I parchi fra luci e ombre. Le luci: intorno al sistema delle aree protette italiane girano circa 2 miliardi di fatturato e 86 mila occupati. Quindi i parchi servono a tutelare paesaggi pregiati, generano cultura e reddito. Le ombre: i parchi sono pochi, se ne istituiscono sempre meno, i finanziamenti calano, imperversano le aggressioni edilizie. Questi dati emergono da un libro bianco di Federculture e Federparchi, il primo rapporto sul grande patrimonio culturale che i parchi custodiscono - paesaggi, centri storici, beni artistici, valori comunitari, tradizioni e anche lingue minoritarie e pratiche artigianali -, ma che talvolta viene vissuto come un inciampo allo sviluppo ed è minacciato da insediamenti residenziali e turistici, strade, cave... «I parchi sono un grande sistema per conservare la biodiversità», dice Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi, «ma anche uno strumento di coesione sociale e di promozione economica».
Il rapporto viene presentato domani a Roma (presso la Società Geografica Italiana, a Villa Celimontana). Da esso viene fuori anche l´immagine di una gestione tutt´altro che florida. «Il 70 per cento dei parchi è amministrato direttamente da Province o Regioni, mentre sarebbe necessario affidarli a enti specifici», dice Roberto Grossi, presidente di Federculture. Solo in 2 dei 24 parchi nazionali sono vigenti dei "piani regolatori", nonostante la legge del ´91, che disciplina tutta la materia, imponga che questi siano varati diciotto mesi dopo la nascita di un parco. «Quella legge ha esaurito la sua spinta», spiega Massimo Zucconi, responsabile parchi di Federculture. «Negli anni successivi al suo varo si passò da 600 mila a un milione 600 mila ettari di aree protette e nacquero 18 dei 24 parchi nazionali. Ma dal 2003 ci si è fermati, è stato istituito solo un altro parco e sono diminuiti i finanziamenti».
I parchi in Italia sono 1.144 (nazionali, regionali e d´altro genere). In essi abitano 4 milioni e mezzo di persone e sono presenti il 70 per cento dei Comuni con meno di 5 mila abitanti, segno che i parchi non sono solo natura, ma anche paesaggi urbani. Però la superficie protetta è poca, 3 milioni e mezzo di ettari, solo l´11,69 per cento del territorio nazionale: siamo indietro rispetto alla media dell´Unione europea (18,4), molto indietro rispetto alla Germania (59,4), ma anche all´Estonia (36,3), alla Polonia (29,2) e alla Repubblica ceca (25,9).
I finanziamenti pubblici sono scarsi: 241 milioni nel 2008 (lo 0,015 per cento del Pil). E nel 2009 c´è un taglio, per i parchi nazionali, del 10 per cento. Alcuni parchi incamerano risorse dalle proprie attività, ma in media solo per il 12 per cento. Con una vistosa eccezione, quella dei Parchi della Val di Cornia, in Toscana, un esempio virtuoso: qui nel 2007 si è raggiunto il pareggio, con biglietti e altre attività. Questi sei parchi (fra gli altri, quello archeologico di Populonia e quello archeominerario di San Silvestro) sono gestiti da una società per il 90 per cento controllata dai Comuni, per il 10 da privati. Molti albergatori, ristoratori, gestori di stabilimenti sono diventati azionisti e sono sorte nuove attività (circa una trentina, con un fatturato di 4 milioni di euro). Presidente della Val di Cornia è stato Zucconi, che però nel 2007 ha dovuto lasciare perché aveva alle spalle già tre mandati. Ma anche perché contrario a una serie di progetti dei Comuni che minacciavano l´integrità dell´area protetta.
E qui spunta il rischio più grande, accresciuto dai Piani casa. «I piani paesaggistici delle Regioni sono pochi», insiste Zucconi, «e quasi mai pongono dei limiti ai Comuni, incapaci di fronteggiare la spinta poderosa della speculazione immobiliare». E nei parchi, dove i paesaggi sono più pregiati, i valori fondiari sono un boccone sul quale si avventano in molti.
Dunque Berlusconi ha fatto sapere che è intenzionato a «dire tutto» in Tv, magari a reti unificate, per dimostrare che «è in corso una persecuzione giudiziaria». Si potrebbe osservare che da parecchi anni avrebbe dovuto «dire tutto», e dirlo davanti ai giudici, come sono tenuti a fare tutti i cittadini, innocenti o colpevoli quando sono coinvolti in affari di giustizia. Se volesse, ma purtroppo non nutriamo fiducia, entrare davvero nell´ampio contenzioso che lo contrappone non tanto alla magistratura ma alla Legge, farebbe bene a ripassare l´esaustivo dossier compilato in proposito da Giuseppe D´Avanzo (Repubblica del 18, 20 e 23 us). Il nostro cronista ha squadernato di fronte ai lettori, come reperti di anatomia patologica, il numero dei processi in cui è stato implicato il presidente del Consiglio: 16 e non 106, come l´interessato abitualmente affabula, il loro svolgimento preciso e la loro conclusione, laddove vi è stata. Alla fine ha suggellato l´inchiesta con una "moralità", tratta da Shakespeare, allorquando in "Misura per misura" il potente Lord vicario, rivolto alla donna che lo accusa, esclama, sicuro di sé: «La mia menzogna avrà più peso della tua verità!». Citazione che mi ha convinto solo in parte. Non vi è dubbio, infatti, che il potere abbia contato nei secoli quasi sempre più della verità, tanto che i rari casi di trionfo della giustizia sono stati portati ad esempio per i posteri, come quando Renzo e Lucia riuscirono infine a sposarsi. E pur tuttavia, nella annosa vicenda giudiziaria che inquina l´Italia, c´è qualcosa d´altro che si sovrappone alla eterna prevaricazione del forte sul debole.
La vergogna italiana è più specifica e attuale. Appartiene alla storia recente e senza di essa non si spiega. Si può definire come un generalizzato stravolgimento del senso delle cose, con un agglutinarsi degli opposti, non più distinguibili: il bene e il male, il delitto e l´innocenza, la volgarità e lo stile, e soprattutto, ciò che nella coscienza comune, non solo nel codice, fino a tempi recenti, era vietato e ciò che non lo era.
Il riscontro fattuale di questo fenomeno abbastanza unico, almeno nelle democrazie liberali, emerge nella cosiddetta persecuzione giudiziaria di Berlusconi. Quel che più colpisce è che nei dibattiti televisivi, nelle proposte di buona volontà di chi vorrebbe liberarsi del ricorrente impiccio, togliendolo in qualche modo dall´agenda, in quanti, avendo smarrito ogni logica ispirata alle costituzioni occidentali, blaterano di intangibilità dell´eletto di fronte alla chiamata in giudizio per reati di diritto penale, verificatisi nell´attività privata e non politica degli inquisiti, ebbene in tutta questa casistica ciò che ricorre non è la proclamazione dell´innocenza del reo, ma la denuncia della prevaricazione dei giudici.
Così, non solo per i sodali di stretta osservanza del Cavaliere, ma per i tanti che, pro bono pacis, cercano scappatoie parlamentari ed anche per milioni di elettori che hanno assimilato all´agire pubblico, l´ideologia del tifoso, per cui i propri campioni hanno sempre ragione e vanno sostenuti anche quando segnano un gol con le mani o rubano la partita, avendo corrotto l´arbitro, ebbene per tutti costoro che Berlusconi sia colpevole o innocente sembra non contare più nulla. Del resto Berlusconi stesso non dice mai: «Io sono innocente e lo dimostrerò davanti al giudice!». Il problema centrale non se lo pone neppure. Semplicemente esige di essere sottratto da ogni e qualsivoglia giudizio.
Ha portato in Parlamento i suoi legali perché gli cucinino provvedimenti ad hoc e, quando si è reso conto che neanche questo basta, fa escogitare altre sanatorie. Sarebbe stato più semplice votare all´inizio della Legislatura una legge di poche righe: «Tutti i reati di qualunque tipo, anche ricadenti sotto il profilo del diritto penale, eventualmente commessi prima, durante e (già che ci siamo, ndr) dopo l´esercizio del suo mandato politico dal presidente del Consiglio non sono soggetti ad azione giurisdizionale né possono essere perseguiti in alcun modo».
Cosa è giusto e cosa è ingiusto? Chi è innocente e chi colpevole? Se non siamo più capaci di rispondere a questi elementari interrogativi, tutto il resto è vaniloquio. Certo, tutto questo è cominciato prima di Berlusconi, prima ancora che scoppiasse Tangentopoli.
Quando la democrazia italiana era bloccata dalla guerra fredda e pagava il costo di una indispensabile e salvifico compromesso, perché il Paese non scivolasse verso lo scontro interno sanguinoso e neppure finisse in un regime autoritario di destra, i costi crescenti del funzionamento della macchina politica furono concordemente ripartiti. Gli uni percepivano una specie di Iva illegale su tutti gli affari, in specie quelli pubblici, tradotta in tangenti suddivise in quote di partito; gli altri si alimentavano attraverso i finanziamenti provenienti dall´Urss e con un aggio sull´attività delle cooperative. Gli uomini attraverso cui, a diversi livelli, transitavano i soldi, erano sovente disinteressati e non trattenevano un centesimo per se stessi. Altri non lo erano e lucravano anche personalmente. Cominciò lì a confondersi il concetto di onestà. Al centro e a sinistra il finanziamento illegale non si connotava come immorale. Nell´opinione pubblica prevalse l´idea che erano «tutti ladri», ma anche che il furto era una necessità insita nella politica. Quando crollò il Muro di Berlino andarono ad esaurimento i finanziamenti a sinistra mentre maturava nella stragrande maggioranza di chi sborsava quell´Iva aggiuntiva, dell´inutilità del pedaggio, una volta dissolta la minaccia comunista. I partiti crollarono su se stessi e Tangentopoli si affermò come una grande operazione di pulizia.
Riempiendo un vuoto i magistrati a volte andarono al di là del limite che avrebbero dovuto auto imporsi. Tutti, però, plaudirono, soprattutto a destra ma anche fra gli ex comunisti che si illudevano di averla scampata. Le macerie del cattolicesimo democratico lombardo veneto fecero da concime alla Lega. In tutto il resto d´Italia si affermò in breve tempo l´unico che avesse ancora i soldi, Silvio Berlusconi. Armato dell´arma assoluta delle Tv è assai più forte, convincente, pervasivo degli agit-prop comunisti di un tempo e delle «madonne pellegrine» che li fronteggiavano. Tantissimi italiani si sono convertiti al suo verbo. Così avviene che non ci sia ribellione etica nei confronti di un capo del governo gravato da un´accusa gravissima, già ampiamente provata, quella di corruzione giudiziaria. Sancita non dai cosiddetti «procuratori rossi» ma dalla Corte di Cassazione che nel luglio del 2007 ha confermato la condanna di Previti (il Cav. voleva nominarlo Guardasigilli!) e degli altri imputati nel processo Mondadori per il seguente reato: «A norma del 110, 319 ter e 321 del codice penale perché Berlusconi Silvio, Previti Cesare, Acampora Giovanni, Pacifico Attilio in concorso tra loro... promettevano e versavano somme di denaro a Metta Vittorio, magistrato della Corte d´Appello di Roma, affinché questi violasse i propri doveri di imparzialità... allo scopo di favorire la famiglia Mondadori/Formenton – e in conseguenza Silvio Berlusconi – nel giudizio che la vedeva opposta dinanzi alla Corte di Appello civile di Roma alla Cir dell´ing. Carlo De Benedetti». Nella stessa sentenza si confermava di non doversi procedere verso Silvio Berlusconi per intervenuta prescrizione, in quanto colpevole al momento dei fatti di corruzione semplice, non aggravata dalla corruzione in atti giudiziari, entrata in vigore poco dopo, nel 1992. Quale uomo politico del mondo libero, a cominciare dal Presidente degli Stati Uniti, gravato da una simile e comprovata accusa, sarebbe tollerato alla testa del governo, al di là di quanti voti abbia ottenuto?
«Io non do consigli a nessuno. Ma il Quirinale ha il potere dell’ultima firma. Se un provvedimento non va si rinvia alle Camere. Io non uso aderire ad appelli, ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. È una speranza che ottenga tanti consensi»
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero «padre nobile» della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo «imbarbarimento» e di questa «aggressione»: Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a «colpi di piccone» i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè «la nostra Bibbia civile».
«Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile». Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva «destrutturazione». «Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...».
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo «paesaggio in decomposizione». «Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...».
L’ultimo capitolo di questa nefasta «riscrittura» della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: «Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare». Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: «Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica». Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: «Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti».
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: «È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza».
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su Repubblica da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la «norma del privilegio». «Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare».
Lungaggini burocratiche e ipoteche dal valore esorbitante. Ecco perché, grazie a un emendamento alla Finanziaria, i beni confiscati alla Mafia ora rischiano di tornare nella disponibilità di Cosa Nostra.
C’è chi dice si estenda per 150 ettari e chi ne aggiunge altri 90 del terreno confinante. Si trova vicino a Polizzi Generosa, Palermo, Sicilia. Michele Greco, il «Papa» di Cosa nostra, lo acquistò dalla società Sat: un colpaccio perché quel feudo era il simbolo, l’ennesimo, dello strapotere del boss dei boss. C’era un’ipoteca, importante, e la questione andava risolta. Subito. La pratica fu seguita direttamente dal clan dei Croceverde che chiamarono i Salvo e detto fatto ne ottennero in quindici giorni la sospensione, con decreto del ministero delle Finanze. Poi, quando il «Papa» fu arrestato, il potere temporale sui suoi beni andò a farsi benedire e Verbuncaudo fu confiscato. E assegnato al Comune di Polizzi nel 2007, che lo accettò a patto che venisse destinato ad un’associazione impegnata nel sociale. Si individuò la Cooperativa «Placido Rizzotto Libera Terra», ma ecco che rispunta l’ipoteca. La cooperativa non può pagarla, il Comune neanche. Verbuncaudo rischia di essere venduto, malgrado sia stato assegnato perché mancano i soldi per l’ipoteca. C’è già chi è pronto ad acquistarlo, gente potente. Si tratta dei familiari di Greco. Sono cinque anni che fanno pressione con i loro avvocati.
Ma se alla Camera non viene cassato l’emendamento alla Finanziaria votato al Senato - presentato da Maurizio Saia, (ex An) quello che Gianfranco Fini definì «un imbecille», quando accusò di lesbismo Rosy Bindi ministro della Famiglia - sono 3213 i beni confiscati alla malavita e non ancora assegnati che rischiano di finire sul mercato. Le cosche sono pronte. Perché rimettere le mani su quella «robba» attraverso prestanome è facile, e perché farlo equivale a confermare che i tentacoli si spezzano ma sono pronti a ricrescere. E dove non arrivano le casse dello Stato e degli enti locali arrivano quelle di Cosa nostra.
RICORDATE ENRICO NICOLETTI?
Il «cassiere» dellaBanda della Magliana, Enrico Nicoletti, aMonte San Giovanni, nel Frusinate, possedeva un fabbricato a cui tiene ancora parecchio. È la casa natale dei genitori, legami affettivi che non si spezzano mai. Anche quello potrebbe tornare sul mercato. Idem per l’azienda bufalina con terreno, 8 ettari e oltre 2000 capi di bestiame fino al 2005, a Selvalunga, nel Grazzanise, dove Walter e Francesco Schiavone (Sandokan, boss dei Casalesi)hanno fatto il bello e il cattivo tempo. Don Luigi Ciotti ha l’elenco pronto di tutti gli immobili. «a rischio»: li venderà simbolicamente martedì mattina a Roma alle ore 11 presso la Bottega della legalità «Pio La Torre» in via dei Prefetti 23. Batterà lui stesso l’asta, perché a volte devi ricorrere a questi gesti simbolici se vuoi scuotere coscienze che basta troppo poco per riaddormentarle. Saia con il suo emendamento al Senato ha fatto sì che se passano 90 giorni dalla confisca senza assegnazione tutto torna sul mercato. «Con l’approvazione di questo emendamento è tradito l’impegno assunto con il milione di cittadini che nel ’96 firmarono la proposta di legge sull’uso sociale dei beni confiscati alla mafia - dice Don Ciotti -. Se la Camera confermasse la decisione di vendere all’asta gli immobili sarebbe enorme il rischio di restituirli alle stesse organizzazioni criminali». Virginio Rognoni, cofirmatario della legge Rognoni-La Torre è incredulo: «Venderli è una sconfitta per lo Stato, l’emendamento è un atto molto grave che non ha giustificazioni ».
Nella sua relazione presentata al governo nel novembre 2008 il commissario straordinario, Antonio Maruccia, magistrato di Cassazione, diceva, tra l’altro: «Le proposte conclusive del Cnel si sono concentrate, avuto riguardo alla destinazione dei beni, nella indicazione della necessità di vietare la vendita dei beni, per evitare che possano essere nuovamente acquistati, tramite prestanomi, dagli stessi soggetti a cui sono stati sottratti». Inoltre, il Cnel, nelle «osservazioni e proposte » del 29 marzo 2007 ribadiva la necessità di «affidare a una nuova struttura, specializzata ed avente solo tale funzione, il compito di gestire il transito dei beni dalla confisca alla collettività, dotando la stessa di poteri, finanziamenti e personale tecnico e specialistico necessario ». Stesse conclusioni nella Relazione approvata all’unanimità dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie nel novembre 2007, relatore Giuseppe Lumia, che si occupò proprio dei beni confiscati. Si legge: «Il punto critico attiene proprio alla particolare origine dei beni, che sono divenuti demaniali per effetto dell’azione di prevenzione; tale origine determina la continua pressione della criminalità destinataria dei provvedimenti, tesa al recupero dei beni o, quantomeno, a renderli inutilizzabili, in un’ottica che suona come aperta sfida alle istituzioni incaricate di affermare la sovranità delle ragioni democratiche ». Per questo, secondo la Commissione, è necessario non far rientrare la gestione e la destinazione di quei beni alle competenze generali dell’Agenzia del Demanio. Sarebbe molto più indicata un’ Agenzia centrale, ribadisce il documento, anche sulla base di tutte le audizioni effettuate durante l’indagine. Ma l’Agenzia centrale non è mai nata. L’emendamento, invece, sta lì, in attesa di essere definitivamente licenziato alla Camera.
Le 5 cooperative modello
sui terreni della malavita
È grazie alla legge 109 del ’96, quella di iniziativa popolare che prevede l’utilizzo dei beni confiscati per fini sociali, che sono nate realtà come quella delle5 cooperative Libere Terre che oggi operano in Puglia, Sicilia e Calabria. Ci lavorano il 30% di soggetti svantaggiati, i nomi delle cooperative, in alcuni casi, ricordano le vittime della malavita. Come la «Placido Rizzotto», il sindacalista ucciso dalla mafia nel 1948, o la «Pio La Torre», massacrato nell’ 82. Le 5 cooperative sociali hanno un capitale sociale di 279.301 euro, un patrimonio netto di quasi 1milione 400 mila euro e un fatturato che supera i tre e mezzo. Ci lavorano 103 persone. Racconta Alessandro Leo, di Terre di Puglia: «Diamo lavoro a 30 persone, in maniera stabile, oltre agli stagionali durante il periodo della raccolta. L’impatto sul territorio è incisivo, facciamo regolari contratti. Sembra normale detta così, ma qui in Puglia per le persone non è normale lavorare in regola anche se per brevi periodi». La cooperativa è nata nel 2008, grazie a giovani pugliesi che hanno deciso di lavorare per il riutilizzo dei beni confiscati alla Sacra Corona Unita, la «quarta mafia», «che sembra domata ma non dorme», dicono a «Terre di Puglia». Non dorme perché restano gli affari criminali. È tutto qui il significato della restituzione alla società dei beni confiscati alle cosche assume un valore fondamentale: «Ci aiuta ad affermare un’idea di cooperazione sociale che vince nella legalità, nella qualità e nella sostenibilità ». dice Leo. Per questo dicono no all’emendamento Saia. M. Z.
Il tesoro
che fa gola alla malavita
Grazie al lavoro svolto dal Commissario Straordinario reintrodotto dal governo Prodi nel 2007 dopo che Berlusconi lo aveva eliminato nel2003,è stato fatto un enorme lavoro. Si stima che il valore dei beni confiscati e destinati si aggiri intorno ai 725 milioni di euro, 225 dei quali risalgono agli ultimi 18 mesi,contro i 500dei dodici anni precedenti. I beni immobili confiscati sono 8.933: di questi 5407 sono stati destinati allo Stato e agli enti locali per fini sociali, come prevede la legge. 313 sono usciti dalla gestione del Demanio per vari motivi, mentre 3213 sono ancora da destinare. Secondo l’emendamento alla Finanziaria se nonvengono assegnati entro 90 giorni (che possono diventare 180 in caso di operazioni molto complesse), sono destinati alla vendita. Alla vendita provvede il dirigente dell’ufficio territoriale dell’Agenzia del Demanio.
Il “papello”
In due punti Riina chiedeva
«basta sequestri di beni»
In ben due punti il «papello», cioè la lista di richiesteche Totò Riina avrebbe inviato allo Stato per proporreunatreguadopola strage di Capaci, faceva riferimento alla legge Rognoni La Torre e quindi al sequestro dei beni di mafia. Esattamente al punto 3 compare, in modo esplicito, la richiesta di operare una «revisione della legge Rognoni La Torre». Il concetto viene ribadito, in modo specifico e articolato, al punto 10. La frase di Riina è:«misureprevenzione - sequestro non familiari». La formulazione è un po’ oscura ma il concetto, a giudizio degli analisti, è sufficientemente chiaro. Quel «non familiari» che segue la parola «sequestro» sta a significare che le misure della Legge Rognoni La Torre avrebbero dovuto colpire solo i beni strettamente riconducibili al boss ma non quelli dei suoi familiari. Ecco la «riforma» che Cosa Nostra desiderava.
Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato?
L’Italia sta diventando un perverso laboratorio dove elementi altrove controllabili si combinano in forme tali da infettare l’intero sistema. E il contagio si diffonde dalla politica all’intera società, dove ogni giorno vengono messi in scena il degrado del linguaggio, il disprezzo delle regole, l’esercizio brutale del potere. Di fronte a pretese e interventi particolarmente devastanti, come quelli che stravolgono la legalità in nome dell’interesse di uno solo, si evoca lo "stato d’eccezione", una categoria politica costruita per giustificare l’esercizio autoritario del potere di governo e che, tuttavia, rivela una sua nobiltà intellettuale che non si ritrova nelle miserabili prassi italiane di questi tempi. Che sono ormai così diffuse e radicate da impedire che si parli dello stato d’eccezione come di qualcosa appunto eccezionale. Come si è parlato di "emergenza permanente", per imporre logiche autoritarie e manomettere i diritti, così è ragionevole definire lo stato delle cose italiane come uno "stato d’eccezione permanente".
Sono gli stessi principi costituzionali ad essere regolarmente violati, a cominciare da quello di eguaglianza. Non dimentichiamo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il "lodo Alfano" proprio per il suo contrasto con quel principio. Dobbiamo ricordarlo ancora oggi di fronte alle proposte di approvare una legge costituzionale che riproponga i contenuti di quel testo: anche questo tipo di legge deve rispettare l’eguaglianza. Lo ha sottolineato fin dal 1988 la Corte costituzionale, affermando che i «principi supremi» dell’ordinamento italiano non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi principi spicca proprio quello dell’eguaglianza tra i cittadini.
Ma la diseguaglianza è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, sta creando categorie di "sottocittadini". Nella vergogna del "processo breve" vi è la maggior vergogna dell’esclusione dai benefici degli immigrati clandestini. Questa erosione delle basi della convivenza nega l’universalità dei diritti fondamentali, legittima il rifiuto dell’altro e del diverso, e così apre le porte a quei fenomeni di razzismo e omofobia che rischiano di diventare una componente stabile del panorama italiano.
Una volta messi da parte i principi, la distorsione del sistema istituzionale diventa inevitabile e quotidiana, e non è più sufficiente a spiegarla il richiamo del conflitto d’interessi incarnato dal presidente del Consiglio. Si è manifestata una nuova forma di "Stato patrimoniale", dove si mescolano risorse pubbliche e private, l’influenza politica si sposa con la pressione economica, le aziende della galassia berlusconiana diventano snodi politici determinanti. Lo rivelano, tra l’altro, non solo il continuum Mediaset/Rai e gli annunci di normalizzazione di canali televisivi ancora un po’ fuori dal coro, ma anche le manovre che riguardano l’assetto complessivo delle telecomunicazioni, la proprietà dei giornali, il sistema finanziario.
Un potere che si è progressivamente concentrato in poche mani, con una idea proprietaria dello Stato che cancella gli altri soggetti istituzionali e azzera ogni controllo. Conosciamo la deriva che sta travolgendo il Parlamento, espropriato d’ogni funzione, e che ha portato alla clamorosa decisione di una "serrata" di dieci giorni della Camera dei deputati, decisa dal suo Presidente per denunciare l’impossibilità di lavorare. Un fatto davvero senza precedenti, che avrebbe dovuto provocare reazioni forti, che è stato piuttosto ricondotto alle schermaglie tra Fini e Berlusconi. La funzione legislativa è saldamente nelle mani del Governo attraverso i decreti legge e le leggi delega, e grazie al diffondersi delle "ordinanze di protezione civile", sottratte a qualsiasi controllo parlamentare e che contengono sempre più spesso norme di carattere generale, ben al di là delle emergenze che le giustificano. Ma è soprattutto la dimensione costituzionale ad essere evaporata. La Costituzione non appartiene più al Parlamento, tant’è che d’ogni legge in corso di discussione si discute se il presidente della Repubblica la firmerà o no, quali siano i rischi di una dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte costituzionale. I custodi della Costituzione sono altrove, e la stessa Carta costituzionale rischia di veder mutato il suo significato se una istituzione centrale, il Parlamento, si comporta come se le fosse estranea.
Molte aree istituzionali vengono così desertificate, prendendo anche a pretesto vere o presunte inefficienze. Si documentano i ridottissimi tempi di lavoro del Parlamento e se ne trae spunto per denunciare i deputati fannulloni, non per indicare misure per rivitalizzare il Parlamento, possibili già oggi. La stessa tecnica è adoperata per attaccare la magistratura e legittimare l’ennesima legge ad personam, quella sul processo breve, giustificata con l’argomento della ingiustificata durata dei processi. Ma è del 1999 la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che parla di una loro "ragionevole durata", sono anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per le lungaggini della giustizia, sono decenni che il dissesto dell’amministrazione giudiziaria può essere definito "una catastrofe sociale". Così sensibile al problema, la maggioranza di centrodestra non ha mosso un dito nella fase di governo tra il 2001 e il 2006, assai interventista in materia di giustizia, ma non per approvare misure e attribuire risorse per tagliare i tempi processuali, bensì per andare all’assalto dell’indipendenza della magistratura. E oggi vuole profittare di questa situazione per sottrarre Berlusconi ai processi e assestare un colpo ulteriore all’efficienza e alla credibilità della magistratura.
Un "dialogo" sulle riforme costituzionali, e la stessa politica quotidiana dell’opposizione, non possono ignorare tutto questo. E bisogna ricordare che la Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige particolare attenzione. È scritto nell’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la "forma repubblicana" e che non possono essere modificate senza passare ad un regime diverso. È proprio quello che non si stanca di ripetere, con sobrietà e fermezza, il Presidente della Repubblica.
La piazza del NO-B-day
di Norma Rangeri
Per come è nata (dalla comunità di Facebook), per come ha saputo contenere la voglia di alcuni partiti di metterci il cappello, per come sta crescendo, e per i contenuti della piattaforma che ne sta disegnando il volto, quella del 5 dicembre sarà una manifestazione inedita. Politicamente, culturalmente, anagraficamente. A due mesi dalla straordinaria manifestazione del 3 ottobre sulla libertà di stampa, nella stessa piazza si incontreranno i soggetti sociali che in questo momento politico, drammatico e confuso, sentono di non avere una rappresentanza e tentano di costruirla attraverso la rete.
Prendere la parola e comporre un'agenda di sinistra. E' possibile, necessario di fronte a una sinistra radicale frantumata nei mille pezzi, a un Pd incapace di offrire una cornice, ideale e morale, in grado di contrastare e sostituire il campo occupato dal marketing politico della destra berlusconiana.
Il no-B-day nasce e si sviluppa subito dopo la bocciatura del lodo Alfano, contro Berlusconi e lo sfascio della democrazia costituzionale, per ristabilire il principio della legge uguale per tutti. Cresce anche contro la privatizzazione dei beni comuni, la precarizzazione del lavoro intellettuale, la risoluzione della crisi attraverso la creazione di uno sconfinato esercito di riserva, contro il razzismo, contro il monopolio dell'informazione. I lavoratori di Eutelia con studenti, precari, giuristi, immigrati e artisti saliranno sul palco e mostreranno, insieme, legati come i nodi di una rete, forme di autorganizzazione divise e sommerse, escluse dal gioco del potere e della sua rappresentazione pubblica.
L'Italia legge meno, cresce il consumo di televisioni tematiche e aumenta il popolo di internet, lo documenta l'ultimo rapporto del Censis sulla comunicazione. Spiegando che la diminuzione del tempo dedicato alla lettura, nei giovani e nei ceti più acculturati, è occupato dai social-network. Di più: il 54 per cento degli utenti della rete fa parte di gruppi di interesse, ha sottoscritto appelli, ha partecipato a eventi sociali e manifestazioni politiche. Lo studio fotografa un cambiamento, ci piaccia oppure no, delle forme di aggregazione, dei rapporti personali, del modo stesso di sentirsi parte di una comunità. Qualcosa di nuovo e di diverso dal vecchio grillismo («se viene Napolitano gli diamo il posto d'onore», dicono gli organizzatori).
Con la manifestazione del 5 dicembre, le connessioni virtuali possono diventare reali, agire nel dibattito generale, sviluppare una dimensione politica, condizionare i partiti (le forze politiche saranno in piazza, fra la gente, nei gazebo), chiamandoli alla responsabilità di una risposta. Se ne saranno capaci.
In difesa della Costituzione
diDomenico Gallo
La manifestazione in programma per il 5 dicembre, convocata attraverso una straordinaria mobilitazione politica dal basso, è frutto della crescente consapevolezza che siamo precipitati in un tempo politico drammatico in cui è messa in gioco la sopravvivenza della Costituzione, cioè della nostra patria, in quanto la Costituzione è la patria dell'ordinamento politico.
Non possiamo non vedere che questo luogo politico, la Repubblica democratica con il suo patrimonio di beni pubblici repubblicani, è stato invaso da un esercito di occupazione che si sta impegnando con la massima solerzia a smantellare tutti (proprio tutti) i beni pubblici repubblicani. Non si tratta soltanto della seconda parte della Costituzione che viene contestata e delegittimata ogni giorno con gli attacchi ai giudici, alla corte Costituzionale ed al presidente della Repubblica (quando si mette di traverso), ma anche della prima parte, con l'attacco ai beni fondamentali della vita, come l'acqua, ed ai fondamenti della dignità umana e dell'eguaglianza, fino alla riesumazione strisciante delle leggi razziali.
Quando le truppe tedesche hanno invaso l'Italia, tutte le forze vive, tutti i patrioti, si sono opposti ed hanno unito i loro sforzi creando il Comitato di Liberazione Nazionale, nel quale sono confluite forze e culture diverse (dai comunisti ai badogliani), che hanno messo da parte le loro divergenze per perseguire l'obiettivo comune della salvezza della patria.
In questa contingenza storica, di nuovo un pericolo mortale minaccia la patria-Costituzione. Come avvenne con la Resistenza, ora come allora, occorre chiamare a raccolta tutte le energie spirituali, tutte le culture, tutte le forze politiche e tutti gli uomini di buona volontà, che riconoscono nella Costituzione la loro patria, ad agire con fermezza.
Di fronte a questa esigenza, tutte le forze politiche, che riconoscono valore ai beni pubblici repubblicani, devono mettere da parte le differenze (non cancellarle) ed impegnarsi in una fortissima unità d'azione per scacciare l'esercito di occupazione che dilaga nel territorio della patria. Non esistono alternative all'unità.
L'unità è imposta dalla legge elettorale che, attraverso lo strumento del premio di maggioranza impone che un solo esercito possa sfidare le forze di occupazione.
Anche se le radici del malessere della democrazia italiana vengono da lontano, è stato lo sciagurato scioglimento dell'Unione, nel 2008, a determinare questo disastro. Lo scioglimento dell'Unione è stato come lo sbandamento dell'esercito italiano l'8 settembre: ha tolto di mezzo il principale ostacolo all'occupazione della patria da parte dell'esercito invasore.
Se la posta in gioco è la sopravvivenza della democrazia repubblicana, cioè della patria, allora tutte le forze si devono coalizzare, tutte le energie devono essere chiamate a raccolta. Non si può dire, come irresponsabilmente si è fatto nel 2008: questo sì, questo no.
Solo una forte mobilitazione popolare dal basso può ricomporre l'unità delle forze democratiche intorno ai valori supremi della Costituzione per rovesciare la corsa verso l'abisso e riaprire il futuro alla speranza.
Agli estremi confini orientali, dove le colline friulane si preparano a diventare Slovenia, sorge Cividale del Friuli, perla medievale, antica capitale patriarcale e longobarda, cittadina con uno dei più vasti e ben conservati centri storici della Penisola, tanto da essere candidata italiana a ottenere il riconoscimento dell’Unesco di patrimonio dell’umanità. Su tanta bellezza sta per abbattersi la sciagura del nord-est, la furia edificatrice: un bel conglomerato urbano a cui hanno dato il nome di Cividale 3 (saltando, per fortuna, Cividale 2). L’ideona è della banca del posto, la Popolare di Cividale, l’unico istituto di credito locale rimasto solo, ricco e felice dopo la grande stagione delle concentrazioni bancarie.
Il suo presidente, Lorenzo Pelizzo, è da 40 anni padre padrone della banca. Il mondo è cambiato, sono caduti il Muro, la Prima Repubblica, la frontiera con l’Est, ma lui è restato saldamente alla guida del suo istituto, vera macchina del consenso locale, passando dalla vecchia Dc ai nuovi umori berlusconian-leghisti, più longevo di Fidel Castro e in gara con Kim Il-sung. Ora Pelizzo ha deciso di vincerla, la gara, preparando il mausoleo, o la piramide, che lo renderà immortale: Cividale 3, con la nuova sede della banca e tutt’attorno una città, un grande centro commerciale, uffici, abitazioni.
Un’operazione da 80 milioni di euro da realizzare sull’area della Italcementi, vecchia fabbrica chiusa da tempo, struggente monumento di archeologia industriale. Quando la banca padrona comanda, la giunta di centrodestra obbedisce. E così l’ideona di Pelizzo è diventata progetto del sindaco Attilio Vuga e della maggioranza che governa Cividale del Friuli. Pelizzo ha deciso senza consultare nessuno e l’amministrazione comunale ha ratificato. Ha scelto lui, senza alcun concorso, il progettista: non un professionista di fama internazionale, ma l’architetto Francesco Morena, che si è fatto le ossa con qualche centro commerciale in Cina e ora s’appresta a stravolgere la cittadina del Friuli con linee e volumi che s’ispirano – dice – a “Guerre stellari” e a “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, non senza una spruzzata di reminescenze celtico-longobarde (vedere per credere: http://europaconcorsi.com).
Ha scelto, senza gara, anche l’imprenditore che ha realizzato la bonifica dell’area: guarda caso il vicepresidente della banca, Adriano Luci che, con qualche conflitto d’interessi, è anche presidente dell’Associazione industriali di Udine. L’opposizione ha tentato di fermare il progetto. Agli inizi, da solo, Domenico Pinto (Rifondazione comunista). Poi un comitato di cittadini e intellettuali animato dall’avvocato di Cividale Rino Battocletti che ha raccolto le adesioni, tra gli altri, del poeta Andrea Zanzotto, dell’urbanista Leonardo Benevolo, dello scrittore Giorgio Pressburger, dell’artista Renato Calligaro, dell’ex direttore artistico del Mittelfest Moni Ovadia... E di Altan, che ha disegnato la vignetta-manifesto del comitato contro l’abbattimento della ciminiera Italcementi: un simbolico azzeramento della memoria ripreso, messo su YouTube e trasformato dalla giunta in una festa notturna di dubbio gusto, genere catastrofico. La fase uno ora è terminata: l’Italcementi è stata completamente rasa al suolo. Ma manca ancora l’operatore immobiliare che, in tempi di crisi, s’imbarchi nell’avventura di costruire.
Dopo cinque trimestri col segno meno abbiamo finalmente visto un segno più. Tecnicamente siamo fuori dalla recessione. Ma è un rimbalzo flebile e fragile.
Per consolidarlo abbiamo bisogno che riparta la domanda interna. Con 3 dollari che comprano 2 euro difficilmente sarà il consumatore americano, che per giunta farebbe bene a tirare la cinghia per ridurre il proprio indebitamento, a portarci fuori dalle secche. Gli italiani hanno fortemente aumentato la propensione al risparmio dall’inizio della crisi, destinando ai risparmi circa il 15 per cento del reddito disponibile. Per rilanciare i consumi si chiede in questi giorni a più voci di abbassare le tasse. Le richieste arrivano sommesse un po’ da tutte le innumerevoli rappresentanze di interesse che pullulano sul nostro territorio. Stranamente queste chiedono di abbassare le proprie di tasse e non quelle di chi potrebbe alimentare i consumi.
Si invocano, ad esempio, tagli all’Irap e all’Ires, più che riduzioni dell’Irpef. Ma anche chi è genuinamente convinto che il problema dei bassi consumi sia legato alle tasse evita accuratamente di porsi una domanda fondamentale: le tasse non c’erano già prima del calo dei consumi? E perché gli italiani hanno risparmiato di più durante la crisi? Non sarà forse perché quelli che possono permetterselo stanno accantonando risorse a scopo precauzionale, per proteggersi di fronte ai tanti rischi che la crisi ha posto loro di fronte? Con un futuro così incerto, si può capirli. È quello che farebbe ogni bravo capofamiglia.
Chi vuole davvero sostenere i consumi, anziché cercare una scusa per abbassare le proprie di tasse, dovrebbe perciò pensare prioritariamente ad offrire risposte a queste crescenti preoccupazioni delle famiglie, chiedendo al governo per quanto possibile di farsene carico. Ci sono una serie di rischi da cui solo lo Stato può proteggerci. Nessuna assicurazione privata, infatti, offre assicurazioni contro la disoccupazione. E la previdenza privata non ci tutela dal rischio di arrivare alla fine della vita lavorativa con risorse inadeguate per il nostro sostentamento perché abbiamo subito molte interruzioni della nostra vita lavorativa o perché non siamo più autosufficienti e abbiamo bisogno di continua assistenza. Quando non ci pensa lo Stato, ci deve perciò pensare l’individuo a tutelarsi da questi rischi, risparmiando anziché comprarsi una lavatrice o un’automobile. Essendo avverso al rischio finirà per risparmiare fin troppo. La stessa copertura potrebbe essere fornita da un’assicurazione collettiva, sottraendo ai consumi molto meno risorse.
La prima cosa da fare per sostenere i consumi è perciò ampliare la copertura delle assicurazioni sociali. Gli italiani devono essere certi di poter contare su di loro nel caso ne avessero bisogno. In questa crisi non abbiamo purtroppo esteso le assicurazioni sociali a chi ne aveva maggiore necessità (i lavoratori temporanei) e abbiamo reso meno sostenibili, dunque meno credibili, le assicurazioni già esistenti. Stiamo uscendone con meno assicurazione sociale di prima. Sono stati estesi i trattamenti di Cassa Integrazione, cosiddetti "in deroga", che non richiedono alcun contributo da parte di chi li ottiene. Per queste ragioni rischiano di diventare uno dei tanti strumenti temporanei che rimangono per sempre. Vuol dire scardinare l’assicurazione contro la disoccupazione che, per funzionare, ha bisogno di tanti contribuenti, imprese e lavoratori che versano i contributi e si proteggono insieme da un rischio che può riguardare chiunque. La scelta dei beneficiari dei trattamenti in deroga è poi discrezionale, dunque non si offrono certezze a chi ha paura di perdere il lavoro. Sono infine diversi da Regione a Regione, a seconda delle disponibilità. Nessuno può essere certo di riceverli nel caso perdesse l’impiego.
Non meno grave la situazione dell’assicurazione previdenza pubblica. La spesa è ulteriormente aumentata in rapporto al reddito generato nel nostro paese. Ormai un euro ogni tre raccolti fra tasse e contributi sociali serve a pagare le pensioni già in essere. Per ripianare i conti dell’Inps occorrono crescenti trasferimenti dalla fiscalità generale: più del 35 per cento del bilancio dell’ente quest’anno verrà dalla tassazione generale, anziché dai contributi dei lavoratori, erosi non solo dalla demografia, ma dal calo dell’occupazione. Tant’è che si parla di un imminente condono contributivo che servirebbe a fare affluire soldi alle casse dell’Inps. Sarebbe devastante per il sistema contributivo. Per convincerci che non lo si farà davvero, ormai non bastano più le rassicurazioni dei ministri. Sono state troppe volte smentite. Servirebbe un impegno cogente a non varare più condoni, magari scolpito sulla nostra Costituzione. In ogni caso, un sistema per un terzo coperto dalla fiscalità generale non è un’assicurazione. È un sistema che grava anche su chi sulla carta non dovrebbe pagare ed è chiaramente insostenibile. Talmente costoso da togliere risorse che servirebbero a coprire gli anziani dal rischio di non autosufficienza. Chi può allora dare torto agli italiani che decidono di assicurarsi da soli?
Rimane un mistero: perché molti sindacalisti ed illustri esponenti di Confindustria si ostinano a elogiare pubblicamente il nostro sistema di assicurazione sociale nonostante sia pieno di buchi, squilibrato e riduca i consumi che si vorrebbe tanto sostenere per uscire dalla crisi? Una risposta forse ce l’abbiamo, ma vorremmo tanto che non fosse quella giusta: non sarà forse perché questi trattamenti selettivi e discrezionali danno loro il potere di decidere a chi dare gli aiuti e a chi no? Per favore diteci che non è così.
Giardini di cemento accanto ai prati verdi. Per il nuovo stadio “Delle Aquile”, da edificare sui 600 ettari di proprietà dei fratelli Mezzaroma sulla Via Tiberina, “la nuova casa della Lazio”, il Presidente Claudio Lotito aveva fatto i conti senza il fiume. Alberghi, campi sportivi, parcheggi, piscine, uffici, musei tematici. Il tutto in un’area a forte rischio esondazione del Tevere. Il terreno, che dopo la costruzione delle strutture, avrebbe visto il suo valore moltiplicarsi, forse rimarrà tale. Campagna romana senza gloria. I tifosi ironizzano: “Avremmo giocato a pallanuoto”, Lotito, contestato, tace. Storia non dissimile per la Roma di Rosella Sensi, che avrebbe individuato nella“Massimina-La Monachina”, area non edificabile (perché dichiarata “destinazione agricola”), il luogo eletto per il futuro impianto della società. Richiedendo la cancellazione dei vincoli del piano paesaggistico adottato dalla Regione, che prevede di legiferare proprio in materia di tutela dell’Agro Romano.
A Firenze, per i suoi parchi tematici torniti da negozi, Diego Della Valle aveva individuato la zona di Castello. Le ruspe di Ligresti e il non ostracizzante interesse dell’ex sindaco Leonardo Domenici, dopo un intenso traffico di intercettazioni telefoniche, avevano allarmato la magistratura. Tutto sotto sequestro da parte della Procura della Repubblica (con malcelata rabbia del patron di Tod’s) e nuova linfa al progetto, da parte dell’uomo (nuovo?) del palazzo toscano, Matteo Renzi. Si decide a giorni e Castello non ha perso appeal. Renzi si era orientato verso Osmannoro (proprietà del costruttore Fratini) e Ligresti, per cui la questione non è relativa, attende comunque il via libera.Senza imparare dai propri errori, la storia si ripete. A quasi vent’anni dalla sbornia di Italia ‘90, col suo corollario di stazioni ferroviarie abbandonate, progetti iniziati e lasciati a metà del guado, indagini, arresti e processi, ecco riapparire una nuova crociata. Immaginare stadi avveniristici è la moda del momento. Costruirli, il passaggio successivo. Le arene del paese sono vuote. Dopo Milan e Inter, nella classifica dei 50 club europei capaci di riempire tribune e gradinate, l’Italia occupa la retroguardia. La Juve è fuori e dentro il recinto, ma oltre il 30° posto, resistono Napoli, Lazio e Fiorentina. Lontanissime dal Manchester United, capace di trascinare all’Old Trafford, una media di oltre 75.000 persone a gara.
Per eliminare la burocrazia, il Ddl 1881: “Disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione degli impianti sportivi”, giunge al momento giusto. Nel progetto di legge firmato (per quanto valgano le categorie) da 32 deputati di centro, destra e sinistra, in testa Butti del Pdl, si postula la rivoluzione. In seguito ad un accordo di programma tra la società sportiva che vuole realizzare la struttura e la Regione, infatti, ogni procedura avrà una corsia preferenziale e i tempi non potranno superare i dieci mesi. Obbiettivo principe, gli Europei del 2016, non ancora assegnati ma prospettati come l’avvento del Messia dall’intero movimento calcistico.
Il termine per avanzare le candidature è il 15 gennaio e in molti, hanno cominciato a correre. In un pallone che lamenta modesti incassi complessivi se paragonati a quelli inglesi o spagnoli, i presidenti hanno iniziato a far cadere carte topografiche e plastici dall’alto. Ventiquattro società hanno presentato il loro progetto. Come in Dogville di Lars Von Trier, esistono realtà virtuali ed effettive. Un mondo di proiezioni economiche e un altro pianeta, quello politico, non indisposto ad assecondare le brame di chi nel calcio, scorge una slot machine potenzialmente fruttuosa.
Approvata senza indugi al Senato, la legge sui nuovi stadi italiani, è passata senza intoppi anche al vaglio della VII commissione cultura, scienza e istruzione della Camera dei Deputati, con una deliberante che ha evitato il voto in Aula e il parere consultivo delle commissioni Ambiente e Lavori Pubblici. Alla prova del voto definitivo però, non è detto che tutto fili liscio.
"Si dovrà sentire il parere di tutti", afferma Fabio Granata del Pdl aprendo a parziali modifiche del testo. Oltre le veline entusiastiche e le vuote enunciazioni, si è affacciato il sospetto della speculazione edilizia. Legambiente l’ha detto senza indugi: “È la più grande del dopoguerra, lo sport non c’entra niente”. Milioni di metri cubi di cemento, griffati da architetti celebri (c’è anche l’onnipresente Fuksas), con un impatto significativo e distante dall’ecologia su enormi zone ancora non edificate della prima periferia. Evadere dalle città, sembra essere infatti il primo imperativo. Il fatto che gli stadi attuali, siano stati eretti in aree “sottoposte a vincoli urbanistici e monumentali”, viene sventolato come un grave problema di ordine pubblico, da risolvere, in maniera equanime, distribuendo tessere per i tifosi, biglietti nominali (criticati dall’Uefa e unico caso europeo) e patenti di libera azione ai palazzinari.
Che gli impianti italiani siano vecchi non è una menzogna. Quasi ottuagenari per età media, nelle 126 strutture utilizzate da società professionistiche, ben 69 hanno una capienza inferiore ai 10.000 posti. Su sei miliardi di giro d’affari complessivo a stagione, (quasi mezzopunto di Pil), solo una piccola fetta, meno del 5 per cento, arriva dagli stadi. Per Juventus, Roma, Milan e Inter, la casa ospitante non vale più del 15% complessivo degli introiti. In Inghilterra, la percentuale degli incassi derivanti dagli stadi (rispetto al fatturato) sale fino al 42%. Quasi tre volte. Qui però si va molto oltre la modernizzazione.
A fondo valle, esaurita la forza argomentativa di cifre e grafici, rimangono i sospetti. Di passaggio agognato da “stadio calcistico” a “stadio produttivo” (multifunzionalità dell’impianto, aree specifiche destinate all’intrattenimento e alla cultura) si parla da anni. Una formula, denunciano i detrattori, (in testa moltissime sigle ultras), volta ad affinare gli appetiti di chi sogna un nuovo boom. Costruzioni di centri residenziali e commerciali, privatizzazione degli impianti esistenti, modificazione di destinazioni d’uso delle aree pubbliche.
Il tutto, naturalmente, attingendo con generosità al denaro pubblico. Deformando gli esempi inglesi (Taylor Act, 170 milioni di Sterline destinate alla costruzione di costosissime cattedrali) e tedeschi, l’Italia s’è desta.
In un Paese che riduce al di sotto della minima soglia di accettazione, le erogazioni per servizi essenziali (scuola, ricerca, giustizia e sanità), il tema divide. Bianco o nero, senza mediazioni.“Con la scusa degli Europei di calcio, si stanno facendo passare scelte in cui a pesare sono interessi immobiliari di tipo speculativo”, dice Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente che attacca la parte della legge riguardante i “complessi funzionali”. Nel Ddl, insieme allo stadio, si può costruire anche un nuovo quartiere con attività commerciali, ricettive, di svago, unitamente a insediamenti residenziali. Da realizzarsi addirittura “in aree non contigue all’impianto”. Per facilitare il tutto, un piano triennale di intervento straordinario (soldi pubblici) che prevede la concessione di “contributi destinati all’abbattimento degli interessi sul conto capitale degli investimenti”. Davanti a un cataclisma simile, Alfredo Cazzola non avrebbe lasciato il Bologna in un amen. Romilia, l’arena che avrebbe dovuto sostituire il glorioso Dall’Ara, posta lontano dai portici, tra Budrio e Medicina, tramontò all’inizio di agosto di due anni fa. Anche in quel caso, parchi tematici, villette a schiera per 30mila mq, rischio esondazione e 234 ettari lontani da autostrade e ferrovie.
I tifosi avrebbero dovuto, in estate e in inverno, sobbarcarsi quasi due chilometri a piedi dalla stazione più vicina. La provincia bocciò senz’appello il piano Cazzola “Non esistono le condizioni per procedere in un ambito agricolo ancora integro”. Cazzola non si trattenne: “Da oggi, tutti sanno che a Bologna non si può più investire” e cedette l’impresa ai Menarini, anch’essi costruttori non disinteressati a un progetto simile che ora langue, in una partita a scacchi tra Pd e Udc, nelle segrete stanze di Palazzo D’Accursio. Diversi ma non troppo, i casi di Palermo e Genova. In Sicilia, Maurizio Zamparini, smania. Accantonato il disagiato quartiere, Zen, il presidente punta sul Velodromo. Zampa vuole comprare l’area “Per innalzare l’impianto e altre opere sportive, ludiche e commerciali”. Ineluttabilmente, Zampa bussa al Comune. “Chiederò di venderci i terreni e fare presto con le autorizzazioni”, mischiando voglia di cambiamento e pretesa nell’abusato richiamo “all’orgoglio siciliano”. Ultima stazione, Genova. Il “Ferraris” è tra gli italiani, il più inglese tra gli stadi. Nonostante ciò, è allo studio il progetto di abbatterlo. Nuovo contenitore: introiti e appalti. Per il parlamentare del Pd, Roberto Della Seta, “La costruzione di nuovi stadi è solo un pretesto per dare mano libera ai poteri forti”.
Intanto gli ultras non rimangono in silenzio. “Il solo costo dei biglietti per una famiglia di 4 persone si aggira in media sui 200 euro. Quante persone potranno sottrarre dal bilancio familiare 5000 euro a stagione?” replica Lorenzo Contucci, avvocato. In realtà chi ha un basso salario non può più permettersi lo stadio: “Si sta operando una sostituzione antropologica dei tifosi. Una pulizia etnica di classe”. Anche senza giungere a tanto, un piano esiste. L’isola che non c’è, prevede doppiopetto e invito. Il resto di niente, è una partita in tv. Senza rumore, urla, voci, passioni. Intorno fluttuano figure colorate. Da una parte all’altra, come in un acquario.
Da quando ricopre la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini ha un’aspirazione che lo domina, costante: quella a esser statista oltre che uomo politico, e a scorgere nelle trasgressioni istituzionali di Berlusconi pericoli che lui, anche se solitario, vuol diminuire o combattere. Il suo magistero, come quello di Napolitano, è delicato: egli rappresenta la nazione, non può esser presidente di parte. Ma Fini ha osato molto, ultimamente, fino a praticare quella che Albert Hirschman chiama l’autosovversione: esprimendosi su temi essenziali come l’immigrazione, i diritti civili, il testamento biologico, la laicità. Il libro che ha appena pubblicato (Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Rizzoli) conferma una volontà precisa, e il desiderio di pensare la democrazia italiana nel tempo lungo, prendendo congedo dai dizionari delle «parole neoideologiche» e dei luoghi comuni («Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee in definitiva rassicuranti, ma immobili, dell’ “identità”»).
Proprio perché ha deciso di scandagliare nuovi mari, vorrei porre al presidente una domanda di fondo, attorno a un assioma apparentemente importante che lo guida: se sia giusto, nonché utile, perseguire sistematicamente il Male Minore, nella resistenza al degrado delle istituzioni democratiche. Se davvero la situazione sia così degradata e povera di alternative, da imporre questa classifica dei mali, basata sulle categorie economiche del più e del meno. Nelle dittature la ricerca del male minore è spesso la sola via, anche se non necessariamente la più feconda.
Spesso è un camuffamento per iniziare i recalcitranti; solo di rado ingenera i casi Schindler, che accettò il nazismo salvando 1100 ebrei. Ma nella democrazia? L’economia dei mali è usanza antica, ma ha senso farne un assioma?
L’interrogativo si pone perché tutta la politica italiana, da anni, ruota attorno a questo concetto. L’hanno interiorizzato le opposizioni, svariati giornali, anche la Chiesa. Lo difendono i centristi (nuovi o vecchi): spesso moderati per non-scelta, per calcolo breve, per conformistica aderenza all’opinione dominante. L’ultimo esempio di politica del male minore è quello di Fini nell’incontro col presidente del Consiglio del 10 novembre: per evitare il peggio - la prescrizione rapida, cui Berlusconi assillato dai processi Mills e Mediaset teneva molto - il presidente della Camera gli ha concesso il processo breve, che è una prescrizione camuffata e accorcia i procedimenti con l’eccezione di alcuni reati (non i più gravi d’altronde, essendo escluso anche il reato di clandestinità: «una semplice contravvenzione punibile con banale ammenda», commenta Giulia Bongiorno, deputato, vicina a Fini).
La giustizia lenta affligge gli italiani, ma il rimedio non consiste nel dichiarare che il processo si estingue automaticamente dopo tre gradi di giudizio per la durata complessiva di 6 anni, bensì nell’introdurre preliminarmente le riforme che consentono di abbattere i tempi. Riforme da applicare a monte, senza toccare i processi pendenti. Non si tratta di troncare i processi, ma di accelerarne il corso. Dichiarare estinto un processo perché dopo due anni non c’è sentenza di primo grado è di una gravità estrema. In certi casi, soprattutto per reati delicati con rogatorie internazionali, due anni davvero non bastano. Scansare il male maggiore è buona cosa, ma quello minore - ambiguo, sdrucciolevole - non è detto dia frutti.
Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in teologia e filosofia. Cominciò il cristianesimo nel IV secolo a graduarli, con Agostino, introducendo nella valutazione il calcolo economico (il filosofo Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta al bene, divenne giusta. Il fine comunque rimaneva determinante, e il fine era il perfezionamento e l’imprescindibile trasformazione dell’uomo cui esso conduce.
Secolarizzandosi, tuttavia il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente e del male.
Cessa d’essere tappa d’un cammino accorto, si fa consustanziale alla democrazia, addirittura suo sinonimo. Lo descrive con maestria Hannah Arendt, negli Anni 50 e 60, con ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman, l’architetto israeliano direttore del Centre for Research Architecture a Londra, in un eccellente libricino intitolato Male Minore (Nottetempo 09). Marco Belpoliti l’ha recensito su la Stampa il 28-8-09.
Accade a ciascuno di cercare il male minore, nella vita individuale e pubblica. È il momento in cui urge, tatticamente, scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza, l’astuzia. Ma il male minore rischia di installarsi, di divenire concetto stanziale anziché nomade: non ambivalente paradosso ma via aurea, con esiti e danni collaterali che possono esser devastanti, non subito ma nel lungo periodo. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, in effetti, sorgono insidie che la Arendt spiega bene: «Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai primi». «Ossessionati dai mali assoluti» (Shoah, Gulag) ci abituiamo a non vedere il nesso, stretto, tra male maggiore e minore.
La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma. Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo, che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria, l’opzione si trasfigura e si naturalizza, in politica, trasformando l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale - scrive Weizman - è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici ma nell’insieme della nazione.
Quando Fini sceglie un piccolo male per evitare al peggio, è pur sempre nel male che resta, anche se forse a disagio: con effetti infausti sul futuro cui tiene tanto. Una successione di piccoli mali finisce infatti col produrre un male grande raggiunto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare l’estensione dei loro guasti.
Fini e Napolitano vengono da esperienze non dissimili. Ambedue hanno accostato i mali assoluti, avendone condivise le ideologie, e con coraggio ne sono usciti. Ambedue hanno scoperto le virtù del moderatismo pragmatico, del male minore. Ma il male minore è una trappola, se il suo essere anfibio e la miopia del pragmatismo son taciuti. Il male assoluto, paradossalmente, attenua la vigilanza: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente d’aver scelto a favore del male», dice la Arendt. Dimentica che l’eroe delle tragedie greche è sempre alle prese con un dilemma: con due mali più o meno terribili, con le due corna del toro infuriato. La via di Robert Pirsig, evocata da Weizman, è non privilegiare un corno piuttosto che l’altro, ma prendere il toro per le corna (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi 1981). Il che significa: disobbedire, rifiutare il miserando gioco della torre. Oppure: «Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena».
La manifestazione della Cgil, oggi a Roma, ("Il lavoro e la crisi: esigiamo le risposte") è un fatto politico importante per questa nostra Italia, sempre più mal ridotta.
Stiamo ai fatti. Ogni giorno che passa c'è un attacco e una limitazione dei principi democratici sanciti dalla Costituzione. Si è avviata una marcia verso un presidenzialismo autoritario, che vuole mettere in cantina il potere legislativo e quello giudiziario. E, di fronte a questa prospettiva evidente, c'è una sinistra politica a pezzi, che non costruisce un programma unitario, ma continua a dividersi e suddividersi, che non costruisce (e neppure lo tenta) un complesso di iniziative comuni.
In questa situazione, che non è di superficie, ma profonda (Gobetti scriveva di "autobiografia di una nazione"), la Cgil è l'unica valida forza di sinistra in campo con la capacità di sviluppare un suo dibattito interno sulle cose da fare. E ha un ruolo politico di primaria importanza, come altre volte nel passato, senza bisogno di ricordare Giuseppe Di Vittorio.
La Cgil ha il suo rapporto istituzionale e fondamentale con i lavoratori che l'attuale crisi mette in estrema difficoltà. Ci sono stati e ci sono i cambiamenti del mondo del lavoro come altre volte nel passato, ma questa volta più gravi. Si sono ridotti e si riducono sempre più i contratti a tempo indeterminato e siamo a una straordinaria crescita del precariato, cioè dell'isolamento o della solitudine dei singoli lavoratori. I grandi e straordinari cortei dei metalmeccanici degli anni caldi, della crescita economica e della contestazione, sono diventati più rari. C'è anche un problema dell'associazione sindacale dei lavoratori. Tutti ci dicono: stiamo uscendo dalla crisi, ma con più disoccupati.
Tutti questi nodi ci sono e vanno affrontati, proprio per questo la manifestazione di oggi può essere un inizio. Dopo la Cgil si tornerà in piazza, contro Berlusconi, il 5 dicembre, per una manifestazione nata dalle maglie di Internet, con l'adesione di Di Pietro e Rifondazione. Una occasione importante di partecipazione e di opposizione, in un momento di divisione interna alla maggioranza, come dimostra la bocciatura, ieri in senato, dell'emendamento su quella banca del Sud, voluta dal ministro Tremonti e bocciata dal presidente Schifani.
Dunque un inizio di ripresa sindacale, della politica e della sinistra. I grandi e antichi obiettivi dell'eguaglianza e della libertà tornano di attualità perché sono negati, tornano a essere praticabili e sono quanto mai necessari in una situazione nella quale anche il regime berlusconiano mostra segni di crisi. Il berlusconismo si conferma un aggregato di interessi particolari, che, in quanto tali, cominciano a confliggere tra loro.
Una situazione nella quale anche l'attuale potere manifesta segni di crisi accresce la pericolosità della situazione, di feudalizzazione della Repubblica, o, addirittura, di una peronizzazione.
Proprio per tutto questo siamo con la manifestazione di oggi della Cgil e anche di quelle che verranno.
Pur di acquisire il consenso della Lega a un provvedimento di vitale interesse per il loro principale, i maldestri giuristi di Berlusconi, in spregio al codice penale, patrocinano una riforma del processo che modifica profondamente il senso comune di giustizia e lo stesso orizzonte dei valori civili. Di fatto, introducono nel diritto italiano il principio della discriminazione su base etnica e di censo. Come definire altrimenti la scelta di escludere dal beneficio della prescrizione gli imputati di immigrazione clandestina? Questo prevede il disegno di legge "per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi". Una scelta inequivocabile, come del resto quella di considerare il furto e lo scippo reati più gravi della corruzione.
Esprimendo "indignazione e tristezza", lo denuncia il padre gesuita Giovanni La Manna: "La già insensata fattispecie di reato di immigrazione clandestina, semplice contravvenzione punita con un´ammenda, da oggi viene equiparata ai reati di mafia e terrorismo". Non è un paradosso. Lo straniero irregolare, se approvata la nuova legge, subirà la medesima limitazione di garanzie riservata a presunti mafiosi e terroristi.
La fretta di escogitare un salvacondotto che preservi un singolo potente dal naturale corso della giustizia genera dunque un mostro giuridico. La destra al governo, vincolata dall´allarme sociale che la sua stessa propaganda ha esasperato, agita come un vessillo la fermezza nei confronti della microcriminalità di strada e degli stranieri irregolari, sebbene in realtà oggi stia perseguendo l´impunità dei suoi vertici. Le riesce impossibile coniugare garantismo e populismo. Ridisegna piuttosto un´iniqua mappa dei cittadini meritevoli di essere protetti dalle lungaggini dei tribunali; da privilegiare rispetto ad altri, indegni perché estranei ai suoi criteri di onorabilità.
È tipico di un regime plutocratico e demagogico tollerare la corruzione come reato meno grave dello scippo. Confidando sul fatto che un´anziana cui hanno strappato la borsetta al mercato desideri giustamente la punizione severa del «suo» ladro, rassegnata viceversa all´inevitabile spregiudicatezza di chi sta troppo in alto, intoccabile. Vogliono convincerla che il governante è perseguitato per invidia o fanatismo politico. Come ricompensa, la rassicurano: lo straniero suo vicino di casa resterà perseguibile. C´è un diritto mite per la gente perbene, di cui anche lei fa parte, e un diritto implacabile per gli estranei.
La colpa originaria del clandestino sia dunque imperscrittibile. Egli appartiene a una categoria destinata a restare priva di garanzie. Il principio costituzionale dell´uguaglianza di fronte alla legge non deve riguardarlo. Tale riforma del diritto, che spacca in due la cittadinanza, trova conferma nella norma che privilegia gli incensurati rispetto a coloro che hanno precedenti penali quand´anche siano processati insieme per il medesimo reato: dopo due anni il giudice dovrà prosciogliere l´incensurato, ma non il suo complice recidivo.
La carica ideologica della norma che rende imperscrittibile la condizione di «clandestino» sovrasta i suoi effetti pratici. Sappiamo bene che il reato di immigrazione illegale minaccia l´esistenza di molti stranieri cui è scaduto il permesso di soggiorno – e non solo coloro che varcano di nascosto le nostre frontiere – senza che la salatissima multa eserciti alcuna dissuasione concreta. Ma la regola introdotta su richiesta della Lega – a dispetto dell´equità giuridica e di quanto concordato al vertice del Pdl – sancisce una novità di portata storica.
La legge introdotta di recente, come è noto, punisce con la sola sanzione amministrativa il comportamento di chi si trova in Italia senza permesso. Pochi mesi dopo, a dispetto della norma appena stabilita, ecco che un nuovo disegno di legge ingigantisce la valutazione di gravità del medesimo comportamento fino a prevederne il trattamento giuridico speciale.
Un´altra volta, con la consueta prontezza, la Lega approfitta delle difficoltà del premier imponendogli la sua egemonia culturale. Prosegue così la codificazione normativa del sentimento xenofobo, ultimo effetto di una giustizia spaccata in due.
Bellezze naturali all’asta. Lo Stato vuol fare cassa ma la Toscana si ribella
Giuliano Fontani
Lo Stato ha bisogno di soldi e per questo sta vendendo, all’asta, alcuni “pezzi” pregiati della Toscana. Con l’obiettivo di fare cassa, dopo lo scudo fiscale per il rientro dei capitali dall’estero, ecco la vendita dei beni ambientali, i gioielli di famiglia.
Non desta meraviglia che in Toscana a rischiare di più sia l’isola d’Elba, dove il demanio possiede spiagge e campagne su cui da sempre sono puntati gli occhi degli speculatori edilizi. Ma sono in vendita anche beni “minori”, appartamenti, appezzamenti di terra, magazzini, perfino cabine telefoniche. Una strategia politica tesa a monetizzare, che non risparmia neppure gli “affitti”, vale a dire le concessioni demaniali.
«Quel che meraviglia e che ci sentiamo di contrastare - dice l’assessore regionale Paolo Cocchi - è la mancanza di concertazione con gli enti territoriali. Anche la Regione qualche volta è nella necessità di vendere, ma l’ha sempre fatto tenendo conto delle osservazioni delle amministrazioni interessate, delle loro prospettive di sviluppo, dei loro progetti. Qui invece, come nel caso di Pianosa, si calano dall’alto decisioni, senza alcun confronto. E’ il metodo, anzitutto, ad essere sbagliato».
La vendita di Capo Bianco. Il caso più emblematico, ma anche il più importante, riguarda la spiaggia di Capo Bianco, all’asta con una base di centodiecimila euro. Un pezzo di paradiso che il Comune di Portoferraio è deciso a difendere con gli strumenti a sua disposizione. Non avendo il denaro per partecipare e vincere l’asta, l’amministrazione locale deve fare di tutto per rendere difficile, se non impossibile, la vendita ai privati.
E’ quel che pensa di fare il sindaco di Portoferrario, Roberto Peria, che ha dato mandato agli uffici comunali di trasformare l’area in invariante strutturale. Ciò significa che adesso e neppure in futuro a Capo Bianco non si potrà murare neppure un mattone.
«Intendiamo intervenire con decisione - sottolinea il sindaco Peria - per evitare speculazioni su un bene che rappresenta un pezzo della nostra identità. Se proprio qualcuno vorrà comprare l’ex batteria di Capo Bianco, si dovrà rassegnare a coltivare fagioli...».
Le spiagge all’asta. La partita è aperta. In questo contesto si inserisce un altro capitolo che tiene in allarme centinaia di operatori turistici toscani, tenuti appesi al “gancio” del rinnovo delle concessioni demaniali. Il ministro Giulio Tremonti sembra molto attento nel seguire l’applicazione della direttiva europea che rimette tutto in gioco, alla scadenza dei contratti, per quanto riguarda la titolarità dei bagni e la loro gestione. La logica che sta dietro la normativa europea è chiara: concessioni all’asta al termine dei sei anni di contratto.
Le amministrazioni locali, da Massa alla Versilia, hanno già detto che per il momento non intendono applicare la normativa europea e tutto andrà avanti come prima. Ma fino a quando?
«Un primo effetto - spiega Francesco Belli, presidente dei balneari di Marina di Pietrasanta - si è già avuto: i concessionari stanno bloccando gli investimenti. Chi può dare il torto a loro, se non hanno sicurezza sul tempo degli ammortamenti?».
Non manca, ovviamente, la dietrologia di sempre. Chi si vuol favorire? E’ la domanda che i balneari rivolgono maliziosamente al governo: in tempi di crisi industriale, le sole risorse che non si possono delocalizzare sono quelle strettamente legate al territorio. Dunque si aspetta che sia qualche multinazionale del turismo a partecipare ai bandi di gara e a vincere le aste?
Dall’altra parte ci sono gli argomenti di chi sostiene le regole del libero mercato, della logica del massimo profitto, con lo Stato imprenditore di se stesso che non guarda in faccia a nessuno pur di tutelare i propri interessi.
La Regione cerca di contemperare le due esigenze. Dice l’assessore Cocchi: «Stiamo predisponendo un provvedimento di legge-ponte, che prevede una breve deroga alle scadenze contrattuali, in attesa di esaminare i piani di investimento degli operatori turistici».
«Per anni - questa la conclusione - i governi si sono dimenticati di fissare regole precise, adesso si vuole passare a una disciplina ferrea in tempi radicalmente brevi, senza calcolare cosa accadrebbe nel settore in caso di un’applicazione rigida delle norme».
Se lo Stato mette all’asta il nostro tesoro
Mario Tozzi
Ma è possibile mettere in vendita un’isola o una montagna? Nell’Italia del terzo millennio sì, e non solo isole, ma anche parchi naturali, frammenti di territori di pregio, paesaggi incontaminati, insomma tutto quello per cui il nostro è stato per secoli il giardino d’Europa. Tutto nasce quando i nostri padri stilarono l’articolo 9 della Costituzione. Anzi, quando lo scrissero una seconda volta, eliminando una parola fondamentale.
Una parola fondamentale, presente nella prima stesura: «I monumenti storici, artistici e naturali del paese costituiscono patrimonio nazionale e sono sotto la protezione dello Stato», invece di «La Repubblica (...) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
La natura appunto, cancellata, aggiungendo al danno delle guerre quello dell’oblìo giuridico-istituzionale. E infine il colpo di grazia, una legge dello Stato che rinuncia a proteggere i suoi valori culturali, naturali o artistici: la famigerata Patrimonio S.p.A. e la sua collegata Infrastrutture S.p.A. con cui si mette a garanzia del denaro necessario alle opere pubbliche il patrimonio inalienabile dello Stato. Gli strascichi di quei provvedimenti stanno producendo danni ancora oggi. In pochi pensano oggi che il paesaggio non sia un bene culturale e che un parco vada tutelato né più né meno della Cappella Sistina o di Venezia. Il collegamento fra cultura e natura è molto stretto: il nostro bene più prezioso non è tanto la somma di monumenti e bellezze naturali, ma il contesto, quello che rende unico nel mondo un paese che pone a fulcro della propria identità nazionale e della memoria collettiva il patrimonio culturale e naturalistico.
In una sciagurata storia cominciata con Veltroni e Melandri e finita con Urbani - ma che inizia da quando si parlò di arte come “petrolio d’Italia” (!) - il valore venale del patrimonio culturale (e naturalistico) diventa qualcosa da investire per fare altro (le opere pubbliche), una risorsa da spremere, dando la tragicomica impressione di essere arrivati al fondo del barile mentre si hanno aspirazioni da quinta potenza industriale del mondo. Nessuno dice che si porrà in vendita l’isola di Budelli ma è grave che intanto sia diventato teoricamente possibile.
Se si gestiscono i beni ambientali e culturali in ottiche di mercato il cittadino viene alienato di un patrimonio che è prima di tutto collettivo e viene trasformato in un mero consumatore; distinguendo la gestione dei beni dalla tutela si potrebbe poi avere l’impressione che privato sia comunque meglio che pubblico, magari riferendosi erroneamente all’esperienza americana i cui musei sono in realtà tutti in perdita: qualcuno sembra pensare che il Getty campi solo su biglietti e gadget, mentre è sostenuto soprattuto da donazioni a fondo perduto.
Che ci sia qualcosa di altro sotto è chiaro: se si voleva far fruttare i soli beni di minor pregio non c’era bisogno di questa legge, lo si poteva tranquillamente fare prima e, anzi, lo si doveva. Il dubbio è che al pratone vicino alla ferrovia nessuno sia interessato e che le mani vogliano esser allungate sui beni di valore e sulle aree naturali ancora intatte, del resto se si ha bisogno di molti denari si devono mettere a garanzia i pezzi pregiati. E - se è vero che è meglio non fare una lista dei beni certamente inalienabili per non lasciarne fuori nessuno - perché non si rendono noti quelli eventualmente alienabili, per tacitare appetiti male indirizzati?
L’autore è Presidente del Parco dell’Arcipelago toscano
La caccia alle guardie organizzata dai ladri della politica sembra concludersi, dopo quindici anni, con la diciannovesima legge ad personam, forse la peggiore. Solito nome accattivante, «processo breve». Solita traduzione: «Impunità per Berlusconi».
Un colpo di spugna definitivo sui due processi in corso del premier, la corruzione dell’avvocato Mills e l’evasione fiscale sui diritti televisivi. Berlusconi con tutta evidenza mentiva quando ha giurato, dopo la bocciatura del Lodo Alfano, che si sarebbe difeso «come un leone» in tribunale smontando le tesi accusatorie. Al coraggio del leone, preferisce sempre la strategia del caimano.
Oltre all’impunità del premier, la legge garantisce quella di migliaia di altri nei processi in corso, dai crac Parmalat e Cirio allo scandalo dei rifiuti a Napoli. Anche qui, i soliti effetti collaterali della guerra di Berlusconi ai magistrati. Decine di migliaia di cittadini, compresi i risparmiatori truffati da Tanzi e Cragnotti, vedono svanire le residue speranze di ottenere giustizia.
La maggioranza aveva promesso un testo in grado di «mettere d’accordo destra e sinistra» e in un certo senso ha mantenuto. La legge è giudicata «imbarazzante» dal giurista Antonio Baldassarre, vicino al centrodestra, e «indecente» dal capogruppo democratico Anna Finocchiaro, che l’ha sbattuta contro il muro. Dalle prime reazioni pare compatto anche il fronte dell’opinione pubblica internazionale, senza tante distinzioni fra conservatori e socialisti, Europa e America, Est e Ovest, nel considerare l’ultima trovata salva-ladri del premier l’ennesima buffonesca manifestazione di un regimetto che sputtana l’Italia nel mondo.
Poiché si tratta per l’’appunto della diciannovesima legge ad personam in materia di giustizia, tocca ripetersi. La prima osservazione è che il testo, come i precedenti, è incostituzionale. In presenza di una costituzione democratica (ma per quanto ancora?) e più in generale della logica, è arduo far passare la corruzione come reato meno grave dello scippo. Oppure sostenere che un incensurato accusato di reati gravissimi si debba privilegiare rispetto a un cittadino già condannato, magari per un furto di motorino. È assai probabile che la Consulta boccerà anche questa legge. Ma nel frattempo il presidente del Consiglio più furbo degli ultimi 150 anni l’avrà scampata ancora una volta. Almeno per i processi in corso. Per quelli a venire, si sta provvedendo con la riesumazione dell’immunità parlamentare. «I tempi sono maturi» annunciano festanti gli azzeccagarbugli in Parlamento. Sono infatti trascorsi tre lustri e più da Mani Pulite. È vero che restiamo gloriosamente in cima alla classifica delle nazioni più corrotte. Ma ormai la gente si è abituata e il tanfo di mazzette, tangenti sulla sanità, appalti truccati, è diventato un profumo di buon governo.
Che fare? Se Berlusconi e i suoi servi si ripetono, bisogna almeno sperare che l’opposizione non ricalchi il copione dei precedenti, piuttosto inutili. L’opposizione tutta, in Parlamento con le sue varie sigle, e nella società. Si può e si deve sperare che il Pd di Pier Luigi Bersani riesca ad affrontare questa sfida senza se e senza ma, con la decisione necessaria. Si può sperare che i moderati di Pier Ferdinando Casini e il neo convertito Francesco Rutelli, capiscano che questa battaglia non c’entra con la destra o la sinistra o il centro, ma con la difesa dello stato di diritto tout court. Si deve sperare che Antonio Di Pietro non ricominci gli appostamenti alle mura del Quirinale. Perché qui non si tratta soltanto di discutere una firma, ma di raccoglierne milioni. Non è questione di riempire una piazzetta di lazzi, ma di convocare nelle strade della protesta milioni di cittadini. Soltanto con una grande rivolta dell’Italia onesta si potrà mettere fine a una vergogna che dura da quindici anni, alla mortificazione del diritto da parte di una classe dirigente con troppi scheletri nell’armadio. Soltanto così si potrà salvare la faccia del Paese nel mondo, anche la faccia di chi è abituato a voltarla sempre da un’altra parte.
Ci sono località che mai diventerebbero note se non per gli scempi che vi si compiono. San Nicola Varco è una di queste, né più né meno che altre campagne del Mezzogiorno dove quotidianamente un esercito di invisibili popola le campagne per conto di altri che beneficeranno del loro lavoro. Ogni tanto assurgono agli onori della cronaca, e quando accade è perché è avvenuto qualcosa di molto spiacevole. Vuoi che la camorra spari alla cieca come a Castelvolturno un anno fa, vuoi che qualcuno decida che non si può vivere in mille come bestie in un tugurio.
È quello che è accaduto ieri nella Piana del Sele, una delle campagne del sud a più alto tasso di utilizzo di extracomunitari al nero, dove da sempre i caporali sono i veri boss del territorio per conto dei loro mandanti, padroni e padroncini proprietari di terre. È la terra del pomodoro, delle fragole e delle mozzarelle, e sarebbe perfino un bel posto se invece che a spezzarsi la schiena nei campi ci si andasse a sdraiare in spiaggia al sole.
Non è così, e per questo gli immigrati del ghetto di San Nicola Varco sono stati sgomberati su ordine della magistratura. Motivo: la loro situazione igienica e ambientale non era più tollerabile. Una soluzione perfino auspicabile, se in un paese in cui il tasso di ipocrisia è inversamente proporzionale a quello di intolleranza qualcuno si fosse degnato nel frattempo di pensare a una sistemazione più dignitosa. Anche perché a mandarli via davvero non ci pensa proprio nessuno. Chi rimpiazzerebbe così tante braccia a buon mercato?
Eppure basterebbe volgere lo sguardo poco lontano. «La vera utopia non è la caduta del muro, ma quello che ho visto in Calabria», ha detto Wim Wenders presentando ieri a Berlino il film sulla straordinaria accoglienza ai rifugiati di Scilla, Riace e Badolato. Proviamo ad ampliare queste piccole crepe nel muro dell'ipocrisia.
Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora «quotidiano comunista», ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989; non per distrazione, ci strillano da vent'anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comunismo, «utopia criminale». Noi su quella «utopia» ambiziosa eravamo nati, ed eravamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i «socialismi reali». Li denunciavamo nell'avversione del partito comunista e nella scarsa attenzione delle cancellerie e della stampa democratiche. Il movimento del '68 ne aveva avuto un'intuizione, ma non il tempo né la preparazione per andare oltre.
Avevamo aggiunto che almeno dalla crisi del 1974 l'egemonia dell'occidente non mirava più alla messa a morte del comunismo, ma a quella del compromesso socialdemocratico nella sua veste keynesiana. Questo ammetteva che il conflitto tra capitale e lavoro era intrinseco al sistema e per evitare involuzioni fasciste occorreva garantire il lavoro dipendente e una parte consistente di beni pubblici.
Se no anche la società europea sarebbe andata, nell'ipotesi migliore, a quella che non Lenin ma Hannah Arendt aveva definito un'americanizzazione fondata sulla libertà politica e la schiavitù sociale. Non è fin risibile, tutt'al più dipietresco, battersi contro le derive autoritarie e presidenzialiste di Berlusconi, e non solo, quando dalla metà degli anni settanta sono tornate a risuonare come novità le trombe di Von Hajek, la correzione rooseveltiana è stata definita, anche dalla nuova sinistra, statalista dunque fascistizzante, e sul «meno stato più mercato» nonché «la crisi fiscale dello stato sociale» si divagava anche sulle nostre pagine, mentre l'Unione europea si avviava con una liberalizzazione dopo l'altra?
E come si poteva non chiedersi, alla luce di questo esito, perché il gigantesco tentativo del 1917 era finito così? L'errore era cominciato quando, perché, dove? Stava in Stalin, in Lenin, in Marx? Cioè nella ipotesi stessa che fosse possibile una società libera non sovradeterminata dalla proprietà e dal mercato? Eppure, dopo la prima rivista del manifesto, i primi anni del giornale e i convegni del 1978 e del 1981, non ce lo chiedemmo più. Possiamo darci tutte le giustificazioni, per prima la difficoltà a sopravvivere come testata, ma era una resa non confessata all'egemonia della destra, del neoliberismo, dunque dei neocon negli Usa, e della Commissione in Europa.
Malamente nascosta dall'esorcismo: sono problemi del novecento, oggi sono superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni. Come se le une e le altre ne avessero risolta almeno una. Come se oggi il presidente degli Usa, Barack Obama, non vedesse dimezzata dalle lobbies e dai poteri sistemici che pesano sul suo stesso partito, la sua riforma sanitaria, non fosse inchiodato in Medioriente e riuscisse a eliminare una sola delle pratiche che hanno dato origine alla crisi finanziaria del 2008.
La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell'opinione, né fra di noi. «Isoletta socialista», senza padroni, non ci troviamo di fronte a qualcosa che avevamo già intravisto nei socialismi reali: produttività scarsa, demotivazione, fine di un progetto comune, ciascuno per sé, insofferenza verso gli altri? Quando ho lasciato la redazione nel 1993, battuta dall'assemblea la proposta di applicare una piccola dose di Marx anche a noi stessi, ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere, che occorreva calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due. Datevi una mossa.
Ora ce la racconteranno come una grande riforma "erga omnes", che tutela l’interesse di tutti i cittadini. Un compromesso sofferto e importante, che difende lo «stato di diritto» finora vulnerato da una magistratura politicizzata e inefficiente. E invece il "lodo" Berlusconi-Fini sulla giustizia è l’ennesima e scandalosa legge su misura, che copre gli interessi di una singola persona. Un patto scellerato e indecente, che conferma lo «stato di eccezione» in cui è precipitata la nostra democrazia. I due leader erano arrivati a questo faccia a faccia in condizioni molto diverse.
Il presidente del Consiglio, scoperto dalla bocciatura del Lodo Alfano, era agito dalla necessità di risolvere ancora una volta per via legislativa le sue passate pendenze di natura giudiziaria, e di salvarsi anche dai rischi futuri. Obiettivo irrinunciabile, per non perdere il governo. Il presidente della Camera, schiacciato dalla formidabile pressione mediatica e politica della macchina da guerra berlusconiana, aveva l’opportunità di uscire dall’angolo nel quale lo stava relegando il Pdl, e di salvare anche il suo profilo istituzionale. Obiettivo raggiungibile, per non perdere la faccia. L’accordo raggiunto, anche se umilia il dettato costituzionale e distorce l’ordinamento giuridico, soddisfa le esigenze del capo del governo e della terza carica dello Stato.
Il disegno di legge che sarà presentato nei prossimi giorni (e qui sta il salvacondotto del premier e del suo avvocato Ghedini) conterrà la riforma del processo, che diventerà "breve". Non potrà durare più di sei anni, cioè due anni per ciascun grado di giudizio. Formalmente, una giusta risposta all’insopportabile lunghezza dei processi italiani, che durano mediamente sette anni e mezzo nel civile e 10 anni nel penale. Sostanzialmente, un colpo di spugna su due processi che vedono coinvolto il Cavaliere: il processo Mediaset per frode fiscale sui diritti televisivi (che con le nuove norme decade a fine novembre) e il processo Mills per corruzione in atti giudiziari (che a "riforma" approvata decade nel marzo 2010).
Ma nello stesso disegno di legge (e qui sta la via di fuga di Fini e del suo avvocato Bongiorno) non ci saranno le norme sulla prescrizione breve, che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto inserire nel testo e Fini gli ha chiesto di espungere per non incappare nel no di Giorgio Napolitano. Questa norma, che ridurrebbe di un terzo la prescrizione dei reati la cui pena edittale è inferiore ai 10 anni, non si può proprio infilare in una "riforma", per quanto sedicente o bugiarda possa essere. Renderebbe ancora più estesa, e dunque insostenibile, la già colossale amnistia che si realizzerà con la modifica del "processo breve". L’opinione pubblica non la capirebbe. E il Quirinale, ammesso che possa considerare costituzionalmente legittima l’abbreviazione del processo, sicuramente non firmerebbe anche l’abbreviazione della prescrizione. Meglio soprassedere, per ora. Questo è lo schema. Questo è lo "scambio". Che riproduce del resto un metodo già collaudato nelle passate legislature: Berlusconi chiede 1000, sapendo che si potrà accontentare di 100. Gli alleati glielo concedono, facendo finta di avergli tolto 900. È così. È sempre stato così. Almeno quando in gioco ci sono le due questioni cruciali, sulle quali il Cavaliere non ha mai ceduto e mai cederà: gli affari e la giustizia.
Certo, a Berlusconi avrebbe fatto più comodo portare a casa l’intero pacchetto. Il "processo breve" porta all’estinzione del processo stesso, e quindi copre il premier sul passato. La "prescrizione breve" porterebbe alla decadenza del reato, e quindi lo coprirebbe anche su eventuali inchieste future. Ma per ora gli conviene accontentarsi. Nulla vieta, magari durante il dibattito parlamentare sul ddl, di ripresentare la norma sulla prescrizione breve con un bell’emendamento intestandolo al solito, apposito peone della maggioranza (come insegna l’esperienza delle precedenti leggi-vergogna varate o tentate del premier, dalla Cirielli alla Nitto Palma, dalla Cirami alla Pittelli). Oppure, perché no, nulla vieta di tradurre subito in legge quello che ormai possiamo chiamare il "Lodo Minzolini", cioè la reintroduzione dell’immunità parlamentare, avventurosamente ma forse non casualmente suggerita dal (o al) direttore del Tg1 in un editoriale televisivo di due sere fa.
Eccolo, il "paesaggio" di questo drammatico autunno italiano. Ancora una volta, in questo Paese si straccia il contratto sociale e costituzionale, che ci vuole tutti uguali davanti alla legge. Si sospende l’applicazione dello stato di diritto, che ci vuole tutti ugualmente sottoposti alle sue regole. In nome della "volontà di potenza" di un singolo, e di un’idea plebiscitaria e populista della sua fonte di legittimazione: sono stato scelto dagli elettori, dunque i cittadini vogliono che io governi. O in nome della "ragion politica" di un sistema: non c’è altro premier all’infuori di me, dunque io e solo io devo governare. Questo c’è, oggi, sul piatto della bilancia della nostra democrazia. Lo "stato di eccezione", appunto. Quello descritto da Carl Schmitt. Che è simbolo dell’autoritarismo poiché sempre lo "decide il sovrano". Che si presenta "come la forma legale di ciò che non può avere forma legale". Che è "la risposta immediata del potere ai conflitti interni più estremi". Che costituisce un "punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico", poiché precipita la democrazia in una "terra di nessuno".
Se questa è la portata della sfida, occorre che il Pd si mostri all’altezza di saperla raccogliere. Di fronte a questa nuova distorsione della civiltà repubblicana non basta rifugiarsi nella routinaria ripetizione di uno slogan generale al punto da risultare quasi generico. Sì a riforme della giustizia, no a norme salva-processi, sostiene Pierluigi Bersani. Sarebbe ora che il centrosinistra cominciasse a spiegare qual è, se esiste, la "sua" riforma della giustizia. Ma nel far questo, dovrebbe anche spiegare all’opinione pubblica, con tutta la forza responsabile di cui è capace, che quella di Berlusconi non è una riforma fatta per i cittadini, ma solo un’altra emanazione della sua "auctoritas", che ormai sovrasta ed assorbe la "potestas" dello Stato e del Parlamento.
La partita vera, a questo punto, è più alta e più impegnativa. Si può continuare a tollerare uno "stato di eccezione" sistematicamente decretato da Berlusconi? E il Pd vuol giocare fino in fondo questa partita, mobilitando su di essa la sua gente e sensibilizzando su di essa tutti gli elettori? Scrive Giorgio Agamben che quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona, e lo stato di eccezione in cui essi si legano diventa la regola, allora «il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale». Il Paese sarebbe ancora in tempo per fermarla, se solo se ne rendesse conto.
Massimo Giannini Lo stato d’eccezione
Quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale. La Repubblica, 11 novembre 2009
Ora ce la racconteranno come una grande riforma "erga omnes", che tutela l’interesse di tutti i cittadini. Un compromesso sofferto e importante, che difende lo «stato di diritto» finora vulnerato da una magistratura politicizzata e inefficiente. E invece il "lodo" Berlusconi-Fini sulla giustizia è l’ennesima e scandalosa legge su misura, che copre gli interessi di una singola persona. Un patto scellerato e indecente, che conferma lo «stato di eccezione» in cui è precipitata la nostra democrazia. I due leader erano arrivati a questo faccia a faccia in condizioni molto diverse.
Il presidente del Consiglio, scoperto dalla bocciatura del Lodo Alfano, era agito dalla necessità di risolvere ancora una volta per via legislativa le sue passate pendenze di natura giudiziaria, e di salvarsi anche dai rischi futuri. Obiettivo irrinunciabile, per non perdere il governo. Il presidente della Camera, schiacciato dalla formidabile pressione mediatica e politica della macchina da guerra berlusconiana, aveva l’opportunità di uscire dall’angolo nel quale lo stava relegando il Pdl, e di salvare anche il suo profilo istituzionale. Obiettivo raggiungibile, per non perdere la faccia. L’accordo raggiunto, anche se umilia il dettato costituzionale e distorce l’ordinamento giuridico, soddisfa le esigenze del capo del governo e della terza carica dello Stato.
Il disegno di legge che sarà presentato nei prossimi giorni (e qui sta il salvacondotto del premier e del suo avvocato Ghedini) conterrà la riforma del processo, che diventerà "breve". Non potrà durare più di sei anni, cioè due anni per ciascun grado di giudizio. Formalmente, una giusta risposta all’insopportabile lunghezza dei processi italiani, che durano mediamente sette anni e mezzo nel civile e 10 anni nel penale. Sostanzialmente, un colpo di spugna su due processi che vedono coinvolto il Cavaliere: il processo Mediaset per frode fiscale sui diritti televisivi (che con le nuove norme decade a fine novembre) e il processo Mills per corruzione in atti giudiziari (che a "riforma" approvata decade nel marzo 2010).
Ma nello stesso disegno di legge (e qui sta la via di fuga di Fini e del suo avvocato Bongiorno) non ci saranno le norme sulla prescrizione breve, che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto inserire nel testo e Fini gli ha chiesto di espungere per non incappare nel no di Giorgio Napolitano. Questa norma, che ridurrebbe di un terzo la prescrizione dei reati la cui pena edittale è inferiore ai 10 anni, non si può proprio infilare in una "riforma", per quanto sedicente o bugiarda possa essere. Renderebbe ancora più estesa, e dunque insostenibile, la già colossale amnistia che si realizzerà con la modifica del "processo breve". L’opinione pubblica non la capirebbe. E il Quirinale, ammesso che possa considerare costituzionalmente legittima l’abbreviazione del processo, sicuramente non firmerebbe anche l’abbreviazione della prescrizione. Meglio soprassedere, per ora. Questo è lo schema. Questo è lo "scambio". Che riproduce del resto un metodo già collaudato nelle passate legislature: Berlusconi chiede 1000, sapendo che si potrà accontentare di 100. Gli alleati glielo concedono, facendo finta di avergli tolto 900. È così. È sempre stato così. Almeno quando in gioco ci sono le due questioni cruciali, sulle quali il Cavaliere non ha mai ceduto e mai cederà: gli affari e la giustizia.
Certo, a Berlusconi avrebbe fatto più comodo portare a casa l’intero pacchetto. Il "processo breve" porta all’estinzione del processo stesso, e quindi copre il premier sul passato. La "prescrizione breve" porterebbe alla decadenza del reato, e quindi lo coprirebbe anche su eventuali inchieste future. Ma per ora gli conviene accontentarsi. Nulla vieta, magari durante il dibattito parlamentare sul ddl, di ripresentare la norma sulla prescrizione breve con un bell’emendamento intestandolo al solito, apposito peone della maggioranza (come insegna l’esperienza delle precedenti leggi-vergogna varate o tentate del premier, dalla Cirielli alla Nitto Palma, dalla Cirami alla Pittelli). Oppure, perché no, nulla vieta di tradurre subito in legge quello che ormai possiamo chiamare il "Lodo Minzolini", cioè la reintroduzione dell’immunità parlamentare, avventurosamente ma forse non casualmente suggerita dal (o al) direttore del Tg1 in un editoriale televisivo di due sere fa.
Eccolo, il "paesaggio" di questo drammatico autunno italiano. Ancora una volta, in questo Paese si straccia il contratto sociale e costituzionale, che ci vuole tutti uguali davanti alla legge. Si sospende l’applicazione dello stato di diritto, che ci vuole tutti ugualmente sottoposti alle sue regole. In nome della "volontà di potenza" di un singolo, e di un’idea plebiscitaria e populista della sua fonte di legittimazione: sono stato scelto dagli elettori, dunque i cittadini vogliono che io governi. O in nome della "ragion politica" di un sistema: non c’è altro premier all’infuori di me, dunque io e solo io devo governare. Questo c’è, oggi, sul piatto della bilancia della nostra democrazia. Lo "stato di eccezione", appunto. Quello descritto da Carl Schmitt. Che è simbolo dell’autoritarismo poiché sempre lo "decide il sovrano". Che si presenta "come la forma legale di ciò che non può avere forma legale". Che è "la risposta immediata del potere ai conflitti interni più estremi". Che costituisce un "punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico", poiché precipita la democrazia in una "terra di nessuno".
Se questa è la portata della sfida, occorre che il Pd si mostri all’altezza di saperla raccogliere. Di fronte a questa nuova distorsione della civiltà repubblicana non basta rifugiarsi nella routinaria ripetizione di uno slogan generale al punto da risultare quasi generico. Sì a riforme della giustizia, no a norme salva-processi, sostiene Pierluigi Bersani. Sarebbe ora che il centrosinistra cominciasse a spiegare qual è, se esiste, la "sua" riforma della giustizia. Ma nel far questo, dovrebbe anche spiegare all’opinione pubblica, con tutta la forza responsabile di cui è capace, che quella di Berlusconi non è una riforma fatta per i cittadini, ma solo un’altra emanazione della sua "auctoritas", che ormai sovrasta ed assorbe la "potestas" dello Stato e del Parlamento.
La partita vera, a questo punto, è più alta e più impegnativa. Si può continuare a tollerare uno "stato di eccezione" sistematicamente decretato da Berlusconi? E il Pd vuol giocare fino in fondo questa partita, mobilitando su di essa la sua gente e sensibilizzando su di essa tutti gli elettori? Scrive Giorgio Agamben che quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona, e lo stato di eccezione in cui essi si legano diventa la regola, allora «il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale». Il Paese sarebbe ancora in tempo per fermarla, se solo se ne rendesse conto.
Vissuti diversi precipitano nel ventennale del crollo del Muro di Berlino, come diversi erano i vissuti che precipitarono vent'anni fa sull'evento, anche all'interno di quella sinistra radicale che respinse la conversione al verbo neoliberal adottata con la svolta della Bolognina dalla maggioranza del Pci. Il resoconto corrente delle posizioni, attestato sulla divisione fra «oltrepassatori» e «nostalgici» del comunismo, non ne rende conto. C'erano, per cominciare, differenze generazionali che pesavano non poco nella valutazione, e prim'ancora nella percezione emotiva, di quello che stava accadendo. Nella generazione che si era formata con la guerra, la Resistenza e poi la guerra fredda, il crollo del Muro significava il venir meno di un campo di appartenenza, per quanto già in precedenza criticato, e per qualcuno anche il tornare a galla di un incubo: raccontano le cronache postume che Alessandro Natta, ad esempio, reagì alle notizie che arrivavano da Berlino esclamando «Ha vinto Hitler», e non era certo l'unico, nel Pci e fuori dal Pci, a essere preoccupato dal ritorno della «Grande Germania».
Per la generazione che si era formata con il Sessantotto e contro i carri sovietici a Praga, il crollo del Muro significava invece la fine di un comunismo di stato e di partito con cui il «suo» comunismo libertario non si era mai identificato: crollava finalmente una gabbia che aveva resistito troppo a lungo. Vado con l'accetta naturalmente e me ne scuso, perché molte e variegate erano anche le linee di scorrimento fra queste differenze e infatti, fra differenze e linee di scorrimento, in quei mesi si discusse e si litigò, a sinistra, con una passione mai più ritrovata - se non, forse, su quell'altro evento decisivo che è stato l'11 settembre 2001. Il fatto è però che anche adesso che a sinistra ogni passione è spenta, molto di questo spegnimento ha ancora a che fare con i noccioli induriti o non sciolti di quell'anno.
Che infatti pare ieri, anche se è passato un ventennio densissimo di fatti e di misfatti per l'intera umanità, il mondo ha cambiato faccia con la globalizzzaione e tutti ragioniamo con categorie mutate. Bisognerebbe riponderare con pacatezza le ragioni e i torti di quella passione di allora, e filtrarli con la consapevolezza del dopo. Nella generazione della guerra fredda, ad esempio, l'incubo del ritorno della grande Germania era eccessivo; ma la percezione che col vento di libertà che spirava da Est sarebbe arrivata anche la tempesta di una nuova e durissima egemonia capitalistica da Ovest era giusta. Ed era viceversa sottovalutata dalla generazione successiva; che però aveva ragione a puntare sulle nuove contraddizioni, i nuovi conflitti e le nuove soggettività che si sarebbero dispiegati in un mondo solcato da fratture diverse da quelle geopolitiche e ideologiche novecentesche. Erano differenze che non avrebbero smesso, in seguito, di riflettersi in differenti letture della globalizzazione e differenti concezioni dell'agire politico.
Venti anni tuttavia non sono passati invano. A tutti, compresa la sinistra che allora scelse il verbo neoliberal, il ventennale che si celebra in questi giorni offrirebbe sul piatto un'agenda politico-culturale che invece tutti stentano a formulare con la necessaria convinzione. Come spesso capita, è un'agenda che si ricava facilmente, oltre che dall'analisi dei fatti, leggendo all'incontrario quella dell'ideologia dominante. Quest'ultima, in venti anni, non si è spostata di un millimetro, si è solo autoconfermata, fino a diventare un recitativo che non solo non rispecchia la realtà ma la contraddice. Il recitativo ripete che con il crollo del Muro ha vinto la democrazia, dando a questa parola la pienezza di un'autoevidenza che di evidente, invece, non ha più nulla.
E' precisamente da quando ha vinto la guerra fredda che la democrazia ha cominciato infatti a svuotarsi, a deformarsi, a decostituzionalizzarsi. E' precisamente da quando ha sconfitto il totalitarismo comunista che ha cominciato a far affiorare, come da un passato rimosso, rigurgiti del totalitarismo fascista che si insinuano nelle pieghe della passività politica, delle vocazioni plebiscitarie, dei culti del Capo. Ed è precisamente da quando ha vinto sullo stato sociale sovietico che la democrazia ha perso quel correttivo del welfare state che ne ha fatto nella seconda metà del 900 qualcosa di più credibile e più stabile dei regimi liberali d'inizio secolo. Nel corso di vent'anni, questa deformazione democratica ha percorso a Ovest il vecchio e il nuovo continernte, quasi un riflesso tellurico della scossa sistemica dell'89.
Metterla al primo posto dell'agenda politico-culturale è urgente, anzi indilazionabile. Per riparare i danni del fronte occidentale, ma non solo. Anche per decrittare il paradosso e la sorpresa di questo ventennale. Il paradosso è che la vera potenza vincente del ventennio non è l'America democratica ma la Cina non democratica. La sorpresa è che nell'America democratica una riforma sanitaria di valore epocale, con la sua iniezione di welfare sul liberismo sfrenato che fu, ha ottenuto il sì del congresso proprio allo scoccare del ventesimo compleanno del crollo del Muro.
Noi, docenti universitari di ruolo attivi in diversi atenei e facoltà, seguiamo con crescente apprensione le vicende dell'università italiana e le scelte assunte in proposito dal governo. Decidiamo di prendere pubblicamente la parola dopo avere letto il ddl di riforma dell'università,un progetto che ci sembra giustificare le più vive preoccupazioni soprattutto per quanto attiene alla governance degli atenei (per il previsto accentramento di potere in capo ai rettori e a consigli di amministrazione non elettivi, fortemente esposti agli interessi privati) e per ciò che concerne la componente più debole della docenza: decine di migliaia di studiosi, giovani e meno giovani, che da molti anni prestano la propria opera gratuitamente o, nel migliore dei casi, in qualità di assegnisti o borsisti, nel quadro di rapporti di collaborazione precari.
Le novità che il governo prospetta in materia di governance degli atenei ci paiono prive di qualsiasi ambizione culturale e di ogni volontà di risanare effettivamente i problemi dell'università pubblica, e ispirate esclusivamente a una logica autoritaria e privatistica, tesa a una marcata verticalizzazione del processo di formazione delle decisioni a discapito dell'autonomia degli atenei. Riteniamo che l'università debba cambiare, ma occorre a nostro giudizio procedere in tutt'altra direzione, salvaguardando il carattere pubblico dell'università e favorendo la partecipazione democratica di tutte le componenti del sistema universitario. Quanto previsto per la vasta area del precariato ci sembra profondamente iniquo e irrazionale, tale da mettere a repentaglio la funzionalità di molti dipartimenti.
I tagli alle finanze degli atenei e la nuova normativa per l'accesso alla docenza preludono all'espulsione in massa dal sistema universitario di persone meritevoli, stimate anche in ambito internazionale, che da tempo lavorano nell'università italiana, tra le ultime in Europa per quantità di docenti di ruolo e tra le più sfavorite per rapporto docenti/studenti. Al di là della retorica sul valore strategico della conoscenza e della ricerca, il governo - ostacolando i nuovi accessi, conservando le vecchie logiche baronali e non introducendo alcuna misura preventiva contro il malcostume accademico - pianifica un enorme spreco di risorse finanziarie, impiegate per la formazione di tanti studiosi ai quali sarà impedito l'accesso ai ruoli dell'università, e una perdita secca in termini di capacità, competenza ed esperienza, che rischia di determinare un incolmabile divario tra l'Italia e i Paesi più avanzati.
Chiediamo al governo di fermarsi, ma ci rivolgiamo anche al mondo universitario affinché faccia sentire la propria voce e manifesti con forza le proprie ragioni e preoccupazioni. Non difendiamo lo status quo: invochiamo una riforma seria che ampli gli spazi di partecipazione, salvaguardi il carattere pubblico dell'università e tuteli l'autonomia della didattica e della ricerca. Non ignoriamo l'esigenza di verificare la qualità dell'insegnamento e del lavoro scientifico di ciascun docente: esigiamo l'adozione di rigorose procedure di valutazione, non graduatorie improvvisate e funzionali a campagne di stampa più o meno denigratorie, ma criteri oggettivi, adeguati alle diverse specificità disciplinari e capaci di rilevare anche i pregi, internazionalmente riconosciuti, della ricerca italiana. Non auspichiamo un reclutamento ope legis: chiediamo lo stanziamento delle risorse necessarie a consentire l'accesso ai ruoli, previo concorso, di quanti abbiano acquisito, negli anni del precariato, comprovate competenze e attitudini professionali. L'università pubblica non può essere governata in modo autoritario né gestita con criteri ragionieristici. Il lavoro di quanti ne garantiscono l'attività deve essere riconosciuto e tutelato. La conoscenza è una risorsa del Paese e un diritto fondamentale che la Costituzione riconosce a ciascun cittadino.
(Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Giuseppe Ugo Rescigno, Gaetano Azzariti, Massimo Villone, Giorgio Lunghini, Riccardo Bellofiore, Riccardo Realfonzo, Adriano Prosperi, Angelo d'Orsi, Alessandro Portelli, Gianpasquale Santomassimo, Alberto Burgio, Alessandro Dal Lago, Salvatore Palidda, Michele Prospero, Franco Piperno, Annamaria Rivera e altri)
Per adesioni:
perluniversitapubblica@gmail.com
Il muro di Berlino cadde sulla testa della sinistra italiana come il giorno del Signore nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Voi sapete bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro, di notte. Proprio quando la gente dirà “Pace e sicurezza”, improvvisa piomberà su di essi la rovina, allo stesso modo che arrivano alla donna incinta i dolori del parto. E non scamperanno». Per alcuni nel partito comunista italiano fu proprio così: Alessandro Natta, che fino all’88 aveva guidato il Pci, confidò a Claudio Petruccioli (era il 10 novembre, poche ore dopo la notte fatale) che «Hitler aveva vinto».
Fu in quei giorni che il suo successore, Achille Occhetto, cominciò a parlare, alla Bolognina, della Cosa: non riuscì ancora a darle un nome, ma sentì che per scampare bisognava subito inventarsi un partito nuovo e soprattutto un nome che facesse dimenticare il passato con i suoi tanti pensieri falsi, le sue doppie verità, le sue volontarie impotenze. Per molti militanti fu una scossa, perché il passato non lo dismetti in una notte alla maniera in cui Stalin dismetteva storie e compagni, cancellandone le tracce.
Perché il nuovo non puoi definirlo una Cosa, solo perché hai paura di usare parole tragicamente disonorate come progetto, ideologia, meta. Non solo: se i vertici cambiarono così prontamente strada, vuol dire che per decenni avevano nascosto alla base il vero: se avessero parlato prima, non avrebbero permesso che l’Italia restasse senza alternanza per quasi mezzo secolo.
Da allora sono passati vent’anni, e gli eredi del Pci ancora soffrono quel congedo precipitoso, quel vocabolario che d’un colpo si svuota. Ci sono parole che lasciano l’impronta anche se son nebbia, e un destino simile toccò alla Cosa. Al posto dell’idea del mondo, comparve questo sostantivo che è un annuncio, un guscio che si promette di riempire: «un nome generico - scrive il Devoto - che riceve determinazione solo dal contesto del discorso». Tutto da allora è stato futuro appeso a un contesto indeterminato: anche le primarie, cui si era chiamati a aderire senza saper bene a cosa si aderisse.
Anche la speranza di coniugare le due forze fondatrici della repubblica: il socialismo e il cattolicesimo, dimenticando (lo storico Giuseppe Galasso l’ha ricordato il 30 agosto sul Corriere della Sera) il terzo incomodo che è la tradizione laica, liberale, radicale. Riesaminando l’ultimo ventennio, Arturo Parisi parla del controllo che le nomenclature dell’ex Pci hanno finito con l’acquisire sull’Ulivo, e del patto stretto da esse con i falsi innovatori dello stesso partito. I candidati segretari regionali provenienti dai Ds erano nelle ultime primarie il 75 per cento del totale, facendo «coincidere la geografia elettorale del Pd con i confini del voto comunista» e sconfiggendo l’Ulivo (intervista a Gianfranco Brunelli, Il Regno 16/2009).
Forza indispensabile della sinistra ma non bene identificata, l’ex Pci l’ingombra con il peso, non leggero, di una storia ripudiata. Sono anni che espia, fino all’eccesso, un passato di cui tuttavia non vuol parlare. Il centrismo, i toni bassi, la tregua fra i poli, la politica senza contrapposizioni: siamo in un paese dove il principale partito di sinistra, vergognandosi del passato, non fa vera opposizione per tema di somigliare a quel che era. Dallo spirito dell’89 ha appreso poco. Lo stato di diritto, l’onestà delle élite, la scoperta del conflitto sale della democrazia: la liberazione dell’89 ha preso da noi la forma di Mani Pulite, senza lambire la politica. Inutile prendersela con i magistrati, se l’ansia di rigenerazione hanno finito con l’esprimerla solo loro. Bersani ha preso atto, ieri, che dialogo è ormai una «parola malata e ambigua».
L’espugnazione dell’Ulivo e del Pd non crea identità. Anche il socialismo italiano fu espugnato così: usurpandolo, non integrandolo e cercando di capire l’altrui tracollo oltre che il proprio. Anche per il socialismo italiano la caduta del Muro spuntò infatti come un ladro notturno. Le metamorfosi del Pci sono una storia di crudele appropriazione, ma il socialismo è non meno colpevole di questo furto di vocaboli e identità. Non è mai riuscito a divenire dominante, come nel resto d’Europa. E quando con Craxi volle disputare la rappresentanza della sinistra al Pci non seppe trarne le conseguenze: continuò nei suoi doppi giochi, prospettò l’unità delle sinistre senza rinunciare a spartire potere, non si rinnovò moralmente ma degradò sino a divenire il simbolo della corruttela italiana.
In un lucido saggio sull’Italia, lo storico Perry Anderson descrive un partito socialista che ingenera il berlusconismo, spiegando come questi sia erede dell’ultimo Psi più che della Dc (London Review of Books, 21-3-02). La spregiudicatezza di Craxi è un tratto speciale e irripetibile della nostra cultura. Altrove lo spregiudicato è figura settecentesca che combatte pregiudizi, dogmi: non coincide con l’uomo senza scrupoli. Da noi i due tratti si confondono, e spregiudicatezza è encomiabile virtù di chi sprezza le regole, la legge, l’etica, nella certezza che il potere renda tutto lecito se non legale. L’intera classe dirigente ne è responsabile, e non stupisce che da decenni l’agenda della politica sia dettata da Berlusconi.
Occhetto sperava forse in una svolta autentica. Sperava in una carovana che viaggiando associasse forze diverse, e temeva la caserma anelata da Massimo D’Alema. Un timore che si rivelò giustificato, ma che non vede il solo D’Alema sul banco degli imputati. Questi fu almeno chiaro: l’Ulivo non gli piacque mai. Più colpevoli furono i falsi innovatori, che promettevano senza mantenere: che non hanno esitato, come Veltroni, a distruggere l’ultimo governo Prodi.
Ciononostante è D’Alema la persona chiave del ventennio. In qualche modo è restato quel che era, senza più dogmi ma con inalterata volontà di potenza. Dei comunisti ha la stessa insofferenza verso il dissenso, lo stesso fastidio freddo verso la stampa indipendente. Sono sue e non di Berlusconi frasi come: «I giornali? È un segno di civiltà non leggerli. Bisogna lasciarli in edicola». La morte temporanea dell’Unità, nel 2000, lo testimonia. Michele Serra parlò di delitto perfetto su la Repubblica: «La fine dell’Unità, forse più ancora della Bolognina, illumina lo sconquasso identitario della sinistra italiana. Ne racconta le insicurezze, i complessi di inferiorità, l’incerto e poco lineare incedere verso una modernità spesso vissuta da praticoni».
Vivere la modernità da praticoni è l’abbandono dell’ideologia, in nome dell’antidogmatismo. Il fatto che le ideologie totalitarie siano perite, non significa che un partito possa solo vivere di volontà di potenza, e su essa fabbricare inciuci. Che possa continuare a ricevere il colore da discorsi effimeri. Dotarsi di un’ideologia vuol dire avere un sistema coerente di immagini, metafore, princìpi etici. Vuol dire pensare un diverso rapporto con gli stranieri, la natura, il lavoro che muta, l’immaginario. A differenza della politica quotidiana, l’ideologia ha una durata non breve ma media, e la durata non è imperfezione. È perché non aveva idee sull’informazione di massa e sulla società di immigrazione che la sinistra fu travolta da Berlusconi. Che non seppe adottare, subito, una legge sul conflitto d’interesse. Che giunse sino a chiamare la Lega una propria costola.
Perry Anderson ritiene che la nostra sinistra sia invertebrata. Una Cosa appunto, senza scheletro: un metamorfo, come nel film di Carpenter. Il suo sogno ricorrente è quello d’un paese normale: un’altra Cosa - imprecisa, mimetica - che dall’89 cattura gli spiriti. La sinistra invertebrata ha corteggiato Clinton, Blair, Schröder, tessendo elogi del moderatismo, del centrismo. Vita normale, per la sinistra, ha significato sin qui smobilitazione ideologica, conformismo: il nuovo ancora lo si aspetta.
Da Parigi l'Ocse ci ha informati che il superindice dell'economia (una sorta di termometro) rileva «forti segnali di crescita in Italia, Francia, Gran Bretagna e Cina». A palazzo Chigi, Berlusconi come una molla ha rilanciato il dato Ocse e i suoi fedeli hanno calcato la mano, sostenendo che la sinistra dovrebbe vergognarsi di spargere allarmismo e riconoscere la bontà dell'azione di governo che sta portando l'Italia fuori delle secche della crisi.
Nessun dubbio che i dati Ocse siano positivi. Ma l'organizzazione parigina dice anche: stiamo attenti. E chiede di leggere i dati con cautela perché - è la sintesi - potrebbero nascondere non tanto una forte crescita, ma una crescita modesta rispetto al potenziale di lungo termine. Come dire: non c'è solo «un miglioramento dell'attività economica», ma più verosimilmente un attenuarsi del sentiero di crescita. Insomma, l'economia torna a salire, ma a livelli infimi. E non a caso, l'Italia tornerà - se tutto va bene - agli stessi livelli del Pil del 2007 soltanto nel 2013.
Sostiene l'Ocse che «una ripresa è chiaramente visibile negli Stati uniti». Vero: lo conferma il dato positivo del Pil nel terzo trimestre. Ma non tutto fila liscio e la conferma è arrivata ieri: in ottobre sono stati distrutti altri 190 mila posti di lavoro e le persone in cerca di occupazione sono ulteriormente aumentate, toccando quota 15,7 milioni, 558 mila in più in un solo mese. Il comunicato diffuso dal dipartimento al lavoro ci dice che dall'inizio della recessione (dicembre 2007) sono stati distrutti 8,2 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 10,2%.
Alcuni giorni fa, dagli Usa avevamo anche saputo che la produttività sta salendo a ritmi pazzeschi, mentre i salari stanno diminuendo. Bene per i profitti, malissimo per l'economia. Non solo per gli effetti sociali, ma anche per quelli più economici: la crescente disoccupazione e la riduzione dei salari, stanno portando a una contrazione della domanda, esaltata solo da quella dei consumi di «lusso». Anche gli investimenti ristagnano: perché quando la domanda di consumi è bassa, la produttività in crescita e la capacità produttiva inutilizzata a livelli storicamente molto alti, le imprese non sentono il bisogno di investire.
Noriel Roubini, l'unico economista ad aver previsto la crisi, nei giorni scorsi con un saggio (pubblicato in Italia da Sole 24 ore) ha messo in guardia da questo tipo di ripresa e dalle follie finanziarie che stanno gonfiando nuove bolle speculative. Il messaggio è chiaro: senza una ripresa dell'economia reale, questa (ripresa) sarà effimera, di breve durata. Ma come fare per consolidarla, senza ripercorrere il vecchio modello di sviluppo che inevitabilmente condurrà a nuove crisi? Per Keynes certe decisioni di investimento non possono essere lasciate in mano al capitale privato. Senza essere così «estremisti» e pretendere la socializzazione dei mezzi di produzione, di spazio per la mano pubblica ce n'è in abbondanza. Per favorire la ripresa dell'accumulazione privata, sostituirla, se assente (anziché tagliare risorse come per la banda larga) e stimolare i consumi pubblici.
Se non si corresse il rischio di fare un regalo a Mediaset, favorendo la concentrazione televisiva e pubblicitaria privata costituita dall’azienda del premier, forse bisognerebbe dire che è arrivata l’ora di non pagare più il canone d’abbonamento alla Rai. L’ora, cioè, dell’obiezione fiscale. O comunque, della disdetta collettiva, in forza di una protesta popolare e civile. Con la demolizione della terza rete, ultimo bastione di quella riserva indiana in cui è stata confinata l’informazione televisiva non ancora asservita al governo in carica, si completa la manovra di accerchiamento del servizio pubblico, con l’occupazione "manu militari" dell’azienda di viale Mazzini e la sua definitiva normalizzazione. Questo non è che l’epilogo di un lungo assedio in cui si intrecciano interessi privati e pretese di egemonia politica. L’assalto finale al Palazzo di vetro della televisione pubblica, tutt’altro che trasparente e luminoso.
Il declassamento annunciato di Rai Tre da rete nazionale a rete regionale, attraverso la rimozione del direttore Paolo Ruffini, non corrisponde però soltanto a un "escamotage" per smantellare trasmissioni considerate scomode o irriverenti: da Ballarò di Giovanni Floris a Che tempo che fa di Fabio Fazio, per arrivare fino al talk-show satirico Parla con me di Serena Dandini. Già questo, per la verità, sarebbe di per sé grave e preoccupante. E non tanto sul piano politico, del pluralismo interno o dell’indipendenza professionale; quanto proprio sotto l’aspetto del palinsesto, della produzione, della varietà e articolazione di scelte offerte al pubblico dei telespettatori.
Ma il progetto per così dire federalista che punta a trasformare la terza rete in una Repubblica televisiva separata, in una diaspora permanente di tg e programmi locali, insomma in un’appendice di viale Mazzini, minaccia in realtà di ridurre tutta la Rai da tv di Stato a tv di regime, mortificando l’identità e il ruolo istituzionale del servizio pubblico in funzione di una subalternità assoluta al governo e alla sua maggioranza. Se è vero che quest’ultima beneficia in Parlamento di una sia pur legittima maggiorazione, prodotta dal sistema elettorale vigente, è altresì vero che non gode di una maggioranza effettiva di voti e di consensi nel Paese. E ciò, evidentemente, rende ancora più abusiva la colonizzazione politica di viale Mazzini da parte del centrodestra, guidato da un premier-tycoon che è anche il principale concorrente privato dell’azienda pubblica.
Si dirà, magari, che in fondo è sempre stato così, che la Rai gravita da sempre nell’orbita governativa. Ovvero, per usare un’espressione di Bruno Vespa, che storicamente l’azienda ha considerato il partito di maggioranza come il proprio azionista di riferimento. Eppure, a parte la questione irrisolta del conflitto d’interessi in capo a Berlusconi, è stata proprio la presenza della terza rete a rappresentare finora un presidio di autonomia, a garanzia della minoranza, se non un alibi o una foglia di fico.
Ricordiamo tutti che, ai tempi della vituperata Prima Repubblica, questo fu il risultato di una spartizione fra maggioranza e opposizione, con l’appalto di Rai Tre e del Tg3 al vecchio Pci: era l’epoca della celebre "Tele Kabul", affidata all’esperienza e alla professionalità del povero Sandro Curzi. E sappiamo bene che, all’interno delle reti e delle testate giornalistiche, imperava (e continua a imperare) la legge della lottizzazione fra i partiti, le loro correnti e sottocorrenti. Ma la terza rete, al di là di certi estremismi e faziosità, ha rappresentato tuttavia un surrogato di alternativa, una zona franca, uno spazio di libertà, mentre oggi la sua amputazione rischia di compromettere la stessa ragion d’essere del servizio pubblico.
Con la forza profetica dei suoi arcani sondaggi, recentemente il capo del governo ha predetto che, in seguito al comportamento della Rai nei suoi confronti, l’evasione del canone è destinata a passare dal 30 addirittura al 50 per cento. Senza ricorrere all’ausilio di indagini demoscopiche, c’è da meravigliarsi semmai che ciò non sia ancora avvenuto. In rapporto al servilismo di gran parte dell’informazione – e in qualche caso anche dell’intrattenimento – propinato quotidianamente ai cittadini abbonati, la quota di evasione dovrebbe arrivare anzi al 65 per cento, corrispondente all’area elettorale che ha votato contro o comunque non ha votato a favore del centrodestra.
Sta di fatto che il servizio pubblico esiste in tutti i Paesi democratici e in alcuni di questi, a cominciare dalla Gran Bretagna della mitica Bbc, è finanziato soltanto dal canone d’abbonamento. Ora, se ne esiste uno al mondo in cui la sua funzione è assolutamente necessaria, questo è proprio il nostro, dominato dall’anomalia del conflitto d’interessi e ancor prima dalla concentrazione televisiva e pubblicitaria. L’obiettivo prioritario, piuttosto, resta quello di affrancare la Rai dalla sudditanza alla politica e dalla subalternità al governo.
Non c’è scritto in nessuna legge che in Italia la tv pubblica debba gestire tre reti: e infatti non accade altrove. Ma non c’è scritto neppure che un solo operatore privato ne debba detenere altrettante, in concessione dallo Stato. Né tantomeno che lo stesso soggetto controlli poi quelle pubbliche direttamente dalle stanze di Palazzo Chigi. Prima di abolire o disdire il canone, è necessario allora ridurre la concentrazione televisiva ed eliminare il conflitto d’interessi che condizionano l’intero sistema dell’informazione nel nostro Paese.
All’origine del sentimento di giustizia c’é un sentimento naturale di vendetta – gli utilitaristi lo chiamavano sentimento "animale" per sottolinarne l’utilitá immediata per l’individuo ma anche la necessitá della sua rieducazione. È un sentimento "naturale" nel senso che viene prima di ogni educazione morale e intellettuale, prima della riflessione ragionata e delle istituzioni, e serve a orientare la nostra risposta all’ambiente in vista della nostra sopravvivenza, il bene primario.
Uno dei padri fondatori del liberalismo, John Locke, sosteneva per questo che benché capaci di naturale giudizio morale e di ragionevolezza, gli esseri umani non riescono a vivere fuori dello stato per una ragione molto semplice: perché non sanno essere imparziali. Quando vengono offesi o danneggiati giudicano in maniera parziale perché danno a se stessi e alle proprie cose un valore sproporzionato in eccesso. Per questo serve un giudice esterno: una norma che non sia fatta né da chi ha subito il danno (giustizia come vendetta) né da chi il danno vuole perpetrarlo (giustizia come licenza) ma da chi si mette ipoteticamente nella condizione ideale di un giudice disancorato o di chi non é parte in causa e che per questo riesce a valutare spassionatamente. Su queste premesse riposa la possibilitá di creare la pace sociale.
La civilitá puó essere a ragione definita come un processo faticoso, e a quanto pare mai compiuto, per superare o domare il sentimento "animale" della giustizia come vendetta e ritorsione in un sentimento riflessivo che sappia giudicare a prescindere dalle passioni che l’ingiustizia provoca nella vittima o dagli interessi che un comportamento equo può imporre di sacrificare. Come si può intuire, ragionare secondo giustizia é un esercizio tutt’altro che spontaneo e facile: l’educazione che i genitori ci impartiscono quando siamo bambini e che l’obbedienza delle leggi ci conferma quando siamo adulti é un segno di quanto sia innaturale ragionare secondo giustizia e quanto venga invece spontaneo farci guidare dall’istinto di proteggere noi stessi e le nostre cose con tutti i mezzi e sopra tutto e tutti. Lo Stato di diritto, la norma uguale per tutti, l’autonomia della sfera giuridica da quella politica sono gli esiti piú importanti di questo grande e difficile cammino della civiltà dalla naturalità del sentimento di vendetta al sentimento ragionato di giustizia.
In Italia si assiste a una trasvalutazione dei valori, a un rovesciamento vero e proprio del sentimento di giustizia per cui si sente dire con rituale frequenza e impudica chiarezza che i giudici perseguitano o che la giustizia si vendica, mentre la giustizia vera sarebbe quella più vicina ai propri desideri e interessi. Ovviamente la giustizia che si fa vendetta é un atto gravissimo. Ma quando ciò succede si é già fuori della giustizia, si é già nella dimensione del reato, per giudicare del quale é comunque necessaria una visione della giustizia come imparzialità. Per questo é sempre sbagliatissimo e improvvido associare la giustizia alla persecuzione o alla vendetta, anche quando per le ragioni le più diverse si dissente dall’operato dei giudici. Ed é sbagliatissimo soprattutto quando a fare questi proclami non sono cittadini ordinari che chiacchierano davanti a un bicchiere di vino, ma invece uomini delle istituzioni e mezzi di informazione. Siamo qui di fronte a un caso di stravolgimento di quella che é la relazione impersonale ordinata dalla legge tra il cittadino (potenzialmente tutti senza distinzione) che può aver o ha violato la legge e il magistrato che ha il compito di verificare che ciò sia avvenuto per poter giudicare il reato, comminare la pena e così restaurare l’integrità della legge.
Quando questa relazione viene stravolta dichiarandola vendicativa e questo stravolgimento addirittura esaltato in nome di più vera giustizia e fatto passare nel linguaggio ordinario si produce gravissimo danno non tanto o soltanto alle istituzioni, ma anche e soprattutto alla nostra personale sicurezza, poiché a cadere insieme al senso di giustizia é la fiducia reciproca (se giustizia é vendetta di chi ci si può più fidare?) e con essa la tranquillità della vita quotidiana. E purtroppo questo stravolgimento valoriale e linguistico ha effetti che sono difficili perfino da immaginare e controllare e che vanno ben al di là del fatto specifico per il quale esso é stato ad arte creato, ovvero la protezione degli interessi particolari di chi ci governa.
Il paradosso é che proprio colui dal quale vengono le accusa di persecuzione rivolte ai giudici, poi quando deve trovare un argomento di difesa del suo operato si appella proprio a una giustizia dei giudici. Rispondendo alle domande di Bruno Vespa sulla sua ricattabilitá, il Presidente del consiglio ha detto che quando nei suoi «confronti sono state avanzate richieste che secondo il giudizio [suo] e dei [suoi] legali si configuravano come ricattatorie, [egli si é] immediatamente rivolto all’autorità giudiziaria» – e se questo é vero é perché egli stesso deve presumere che questa autorità sia imparziale e per questo meritevole di autorità.
«Odio i viaggi e gli esploratori», una frase indimenticabile, che apre il volume forse più letto e conosciuto di Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici (1955), una frase che rimane impressa indelebilmente anche nei lettori che non odiano affatto i viaggi e gli esploratori e che prediligono quella letteratura di viaggio al cui genere l'opera da cui è tratta nonostante tutto appartiene e che ha stimolato generazioni di viaggiatori e di ricercatori che si sono avventurati alla ricerca di tropici più o meno tristi. Una frase paradossale, dunque, che sembra riassumere i molteplici paradossi che caratterizzano l'opera e il pensiero di Lévi-Strauss: probabilmente l'antropologo più celebre e influente del Novecento, che tuttavia ha lasciato più critici che allievi, la cui opera è guardata con venerazione e rispetto ma per lo più scorsa frettolosamente dalle generazioni più recenti di studiosi.
L'antropologo francese ha avuto la singolare fortuna di poter assistere, nel corso della sua lunga vita, non solo al culmine della propria notorietà e del prestigio accademico e scientifico, ma anche al declino dell'interesse per le proprie opere, fin quasi alla tacita emarginazione, e infine alla lenta riscoperta e rivalutazione che si è fatta strada solo negli ultimi anni.
Sotto il segno dell'universale
L'opera immensa e straordinaria di Lévi-Strauss riscuote spesso reazioni contrastanti e diametralmente opposte: alcuni lo ammirano senza riserve e sono affascinati dallo stile raffinato ed elegante, mentre altri rimangono infastiditi e insofferenti di fronte al linguaggio a volte oscuro e a un argomentare fluido e sfuggente.
Eppure la figura di Lévi-Strauss segna una profonda trasformazione nella storia dell'antropologia: la disciplina, dopo aver assorbito gli stimoli e le sollecitazioni dovuti alla sua opera, non è stata più la stessa di prima. Il pensiero dell'autore di Tristi Tropici ne ha modificato la fisionomia, ne ha trasformato il ruolo e le prospettive, ne ha rinnovato l'autorevolezza e la notorietà. Lévi-Strauss ha rappresentato un genere di antropologia diversa da quella resa celebre, per esempio, da Malinowski: una ricerca dettagliata e approfondita di una singola realtà etnografica attraverso la ricerca lunga e sistematica sul terreno, lo sforzo di vivere come un nativo e di narrarne il significato e le implicazioni.
L'antropologia lévi-straussiana è piuttosto una ricerca comparativa di ampio respiro, che si propone di esplorare l'ampio spettro delle differenze e delle somiglianze tra le società umane per mettere in luce ciò che di universale le accomuna e le sottende. La sua opera sulle Strutture elementari della parentela (1949) ha costituito per oltre mezzo secolo un riferimento obbligato per gli studi antropologici e ha segnato una svolta nel modo di affrontare lo studio dei sistemi sociali. Quello che appariva come un caotico groviglio di usanze, costumi, regole e proibizioni estremamente variabili da una cultura all'altra comincia a prendere forma, sotto il rigoroso e sistematico esame dell'antropologo, mostrando l'esistenza di una serie di principi fondamentali che stanno alla base di tutta una vasta serie di fenomeni.
Le varie forme di prescrizione matrimoniale, che stabiliscono chi si può (o si deve) e che non si può (o non si deve) sposare, rimandano a un numero limitato di principi strutturali riconducibili al modello dello scambio. L'apparente disordine e confusione della variabilità culturale trova la propria giustificazione e possibilità di spiegazione attraverso l'individuazione di un nucleo di principi strutturali universali. Forse un meccanismo troppo semplice per spiegare adeguatamente la molteplicità dei fenomeni e delle situazioni empiriche, come è stato messo in evidenza dagli studi successivi, tuttavia il salto di qualità che quest'opera ha consentito di fare è stato immenso e ha fornito argomenti di discussione e di riflessione per i successivi cinquant'anni di studi e di ricerche.
Per Lévi-Strauss, questa ricerca di ordine nel caos delle percezioni e delle rappresentazioni è un'esigenza che si manifesta non soltanto nel lavoro dell'antropologo, ma più in generale in ogni sistema culturale umano. L'uomo è essenzialmente un «animale simbolico», la sua caratteristica fondamentale e universale consiste nel costruire un sistema di categorie attraverso cui dare ordine e significato al mondo che lo circonda. Così come ogni lingua si fonda su una particolare articolazione e scelta dei suoni, ciascuna cultura elabora un complesso sistema di classificazione della realtà, che si basa anch'esso su un numero limitato di regole e di principi ma che può dare luogo a un'immensa varietà di rappresentazioni.
È grazie all'opera di Lévi-Strauss, in particolare al suo volume sul Pensiero selvaggio (1962), che si è affermato ampiamente il principio secondo cui i popoli extra-europei non sono semplicemente dominati da un pensiero «magico», da superstizioni e credenze assurde e irrazionali, da concezioni empiricamente infondate, ma dispongono di complessi e articolati sistemi di classificazione e di descrizione del mondo. La conoscenza del mondo naturale, degli animali, delle piante, del territorio manifestata da molti popoli indigeni si rivelava, grazie alle pagine dell'antropologo francese, di un'inaspettata profondità e accuratezza. Non solo, ma questa propensione a classificare, osservare, descrivere, è stata ricondotta da Lévi-Strauss a una universale qualità intellettiva dell'uomo, che è indipendente dalle esigenze immediate di ordine materiale.
La famosa frase, rivolta in modo critico alla teoria utilitaristica di Malinowski, in cui si afferma che gli animali per il pensiero indigeno sono non tanto «buoni da mangiare» quanto soprattutto «buoni da pensare», costituisce per l'antropologia un momento di svolta decisivo: viene di colpo restituita a tutta l'umanità, anche a quella più lontana ed esotica, la dignità intellettuale, la capacità di interrogarsi e di osservare, la curiosità di indagare e di scoprire, la necessità di porsi delle domande e di cercare delle risposte. A molti antropologi della seconda metà del Novecento questa enfasi posta da Lévi-Strauss sulla dimensione intellettiva della cultura è sembrata eccessiva e squilibrata: lo si è accusato di mentalismo e di intellettualismo, di trascurare in modo indebito gli aspetti più materiali dell'esistenza, come i condizionamenti ecologici e le esigenze della produzione economica, la dimensione corporea e le pratiche ad essa collegate. Tuttavia, rimane a Lévi-Strauss l'indiscutibile merito di aver portato una ventata di aria fresca in un settore che era rimasto a lungo intriso da radicati pregiudizi e da prospettive obsolete.
La sua insistenza sul fatto che il pensiero umano funziona dappertutto secondo meccanismi identici e che gli uomini «hanno sempre pensato altrettanto bene» ha contribuito in modo decisivo ad abbandonare l'idea che vi fossero differenze sostanziali nelle facoltà intellettive e nelle capacità riflessive tra le società umane.
Nel regno del mito
A partire dagli anni Cinquanta, i principali lavori teorici di Lévi-Strauss si sono rivolti a un campo di studi particolare e alquanto inconsueto: quello dei miti. La scelta sembra apparentemente bizzarra: perché interessarsi per tanti anni e con tanto impegno a quel coacervo di storie improbabili, a quei racconti apparentemente incoerenti e fantasiosi provenienti dalle lontane foreste dell'Amazzonia o dagli altopiani delle Montagne Rocciose? Tuttavia, anche in questo caso, Lévi-Strauss è stato in grado di mostrare come dietro quell'insieme caotico di eventi e di narrazioni, che raccontano di incesti e di assassini, di uomini e di animali, di luoghi misteriosi e di poteri sovrumani, esisteva un ordine, un disegno nascosto. Sovrapponendo e confrontando fra loro una versione con l'altra, un racconto con un altro, cominciavano a emergere alcune linee guida che dimostravano come i creatori di quelle narrazioni avessero cercato di rispondere ad alcune importanti questioni, che riguardano anche noi, uomini e donne del XXI secolo.
L'analisi delle mitologie delle Americhe conduce Lévi-Strauss a individuare un sistema di pensiero in cui la distinzione tra la natura e la cultura svolge un ruolo centrale. In realtà, secondo Lévi-Strauss, questo tema è fondamentale per l'umanità nel suo complesso: come spiegare altrimenti la spontanea facilità con cui tendiamo a distinguere in modo netto e reciso tra noi umani e gli altri animali? Perché abbiamo la tendenza a porre una barriera tra l'uomo e, poniamo, il cane e lo scimpanzé e caso mai siamo disposti a riconoscere una certa affinità maggiore tra noi e il nostro cagnolino piuttosto che con una scimmia abitatrice delle foreste, quando la distanza genetica che ci separa da quest'ultima è molto più piccola di quella esistente tra noi e il cane e quando la distanza tra cane e scimmia è molto più grande di quella tra gli uomini e i primati?
Per rispondere a tali interrogativi occorre prendere in considerazione il ruolo del pensiero simbolico come fonte per la costruzione di un ordinamento del mondo in cui l'uomo vive. Tuttavia, le diverse società umane risolvono in modo diverso gli stessi interrogativi fondamentali e l'analisi delle mitologie amerindiane consente di mettere in luce proprio le modalità attraverso le quali quelle società hanno sviluppato il rapporto tra la natura e la cultura. Nella definizione del mondo umano e nella sua contrapposizione al mondo circostante, molte culture americane hanno sottolineato non tanto la radicale separazione e incommensurabilità tra una dimensione e l'altra, quanto piuttosto le varie forme di mediazione che rendono possibile il passaggio tra natura e cultura, tra animalità e umanità, tra continuo e discontinuo.
Nei lunghi percorsi tortuosi che si addentrano nell'intrico delle mitologie americane e si snodano nei quattro ponderosi volumi delle Mythologiques (1964-1971), l'autore mostra come ogni mito richiami altri miti, della stessa popolazione e di altre popolazioni, più o meno vicine, in un continuo processo di rifrazioni e di trasformazioni. Dal sovrapporsi e intersecarsi dei motivi mitici comincia poco a poco a delinearsi un certo ordine, in cui il tema della cucina costituisce il fattore ricorrente. Il fuoco infatti costituisce un elemento di distinzione per eccellenza tra gli uomini, che padroneggiano il fuoco e mangiano cibi cotti, e gli altri animali, che fuggono impauriti alla vista del fuoco e che si nutrono di cibi crudi. Il fuoco costituisce così un essenziale strumento di trasformazione: è grazie all'impiego del fuoco che gli uomini sono in grado di trasformare il cibo crudo, prodotto della natura, in cibo cotto, risultato dell'intervento della cultura. I miti che narrano l'origine del fuoco sono poi connessi, in vario modo, con altri miti che raccontano l'origine dei maiali selvatici, che costituiscono la fonte principale di cibo ottenuto attraverso la caccia, e quindi la materia prima su cui si esercita l'arte della cucina. Questi a loro volta richiamano altri due elementi: il tabacco e il miele.
Che cos'hanno in comune il miele, il tabacco e il fuoco da cucina? Lévi-Strauss mostra, con un talento e una raffinatezza di riflessione ineguagliabili, come il miele costituisca una sorta di alimento già «cotto», cioè preparato, allo stato di natura, quindi senza l'intervento dell'uomo. Il tabacco, invece, richiede, per essere consumato, di venire bruciato: si ha così una sorta di eccesso di intervento culturale, che pone il tabacco in relazione con gli esseri soprannaturali. Così mentre il miele è un prodotto elaborato da esseri non umani (le api), il tabacco è un prodotto il cui consumo culturale implica la sua distruzione, per aspirarne il fumo. Tutti questi racconti finiscono quindi per parlare delle stesse cose e per elaborare in vari modi il tema delle molteplici forme di passaggio dal mondo naturale al mondo culturale e viceversa.
Allievo e testimione dei primitivi
Le analisi di Lévi-Strauss sono complesse, intricate, si sviluppano per centinaia di pagine e non sono quindi facilmente ripercorribili. Molti autori le considerano elaborazioni cervellotiche e infondate. Tuttavia, il lettore che abbia la pazienza di scorrere quelle pagine ne rimarrà affascinato e coinvolto: non potrà sfuggire alla sensazione che quelle storie, apparentemente strane e sconnesse, devono essere prese sul serio e, con esse, i loro lontani e remoti creatori. E allora il ricordo corre inevitabilmente alla lezione inaugurale, tenuta nel 1960 al Collège de France, al termine della quale l'antropologo francese volle tornare con il pensiero ai popoli della foresta tropicale presso i quali aveva svolto le sue prime ricerche e di cui si definì «loro allievo e loro testimone». Generazioni di antropologi si sono sforzati e ancora si sforzeranno in futuro di sviluppare le profonde conseguenze e implicazioni di questa affermazione, per alcuni aspetti sorprendente, di Claude Lévi-Strauss.