La cronaca di oggi reca un invito alla ribellione contro un giornale – questo giornale – perché «parla male del governo». È difficile cercar di ragionare con un presidente del Consiglio dei Ministri che scatena il suo uditorio contro due pilastri del sistema politico, non solo di quello italiano: la libertà di opinione, incluso il sacrosanto diritto di critica della libera stampa e la funzione di supremo garante del nostro ordinamento svolta dal presidente della Repubblica. È una violenta semplificazione del sistema fondato sulla separazione dei poteri fondamentali e sulla gelosa tutela dei diritti sanciti dalla Carta costituzionale, sottratta per definizione alle turbolenze della politica quotidiana. Di questo attacco, indiscutibilmente eversivo, vorremmo qui esaminare pacatamente l´unico argomento su cui si regge, che è questo: l´eletto del popolo, chi possiede la maggioranza del consenso popolare, non deve essere criticato né può sottostare alle regole dei normali cittadini. Chi lo critica o lo ostacola boicotta il paese intero che lui incarna per effetto dell´investitura popolare. Da tempo in Italia si fa un uso quotidiano, aggressivo ma anche fastidiosamente lamentoso e piagnucoloso del principio di maggioranza. Si dice: la maggioranza parlamentare ha il diritto di governare . Il governo è l´espressione della maggioranza degli elettori, dunque le leggi varate dalla maggioranza non debbono essere ostacolate dalle minoranze. I ministri rivendicano il diritto-dovere di comandare e di essere obbediti. Un preside di scuola non obbedisce al ministro della Pubblica istruzione? Un magistrato applica una sentenza e consente la sospensione delle cure a un malato terminale? Ecco fioccare dalla maggioranza disobbedita ispezioni, minacce, ritorsioni. E il principio è sempre quello: gli eletti del popolo rappresentano la maggioranza e non debbono essere ostacolati. La punta massima di questa tendenza è stata toccata dagli avvocati/parlamentari di Berlusconi che hanno sostenuto davanti alla Corte costituzionale che il leader eletto dal popolo è non un primo tra pari ma il primo sopra tutti e perciò sottratto alla legge comune: un principio che solo il papato teocratico del Medioevo tentò di sostenere, sia pure in nome di Dio. Alla ambizione del leader e dei suoi corrisponde un sentimento di frustrazione, un misto di rabbia e di violenza impotente ogni volta che nei campi più diversi, dalla giustizia all´economia, dalla politica alla religione, non si riesce ad applicare il principio dell´incontrastato diritto della maggioranza di comandare. Comandare, non governare. Ci sono minoranze religiose in Italia ma l´unico insegnamento obbligatorio è quello della religione cattolica . C´è un milione di disoccupati ma la maggioranza se la cava bene e di quelli non s´ha da parlare. C´è un giornale che critica e domanda: è un nemico, non si risponde e si chiede di boicottarlo. Il diritto della maggioranza di cancellare la minoranza si declina anche in chiave locale: e così via l´italiano , avanti i dialetti; via dal nord gli insegnanti e i presidi meridionali; via la minoranza degli immigrati, per definizione senza diritti. Intanto la maggioranza si prepara a infliggerci l´obbligo di cure forzate anche per chi vorrebbe avere il diritto di scegliere la sua morte, a saldo del conto livoroso aperto col caso Englaro. Così, passo dopo passo, è tornato in vigore il principio che ciò che vuole il capo eletto dalla maggioranza deve essere legge per il popolo, senza che nessun altro organo dello stato possa opporsi. Come il borghese gentiluomo di Molière, il nostro presidente del Consiglio e i suoi parlano in prosa senza saperlo: una prosa non neoliberale come mostrano di credere gli ossequienti commentatori dell´establishment italiano, ma vetero-dittatoriale. E perché inconsapevoli della lingua che usano , osano sostenere che per l´ideologia neoliberale chi ha avuto l´investitura dal popolo deve comandare senza intralci. Da qui le continue grida di un fastidio volgarissimo anche nei modi (ci vorrebbe altro che Monsignor Della Casa) verso le lentezze del potere legislativo, l´autonomia del potere giudiziario, la funzione di garanzia della Presidenza della Repubblica, la stessa carta costituzionale e la Corte che si ostina - con indubbio coraggio civile - a tutelarla. C´è chi prova a alleggerire la tensione suggerendo di ricorrere al bromuro. Ma queste sono manifestazioni di una sindrome assai più grave di una alterazione di umore individuale: una sindrome che si riassume nell´idea che il capo dell´esecutivo non debba conoscere limiti alla sua volontà in quanto espressione mistica della volontà di tutti. Come ha osservato Hanna Arendt, questa idea si fonda su di una finzione: la maggioranza finge di essere la totalità e facendo di questo la regola di una democrazia senza costituzione, schiaccia i diritti delle minoranze e cancella il dissenso senza nemmeno ricorrere alla violenza. Sono parole da meditare in un paese come il nostro dove dissenso e diritti di minoranza stanno scomparendo silenziosamente e la costituzione è sotto attacco.
In Italia c´è stato chi ha spiegato bene come sia nato e quanti problemi abbia posto il principio di maggioranza: è stato Edoardo Ruffini, autore di un profilo storico del principio maggioritario uscito nel lontano 1927 , mentre il padre suo Francesco Ruffini , maestro del giovane Bobbio, pubblicava i suoi «Diritti di libertà» per le edizioni di Piero Gobetti. Edoardo Ruffini spiegò qui e in altri studi, ripresi e stampati poi tra il 1976 e il 1977, come il principio maggioritario avesse dovuto fare i conti nella sua lunga e non lineare storia col problema della tutela dei diritti delle minoranze, garantiti per esempio nel caso degli Stati Uniti d´America sottraendo le leggi fondamentali all´arbitrio della maggioranza. Le ragioni di quella ricerca si radicavano nella coscienza dell´autore e trovarono un esito nelle sue scelte di cittadino. Per lui i diritti individuali della libera coscienza erano il limite insuperabile da opporre alla dittatura di una maggioranza che tendeva alla soppressione delle minoranze. Edoardo fu, accanto al padre Francesco, uno dei dodici professori che non si piegarono all´infamia del giuramento di fedeltà al regime fascista e persero di conseguenza la cattedra.
Dodici su dodicimila. Una trascurabile minoranza: «sublimato all´un per mille», scrisse la stampa del regime. E il regime, che dal consenso della maggioranza aveva fatto nascere uno stato totalitario, tirò dritto per la sua strada. Oggi sappiamo come finì.
Ancora una volta, vicino Messina, una frana ha spazzato via vite umane, povere case e le loro suppellettili e ricordi. Qualcuno ha detto che non è stata colpa della natura, ma dell'"uomo", quasi genericamente malvagio e nemico della natura; in realtà la colpa è della forza del denaro e della speculazione e di un potere politico attento agli interessi degli affari e dei soldi, anche a costo del disprezzo della vita umana e della natura.
L'acqua fa il mestiere per il quale è stata predisposta dall'inizio del pianeta, come fonte della vita, non di morte: cade ogni anno sulla superficie della Terra in quantità abbastanza costante e abbastanza prevedibile da luogo a luogo, da stagione a stagione. L'acqua raggiunge il terreno e scorre verso il piano lungo i fianchi delle valli, e poi nei canali e nei torrenti e poi nei fiumi più grandi fino al mare; nel cadere sulla superficie della terra l'acqua viene a contatto con le rocce e il terreno e ne sposta le parti più leggere che diventano sabbia e limo, che scendono per gravità, depositandosi nelle parti più basse, creando quei beni utili agli esseri umani come le fertili pianure alluvionali e le spiagge. In questo suo instancabile e provvidenziale andare, l'acqua da vita ai vegetali, disseta gli animali, assicura la vita umana.
E la vegetazione, in tutte le sue forme, dai prati agli alberi, alla macchia spontanea, è anche fondamentale nel regolare la forza che l'acqua esercita nel disgregare e spostare il terreno; le foglie sono state inventate dal Padreterno proprio perché attenuano la forza erosiva dell'acqua. Nel corso dei millenni e dei secoli le acque si sono assicurato lo spazio in cui muoversi a seconda della loro velocità, cambiando talvolta il loro corso e riservandosi degli spazi in cui adagiarsi nei periodi di piogge più intense e di piene dei fiumi.
"Purtroppo" le pianure e le zone accanto ai torrenti e ai fiumi e ai laghi sono quelle più pregiate per gli insediamenti umani; i terreni agricoli si sono estesi anche sulle rive dei fiumi nelle zone che la natura aveva riservato a se stessa per far espandere le acque di piena; case e villaggi e poi città e fabbriche hanno occupato i fianchi delle valli e i fondo valle e le rive dei fiumi, dei laghi e del mare creando ostacoli al moto delle acque; così quando vi sono piogge più intense, le acque aumentano di velocità e di forza erosiva e cercano con violenza uno spazio per scendere a valle spostando masse di terra, alberi e addirittura edifici e ponti e strade.
Tutto qui; le frane e le alluvioni e i costi e i dolori e i morti sono dovuti al fatto che alcuni "soggetti economici", nel nome del proprio interesse "economico", hanno edificato o occupato gli spazi che dovrebbero essere liberi per il moto delle acque incanalando fiumi e torrenti in prigioni di cemento; altri, sempre per motivi "economici", per guadagnare spazi edificabili, hanno distrutto, anche col fuoco degli incendi, gli alberi e la vegetazione spontanea e le macchie, per cui le acque hanno finito per muoversi con maggiore violenza sul suolo; molte pratiche agricole intensive hanno reso il terreno più esposto all'erosione che sposta a valle la terra fertile.
Terra, fango, detriti, ramaglie, alberi, rocce, trascinati dalle acque sempre più veloci, diventano un "tappo" fisico dei corsi di acqua e ne facilitano l'uscita dalle loro vie naturali. E' il quadro che si è visto nei paesi intorno a Messina oggi e che si vede in tutti i casi di frane e alluvioni che divorano, da decenni, ogni anno in Italia, miliardi di euro di ricchezza e centinaia di vite umane. L'unica nostra difesa sarebbe "lo Stato" che, se operasse per il bene pubblico, dovrebbe impedire, con le leggi e con il loro rispetto, dal livello nazionale a quello delle amministrazioni locali, la costruzione di opere, private e pubbliche, edifici e strade e ponti, eccetera, nei luoghi che sarebbero riservati al moto delle acque; che dovrebbe ricostruire la copertura vegetale vietando la distruzione del verde e dei boschi e dovrebbe provvedere alla pulizia del greto di canali, torrenti e fiumi per assicurare il regolare fluire delle acque.
Purtroppo le leggi, che sono giustamente attente a punire la violenza ai privati, sono silenziose, talvolta compiacenti, quando si tratta di impedire la violenza di privati --- e talvolta dello stesso stato --- contro la natura, cioè contro la vita di altri cittadini. Anche se è certo che tale violenza si manifesterà periodicamente, sotto forma di disastri e morti e dolori. Ogni volta che lo stato dovrebbe dire a un cittadino che "non deve" costruire in una golena o in una lama o nel greto di un torrente o in una zona franosa, sta zitto, perché bisogna "fare", costruire, anche se ciò sarà pagato da altri e da tutti, oggi e in futuro. Eppure, con leggi e con una buona amministrazione, si può "fare" e assicurare lavoro e case e strade, costruendo diversamente, in altri luoghi, proteggendo il suolo contro l'erosione con il rimboschimento, combattendo gli incendi.
E le leggi ci sono state; nel 1985 la legge 431 stabiliva che dovevano essere sottoposte a vincolo le rive dei torrenti e dei fiumi e del mare, la legge 183 del 1989 (venti anni fa) stabiliva regole di difesa del suolo e delle acque; e così prevedevano le leggi "Sarno" (267 del 1998), e Soverato (365 del 2000), emanate dopo i rispettivi disastri idrogeologici. Tutte leggi non applicate o violate, o rimandate o vanificate da condoni. Si sentono promesse e programmi in vista di future elezioni, ma non sento nessun impegno di aggiornare e far rispettare le leggi che impediscono gli interventi sul territorio nocivi per la vita futura degli italiani.
Se proprio i futuri governi locali e nazionali non hanno "il coraggio di dire no" alla speculazione, all'egoismo, all'avidità che si mangiano il territorio italiano, alla violenza contro la natura, almeno abbiano il pudore di smetterla con i piagnistei sui cadaveri che sono generati dalla loro incapacità di prevedere e prevenire le cause, che sono sotto gli occhi di tutti, delle morti e dei dolori e dei costi di ieri, di oggi, di domani e dopodomani.
Prendete un luogo benedetto dagli dei, in questo caso una valle pedemontana, che si snoda magnifica tra colline, ulivi, vigneti, boschi e pascoli. Piantateci un'industria impattante, in questo caso un cementificio con la sua brava miniera di marna per la materia prima. Non succede niente. Sono gli anni '60, la gente emigra ancora dalle campagne, la fabbrica viene accolta con gioia perché significa occupazione, lavoro, sicurezza del pane.
Mettete quella stessa situazione quasi cinquant'anni dopo, cioè adesso. Il cementificio è ancora lì, la "coltivazione" di marna s'è mangiata le colline dietro alla fabbrica, il filone si sta esaurendo e gli impianti della cementeria sono diventati obsoleti. Pronti, richiesta di ammodernamento e richiesta di concessione per una nuova "coltivazione", da iniziarsi in una delle oasi naturalistiche della zona, di cui buona parte è inserita in un parco naturale. Stavolta qualcosa succede, non c'è più fame, c'è un'altra sensibilità per il territorio e per i suoi prodotti di pregio. La gente protesta, fa petizioni, ricorsi, manifestazioni, l'ultima proprio oggi, in mattinata.
Perché il territorio da salvare è nientemeno che la Valpolicella, zona di produzione di vini di eccellenza, il rosso doc, il Recioto, l'Amarone. Vini che non solo hanno deliziato e deliziano i palati di mezzo mondo ma hanno costruito negli anni un'economia di pregio, legata anche alla gestione intelligente di una valle che, seppur selvaggiamente urbanizzata, resta una delle perle della provincia di Verona.
Fumane è un paese di circa 4.000 abitanti e sorge all'imbocco della cosiddetta "Val dei Progni", che, tra strapiombi e torrenti (progno è il nome dialettale che indica un piccolo corso d'acqua), sale verso Molina e il Parco delle Cascate, una delle meraviglie del Parco Naturale Regionale della Lessinia. Proprio qui, dove la strada comincia a salire, nel 1962 inizia la propria attività la Cementi Verona S.p.A., oggi Industria Cementi Giovanni Rossi S.p.A., che produce e vende leganti idraulici. Allora la strada principale del paese non aveva costruzioni ai lati e l'Amarone era un vino gustato da pochi eletti. Nel corso degli anni Settanta il cementificio viene ampliato e dotato di un secondo forno, viene aggiunto un nuovo mulino per il cemento e, nei primi anni Ottanta, mentre il costo del petrolio continua a crescere, si introduce il carbone come combustibile. Il cementificio ha circa cento dipendenti, con un indotto di altre centocinquanta persone, cifra occupazionale tuttora invariata. Quello di Fumane non è l'unico stabilimento del gruppo Cementi Rossi, che ha sede a Piacenza. Nella città emiliana ci sono il cementificio principale e il centro di ricerca, l'altro impianto di produzione è a Pederobba (Treviso), dove si bruciano come combustibile 60mila tonnellate all'anno di pneumatici, mentre a Ozzano Monferrato (Alessandria) il forno è disattivo ed è rimasto il centro di macinazione. Nel complesso l'industria è una realtà produttiva di rilievo sul mercato nazionale - l'Italia è il secondo produttore europeo dietro la Spagna - ed è inserita, attraverso la compartecipazione con Holcim, multinazionale di cementi e aggregati (da cui Rolcim, società di cui la Cementi Rossi detiene il 40%), sul mercato internazionale.Per quanto riguarda Fumane, non vi è alcun dubbio che il cementificio sia, come scritto nei documenti di presentazione dei recenti progetti, "cittadino della Valpolicella". Nemmeno i relativamente nuovi atteggiamenti verso l'ambiente - che hanno dato vita a due associazioni, "Valpolicella 2000" e "Comitato Fumane Futura", in prima linea nella battaglia per la dismissione dell'industria cementiera - hanno smosso il profondo convincimento di una discreta parte di popolazione. Nel corso del nostro "giro di perlustrazione" a Fumane, una delle maestre della scuola elementare, situata esattamente all'angolo della strada che va al cementificio, con i bambini che giocano in un cortile affumicato dagli scarichi dei camion, ci ha detto che lei abita da quarant'anni in paese e sta benone, «che il cementificio sia nocivo, è tutto da vedere». E, in effetti, come darle torto? La "sbattellata" di concessioni, rinnovi di concessioni e pareri favorevoli dei vari enti locali collezionata dal cementificio, a fronte di domande di ammodernamento che prevedono la costruzione di un camino alto 103 metri con l'utilizzo di 120mila tonnellate di "rifiuti non nocivi" (di cui 80mila tonnellate di ceneri pesanti) nella miscela cementizia, oltre allo scavo di una nuova miniera in zona protetta, danno in tutto ragione all'insegnante poco ecologista.
Il 22 dicembre 1999 il Distretto Minerario di Padova autorizza il rinnovo della concessione mineraria "Monte Noroni" per la durata di 25 anni a decorrere dall'aprile del 2000; il 6 agosto 2009 la Giunta Provinciale, convocata dal vicepresidente Luca Coletto (già condannato con altri cinque leghisti, tra cui il sindaco di Verona Flavio Tosi, per propaganda razzista), esprime «giudizio favorevole di compatibilità ambientale» sul progetto di ammodernamento del cementificio; il 20 agosto 2009 la Giunta Provinciale, convocata dal presidente Giovanni Miozzi (An), esprime «giudizio favorevole di compatibilità ambientale» sul progetto relativo alla «riduzione del consumo di materie prime naturali nel processo produttivo mediante utilizzo di rifiuti non pericolosi»; l'1 settembre 2009 la Provincia di Verona, Settore Ambiente, approva il progetto presentato dalla Cementi Rossi per la riduzione del consumo di materie prime naturali nel processo produttivo, mediante utilizzo di rifiuti non pericolosi e rilascia l'Autorizzazione Integrata Ambientale, esclusivamente per quanto attiene la realizzazione dell'impianto di recupero rifiuti, finalizzata alla durata dell'esercizio provvisorio. Provvede anche, secondo le normative vigenti, a fornire le prescrizioni di legge sul trasporto, stoccaggio e gestione dei suddetti rifiuti.
In realtà il cementificio già da anni utilizza sostitutivi di materia prima in quantitativi ridotti, non «per bruciarli - ci tiene a precisare l'ingegner Pierandrea Fiorentini, responsabile ambientale della Cementi Rossi - anche se lo abbiamo fatto per due anni con le farine animali ai tempi di "mucca pazza". Ora vorremmo smantellare i forni "Lepol" che non sono più attuali e sostituirli con un'unica linea costituita da un forno a cicloni, che riduce le emissioni, soprattutto l'ossido di azoto, ed ottimizza le prestazioni. Siamo consapevoli che l'aspetto paesaggistico è importante e siamo disponibili ad ogni confronto con i soggetti pubblici interessati a minimizzare l'impatto della nuova linea».
Il "confronto" è una vera e propria battaglia senza esclusione di colpi. Sulla barricata gli ambientalisti e le loro associazioni, che chiedono, con una petizione, la «revoca di tutte le autorizzazioni per fermare questo progetto insensato, nocivo ed esclusivamente speculativo», preparando nel contempo una serie di ricorsi e organizzando costantemente iniziative sul territorio. La settimana scorsa erano fuori dal teatro Filarmonico di Verona, dove si svolgeva la 28a edizione del prestigioso "Premio Masi", azienda vitivinicola di proprietà, da sei generazioni, della famiglia Boscaini. Proprio a Sandro Boscaini, attuale presidente di Masi, chiedevano conto, con grandi cartelli che recitavano "Amarone o Rifiuti?", "Recioto o Cemento?", della mancata presa di posizione dei viticoltori rispetto ai progetti del cementificio: «Diciamolo chiaramente e sinteticamente - dicono Daniele Todesco, presidente di Valpolicella 2000, e Mimmo Conchi, presidente del Comitato Fumane Futura - la Cementi Rossi deve chiudere il ciclo produttivo. Lo sviluppo dell'economia basata sulla valorizzazione del territorio collide con lo sfruttamento del territorio che, in quella zona, è ormai totalmente fuori posto. Non stanno insieme perché si danneggiano e questo è quanto. Tant'è vero che l'allarme lanciato dal cementificio sull'esaurimento del filone di marna che stanno scavando, motivo per cui hanno chiesto una nuova concessione a Marezzane (vedi box), è strumentale. Vogliono creare allarme occupazionale, il cementificio chiude perché la miniera si è esaurita. Studino invece il modo corretto di uscirne, riconvertendo magari. Intanto potrebbero escludere i rifiuti dal processo produttivo e nel frattempo prepararsi ad una dismissione onorevole». Una proposta forte, su cui il Comune di Fumane, con il sindaco di centrodestra Domenico Bianchi, già amministratore per quindici anni ai tempi della Dc - sostituito poi da una giunta di centrosinistra che ha perso le elezioni nel giugno di quest'anno - dovrebbe avere l'ultima parola: «La precedente giunta - dichiara Bianchi - aveva già chiuso la vicenda dando l'ok del Comune, che sarebbe compensato dal cementificio con la realizzazione di opere pubbliche (la nuova scuola elementare, ndr). Se la Regione dicesse no agli scavi a Marezzane, i discorsi sarebbero già definiti. Per noi la salute dei cittadini non ha prezzo e non ha colore e quindi attualmente ci stiamo prendendo il tempo per riflettere ma potremmo arrivare a pensare ad una consultazione popolare con il coinvolgimento dei Comuni vicini. Le emissioni non si fermano ai confini».
La manifestazione
Una mattina a passeggio per i boschi di Marezzane
Il ritrovo è fissato per le 10.30 a Malga Biancari, in località Girotto (Marano di Valpolicella). Si camminerà sul sentiero, tra prati e boschi, per raggiungere lo straordinario "balcone" panoramico di Marezzane, involontario testimone di tutte le contraddizioni di questo territorio. A monte una corona splendente di montagne e verdi canaloni (vaj), a valle gli scavi e il cementificio. Grazie alle firme raccolte durante la marcia dello scorso anno, Marezzane è diventata uno dei "luoghi del cuore" (iniziativa del Fai-Fondo per l'ambiente italiano) più segnalati d'Italia. Ora la Cementi Rossi (vedi l'articolo sopra) vorrebbe iniziare una "coltivazione" mineraria proprio qui, a ridosso della zona Sic (Sito di Interesse Comunitario) di Molina, punto di congiunzione tra la Valpolicella e la Lessinia. Già oggetto di interrogazioni in Regione (ente che ha la competenza per questo tipo di concessioni) da parte dei consiglieri dell'opposizione Gianfranco Bettin, Gustavo Franchetto e Piero Pettenò, in cui si ricorda che l'ente parco nel 2000 era ricorso al Tar per bloccare gli scavi, Marezzane è un sito di pregio non solo naturalistico, con la presenza di un'area in cui crescono una trentina di specie di orchidee selvatiche. Conserva infatti siti di grande importanza archeologica e paesaggistica. Un paradiso che minaccia di sparire, dove oggi si potrà pranzare e ascoltare buona musica.
la Repubblica
La leggenda del premier eletto dal popolo
di Ilvo Diamanti
"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano.Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall´altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo. In pratica: considera le istituzioni dello Stato – e quindi la Costituzione – inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo.
Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.
Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l´Italia non è (ancora) un sistema presidenziale. I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistito a una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori). Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa. Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma. Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l´8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione". Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto. Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.
Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo".
D´altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno. Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni. Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un´operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero – come sostiene Berlusconi – il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).
La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano. Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l´area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un´istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%. Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia. Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell´obbligo – ma anche al liceo – era una sufficienza stretta. Come un 18 all´università. Che si accetta per non ripetere l´esame. Ma resta un voto mediocre. Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl. Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l´80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi. Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell´era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.
Corriere della sera
Lodo, no dal 72 per cento. Consensi alti al premier
di Renato Mannheimer
Agli italiani, ormai da molti anni, non piacciono — a torto o a ragione — i privilegi concessi agli esponenti politici. Quando, in occasione di tangentopoli, venne revocata l’immunità parlamentare, l’opinione pubblica reagì con soddisfazione. Da allora il «sentimento» è rimasto per molti versi lo stesso. Per questo, non sorprende più di tanto il fatto che, di fronte al quesito relativo ai benefici previsti dal Lodo Alfano, l’ampia maggioranza della popolazione (72%) bocci il provvedimento. In particolare, il 58% dichiara di non condividere «per nulla» la legge in questione: a costoro si affianca il 14% che afferma comunque di condividerla «poco».
Manifesta invece il proprio consenso per la legge poco meno di un italiano su quattro (24%) (è bene ricordare che gran parte dei giudizi espressi dalla «gente comune» sono formulati solamente sulla base della propria impressione, del proprio generico orientamento, senza particolari competenze in campo giuridico o, talvolta, politico).
Risultano particolarmente in disaccordo col provvedimento i più giovani, specie se laureati, i residenti al Nord-Ovest e, in generale, nelle grandi città. Ma il dato più significativo — e inaspettato per alcuni — concerne l’orientamento politico.
Non sorprende, infatti, la grande percentuale di contrari tra gli elettori del Pd e dell’Idv (86%). Ma colpisce il fatto che i votanti per il centrodestra risultino assai più divisi fra loro, tanto da suggerire l’esistenza, di una vera e propria frattura di opinioni al loro interno. Se è vero, infatti, che grosso modo metà degli elettori per la coalizione di governo (45% per il Pdl, 42% per la Lega) manifesta il suo sostanziale accordo col provvedimento, è vero anche che una percentuale simile (anche se lievemente maggiore: 51%) esprime al contrario perplessità.
Si tratta di una delle rare volte in cui si intravede l’emergere di dubbi diffusi all’interno dell’elettorato di centrodestra su di un provvedimento proposto dal governo. Può essere il segnale del principio di una più generale disaffezione, ma, molto più probabilmente, è solo la reazione isolata ad un singolo provvedimento, i cui contenuti risultano poco condivisi dalla «cultura politica» degli italiani, compresa buona parte dell’elettorato di centrodestra. Insomma, le perplessità paiono riguardare soprattutto il merito della legge in sé. Tanto che il livello di popolarità del presidente del Consiglio non pare essere stato intaccato da quanto è accaduto. Il consenso per Berlusconi, rilevato proprio il giorno dopo gli episodi e le esternazioni seguite alla bocciatura del Lodo, risulta infatti sostanzialmente simile a quanto emerso il mese precedente e rimane poco sotto il 50%.
In definitiva, malgrado tutto — le polemiche, i toni aspri, le proteste — la fiducia popolare nel Cavaliere pare restare assai diffusa (anche se con un lieve decremento rispetto ai livelli raggiunti la scorsa primavera). E’ quantitativamente molto inferiore a quella riscossa dal presidente della Repubblica (che gode del favore dell'88% dei cittadini), ma rimane elevata, tanto da superare ancora oggi quella relativa a molti presidenti del Consiglio del passato. Insomma — sorprendentemente per molti osservatori italiani e stranieri — il Cavaliere continua a mantenere il proprio legame col suo elettorato, anche se si accresce di intensità la disapprovazione nei suoi confronti tra i suoi oppositori. Senza che, tuttavia, il loro numero si sia sin qui ampliato più di tanto.
AdessoBarack Obama andrà in giro per il mondo con quel peso: che lo premia in anticipo, lo lega, lo segna. Il comitato di Oslo non premia un’azione, una carriera compiuta. Premia forze impalpabili eppure decisive come la parola, la speranza suscitata, l’attesa che somiglia a un’enorme sete, il valore attribuito da un leader all’imperio della legge e della Costituzione, più forte di ogni convenienza. Ricompensa uno stile, un essere nel mondo che non è in sintonia con il predominio americano e la sua dismisura, la sua hybris nazionale. Siamo abituati a pensare che la speranza sia poco più di uno scintillio ineffabile, essendo fatta di cose non avvenute, malferme.
Siamo abituati a pensare che la parola, diversamente dall’atto, sia fame di vento. Che ripensare la politica e le sue routine sia vano. Non è così. Abbiamo solo dimenticato che la parola è tutto nei testi sacri che fondano le civiltà, compresa la nostra. Per il Siracide, nella Bibbia, «meglio scivolare sul pavimento che con la lingua», e «un uomo senza grazia è pari a un discorso inopportuno».
Da ora Obama porta questo fardello. Deve ancor più dar senso alla parola, e in primo luogo tenerla. Lui stesso è parso colto da tremore, all’annuncio. Era serio davanti al microfono, come Buster Keaton che non ride mai. Faceva pensare a quei profeti o sentinelle turbati dall’appello, che ammutoliscono o «hanno un gran bue sulla lingua», come nella Bibbia o nell’Agamennone di Eschilo. Ha detto: «Onestamente non credo di meritarlo», intendendo che ancora non è divenuto quello che pure già è - una transformative figure. La notizia lo ha «sorpreso e reso umile», nel Nobel vede non una gratificazione ma una «chiamata all’azione». I premi mettono sempre spavento. Se non lo mettono, più che chiamare lusingano.
La parola che già oggi fa di Obama una figura trasformativa concerne questioni essenziali: la coscienza che la solitaria superpotenza americana è un’impotenza, se non cerca la cooperazione col mondo; l’ascolto dell’altro e la mano tesa giudicati indispensabili, purché a essi non si opponga il pugno che non s’apre. E ancora: inutile provare a fermare gli Stati aspiranti all’atomica, quando il nucleare è l’unico passaporto di potenza e quando i Grandi non cominciano da se stessi, riducendo i loro esorbitanti arsenali. Anche questo cambiamento ha risonanze bibliche. Dice ancora il Siracide: «Quando un empio maledice un avversario, maledice la propria psiche». Inferni e assi del male non sono fuori: vedere anche in se stessi il male che suscita caos è inizio di conversione e guarigione.
Obama non fa discorsi facili, è un comunicatore ma non un semplificatore: il suo discorso sulla razza, a Philadelphia il 18 marzo 2008, il discorso al Cairo del 4 giugno 2009 e quello del 17 maggio 2009 all’università cattolica di Notre Dame in Indiana, il discorso infine su clima, disarmo nucleare e multilateralismo, all’Onu il 23 settembre, non sono lisci, non hanno due colori, uno puro e uno impuro. Neppure la chiusura di Guantanamo è facile e ancor meno la rinuncia agli antimissili in Est Europa, che mette fine alla strategia del divide et impera nel Vecchio Continente e sicuramente urta il complesso militare-industriale Usa. Sono discorsi che educano alla complessità, e a vedere le cose da più punti di vista, non uno solo.
I cambiamenti decisivi esordiscono così: dalla parola e dallo sguardo su di sé. Non eravamo avvezzi a questo con i presidenti Bush, con Reagan e Clinton. Paziente, ostinato, Obama tenta di far capire che la potenza Usa non ha il destino manifesto che la mette sopra le altre e ne fa un’eccezione, «città sulla collina» come nel messianesimo politico teorizzato nell’800. Il punto da cui parte è il precipizio: il declino della supremazia Usa dopo la fine dell’Urss, in politica ed economia; il dominio non solo contestato ma inefficace. Come gli europei presero atto che la hybris nazionalista aveva prodotto mostri, e dopo il ’45 escogitarono l’Unione per recuperare in Europa le perdute sovranità nazionali, Obama scopre che sovrano è chi può far seguire l’azione alla parola, non opera da solo, calcola le conseguenze di quel che fa. A cominciare dalla guerre: quella finita in Iraq, e quella che stenta a finire in Afghanistan. Anche qui il Nobel è fardello. Difficile l’escalation chiesta dai militari, con un sacco sì ingombrante da trascinare.
Ma c’è anche qualcosa di conturbante nel Nobel, di ominoso. Il premio è come dato in grande fretta, come se non vi fosse molto tempo e occorresse lanciare un segnale subito. A circondare Obama infatti non ci sono solo attese, speranze. C’è, sempre più acuta, un’immensa fragilità, se non un pericolo che incombe. Thomas Friedman ha scritto un articolo impaurente, il 29 settembre sul New York Times. Racconta di un clima in America che non tollera l’intruso, che trama tribali ordalie: che ricorda, tenebroso, l’atmosfera in Israele prima dell’omicidio di Yitzhak Rabin. Rabin aveva preso il Nobel con Arafat e Peres, nel ’94. L’anno successivo, il 4 novembre, il colono estremista Ygal Amir l’uccise ma alle sue spalle c’era un’opposizione che lo demonizzava da tempo, Netanyahu in testa con il Likud e molti rabbini.
Lo stesso sta avvenendo in America. Nei manifesti ostili e in numerosi discorsi dell’opposizione e di giornalisti astiosi, Obama appare come un alieno comunista, ma secondo l’analista Philip Kennicott è altra la colpa che gli viene imputata: non il socialismo ma il suo essere afro-americano, meticcio, dunque antiamericano (Washington Post 6-8-09). Su Facebook è apparso un sondaggio che chiede se Obama debba o no essere ucciso. Con risposte a scelta tra «sì-no-forse» e «sì, se taglia la sanità».
Tutto questo il Presidente nero non l’ignora. Sappiamo che l’ha messo in conto fin dalla candidatura. Ciononostante insiste: nel voler trasformare il proprio paese, nel dire che da una specie di conversione urge ricominciare. Per questo la parola è tanto importante: perché disturba, scavando. Chi a Oslo ricompensa questa cocciutaggine sembra anche tremare per la sua vita. Chi dice che il premio giunge troppo presto non sa quel che dice e che accade, è cieco alla campagna di odio disseminata negli Stati Uniti.
Obama impersona l’America complicata, che diffida di sé. Non la nazione di Bush che si compiace nel parlar perentorio e approssimativo, ma l’America della grande contorta letteratura, della musica, del cinema, che ragiona sottile e resuscita le parole di John Quincy Adams, il segretario di Stato che nel 1821 dice: «L’America non si avventura nel mondo in cerca di mostri da abbattere. Essa auspica la libertà, l’indipendenza di tutti. È campionessa solo della propria libertà, indipendenza. Si batte per grandi cause con la compostezza della sua parola e la benigna simpatia del suo esempio. (...) Potrebbe divenire dittatore del mondo: non sarebbe più padrona del proprio spirito».
Obama dice spesso che la sua ascesa è frutto di americani come Reinhold Niebuhr, un autore che stima per aver raccomandato al paese non il messianesimo politico ma l’umile consapevolezza dei propri limiti. Solo una cultura di questo genere poteva permeare le svolte del Presidente. Solo in un’America simile, la discendente di un’adolescente schiava nera stuprata da un padrone bianco poteva divenire first lady degli Stati Uniti.
I gesti e la parole possono molto. Creano storie e cammini nuovi. Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 cade d’un tratto in ginocchio di fronte al memoriale del ghetto distrutto di Varsavia non aveva ancora riconosciuto la linea Oder-Neisse tra Germania e Polonia. Quel gesto cambiò tutto, prima che lo scabro itinerario cominciasse. Così Obama a Philadelphia, al Cairo, a Notre Dame, all'Onu.
Aumenti volumetrici del 10%, rinnovabili, demolizioni e ricostruzioni nel regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri
09/10/2009 -Procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità sui beni immobili vincolati. La proposta di regolamento, approvata in via preliminare nel Consiglio dei Ministri di oggi, potrebbe modificare l’articolo 146 del Decreto Legislativo 42/2004, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
Obiettivi: L’iniziativa giunge dopo il fallimento del decreto legge governativo sul Piano Casa, mai approvato a causa dei contrasti con gli enti locali.
Pur non apportando le liberalizzazioni previste dal piano per il rilancio delle costruzioni attraverso l’aumento delle cubature e gli interventi di edilizia libera, vengono proposte diverse semplificazioni e tipologie di intervento. Data la vastità dei territori assoggettati a vincolo paesaggistico, è stato infatti rilevato come ogni anno le migliaia di istanze presentate riguardino interventi di lieve entità, che costituiscono il 75% delle domande totali di autorizzazione paesaggistica. La conseguenza è la congestione degli uffici degli enti locali, e delle soprintendenze, che hanno funzioni di codecisione nel procedimento autorizzatorio.
Riduzione dei tempi: Il regolamento si propone un generale snellimento delle procedure. I tempi per il rilascio dell’autorizzazione potrebbero ridursi da 105 a 60 giorni. E' previsto infatti lo screening immediato delle istanze per decidere se l'intervento possa essere sottoposto a procedura ordinaria o semplificata. Al momento la verifica da parte dell’ente locale impegna 40 giorni, il parere della Soprintendenza ne impiega 45, mentre sono necessari 20 giorni per l’emanazione del provvedimento definitivo.
Con la nuova norma, invece, l’ente locale dovrebbe pronunciarsi entro 30 giorni. Il procedimento si bloccherebbe poi automaticamente nel caso di un suo parere negativo. La Soprintendenza potrebbe esprimersi in 25 giorni. Nettamente ridotta inoltre la predisposizione del provvedimento finale, con un tempo che passerebbe a 5 giorni.
Snellimento burocratico: Necessari meno documenti, che potrebbero anche essere presentati per via telematica, con un notevole alleggerimento degli oneri a carico dei privati. Le pratiche allo sportello potrebbero invece restare per le imprese industriali e artigiane. Le istanze dovrebbero essere corredate solo da una relazione paesaggistica semplificata, redatta dal professionista sulla base di una scheda-tipo, contenente l'attestazione di conformità dell'intervento alla disciplina del paesaggio e alla vigente normativa urbanistica.
Interventi ammessi: Tra gli interventi di lieve entità rientrano l’installazione di antenne paraboliche, pannelli solari e fotovoltaici, oltre che l’adeguamento alle misure antisismiche.
Possibili anche gli incrementi volumetrici fino al 10% e non oltre i 100 metri cubi, le demolizioni e ricostruzioni nel rispetto della sagoma e della volumetria precedente, gli interventi su porte, finestre e coperture, l’eliminazione delle barriere architettoniche, la realizzazione o modifica di autorimesse pertinenziali, tettoie, pensiline e gazebo.
Nelle disposizioni rientrano anche i lavori pubblici di piccola entità, come arredi urbani, adeguamento della viabilità e allacci alla rete elettrica e telefonica su pali di altezza non superiore ai 6 metri.
Se approvato in via definitiva, il regolamento potrebbe superare le previsioni delle leggi regionali per il rilancio dell'edilizia, che già prevedono aumenti delle cubature e procedimenti più o meno aggravati per il rilascio delle autorizzazioni nelle aree sottop
Massimo Giannini La notte della Repubblica
Sappiamo bene che la notte della Repubblica berlusconiana è appena agli inizi. E sappiamo altrettanto bene che, con il Cavaliere, a scommettere sul peggio non si sbaglia mai. Ma vorremmo rassicurare il presidente del Consiglio: non c’è bisogno di aspettare il prossimo strappo costituzionale, o la prossima intemperanza verbale, per vedere «di che pasta è fatto», come minaccia lui stesso. L’avevamo capito da un pezzo.
Abbiamo avuto una prima conferma due sere fa, subito dopo la sentenza che ha bocciato il Lodo Alfano, con le accuse infamanti contro Giorgio Napolitano. Poi una seconda conferma ieri sera, con il farneticante documento del Pdl che rilancia le accuse incongruenti contro la Consulta. A lasciare basiti non è solo la violenza politicamente distruttiva degli attacchi contro tutti gli organi di garanzia: presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, giudici ordinari. Ma è anche e soprattutto la valenza tecnicamente "eversiva" del ragionamento con il quale il premier (purtroppo sempre insieme ai docili maggiorenti del suo partito) sta delegittimando, in un colpo solo, le tre più alte magistrature della Repubblica. Di fronte a tanta irresponsabilità, conforta il comunicato col quale i presidenti di Camera e Senato hanno fatto quadrato intorno al Quirinale. Ma questo atto dovuto (voluto fermamente da Fini e a quanto si racconta subito passivamente da Schifani) non basta a ridimensionare la portata di uno scontro istituzionale inaudito e pericoloso.
Le parole che Berlusconi ha pronunciato l’altro ieri, prima in strada poi in diretta televisiva, andranno studiate a fondo. Servono a comprendere la vera essenza del moderno populismo plebiscitario che, in nome di un suffragio universale trasformato in ordalia personale, snatura lo Stato di diritto perché uccide, allo stesso tempo, sia lo Stato che il diritto. La prima affermazione del Cavaliere è la solita invettiva anti-comunista. «Napolitano, voi sapete da che parte sta... Poi abbiamo giudici della Corte costituzionale eletti da tre Capi di Stato della sinistra che fanno della Corte non un organo di garanzia ma un organo politico». Ma quando, poco più tardi, il presidente della Repubblica replica che lui «sta dalla parte della Costituzione», scatta l’escalation del premier: «Non mi interessa quello che dice Napolitano. Io mi sento preso in giro e non mi interessa, chiuso».
Quel «preso in giro» non può passare inascoltato. Infatti più tardi (nel confortevole salotto di Porta a Porta, dove il beato cerimoniere Bruno Vespa non si degna neanche di difendere Rosy Bindi dagli insulti da trivio del premier e di un inqualificabile Castelli) il Cavaliere rincara la dose dei veleni. «Su Napolitano ho detto quello che penso: non ho nulla da modificare sulle mie dichiarazioni che potrebbero essere anche più esplicite e più dirette». Un’allusione tanto vaga quanto pesante. E poi: «Il presidente della Repubblica aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta, posta la sua nota influenza sui giudici di sinistra della Corte». Vespa, ossequioso, tace. Parla il leader dell’Udc Casini, per fortuna: «È un’accusa inaccettabile nei riguardi di Napolitano». Ma il premier non arretra. Anzi, porta il colpo finale: «Non accuso il capo dello Stato, prendo atto di una situazione in cui c’erano certi suoi comportamenti e sappiamo tutti quali relazioni intercorrano tra i capi dello Stato e i membri della Consulta. Sono da anni in politica, so quali siano i rapporti che intercorrono».
Con questa micidiale miscela di allusioni e intimidazioni (indegnamente condita dalla ridicola accusa del Pdl alla Consulta per aver «sviato l’azione legislativa del Parlamento») si celebra la negazione della democrazia liberale. Non si scherza sulla pelle delle istituzioni repubblicane. Se Berlusconi è a conoscenza di trattative politiche avvenute sottobanco tra i palazzi del potere intorno al Lodo Alfano, ha il dovere di denunciarle con chiarezza, raccontando fatti e facendo nomi e cognomi davanti al Parlamento e al Paese. Ma poiché, con tutta evidenza, non ha in mano nulla se non il suo disperato furore ideologico, allora ha il dovere di tacere, e soprattutto di chiedere scusa. Ma non lo farà. Le sue parole dissennate tradiscono la sua visione "originale" e del tutto illiberale del costituzionalismo democratico.
Nello schema del Cavaliere, Napolitano (o perché aveva promulgato a suo tempo lo scudo salva-processi per il premier o perché gli aveva «promesso» riservatamente non si sa cosa) avrebbe dovuto fare ciò che la Costituzione gli vieta: interferire nella decisione dei giudici della Consulta, convincendoli a dare via libera al Lodo Alfano. Avrebbe dovuto, lui sì, chiedere ai giudici una «sentenza politica», che violasse apertamente la legge con l’unico obiettivo di proteggere il «sereno svolgimento» della legislatura. In questa logica, aberrante, non esiste la «leale collaborazione» tra istituzioni, ma il banale "collaborazionismo" tra complici. Non esistono il "nomos", le regole, la divisione dei poteri e il "check and balance". Esistono l’anomia, l’arbitrio, la potestà illimitata del leader consacrato per sempre dall’investitura popolare. Non esistono organi di garanzia sovrani e indipendenti, che decidono autonomamente, ciascuno nel proprio ambito e secondo i principi sanciti dalla Carta fondamentale. Esistono solo semplici emanazioni del potere esecutivo, che condiziona le altre istituzioni e comanda, in un meccanismo di pura cinghia di trasmissione, il legislativo e il giudiziario.
Quali altre estreme forzature del quadro politico-istituzionale dobbiamo attenderci, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi? Quale piano inclinato sta prendendo, questa anomala democrazia italiana dove l’"autoritas" del Principe rivendica il primato indiscusso sulla "potestas" delle istituzioni? Già si evocano nuove riforme della giustizia da usare come una clava contro i magistrati, e magari come ennesimo trucco "ad personam" per fermare qualche processo. Viene in mente Ehud Olmert che, sospettato per corruzione, si dimette dicendo: «Sono orgoglioso di aver guidato un Paese in cui anche un primo ministro può essere indagato come un semplice cittadino». Ma l’Italia non è Israele. Il coraggio dei giudici della Consulta, la tenuta del presidente della Repubblica, la tenacia del presidente della Camera, rappresentano una speranza. Ma non nascondiamocelo: il Potere, quando non vuole riconoscere che la democrazia è limite, fa anche un po’ paura.
Disastro Italia
Tommaso Cerno
Fango e morte potevano colpire dovunque. Le case di Giampilieri sono le case di tutta Italia, così come le vittime dell'alluvione di Messina. Non solo in Sicilia poco o nulla è stato fatto per prevenire la seconda, tragica frana in meno di due anni. Ora sappiamo che quel disastro potrebbe ripetersi. In ogni momento, in ogni angolo del Paese. Lo sussurrano dalla Calabria all'Umbria, dalla Toscana al Piemonte, molti sindaci che ormai quando piove non dormono nemmeno più. E lo conferma l'ultimo rapporto nazionale sul rischio frane e alluvioni, redatto dalla Protezione civile e da Legambiente nello scorso novembre. È tutto scritto in ottanta pagine che non lasciano dubbi: "Sono ben 5.581 i centri abitati a rischio idrogeologico", denuncia il dossier. Significa che il dramma di Messina poteva capitare nel 70 per cento dei Comuni, in montagna o in pianura, nelle metropoli o nei piccoli paesi sparsi sulla pedemontana. Non è finita qui: "Spesso le opere di messa in sicurezza si trasformano in alibi per continuare a costruire". Ovvero molti cantieri, spacciati dalle amministrazioni locali per "manutenzione dei bacini", coprono le speculazioni edilizie lungo fiumi e torrenti. Proprio nella "zona rossa", quella a più alto rischio di calamità naturali.
E così le immagini della Sicilia fanno ancora più rabbia. Perché stavolta la distesa indistinta di fango, l'acqua nera che porta via tutto, le urla dei superstiti che chiedono aiuto nel buio della notte, i cadaveri allineati a terra e avvolti da coperte e teli di plastica, si potevano davvero mettere in conto. L'ha detto anche Silvio Berlusconi agli sfollati, in mezzo a tronchi, cemento, mattoni e carcasse di auto: "Avevamo previsto il disastro". Quello che il premier non ha spiegato, invece, è quanto fosse facile quella previsione. L'indagine 'Ecosistema rischio' era stata presentata dal capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, meno di un anno fa. Eccola. Contiene la classifica dei Comuni a rischio inondazione, l'elenco dei pericoli per gli abitanti, il conteggio ufficiale dei ritardi imputabili a governatori e sindaci. Si legge che la Sicilia è ultima nella graduatoria della prevenzione, con l'8 per cento di interventi adatti a mitigare l'allarme idrogeologico. Sembra un presagio del disastro che ha spazzato la costa orientale, dove i turisti di solito si godevano i Giardini Naxos. In quel dossier c'è Giampilieri e c'è quel che resta di Scaletta Zanclea. Ma c'è anche molto altro: "Dei quasi 1.500 Comuni monitorati, il 77 per cento mostra abitazioni minacciate da frane e alluvioni, quasi il 30 per cento ha interi quartieri esposti e oltre la metà vede sorgere in zone non idonee fabbricati industriali", spiega il rapporto.
Un allarme nazionale che, ancora una volta, è rimasto inascoltato. La Corte dei conti lo conferma in una relazione del 6 aprile scorso, dove parla di "anomala lentezza" ed evidenzia un "mancato o tardivo avvio degli interventi pur in presenza di specifici finanziamenti". Carenze e degrado non della sola Sicilia, ma diffusi in tutto il Paese. Gli amministratori si difendono agitando le richieste di "stato di calamità naturale" dopo le continue frane degli ultimi 15 anni. Che responsabilità hanno loro? Eppure un colpevole sembra esserci. È il cemento selvaggio, che ha l'effetto di una bomba inesplosa. Speculazioni, che il nuovo piano casa del governo Berlusconi farà proliferare, anziché ridurre. Gli scempi vanno da Nord a Sud. Interi quartieri pagati con i fondi anti-alluvione risultano edificati in aree ad alta pericolosità. In Liguria come in Calabria sono spuntati edifici dove non si sarebbe dovuto gettare nemmeno un metro cubo di cemento. Non sono casi isolati: "Il 73 per cento dei Comuni ha realizzato opere di messa in sicurezza di corsi d'acqua e dei versanti, che però rischiano di accrescere la fragilità del territorio piuttosto che migliorarne la condizione", osservano i tecnici. Il resto lo fa il maltempo, come un detonatore. I temporali autunnali, improvvisi, sono ormai forti come uragani. È capitato lungo i sette chilometri di litorale fra Messina e Catania, così come era già successo altre volte nelle vallate alpine e nelle città d'arte. Piovono anche 200 millimetri l'ora, quando in un anno il totale dovrebbe essere di 800. E quell'acqua si accumula come dietro una diga: il terreno non assorbe più, gli alberi non la trattengono e lei, viscida e scura, trascina via tutto ciò che incontra, come a Giampilieri.
E come potrebbe capitare altrove: "Un Comune su quattro non fa praticamente nulla per prevenire i danni da alluvione, nel 42 per cento dei casi non viene svolta nemmeno la manutenzione ordinaria dei corsi d'acqua", dice il rapporto. Solo cinque sindaci su cento hanno ordinato di spostare le case: praticamente nessuno. Genova, Casale Monferrato, Napoli, Palermo, Carnia o Valtellina... È un viaggio nell'Italia delle quotidiane leggerezze burocratiche e delle colpevoli omissioni. Storie di ordinaria follia edilizia. C'è il supermercato sul fiume Pescara, il centro commerciale Megalò a Chieti Scalo (costruito su un'area definita "altamente pericolosa" dalla stessa Regione che aveva concesso l'autorizzazione solo cinque mesi prima). Ma c'è anche Crotone: dopo che nel 1996 il fiume Esadro allagò la cittadina e fece sei morti, si ricostruì sulle macerie. Più di prima. Quattro anni dopo, il fango travolse un campeggio nell'alveo del fiume Beltrame a Soverato. Altre 13 vittime. Chiunque avrebbe deciso di spostare quei centri da un'altra parte, "delocalizzarli", come da giorni va ripetendo Bertolaso. E invece no: trionfano cemento, centri direzionali, mega-market, bar, casermoni, negozi e parcheggi multipiano. "Pur sapendo che i fiumi tornano a colpire nello stesso luogo anche più volte negli anni", avvertono gli esperti. E che la paura dell'alluvione non sparirà dalla memoria dei superstiti, pronta a riemergere quando non te l'aspetti.
Legambiente lo aveva denunciato già 16 mesi fa, nel rapporto choc 'E se piovesse come allora?', a dieci anni esatti dalla tragedia di Sarno, il 5 maggio 1998, quando la montagna travolse interi paesi, seppellendo 160 persone sotto il fango. Eppure in Italia nemmeno questo basta. Si costruisce ancora senza regole, segnala la Corte dei conti. "Emergono non poche perplessità", scrivono i magistrati contabili riferendosi ai lavori di sistemazione di alvei e versanti mai appaltati dal lontano 2002. "Risulta ovvio chiedersi come possano essere considerati urgenti interventi che, a distanza di anni, non sono stati nemmeno avviati". Senza parlare di quelli ancora in fase di progettazione e di quelli abusivi. Addirittura nella stessa Sarno, pochi giorni dopo la frana si scavavano le fondamenta di una casa non autorizzata. Un'altra era già in costruzione nel luogo dove c'era stata la prima vittima, un bambino. E l'elenco è lungo, come quello dei morti che produce. Al Vallone di Santa Lucia, anche questo considerato ad alto rischio esondazioni, sono spuntate palazzine irregolari, una addirittura sulla sorgente già utilizzata in passato dalle ecomafie come deposito di rifiuti.
È una cronistoria di illeciti che torna tragicamente di attualità. Sia nelle tre regioni italiane dove il 100 per cento dei comuni è classificato "a rischio" (Calabria, Umbria e Valle d'Aosta). Sia in quelle dove l'allarme riguarda l'80 o il 90 per cento dei centri abitati. Solo in quattro (Trentino Alto Adige, Veneto, Puglia e Sardegna), infatti, almeno la metà degli edifici non corre pericoli. Equivale a dire che in Italia dovrebbero essere svuotati da abitazioni, insediamenti produttivi, attività agricole circa 30 mila chilometri quadrati, se si vorranno scongiurare altre Messina. È un'area vasta quanto Lombardia e Liguria insieme, e sempre più in emergenza man mano che aumenta l'intensità delle piogge (cresciuta del 5 per cento nell'ultimo secolo). Dal disastro di Sarno ad oggi, i morti sono stati oltre trecento e i danni causati dall'acqua ammontano a una decina di miliardi di euro. Eppure secondo i calcoli del ministero dell'Ambiente di soldi ne servirebbero molti di più. Per mettere in sicurezza l'intero territorio ci vorrebbero 43 miliardi, di cui 27 diretti al Nord e al Centro, 13 al Sud e tre sulle coste. Fondi che a bilancio non ci sono e che, anche quando c'erano, non venivano spesi bene. "Sono 787 le amministrazioni che risultano svolgere un lavoro di prevenzione del rischio idrogeologico negativo". Equivale a due terzi dei comuni monitorati. I virtuosi? "Solo quattro in tutta Italia raggiungono la classe di merito ottimo", spiegano alla Protezione civile. Con casi che hanno dell'incredibile. A Genova il torrente Bisagno è coperto nel tratto finale, e sopra ci passa viale Brigate Partigiane. È da lì che le acque invasero la città durante l'alluvione del 1970, la 'Dolcenera' che uccise 44 persone. Bene, il Comune sta spendendo 170 milioni per aumentare la portata di quelle condotte sotterranee, "eppure a monte, dove il torrente non ha spazio per defluire, si continua a edificare". A La Spezia, a pochi chilometri dalla foce del Magra, il rapporto punta l'indice contro l'Anas, che progetta uno svincolo stradale. E gli esempi sono centinaia.
Anche il Tevere resta in emergenza dall'alluvione del dicembre 2005 che, oltre all'Umbria, aveva messo in allarme Roma e Fiumicino. Si è arrivati al 2008, quando la piena di dicembre mobilitò i soccorsi nella capitale. Così, a gennaio sono partiti il piano di pulizia, il censimento delle strutture galleggianti e il nuovo rilievo dei fondali. Che non sono ancora terminati. In Valle d'Aosta, invece, sono stati investiti 500 milioni in opere di canalizzazione, anche qui fra le polemiche, come nel caso del torrente Comboè. A pochi mesi dalla sistemazione delle sponde, "i vigili urbani furono costretti a chiudere due strade dopo una forte pioggia durata una sola notte".
E avanti così. Dei venti capoluoghi italiani, diciassette sono considerati a rischio idrogeologico dal ministero e dell'Unione delle Province, già dal 2003. Tutti tranne Venezia, Trieste e Bari. Una sola cosa sembra funzionare bene: i soccorsi. La Protezione civile ha sedi e mezzi capaci di arrivare dappertutto. Otto sindaci su dieci hanno varato un piano per le emergenze. Peccato che, quando i volontari si mettono al lavoro, ci siano già morti da seppellire e sfollati da sistemare nelle tende o negli alberghi. Come a Messina. E chissà ancora dove.
Cemento boomerang
Marco Guazzetti
In Sicilia fondi irrisori per la difesa. E spesi spesso per barriere pericolose. Come la muraglia che minaccia un paese ma protegge l'azienda del sindaco
Lo scaricabarile corre più veloce dell'onda di fango che ha cancellato i palazzi del messinese, uccidendo almeno venticinque persone e facendone scomparire altre dieci sotto montagne di detriti. Prima ancora che il problema dei fondi, dei miliardi necessari per risanare regioni ferite dal disboscamento e dalle colate di cemento, viene la questione delle competenze. Prima ancora di individuare le zone a rischio, in Italia bisogna scoprire chi se ne deve occupare. E nel rispetto di quali regole. La pianificazione, il controllo e la tutela sono affidati a Stato, Regioni e Comuni, Genio e Protezione civile. E fanno tutti a gara l'uno contro l'altro. Oggetto del contendere i Pai, i piani per l'assetto idrogeologico. Tocca ai Comuni scriverli. Ma non ci sono i quattrini per realizzarli. Dichiarazioni del premier Berlusconi a parte (per l'emergenza Sicilia ha promesso una "somma analoga" a quanto dato all'Abruzzo), l'unica riserva finanziaria per cercare di puntellare la penisola potrebbe venire l'Unione Europea. In Sicilia gli unici interventi concreti sono stati resi possibili proprio dai fondi della programmazione comunitaria. Con la prima tranche (2000-2006) è stato finanziato un piano di assetto idrogeologico che conta su 107 bacini. Per ognuno c'è un accurato piano di stralcio, indicando criticità e stima dei fondi necessari. Sono quasi tutti pronti. Da due anni, però, il vuoto. Non ne vengono preparati quasi più: quelli approvati dalla giunta regionale si contano sulle dita di una mano. La leva finanziaria è comunque partita. In questi anni in Sicilia sono stati investiti quasi 180 milioni di euro, garantendo una copertura pari al 72 per cento del territorio regionale. Una somma di pari importo, in arrivo sempre da Bruxelles, verrà spesa da qui al 2013. Fa parte di un maxi finanziamento per la difesa del territorio: 801 milioni di euro. I soldi andranno spalmati nei prossimi quattro anni. Basteranno? No, sono solo un'aspirina per la Sicilia, regione dove, proprio grazie al lavoro della task force del Pai (54 tra geologi e ingegneri, tutti precari, che vedono il loro contratto rinnovarsi di triennio in trienno), sono state censite 21.249 zone di dissesti.
Che il meccanismo non funzioni correttamente emerge a chiare lettere proprio dai piani. Impossibile finanziare tutti i Comuni. Soltanto per il torrente Timeto servirebbero 23 milioni di euro. Non sempre, poi, le richieste sono chiare. Nel compilare le tabelle del fabbisogno finanziario, i tecnici regionali annotano come gli elaborati di molti Comuni si distinguano per "poca attendibilità nella qualificazione contenuta della scheda".
Leggere i piani dopo la catastrofe provoca grande amarezze. Perché quelle schede testimoniano un disastro annunciato. Tra le carte del Pai siciliano è impossibile rintracciare Giampilieri (vedi box a pag. 47). Eppure, dopo l'allarme per la frana di due anni fa, il Genio civile di Messina ha proposto un progetto da 11 milioni di euro ma con ordinanza commissariale ne sono stati stanziati appena tre. La spesa s'è fermata a soli 45 mila euro: è stata realizzata come unica barriera di protezione una rete metallica di contenimento e un corridoio di mattoni. Una rete e un muretto per cercare di frenare un'intera montagna, che infatti l'ha spazzata via. I rischi di Scaletta Zanclea, invece, sono cristallizzati nel piano regionale numero 102. Risale al 2006. Trenta le aree di rischio individuate nel comune, quattro le indicazioni R4, massimo grado di rischio per dissesto idrogeologico. Proprio in quel documento, che descrive l'area compresa tra il bacino del torrente Fiumedinisi e Capo Peloro, sono raccolte le immagini di Scaletta prima dell'Apocalisse. Vengono fissate delle precise richieste del Comune, proprio per rendere sicuri quei borghi ora sepolti dal fango: si chiedono 12, 8 milioni di euro. Ma viene ammessa una spesa di poco più di un milione. "Alle parole devono seguire fatti. I piani non bastano", spiega con amarezza Anna Giordano, responsabile del Wwf, "e mi chiedo quale credibilità abbia oggi che si scaglia contro il partito del cemento ma prima ha chiuso gli occhi. Qui sono capaci di realizzare un aeroporto sul letto di una fiumara".
Sono molti tra gli ambientalisti a temere che i Pai divengano armi improprie per ferire ancor di più montagne e fiumi. Il Wwf lancia il suo j'accuse proprio da Fiumedinisi, in provincia di Messina. Lì il primo cittadino è Cateno De Luca, deputato regionale del Movimento per l'Autonomia, partito del presidente Lombardo. Le associazioni hanno inviato alla Procura di Messina un esposto corredato da un dossier fotografico: spiegano che i fondi per il rischio idrogeologico sarebbero stati utilizzati per realizzare una muraglia di cemento armato.
Una barriera di 700 metri di lunghezza per 10 di altezza, definita inutile per bonificare il territorio. All'inizio anche la Regione aveva stoppato il progetto, ipotizzando violazioni allo schema originale. Ora il muro è quasi completo: sorregge una zona destinata alla creazione di ville residenziali e soprattutto protegge un centro benessere in fase di costruzione. Di chi è quel centro benessere? Appartiene alla Dioniso srl e sarà realizzato grazie a un contratto di quartiere siglato nel 2006 con la Regione. Fino a un anno e mezzo fa proprio Cateno De Luca deteneva il 70 per cento delle quote di Dioniso. E ora il sindaco e deputato regionale difende a spada tratta le scelte sulla prevenzione: per sbloccare il progetto, ha spiegato che l'argine serve a difendere il paese dalle esondazioni. Aspettando la prossima piena, tutti sanno che non è così. Il muro è stato costruito sulla sponda opposta al centro abitato. Prevedono che l'acqua rimbalzerà dritta verso le case. Per tutti sarà un disastro ancora più grave, soltanto i soci della Dioniso resteranno all'asciutto e potranno godersela in tutta bellezza.
Scandalo a Roma a margine dei Mondiali della scorsa estate: violate norme urbanistiche e paesaggistiche. Tra gli indagati anche Giovanni Malagò
ROMA, 8 ottobre 2009 - Era nell’aria: il pm della Procura della Repubblica di Roma, Sergio Colaiocco, aveva nel cassetto da tempo il decreto di sequestro per undici impianti sportivi della capitale. Ieri il Gip Donatella Pavone ha dato il via libera alle richieste della Procura e questa mattina sono stati posti i sigilli da parte della polizia municipale a strutture abusive, ancora in fase di edificazione, nei circoli Roma 70, Polisportiva Parioli tiro a volo, Roma team sport, Polisportiva Città futura. Sigilli, inoltre, anche alle strutture già ultimate nei circoli Acqua Aniene, Cristo Re, Axa Immobil sport, Real sport village, Associazione Agepi, Villa Flaminia, Sport 2000. Erano già stati sottoposti a sequestro gli impianti del Salaria Sport Village, Tevere Remo, Gav New city, Flaminio sporting club. Il gip nelle ordinanze di sequestro ipotizza, a vario titolo, la violazione delle norme urbanistiche, paesaggistiche, per le opere realizzate senza l'intesa con il Comune di Roma che non ha riscosso oneri concessori per circa cinque milioni di euro.
le indagini — Nel mesi scorsi era stato iscritto nel registro degli indagati il Commissario dei Mondiali Claudio Rinaldi. Gli indagati sono ora una trentina: oltre a Rinaldi sono sotto inchiesta i presidenti e responsabili legali dei circoli oggetto oggi di sequestro e tra questi anche il presidente del circolo Aniene e presidente anche del comitato organizzatore dei Mondiali di nuoto, Giovanni Malagò. Quelli posti sotto sequestro sono tutti impianti realizzati con la finalità, in alcuni casi non rispettata, di essere utilizzati per la rassegna iridata. La procura sta indagando, oltre sulle presunte violazioni edilizie contestate oggi, anche su presunti abusi commessi all'epoca della gestione dall'ex Commissario di "Roma 2009", Angelo Balducci, attualmente presidente del Consiglio superiore del lavori pubblici per quanto riguarda la vicenda del "Salaria Sport Village" di Settebagni in cui sono state realizzate, e sequestrate, opere di ampliamento per 160 mila metri cubi con piscine e foresterie.Anche il suo successore Claudio Rinaldi era stato iscritto nei mesi scorsi nel registro degli indagati.
Tempo qualche giorno e rimuoveremo dalla nostra memoria i morti di Messina, così come abbiamo fatto per quelli dell’alluvione di Capoterra e di tutte le calamità cosiddette naturali ma che, in realtà, sono derivanti dall’opera devastatrice del genere umano e che hanno attraversato l’Italia degli ultimi 50 anni.
Il sottosegretario Bertolaso dice che sono necessari un grande piano nazionale di risanamento e almeno 25 miliardi di euro per le zone a rischio. Buon senso vorrebbe che i nostri governanti, quelli locali e quelli nazionali, dicessero STOP ai provvedimenti di ripresa edilizia, camuffati da piani casa; STOP alle opere faraoniche quali il Ponte di Messina, per investire invece gli stessi denari nel risanamento delle infrastrutture della Sicilia e della Calabria, magari facendo attenzione alle pericolose intrusioni della criminalità organizzata; STOP alle centrali nucleari perché in una nazione così dissestata, con un malaffare diffuso e con uno scarsissimo senso di responsabilità individuale e collettivo, anche un minimo errore nello stoccaggio delle scorie sarebbe causa di tragedie inimmaginabili.
Ma i nostri governanti faranno e diranno di tutto, tranne applicare quel buon senso prima richiamato. Anzi, sono iniziati i consueti balletti di dichiarazioni tra gli amministratori locali e la protezione civile su chi siano i responsabili. Accade oggi per Messina, è accaduto ieri per Capoterra. Il risultato si conosce già: nessuno si assumerà neanche la più piccola responsabilità, né come singolo cittadino né, tantomeno, come amministratore. Berlusconi, dal canto suo, infonderà un’illusoria speranza che si farà come in Abruzzo, quando gli abruzzesi ben sanno che per risanare la loro terra ci vorrà tempo e volontà di fare piani rigorosissimi.
E le popolazioni coinvolte che cosa fanno, a parte il gridare che “sono state lasciate sole”? Perché non chiedono ai governanti di cambiare la direzione della loro politica e di rimettere in ordine il territorio? Perché non chiedono di interrompere la commistione tra politica e rendita immobiliare che ha avvelenato il Paese in termini sociali oltre che in termini ambientali?
Se non in limitati casi, non lo chiedono perché ognuno spera di mettersi d’accordo con l’amministratore di turno sui metri cubi da costruire, non oggi se costui non ne ha le possibilità ma magari un domani. In Italia è diventato un fatto “normale” considerare il suolo un vuoto da riempire di cemento perché, così inteso, è diventato una concreta possibilità di trarre profitti e di scaricare i rischi sul pubblico. Se ciò è praticato su grande scala dalle imprese, su micro scala è una logica acquisita dai singoli, proprietari o no che siano. Ovvero, si sono saldati gli interessi di pochi con l’universo variegato di piccoli e potenziali proprietari, costituendo un vero e proprio blocco sociale.
Per costoro è evidente che una politica territoriale fatta di regole ferree e inderogabili è considerata un ostacolo da abbattere quanto prima: sta accadendo per il Piano Paesaggistico istituito dall’amministrazione Soru che di fatto viene smantellato, grazie ai recenti provvedimenti di ripresa edilizia, senza prendersi peraltro il disturbo di predisporne un altro.
Eppure, le tragedie devono pur servire a qualcosa. Che almeno aiutino a riflettere sugli scempi ai paesaggi urbani e naturali di questi ultimi decenni. Scempi che non sono mai serviti a risolvere i problemi di chi non ha una casa, mentre sono stati utili alle pratiche speculative di ogni tipo. Se vogliamo che la tragedia di Messina sia l’ultima, si faccia almeno in modo che si frantumi la sciagurata idea che il territorio sia un vuoto da riempire perché ogni tragedia ci ha finora detto che è giunto il momento di soffermare lo sguardo sulle penose condizioni del nostro Paese.
E se la politica non lo capisce, che venga mandata a casa senza tanti complimenti, l’Italia è ricca di giovani sensibili e preparati.
È arrivata la decisione che s’intravedeva già prima della discussione e della camera di consiglio. Nelle ultime settimane i giudici costituzionali avevano studiato e cominciato ad affrontare tra loro il nodo del Lodo Alfano, sciogliendolo (a maggioranza) con l’idea di rispedire al mittente una legge illegittima.
L’altro ieri hanno ascoltato gli avvocati, tutti schierati a difesa della norma blocca- processi per le più alte cariche dello Stato, ma senza cambiare idea. Anzi. Qualche accenno nelle arringhe ha convinto almeno un paio di indecisi a dire che proprio no, un Lodo così fatto e così scritto non andava bene.
Qualcuno nella minoranza di chi voleva salvare la norma, almeno nella parte che sospendeva il processo milanese a carico di Silvio Berlusconi per la presunta corruzione dell’avvocato Mills, ha provato a proporre le cosiddette «soluzioni intermedie»: sancire l’incostituzionalità ma sanandola con una sentenza che lasciasse intatta la parte che più interessava il governo e la maggioranza che lo sostiene. Non ce l’ha fatta, e nemmeno ha insistito più di tanto. Ha capito in fretta, dopo la decisa introduzione del relatore Gallo, che le sue argomentazioni erano troppo deboli rispetto al «macigno» già individuato dalla maggioranza dei giudici: una legge illegittima due volte, nella forma e nella sostanza. Perché doveva essere costituzionale e non ordinaria; e perché il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge è uno di quei capisaldi che per essere intaccato ha bisogno di tali giustificazioni, filtri e controfiltri (com’era ad esempio la vecchia immunità parlamentare abrogata nel ’93) che forse il Lodo Alfano non sarebbe andato bene nemmeno nella veste di una riforma della Costituzione. Ovviamente bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, ma ieri sera era questa la più accreditata interpretazione della decisione della Corte. Le voci che filtrano dalla riservatezza che avvolge il palazzo della Consulta parlano di una votazione finita 9 a 6 in favore della bocciatura, ma qualcuno ipotizza un scarto addirittura maggiore, 10 a 5 o anche di più. Circolano liste di nomi coi voti espressi, verosimili ma senza certezze. Nell’elenco di chi avrebbe voluto mantenere in vita la legge ci sono i tre giudici votati dal Parlamento e indicati dal centrodestra (Frigo, Mazzella e Napolitano) più due o tre eletti dalle alte magistrature. Tutti gli altri si sono detti contrari (compresi i cinque nominati dal capo dello Stato e il presidente della Corte Amirante, che nel 2004 aveva steso le motivazioni della bocciatura del Lodo Schifani), al termine di una camera di consiglio dai toni rimasti sempre pacati e tutto sommato sereni. Anche da parte di chi vedeva profilarsi la sconfitta e ha tentato di scongiurarla confidando sui desideri istituzionali di una soluzione meno traumatica.
Nemmeno l’argomento che ancora ieri sera veniva sbandierato dai parlamentari del centrodestra (la sentenza sul Lodo Schifani non aveva detto che serviva una legge costituzionale) ha fatto breccia tra i giudici. Che in grande maggioranza, 11 su 15, non facevano parte del collegio del 2004. Però sanno leggere le motivazioni dei giuristi; è vero che nel precedente verdetto è scritto che il vecchio Lodo era illegittimo «in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione», senza menzionare il 138 che regola le riforme della Carta, ma subito dopo c’era un’aggiunta: «Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale ». Il che può significare che una volta individuate le due violazioni citate potevano essercene anche altre, ma si decise di non entrare nel merito. Perché considerate «assorbite», appunto, dalla prima bocciatura.
Questa dunque la sintesi della discussione di palazzo della Consulta, per come s’è svolta sul piano tecnico e giuridico. Però tutti i giudici erano consapevoli che la loro decisione avrebbe avuto anche significati ed effetti politici, e quindi può esserci una lettura anche «politica» della sentenza. C’è chi pensa, ad esempio, che con questo verdetto la maggioranza degli inquilini della Consulta ha voluto rivendicare la propria autonomia rispetto a qualunque pressione o tentativo di influenzare le proprie decisioni; dai più felpati ai più espliciti, come la drammatizzazione dell’attesa nei palazzi della politica, gonfiata dalle dichiarazioni sempre più allarmate accavallatesi fino a pochi minuti prima della sentenza.
La Corte ha fatto vedere di essere impermeabile a tutto ciò, e ha fatto sapere che se si vogliono riformare la Costituzione e i suoi principi fondamentali bisogna farlo con chiarezza e con le procedure previste, non attraverso qualche scorciatoia. È come se le argomentazioni usate nell’udienza pubblica dai difensori di Berlusconi su una Costituzione materiale ormai diversa da quella scritta — quando l’avvocato Pecorella ha evocato un capo del governo eletto direttamente dal popolo; o quando l’avvocato Ghedini ha sostenuto che la legge è uguale per tutti ma la sua applicazione no — avessero svelato un tentativo di cambiare le regole (o darle per cambiate) senza rispettare le procedure. Disegnando una situazione di fatto diversa da quella scritta nelle leggi, e prima ancora nella Costituzione. Così non è e non può essere, hanno stabilito i giudici della Consulta. Certamente alcune immunità o protezioni dai processi penali si possono prevedere e stabilire, ma assumendosi la responsabilità di farlo con gli strumenti adeguati. Che non a caso prevedono l’ipotesi del referendum confermativo. Passando da quella porta la riforma è praticabile, altrimenti no. Anche quando le esigenze della politica fossero diverse.
Due secoli fa il malato d’Europa era l’Impero ottomano, guarito attraverso radicali terapie laiche. La prognosi è severa nel caso clinico Italia 2009: malattia organica, ormai conta trent’anni, da quando governi corrotti aprono l’etere al pirata venuto dalla P2, covo d’una pericolosa criminalità eversiva in colletto bianco.
E s’insedia, monopolista d’una televisione con cui disgrega i neuroni collettivi; tre volte occupa Palazzo Chigi adoperando i mangiatori dell’erba televisiva quale massa elettorale. Mentre istupidiva l’audience rastrellando pubblicità, allungava i tentacoli negli affari: editoria, banca, finanza, commercio, cinematografo, assicurazioni e via seguitando; ogni atto del governo in materia economica tocca interessi suoi (in quale misura gli riesce comodo lo scudo fiscale?); nessuno lo vede eroico asceta. Chiamarlo illegalista è eufemismo: edifica l’impero mediante corruzione, frode, plagio; vince le cause comprando chi giudica. Le guerre da corsa implicano dei rischi. Sinora li ha elusi, aiutato da oppositori imbelli o quasi complici: saliti due volte al governo, chiudono gli occhi sul conflitto d’interessi che trasforma l’Italia in una signoria privata indefinibile secondo le categorie politiche; ha tante pendenze e se ne disfa mutando le norme penali (vedi falso in bilancio) o attraverso partite defatigatorie, finché il tempo estingua i delitti; diabolicamente fortunato, esce indenne dal caso monstre perché, a causa d’una svista legislativa poi corretta, la pena inasprita non gli risulta applicabile e la meno grave, graziosamente addolcita dalle attenuanti cosiddette generiche, sta nei limiti in cui opera la prescrizione del reato. Salvo per il rotto della cuffia, ma Dio sa quanta materia pericolosa nasconda un sottosuolo blindato da scatole cinesi e paradisi fiscali. Gli serviva un’immunità: gliela votano, invalida, ma nel dichiararla tale (gennaio 2003), la Corte scioglie questioni collaterali; risalito al governo, la pretende, minacciando misure devastanti quale sarebbe la sospensione dei processi (almeno due su tre), incluso il suo, dove l’accusa, congeniale ai precedenti, è d’avere corrotto l’avvocato inglese testimone (il lupo non perde i vizi); in lingua anglosassone, bill of indemnity, così nei cinque anni seguenti nessun pubblico ministero gli viene tra i piedi; poi scalerà il Quirinale, padrone d’una Repubblica ridisegnata sulle sue molto anomale misure. Vengono utili le metafore inglesi: affollate da asini che dicono sì muovendo la testa (nodding ass), le Camere votano; il Capo dello Stato non obietta; l’indecoroso bill diventa legge ma obiettano i giudici chiamati ad applicarla e gli atti finiscono alla Consulta.
Cominciamo dalla prospettiva: questioni simili sono definibili in vacuo, fuori d’ogni riferimento all’attuale realtà italiana, come fossimo sulla luna tra spiriti disincarnati? No, il controllo delle leggi cade in spazi storicamente determinati: la Corte le vaglia, caso mai fossero passibili d’uso perverso, contro i fini dell’ordinamento definiti dalla Carta; e sappiamo lo sfondo. Eccolo, l’Italia invasa dal plutocrate populista, pifferaio, re delle lanterne: non sa un acca dell’ars gubernandi occidentale, coltiva gl’interessi suoi, converte il pubblico in privato, odia i poteri separati e non vede l’ora d’abolirli in una regressione al dominio prepolitico; perciò l’Europa trattiene il fiato davanti allo scempio italiano. Non sto chiedendo scelte in odio al tiranno: sarebbe decisione politica; idem se santificasse il fatto (monopolista dei poteri esecutivo, legislativo, mediatico, economico, s’impadronirà anche del giudiziario); e sottintendeva logiche d’un quietismo padronale l’argomento addotto dall’Avvocatura dello Stato (una sentenza ostile al famigerato lodo indebolirebbe il governo, ergo lasciamo le cose come stanno). La politica non c’entra. Va stabilito se nell’Italia 2009 le norme fondamentali tollerino un capo del governo immune: i tre contitolari hanno la funzione delle finestre dipinte, salvano la simmetria; l’interessato è lui; e notiamo en passant come sia l’unico, mancando ogni termine analogo (Europa, Usa, ogni Stato evoluto).
Nel merito la questione è presto risolta. Gli avvocati della corona d’Arcore ventilano un’immunità compatibile con l’art. 3 (i cittadini eguali davanti alla legge): l’art. 24 Cost., c. 2, garantisce la difesa, diritto inviolabile; e come può difendersi l’augusta persona, dedita alla res publica? Fossi in loro, non insisterei: Sua Maestà esercita una napoleonica capacità d’attenzione sincrona dividendosi tra gli affari suoi e le cose pubbliche, talvolta mischiandoli; e le cronache dicono quanto tempo gli resti da spendere nel rituale serotino. Suona futile anche il sèguito, che la gestione della res publica esiga uno scenario psichico quieto: sapersi imputato glielo disturba, con danni ai sudditi. La versatilità dell’homo in fabula scongiura ogni pericolo. Anche quest’argomento, poi, riesce pericoloso dove tira in ballo i pregi del lavoro tra palazzo e ville: non merita tutela l’interesse dei cittadini ad avere governanti seri?; lo sarebbe un barattiere cronico? Da notare come il bill of indemnity sia assoluto: copre ogni delitto comune, fosse anche enorme (prassi mafiosa, narcotraffico planetario, Spectre); chiunque abbia la testa sul collo ammetterà che sia un privilegio eccessivo. Importa poco che le Camere obbedienti non l’abbiano votato come legge costituzionale (mancava il tempo, incombendo la decisione nella maledetta causa milanese): nascerebbe altrettanto invalido sotto tale forma, perché vigono delle priorità tra gl’interessi tutelati dalle norme fondamentali; e qui è in gioco niente meno che la divisione dei poteri. Concedergli l’immunità significa ungerlo monarca assoluto, in figure reminiscenti della scalata hitleriana 1933-34. Mancano solo la legge dei pieni poteri e il cumulo cancellierato-presidenza della Repubblica, fusi nel nome mistico "Führer". C’è poco da stare allegri, anzi cade l’umore: una volta nascevano dei giuristi; che salto da Bartolo, Baldo, Alciato ad Angiolino Alfano, ma siamo equanimi. Chi l’aveva preceduto nell’ultimo governo soi-disant centrosinistro? Clemente Mastella, attuale europarlamentare berlusconiano.
«Non tenemo ’i piccioli». Non hanno i soldi però la voce sì. Questa non è una storia di omertà, di paesani fatalisti che aspettano la disgrazia come un tempo si attendeva il raccolto. Non è solo una questione di “abusivismo”, la parolina magica che qui va sempre bene e che Bertolaso ha gettato in pasto ai giornali e alle televisioni per smarcarsi dalle sue responsabilità. Ci sono scelte “colpevoli”, se è vero che tutti sapevano del rischio e non si è provveduto. E negligenza, dove si sono lasciate “stagionare” le pratiche: i cittadini costituendosi in comitati, i vigili spiccando multe, i politici locali sollecitando l’intervento dello Stato, perché qui non c’è una lira, se è vero che il Comune è in pre-dissesto, scampato al fallimento ma pur sempre commissariato in due occasioni negli ultimi 5 anni. Ma dall’alto è partito lo scaricabarile: colpa di abusivismo e sindaci permissivi. Questo il coro. Dai ministri alla Protezione civile fino al premier. È più facile additare che rispondere.
Il ministro dell’ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, potrebbe spiegare (e con lei il collega Giulio Tremonti: il documento è a doppia firma) perché hanno scelto di depennare dai finanziamenti «le opere di mitigazione del rischio idrogeologico nella zona di Giampilieri», così come indicate dall’assessorato all’ambiente della Sicilia. Il governo aveva comunicato la disponibilità di106 milioni di euro per la difesa del suolo, destinati all’Isola. Aveva chiesto alla Regione quali progetti urgeva realizzare e fu indicata la copertura di 81 interventi, classificati per luogo e preventivo. Sono elencati nella lettera spedita al ministero della Prestigiacomo il 9 novembre 2009: al punto n.40 c’è la richiesta di 1 milione per la sistemazione di Giampilieri. Niente di corposo e organico, solo una toppa. Ma quando la Prestigiacomo e Tremonti compilano il decreto, e lo trasmettono alla Corte dei Conti, le opere finanziate sono 71, dieci di meno: fra le altre, è stata tolta la messa in sicurezza della montagna, che la Regione Sicilia ha classificato ad alto rischio. Ma ignorata dal governo. Perché si è preferito addobbare il lungomare di Trapani? O ritoccare Panarea? Questa è una risposta che manca. Ma il ministro sceglie la solita via: «Cito per danni l’Unità, ha diffuso notizie palesemente false». Questo giornale ha pubblicato documenti che la stessa Prestigiacomo ha firmato. Non è l’unica risposta che manca. Il sindaco di Scaletta Zanclea, Mario Briguglio, è nel mirino per le case costruite nella foce del torrente. Si tratta di una ristrutturazione, tecnicamente non è un abuso, ma resta lo scempio: «Due anni fa – dice lui – ho chiesto 20 milioni di euro per mettere tutto in sicurezza. Me ne hanno promessi 500 mila, ma i lavori non sono mai stati fatti: non c’erano i soldi».
Certo, le case abusive andrebbero abbattute e non ristrutturate. Negli ultimi due anni e mezzo l’attività di controllo del nucleo “tutela del territorio” della polizia municipale ha inventariato una cittadella da demolire: mille e 191 manufatti da abbattere, il 40% di questi (450 immobili abusivi) si trovano nella zona sud – quella alluvionata – e il 15% proprio a Giampilieri. Questa la denuncia: nessuna di queste demolizioni è stata eseguita. Niente. Né da parte del comune (in danno dell’utente) né dall’inquilino o padrone stesso, di sua iniziativa. E niente si è fatto sul costone che sovrasta Giampilieri, non quello franato ma quello contiguo: la protezione civile ha in mano l’opera di sistemazione, da due anni: fra rimpalli e bisticci, i lavori sarebbero dovuti iniziare oggi. Questa volta c’erano perfino i “piccioli”, 780 mila euro. Ma non c'è più la montagna.
MESSINA — Beffardo il gran cartello che campeggia fra il torrente e la montagna di Giampilieri, accanto alla scuola trasformata in ricovero, davanti ai mezzi dei vigili del fuoco. Ecco il «Giardino dei limoni» con l’annuncio che si vendono ville. Per la verità sembrano case popolari, appartamenti a schiera. Costruiti, come è accaduto in questo borgo disastrato per altri 32 progetti, con emendamenti e varianti in deroga al rigido piano regolatore che ancora rimproverano al sindaco-magistrato di Messina, rimasto in carica per quattro anni fino al 1998. Ed è derogando oggi, derogando domani e anche il giorno dopo, che si è arrivati a quota 800, con altrettante modifiche capaci di trasformare il cosiddetto Prg in carta straccia, piantando palazzoni ovunque, cementificando i torrenti e pure le foci.
Per l’improbabile Giardino dei limoni il proprietario del terreno, Domenico Lupò, è pronto a mostrare il via libera del consiglio comunale. Come l’ebbe, cento metri più giù, sempre all’ombra delle frane di Giampilieri, un dinamico affarista, Cesare D’Amico, costruttore di tre grigie cooperative da 60 appartamenti per poi tornare a Messina, rilevare il Jolly e finire dentro per bancarotta fraudolenta.
Ecco alcuni dei beneficiari di quella che in modo grossolano viene chiamata la «variante mille deroghe». Con un numero gonfiato forse perché riflette l’aspirazione di palazzinari ben inseriti nel sistema città. Come sa l’ex sindaco- magistrato Franco Pulvirenti, un giurista di sinistra oggi impegnato in politica «solo via mail». Sorride amaro. Soprattutto pensando a quel piano regolatore che varò appena insediatosi: «Capii subito che bisognava farne uno rigido, molto rigido. Scoprii una bozza gonfiata per 300 mila abitanti. Ma se siamo poco più di 200 mila? Ordinai di ridurre. Calcolammo solo i bisogni veri. Imponendo i vincoli. Soprattutto su colline e alvei dei torrenti. Vincoli ignorati. Appunto, con varianti e deroghe che hanno stravolto il Prg». E anche se adesso se ne sta in disparte, un po’ schifato dall’andazzo, indica la tecnica degli affaristi: «Il privato presenta un progetto e chiede una piccola variante al Prg. L’ufficio tecnico dà un parere a trasiri e nesciri
(a entrare e uscire). Il costruttore si muove. Parla, avvicina. E nel consiglio comunale dove poi la variante diventa elastica si creano maggioranze casuali, intese trasversali, la delibera passa, il palazzo va...».
Sa cosa accadeva anche un ex consigliere comunale di An, l’avvocato Francesco Rizzo, oggi difensore civico a Lipari: «Uno dei trucchi è portare l’edificabilità da 1,5 a 3. Su un metro quadrato puoi realizzare un metro e mezzo di altezza? Porti l’indice a tre e raddoppi il guadagno».
Il caso più clamoroso, culminato in un’inchiesta con l’arresto dell’ex presidente del consiglio comunale Umberto Bonanno, dell’avvocato che mediava, Pucci Fortino, e di sei spregiudicati imprenditori è quello del «Green Park», con un indice passato da 1,5 a 5. Risultato: tre orrori in cemento armato già realizzati sotto i viadotti dell’autostrada e altri tre rimasti sulla carta. Di «green» non c’è traccia su questa arida arteria che s’inerpica poggiata su un torrente, il «Trapani Alto», soffocato, letteralmente tappato, come indicano Anna Giordano del Wwf e l’avvocato che sostiene gli ambientalisti, Aura Notarianni. Oltrepassati gli scheletri sotto sequestro giudiziario, ecco «Il Grande Olimpo», come pomposamente annuncia il cartello, fra pecore, casermoni piantanti sulla collina e una discarica aperta sul torrente che, ancora cento metri più sopra, si vede. Il letto è largo almeno venti metri. Di botto ridotti a un buco alto due metri, proprio un canale che corre giù, sotto l’asfalto, per un ripidissimo pendio di oltre un chilometro. Un imbuto.
«Naturale che ad ogni ondata di piena l’acqua rischi di traboccare trasformando la strada in una pericolosa cascata», spiega il geologo Alfredo Natoli, che con dieci suoi colleghi fu incaricato di redigere la carta geologica della provincia di Messina: «La consegnammo nel 2000, ma fingono di non sapere che esistono torrenti soffocati, terreni franosi sui quali continuano a costruire...».
E s’affaccia verso la collina «Paradiso », vista mozzafiato sulla Calabria. Per arrivarci ci si inerpica su un budello dove un camion passa a stento, «Strada Fosso», lo stesso nome del torrente che sta sotto, appunto infossato. Arrivi in cima e scopri gli operai al lavoro su quattro palazzoni ancora grezzi, vicini vicini, altra deroga. E, quindi, in regola. Non a caso fa bella mostra di sé il tabellone della ditta Minutoli, colorato ovviamente di verde e presuntuoso perché nel «Victoria Park» non c‘è spazio per piantare un albero. Ma il sogno di un innamorato può esplodere anche su un muro grezzo: «Ti giuro voleremo sull’isola ke non c’è».
Qui non c’è più il torrente. Nascosto sotto la stradina con una grata ogni trecento metri. S’intravede il letto compresso del corso d’acqua. Uno di quei torrenti da niente che possono diventare valanghe d’acqua e fango. Ma senza spazio. Sempre più stretto lungo la discesa che va giù dalla collina per due chilometri di palazzoni. Una vena tortuosa che si stringe fino a sfociare sulla litoranea della città, il mare di fronte. Basta andare sulla spiaggia per capire dove finisce. Interrato sotto le pedane del «Vintage Drink & Food», stabilimento balneare e pub notturno. «Acque bianche sono», giura il capocantiere che sta smontando tutto perché siamo a fine stagione e ricompaiono i due lunghi tubi nei quali è incapsulata la foce del torrente. In pieno centro città. Senza che nessuno veda, senza bisogno di deroghe.
Poco più di sette anni fa — era il 2002 — scrivevo dell'immunità parlamentare e avanzavo una proposta: «consentire al parlamentare di scegliere tra sottomettersi al giudizio della magistratura o invocare l'immunità. Però nel secondo caso non si potrà ripresentare alle elezioni e dovrà affrontare, a mandato scaduto, il corso della giustizia. Questa proposta protegge il rappresentante nell'esercizio delle sue funzioni ma non consente a nessuno di sfuggire alla giustizia per tutta la vita. Immunità sì; ma non un’immunità che trasformi le Camere in un santuario di indiziati in altissimo odore di colpevolezza».
Va da sé che questa proposta non fu accolta. Venne invece approvata una legge che fu poi bocciata, nel 2004, dalla Corte Costituzionale. Così ora ci risiamo con il cosiddetto Lodo Alfano. Le novità sono due. Intanto scompare la parola immunità sostituita dalla melliflua dizione «sospensione del processo penale». In secondo luogo questa immunità (perché tale è) si applica soltanto alle più alte cariche dello Stato, e così diventa, in apparenza, «immunità salva-quattro».
In apparenza, perché anche questo è un camuffamento. I presidenti delle due Camere non hanno mai chiesto un’immunità privilegiata, speciale, né si capisce perché ne abbiano bisogno, e cioè perché debbano essere insostituibili. Quanto al capo dello Stato, l'inquilino del Quirinale è già tutelato dall'articolo 90 della Costituzione, che lo rende indiziabile soltanto per «alto tradimento e per attentato alla Costituzione»; e in tal caso «è messo in stato d'accusa dal Parlamento» (non dalla magistratura). Ne consegue che la «salva- quattro» è in realtà una cortina fumogena per una leggina ad personam (davvero con fotografia) che è soltanto «salva-uno» che è soltanto salva-Cavaliere.
Il fatto è che in tutte le democrazie un capo del governo viene sostituito senza drammi e senza che questo evento «possa ostacolare seriamente l'esercizio delle funzioni politicamente più elevate» (come sostiene melodrammaticamente l'Avvocatura dello Stato). Melodrammatico o no, l'argomento (discutibilissimo) non è un argomento giuridico. La Corte, che udirà il caso domani, dovrà soltanto valutare se il privilegio di intoccabilità a vita appetito da Berlusconi sia costituzionalmente accettabile.
Già, a vita. Il Lodo parla di sospensione temporanea; ma sembra che lasci aperto, senza dare nell'occhio, un varco fatto su misura per Berlusconi. Nel testo Alfano, articolo 5, la «sospensione non è reiterabile » se applicata a successive investiture in altre cariche; ma tace su successive investiture nella stessa carica. Pertanto basta che Berlusconi si faccia sempre rieleggere presidente delConsiglioperessere salvaguardato sine die , senza termine.
Intravedo già che l’onorevole avvocato Ghedini dirà proprio così.
Mi chiedo se la mia proposta del 5 agosto 2002 non fosse meglio dei mostriciattoli
C'era un solo Paese, fino a ieri, dove si potesse definire una "farsa" una manifestazione per la libertà di stampa in Italia. Indovinate un po', il nostro. Nel resto d'Europa e dell'universo democratico, l'anomalia italiana è ormai evidente a tutti. Bene, da oggi diventa più difficile per il potere negarla. La folla di cittadini che ha riempito all'inverosimile Piazza del Popolo e dintorni ha avuto l'effetto di far crollare un muro di finzione.
Ha portato un pezzo di realtà sulla scena pubblica, restituito un senso alle parole rubate dal marketing politico, come popolo e libertà, segnalato l'esistenza e la resistenza di un'Italia aperta al mondo, allegra e pronta a scendere in piazza per i propri diritti. Ed è un segnale del paradosso orwelliano in cui ci tocca vivere che proprio questa Italia si presenti in piazza al grido: "Siamo tutti farabutti".
È crollata in un pomeriggio una finzione costruita da mesi e anni di propaganda. Quella per cui la questione della libertà d'informazione in Italia è soltanto una lotta di élites nemiche, di qui Berlusconi e i suoi media, di là Repubblica e un pugno di giornalisti di tv e carta stampata, spalleggiati dalla fantomatica Spectre internazionale del giornalismo di sinistra. Se così fosse, aggiungiamo, avremmo già perso da un pezzo, visto i rapporti di forza.
Ma la questione è altra ed è quella che vede benissimo l'opinione pubblica internazionale. Da un lato c'è una concezione classica delle libertà democratiche, per cui il governo e l'informazione fanno ciascuno il proprio mestiere. Dall'altro, il fronte berlusconiano, dove è affermata ormai a chiare lettere una concezione di democrazia mutilata in cui i media debbono astenersi dal criticare il potere politico, perfino dal porre domande non previste dal protocollo. Altrimenti rischiano ritorsioni economiche, politiche, giudiziarie.
Sullo sfondo di un irrisolto e monumentale conflitto d'interessi, il progetto di Berlusconi è di costringere l'intero campo dell'informazione a due sole possibilità. Una metà militante a favore del padrone, cioè servile. E l'altra metà comunque deferente.
Nei quindici anni di carriera politica, Berlusconi non era mai giunto tanto vicino a raggiungere questo obiettivo come al principio del suo terzo mandato. Una televisione e una stampa prone ai voleri del governo, in molti casi liete di fare da semplici megafoni, hanno scortato il premier fra infinite passerelle nella luna di miele con l'elettorato. Poi qualcosa si è rotto. Le voci non servili o non deferenti rimangono poche, ma suonano forte e soprattutto sono sostenute da un crescente sostegno popolare.
Perfino il pubblico televisivo, il "popolo" di Berlusconi, ha cominciato a ribellarsi a una rassegnata deriva. Per il re delle antenne, abituato a riferire dell'azione di governo prima (o solo) in tv piuttosto che in Parlamento, far segnare record negativi di ascolti, quando il "nemico" Santoro polverizza un primato dopo l'altro, è davvero un brutto segno di declino. La risposta di massa in piazza all'appello del sindacato giornalisti è un altro pessimo segnale. Pessimo, s'intende, per l'egemone. Magnifico per chi continua a pensare all'Italia come a una grande democrazia occidentale.
Non sappiamo se l'opinione pubblica è davvero e ancora "una forza superiore a quella dei governi", come scriveva Saint Simon agli albori della democrazia. Nell'Italia di oggi è in ogni caso una forza superiore a quella di un'opposizione politica divisa, confusa e a giudicare dagli ultimi voti parlamentari anche distratta. Il potere ne è consapevole e infatti gli attacchi agli organi d'informazione in questi mesi hanno raggiunto toni mai toccati dalla polemica politica.
Per finire con una nota grottesca, parliamo del Tg1, ormai scaduto a bollettino governativo. Ieri sera il direttore Augusto Minzolini è intervenuto con un editoriale nel quale, dopo aver esordito definendo una manifestazione di cittadini in favore della libertà di stampa "incomprensibile per me" (nel suo caso, si capisce), ha ripetuto parola per parola gli slogan appena usati nel pastone politico dagli esponenti del Pdl.
Minzolini, che è quello senza occhiali - per distinguerlo da Capezzone - non è l'ennesimo portavoce del premier, ma un dipendente del servizio pubblico, pagato coi soldi del canone versato anche dai manifestanti. Anzi, forse più da loro che da altri. Dovrebbe tenerne conto e dare qualche notizia in più, invece di propinarci per la seconda volta il Berlusconi-pensiero mascherato da editoriale.
Tragedia prevedibile, anzi annunciata, quella di Messina. Quante volte lo abbiamo sentito dire negli ultimi giorni! Il presidente della Repubblica, quello della Regione, il ministro dell'Ambiente ripetono parole di dolore e indignazione che appaiono di circostanza: le stesse di altre volte. Questa volta però, c'è chi spera che le voci istituzionali non parlino «sull'onda dell'emozione ma per una consapevolezza finalmente acquisita dalla classe dirigente di questo Paese e di questa Regione... ed è necessario che alle parole seguano fatti coerenti».
Quello che precede è un passo della dichiarazione congiunta di Mimmo Fontana, presidente di Legambiente Sicilia e di Gianvito Graziano, presidente dell'Ordine dei geologi della Sicilia. La verifica della coerenza è immediata. «Proprio in questi giorni l'Assemblea sta esaminando il testo del Piano casa siciliano proposto dal governo. Chiediamo un atto di responsabilità e di rispetto delle vittime». Il Piano deve essere ribaltato; non si può consumare altro suolo e aumentare ancora le cubature edilizie in una Regione «in cui l'80% dei Comuni è a rischio di dissesto idrogeologico... La Sicilia decida di trasformare il Piano casa in un grande progetto di riqualificazione del territorio».
Qualche anno fa, nel 2006, Legambiente e il Dipartimento della protezione civile svolsero un'indagine dal nome «Operazione fiumi». Un capitolo era dedicato alla Sicilia. Consisteva nel monitoraggio sulle azioni dei comuni per la mitigazione del rischio idrogeologico. 273 comuni dell'isola erano classificati ad alto rischio di alluvioni e frane. In provincia di Messina erano 91, pari all'84% di tutti i comuni della provincia. Tra questi, il capoluogo, cui sulla base di una votazione da 10 a 0 veniva dato un 2.
È difficile scherzare, oggi, su un voto tanto meritato. L'insufficienza era dovuta all'urbanizzazione con fabbricati industriali e case di abitazione in aree a rischio. Nessuno fece niente. Anzi l'ultima uscita prima della frana fu una distrazione di fondi, stanziati per la mitigazione del danno «distraendo infrastrutture urgenti e attrezzature territoriali» per 1,3 miliardi in Calabria e Sicilia; muovendo, al contrario, un altro passo, probabilmente finto, come ha spiegato sul manifesto di ieri Alberto Ziparo, per la erezione del Ponte sullo Stretto di Messina.
Tutto questo è intollerabile; il nostro giornale ieri ha titolato «Sotto il Ponte», per segnalare questa vergogna; proprio mentre ieri su altri giornali si leggeva anche: «Il ministro rilancia sul Ponte 'Tutto pronto, a dicembre i lavori'».
I movimenti come il no Ponte e tanti altri no, sono stati spesso accusati di egoismo. È stata anche coniata una sigla di successo per descrivere l'effetto Nimby (Non nel mio cortile): per deplorare che nessuno accettasse una grande opera nei pressi di casa con la conseguenza che naturalmente le grandi opere non partissero mai.
Ora va detto che proprio soltanto l'effetto Nimby, può salvarci dai disastri. Solo chi conosce bene il suo territorio e riesce a organizzarsi, e partecipa, e lotta, può battere la speculazione, piccola e grande, del capitale e salvare il territorio, l'ambiente, il paesaggio, perfino: in sostanza la qualità della vita e la vita stessa di molte persone. Altrimenti, dopo, dopo il fatto, ci saranno soltanto gli atti di eroismo e la tragedia, in tante case.
Ieri è stata una grande giornata per i media, in Piazza del Popolo. Tutti insieme abbiamo rivendicato un ruolo forte, libero, capace di resistere al governo e ai padroni. Abbiamo rialzato la testa. È importante però ricordare che il nostro ruolo non finisce lì. Tenere sempre in mente che non si tratta solo di parlare dopo, a cose avvenute, quando i disastri sono ormai irrimediabili. Piangere dopo, scrivere pagine su pagine e accorrere con gli inviati, a tragedie avvenute, è fare come i coccodrilli del potere, pronti a disperarsi, prontissimi a dimenticare tutto. Si tratta di agire prima, quando è ancora possibile interrompere il circuito perverso tra potere, consenso, e, appunto, media. Può darsi che il Nimby non venda, o venda pochissimo, in fatto di pubblicità, ma è certo che salva molte vite.
Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra. Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni. È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l'Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.
E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.
Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d'omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.
Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano). La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.
È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio. L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.
Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po' come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del '500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.
L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio. Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre. Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità. Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.
Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D'un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua. Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità. Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c'è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina.
Il Belpaese stuprato. Stuprato da chi lo abita e continua a costruire dove non si può e non si deve. Stuprato da Comuni e Province che chiudono gli occhi su abusi edilizi di massa che scempiano il paesaggio e pongono le premesse per disgrazie a non finire. Stuprato da Regioni che, a cominciare dalla disastrata Sicilia, assolvono tutti quanti. Stuprato da governi che tagliano i fondi (a metà quest’anno quelli già magri per il Ministero dell’Ambiente) e varano un condono edilizio dopo l’altro (due a distanza di dieci anni il governo Berlusconi, 1994 e 2004) incoraggiando altro cemento e altro asfalto abusivo su pendii scoscesi, impermeabilizzando i terreni, accelerando la velocità dell’acqua, preparando, con lo sfascio del territorio, lutti e sciagure inesorabili. Con la tropicalizzazione del clima e piogge più violente e improvvise tutto è destinato a complicarsi.
La frazione messinese di Giampilieri, nelle immagini televisive girate dall’alto, appare come un tragico “caso di scuola”: costa alta, aggredita da costruzioni tanto intensive quanto insensate, persino dentro la fiumara che, quando piove forte, si apre a forza la strada verso il mare, sormontata da un costone di roccia che nessuno ha messo in sicurezza. Giampilieri di Messina come Ischia, come tanti abitati costieri. Il Comune di Messina era stato già colpito nel 1998 con 4 morti. Ma l’amministrazione locale non ha fatto praticamente nulla. “La mancanza di fondi non ci ha consentito di intervenire”, si giustifica il sindaco Giuseppe Buzzanca.
Lo stesso dirà la Regione Sicilia che però continua a gonfiarsi di personale e ad aumentare le indennità dei consiglieri invece di destinare risorse al suo sfasciato territorio. Per giunta sismico, a partire dal Messinese, per cui ogni scossa, anche modesta, aggrava ed estende i movimenti franosi su colline dove un tempo c’erano boschi o colture agricole a filtrare le piogge, e magari non ci sono più perché “cotti” da incendi estivi appiccati da speculatori criminali. Anche il governo Berlusconi si nasconderà dietro la crisi generale dell’economia e quindi delle risorse pubbliche. Ma è lo stesso governo, è lo stesso premier che ha deciso di “passare alla storia” col costosissimo, inutile e dannosissimo, sul piano idrogeologico, Ponte sullo Stretto fra Messina e Reggio Calabria. Eppure il 10 per cento del Belpaese è “ad altra criticità idrogeologica”.
In un documento del 26 settembre scorso il Wwf denunciava: “Ruspe, lottizzazioni impressionanti su pendii fragili, coperture di impluvi naturali, sbancamenti enormi, sono continuati imperterriti, accelerando la fragilità intrinseca dei Monti Peloritani, geologicamente giovani e pertanto soggetti più di altri a fenomeni franosi, che la mano dell’uomo ha aggravato e reso pressoché costanti. Messina ha scelto, come economia unica e sola, il cemento e le opere faraoniche”. Mentre l’intera Sicilia, l’intero nostro antico, consumato, cementificato, asfaltato e quindi fragile Paese – che, dal Polesine in qua, ha visto morire nelle alluvioni circa 1.500 persone - ha bisogno di tornare ad investire seriamente, costantemente nel restauro strutturale del suo corpo. Come aveva cominciato a fare dopo le buone leggi sui piani paesaggistici (1985), sulle autorità di bacino e sulla difesa del suolo (1989), sui parchi di ogni livello (1991). Devitalizzate dall’idea che “ognuno è padrone a casa propria” (Berlusconi) e che pianificare paesaggio e territorio è inutile, anzi dannoso. Non dà ritorno di immagine. Al di là di “escort”, festini privati, ridicole esibizioni internazionali, questo è uno dei più diffusi, devastanti, cronici guasti dei governi Berlusconi.
Sette comuni su 10 a rischio frane "E il Sud Italia è il più minacciato"
Antonio Cianciullo
La ricetta del disastro è precisa. Si prende un territorio come l’Italia, con 7 Comuni su 10 a rischio idrogeologico. Si spargono case abusive a profusione, possibilmente nelle aree in cui si espandono fiumi e torrenti in piena. S’immettono in atmosfera gas serra, quanto basta per modificare il ciclo idrico e produrre piogge interminabili e violente. Poi si aspetta. Non a lungo. Nell’ottobre dell’anno scorso è toccato a Cagliari; a dicembre Roma ha convissuto con l’incubo alluvione; adesso è Messina a pagare un prezzo molto alto. Cosa ci aspetta nel prossimo futuro?
La risposta è contenuta in «Ecosistema a rischio» un documento firmato dalla Protezione civile e dalla Legambiente che sintetizza, regione per regione, la capacità di risposta alla minaccia del dissesto idrogeologico. La base di partenza è oggettivamente preoccupante: ci sono 1.700 Comuni a rischio frana, 1,285 Comuni a rischio alluvione e 2.596 Comuni a rischio sia di frane che di alluvioni. Una classifica guidata da Calabria, Umbria, Val d’Aosta, Marche e Toscana.
Ma il rischio di base, quello legato alla conformazione del territorio, non è in fin dei conti determinante: in Giappone e in California scosse che farebbero una strage nei paesi più poveri o più disattenti lasciano intatte case costruite per resistere a quelle sollecitazioni.
«Noi possiamo smettere di progettare opere inutili come il Ponte sullo Stretto e investire quei soldi nella messa in sicurezza del paese per convivere con il rischio frane e alluvioni, dando tra l’altro lavoro a centinaia di migliaia di persone», osserva Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente. «Oppure possiamo continuare a varare piani casa che puntano sulla quantità invece che sulla qualità e sulla sicurezza e assistere così al progressivo aumento del rischio, che si concentrerà sulle regioni meridionali, meno abituate a progettare le difese contro le inondazioni».
«Al momento», accusa Ermete Realacci, responsabile ambiente del Pd, «stiamo puntando dritti dritti verso lo smantellamento delle difese contro le calamità che fino a ieri chiamavamo naturali e che ci costano 6-7 miliardi l’anno: gli stanziamenti governativi per l’assetto idrogeologico nel 2008 erano 510 milioni di euro, nel 2009 sono scesi a 269, il prossimo anno saranno 120 e nel 2011 precipiteranno a 93».
La disattenzione si declina anche a livello comunale. Il 77 per cento dei Comuni censiti nell´analisi della Protezione civile ha nel proprio territorio case in aree a rischio frana o alluvione e solo 1 Municipio su 20 ha cominciato a eliminarle dando un´alternativa a chi le abita. Nel 42 per cento dei Comuni non viene svolta regolarmente la manutenzione ordinaria dei corsi d´acqua e delle opere di difesa idraulica.
Invece di rimuovere le cause del rischio, gli amministratori si preparano ad affrontare il peggio. L’82 per cento dei Comuni si è dotato di un piano di emergenza da mettere in atto in caso di frana o alluvione. E due Comuni su tre hanno una struttura di protezione civile operativa 24 ore su 24.
Complessivamente dal rapporto «Ecosistema a rischio» esce un quadro estremamente critico: solo il 37 per cento dei Comuni svolge un lavoro positivo di mitigazione del rischio, mentre 787 amministrazioni comunali si danno da fare per peggiorarlo. Tra le maglie nere citate, due Comuni del Messinese: Ucria e Alì.
Non chiamatela calamità
Giovanni Valentini
Una valanga scura di fango, macerie e detriti che invade le strade, sbriciola i muri, travolge le auto, ghermisce case e negozi, sommerge porte e finestre.
Se non le avete ancora viste, andate a sfogliarle una per una su Repubblica.it le foto di Giampilieri, frazione di Messina sulla costa dello Stretto, scattate il 26 ottobre 2007. È una retrospettiva di immagini impressionanti, la documentazione fotografica di un disastro annunciato che purtroppo s’è ripetuto ieri con la puntualità irrevocabile della rovina e della morte, provocando un’altra strage nella memoria dolente del Malpaese.
Sono passati due anni da quell’avvertimento e, per ammissione dello stesso comandante in capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, non è stato fatto niente per prevenire ed evitare un tragico replay. Per incuria, per abbandono, per irresponsabilità di tutti coloro, amministratori locali, politici nazionali, uomini e donne di governo, che avrebbero dovuto intervenire per tempo.
Di quale autonomia si appropria allora il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, se proprio sul suo territorio un nubifragio arriva a uccidere tanti cittadini inermi? Di quale ambiente si occupa il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo da Siracusa, quando proprio nella sua isola un’alluvione può generare una tale catastrofe? E soprattutto, di quale Ponte sullo Stretto vagheggiano i governanti del centrodestra, mentre non si riesce neppure a proteggere le colline e le strade che franano sotto la pioggia proprio in quell’area?
Ha perfettamente ragione il Capo dello Stato a invocare maggiore sicurezza piuttosto che «opere faraoniche». C’è una sproporzione intollerabile fra la retorica megalomane delle cosiddette grandi opere e l’ignavia rituale delle piccole opere, quelle normali, regolari, quotidiane, che sarebbero utili per impedire il saccheggio del territorio; la speculazione edilizia e la cementificazione selvaggia; o soltanto per provvedere alla manutenzione ordinaria dei paesi, delle città, delle infrastrutture. Un gap indecente intessuto di affari, di abusi e di scempi che producono un danno irreparabile all’intera collettività: alla popolazione, innanzitutto; ma anche all’ambiente naturale, al paesaggio o perfino al turismo e quindi all’economia.
È proprio il governo del territorio che manca o difetta, e non certo da ieri né soltanto in Sicilia, nell’amministrazione pubblica nazionale. Tanto più in un Mezzogiorno d’Italia abbandonato a se stesso, relegato nel suo progressivo degrado, consegnato all’emarginazione dell’illegalità e della criminalità organizzata. E nonostante i ricorrenti e accorati appelli del presidente della Repubblica, l’antica e irrisolta "questione meridionale" sembra rimossa ormai dall’agenda nazionale, dall’ordine del giorno di un governo d’ispirazione nordista, dominato da una preminente tendenza separatista o addirittura secessionista.
Ma il peggio è che non impariamo niente dai disastri, dalle catastrofi, dalle tragedie precedenti. Dalle alluvioni, dalle frane, dai terremoti. Senza disconoscere qui l’impegno profuso in Abruzzo dal governo di centrodestra, dalla Protezione civile e dai volontari, alla fine il trionfalismo mediatico sembra prevalere sul senso del rigore e della responsabilità, in una sorta di reality permanente, uno show autocelebrativo finalizzato più che alto a fare ascolti e a raccogliere voti.
Vogliamo costruire nuovi ponti e nuove autostrade, ma non abbiamo strade sicure e non riusciamo a fare una manutenzione regolare nelle grandi città nemmeno per coprire le buche o riparare i marciapiedi. Vogliamo i treni ad alta velocità, ma quelli dei pendolari sono indegni di un Paese civile e gli altri per lo più scomodi e sporchi. Vogliamo installare le centrali nucleari, ma la rete elettrica fa acqua da tutte le parti e intanto produciamo meno energia solare della fredda Germania.
In un Paese senza catasto edilizio, o con un catasto a dir poco obsoleto, non c´è una mappa aggiornata delle zone a rischio idrogeologico; un censimento effettivo delle aree pericolanti; un registro o un inventario completo delle tante Giampilieri che al nord, al centro o al sud, insidiano l’assetto del territorio. E soprattutto, non c’è un protocollo ufficiale, regione per regione, su cui pianificare un programma di interventi mirati per la difesa del suolo, in base a una scala di priorità.
Queste non sono calamità naturali. Eventi imprevedibili o incontrollabili. Sono colpe e omissioni che chiamano in causa precise responsabilità politiche, amministrative e spesso anche giudiziarie.
MOLTI si chiederanno come sia possibile che in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da noi non è compromessa come in Cina, a Cuba, in Birmania o in Iran. Ma oggi manifestare o alzare la propria voce in nome della libertà di stampa, vuol dire altro. Libertà di poter fare il proprio lavoro senza essere attaccati sul piano personale, senza un clima di minaccia. E persino senza che ogni opinione venga ridotta a semplice presa di parte, come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento.
Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un'opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni. Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all'altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo.
Vorrei parlare apertamente con chi, riconoscendosi nel centrodestra, dirà: "Ma che volete? Che cosa vi mettete a sbraitare adesso, quando siete stati voi per primi ad aver trascinato lo scontro politico sul terreno delle faccende private erigendovi a giudici morali? Di cosa vi lamentate se ora vi trovate ripagati con la stessa moneta?". Infatti la questione non è morale. La responsabilità chiesta alle istituzioni non è la stessa che deve avere chi scrive, pone domande, fa il suo mestiere. Non si fanno domande in nome della propria superiorità morale. Si fanno domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. Un giornalista rappresenta se stesso, un ministro rappresenta la Repubblica. La democrazia funziona nel momento in cui i ruoli di entrambi sono rispettati.
Per un giornalista, fare delle domande o formulare delle opinioni non è altro che la sua funzione e il suo diritto. Ma un cittadino che svolge il suo lavoro non può essere esposto al ricatto di vedere trascinata nel fango la propria vita privata. E una persona che pone delle domande, non può essere tacitata e denunciata per averle poste. Non è sulla scelta di come vive che un politico deve rispondere al proprio Paese. Però quando si hanno dei ruoli istituzionali, si diventa ricattabili, ed è su questo piano, sul piano delle garanzie per le azioni da compiere nel solo interesse dello Stato, che chi riveste una carica pubblica è chiamato a rendere conto della propria vita.
In questi anni ho avuto molta solidarietà da persone di centrodestra. Oggi mi chiedo: ma davvero gli elettori di centrodestra possono volere tutto questo? Possono ritenere giusto non solo il rifiuto di rispondere a delle domande, ma l'incriminazione delle domande stesse? Possono sentirsi a proprio agio quando gli attacchi contro i loro avversari prendono le mosse da chi viene mandato a rovistare nella loro sfera privata? Possono non vedere come la lotta fra l'informazione e chi cerca di imbavagliarla, sia impari e scorretta anche sul piano dei rapporti di potere formale?
Chi ha votato per l'attuale schieramento di governo considerandolo più vicino ai propri interessi o alle proprie convinzioni, può guardare con indifferenza o approvazione questa valanga che si abbatte sugli stessi meccanismi che rendono una democrazia funzionante? Non sente che si sta perdendo qualcosa?
Il paese sta diventando cattivo. Il nemico è chi ti è a fianco, chi riesce a realizzarsi: qualunque forma di piccola carriera, minimo successo, persino un lavoro stabile, crea invidia. E questo perché quelli che erano diritti sono stati ridotti quasi sempre a privilegi. È di questo, di una realtà così priva di prospettive da generare un clima incarognito di conflittualità che dovremmo chiedere conto: non solo a chi governa ma a tutta la nostra classe politica. Però se qualsiasi voce che disturba la versione ufficiale per cui va tutto bene, non può alzarsi che a proprio rischio e pericolo, che garanzie abbiamo di poter mai affrontare i problemi veri dell'Italia?
Il ricatto cui è sottoposto un politico è sempre pericoloso perché il paese avrebbe bisogno di altro, di attenzione su altre questioni urgenti, di altri interventi. Il peggio della crisi per quel che riguarda i posti di lavoro deve ancora arrivare. In più ci sono aspetti che rendono l'Italia da tempo anomala e più fragile di altre nazioni occidentali democratiche, aspetti che con un simile aumento della povertà e della disoccupazione divengono ancora più rischiosi.
Nel 2003 John Kerry, allora candidato alla Casa Bianca, presentò al Congresso americano un documento dal titolo The New War, dove indicava le tre mafie italiane come tre dei cinque elementi che condizionano il libero mercato quantificando in 110 miliardi di dollari all'anno la montagna di danaro che le mafie riciclano in Europa. L'Italia è il secondo paese al mondo per uomini sotto protezione dopo la Colombia.
È il paese europeo che nei soli ultimi tre anni ha avuto circa duecento giornalisti intimiditi e minacciati per i loro articoli. Molti di loro sono finiti sotto scorta. Ed è proprio in nome della libertà di informazione che il nostro Stato li protegge. Condivido il destino di queste persone in gran parte ignote o ignorate dall'opinione pubblica, vivendo la condizione di chi si trova fisicamente minacciato per ciò che ha scritto. E condivido con loro l'esperienza di chi sa quanto siano pericolosi i meccanismi della diffamazione e del ricatto.
Il capo del cartello di Calì, il narcos Rodriguez Orejuela, diceva "sei alleato di una persona solo quando la ricatti". Un potere ricattabile e ricattatore, un potere che si serve dell'intimidazione, non può rappresentare una democrazia fondata sullo stato di diritto.
Conosco una tradizione di conservatori che non avrebbero mai accettato una simile deriva dalle regole. In questi anni per me difficili molti elettori di centrodestra, molti elettori conservatori, mi hanno scritto e dato solidarietà. Ho visto nella mia terra l'alleanza di militanti di destra e di sinistra, uniti dal coraggio di voler combattere a viso aperto il potere dei clan. Sotto la bandiera della legalità e del diritto sentita profondamente come un valore condiviso e inalienabile. È con in mente i volti di queste persone e di tante altre che mi hanno testimoniato di riconoscersi in uno Stato fondato su alcuni principi fondamentali, che vi chiedo di nuovo: davvero, voi elettori di centrodestra, volete tutto questo?
Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, condizione che dovrebbe essere garantita a tutti.
Vorrei che ricordassimo sino in fondo qual è il valore della libertà di stampa. Vorrei che tutti coloro che scendono in piazza, lo facessero anche in nome di chi in Italia e nel mondo ha pagato con la vita stessa per ogni cosa che ha scritto e fatto a servizio di un'informazione libera.
In nome di Christian Poveda, ucciso di recente in El Salvador per aver diretto un reportage sulle maras, le ferocissime gang centroamericane che fanno da cerniera del grande narcotraffico fra il Sud e il Nord del continente. In nome di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova, ammazzate in Russia per le loro battaglie di verità sulla Cecenia, e di tutti i giornalisti che rischiano la vita in mondi meno liberi. Loro guardano alla libertà di stampa dell'Occidente come un faro, un esempio, un sogno da conquistare. Facciamo in modo che in Italia quel sogno non sia sporcato.
Fabio Fazio non ha dubbi: «C´è questo clima in televisione perché la politica pensa di essere proprietaria di tutto. Non è così». Da sabato torna su RaiTre con "Che tempo che fa", nel giorno della manifestazione della libertà di stampa. La rete per cui lavora è assediata; i toni diplomatici lasciano il posto a qualche battuta caustica.
Fazio, ha mai pensato veramente che non le avrebbero rinnovato il contratto?
«Mi è sempre parsa un´ipotesi eccessiva, salvo nelle ultime settimane».
Tutti i fucili sono puntati su RaiTre.
«C´è un annoso problema, si dà per scontato che la politica sia proprietaria del paese e i cittadini sudditi. Invece dobbiamo recuperare il diritto di cittadinanza, dettando a noi stessi l´agenda della nostra vita senza temere le conseguenze dei nostri gesti. Credo che fare servizio pubblico significhi confrontarsi onestamente dal punto di vista intellettuale, rispettando il pubblico. Poi pazienza se qualcuno non si confronta e attacca».
Quindi lei dice che vi attaccano per il solo fatto che esistete.
«Se uno si ritiene proprietario, ma io non mi ritengo proprietà di nessuno».
Cosa la offende?
«La violenza verbale di cui sono fatte oggetto persone, con nomi e cognomi, la rete per cui lavoro. Gocce d´odio che vengono instillate tutti i giorni, disgustose e temo pericolose, perché chi legge certe frasi, chi le ascolta, si abitua all´idea che sia un linguaggio accettabile. Non è possibile che il maggioritario invece di essere un sistema elettorale sia diventato una linea spartiacque: o con noi o contro di noi».
"Annozero" è finito nel mirino del governo.
«Fa parte dell´atteggiamento proprietario di cui sopra: l´idea che lo spazio pubblico, sia esso la televisione o la scuola, non sia quello del confronto di tutte le idee, ma lo spazio del potere da usare in una solo direzione. La negazione del servizio pubblico».
Sabato ci sarà la manifestazione per la libertà di stampa.
«La libertà di stampa è un valore fondamentale e un diritto da rivendicare giorno per giorno, se ti rendi indisponibile a fare compromessi, a obbedire. Non è obbligatorio dire sempre di sì».
L´hanno accusata di fare "domande accomodanti".
«Mi fa ridere: certi giornalisti piuttosto che fare una domanda si ammazzano, e rompono le scatole a me? Da Vespa nella serata col premier non si è sentita una domanda».
Viene considerata una persona cauta; Berlusconi parla di "partito di RaiTre".
«Non si può rinunciare al proprio carattere e alla buona educazione, uno non può sputare per terra per fare piacere agli idioti che hanno inventato il termine buonismo. Il partito di RaiTre non esiste, è una rete dove lavora tanta gente che non la pensa allo stesso modo. Ci sono programmi che possono dare fastidio, altri non sono graditi dai non elettori di Berlusconi. Non per questo se ne chiede la chiusura... È sempre il problema di pensare lo spazio pubblico proprietà privata. Invece io penso che si paghi il canone proprio perché quello spazio non sia proprietà di nessuno».
Che ha pensato quando hanno cancellato "Ballarò"?
«Mi è sembrato inutile oltre che sbagliato. L´azienda che ho conosciuto 27 anni fa non c´è più, questa non la conosco».
Chi vorrebbe come ospite?
«Il presidente della Camera Fini».
La terza fase del calcio, l´era dei nuovi stadi, è iniziata. Ieri mattina, ancora un passo avanti con la presentazione dell´impianto della Roma titolato a Franco Sensi, il presidente dell´ultimo scudetto, il padre di Rosella presidentessa in carica e contestata.
La terza fase, il calcio finanziariamente maturo, nasce per seppellire l’epoca dei diritti tv che, a sua volta, aveva lasciato nel giurassico il lungo evo in cui i club fondavano i bilanci sui biglietti venduti al botteghino. Il calcio maturo dovrà vivere di stadio e con lo stadio, sette giorni su sette, anche la notte. Vivrà di partite viste a ridosso dei giocatori e soprattutto di consumi all’esterno della struttura. Oggi il cliente-spettatore nei vetusti impianti italiani spende 50 centesimi a domenica: l’obiettivo è di arrivare a otto euro, media inglese.
La presentazione di ieri, a Trigoria, è la terza in tre anni. Nel 2007 venne rivelato il plastico del nuovo stadio della Juventus (cantiere oggi a metà dell’opera) e nel 2008 l’Eurodisney della Fiorentina (progetto, questo, da rifare dopo l’intervento della magistratura). L’accelerazione nell’autunno del 2009 dell’As Roma poggia su un evento politico consumato il 23 settembre scorso: alla commissione cultura del Senato è stata approvata all’unanimità la legge sugli stadi, presentata da Pd e Pdl insieme. Prevede una corsia preferenziale per chi costruisce - 10 mesi e arrivano tutti i pareri delle amministrazioni - più venti milioni l’anno per abbattere gli interessi alle società che chiederanno mutui. L’approdo dell’intera operazione è immaginato per l’estate 2016: la Federcalcio conta, grazie a nuovi e più sicuri stadi, di ottenere l’assegnazione dei campionati europei.
Oggi la situazione si presenta come una caccia all’oro, forsennata: 39 club italiani, tutta la serie A, ma anche il Casarano e il Gallipoli, si sono affacciate alla questione stadi. Uno studio presentato in Parlamento parla di un investimento globale e privato da 6 miliardi di euro, quasi il doppio della spesa pubblica ipotizzata per il Ponte di Messina, cinque volte i costi affrontati nel 1990 per i dodici stadi dello scandaloso Mondiale ‘90. Ventiquattro club hanno già presentato un plastico, un rendering. Scorrendoli, i progetti si scoprono interessanti: vecchie "nuvole" rianimate da archistar come Fuksas e stadi cangianti al sole come quello, appunto, della Roma dell’architetto Zavanella, già autore del nuovo Delle Alpi e di quattro minori. Lasciati i progetti, però, si scoprono corredi attorno allo stadio da "sacco del Duemila". Un’enorme speculazione travestita da futuro.
Se si prendono i dieci progetti più dettagliati, la somma delle aree interessate ai "nuovi stadi" è pari a 1.920 ettari: metà del territorio, per capire, su cui si produce tutto il vino della Basilicata. Ancora, la volumetria dichiarata dei tre disegni più importanti (Lazio più Roma più Fiorentina in ordine di impatto) è di 4 milioni di metri cubi di costruito, un terzo in più di ciò che si è edificato in Liguria negli ultimi sei anni. Ecco, lo stadio di proprietà italiano è una buona idea patrimoniale per sanare i bilanci in rosso dei nostri club e un segno architettonico forte della modernità, ma scatena appetiti mai sazi di imprenditori del calcio che si stanno affidando a rentier e palazzinari contando su amministrazioni pubbliche con le casse vuote e la necessità di consenso. Il rischio è lo stravolgimento di ampie aree della media periferia delle metropoli italiane.
Un esempio plateale è il progetto Lazio di Claudio Lotito: ci lavora dal 2004, vuole investirci 800 milioni. Su 600 ettari (la città di Amalfi) di proprietà del suocero Mezzaroma (costruttore) e accatastati come agricoli, Lotito vuole edificare: il nuovo stadio Delle Aquile con quattro ristoranti nei torrioni, tre campi di calcio esterni, uno per il calcio a 5, sei campi da tennis, uno da rugby, uno da football americano, uno per l’hockey su prato e uno per l’arco, un diamante per il baseball, una pista di atletica, quattro piscine, un palazzetto per basket e volley. Poi, gli uffici del club, il museo della Lazio, un centro commerciale su due livelli, un albergo a 4 stelle, parcheggi per 40 ettari e altri 25 ettari per un parco giochi. Sulla collina (che ha vincoli paesaggistici) Lotito immagina una cementata di villette. Per raggiungere questa nuova città a nord di Roma si prevede una nuova stazione, un nuovo svincolo autostradale, un approdo in battello sul Tevere. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in campagna elettorale aveva promesso due stadi privati ai club della capitale a costo zero per il Comune. Ora è imbarazzato. Il progetto Lotito insiste su un’area a rischio esondazione e il braccio destro di Alemanno, Claudio Barbaro, di fronte a questi volumi si è dimesso.
A Firenze Della Valle vuole costruire anche la downtown dello shopping e un parco a tema che si rifà al calcio fiorentino e ai lanzichenecchi. L’area di Castello, prescelta, è sotto sequestro: la magistratura non ha gradito i precedenti accordi tra il proprietario Ligresti e l’ex sindaco Leonardo Domenici. Il neosindaco Matteo Renzi ripropone la stessa area (a dicembre sarà libera) allargando gli spazi verdi: «In un mese decidiamo e in quattro anni si può fare tutto». Ligresti ha pronte le licenze per le sue case. Ecco, Maurizio Zamparini allo Zen di Palermo insieme allo stadio vuole costruire il centro commerciale più grosso dell’isola, ramo suo. E a Bologna il costruttore Menarini (Cogei), fallito il progetto Romilia, sta cercando un’altra area e nuovi soci con denaro fresco: a questo gli serve Luciano Moggi, ha promesso al presidente che tirerà dentro l’affare Flavio Briatore.
Un sindaco che nega l'autorizzazione a una manifestazione antimafia non si vedeva in Italia dai tempi di Danilo Dolci: è accaduto tre giorni fa a Fondi, provincia di Latina. Un partito di governo che cancella per decreto e per protervia la memoria di un caduto di mafia non si vedeva dai tempi in cui erano i fascisti a cancellare a manganellate la storia del paese: è accaduto a Ponteranica, provincia di Bergamo, una settimana fa. E poco importa che le camicie non siano più nere ma verdi: un partito che si mette in divisa alla fine è capace solo d'inventarsi ronde e di fregarsene della lotta a Cosa Nostra. Qualcosa sta accadendo nel paese.Qualcosa di più profondo e di più preoccupante dei festini di Berlusconi con le sue cortigiane. Qualcosa che ci interroga tutti, nessuno escluso: anche a sinistra. Sono i pensieri d'abitudine che accompagnano questi fatti, pensieri mesti e rassegnati di chi crede che siano solo bravate di provincia e non vale il caso di perderci il sonno che tanto i problemi sono altri, che con la lotta alla mafia non si riprendono i posti di lavoro perduti e che in piazza non ci si può andare sempre e solo a protestare, benedetti figlioli, ieri a Fondi, oggi a Ponteranica, domani chissà dove. Ci stiamo abituando ai nostri luoghi comuni, a considerare la memoria solo un puntiglio da orfani, ad aspettare che siano i processi a consegnarci ogni verità, a ritenere la questione morale una cosa ingiallita, da museo, da circolo dei civili. Ci stiamo abituando ai passi di danza di una politica con le unghie tagliate, a un’opposizione attenta solo alle buone maniere, ai toni accomodanti, alle cose da non dire. E invece alcune cose vano dette: non solo a Berlusconi, non solo al suo scudiero Dell' Utri.
Dov’era, ad esempio, il presidente della Commissione antimafia Pisanu mentre diecimila ragazzi a Ponteranica ricordavano il sacrificio di Impastato? Perché non ha speso una sola parola sulla sacrosanta richiesta del prefetto di Latina di scioglimento del comune di Fondi per infiltrazioni mafiose? Che senso ha presiedere - super partes - una commissione parlamentare sulla mafia e non trovare il coraggio civile per dire che il consiglio dei ministri da un anno ha dolosamente insabbiato la relazione di quel prefetto? Chi ha sentito profferir verbo al ministro dell'interno Maroni di fronte allo sciacallaggio della giunta di Ponteranica che ci ha mandato a dire: tenetevi i vostri morti di mafia, teneteveli in Sicilia, teneteveli fuori dalle nostre valli?
Vorrei dire, per una volta, che delle escort del signor presidente del Consiglio non me ne frega nulla e che questi silenzi mi sembrano perfino più colpevoli, più sordidi, più oscuri. Se vogliamo cambiare qualcosa in questo paese, rimbocchiamoci le maniche. Andiamo a rimetterla noi al suo posto la targa di Peppino Impastato. Occupiamo il comune di Fondi e quello di Paternò, giù in Sicilia, fino a quando il consiglio dei ministri non discuterà sul loro scioglimento. Piantiamo di nuovo il nostro ulivo: ma poi difendiamolo. Senza lamenti, senza vittimismi, senza chiedere permesso.