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Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.

Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale. E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s’era parlato addirittura di una "fuga della Corte", nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.

Nella decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non v’è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l’importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni. La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione. Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un "segno esteriore forte" della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, "possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna".

Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori. È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d’ogni diritto.

Non si può ricorrere, infatti, all’argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.

Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l’istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev’essere ancor più sincera». La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.

Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l’identità europea, che è "sintomo di una dittatura del relativismo", addirittura "un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti". Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato. Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una "corte europea ideologizzata", si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici "rossi", che tanti guai sta procurando al nostro paese. Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte "laicista" cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.

Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa. In questo è la sua superiore laicità. Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi. L’ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell’Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell’Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell’uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a "radici cristiane", che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l’Europa, anche intorno all’eguale diritto di tutti e di ciascuno. Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza?

Questa sentenza ci porta verso un’Europa più ricca, verso un’Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all’educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti. Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d’ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato). L’Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.

Ieri mattina splendeva un sole freddo su Grant Park, in riva al lago Michigan, un vero e proprio mare interno: quasi zero gradi sotto un cielo terso spazzato dal vento. In questo parco, un anno fa, il 4 novembre 2008, Barack Obama aveva celebrato la sua vittoria di fronte a una folla immensa tra la cui esultanza quasi incredula mi ero aggirato per cogliere l'irripetibilità del momento storico. A mezzogiorno di ieri invece gli attivisti di Chicago hanno chiamato a una manifestazione proprio per l'anniversario di quell'elezione. Quanto diversi i due raduni: l'uno, un anno fa, immenso, oceanico in una notte quasi calda, brulicante di umanità; l'altro sparuto, in una mattina fredda, nel centro città semivuoto durante le ore di ufficio. Ma anche lo stato d'animo è opposto. Un anno fa l'aspettativa, persino eccessiva, dell'«ora è tutto possibile», e insieme la fierezza di avere vinto. Adesso invece una prudenza ansiosa, l'urgenza di criticare e di spingere dal basso, frenata dalla volontà di non indebolire il presidente, di non mettergli i bastoni tra le ruote.

Colpiva ieri la cautela dei manifestanti, proprio perché questi militanti sono il nucleo duro del «popolo di Obama», di quelle centinaia di migliaia di attivisti la cui dedizione aveva reso possibile la vittoria del primo presidente nero della storia Usa. Un anno è periodo troppo breve per tracciare il bilancio di una presidenza, ma i tempi della politica americana sono così frenetici che già oggi i candidati stanno decidendo le strategie da adottare per le elezioni di metà mandato ( mid term ) che si terranno tra un anno esatto e che rinnoveranno la totalità della Camera dei deputati e un terzo del Senato. Per ora, il presidente ha una maggioranza comoda alla Camera e una netta (anche se non a prova di ostruzionismo) al Senato. Ma se i cittadini non saranno convinti da questo primo anno, i democratici potrebbero andare in minoranza al Congresso, rendendo così impraticabile qualunque riforma auspicata da Obama.

È il dramma della politica Usa: le elezioni non finiscono mai, visto che subito dopo quelle di mid term già incombono le primarie per le presidenziali del 2012. La domanda che ieri inquietava i dimostranti era: Obama ha davvero voltato pagina rispetto all'America di Bush? Sta davvero iniziando una nuova stagione per gli Stati uniti? Malgrado le inquietudini dei militanti Usa, la risposta è positiva, anche se con qualche cautela e alcune riserve. Il bilancio di questo primo anno di Obama va infatti articolato su diversi piani.

La dimensione simbolica Il primo, e decisivo, terreno su cui Obama ha davvero voltato pagina, è quello simbolico . Non si sottolineerà mai abbastanza quale rivoluzione mentale sia stata l'elezione di un presidente afroamericano in una paese in cui il razzismo è ancora fortissimo, anche quando è sotterraneo. Non solo: l'annuncio della chiusura di Guantanamo, la fine del programma di extraordinary renditions (rapimento e deportazione clandestina dei sospetti terroristi in paesi che praticano la tortura) sono stati il segnale più chiaro di un nuovo modo di concepire il ruolo della potenza americana. Il discorso al Cairo sui rapporti con l'Islam ha gettato alle ortiche ogni riferimento alla disgraziata idea dello «scontro di civiltà», all'atmosfera da «nuova crociata» che era invalsa sotto George Bush jr. Il metodo con cui in aprile e settembre Obama ha condotto i summit dei G20 a Londra e a Pittsburgh, ha reintrodotto nelle trattative internazionali quel multilateralismo tanto disprezzato da Dick Cheney. Né va sottovalutata, dal punto di vista simbolico, la sovraesposizione mediatica del presidente che si è posto sempre sotto i riflettori, sempre usando (e i critici dicono abusando) del suo carisma.

Anche in questo Obama ha voltato pagina, spendendo a piene mani il suo capitale politico. Di questo protagonismo e di questa svolta simbolica, il riconoscimento più sensazionale (e meno atteso) è stato il premio Nobel per la pace di cui è stato insignito a ottobre. La dimensione simbolica e la manovra economica sono i due terreni che hanno monopolizzato il primi tre mesi di presidenza. In quel periodo Obama si è spinto il più lontano possibile in tutti i campi in cui poteva procedere a titolo personale, a colpi di decreti ( presidential orders ), in cui non doveva dipendere da un'elusiva maggioranza al Senato: perché, se è vero che i democratici dispongono di 59 seggi su 100, è anche vero che almeno 6 dei loro senatori si situano più a destra di Attila, veri e propri reazionari in politica economica e sociale (come si vede sul terreno della riforma sanitaria).

Proprio ieri alcuni dati mostravano che si moltiplicano i segnali di ripresa (produzione industriale in crescita, profitti boom per la Ford, costruzione di nuove case in salita), anche se bisogna andarci cauti perché questi dati sono pompati dalla necessaria ricostituzione degli stock che erano stati svuotati e dagli incentivi al consumo, che presto o tardi s'interromperanno. Qualunque sia però il giudizio sulla manovra di Obama, un risultato positivo è certo: ha interrotto la spirale discendente che stava portando il mondo in uno spaventoso baratro economico. Le vittorie incerte Il rovescio della medaglia è che questo risultato è stato conseguito concedendo tutto e di più ai banchieri e alla finanza di Wall street, senza chiedere in cambio nulla, condonando tutte le loro malefatte, socializzando le perdite accettando che i profitti continuino a essere privatizzati. E soprattutto lasciando il mercato del lavoro in una situazione disastrata.

Obama e i suoi consiglieri sono rimasti prigionieri dell'idea liberista che, per far ripartire l'economia, bisogna finanziare i ricchi e sgravare i miliardari: da qui la rabbia di tanta sinistra Usa che si è sentita tradita dalla munificenza con cui la presidenza Obama ha ricoperto d'oro le banche mentre ha solo tamponato il disagio sociale: ma senza il pacchetto obamiano, metà degli insegnanti Usa sarebbero oggi per strada. La disoccupazione resta il nodo su cui l'anno prossimo gli elettori giudicheranno la sua presidenza: senza segnali di ripresa del mercato del lavoro, il disincanto si farà sentire. D'altronde solo un errore prospettico aveva permesso di non cogliere il vistoso appoggio fornito da Wall street alla candidatura di Obama. Più in generale, la sinistra Usa rimprovera a Obama il suo desiderio di piacere a tutti, di farsi accettare da tutti, la sua sincera aspirazione a un mondo bipartisan , e quindi la sua riluttanza ad andare allo scontro. Un desiderio niente affatto ricambiato dai repubblicani o dalla finanza che interpretano lo spirito bipartisan come pura remissività. Da quest'ansia per il consenso a ogni costo nascono tutti i problemi della politica obamiana.

Una qualche riforma sanitaria vedrà probabilmente la luce, ma a prezzo di una formulazione che tutti prevedono abborracciata e costosa: anche qui si tratta di vedere se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Già il fatto che una riforma sarà approvata è un risultato storico, dopo che da più di mezzo secolo tanti presidenti ci hanno provato invano. La sua formulazione ibrida e pasticciata può indicare però un'occasione persa. Per restare alla politica interna, anche sul tema dell'immigrazione Obama paga lo scotto del piede in due staffe, per cui non riesce a portare avanti la regolarizzazione dei clandestini, mentre deve rassicurare la frange xenofobe dell'elettorato punendo gli imprenditori che assumono immigrati in nero. Così Obama si sta alienando i latinos che costituiscono una delle fette più importanti del suo elettorato, senza per altro lenire l'ostilità dei conservatori che pretendono leggi leghiste. L'incapacità di andare allo scontro fa sì che in gran parte della politica estera la svolta sia rimasta più simbolica che reale, con la notevole eccezione dei rapporti con la Russia (con l'abbandono dello scudo spaziale in Europa orientale), e dell'America latina (con il netto miglioramento del clima con il Venezuela di Chavez e la Cuba di Raul Castro). Il discorso del Cairo non ha prodotto nulla sul conflitto israelo-palestinese su cui anzi si assiste a una progressiva acquiescenza di Washington alle tesi oltranziste del governo di destra di Netanyahu. E naturalmente su tutta l'area pesa l'incognita dell'escalation in Afghanistan: a tutt'oggi non è ancora chiaro se Obama avrà la forza di opporsi ai desiderata dei suoi generali che chiedono l'invio di altri 40.000 soldati, o se, per tenere buoni tutti, accetterà di mandare rinforzi, anche se non tutti quelli richiesti.

A un compromesso ci è già arrivato con i servizi segreti quando ha in pratica messo in cantina l'idea di abrogare il Patriot Act, la legge liberticida approvata l'indomani dell'11 settembre 2001, e quando ha rimandato alle calende greche l'idea di chiudere le altre prigioni clandestine, come quella di Bhgram in Afghanistan (Guantanamo invece pare proprio che sarà chiusa). Insomma, su tutti i punti su cui dovremo valutare la presidenza Obama il risultato è incerto: la partita è ancora aperta su disoccupazione, immigrazione, pace in Medio oriente, disimpegno da Iraq e Afghanistan (in Iraq sono destinati a restare più di 50.000 soldati dopo il «ritiro totale» del 2011). L'unico equivoco definitivamente chiarito è quello in cui era caduta la sinistra mondiale che aveva investito Obama di attese messianiche, addirittura rivoluzionarie, quasi che gli Usa avessero eletto un presidente antiamericano, una sorta di Gorbaciov statunitense che distruggesse dall'interno il suo impero. Ma a differenza che in Urss, negli Usa un siffatto leader verrebbe cancellato subito, con uno scandalo o una pallottola. E in realtà lo scopo più volte dichiarato di Obama è di rafforzare la potenza Usa, di fare in modo che anche il XXI sia un «secolo americano».

Solo che aspira a «un impero del bene», crede sinceramente che il modello americano possa portare pace prosperità al mondo. Ambisce a essere il leader del capitalismo buono. Più di questo non gli si può, anzi è sbagliato chiedere, ed è già tanto se riuscirà a realizzare almeno una parte del suo progetto.

«Andate via», urla il guardiano uscito da un casotto prefabbricato, in cima a un´altura. Non sono le tombe di Tuvixeddu che sorveglia, i duemila sepolcri che vanno dall´età punica a quella imperiale, ma i cantieri disseminati in quest´area archeologica fra le più pregiate del Mediterraneo. A Tuvixeddu si costruisce. Le prime palazzine nella necropoli stanno sorgendo lungo via Is Maglias. Sono edifici di sei piani, un assaggio della colata di cemento che potrebbe sversarsi intorno alla collina che si erge nel cuore della città. Annullati dal Consiglio di Stato i vincoli che la giunta regionale di Renato Soru aveva imposto, gli edifici vengono su a poche decine di metri dal punto in cui si concentra la maggior parte delle sepolture, in una zona compresa nell´area archeologica, dove gli studiosi ritengono possano esserci altre sepolture, che resterebbero per sempre inesplorate.

Il guardiano caccia chiunque si avvicini. Come se le tombe non fossero un oggetto degno di visita. In totale i metri cubi previsti fra Tuvixeddu e il colle alle sue spalle, Tuvumannu, sono 260mila, grosso modo una cinquantina di palazzi. Un quartiere residenziale con vista su una delle pochissime sopravvivenze di archeologia punica, che finirebbe assediata e che invece respirerebbe, come insegna l´abc della valorizzazione, se fosse circondata da una zona di rispetto. Senza palazzi e senza niente. Solo brani di quel paesaggio aspro, ma ricco di una vegetazione che sfoggia orchidee, fichi d´india e piante di capperi.

Tuvixeddu è vilipesa da anni, trasformata in una discarica. Vi si accede intrufolandosi fra i palazzi, senza un accesso, senza un´indicazione, attraverso una rampa che da via sant´Avendrace sbuca in un cementificio abbandonato. E da qui ci si arrampica, fino a che non spunta il guardiano. La necropoli sembra un corpo estraneo alla città, poco conosciuto, mal tollerato. Oltre alle case, in fondo alla stretta gola di un canyon che sta ai bordi della collina, una specie di spettacolare fiordo senz´acqua, scorrerà una strada a due corsie che aggirerà la necropoli e si infilerà in un tunnel. La collina fu scelta come luogo di sepoltura nel VI secolo a. C., dopo la conquista della Sardegna da parte dei cartaginesi. E venne usata fino ai primi secoli dopo Cristo. L´altura sorge di fronte allo stagno di Santa Gilla, luogo delicatissimo oltre il quale c´è il mare. Ma di questo affaccio non si conserverà traccia, dato che fra il colle e lo stagno stanno ergendosi altri tre edifici che sfiorano i 500mila metri cubi e che occluderanno la vista del mare da Tuvixeddu e di Tuvixeddu dal mare.

All´assedio dei palazzi si oppone la Direzione regionale dei beni culturali, retta da Elio Garzillo. Si sono mobilitati intellettuali come lo scrittore Giorgio Todde e archeologi come Simonetta Angiolillo, Alfonso Stiglitz e Giovanni Lilliu. In prima fila Maria Paola Morittu di Italia Nostra, e Legambiente. Sono venuti a Cagliari gli inviati del Times e della Süddeutsche Zeitung. Ma gli strumenti a disposizione di chi difende Tuvixeddu non sono tanti. Nell´agosto del 2008 il Consiglio di Stato ha bocciato il vincolo della Regione e il Comune di Cagliari (che è sempre stato favorevole alla lottizzazione, sostenendo che in cambio delle case sarebbe stato realizzato un parco archeologico) ha rilasciato i nullaosta per costruire. Nullaosta a loro volta cancellati dall´allora soprintendente Fausto Martino. Ma contro questo provvedimento è stato presentato ricorso al Tar da parte dei costruttori. E il Tar ha dato loro ragione. Per novembre si attende la sentenza definitiva del Consiglio di Stato, che potrebbe dare il via libera alle edificazioni. Con il rischio che altre tombe facciano la fine delle quattrocento sepolture trovate dagli operai che lavoravano alle fondazioni di una mezza dozzina di edifici sorti nel 2000. Quelle tombe vennero segnalate, catalogate e poi seppellite per sempre da migliaia di metri cubi di cemento.

Nota

Eddyburg ha seguito con attenzione e partecipazione la vicenda di Tuvixeddu-Tuvumannu. Sono decine, a partire dal gennaio 2005, i documenti e gli articoli inseriti. Appena avremo tempo li raccoglieremo in un’apposita cartella. La maggior parte sono nella cartella “SOS - Sardegna”, ma li potete vedere anche lavorando sull’elenco che vi comparirà inserendo il nome “Tuvixeddu” nella finestra “cerca” di eddyburg, in cima a ogni pagina.

C’è allarme, da qualche tempo, su Obama e il suo cambiamento. Aumentano gli scontenti, specie nella sua base. Crescono campagne d’odio, in un partito repubblicano divenuto semi-fascista. Si moltiplicano le accuse di scarsa fermezza, sveltezza. Il cambiamento promesso il giorno dell’elezione, il 4 novembre 2008, ancora non si vede del tutto. Spesso pare smentito: su sicurezza e libertà, il Presidente è sospettato di proseguire, intimidito, alcuni costumi di Bush. Ciascuna di queste accuse ha una sua ragion d’essere. Ma tutte sembrano come cieche, incapaci di vedere la profondità della crisi americana e la tenace volontà con cui il Presidente l’affronta, non schivando pericoli e ostacoli ma andando ogni volta lì dove le loro radici sono più potenti, per studiarle e smontarle.

Quel che i critici non vedono è al tempo stesso la forza delle resistenze al cambiamento, i mali troppo antichi per esser sveltamente sanati, e il mutamento già avvenuto del clima mondiale. È come fossero impermeabili alla pedagogia della verità inaugurata da Obama sin dal primo giorno: «La strada è lunga e ripida, disseminata di sconfitte e inciampi. Non arriveremo alla meta in un anno, e forse neppure in quattro».

Obama si trova a guidare un paese che è, da molti punti di vista, la terra desolata di T.S. Eliot: un cumulo di immagini infrante.

È sempre ancora il paese più inventivo, e «la sua influenza resterà molto grande rispetto alla modestia della sua condotta», dice Kissinger. Ma la caduta, non solo economica, è tangibile. La Cina che diventa il primo creditore degli Stati Uniti, il dollaro che diffonde instabilità perché riflette la crisi di una sola nazione pur restando moneta mondiale, son segni di un equilibrio internazionale che si ricostruisce su basi diverse - un po’ come in Europa prima del ’14 - con l'America che non è più l’unica, la più sana, la più esemplare delle potenze. Le guerre di Bush contro il terrore volgono al fallimento, non solo in Iraq da cui Obama s’è ritirato. L’esitazione del Presidente sull’aumento di truppe in Afghanistan è segno di serietà: l’appoggio al regime corrotto di Karzai ha avuto come risultato la conquista talebana di oltre metà Afghanistan, e un’insurrezione antiamericana ormai disgiunta da taleban e Al Qaeda. Senza Obama, Karzai non sarebbe stato costretto a rifare le elezioni che aveva truccato.

Viene poi il disastro mentale, culturale: il disastro di un nazionalismo che ha radici secolari, e più volte è divenuto malattia acuta, apocalittica convinzione d'esser sempre nel bene trionfante. L’ideologia messianico-affaristica di Bush non è che l’apice di un'onda lunga, che risale alla seconda metà dell’800, e che vede nell’America una nazione eletta a guidare il mondo, la lucente città sulla collina che redime e rieduca la terra peccaminosa perché tale è il suo destino manifesto. Obama fa i conti anche con questa tradizione, che ha avuto come epigono farsesco Bush jr. e s’è impersonata in Wilson nel ’14-18, in Reagan negli Anni 80.

Anche qui non siamo che agli inizi, e Obama ha cominciato l'opera con un’ambizione più grande ancora di quella di Roosevelt, prima del ’39. Allora Washington rispose al collasso economico con il protezionismo, l’isolazionismo. Obama affronta ambedue i collassi, e proprio nel momento in cui cura il paese apre al mondo. Stabilisce un nesso fra le due crisi - sul piano interno una democrazia parlamentare corrosa dalle lobby e un potere esecutivo screditato da continue trasgressioni della legge e della costituzione; sul piano esterno il tracollo del prestigio Usa - e con atti e parole mostra di volerle combattere confutando certezze fin qui incrollabili.

Prima certezza messa in questione: quella di esser nel giusto, sempre. Una certezza smisuratamente dilatata dopo la guerra fredda. Sicure d’aver vinto grazie alla loro egemonia culturale, economica, politica, tre amministrazioni hanno dimenticato una verità elementare: è molto più facile per il vinto imparare dalle sconfitte, che per il vincitore apprendere dalla vittoria. Vincitrice, l’America ha smesso nell’89 di pensare, senza costruire il dopo. Negli anni dello scontro con l’Urss era stata la guida del mondo libero. Caduta l’Urss ha voluto divenire guida del mondo, quello libero e quello da liberare: potenza che non tollera rivali, persuasa d'esser sempre, sola, nel giusto. I neo-conservatori hanno perfino vagheggiato la replica dell’impero romano. Le abitudini della guerra fredda, che avevano favorito la sconfitta dell'avversario, son divenute vizi che frenano ogni capacità di capire il mondo e ridisegnarlo. Anche qui, il clima è mutato e risultati si vedono: in Iran, Iraq, nei discorsi sull’Islam, negli impegni su disarmo nucleare e clima, nel taglio ad alcune spese militari.

Obama è figlio dei movimenti civili che infransero il mito nazionalista del faro di libertà. È l’erede di chi lottò contro la guerra in Vietnam e l’odio razziale. Anche per questo suscita repulsioni così violente, non per quello che fa ma per quello che è e dice: sul rispetto dell’altro, del diverso. Per come ha commentato, mercoledì, la legge contro i crimini fondati sull’orientamento sessuale.

Il tempo della delusione forse verrà, se deve. Ma in una battaglia appena iniziata è insensato dar per scontata la disfatta, trasformare la speranza in vizio, e decretare già ora che il Presidente non si libererà da quella che lo storico Anders Stephanson chiama la «sovranità globale», la chimerica predestinazione americana al bene (Destino manifesto, Feltrinelli 2004). Sino a oggi, in fondo, l’America non aveva vissuto quel che l'Europa ha sperimentato nel ’45: la scoperta inorridita di sé, della propria insolenza nazionalista, e la svolta che rappresentò l'abbandono - tramite l’Europa unita - della sovranità assoluta degli Stati. Anche se non ha davanti a sé città annientate, l'America conosce un tracollo mentale non diverso.

Ma è un bivio difficile, perché antichi sono i mali, e lenta la cura. La coalizione di interessi che blocca il cambiamento è portentosa. Perché non continuare a spendere e arricchirsi come in passato, lasciando i deboli a terra, visto che comunque resteremo i primi nel mondo e che non si vedono in giro città rase al suolo? Questa la doppia presunzione, interna e mondiale, che ha visto nascere una superpotenza solitaria con i piedi d'argilla, perché dotata di un modello sociale che lascia più di 30 milioni di americani senza protezione sanitaria.

Resistono le lobby, le assicurazioni private, e quello che Eisenhower chiamava il complesso militare-industriale. Per questo è già un progresso grande: la riforma sanitaria è difficile, per quarant’anni è stata impossibile, e tuttavia Obama la farà. Smettere le guerre e tornare al multilateralismo è lento, eppure qualcosa già si muove.

Molto dipende da come son vissute in casa le mutazioni, e questo non vale solo per l'America.

Lo vediamo anche in Italia: i cambiamenti sono visti come qualcosa che spetta ai governi, non al cittadino che dopo il voto si scopre responsabile. Le società non sono traversate da grandi movimenti civili. L'America di Johnson abolì la segregazione razziale perché spinto da una corrente vasta che mai si scoraggiò. Obama non ha alle spalle simili movimenti ma una società più inerte, atomizzata, capricciosa.

Anche l’Europa può molto. Può mostrare che il suo modello di sovranità condivisa è la via. Anche per questo è un bene che la candidatura di Blair alla presidenza stia tramontando. Non tanto perché ha partecipato alla guerra in Iraq, ma perché l’Inghilterra è l’unica nazione importante, in Europa, che non ha rinunciato al mito, menzognero ormai anche per gli Stati Uniti, della sovranità assoluta. È un bene che Helmut Schmidt, il grande vecchio, abbia detto il vero: sarebbe pericoloso se un antieuropeo, per di più carismatico, diventasse il nostro portavoce in un’America che sta cambiando.

Mancano pochi giorni all’anniversario della caduta del muro di Berlino. Ma, vent’anni dopo, l’entusiasmo non è più lo stesso. Anche se il 1989 ha segnato il nostro tempo. Perché quel muro marcava una divisione al tempo stesso geopolitica, economica, ideologica. Fra sistemi democratici e regimi comunisti, liberismo e dirigismo. Fra mercato e statalismo. La sua caduta ha prodotto effetti violenti. Anche da noi. In Italia. Il regime più socialista dell’Occidente. Visto l’intreccio fra economia, politica e stato. Il muro, in Italia, è crollato qualche anno dopo. Nel 1992. Ha seppellito la prima Repubblica. Il partito comunista più importante dell’Occidente costretto a cambiar nome, pelle e identità. I partiti di governo, spazzati via da Tangentopoli, ma anche dalla fine della rendita di posizione garantita dall’anticomunismo.

Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, quindici anni dopo il crollo della prima Repubblica, l’emozione si è un po’ raffreddata. Non solo per effetto del tempo, della routine. È l’impressione che altri muri siano sorti al loro posto. Alcuni, negli stessi luoghi del passato. Anzitutto, il comunismo. In Italia non se n’è mai sentito parlare così tanto come da quando non c’è più. Comunisti. Tutti coloro che stanno a sinistra. Di Berlusconi. Anzi: tutti quelli che sono contro di lui. D’altronde, il suo successo politico si deve anche – e in buona misura – a questo. Aver tenuto vivo l’anticomunismo senza – e dopo – il comunismo. Al posto del muro di Berlino: il muro di Arcore. Per costringere l’elettorato di centrosinistra dentro gli stessi confini del Fronte Popolare nel 1948. Anche se da allora è cambiato tutto, nella politica e nella società. Proprio per questo, però, le passioni si scatenano – talora – più violente di prima. Perché non sono in gioco diverse idee della storia e del futuro. Ma stili di vita, opinioni, valori che riguardano la vita quotidiana. E al posto dei partiti ci sono le persone. I leader. Pubblico e privato: senza soluzione di continuità. Sotto gli occhi di tutti. Comunicati sui media. Per cui le differenze vengono ribadite, gridate. Scavano solchi profondi. Mentre ieri erano (auto) evidenti e riconosciute.

Il muro di Berlino. È crollato insieme allo statalismo e al trionfo del mercato e del privato. Ma oggi, dopo il disastro della finanza globale, in Occidente si assiste al ritorno dello Stato. Invocato dovunque e soprattutto in Italia. Per proteggere i settori sociali colpiti dalla crisi. Sempre più ampi. Ma reclamato anche dagli attori del mercato stesso. Gli imprenditori. Perfino le banche. Cosa farebbero senza il soccorso dello Stato?

E poi gli Stati nazionali. La fine del muro di Berlino ne annunciava la crisi. Insieme ai confini. Parallelamente al rafforzarsi di altre – e nuove – entità sovranazionali. Sono sempre lì. Evocati e invocati. Attenti a rivendicare la loro autorità. All’interno dei loro confini. Per quanto cambiati profondamente, rispetto a vent’anni fa. Si veda la "grande" Germania ri-unita. Così pronta a tutelare il proprio interesse nazionale.

Certo, il crollo del muro ha allargato ad Est le frontiere d’Europa. Ci ha avvicinati all’Oriente. E ha favorito il flusso di milioni di cittadini. Attraverso confini sempre più aperti. E noi, impauriti dal numero crescente degli immigrati: ci fingiamo "padroni a casa nostra". Invochiamo altri muri. Nuovi muri. Per terra e per mare. Ma, soprattutto, erigiamo nuovi confini davanti e intorno a noi. Preferiamo non vedere. Non confonderci. Con gli stranieri: che restino tali.

La caduta del muro di Berlino, vent’anni fa. Ha allungato la nostra storia recente. Ci ha ributtato indietro, ben oltre gli anni Ottanta. Fin dentro agli anni Settanta. Con cui non abbiamo mai saputo fare i conti. Così, quarant’anni dopo, abbiamo abbattuto anche il muro del Sessantotto. Liquidato senza rimpianto da molti critici. Talora, gli stessi protagonisti di quella stagione. Non ce n’era bisogno, in realtà. Il Sessantotto era già finito da tempo. Ma al suo posto è emerso l’antisessantottismo. Di chi invoca il ritorno dell’autorità perduta. Dei padri e dei professori. Delle istituzioni e dei valori della tradizione.

Nuovi muri. Che, paradossalmente, ridimensionano trasformazioni sociali e conquiste civili importanti, che parevano irreversibili. Basta pensare alla divisione di genere. Tante lotte e tante contestazioni. Nel privato e nel pubblico. Il femminismo. Le pari opportunità. Contro la segregazione femminile nelle carriere. Nel lavoro, nelle professioni. Contro l’immagine della donna-oggetto. Per ritrovarci, oggi, in un paese di veline. Dove le misure che contano, per le donne, non riguardano certo il quoziente intellettivo. Dove la sessualità è esibita come segno di potere. Usata come merce sui media. Dove si ironizza su Rosy Bindi, «più bella che intelligente». Neanche cinquant’anni fa…

Fra tanti nuovi muri che sorgono intorno a noi, solo uno pare definitivamente crollato. Quello fra le generazioni. Padri e figli. Professori e studenti. Anziani e giovani. Duro da scalare, per i ragazzi. Marcava il cambiamento. L’innovazione sociale. Oggi non c’è più. Perché i ventenni, nati nel 1989 (come il mio figlio maggiore), sono impegnati ad affrontare il loro eterno presente. Precari per definizione. In bilico. Senza passato e senza futuro. E senza territorio, vista la loro confidenza con le tecnologie della comunicazione ("Info-nauti", li hanno definiti nei giorni scorsi Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico su Repubblica.it). Mentre gli adulti latitano e i vecchi sono scomparsi. Vista l’ostinazione con cui insistiamo a dirci tutti – eternamente – giovani.

Così, vent’anni dopo, è difficile non cogliere un po’ di nostalgia. Del Muro. Quand’era uno solo. Visibile. A modo suo, rassicurante. Capace di separare il giusto dall’ingiusto e il bene dal male. Mentre oggi che è crollato – e il mondo è più largo e più aperto – incontriamo muri ovunque. Piccoli e invisibili. Siamo noi stessi a costruirli. Per bisogno di riconoscerci. Per paura di perderci. Per paura.

Uno dei quesiti messi in evidenza dalla sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano è se il capo del governo sia, in Italia, un primus inter pares oppure un primus super pares . In nome della «costituzione formale» (il testo della costituzione vigente) la Corte ha ribadito che è un «primo tra pari». Ma in Italia viene invece diffusa l’idea che la costituzione formale sia oramai superata da una «costituzione materiale » per la quale Berlusconi incarna la volontà della maggioranza degli italiani; il che gli attribuisce il diritto, in nome del popolo, di scavalcare, occorrendo, la volontà degli organi che non sono eletti dal popolo (tra i quali la Corte costituzionale e il capo dello Stato). Ora, la distinzione tra costituzione formale e costituzione materiale, e cioè la prassi costituzionale, è una distinzione largamente accolta dalla dottrina. Ma si applica al caso in esame?

Precisiamo bene la tesi. Intemperanze verbali a parte, la tesi di fondo di Berlusconi è che lui ha il diritto di prevalere su tutti gli altri poteri dello Stato (questione di diritto), perché lui e soltanto lui è «eletto direttamente dal popolo» (questione di fatto). Va da sé che se l’asserzione di fatto è falsa, anche la tesi giuridica che ne deriva risulta infondata. Allora, Berlusconi è davvero un premier insediato «direttamente » dalla volontà popolare?

Per Ilvo Diamanti questa asserzione è «quantomeno dubbia» perché è smentita da tutti i dati dei quali disponiamo. Purtroppo è vero che sulla scheda elettorale viene indicato il nome del premier designato dai partiti (un colpo di mano che fu a suo tempo lasciato incautamente passare dal presidente Ciampi); ma il fatto resta che il voto viene dato ai partiti. Pertanto il voto per Berlusconi è in realtà soltanto il voto conseguito dal Pdl. Che ha ottenuto nel 2008 (cito Diamanti) «il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Insomma, intorno a un terzo del 'popolo'». Aggiungi che in questa maggiore minoranza (o maggioranza relativa) sono inclusi i voti di An, in buona parte ancora fedeli a Fini; e che se guardiamo agli anni precedenti FI non ha mai superato il 30%. Deve anche essere chiaro che il voto per FI, e ora per il Pdl, non equivale automaticamente ad un voto per Berlusconi. Una parte degli elettori di destra vota contro la sinistra, non necessariamente per Berlusconi. Fa una bella differenza.

Dunque la tesi del popolo che si identifica, quantomeno nella sua maggioranza assoluta di almeno il 51%, con un leader che vorrebbe onnipotente (o quasi), è di fatto falsa. Chi la sostiene è un imbroglione oppure un imbrogliato. E questa conclusione è dettata dai numeri.

Ciò fermato, torniamo alla costituzione materiale. In sede di Consulta gli avvocati di Berlusconi hanno sostenuto che per la costituzione vivente (come dicono gli inglesi) il principio che vale per Berlusconi è che sta «sopra », che è un primus super pares . E siccome è possibile che questa formula l’abbia inventata io in un libro del 1994, mi preme che non venga storpiata. Io l’ho usata per precisare la differenza tra parlamentarismo classico e la sua variante inglese e anche tedesca del premierato. Ma in Italia il fatto è che questa variante non è mai stata messa in pratica. E dunque in Italia non c’è differenza, a questo proposito, tra costituzione formale e costituzione materiale. Come dicevo, la tesi del premierato di Berlusconi voluto dal popolo è seppellita dai numeri. Sul punto, il punto è soltanto questo.

A ben vedere nella nostra Italia siamo a una crisi dello Stato, non dico dello stato democratico, ma dello stato in quanto tale. Provo a segnalarne i sintomi. Mai in Italia, a mia memoria, c'era stata una grande manifestazione di protesta della polizia. Cortei e slogan contro il governo e i suoi ministri. E ora si «sospende» il parlamento. Mai, almeno in queste forme, c'era stato un conflitto così esplicito e violento tra il governo e la magistratura, tra l'esecutivo e il potere giudiziario (il potere legislativo, allo stato attuale, è un non potere e questo aggrava la situazione).

Una crisi dello stato è - è stato sempre - un affare serio, dal quale di solito si esce o con una rivoluzione o, com'è probabile, dati i tempi, con una controrivoluzione, con una messa in frigorifero della democrazia. Preoccupa così non poco che sia stata decisa la sospensione del parlamento per dieci giorni perché il governo deve aggiustare la riforma finanziaria per la quale ha fatto solo promesse. Mai come in questi tempi è stato così evidente il rapporto tra crisi della politica, dei grandi obiettivi e ideali, e crisi della democrazia. Senza democrazia la politica si riduce ad affari privati di gruppi di potere, e questa caduta in basso della politica mortifica, porta sempre più in basso il valore della democrazia.

In questa situazione anche la caduta di Berlusconi (magari per la scarlattina) fa prevedere, temo, un ulteriore disordine con esiti deboli e autoritari e potenzialmente molto più autoritari nella debolezza crescente della politica e della democrazia. Un potere legislativo debole e burocratizzato, con la polizia che scende in piazza per protestare e la magistratura sotto attacco di un esecutivo personalizzato - in una persona malata - non annunciano niente di buono. A meno che queste proteste democratiche dentro lo stato non si saldino con le nuove emergenze e istante sociali.

Ps. I magistrati accusati da Berlusconi di essere comunisti hanno replicato affermando che le loro toghe sono rosse sì ma del sangue versato nell'adempimento del loro dovere. Verità sacrosanta. Ma, vorrei aggiungere: comunisti non è un insulto. È una lunga storia che non è finita e noi del manifesto che continuiamo a definirci «quotidiano comunista» non pensiamo affatto di autoinsultarci.

I giudici e i giornalisti lo fanno impazzire. Quelli che fanno il loro mestiere naturalmente, certo. Quelli che non può comprare. Li chiama comunisti, termine che usa come insulto dunque non è possibile rispondergli con ragionevolezza ferma che il comunismo non c’entra con l’esercizio di una funzione di controllo o meglio c’entra, ma sarebbe un discorso inaffrontabile con uno che considera «una vecchia storia» quella degli anni Novanta (le stragi di mafia, Mangano lo stalliere di Arcore, la trattativa, avete presente?). Le origini della storia politica contemporanea di questo paese non sono un tema di cui dibattere con Berlusconi. Non gli interessa. Gli interessa solo la sua personale vicenda e difatti è solo sui suoi processi che perde il controllo. La conferma della sentenza Mills, l’avvocato che ha mentito per salvare il premier ed è per questo stato ricompensato con 600 mila euro. Ricompensato, corrotto. Che se ne parli: non lo tollera. Chiama in diretta in tv per urlare che l’emergenza del paese sono i magistrati comunisti di Milano. Non, per restare solo ai temi trattati in quel programma, l’imprenditore che dice «sono un disoccupato che lavora». Non l’eventuale abolizione di una tassa che serve a finanziare il servizio sanitario, quel che ne resta. Non i suoi legami con Putin (tecnicamente, lui sì, un comunista) e con Gheddafi, un dittatore, gli unici due capi di stato mondiali con cui intrattenga rapporti: di affari, certo. No, nessuno di questi punti toccati a Ballarò è per il premier un problema degno di replica. Lo è la sentenza che lo riguarda. I giudici comunisti e chi ne parla. Dunque un attacco a Giovanni Floris di incredibile violenza con il consueto corollario - il refrain di tutti gli editti - sul servizio pubblico occupato - da chi? - dai comunisti. Preoccupa. Ogni volta che Berlusconi ha additato un giornalista come nemico costui è stato rimosso tempo sei mesi. Nei giornali e in tv. O è preveggente o c’entra qualcosa.

Era imbarazzante l’altra sera assistere allo spettacolo di due ministri maggiordomi: prego prego presidente le cediamo il nostro tempo e le nostre parole. Le nostre opinioni, il posto, il cappotto, quello che vuole. Era mortificante non poter ribattere alle risposte del premier. Non c’è replica, quando risponde: ha sempre l’ultima parola. Quel che è chiaro è che certi "comunisti" - noi dell’Unità, Floris, Rosy Bindi allieva di Vittorio Bachelet - devono sparire. Deve sparire la libertà di parola. La museruola è pronta, Susanna Turco e Claudia Fusani raccontano quello che ci aspetta. La vendetta contro ipm e i giornalisti comunisti si consumerà tra poche settimane: a fine novembre le nuove norme sulle intercettazioni potrebbero essere legge dello stato. Un testo che sarebbe un certificato di morte per centinaia di indagini comprese quelle su mafia e terrorismo. Leggete, riascoltate on line che cosa ha detto al nostro giornale Armando Spataro solo alcuni giorni fa. Chiunque abbia a cuore l’Italia deve reagire adesso. Prima che la struttura dello Stato venga giù come un palazzo durante un terremoto. Dopo si potrà solo piangere. I comunisti e tutti gli altri: il danno sarà uguale per tutti. Non aspettiamo le macerie, coraggio.

Via libera del consiglio dei ministri al ddl Gelmini sull'università: la figura del ricercatore diventa a tempo determinato, cambiano le modalità di elezione dei rettori. Studenti e docenti sul piede di guerra.

Ricercatori solo a tempo, nel limbo l’attuale precariato. Senato accademico svuotato di poteri effettivi e studenti “infilati” ovunque, ma solo come operazione di facciata. Test di accesso persino per le borse di studio per il merito, un fondo a cura dell’Economia e non dal Miur. Riscrittura degli Statuti, pena il commissariamento e ore dei prof certificate e verificate. Ecco la riforma della Gelmini. Meno democrazia e più potere al Cda con l’ingresso delle aziende private e ai rettori. E la protesta dell’Onda è già dietro l’angolo. Un disegno di legge di riforma in 15 articoli che dopo il via libera del Consiglio dei ministri comincerà il suo iter al Senato, affinché il ddl Aprea sull’istruzione in fondazione possa avere una corsia privilegiata.

NUOVI STATUTI O COMMISSARIAMENTO Entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge le università statali dovranno modificare i propri statuti, rispettando vincoli e criteri: ridurre le facoltà, massimo 12 negli Atenei più grandi e i dipartimenti. Le università vicine possono federarsi. E ancora: personale esterno nei nuclei di valutazione, snellire i componenti del Senato accademico e dei Cda. Se la governance non verrà rivista, 3 mesi di deroga, poi il commissariamento.

CDA CON DENTRO I PRIVATI Sarà aperto al territorio, enti locali e mondo produttivo il consiglio di amministrazione. Attribuzione al Consiglio di amministrazione delle funzioni di indirizzo strategico, competenze sull’attivazione o soppressione di corsi e sedi. Il Cda sarà composto di 11 componenti, incluso il rettore e una rappresentanza elettiva degli studenti. Il mandato sarà di 4 anni, quello degli studenti solo biennale. Scompare la figura del direttore amministrativo e subentra quella del direttore generale con compiti di gestione e organizzazione dei serviti, Un vero manager. Il Cda non sarà elettivo, ma fortemente responsabilizzato e competente, con il 40% di membri esterni. Il presidente del cda potrà essere esterno. Il direttore generale avrà compiti di grande responsabilità e dovrà rispondere delle sue scelte, come un vero e proprio manager dell’ateneo.

FONDO PER IL MERITO Istituito presso il ministero dell’Economia (e non dell’Istruzione) il fon-do per «sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti». La gestione è affidata a Consap Spa. Erogherà borse e buoni ma non a pioggia: per accedere bisognerà partecipare a test nazionali.

RECLUTAMENTO PROF. Per i docenti arriva l’abilitazione nazionale di durata quadriennale assegnata sulla base delle pubblicazioni da una commissione sorteggiata tra esperti nazionali e internazionali. Solo chi ha l’abilitazionepuò partecipare ai concorsi di Ateneo che avverranno sulla base di titoli e del curriculum con i bandi pubblicati anche sul sito della Ue e del Miur.

RICERCATORI SOLO A TEMPO Niente più concorsi per i ricercatori a tempo indeterminato. Solo contratti a termine di 3 anni rinnovabili con selezioni pubbliche. Dopo il 3° anno lo studioso può essere chiamato dall’Ateneo per un posto docente.

BILANCI TRASPARENTI Verrà introdotta una contabilità economico- patrimoniale uniforme, secondo criteri nazionali concordati tra i ministeri dell’Istruzione e del Tesoro. Debiti e crediti saranno resi più chiari nel bilancio. È previsto il commissariamento per gli atenei in dissesto finanziario.

LARGO AI PRIVATI

DECIDERANNO SU TUTTO

Le perplessità dei tecnici, i dubbi sul ruolo delle Fondazioni Il rischio di avere anche 600 docenti per facoltà. E su tutto anche le parti condivise, l’incubo dei soldi, che non ci sono

Senza soldi non si canta la Messa, è il detto. E senza soldi la decantata riforma dell’Università varata ieri andrà da nessuna parte, secondo gli esperti. Una riforma che introduce pesantemente nella gestione il ministero dell’Economia, senza che sia chiaramente definito il margine di competenze, rispetto a quelle del ministero dell’Istruzione, Università e ricerca. Il rischio vero è che si riduca l’autonomia universitaria, dal momento che sono aperte le porte all’ingresso di privati nei consigli di amministrazione. E nella foga propagandistica di ridurre i corsi universitari, si limita a dodici il numero di facoltà sia negli atenei delle grandi città che in quelli più periferici con meno iscritti.

Secondo Rino Falcone, ricercatore dell’Istituto Scienze e tecnologie cognitive del Cnr, membro del coordinamento dell’Osservatorio della Ricerca, già collaboratore del ministro Fabio Mussi, ci sono parecchi punti di criticità nella riforma Gelmini (o meglio, Gelmini-Tremonti, con relativi complimenti paternalistici del secondo ai «giovani ministri crescono»). Falcone osserva che sono state raccolte alcune indicazioni dell’ex ministro Mussi: il codice etico che eviti i passaggi di cattedre per via parentale e l’incompatibilità per conflitto d’interessi; il mandato temporaneo per i rettori (non più di due per un massimo di otto anni); la riduzione dei settori scientifico-disciplinari. E, nonostante Mariastella Gelmini inizialmente aveva detto di non volerla adottare, è stata varata l’Agenzia di valutazione (introdotta da Mussi con un decreto poi convertito in legge) per la valutazione delle università e degli enti di ricerca, la cui attuazione richiede tempi molto lunghi, e finanziamenti.

I punti critici: «la messa sotto tutela del ministero dell’Univerità e ricerca rispetto al ministero dell’Economia », osserva Falcone, «che dovrà autorizzare molti interventi», quindi si prevede un’influenza forte del Tesoro sulla vita degli atenei, al di là delle competenze di spesa. E basti pensare ai tagli sui precari attuati nella scuola da Gelmini per conto di Tremonti.

Atenei privatizzati. Un punto «preoccupante», secondo Falcone è «la possibilità che si offre ai privati di contribuire significativamente alle decisioni strategiche delle università con l’ingresso nei Cda di almeno il 40 per cento di esterni con competenze gestionali-amministrative». Il che si tradurrà in un «travaso di poteri » dal Senato accademico ai Cda. Università come aziende, quindi, tanto più con l’ampliata possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni private (prevista per legge l’anno scorso). La porta aperta ai privati dà il via ai tagli di fondi alle università, ed il rischio è «un deterioramento del tessuto di conoscenza del paese», intaccando unsistema che è ancora considerato forte sul piano internazionale, prova nei sia la fuga di cervelli. Sulle fondazioni, lo storico di destra Franco Cardini scrisse su Il Secolo nel luglio 2008 che tale trasformazione sarebbe stata «il passaggio da una concezione culturale comunitaria a una patrimoniale e privatistica del sapere», da una università di tutti con i suoi limiti a una «costosa università per ricchi », salvando forse alcuni atenei privatizzandoli, ma mandando «a farsi benedire il diritto allo studio: o meglio, lo studio come diritto».

Facoltàsuperaffollate: La riduzione indifferenziata a 12 facoltà per tutte,sembra scriteriata: avverrà che «La Sapienza» di Roma avrà le stesse 12 facoltà dell'università di Urbino, arrivando, nel caso di Roma,a dei mostri con 600 docenti per facoltà. Dei mega organismi nei quali sarà impossibile prendere qualsiasi decisione collegiale.

Ricercatori: se l’introduzione della «tenure track» (tre anni di contratto e un rinnovo di tre anni previo seconda valutazione, e poi l’eventuale assunzione come professore associato) allinea l’Italia agli altri paesi, secondo Falcone un altro punto critico può venire dalla «duplicazione delle modalità di reclutamento». Ovvero, se parallelamente resta in vigore l’attuale sistema, il concorso sulla base dell’abilitazione nazionale, ci sarà una pericolosa duplicazione di sistemi. E permane il rischio dell’ingresso pilotato previo raccomandazioni e favoritismi. Insomma, la riforma al momento è solo abbozzata, lo stesso testo completo non è reperibile, al di là della «copertina» illustrata nel Consiglio dei ministri, e bisogna vedere cosa succederà con i decreti attuativi. Ma, nell’insieme, ne risulta una «chiara riduzione dell’autonomia universitaria, e uno schema più dirigista» degli atenei stessi, conclude Falcone.

La vicenda parlamentare del testamento biologico ha conosciuto ieri una violenta accelerazione. Era imprevedibile? Non credo. Troppi segnali si erano accumulati negli ultimi tempi, troppe convenienze politiche si erano svelate perché si potesse prestar fede a qualche apertura, peraltro ambigua, venuta dalla maggioranza. La chiusura immotivata del confronto in Commissione, allora, assume un triplice significato. Smentisce la tesi secondo la quale la maggioranza è sempre disposta al dialogo, mentre l´opposizione è arroccata intorno a immotivate posizioni di rifiuto. Rivela una prepotenza che si dà una veste giuridica incostituzionale. Conferma la subordinazione della politica del governo a quella vaticana: non è un caso che la decisione del Pdl sia venuta all´indomani dell´incontro tra Gianni Letta e Benedetto XVI.

1. Giochi di potere. Da tempo in Vaticano vi era una fila lunga, e mortificante, di politici che portavano le loro offerte, racchiuse soprattutto in quel contenitore allettante che si chiama appunto testamento biologico e che sprigiona veleni tali da inquinare non solo l´ambiente istituzionale, ma l´intera società. Un´offerta sacrificale, dove le vittime sono le persone alle quali si vuole negare il diritto di decidere liberamente sulla fine della loro vita. Tutto questo è all´interno di un gioco politico che, da una parte, vuole rinsaldare i rapporti tra governo e Vaticano e, dall´altra, rende evidente una concorrenza tra i partiti di maggioranza, dove la Lega si offre alla Chiesa come l´interlocutore più affidabile, il vero partito cristiano.

Dopo che Bossi aveva esibito i suoi incontri ai più alti livelli, con la Segreteria di Stato e con il presidente della Cei, Berlusconi ha fatto la sua mossa. Debole com´è, bisognoso di una rinnovata legittimazione vaticana, ha cercato di tornare al centro del gioco, accettando la richiesta vaticana di tenere fermo l´impianto proibizionista e autoritario della legge sul testamento biologico. Inammissibile ingerenza della Chiesa o, invece, crescente debolezza della politica italiana? La risposta è nei fatti, nella sempre più marcata accettazione delle posizioni della Chiesa in tutte le materie che riguardano le decisioni sulla vita: la procreazione, con le resistenze contro la legittima utilizzazione della pillola Ru486; le relazioni personali, con la perdurante ostilità al riconoscimento delle unioni di fatto; il morire, appunto con la pretesa di cancellare la possibilità di libere scelte delle persone. In queste materie delicatissime si è ormai realizzata una cogestione tra governo italiano e governo vaticano.

2. Obiezione di coscienza. Per sfuggire a questa stretta e recuperare un po´ di autonomia per i parlamentari, si era invocata la loro libertà di coscienza, di cui lo stesso presidente della Camera si era fatto garante. Anche questa mossa rischia ora di essere vanificata. E però bisogna sottolineare che si tratta comunque di una iniziativa inadeguata rispetto alla specifica situazione che abbiamo di fronte. Infatti, quando le decisioni parlamentari incidono direttamente sul diritto delle persone di governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista. Qui la libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi "eticamente sensibili", la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, mentre finisce con l´essere minima quella delle persone alle quali si rivolge la legge. Ci si deve chiedere, allora, se siano in sé legittimi interventi legislativi tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, il diritto di ciascuno di governare liberamente la propria vita.

3. Habeas corpus. Questa è l´antica formula con la quale il sovrano si impegna a "non mettere la mano" sul corpo dei cittadini. È l´impegno che il sovrano democratico, l´Assemblea costituente, rinnova quando, nell´articolo 32 della Costituzione dedicato al diritto fondamentale alla salute, conclude perentoriamente che "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Il Parlamento non può ignorare tutto questo, deputati e senatori debbono ricordare che, scrivendo quelle parole, l´Assemblea costituente era ben consapevole di porre un limite invalicabile al loro potere, di individuare un´area non solo sottratta all´arbitrio delle maggioranze parlamentari, ma indecidibile dal legislatore, dunque un luogo dove neppure la legge può penetrare. Questa logica costituzionale è sovvertita dal testo in discussione alla Camera. Il diritto fondamentale all´autodeterminazione è cancellato, perché si esclude il valore vincolante delle decisioni della persona riguardanti la fine della vita; e perché si impone a tutti l´obbligo di sottoporsi all´alimentazione e alla idratazione forzata, di cui abusivamente si nega il carattere di trattamento terapeutico, ignorando l´opposta opinione di quasi tutta la comunità scientifica proprio per cancellare il diritto, da lungo tempo riconosciuto, di rifiutare le cure. Siamo di fronte a un grave tentativo di impadronirsi della vita delle persone, di una mossa autoritaria che altera il rapporto tra Stato e cittadino. Cercando di reagire a questa deriva pericolosa, venti parlamentari della maggioranza avevano scritto al presidente del Consiglio una "lettera sul disarmo ideologico", proponendo "una riserva deontologica sulla materia del fine vita, demandando al rapporto tra pazienti, familiari, fiduciari e medici la decisione in ordine a ogni scelta di cura".

Da anni insisto sulla necessità di analizzare il rapporto tra la vita e le regole sottraendolo in generale alla pretesa di un diritto pervasivo, che si fa strumento di una politica che vuole impadronirsi della libertà delle persone. Ma non basta invocare un´assenza del diritto, che potrebbe poi lasciare il campo libero a qualsiasi incursione autoritaria. Bisogna seguire l´indicazione costituzionale e fondare l´autonomia della persona sul riconoscimento dell´intangibilità di tale autonomia. Una norma sobria, una soglia legislativa minima che riconosca che la zona dell´essere può essere "recintata" solo dallo stesso interessato. Se, invece, si confermerà la strada segnata dal testo già approvato dal Senato, non ci si dovrà poi meravigliare se la terribile e "politica" Corte costituzionale farà il suo mestiere e interverrà per eliminare le inammissibili limitazioni alla libertà delle persone. Non v´è dubbio, infatti, che siamo di fronte a un testo violentemente ideologico e giuridicamente sgangherato.

4. Privato e pubblico. Questo vuol forse dire che, rifiutando ogni intervento invasivo del legislatore, si deve pure invocare pure un generale disinteresse pubblico per le questioni di vita? La stessa Commissione parlamentare, ieri così irragionevolmente chiusa, ha approvato un testo per garantire l´accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore. Qui la presenza del legislatore non è invasiva o abusiva, non si sostituisce alla volontà della persona, ma consente a ciascuno di prendere le proprie decisioni in condizioni di vera libertà. Lo stesso accade quando si prevede una indennità per i familiari che assistono in casa una persona in stato vegetativo: lo ha fatto in febbraio l´Assemblea nazionale francese, lo ha appena deciso la Regione Lombardia. Qui il rapporto tra la vita e le regole non è affidato alla prepotenza, ma alla creazione di servizi adeguati, di un ambiente nel quale vengono rimossi gli ostacoli che limitano l´esercizio libero della volontà. Questo è il vero compito al quale la Repubblica, per rispetto della Costituzione, non può sottrarsi.

Le dimissioni di Piero Marrazzo hanno un valore, prima che politico, purificatorio. Non sono la risposta alle richieste interessate della maggioranza di governo ma allo sconforto del popolo di sinistra.

Con questo gesto l’uomo politico si è spogliato della sua veste pubblica e da questo punto di vista la vicenda è chiusa. Resta un dramma privato, aperto all’umana pietas di chi ha sofferto per Marrazzo o anche si è scandalizzato per le debolezze di un individuo.

Alcune riflessioni, però, si impongono. Nel giorno delle primarie il popolo di sinistra era andato a votare con l’animo percosso da una catastrofe dell’anima, scatenata appunto dal caso Marrazzo. Lo choc non può essere neppure oggi superato confortandosi con il parallelo, che viene spontaneo a tutti, tra come si è conclusa la vicenda che ha travolto il presidente della Regione Lazio e i fatti, ben più gravi per la commistione tra pubblico e privato, che "non" hanno provocato le dimissioni del premier. Non avrebbe, peraltro, alcun costrutto abbandonarsi ad una valutazione ponderata del grado di accettabilità delle propensioni sessuali dell’uno e dell’altro personaggio. Serve, piuttosto, porsi altri problemi e, in primo luogo, interrogarsi sul perché le reazioni dei due elettorati siano state e siano così divergenti, quasi da delineare una cortina di ferro antropologica tra «popolo di destra» e «popolo di sinistra».

Il primo, quello berlusconiano, tranne qualche frangia cattolica osservante e la ristretta élite finiana, in fondo non solo accetta ma si compiace di ciò che Giuliano Ferrara derubrica a «inviti a cena e in villa e sesso un po’ a casaccio, con una instancabilità privata divenuta favola pubblica». Bastava, del resto, fare attenzione a cosa diceva in questi mesi e dice ancor oggi la "gente", per cogliere l’assonanza tra le brave madri di famiglia che ce l’hanno con Veronica perché «non lava in famiglia i panni sporchi» e i "machi" di borgata o dei Parioli, fieri delle scopate del loro leader, quasi potessero anche loro replicarle per interposta persona. Il tutto condito dallo schifiltoso ritrarsi dal giudizio dei tanti pseudo liberali, dimentichi della differenza tra ruolo pubblico e vita privata e adontati con "Repubblica" perché ha raccontato tutte queste sconcezze, senza rispettare il sacrosanto diritto alla privacy. Per altri ancora è bastato voltarsi dall’altra parte, distogliere l’attenzione, dirsi che gli uni e gli altri si equivalgono, non farsi coinvolgere dalla evidenza di un’etica pubblica, gettata alle ortiche. Infine, alle brutte, se qualche ambascia li coglieva, prendersela con la sinistra che non c’è.

Per contro il «popolo di sinistra» nel suo assieme e i singoli individui, uomini e donne, che ne fanno parte hanno sofferto amarezza profonda, se non disperazione. Quasi ognuno di loro si ritenesse personalmente offeso da un gesto giudicato insopportabile. Né vale dirsi e ripetersi che Piero Marrazzo ha fatto del male in primo luogo a se stesso e alla sua famiglia e ha cercato di coltivare le sue propensioni sessuali in segreto, senza coinvolgere l’istituzione che dirigeva con accertata dedizione. No, queste cose non potevano lenire un lutto morale che solo le dimissioni permettono ora di elaborare. È, infatti, il nucleo più profondo dell’animo collettivo e individuale della sinistra che è stato leso. Dalla caduta del Muro ad oggi quell’animo è stato sottoposto a una cura terapeutica che, se lo ha disintossicato dall’ideologia e dalla sua proiezione pratica più deleteria – lo stalinismo in tutte le sue forme –, lo ha anche spogliato da illusioni, utopie, speranze troppo avanzate di riscatto economico. La globalizzazione ha smantellato le sue strutture sociali di difesa, i suoi partiti si son fatti sempre più fragili, ognor mutevoli, anche di nome. In questa deriva una sola certezza è rimasta come valore di auto identificazione: l’essere dalla parte – ed essere parte – della gente onesta, per bene; di quelli che non hanno nulla da nascondere, che rispettano la legge, contano sulla Costituzione, pagano le tasse, magari perché ritenute con la paga, conservano qualche traccia di solidarietà.

Per questo aborrono Berlusconi che, per contro, ha legittimato i vizi storici degli italiani, gli altri italiani, che son forse la maggioranza. Che con la scesa in campo del Cavaliere hanno finalmente trovato qualcuno che non li faceva vergognare della vocazione nazionale ad "arrangiarsi", magari con qualche imbroglio piccolo o grande, eludendo il fisco, lavorando in nero, armeggiando per una violazione edilizia. E soprattutto vivendo la legge, le regole e sotto sotto anche qualcuno dei 10 Comandamenti, figuriamoci la Costituzione, come malevoli impedimenti al libero esplicitarsi di tutto ciò che bisogna fare per sopravvivere. Per questo amano e si identificano con Berlusconi che ha suonato la campana del "liberi tutti" (l’altro giorno, persino, dall’obbligo di pagare il canone Rai).

Cosa gliene importa del conflitto d’interessi, della suddivisione dei poteri, del ludibrio gettato sulla Magistratura? Anzi, la condotta scandalosa, pubblicamente esibita, la degradazione dei palazzi del potere in luoghi di privato piacere, la promozione delle veline di turno, danno a tanti diseredati, ai rampanti in lista di attesa, agli infiniti aspiranti alle innumerevoli "isole dei famosi", il placet «che tutto se po’ fa», la versione plebea dello «Yes, we can».

Il «popolo di sinistra» questo lo sente e lo soffre. Lo consola il fatto di poter raccontare se stesso in modo specularmente opposto, anche se non riesce più ad inverarsi nella orgogliosa "diversità" berlingueriana. Immagina che il suo partito di riferimento faccia proprio questo valore, smentisca nei fatti quel ritornello che lo offende ma anche genera dubbi: «In fondo sono tutti eguali». Per questo il "peccato" di Piero Marrazzo è stato patito come "mortale". Perché avvalora il dubbio, soprattutto nei confronti di vertici, dotati solo di buona volontà ma non del carisma da cui nasce la fiducia.

Di qui l’esigenza di una franca, profonda riflessione in seno a quello che formalmente si chiama gruppo dirigente. Perché maturi la consapevolezza che il germe velenoso dell’omologazione subliminale con l’avversario può proliferare grazie a comportamenti similari: designando candidati dotati solo di immagine, siano annunciatori televisivi o giovani il cui curriculum si esaurisce nel certificato di nascita, senza più alcuna verifica delle competenze e della coerenza morale tra pensiero e azione; manifestando in mille occasioni un’arroganza del potere e una sicumera che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi dell’altra sponda politica; abbandonando, come finora hanno fatto non il «controllo del territorio», secondo la formuletta che amano ripetere, ma il contatto continuo, fraterno, comprensivo col loro elettorato.

Da questo elettorato è venuta una volta di più, con i tre milioni di voti delle primarie, la prova niente affatto scontata che il popolo di sinistra ancora c’è, "ci crede" e ha conservato nel cuore un credito di fiducia, una qualche speranza. Esso seguita ad esprimere una "etica popolare" che si contrappone al cinismo amorale berlusconiano. Non è detto che la dirigenza di centro-sinistra sia capace di leggere in profondità le esigenze di buon governo, sia del partito che del Paese che da questo popolo provengono ancora.

Una prima prova la si avrà con la scelta del candidato destinato a concorrere al posto di Marrazzo, quando si svolgeranno le elezioni regionali. Guai se comincerà la solita diatriba tra le mezze cartucce vogliose di fare carriera, più che di vincere. Per questo mi permetto di concludere con una proposta personale. Nelle ultime settimane un personaggio è emerso o, meglio, si è innalzato al di sopra della media, per aver saputo rintuzzare davanti a milioni di telespettatori, le volgarità insultanti del presidente del Consiglio, tanto da diventare simbolo di una riscossa femminile, Rosy Bindi. Sarebbe il caso di sceglierla per acclamazione.

Non c'è alcun dubbio per me che il 25 ottobre sia stata una giornata positiva, molto positiva per la democrazia italiana, oltre che ovviamente per il Pd. Preciso subito che io non sono andato a votare alle primarie di questo partito: non sono un elettore del Pd (quantunque mi riesca difficile dire di cosa io oggi sia un elettore); ritenevo più corretto che su di un argomento del genere si esprimessero iscritti, simpatizzanti ed elettori del Pd. Ma questo non m'impedisce di vedere - anzi - quanto le cose in generale siano andate bene. In un clima di confusione e di sfacelo, che di recente ha toccato anche le fila del centro-sinistra, il fatto che più di tre milioni di cittadini abbiano risposto ad un appello di questa natura significa che un popolo c'è, c'è ancora e offre la propria disponibilità ad esserci ancora di più e ancora meglio.

In secondo luogo, io penso che sarebbe arbitrario in questo caso staccare il risultato popolare da quello del partito che ne ha beneficiato: insomma, il risultato popolare non ci sarebbe stato se non ci fosse stato il partito, l'unico partito di opposizione effettivamente strutturato a livello nazionale in questo paese (tutto il resto, dalla galassia della sinistra extraparlamentare all'Idv o esiste a stente macchie di leopardo oppure si rifugia nelle più comode vesti del partito d'opinione). Anche questo non è poco: la tabe berlusconiana non ha distrutto questo antico tessuto, meno male che ha retto.

Ho scritto: «antico tessuto», e forse non è stato a caso. Io non mi vergognerei di dire che ha vinto il candidato che era o si presentava meno «nuovista». Certe volte bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro per farne due avanti. «Nuovismo» - sciagurato «nuovismo» - era stato teorizzare e praticare l'autosufficienza del Pd: i risultati ne sono sotto gli occhi di tutti. Ora si torna a parlare di alleanze: bene, anche se, per battere Berlusconi, il Pd dovrà rimettere insieme tutto quello che ha alla sua destra (Udc) e tutto quello che ha alla sua sinistra (Idv, galassia degli extraparlamentari): non sarà facile, ma auguri.

È da qui però che comincia, per questo Pd indubbiamente rafforzato, un percorso irto di difficoltà, il cui senso complessivo potrebbe esser così riassunto: come può un partito che ha fatto un passo indietro farne d'ora in poi due, e molti più, avanti? Mi permetterei di segnalare alcune questioni, nella forma schematica che meglio si adatta al cri-cri del grillo parlante:

1) Esiste innanzi tutto un problema di democrazia interna di partito, ovvero, con linguaggio leggermente più audace, di partecipazione popolare effettiva. Il Pd è stato in questi anni un partito a tendenze leaderistiche piuttosto accentuate (anche, il che è più ridicolo, a livello locale), e cioè goffamente impegnato a ricalcare il modello berlusconiano, che ovviamente da questo punto di vista è imbattibile. Le primarie - con tutti gli aspetti positivi in precedenza richiamati - restano tuttavia l'espressione di una democrazia tendenzialmente plebiscitaria. Far funzionare al meglio gli organismi elettivi di partito è molto più difficile, ma più stabile, più funzionante, più garantistico e più efficace.

2) Leggo sui giornali che il mio amico Francesco Rutelli lamenta che il risultato delle primarie fa del Pd un partito troppo di sinistra. Io starei ai fatti, limitandomi a constatare che il Pd è stato finora un partito eccezionalmente moderato. Ora, sarà pure un bene che il neo-segretario esordisca affrontando i temi dell'economia (quotidiani del 26-27 ottobre). Bisognerà pure, tuttavia, che ci si dica presto se il «lavoro» - in modo particolare il lavoro dipendente e in modo ancor più particolare i lavoro operaio - rappresenta un protagonista autonomo, una, come si diceva una volta, «variabile indipendente» per il nuovo Pd, oppure no. Da questo dipende molto se esso sarà in grado, oppure no, di battere la Lega in casa propria. E, più in generale, se esso potrà disporre di una base sociale forte all'interno del sistema produttivo del paese, il che mi appare essenziale per qualsiasi politica economica in grado di funzionare. Ossia, in buona sostanza, se continuerà ad essere un partito molto, molto moderato, oppure un poco, ma tangibilmente e visibilmente, più progressista.

3) La tutela dell'ambiente e la difesa del territorio costituiscono ostentatamente il tallone d'Achille dell'attuale Pd. Il nuovo Pd, se ce ne sarà uno, dovrà dedicare un'attenzione particolare a queste tematiche, rovesciando molto delle posizioni attualmente dominanti. Dove il Pd è stato al governo in questi anni, a livello regionale e comunale (tanto per fare esempi lampanti: Toscana e Firenze), non s'è vista differenza alcuna rispetto alle politiche di sfruttamento selvaggio del territorio e dell'urbanistica più cementizia dominanti nelle regioni e nei comuni governati dal centro-destra. Coloro che in passato, dalle file ambientaliste, avevano criticato quegli orientamenti sono stati tacciati di arroganza, estremismo e, peggio, nullismo. Ora i loro accusatori, uomini molto, molto interni al Pd (notizie del 27 ottobre) vanno in galera. Quanto alla politica delle grandi infrastrutture, promossa come cosa propria - e si capisce - dai «berluscones» (ponti, porti, autostrade, Tav), necessita di una risposta critica totalmente alternativa, che pure è possibile anche fattualmente. Per favore, risposte chiare, magari moderate, ma chiare.

4) Non so se un partito vecchio, che voglia farsi nuovo, abbia bisogno di una propria cultura oppure no. Quel che so, è che il Pd non ne ha alcuna e che in questi anni non ha neanche provato ad averne, lasciando spazio alle Fondazioni private dei suoi dirigenti (che sono, mette conto di precisarlo) tutt'altra cosa. Possibile che non ci sia alle spalle di quel che questo partito pensa e decide neanche uno straccio di elaborazione intellettuale? Esempio minimo: le tre questioni precedenti (democrazia, lavoro, ambiente) non potrebbero neanche esser poste, se uno non avesse nella testa alcune coordinate culturali basilari, le quali poi altro non sono che i criteri con i quali si legge il mondo nell'atto stesso in cui sta cambiando, come sempre dunque nella prospettiva che va dal passato al presente verso il futuro. La cultura, come si sa, è un argine all'improvvisazione e all'arbitrio dei politici. Ma può nascere e svilupparsi in politica solo se i politici fanno mostra di averne bisogno e loro stessi la praticano. E' precisamente ciò che finora è del tutto mancato.

Insomma, il buon risultato ha fatto crescere le pretese. Ma non è così che funziona la democrazia, quando funziona?

Berlusconi si cucina da solo i suoi guai. Distrugge, di giorno, i muri che i suoi consiglieri fabbricano, di notte, per difenderlo. Quelli si erano appena rimboccati le maniche, con buona volontà, per riproporre - complici, le debolezze di Piero Marrazzo - la separatezza e l'inviolabilità della sfera privata dalla funzione pubblica (ancora!).

Salta fuori che l'Egoarca ha avvertito per tempo il governatore: "C'è in giro un video contro di te". Frammento superbo della nostra vita pubblica. Merita di essere analizzato, e con cura. Viene comodo farlo in quattro quadri.

Nel primo quadro, bisogna riscrivere con parole più adatte quel che sappiamo. Non il signor Silvio Berlusconi, ma il presidente del consiglio - proprietario del maggior gruppo editoriale del Paese - allerta il governatore "di sinistra" che il direttore di una sua gazzetta di pettegolezzi (Chi) ha in mano un video che lo compromette. Glielo ha detto la figlia (Marina, presidente di Mondadori). A questo punto, il capo del governo potrebbe consigliare all'altro uomo di governo di non perdere un minuto e di denunciare il ricatto all'autorità giudiziaria. Nemmeno per sogno. Il presidente del Consiglio indica all'altro attraverso chi passa il ricatto, ne fornisce indirizzo e numero di telefono: che il governatore si aggiusti le cose da solo mettendo mano al portafoglio e "ritirando la merce dal mercato", come pare si dica in questi casi. È la pratica di uomini che governano senza credere né alla legge né allo Stato, né in se stessi né nella loro responsabilità. In una democrazia rispettabile, l'argomento potrebbe essere definitivo. Nell'"Italia gobba", la legalità è opzione, mai dovere, e quindi l'argomento diventa trascurabile. Trascuriamolo (per un attimo solo) e immaginiamo che Marrazzo riesca nell'impresa di ricomprarsi quel video.

È il secondo quadro. Vediamo che cosa accade a questo punto. Piero Marrazzo annuncia la sua seconda candidatura al governatorato. Si vota in marzo. Il candidato "di sinistra" è consapevole che il suo destino politico e personale è nelle mani del leader della coalizione "di destra". In qualsiasi momento, quello può tirare la corda e rompergli il collo. A quel punto, a chi appartiene la vita di Piero Marrazzo? A se stesso, alle sue decisioni politiche, ai suoi comportamenti privati o alla volontà e alle strategie dell'antagonista? È una condizione di vulnerabilità politica che dovrebbe consigliargli la piena trasparenza a meno di non voler diventare un burattino. Al contrario, Marrazzo tace e tira avanti. Scoppia lo scandalo e mente ("È una bufala", "Non c'è alcun video"). Lo scandalo diventa insostenibile e ancora rifiuta la responsabilità della verità: non dice dell'avvertimento di Berlusconi; non dice come si procura il denaro che gli occorre per le sue scapestrate avventure. (Sono buone ragioni per chiedergli di nuovo le dimissioni perché non è sufficiente l'ipocrita impostura dell'autosospensione). Quel che accade al governatore ci mostra in piena luce come funziona "una macchina".

È il terzo quadro. Al centro della scena, i direttori delle testate di proprietà del presidente del Consiglio (o da lui influenzate). In questo caso, Alfonso Signorini, direttore di Chi, già convocato d'urgenza da una vacanza alle Maldive per confondere, con una manipolazione sublunare della realtà, il legame del premier con una minorenne.

Signorini spiega come vanno le cose in casa dell'Egoarca, premier e tycoon. Direttamente con le redazioni o, indirettamente, da strutture esterne o da chi vuole qualche euro facile - i direttori raccolgono fango adatto a un rito di degradazione. Una volta messa al sicuro la poltiglia del disonore (autentica o farlocca, a costoro non importa), il direttore avverte i vertici del gruppo, l'amministratore delegato e il presidente. Che si incaricano di informare l'Egoarca. A questo punto, il premier è padrone del gioco. Pollice giù, e scatta l'aggressione. Pollice su, e il malvisto finisce in uno stato di minorità civile. Accade al giudice Mesiano, spiato dalle telecamere di Canale5.

Berlusconi addirittura annuncia l'imboscata: "Presto, ne vedremo delle belle". Accade al direttore dell' Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un cauto e motivato dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle. A ben vedere, accade oggi al ministro dell'Economia che può intuire sul giornale del premier qualche avvertimento. Suona così: "Tremonti in bilico"; "Se Tremonti va, Draghi arriva". C'è da chiedersi: quanti attori del discorso pubblico sono oggi nella condizione di sottomissione che anche Marrazzo era disposto ad accettare?

Quarto e ultimo quadro, allora. Non viviamo nel migliore dei mondi. La personalizzazione della politica ha cambiato ovunque le regole del gioco e il fattore decisivo di ogni competizione è la proiezione negativa o positiva dell'uomo politico - e della sua affidabilità - nella mente degli elettori. È la ragione che fa del "killeraggio politico - scrive Manuel Castells (Comunicazione e potere) - l'arma più potente nella politica mediatica". I metodi sono noti. Si mette in dubbio l'integrità dell'avversario, nella vita pubblica e in quella privata. Ricordate che cosa accade a McCain e Kerry? Si ricordano agli elettori, "in modo esplicito o subliminale", gli stereotipi negativi associati alla personalità del politico, per esempio essere nero e musulmano in America. È la lezione che affronta Barack Obama. Si distorcono le dichiarazioni o le posizioni politiche. Si denunciano corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti che sostengono il politico. Naturalmente, le informazioni distruttive si possono raccogliere, se ci sono; distorcerle, se appaiono dubbie o controverse; fabbricarle, se non ci sono. È uno sporco lavoro, che ha creato negli Stati Uniti, dei professionisti. Uno di loro, Stephen Marks, consulente dei repubblicani, ha raccontato in un libro (Confessions of a Political Hitman, Confessioni di un killer politico) il suo modus operandi. È interessante riassumerlo: "Passo I, il killer politico raccoglie il fango. Passo II, il fango viene messo in mano ai sondaggisti che determinano quale parte del fango arreca maggior danno politico. Passo III, i sondaggisti passano i risultati a quelli che si occupano di pubblicità, che passano i due o tre elementi più dannosi su Tv, radio e giornali con l'intento di fare a pezzi l'avversario politico. Il terzo passo è il più notevole. Mi lascia a bocca aperta l'incredibile talento degli addetti ai media... quando tutto è finito, l'avversario ha subito un serio colpo, da cui non riesce più a riprendersi". Qui, quel che conta è la segmentazione del lavoro e soprattutto "l'incredibile talento degli addetti ai media" perché devono essere i più abili e i più convincenti. I media, negli Stati Uniti, non sono a disposizione della politica e per muoverli occorre "provocare fughe di notizie rimanendo al di fuori della mischia", offrire "merce" che regga a una verifica, a un controllo, che sia significativa e in apparenza corretta anche quando è manipolata.

In Italia, non esiste questo scarto. Non c'è questa fatica da fare perché non c'è alcuna segmentazione della politica mediatica. Uno stesso soggetto ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che mette freddo alle ossa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. I più onesti, dovunque siano, dovrebbero riconoscerlo: non parliamo più di trasparenza della responsabilità pubblica, di vulnerabilità, di pubblico/privato. Più semplicemente, discutiamo oggi della libertà di chi dissente o di chi si oppone. O di chi potrebbe sentirsi intimidito a dissentire o a opporsi all'Egoarca.

Che il capo del governo sia venuto in possesso di un video contro Marrazzo non in quanto capo del governo ma nelle vesti di proprietario di un’impresa di comunicazione è qualcosa di cui sembra non essersi accorto nessuno. Nemmeno i suoi oppositori. Avete forse letto una sola dichiarazione indignata o almeno stupita?

Commentavo con tre amici di sinistra la telefonata in cui Berlusconi avverte il governatore del Lazio di un filmato che lo riguarda, dopo averne avuto notizia dai dirigenti della Mondadori ai quali era stato proposto. Il primo amico, tendenza D’Alema, ha detto: stavolta Silvio si è comportato da signore, poteva rovinarlo e invece lo ha risparmiato. Il secondo, tendenza Veltroni: è il presidente del Consiglio, avrebbe dovuto avvertire la polizia. Tesi discutibile, perché presuppone che Berlusconi fosse a conoscenza non solo del video, ma anche del ricatto. Era naturalmente questa l’opinione del terzo amico, tendenza Di Pietro: per lui il premier è all’origine di tutti i mali dell’umanità dai tempi del Diluvio Universale «perché non poteva non sapere». Ma neppure il più ossessivo dei berluscallergici mi ha opposto la semplice osservazione che mi sono sentito fare al telefono da un collega inglese che vota per i conservatori: «Come potete accettare che un primo ministro riceva e usi, anche a fin di bene, informazioni ottenute in virtù del suo ruolo di editore?».

E’ l’ultima, lampante esplicazione del conflitto di interessi. Ma così lampante che nessuno di noi ci ha fatto caso. Provate a pensarci un attimo. I carabinieri ricattatori filmano Marrazzo e provano a vendere il video a un giornale del presidente del Consiglio. Non importa che il presidente del Consiglio abbia evitato di infierire. Resta il fatto che, grazie al suo ruolo di tycoon mediatico, gli era stata offerta la possibilità di distruggere un avversario politico. E pensare che molti fingono ancora di non capire quale differenza passa, ai fini delle regole democratiche, fra il possesso di una fabbrica di frigoriferi e il controllo di una che produce rotocalchi e programmi televisivi.

Ma questo totale disinteresse per i conflitti di interesse rivela anche qualcos’altro. Assuefazione. Ogni cosa, a furia di esserci, finisce per sembrare inesorabile. Mancanza di senso dello Stato, e lo si è appena visto proprio con Marrazzo: tutti scandalizzati dalle sue frequentazioni e non perché si recava agli incontri con l’auto di servizio. Rivela soprattutto disprezzo per le istituzioni. Viene il dubbio che gli italiani sappiano benissimo quali rischi si corrano a consegnare il governo nelle mani di un imprenditore di quel calibro e di quel ramo. Ma è tale il loro disprezzo per i politici di professione che ritengono meno grave truccare il gioco della democrazia che riaffidare le redini della Repubblica allo schema classico, in base al quale il mondo dei media e degli affari condiziona la politica attraverso le lobby, ma non si sostituisce a essa per esercitare direttamente il potere. E un editore, quando riceve un video compromettente, decide in base alle sue valutazioni di editore, non di presidente del Consiglio.

Il ministro dell’Economia ha dato un’occasione al Pd, che oggi affronterà le primarie e sceglierà una guida nuova. Difendendo il valore del posto fisso, presentandolo come la cosa calda anelata quando gela, affermando che nel modello europeo non si può organizzare un progetto di vita e di famiglia se il posto è variabile, incerto, Tremonti ha evocato un ingrediente essenziale del socialismo: ha evocato la stoffa dei suoi miti, delle sue mobilitazioni. Alcuni dicono addirittura che il ministro abbia astutamente rubato alla sinistra un tema che dovrebbe figurare nei suoi programmi, lasciandola sgomenta e muta. Si è appropriato della questione sociale, facendosi interprete del mondo che soffre una degradazione del lavoro destinata ad acutizzarsi.

La realtà è non poco diversa tuttavia, e la vera occasione per gli eredi del socialismo e del cattolicesimo sociale è di penetrare tale realtà.

Di dire il volto che ha oggi la questione sociale, di costruire su essa un nuovo corpo di dottrine, di sfatare le illusioni. Un primo passo importante l’ha fatto Franceschini, intervistato dal Sole - 24 Ore del 22 ottobre: «Alla retorica di Tremonti, io oppongo i fatti. E i fatti dicono che la flessibilità fa parte delle società moderne. Piuttosto il governo non fa nulla per arginare la precarietà. Lancio la sfida al ministro dell’Economia e chiedo di agire su due fronti. Primo: togliere convenienza economica ai contratti precari (...). Secondo: riforma degli ammortizzatori. Insisto: basta con la logica delle deroghe, servono protezioni sociali per l’operaio che perde il posto, per l’artigiano e per i giovani con contratti flessibili».

L’errore è forse quello denunciato da Kant: si parla di valore, quando si dovrebbe parlare di dignità. Si riempie di valore qualcosa che non ha rapporti con il reale ma con ricordi, nostalgie. Su una cosa Tremonti non ha torto: contrariamente a ciò che è stato detto nei giorni scorsi, anche a destra, il posto fisso non è un male, un fossile. Troppo facile liquidare così un mito che occupa le menti di tante persone in bilico, ed è quella «goccia del passato vivente» che secondo Simone Weil va conservata gelosamente e portata nel futuro, perché non cresca lo sradicamento del lavoro. Il lavoro stabile è quella goccia ­ più del posto fisso ­ ed è ovvio che nell’immaginario resti un bene: come potrebbe non essere così?

È un bene, tuttavia, riservato a sempre meno esseri umani. I lavoratori instabili e precari sono quasi 4 milioni (il 15 per cento degli occupati).

Fra il gennaio 2008 e il gennaio 2009, solo il 23 per cento delle assunzioni si è concretizzato in un contratto a tempo indeterminato, e di questi contratti solo il 3 per cento si è stabilizzato (al Sud l’1,7).

L’economista Tito Boeri spiega come nel mercato del lavoro si assuma «quasi solo con contratti temporanei: 4 nuovi rapporti di lavoro su 5 vengono istituiti fissando una data di scadenza, spesso molto breve. La percentuale sarebbe ancora più alta se si tenesse conto che molti contratti formalmente a tempo indeterminato per le badanti sono in realtà contratti che possono essere interrotti da un momento all’altro» (Repubblica, 22-10). Con questo dualismo urge fare i conti: non esaltando un mondo a scapito dell’altro, ma conferendo dignità a chiunque lavori, stabilmente o precariamente, e senza cercare il calduccio nei bei tempi o valori che furono. Questi non tornano, ma la questione della dignità resta. Facendo l’elogio del passato Tremonti non solo proclama l’ovvio (lui stesso l’ammette: «Ho detto una cosa scontata: come che tra stare al caldo e stare al freddo, preferisco stare al caldo»). Enuncia banalità inutili perché irrealizzabili, ha scritto su questo giornale Federico Geremicca.

Ma non è solo una banalità. La frase di Tremonti occulta il vero ed è deleteria, beffarda. Attribuendo un’inimitabile virtù di stabilità al posto fisso, inoltre, fissa valori supremi che per forza declassano altri valori, facendone dei disvalori. Il posto precario che tanti giovani devono scegliere al posto dell’inattività è condannato e dannato, non consentendo di «organizzare progetti di vita e di famiglia». La preminenza data al posto fisso sfocia «nell’esclusione degli outsider, di quelli che il posto non lo hanno», e ai quali non si offre «una società aperta ma l’arroccamento degli insider», scrive l’economista Franco Bruni (La Stampa, 21-10). Essendo in fondo senza interesse, il lavoro instabile non ha interessi da far valere né rappresentanze da costruirsi. Disperazione e rimpianto sono la sua sorte.

In Italia, a differenza della Francia, chi lavora nella precarietà non ha protezioni se si ammala, se aspetta un figlio. Non ha diritti concernenti ferie, licenziamenti, pensione. Dichiarare il posto fisso come «la base di una vita dignitosa» è un crudele memento per coloro cui si dice: tu questa base non puoi averla, anche se lavori, perché non sei parte del piccolo mondo antico. È nell’Inferno che Dante lo apprende: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria». Non è neanche vero che Tremonti difende l’esistente. Le sue parole feriscono perché illudono, fingendo un esistente che non c’è. Somigliano alle case vendute con delittuosi imbrogli a chi non ha soldi per comprarle: sono parole subprime.

Sono l’ennesima bolla, fatta di vento che presto si sgonfia.

Negare la realtà è perpetuare una pigrizia mentale che lusinga i privilegiati e lascia scoperti gli sfavoriti, trasformando questi ultimi (la maggioranza dei giovani) in perdenti. Che li contagia con l’indolenza, non svegliandoli a una nuova cultura del lavoro: una cultura egualmente calda, che dia stabilità all’attività lavorativa, quale che sia la sua forma. La sinistra ha una funzione essenziale nella formazione di questa cultura, perché tradizionalmente rappresenta i lavoratori, i miseri. Quando smette di farlo ­ quando nel contempo dimentica anche gli imperativi della moralità pubblica ­ il vuoto è stato sempre riempito da destre populiste.

La sinistra e i sindacati devono ricominciare la storia, anziché impigrirsi e riecheggiare astratti rimpianti: devono capire che la questione sociale si sta ripresentando impetuosa, ma con vesti diverse. Che siamo di fronte a un passaggio storico non dissimile da quello descritto da Luigi Einaudi nel 1897, quando gli scioperi colpirono l’industria tessile del Biellese. La nascita delle fabbriche nella prima metà dell’800 aveva suscitato bisogni nuovi, per chi aveva dolorosamente vissuto la fine del tessile lavorato in famiglia, col telaio a mano installato in casa. Aveva, proprio come dice Tremonti del lavoro instabile, distrutto progetti di vita e famiglie, tanto che Simone Weil sognava, ancora nel 1949, l’abolizione delle grandi fabbriche. Garantire protezioni al lavoro discontinuo oltre che al posto fisso è un compito grande e arduo per le sinistre. Non basta che il Pd cessi di essere un partito leggero e vada nelle fabbriche che chiudono, come suggerito da Epifani sul Fatto di venerdì. Non è solo in fabbrica che la sinistra ritroverà coloro che, pur lavorando, soffrono la perduta dignità, ma nelle professioni intellettuali, negli uffici, nella pubblica amministrazione, nella ricerca.

Diceva ancora Einaudi: «Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato a ogni istante di non durare (...). Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes» (Le lotte del lavoro, Einaudi 1972). Tremonti ha il merito di aver visto l’aggravarsi dello squilibrio. Da qui bisogna partire, perché esso susciti nuove rotte di pensiero, di azione. Perché gli anni eroici del movimento operaio siano la goccia del passato vivente che porteremo nel futuro.

Bene ha fatto Piero Marrazzo ad autosospendersi da governatore della Regione Lazio. Meglio avrebbe fatto a dimettersi: non ieri, dopo aver ammesso quello che l'altro ieri negava ostinatamente e incomprensibilmente, ma in quel di luglio, all'indomani degli ormai noti fatti, quando capì di essere sotto ricatto e, stando alle sue stesse dichiarazioni, pagò i ricattatori nel tentativo di mettere tutto a tacere. Tentativo vano, perché nell'epoca della riproducibilità tecnica di tutto vana è la speranza di mettere a tacere qualsivoglia cosa. Tentativo colpevole, perché un uomo di governo sotto ricatto ha l'obbligo di denunciare i ricattatori e, a meno che la causa del ricatto sia inesistente, non può fare l'uomo di governo. Non può fare nemmeno la vittima, o solo la vittima, come invece Marrazzo ha fatto nell'immediatezza dello scandalo.

Il governatore del Lazio è vittima e colpevole, tutt'e due. E' vittima di un'aggressione indecente dell'Arma dei carabinieri, un'aggressione su cui a noi tutti è dovuta piena luce dai vertici dell'Arma e dai ministeri competenti, i quali ci facciano il piacere di non provare a cavarsela con la solita tesi delle mele marce. E' colpevole di aver taciuto, sottovalutato, occultato quanto gli stava accadendo, con la solita tesi che la vita privata è privata e non c'entra niente con la vita pubblica.

Rieccoci al punto che tiene inchiodato il dibattito politico da sei mesi: e quando un punto ritorna così insistentemente, sia pur sotto una differenziata casistica, significa che è un punto dolente. Sono patetici i vari Cicchitto, Cota, Lupi e relativi giornalisti organici alla Feltri che si lanciano sulla succulenta occasione per salvare Berlusconi col duplice argomento che a) tutti hanno i loro peccati, a destra e a sinistra, b) chi di moralismo e violazione della privacy ferisce, di moralismo e violazione della privacy perisce.

Non casualmente, solo da destra si chiede che il governatore resti al suo posto, con l'unico scopo di far restare al suo anche il premier. Purtroppo però qui non si tratta di salvare tutti, bensì di non salvare nessuno. Pur cercando di esercitare la sempre più difficile arte delle distinzioni.

Piero Marrazzo non è colpevole di frequentare trans, come Silvio Berlusconi non è colpevole di frequentare escort o di avere, o millantare, tutte le fidanzate che crede. Entrambi sono colpevoli però di non aver capito che la vita privata di un uomo politico riverbera sulla sua immagine (e sulla sua sostanza) politica. Nonché di scindere, nella miglior tradizione della doppia morale di un paese cattolico, i lori vizi privati dalle loro dichiarazioni pubbliche di fede nei sacri valori della famiglia. Dopodiché le analogie finiscono. Marrazzo si dimette e Berlusconi no. Marrazzo si chiude disperatamente a Villa Piccolomini e Berlusconi fa un proclama al giorno per rivendicare che lui, l'eletto dal popolo, fa quello che vuole. Marrazzo - stando alle testimonianze - ha avuto relazioni personali con alcuni trans, Berlusconi è al centro di un sistema diffuso di scambio fra sesso, danaro e potere, in cui «il divertimento dell'imperatore» viene retribuito in candidature e comparsate in tv (privata e pubblica). Fa qualche differenza, e nel senso opposto a quello che scrive Il Giornale, che già salva la candida «normalità» del premier che va a donne contro l'immonda ambiguità sessuale del governatore che va a trans.

Per tutte e tutti noi si spalancano ogni giorno di più tre questioni. La prima - il punto dolente di cui sopra - è che l'ostinazione a scindere il privato dal pubblico e la vita personale dalla vita politica, in tempi in cui i telefoni filmano e registrano, la Rete diffonde e le donne non stanno zitte, rasenta la stupidità: vale per la destra ma anche per quella sinistra che oggi ne è colpita ma fino a ieri è stata su questo reticente. La seconda è che è vero che sui comportamenti sessuali non si può sindacare moralisticamente, ma se quelli che la cronaca ci rimanda sono sempre più spesso comportamenti sessuali di uomini di potere mediati dai soldi è lecito quantomeno interrogarsi sullo stato della loro sessualità e del loro potere. La terza è che se la politica, ripetutamente, inciampa nel sesso, in un sesso siffatto, qualcosa s'è rotto nel segreto legame che unisce qualità delle relazioni interpersonali e qualità del legame sociale, passioni personali e passioni collettive, desiderio individuale e felicità pubblica. C'è un brutto nodo che stringe questione maschile, questione sessuale e crisi della politica. Se è vero che, come ci insegnavano a scuola, oportet ut scandala eveniant, che almeno ci servano a vedere questo nodo, e a scioglierlo.

Il generale Mario Mori, quando ha preso la parola per le sue dichiarazioni spontanee al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, l’ha ripetuto un’altra volta. Per lui la causa principale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 va ricercata nelle indagini, condotte un anno prima proprio dai carabinieri, sugli appalti pubblici spartiti in Sicilia con il benestare della mafia. Anche perché, ha sostenuto Mori il 20 ottobre, quelle inchieste furono archiviate in tutta fretta all’indomani dell’omicidio di Paolo Borsellino. La trattativa dello Stato con Cosa Nostra, insomma, non c’entra. E per capire cosa è successo bisogna scavare sul sistema dei lavori pubblici. Come spesso accade nelle vicende di mafia ci troviamo di fronte a due diverse verità.

A delle storie parallele che però, non divergono, ma anzi collimano, tra loro. Perché quando Cosa Nostra decide un omicidio eccellente non lo fa mai per un unico motivo.

È un fatto che le indagini dell’Arma facessero paura a molti. Il giovane capitano Giuseppe De Donno ci aveva lavorato per più di un anno. Così, il 16 febbraio del 1991, consegna nelle mani di Giovanni Falcone un rapporto di 900 pagine che, senza pentiti, sembra anticipare di più di un anno l’inchiesta milanese di Mani Pulite. Falcone però non lo può esaminare. Sta partendo per Roma, dove diventerà direttore degli affari penali al ministero, perché ormai a Palermo lui non può più lavorare. A metterlo in un angolo non sono stati i mafiosi. Sono stati alcuni suoi colleghi e soprattutto l’allora procuratore Pietro Giammanco.

Il rapporto di De Donno è una bomba. Per la prima volta viene svelato il ruolo di Angelo Siino, l’uomo che per conto di Cosa Nostra curava la spartizione di lavori e mazzette. E viene anche spiegato quello del gruppo Ferruzzi di Ravenna, in affari con la mafia. Nella relazione sono citati i nomi di aziende come la Grassetto di Salvatore Ligresti, la Tordivalle di Roma (degli eredi di De Gasperi), la Rizzani De Eccher di Udine, le imprese dei cavalieri del lavoro di Catania, la SII poi rilevata dall’ex direttore generale della Edilnord di Berlusconi, Antonio D’Adamo, una serie di cooperative rosse, la Impresem del costruttore agrigentino Filippo Salamone e poi tutte le società che fanno capo a Bernardo Provenzano. Nonostante questo Mani Pulite alla siciliana non parte. Perché la questione degli appalti e del pizzo diviso tra mafiosi e politici arrivi realmente alla ribalta bisogna attendere che a Palermo giunga il procuratore Giancarlo Caselli.

Ma c’è di peggio. Il rapporto di De Donno finisce presto in mano ai mafiosi. Chi lo abbia consegnato, le indagini, tutte archiviate, non lo hanno mai stabilito. Restano sul tavolo le accuse: quelle del Ros ai magistrati e quelle dei magistrati ai carabinieri. L’ex braccio destro di Provenzano, il capomafia oggi pentito Nino Giuffrè, è però certo che il contenuto di quel rapporto impresse un’accelerazione alla decisione, secondo lui già presa, di uccidere sia Falcone che Borsellino. In ballo c’erano infatti più di mille miliardi di lire da spartire tra mafia e politica.

È indiscutibile, poi, che anche Borsellino, subito dopo la morte dell’amico, si sia messo a battere pure il fronte dei lavori pubblici. Proprio per questo ebbe allora un incontro con Antonio Di Pietro, all’epoca uomo simbolo di Mani Pulite, e, secondo Mori, il 25 giugno discusse la questione appalti anche con lui e De Donno: un’inchiesta senz’altro rallentata, se non insabbiata, nei mesi successivi. Un’indagine che oltretutto sarà poi falcidiata da prescrizioni e sentenze contraddittorie nei confronti di imprese e politici. Sulla morte di Borsellino, insomma, il rapporto mafia-appalti pesa. E da solo spiega molto. Ma non tutto.

Solo un cretino può pensare che il massimo desiderio di un operaio che lavora alla linea di montaggio, terzo livello metalmeccanico, salario di merda per un lavoro di merda, ipersfruttato e alienante, un operaio a cui è tolto persino il diritto di esprimersi sul suo contratto, abbia come sogno di restare per tutta la vita inchiodato alla catena. E magari di inchiodarci anche il figlio. E solo un cretino può credere che se quell'operaio si aggrappa alla catena, se si arrampica sul carroponte o sul tetto o sul Colosseo, o occupa l'autostrada Roma-Napoli, è perché senza lo sfruttamento selvaggio non riesce a sognare, ad amare, persino a far figli. Il fatto è che nella cultura liberista applicata al nostro paese l'unica mobilità conosciuta - l'unica flessibilità concessa - è quella in uscita: fuori dal lavoro quando non servi più e si può fare profitto senza di te. Perché la crisi devono pagarla i lavoratori, c'è da ristrutturare, da delocalizzare là dove salari e diritti valgono zero. In un paese, il nostro, dove la mobilità sociale, la ricerca, la riqualificazione non esistono.

E dire che nel '68 e nel '69 qualcuno aveva provato a dire: formazione permanente, metà tempo di studio e metà di lavoro, socializzazione dei lavori nocivi, 150 ore e tante altre belle cose che quarant'anni dopo fanno arricciare il naso agli oppositori di Berlusconi.

Adesso Tremonti e Berlusconi scoprono le meraviglie del posto fisso. Proprio loro, che in buona (pessima) compagnia hanno messo al rogo non tanto la cultura del posto fisso, quanto la sicurezza del lavoro. Hanno smantellato diritti, sbrindellando i rapporti di lavoro in una cinquantina di forme contrattuali diverse, per dividere e colpire meglio, con la speranza di rovesciare il conflitto verticale capitale-lavoro in un conflitto orizzontale tra lavoratori portatori di oneri e diritti diversi. Ci sono anche riusciti, almeno in parte.

E' un progetto a cui, magari con meno professionalità della destra, hanno lavorato in tanti, anche nel centrosinistra, anche nei sindacati. E vogliamo la Confindustria? Forse proprio la ricerca della legittimazione da parte degli imprenditori ha spinto le destre e molta opposizione a cavalcare, anzi a far cavalcare a chi lavora, la precarietà, vestita da flessibilità.

A Tremonti e a Berlusconi si potrebbe contestare la ricerca di rinsaldare il consenso tra le fasce «basse» del mercato del lavoro, quelle su cui stanno scaricando il peso della crisi, mentre le azioni concrete del governo salvano non i poveracci ma gli evasori fiscali. Hanno così paura dell'invasione degli alieni (leggi immigrati) notoriamente «prolifici», da risfoderare radici cattoliche e sane famiglie italiche, paffuti e abbondanti bambini bianchi che, senza alcuna certezza del futuro, i nostri giovani precari non hanno coraggio di mettere al mondo. I principi della deregulation si vestono da regolatori.

Tanto altro si potrebbe contestare a Tremonti e Berlusconi. Invece i nostri democratici spiegano che la cultura del posto fisso è vecchia e loro sono per il nuovo, che tutti i paesi che contano vanno in direzione opposta e dunque la nostra strada è segnata. Poi, se contro Tremonti e Berlusconi si arrabbia la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, non si può che fare fronte contro il governo.

L'amara considerazione è che in Italia la destra fa sia la destra che la sinistra mantenendo stretti in mano due scettri, quello della maggioranza e quello dell'opposizione per abbandono del campo da parte di quest'ultima. Il che non può non far pensare che, semmai Berlusconi non riuscisse a concludere il mandato e fosse costretto a perdere il posto fisso a palazzo Chigi e tornarsene in villa liberandoci della sua asfissiante presenza, il merito non sarebbe dell'opposizione che non c'è. I muri, anche quelli di Arcore, prima o poi possono crollare. Ma come la storia ci ha insegnato, possono anche essere buttati giù dalla destra.

Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all’allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».

Dossetti fu uno dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costituenti sul tema dell’oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un’esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell’Assemblea costitutiva della nostra democrazia.

Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.

Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un’identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.

E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell’opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione – proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.

La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.

La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».

La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l’autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell’Articolo 50) non passò l’esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall’attenzione dell’Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.

Su Il Foglio è stata ripubblicata ieri in prima pagina una lettera apparsa sul il manifesto martedì scorso. Il nostro lettore (a proposto delle previsioni economiche, dei guru e dei teorici che spesso ci ripensano) scriveva che sicuramente «giustificheranno domani la stabilità del lavoro così come oggi la flessibilità». Dopo sette giorni Giulio Tremonti, superministro dell'economia, sembra aver fatto sue quelle osservazioni e ci ha ripensato. Ieri, nel corso di un convegno ha sostenuto: «La mobilità non è un valore, il posto fisso è la base per progetti di vita». E ha incalzato: «In strutture sociali come la nostra il posto fisso» è «la base su cui si organizza il progetto di vita e la famiglia».

Per Luigi Angeletti, mega segretario della Uil, dimentico di aver aver siglato tutti i protocolli che favorivano la flessibilità, «Tremonti parla come un iscritto alla Uil». Guglielmo Epifani, invece, non lo ha iscritto al suo sindacato, ma si è limitato a un più «banale»: «Sulla mobilità chiedete un commento alla Confindustria». Che da sempre non brilla per coerenza. Ultimo esempio: la posizione sull'innalzamento dell'età pensionabile sulla quale a viale dell'Astronomia sono concordi. Salvo poi assistere a livello di singole imprese, ma nel complesso tantissime, a licenziamenti di massa. Espulsioni che riguardano in particolare i lavoratori più anziani (oltre i 50 anni) e le donne. Si potrebbe obiettare: è il profitto che lo impone, le imprese fanno quel che devono fare e, semmai, è lo stato che non provvede con un legislazione adeguata che garantisca ammortizzatori sociali e formazione permanente.

A questo punto la palla torna al governo: a Tremonti e al ministro Sacconi, su tutti. Per anni hanno sostenuto come la flessibilità - in tutte le sue forme - era propedeutica allo sviluppo, a contrastare la concorrenza globale. Il risultato è stato un impoverimento del lavoro, il ritorno al dominio del capitale sul lavoro. Senza contare che un lavoro ipersfruttato e sempre ricattabile ha accompagnato una esaltazione dei profitto a una compressione dei salari a livelli di sussistenza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, esemplificato dalla crisi attuale. Il punto è che se solo alcuni paesi adottano forme di lavoro precario e flessibile, quei paesi vanno economicamente bene. Ma quando le precarizzazione e i bassi salari sono pratica comune, a rimetterci sono tutti. Perché - lo insegna anche l'economia liberista - non c'è equilibrio tra offerta di merci e domanda.

E questo fa inevitabilmente esplodere la recessione. È quello che è accaduto negli ultimi anni: profitti crescenti, consumi calanti con il precipitare nella povertà (assoluta e relativa) di milioni di nuove persone.

Sicuramente si potrebbero bilanciare gli squilibri con un'intensa operazione di distribuzione del reddito sotto forma di maggior welfare. Ma anche questa ricetta semplice non è stata seguita. Anzi, con le privatizzazioni (perfino di monopoli naturali) si è data nuova linfa al profitto. Tremonti ci pensi. A meno che la sua vera intenzione non sia quella espressa dalla vignetta di Vauro.

Venticinque persone che si suicidano alla Telecom francese in un anno e mezzo: è sconvolgente perché somiglia a un’ecatombe, a una guerra inconfessata. I profitti dell’azienda sono altissimi, la semi-privatizzazione del 2004 è stata un successo, ed ecco: l’operazione è riuscita, ma i morti sono tanti. Non siamo di fronte all’immolazione d’un capro espiatorio: il capro stesso tende il collo, si considera degno di olocausto. Un divario così grande fra utili dell’impresa e sofferenza umana riguarda la società, non semplicemente la psiche di individui che fanno harakiri, il più delle volte dimostrativamente nel posto di lavoro. Che non riescono a traversare indenni la nuova mobilità, i licenziamenti sempre incombenti, l’ansia che recide tranquillità e speranza, l’organizzazione del lavoro fondata sulla nuova cultura della valutazione, tutta protesa a cifrare come a scuola risultati, ritmi lavorativi, comportamenti psichici, su base quantitativa e mai qualitativa: «Una cultura di morte e per la morte», scrive Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera del 17 ottobre.

Strano come negli ultimi due-tre anni la morte volontaria abbia messo radici in una terra di rivoluzioni, di regicidi. Il fenomeno si è rivelato più tenace dei sequestri di manager. Oltre ai suicidi in Telecom vanno ricordati quelli al centro Guyancourt di Renault nel 2006-2009 (4 suicidi, l’ultimo in ottobre), nella fabbrica Peugeot-Citroën di Mulhouse (6 suicidi nel 2007), nel gruppo Electricité de France (3 suicidi in 6 mesi, nel 2007).

I dati parlano di 500 suicidi l’anno per lavoro, ma gli esperti sono convinti che il numero sia assai più alto.

A Telecom i sindacati sono presenti, altrove c’è deserto sindacale e la notizia s’insabbia.

Bisognerebbe fare una raccolta delle lettere che alcuni hanno lasciato, prima di uccidersi, come si fa con le lettere dei condannati a morte. Aiuterebbe molti a capire, a rettificare parole, certezze, a vedere un’emergenza sociale dietro le intimità di una psiche. Il lavoro occupa l’intera mente dei suicidi, e l’intera esistenza. Illuminante e terribile è la lettera di Michel D, il quadro dirigente che si è tolto la vita il 14 luglio scorso. È indirizzata ai familiari e a tutti i colleghi: «Mi uccido a causa del mio lavoro a France Telecom. È l'unico motivo. Urgenza permanente, sovraccarico di lavoro, assenza di formazione, disorganizzazione totale dell’azienda: questo mi ha completamente disorganizzato e perturbato. Sono diventato un relitto, meglio farla finita». E in un post scriptum: «So che molte persone diranno che esistono altre cause (sono solo, non sposato, senza bambini). Alcuni insinueranno che non accettavo d’invecchiare. Ma no, con tutto questo mi sono arrangiato abbastanza bene. L’unica causa è il lavoro».

I rapporti degli esperti (psichiatri, medici del lavoro, sociologi, mobilitati nell’ultimo anno) individuano nel lavoro l’epicentro del terremoto suicida. Jean-Claude Delgenes, fondatore della società Technologia che studia questi casi, elenca numerosi motivi ma su uno insiste, in particolare. Il male è nella parola, dice: nella parola che perisce prima della persona, cancellando ogni legame sociale. Il flusso dell’informazione si dissecca, e il singolo si sente solo, minacciato da declassamento, controllato da troppi occhi che «lo assillano moralmente e lo spingono a lasciare l’azienda per esaurimento». La Telecom è un caso speciale, perché per oltre mezzo secolo è stata un grande servizio pubblico: il 65% degli impiegati sono tuttora funzionari dello Stato. La maggior parte dei suicidi avviene tra loro e nelle classi alte: quadri e ingegneri di 48-50 anni, sconvolti dall’avvento di cellulari e internet.

L’assenza di parola è malefica, quando non circola più e si allontana come un Dio dichiarato morto: non viene data a chi forse si salverebbe parlando, non viene ascoltata quando stentatamente è detta dal sofferente, non è scambiata tra colleghi. Qui è il crimine, e tutti sono responsabili di un’afasia proliferante e contagiosa: i manager ma anche i sindacati, i politici che non illustrano i costi della crisi e i mezzi di comunicazione. Un mondo sta finendo - il lavoro fisso, il sindacato forte che arginava le disperazioni - e l’enorme mutazione è occultata, sottovalutata.

Ivan du Roy, giornalista a Témoignage chrétien e autore di un libro sui suicidi a Telecom, ricorda che non fu diverso l’affare dell'amianto: ci vollero decenni per riconoscere che i tumori nascevano in fabbrica. Lo stesso accadrà per il nesso lavoro-suicidio (Du Roy, Orange stressé: Le management par le stress à France Telecom, Parigi 2009). Gli amministratori della compagnia hanno esitato a lungo, prima di ammettere che qualcosa non andava, a cominciare dai vocabolari. Il management attraverso la paura, denunciato da Michel D, è qualcosa che non vogliono afferrare. Per mesi, il presidente Lombard ha parlato di «moda dei suicidi».

Questo linguaggio sprezzante è mortifero, soprattutto in un’azienda che è stata servizio pubblico dove il lavoro significava fierezza, prestigio. È un linguaggio sfrontato nato dal fondamentalismo anti-statalista. Mette in luce gli ingiusti privilegi di certi lavoratori ma fa loro mancare quello che più li motiva e li aiuta: il riconoscimento, la stima di sé. La parola d’ordine è, in Francia: Il faut secouer le cocotier - bisogna scuotere l’albero di cocco. Un’espressione perfida che richiama l’usanza, osservata in alcune etnie polinesiane nell’800, di eliminare fisicamente i vecchi quando non erano più capaci di arrampicarsi sugli alberi e raccogliere il cocco. Usato oggi, il termine significa: bisogna eliminare gli improduttivi. In Italia un ministro usa vocaboli simili (fannulloni, parassiti) senza sapere che la storia di certe parole è tragica, proprio quando esse diventano popolarissime.

I sindacati sono specialmente in causa, perché spetta a loro incanalare le ribellioni, educare al nuovo, e dare ai lavoratori non illusioni ma verità. Il suicidio smaschera la loro inconsistenza, essendo una rivolta strozzata subito. Il ribelle, lo dice l'etimologia, ricomincia sempre la guerra (re-bellum). Il suo linguaggio (militanza, mobilitazione) è militare. Il suicida grida, muto, che la guerra è finita: è infinitamente stanco di storia. Come l’Amleto europeo che Valéry descrive dopo il 14-18, «pensa alla noia di ricominciare il passato, alla follia di voler sempre innovare. Barcolla fra due baratri, perché due pericoli incessantemente minacciano il mondo: l’ordine e il disordine».

Non è vero che troppa informazione è deleteria, come dicono molti governanti. La maggior parte dei suicidi lamentano di non esser mai informati, su crisi e ristrutturazioni: né dai manager, né dai sindacati, né dai politici. Sentono solo parole offensive nei loro confronti. Sentono «un’agitazione permanente chiamata pomposamente innovazione», scrivono il 28 settembre i firmatari di una lettera aperta al presidente Telecom. Invitati ossessivamente a pensare positivo, nulla li prepara psicologicamente a tempi duri, al lavoro che ridiventa necessità e pena.

Non meno responsabile è la professione giornalistica. Da tempo ormai le pagine economiche dei giornali sono monopolizzate da articoli su imprese, finanza. I servizi sul lavoro sono pressoché scomparsi. Il capo della Confindustria si esibisce quasi fosse un ministro, pur essendo rappresentante di un sindacato come altri. Lo studioso Michael Massing scrive che la stampa Usa non si occupa praticamente più dei problemi sociali (New York Review of Books, 1-12-05). Il New York Times ha 60 reporter che seguono il business, e uno che segue il lavoro.

Il respiro breve, il tempo corto: sono mali che non affliggono solo la finanza ma anche il lavoro. Tutto deve esser ottenuto subito. Chi regna è il cliente: una giusta rivalutazione del consumatore, che rischia tuttavia di ributtare il produttore nel nulla («Je suis nul - Sono nullo, sarò licenziato», dice un altro suicida nell'ultima lettera). Tutto questo è moderno e tragico al tempo stesso. Sfocia in un brave new world dove mai sfuggi al sorvegliante. Dove ti ordinano di pensare positivo, e se pensi negativo ti eliminano come i vecchi che non sanno più inerpicarsi sull’albero di cocco.

Il nuovo discorso bulgaro di Berlusconi è solo apparentemente più conciliante del diktat che sette anni fa attuò una prima pulizia etnica del video. Anzi, contiene elementi per certi versi ancora più inquietanti.

Si ammette, certo, la facoltà della stampa, e dei media in generale, di criticare il potere politico; ma questo è immediatamente personalizzato nella figura del premier, e nella sua asserita volontà d’amore e di giustizia, una volontà talmente universalistica da consentirgli di accettare (viene da dire ‘tollerare’) anche le critiche, purché, naturalmente, restino "nei confini della moderazione"; in questo caso possono essere "usate per colmare le mancanze" dell’azione di governo. Se vanno oltre, però, se cioè non sono "moderate" – se non condividono le cose che il governo fa, anziché limitarsi a criticare il modo in cui le fa – allora diventano calunnie, che "non fanno piacere a chi è calunniato"; e che per di più si ritorcono provvidenzialmente contro il calunniatore, data l’istintiva simpatia che un popolo di grande intelligenza e saggezza come l’italiano prova per i perseguitati. La critica o è ‘costruttiva’, e accetta il terreno concettuale e valoriale del potere, o è una cattiveria, e lede il vincolo sentimentale che unisce la società, e che trova espressione nell’amore (ricambiato) del leader per la "gente".

A fronte di ciò, nel discorso bulgaro si parla di «preoccupazione per l’opposizione che ci ritroviamo in Italia», motivo non ultimo, insieme alla condivisione di valori e programmi, perché l’alleanza di governo sia salda. Il nemico è alle porte, insomma, e anzi sta per entrare: da qui l’esigenza di una compatta unità delle forze nostre. Improvvisamente l’immagine della società amorevole è sostituita da accenni di guerra e di oscuri fantasmi. Il che significa, anche se a Sofia non è stato detto esplicitamente, che le riforme – della giustizia, e forse della Costituzione – si hanno da fare da soli, e non dialogando con l’opposizione, tranne che questa non accetti obiettivi e metodi del governo, limitandosi a proporre qualche variante in uno schema già definito (da altri).

Da una parte, insomma, Berlusconi propone l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, perché condivide – grazie a un rapporto affettivo col capo – valori e stili di pensiero, senza voci dissonanti e fuori dal coro. Una società in cui il conflitto non esiste, né quello di classe né quello ideale, né quello – aperto e proclamato – degli interessi; una società in cui le voci della critica, dei media e delle altre istanze che costituiscono la pubblica opinione, non portano altro contributo che qualche variazione su un unico tema. Una società che si compiace delle stesse evidenze, che si turba per le stesse inquietudini; una sfera pubblico-sociale anestetizzata, e certamente assai diversa da quelle che storicamente sono state le società liberali e democratiche, caratterizzate da intensa e vivacissima dialettica di posizioni, dalla violenza della polemica nella stampa, nelle accademie, nelle case editrici, nei salotti intellettuali. Una società omogenea, insomma, e una stampa allineata o molto prudente.

A ciò si contrappone una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come una lotta tanto aspra che non trova moderazione e neutralizzazione neppure nelle istituzioni, nei poteri dello Stato. Queste, anziché essere interpretate come sistemi di regole intrinsecamente neutrali, la cui finalità è di lasciare sussistere il conflitto fra le parti senza essere esse stesse ‘parte’ – tranne il caso del potere esecutivo, che può essere ‘parte’, ma soltanto secondo precisi limiti –, paiono a Berlusconi sempre attraversate dall’energia della polemica, dalla partigianeria. Una sorta di iper-politicismo per cui la politica esce dalle istituzioni, le eccede continuamente, le travolge come la piena inarrestabile di un fiume, gonfio di polemicità. Tutte le magistrature sono necessariamente parziali e mai neutrali, la politica è sempre faziosità, la dismisura non può non travalicare la misura.

Sembra a volte di avere a che fare con un’applicazione domestica e in tono minore del celebre ‘politico’ di Carl Schmitt, il teorico secondo il quale la politica consiste essenzialmente nel rapporto amico-nemico. Oppure possono venire alla mente interpretazioni della politica come volontà di potenza, come grandioso e tragico destino di conflitto; una visione terribile, certo, ma anche nobile, che sta fra Nietzsche e Lenin. Ma lo sembra soltanto. Infatti, queste concezioni della politica la vedono come un’energia pubblica, che emana da un popolo, come una forza collettiva rivoluzionaria che mobilita ogni ordine giuridico-istituzionale. Berlusconi, invece, pensa alla politica come alla sua personale volontà di potenza, come a un eccesso privato che dilaga nel pubblico. In mano a lui, insomma, quello che in altri contesti è la rivoluzione che travolge le istituzioni, diventa più banalmente tentativo di prevaricazione, unito a un continuo sospetto della prevaricazione altrui.

Tutto ciò non è né rassicurante né innocuo, soprattutto se è diventata la nuova costituzione materiale del nostro Paese, e se diventerà – come sostengono e auspicano esponenti della maggioranza – la nuova costituzione formale. Infatti, lo scenario che prevede istituzioni politiche ‘calde’ percorse da spasimi di polemicità, e la società civile ‘fredda’, libera da conflitti e unificata semmai nel tepore pacificante dell’amore, è un’inversione quasi perfetta dell’Abc della moderna democrazia: è l’immagine, non rassicurante ma inquietante, di una democrazia autoritaria.

«Lo vedi, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo». Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte. Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell’ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all’arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi «noi ci saremo sempre».

Mi ha difeso l’Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.

Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando «tanti lavorano nell’ombra senza riconoscimento mentre tu invece…».

Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale. Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: «Si uccidono tra di loro», perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena. Perché così permettiamo all’Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.

Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l’ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti. E serve l’attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com’è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all’illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell’attenzione momentanea che sappia sempre un po’ di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent’anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani – esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti – hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.

Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un’altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole. Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c’è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.

È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l’attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.

Ho dovuto esibire le prove dell’inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c’è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta. Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell’altro?

Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza. Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti

Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.

Ma mi viene chiesta anche l’adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell’ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare. Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un’altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.

Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un’alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c’è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.

© 2009 Roberto Saviano. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

Mancano ancora Matera, Campobasso, Savona, Carugate, Cerveteri, Ciriè e qualche altra ma la lista delle città italiane che vogliono le Olimpiadi 2020 si allunga in modo significativo. Dopo Venezia e Roma si sono infatti aggiunte ufficialmente, in attesa di nuove ed estrose candidature, Palermo e Bari. E a questo punto non c’è più dubbio: magari il Cio non assegnerà i Giochi a nessuna delle nostre brave concorrenti, ma sul podio ci andiamo di sicuro: quello del ridicolo.

A premere per la candidatura di Chicago alle Olimpiadi 2016 volò a Copenaghen, inutilmente, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Quale credibilità può avere un Paese dove una cosa seria come la candidatura ai Giochi, affare costosissimo che richiede un immenso sforzo finanziario, viene annunciata in Sicilia dall’assessore regionale al turismo (col sindaco Diego Cammarata offeso: «Potevate almeno dirmelo...») e in Puglia dall’assessore comunale allo sport? Cos’è: un gioco a chi mette per primo il cappello sulla sedia?

Una manovra per dare vita a un comitato di studio (poltrone) e poi a un comitato promotore (altre poltrone) e poi a una struttura operativa progettuale (altre poltrone) e via così di prebenda in prebenda? Come ultimo tedoforo a Bari vedrei bene la D’Addario», ha ghignato subito il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, figurandosi la escort barese in marcia col cero in pugno. Quanto a Palermo, ogni battuta sarebbe di troppo: parlano già i precedenti. Ma sul serio torna a proporsi per questo appuntamento mondiale una città dove allo stadio di «Italia 90» non sono bastati 19 anni anni per demolire come previsto le tribune provvisorie che non avevano l’agibilità?

Dove quello di baseball fatto per le Universiadi (che non prevedevano il baseball) non hanno visto una partita? Dove il Velodromo dei Mondiali di Ciclismo cade a pezzi e il palazzo dello sport distrutto da un fortunale non hanno i soldi per rifarlo perché si son dimenticati di chiedere i soldi all’assicurazione con cui avevano una polizza da 95 mila euro?

Il governatore Raffaele Lombardo dice che lui non capisce proprio le perplessità degli scettici: «Non vedo perché non possiamo ambire a ospitare le Olimpiadi». Cos’avrà mai la città di santa Rosalia meno di Sydney, Londra o di Pechino? Ciò che gli dà più fastidio, dice, «è l’atteggiamento razzista di Galan, che avevamo avuto modo di notare già in occasione della polemica su Baaria». Il suo assessore al turismo e allo sport, Nino «Mortadella» Strano, noto agli italiani perché il giorno della caduta di Prodi si riempì la bocca al Senato di fette di «Bologna» col pistacchio, è ancora più rassicurante: «Quando ho letto che si erano già candidate sia Venezia che Roma ho ritenuto doverosa una proposta formulata dal Sud. E quale migliore città di Palermo per ospitare le olimpiadi?».

Il passato? Iiiiih, stavolta sarà diverso: «Siamo in grado di mettere in moto una macchina ciclopica». Ciclopica. E le ferrovie ottocentesche che viaggiano ancora coi tempi delle «littorine»? Gli acquedotti che perdono acqua e obbligano decine di migliaia di cittadini a rifornirsi con le autobotti? Le autostrade mai finite da decenni come la Catania-Siracusa? Le colline che franano al primo acquazzone portandosi via le case e le persone? Le aree industriali cosparse di cadaveri di edifici diroccati che non vengono rimossi? La spazzatura che invade le strade palermitane come quando Goethe scriveva che i bottegai buttavano tutto in mezzo alla via col risultato che essa «diventa sempre più sudicia e finisce col restituirvi, a ogni soffio di vento, il sudiciume che vi avete accumulato»? E la manutenzione quotidiana dell’esistente? Non ci vorrebbe lì, l’impegno ciclopico? Guai a dirlo.

L’accusa è automatica: disfattisti, leghisti, anti-meridionalisti! Eppure sono palermitani quelli che ieri hanno riso per primi. Palermitano è l’editore Enzo Sellerio: «E i promotori chi sono, Andersen e i fratelli Grimm?». Palermitano l’attore Pino Caruso: «Allora mi candido al Nobel». Palermitano il giornalista Enrico Del Mercato che su La Repubblica siciliana ha chiesto dove mai credono, gli autori della pensata, di poter trovare i soldi se Atene per i suoi Giochi ha speso 12 miliardi di dollari e Pechino 40,9 e dove credono di mettere la gente se in tutta la provincia ci sono 25.787 posti letto e cioè troppo pochi (anche a lasciare a casa gli spettatori e gli accompagnatori e tutti gli altri) perfino per i soli atleti e i cronisti, che a Pechino furono rispettivamente 11 mila e 21 mila.

Conosciamo l’obiezione: ma le Olimpiadi sarebbero proprio l’occasione per fare le cose! La «data catenaccio» per il grande riscatto! Esattamente quello che è stato detto le altre volte. E com’è finita? La prima data catenaccio furono i Mondiali 1990. In calendario c’erano tre partite: rifecero lo stadio (30 miliardi preventivati: 50 spesi) con quelle tribune posticce mai più rimosse, costruirono un capannone abusivo (la fretta...) per la sala stampa che nonostante l’impegno ad abbatterlo è ancora lì, pretesero tutte le deroghe possibili sugli appalti per finire in tempo l’aeroporto completato sette anni dopo l’ultima partita. Per non dire del treno da Punta Raisi a Palermo, la cui prima corsa sarebbe avvenuta nel 2001. Cioè quando erano finiti da 11 anni i Mondiali in Italia, da 7 quelli in Usa, da 3 quelli in Francia e stavano per arrivare quelli in Giappone e Corea.

E la seconda data-catenaccio? Per avere un’idea di come organizzare i mondiali di ciclismo del 1994, pensarono di andare a vedere come i norvegesi avessero organizzato i loro. E volarono a Oslo in 120: assessori, deputati, portaborse, mogli, cuochi e i musicisti di una banda folk preceduti via terra da un tir così carico di prodotti siciliani che vennero pagati sei milioni di solo sdoganamento. Perché tutte quelle mogli? «Che dovevamo fare?», si ribellò l’assessore Sebastiano Spoto Puleo, «Poi ci dicevano che siamo i soliti siculi che lasciano a casa i fimmini!».

La terza data, quelle delle Universiadi, non fu meno indimenticabile. Non solo per i relitti di impianti sportivi lasciati alle spalle, sui quali avrebbero fatto un’inchiesta dura il settimanale Il Palermo e una relazione micidiale la Corte dei conti, ma per un viaggetto sventato solo all’ultimo istante dalla magistratura.

Questa volta, nella scia della trasferta norvegese, avevano deciso di andare in Giappone, per vedere i mondiali universitari di Fukuoka, in 231. Il solito giro di deputati, funzionari e amici più gli «artisti» per uno show per i nipponici: 30 sbandieratori di Siena, 30 trampolieri emiliani, 30 gondolieri veneziani, 30 Pulcinella napoletani... Tutti all’Hyatt Residence: mezzo milione di lire a testa al giorno. L’assessore al turismo Luciano Ordile spiegò che era il minimo: «Mi dicono che un caffé costa 10 mila lire». E l’ultima data catenaccio? Chi se li dimentica, i campionati militari di Catania del 2003? Dovevano essere ai primi di settembre ma, rinvia oggi e rinvia domani, riuscirono ad aprirli solo a dicembre: «Eh, che sarà mai, a Catania sempre bello è!».

Macché: un freddo islandese. Ideale per l’atletica. Risultato: l’unico record mondiale battuto e ineguagliabile fu la gara d’appalto per una serie di costosi servizi di appoggio. La bandirono di venerdì pomeriggio con scadenza alle 12 del martedì e l’obbligo, nonostante il weekend di mezzo, di mandar le offerte per posta. Prodigio: ci fu chi ci riuscì. Una sola società. E chi era uno dei soci? Il figlio dell’allora senatore e assessore comunale Nino Strano. Lo stesso Strano di oggi? Lui. Pensa che strano..

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