabile equilibrio anche economico tra le attività e la vita quotidiana, tanto da dare almeno l’impressione di una città relativamente agiata o quanto meno senza la presenza di un evidente sottoproletariato pur con un elevato numero di immi­grati extraeuropei.

Dopo il celebre piano di Abercrombie per la grande Londra degli anni Quaranta — che già prevedeva una cintura verde di limitazione dell’espansione e una serie di insediamenti nella forma di una costellazione di «new town» al di là della cintura, ben connesse con l’area centrale di Londra, che permettessero di riequilibrare con la loro realizzazione dopo il conflitto mondiale l’espansione senza limiti della capitale —, negli anni Sessanta fu presa la decisione di rendere tali «new town» più robuste e autonome collocandole a una maggiore distanza da Londra, anche distribuite strategicamente nel territorio dell’intero Paese.

A partire da questa nuova strategia, nel 1967 fu deciso di collocare una «new town» a una settantina di chilometri a nord-est di Londra, nel Buckinghamshire, in una località tangente all’autostrada M1, il principale asse stradale nord-sud della Gran Bretagna, accanto al piccolo villaggio di Milton Keynes e strategicamente localizzata a un’ora di distanza da Birmingham, Oxford, Cambridge (ma con un’autonomia di servizi universitari) e ad altrettanta distanza dagli aeroporti di Luton e di Heathrow.

Il paesaggio, lievemente ondulato, era sgombro di insediamenti e facilmente espropriabile, soprattutto ai tempi del London County Council, l’importante struttura che guidava la cultura della pianificazione pubblica con cui aveva cominciato a lavorare nel dopoguerra la generazione dei migliori architetti britannici, poi eliminata dal primo ministro Thatcher.

Visitando dopo quarant’anni Milton Keynes, si può constatare come siano stati ragionevolmente rispettati una serie di principi: opportunità e libertà di scelta, equilibri e varietà, efficiente e immaginativo utilizzo delle risorse naturali. L’insediamento è cioè in relazione con un paesaggio naturalistico opportunamente modificato; è favorita la mescolanza funzionale tra le parti: uffici, abitazioni, servizi distribuiti ad attività industriali compatibili; sono presenti più di mille chilometri di ciclopiste. Il centro, sempre affollatissimo, è costituito da una grande piastra a un solo piano densamente frequentata a ogni ora del giorno dove sono presenti i diversi esercizi commerciali a varie scale ma anche una grande biblioteca e sale di spettacolo. La densità edilizia per ettaro è assai bassa e permette una netta prevalenza del verde e delle acque; la varietà degli schemi insediativi è così alta da rendere secondarie e poco riconoscibili le parti e il privato è tanto importante da prevalere sul principio della prossimità urbana.

Niente di più lontano dalla città consolidata europea tanto che i bordi della città stessa sono difficilmente riconoscibili. I temi della flessibilità, della libertà personale delle scelte, forse influenzati dalla sociologia americana di Melwin Webber che raccomandava in quegli anni Los Angeles come modello di città, ma anche dal neoempirismo nordico così come da una tradizionale inclinazione verso il pittoresco sono anche alla base dell’insediamento di Milton Keynes e della sua stessa modesta ma civile architettura. Anzi, le qualità delle architetture e i loro diversi stili sembrano contare assai poco. Ciò che conta sembra essere la mescolanza e la varietà.

L’ascendenza delle «garden cities» degli anni Venti e delle esperienze delle prime «new town» è a Milton Keynes combinata con una dilatazione delle dimensioni tanto ampie da proporsi come il regno dell’auto privata anche se perfettamente regolata, tanto da far pensare a una influenza di alcuni modelli di periferie organizzate della città americana.

Ai nostri occhi abituati alla città europea della tradizione e alla sua attuale degenerazione Milton Keynes appare così doppiamente strana; nello stesso tempo una città fantasma ma anche il fantasma buono della città dove i contrasti sembrano minimizzarsi, forse appiattirsi rispetto alle aspettative, positive o negative, del nostro modo di pensare la vita urbana. Una città comunque, almeno all’apparenza, altamente civile dove drammi e contrasti sembrano interiorizzati per minimizzare il disturbo, all’insegna di un’efficienza complessiva non esibita. Forse non si tratta di un modello facilmente esportabile, né certamente perfetto o attuale, che la «supermodernità » dei nostri anni può considerare poco avventuroso, ma con la cui saggezza dei concreti risultati le nostre istituzioni farebbero bene a confrontarsi.

L'immagine è una foto aerea della città, cortesemente fornita dal Milton Keynes Council

Concita De Gregorio, Natalia Lombardo, Federica Fantozzi, Maria Novella Oppo, Silvia Ballestra. Sono tutte donne le colleghe e amiche dell'Unità citate per danni dal presidente del consiglio per "lesa dignità". E' un caso e non lo è. Perché fin dall'inizio dell'affaire che lo sta coprendo di ridicolo, in Italia e nel mondo, sono soprattutto donne, a partire da Veronica Lario, quelle che si sono prese la libertà di dire "vedo" di fronte al poker delle sue performance da "vero uomo". Vedo e non credo.

Basta questo per mandare in briciole il mito del grande seduttore a cui nessuna resiste. Vediamo, non crediamo, resistiamo. La libertà di stampa brucia. Se è libertà femminile brucia il doppio, perché per un vero uomo è doppiamente insopportabile. Lesiva non della sua dignità ma del suo narcisismo. E va doppiamente punita.

Come è stato per Veronica, data per "nervosa" («capita talvolta alle donne di essere un po' nervose», commentò suo marito: questione ormonale), inaffidabile e manipolabile, e triturata dalla stampa del principe come "velina ingrata" (quel gentiluomo di Feltri) nonché moglie infedele. Com'è stato per Patrizia D'Addario, manovrata e pagata da chissà chi. Com'è stato per altre che si sono impicciate di altri affari del premier, a cominciare da Nicoletta Gandus, giudice sul caso Mills (qualcuno ricorda la faccia di Ghedini in tv mentre commentava la sua sentenza?).

Il premier e la sua corte hanno un'idea precisa di dove deve stare una donna e di come la si possa "utilizzare". Se una, due, cinque, cinquanta, cinquantamila in quel posto non ci stanno sono guai. Per lui, perché questo è l'ennesimo segnale di dove sia finito il mitico fiuto di Silvio Berlusconi che pareva metterlo sempre dalla parte del senso comune. In quel posto non ci stiamo, il senso comune stavolta dice questo. Il fiuto del grande comunicatore è svaporato.

Fa davvero piacere vedere il premier riconciliato con le virtù di quella giustizia che per anni ha denigrato, appellarsi pieno di fiducia a quegli stessi magistrati per i quali un tempo invocava test attitudinali e prove di stabilità psicologica. Aveva ragione. Ci vuole effettivamente molto equilibrio per decidere di questioni tipo questa: Luciana Littizzetto avrà leso o no l'onore del premier con le sue battute "sull'utilizzo di speciali accorgimenti contro l'impotenza sessuale"? Avrà leso o no «la sua identità personale presentando l'onorevole Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione»? Non invidiamo i magistrati, e nemmeno i periti di parte. Neanche per sorridere indagheremmo mai su quel "di certo": non ci serve. Di certo, quando un "vero uomo" mette sul tavolo l'evidenza letterale della sua potenza, è perché traballa quella simbolica.

Silvio Berlusconi è di certo un "vero uomo", di quelli che affidano alla mascherata sessuale la certificazione della loro misura. Altrettanto di certo è un uomo politico finito: nella miseria, nella rabbia, nella dismisura.

Mai come oggi, i caratteri del "male italiano" sono il conformismo, l’obbedienza, l’inazione. Anche ora che un assassinio è stato commesso sotto i nostri occhi. Assassinio.Con quale altra formula si può definire – in un mondo governato dalla comunicazione – la deliberata e brutale demolizione morale e professionale di Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, "reo" di prudentissimi rilievi allo stile di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto? Un funzionario addetto al rito distruttivo – ha la "livrea" di Brighella, dirige il Giornale del Padrone – «carica il fucile». Così dice. Il proiettile è un foglietto calunnioso, anonimo, privo di alcun valore. Si legge che Boffo è un «noto omossessuale». La diceria medial-poliziesca ripetuta tre o quattro volte assume presto la qualità di un prova storica. Non lo è. Non lo è mai stata. Brighella è un imbroglione e lo sa, ma è lì per sbrigare un lavoro sporco. Gli piace farlo. Se lo cucina, goloso. Colto con le mani nel sacco delle menzogne, parla ora d’altro: qualcuno gli crede perché sciocco o pavido. Non è Brighella a intimorire. È Quello-Che-Comanda-Tutto. È lui il mandante di quel delitto. È lui il responsabile politico. Contro Silvio Berlusconi ci sono quattro indizi. Già in numero di tre, si dice, valgono una prova.

Il primo indizio ha un carattere professionale. Qualsiasi editore che si fosse trovato tra i piedi un direttore che, con un indiscutibile falso, solleva uno scandalo che mette in imbarazzo Santa Sede, Conferenza episcopale, comunità cattoliche gli avrebbe chiesto una convincente spiegazione per l’infortunio professionale. In caso contrario, a casa. A maggior ragione se quell’editore è anche (come può accadere soltanto in Italia) un capo di governo che tiene in gran conto i rapporti con il Papa, i vescovi, l’opinione pubblica cattolica. Non è accaduto nulla di tutto questo. Gianni Letta ha dovuto minacciare le dimissioni per convincere Berlusconi a mettere giù due righe di «dissociazione». Può dissociarsi soltanto chi è associato e tuttavia nei giorni successivi, mentre il lento assassinio di Boffo continua, non si ode una parola di disagio dell’editore-premier a dimostrazione che il vincolo dell’associazione è ben più stretto di quella rituale presa di distanza: Berlusconi vuole far sapere Oltretevere che non ammette né critici né interlocutori né regole.

Il secondo indizio è documentale. Il 21 agosto, Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona a Brighella. Ne spiega così le ragioni ai suoi lettori: «Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (…) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove». Giordano non poteva essere più chiaro: mi è stato chiesto (e da chi, se non dall’editore-premier?) di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l’incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo. Che il Giornale sia diventato un’officina di veleni lo conferma un redattore in fuga. Luca Telese, sul suo blog, racconta di dossier e schifezze già pronte al Giornale contro «giornalisti o parenti di giornalisti di Repubblica». L’indiscrezione è confermata in Parlamento da «uomini vicini al premier» (la Stampa, 29 agosto)

Il terzo indizio è, diciamo così, politico e cronachistico. Berlusconi, incapace di governare nonostante i numeri in eccesso e un’opposizione fragile, ha «rinunciato al suo profilo riformatore» (Il Foglio, 31 agosto). Non ha più alcun "fine". Difende soltanto "i mezzi", il suo potere personale. Lo vuole assoluto. Conosce un unico metodo per tenerselo ben stretto nelle mani: un giornalismo pubblicitario e servile che consenta di annullare ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione fatta di emozioni e immagini composte e ricomposte secondo convenienza; un racconto che elimina ogni criterio di verità; un caleidoscopio mediatico che produce un’ignoranza delle cose utile a credere in un’Italia meravigliosa senza alcun grave problema, in pace con se stessa, governata da un «Superman». Per questa ragione Berlusconi ingaggia l’obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Per la stessa ragione, ma di segno opposto, liquida in un paio di mesi tre direttori di giornale. 2 dicembre 2008. Il Corriere della sera (direttore Paolo Mieli) e la Stampa (direttore Giulio Anselmi) rilevano il conflitto d’interessi dietro la decisione di inasprire l’Iva per Sky, diretto concorrente di Mediaset. Da Tirana, Berlusconi lancia il suo «editto»: «I direttori di giornali, come la Stampa e il Corriere dovrebbero cambiare mestiere». 10 febbraio. Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix, non riesce a ottenere uno spazio informativo da Canale5 per raccontare la morte di Eluana Englaro. Protesta. L’Egoarca lo licenzia su due piedi. In aprile l’editto di Tirana trova il suo esito. Il 6, Mieli lascia il Corriere. Il 20, tocca ad Anselmi. Mentana non è più tornato in video. Anselmi e Mieli non fanno più i giornalisti. Hanno davvero cambiato mestiere.

Il quarto indizio contro Berlusconi è concreto, diretto e recente. Quando non può licenziare o far licenziare i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, Quello-Che-Comanda-Tutto organizza contro di loro intimidazioni: trascina in tribunale Repubblica colpevole di avergli proposto dieci domande e l’Unità per gli editoriali – quindi, per le opinioni – che pubblica. O dispone selvagge aggressioni. È il responsabile politico dell’assassino morale di Boffo preparato da Brighella. La maschera salmodiante combina campagne di denigrazione contro l’editore e il direttore di questo giornale. Poi l’editore-premier – come utilizzatore finale – si incarica di far esplodere quelle calunnie con pubbliche dichiarazioni rilanciate al tiggì della sera dall’obbediente Minzolini, che tace su tutto il resto.

Questa è la scena del delitto perfetto della realtà e del giornalismo. Sono in piena luce gli assassinii, gli assassinati, gli uccisori, il mandante. Vi si scorge anche un coro soi-disant neutrale. Vi fanno parte politici di prima e seconda fila che dicono: basta, torniamo alla realtà dei problemi del Paese. È proprio vero che «la pratica del potere ispessisce le cotenne». Queste teste gloriose, soffocate nella propria autoreferenzialità, non comprendono che è appunto questa la posta in gioco: la possibilità stessa di portare alla luce la realtà, di evitarne la distruzione, di raccontarla; di non fare incerta la distinzione tra reale e fittizio come Berlusconi pretende dai giornalisti anche a costo di annientare chi non accetta di farsi complice o disciplinato. Il dominio di Quello-Che-Comanda-Tutto passa, oggi e prima di ogni altra cosa, da questa porta. La volontà di tanti giornalisti "normali" che chiedono soltanto di fare il proprio lavoro con onestà e dignità ne esce umiliata. La loro inazione oggi non ha più una ragion d’essere di fronte alla brutalità dei "delitti" che abbiamo sotto gli occhi. La prudenza che induce tanti, troppi a decidere che qualsiasi azione o reazione sia impossibile, non li salverà. Il conformismo non li proteggerà. Il mandante dei delitti è un proprietario che conosce soltanto dipendenti docili e fedeli. Se non lo sei, ti bracca, ti sbrana, ti digerisce.

La guerra ingaggiata dai paesi totalitari contro la libertà di informazione su Internet costituisce la manifestazione ultima e spettacolare di un conflitto secolare, di una insofferenza di tutti i poteri costituiti nei confronti di chi agisce per rendere trasparente e controllabile il loro operato. È una vicenda lunga, accompagna la nascita dell’opinione pubblica moderna, che riesce a strutturarsi e a far crescere la sua influenza proprio grazie al ruolo della stampa. Qui è la radice di un processo che, insieme, dà senso alla democrazia e fa progressivamente emergere la stessa stampa come potere, il "quarto potere", al quale ne seguirà un "quinto", identificato nella televisione: poteri oggi unificati dal riferimento comune al sistema della comunicazione.

Non dimentichiamo che la democrazia è anche, e forse soprattutto, governo "in pubblico". Una caratteristica istituzionale affidata per lungo tempo quasi esclusivamente al parlamento, la cui funzione "teatrale" significava appunto che la politica doveva svolgersi su una scena visibile al pubblico. Una funzione prima accompagnata, poi appannata, infine spesso cancellata dal trasferimento della politica sulla scena televisiva: non è un caso che una trasmissione come "Porta a porta" sia stata definita "una terza Camera". Sono così cresciuti ruolo e responsabilità del sistema informativo. E la definizione della stampa come quarto potere significava proiettarsi al di là della tripartizione di Montesquieu, rafforzando proprio la funzione di garanzia che, nel dilatarsi del ruolo dello Stato e nell’ampliarsi della sfera pubblica, non poteva essere pienamente assicurata nell’ambito delle tradizionali strutture istituzionali. La stampa prima, e l’intero sistema della comunicazione poi, si presentavano così come luogo della libertà e di una nuova forma di rappresentanza della società.

Ma questa trasformazione portava con sé anche l’allargarsi dell’area del conflitto, e un ricorso diffuso a strumenti capaci di controllare il sistema dell’informazione. Si tratta di tecniche ben note, dalla censura al condizionamento economico, dal regime proprietario all’accurata selezione di giornalisti compiacenti, dalle minacce all’eliminazione fisica. Tecniche che continuano a convivere, caratterizzate tutte da un’intima carica di violenza. L’italiano Antonio Russo scompare in Cecenia; Anna Politkovskaja è divenuta il simbolo di una indomabile devozione alla libertà che può essere spenta solo con l’assassinio; Yahoo! si fa complice del governo cinese svelando il nome di un giornalista che aveva inviato alcune notizie negli Stati Uniti, Shi Tao, che così può essere arrestato e condannato a dieci anni di carcere. Sono soltanto tre esempi di uno stillicidio quasi quotidiano, di una irresistibile voglia di bavaglio di cui ci parlano vicende recenti in Cina, Birmania, Iran.

Ma non sono soltanto i regimi totalitari e autoritari a doverci inquietare. Nei paesi democratici il carattere pervasivo dei diversi strumenti di comunicazione, che strutturano la sfera pubblica, fa crescere le pretese di un potere politico che considera appunto il sistema della comunicazione come uno strumento essenziale per acquisire e mantenere il consenso. Si opera così un capovolgimento istituzionale. Il sistema dell’informazione vede alterata la propria natura e si trasforma in strumento servente di un potere che, insieme, si libera del controllo esterno e accentua il suo controllo sulla società.

Tutto questo avviene in forme che mantengono l’apparenza del pluralismo. A che vale, però, l’offerta di centinaia di canali televisivi se le centrali di produzione dei contenuti sono nelle mani di monopolisti, obbediscono alla stessa logica, hanno gli stessi "azionisti di riferimento"? Rendere possibile l’esposizione di ciascuno al massimo possibile di opinioni diverse è ormai la condizione fondamentale per il funzionamento dei sistemi democratici. Altrimenti la democrazia pluralista si trasforma in un guscio vuoto. Di questo è ben consapevole il nuovo "Zar dell’informazione", Cass Sunstein, nominato da Obama proprio per affrontare i nuovi problemi del sistema della comunicazione, che ha proposto per i siti Web particolarmente influenti l’obbligo di indicare un collegamento con siti che manifestano opinioni diverse. E, proprio per allentare la presa dei vari centri di potere sull’informazione, in Francia si prepara un sistema di calcolo dei tempi televisivi che escluda privilegi per lo stesso Sarkozy, mentre in Gran Bretagna si guarda alle tv private in un’ottica che tenga conto della funzione pubblica che anch’esse rivestono.

Rispetto a tutto questo, la situazione italiana si configura non solo come eccezione, ma come profonda deviazione. Consideriamo un caso davvero esemplare per il rapporto potere, informazione, cittadini. Un recente rapporto Censis ha rilevato che il 69.3% degli elettori forma le proprie opinioni in base alle informazioni fornite dai telegiornali. Il controllo dei telegiornali, dunque, è un veicolo essenziale per l’acquisizione del consenso. E il fatto che si tratti di una informazione quasi monocorde, ridotta a un denominatore davvero minimo, che nega alla radice il pluralismo, altera i caratteri democratici del sistema e svela pure il carattere ormai ingannevole dei sondaggi, la cui attendibilità dipende dall’ampiezza del patrimonio informativo di cui dispone ciascuno degli interrogati.

Ma la normalizzazione del sistema televisivo evidentemente non basta. E così, con una mossa tipicamente autoritaria, si vuole normalizzare anche la stampa, spegnendone le voci dissenzienti. Non si commetta l’errore di ritenere che, in definitiva, siamo di fronte a casi isolati, di cui ci si può disinteressare. Le resistibili ascese sono sempre cominciate così – ci ammonisce la storia dei rapporti tra stampa e potere. Quando, poi, ci si accorge che quello era solo un primo passo, che si voleva colpirne uno per educarne cento, può essere troppo tardi.

L'autunno non è ancora cominciato e lo stato della politica italiana è già un disastro, con sicuro danno per i cittadini italiani. Un disastro con alcuni paradossi: il primo che il manifesto stia dalla parte della gerarchia cattolica; il secondo che il Cavalier Silvio si sia convertito al culto della Chiesa Padana. Viene il dubbio che l'astinenza dalle escort, cui l'avrebbe obbligato la stampa di tutto il mondo, gli abbia dato alla testa. Capita.

Il punto è che dopo le critiche della Chiesa a Berlusconi, quest'ultimo aveva pensato a una riconciliazione con un pranzo con il cardinal Bertone, ma il cardinal Bertone ha mandato al diavolo il cavaliere dicendo che le spese del pranzo sarebbe stato meglio spenderle per opere di bene. Certo le cannonate sparate dal giornale di famiglia devono aver fatto traboccare il vaso. Vittorio Feltri direttore del Giornale e indomito combattente accusa Dino Boffo direttore de l'Avvenire di omosessualità (che in verità non sarebbe un reato) e di molestie alla moglie di un suo amico. Siamo indubbiamente nell'alta politica.

Nei 45 anni di vita repubblicana credo che mai fossimo arrivati a questo punto e non so bene come il Presidente Giorgio Napolitano riuscirà a metterci una pezza. Ma c'è più di una ragione per sperare che di qui al prossimo 2 giugno l'Italia sia guarita, o almeno convalescente, dal berlusconismo, che oggi la infetta con una diffusione incredibile. Anche Fini si rende conto che in questo modo non si può andare avanti. E poi, massimo del tragico ridicolo, la querela di Berlusconi alle 10 domande di Repubblica, per danni morali valutati in un milione di euro, cioè il valore effettivo del prestigio dell'attuale presidente del consiglio: chi non è pronto a fare una colletta anche di dieci milioni di euro purché si tolga dalle palle?

L'opposizione (salvo alcune forze o debolezze extraparlamentari) è convinta che la grande stagione, quando si parlava di socialismo e addirittura di comunismo, è tramontata per sempre. Non ci sono più grandi obiettivi: si agitano solo per vincere il congresso. Ma sarebbe ora che cominciassero a pensare di battere Berlusconi al più presto, già ai primi dell'autunno. È possibile, e certo più importante che vincere il congresso.

Ps. La tardiva dissociazione di Berlusconi dalle accuse omofobiche del Giornale con la dichiarazione che «la vita privata è uguale per tutti» è una chiara rivendicazione e, insieme, la conferma che non sa più dove mettere i piedi.

ROMA - «Che errore», dice Carlo Azeglio Ciampi a proposito della querela di Berlusconi a Repubblica. «Ma come si fa? E’ incredibile, davvero inconcepibile». L’ex capo dello Stato interviene, rispondendo a Repubblica, sull’attacco del presidente del Consiglio alla libera stampa. Un evento inedito e clamoroso, che sembra lasciarlo senza parole. Lui, che ha sempre avuto estremamente a cuore la libertà di stampa. Il presidente che in un messaggio alle Camere difese il pluralismo dell’informazione costringendo l’allora governo Berlusconi (e il suo ministro Gasparri) a un imbarazzante dietro front, correggendo il testo d’una legge sulla tv. Le cose sono arrivate a questo punto, in Italia? E nessuno si oppone, nessuno più reagisce?

Anziché rispondere alle domande di un giornale il capo del governo preferisce dunque trascinare quel giornale in tribunale?

«Io parto sempre dall’idea che le cose strampalate chi le compie prima o poi le paga. La gente non è così sciocca. Sa leggere bene il significato vero degli eventi, errori compresi. Oltretutto, si va a un processo sulle cose scritte e pubblicate? Bene. Con quale esito possibile, ridicolo a parte?»

Forse l’unico vero obiettivo (pensato ma non dichiarato) è forzare la libera stampa, almeno quella che non gli è pregiudizialmente favorevole. Colpirne uno per educarne cento, come si dice? Guarda caso il giorno prima di uno scontro col Vaticano ora gli sembra ostile?

«A me non pare proprio che la cosa debba finire in sede giudiziaria. Oltretutto mi pare evidente il rischio d’una auto condanna».

Vuol dire che la mossa di Berlusconi profila un evidente rischio di autogol?

«Voglio dire che quella querela contiene tutti i segni distintivi d’un passo falso per chi l’ha fatto».

Ritiene che, per come si presenta, la querela abbia scarse possibilità di successo?

«Non conosco gli avvenimenti in dettaglio, ma direi che prendere sul serio quella denuncia sarebbe un errore. E il primo danneggiato rischia d’essere lo stesso denunciante».

La morte dei 73 eritrei ha evidenziato crudelmente una questione non nuova, ma che faticava a manifestarsi. Il tema dell’immigrazione costituisce una frattura profonda per le società contemporanee. Dunque, questa vicenda sembra poter rappresentare un punto di svolta. Sia chiaro: contrariamente a quanto si sente ripetere, l’immigrazione non è questione di solidarietà- i buoni sentimenti contrapposti al truce cattivismo della Lega -, bensì di economia e demografia, diritti e doveri, politiche pubbliche e strategie di inclusione, welfare universalistico e integrazione. Insomma, non è un problema di «generosità verso gli ultimi», bensì un fattore essenziale dei moderni sistemi di cittadinanza e un test cruciale per la qualità delle democrazie contemporanee.

Certo, è buona cosa che la Chiesa cattolica si sia mossa, e con tanta forza, in questa circostanza, ma è un errore pensare che la tutela dei diritti irrinunciabili della persona debba avere, di necessità, un’ispirazione religiosa. Quella tutela è, deve essere, fondamento di ogni politica democratica degna di questo nome. Dall’intransigente difesa di quei diritti discende la natura stessa dei regimi democratici: essa non può affidarsi alle virtù individuali e collettive (pure preziose), ma all’elaborazione di un sistema di garanzie che, quei diritti, renda esigibili ed effettivi. Per questo, la questione dell’immigrazione rappresenta davvero un discrimine che attraversa la società e il sistema politico.

Con l’introduzione del reato di clandestinità, il nostro ordinamento ha subito una lesione profonda come mai in passato: viene sanzionato non un comportamento criminale, bensì una condizione esistenziale. Si viene penalizzati per ciò che si è, non per ciò che si fa. Ma battersi contro questa mostruosità non è sufficiente, se non si hanno ben chiare le conseguenze di quella norma, nella vita sociale e nei livelli di tutela giuridica dei singoli e delle minoranze: ovvero il fatto che la società si organizza, di conseguenza, per selezionare, discriminare, sperequare tra chi è parte del sistema di cittadinanza, chi ne è fuori e chi (tantissimi) vive precariamente ai suoi margini, tra inclusione ed esclusione. Dunque, è tutta l’organizzazione sociale - l’idea e la struttura di comunità - che ne viene informata, intervenendo nei rapporti tra gruppi e classi, tra privilegiati e deprivati. L’atteggiamento verso gli immigrati e i profughi, cioè, condiziona profondamente la concezione dei diritti di cittadinanza per tutti e gli stessi connotati essenziali della vita democratica.

È probabile che oggi la maggior parte della società italiana esprima diffidenza, se non ostilità, verso le politiche di accoglienza-integrazione: non è una buona ragione per arrendersi. È fondamentale, certo, saper scegliere le parole e le politiche: ben venga il discorso profetico della Chiesa, ma a noi serve un altro linguaggio. Quello, appunto, dell’economia e della demografia, dei diritti e delle garanzie. E la capacità di far intendere che chiudere le frontiere, prima ancora che una manifestazione di egoismo, è segnale indubbio di autolesionismo.

© 2024 Eddyburg