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La striscia insanguinata di Gaza è l'ultima testimonianza di una tragedia senza ritorno, ormai avviata verso la soluzione finale. In questi giorni migliaia di feriti e centinaia di morti, vittime dei bombardamenti e dell'attacco terreste della grande potenza nucleare israeliana, si sono aggiunti alle decine di migliaia di persone in condizioni disperate a causa della miseria, delle malattie, della fame. I ricatti finanziari e l'embargo imposto da Israele alla popolazione di Gaza non intendevano colpire soltanto il movimento di Hamas.

Né si può minimamente pensare, nonostante i fiumi di retorica versati dagli opinionisti occidentali, che l'operazione «Piombo fuso» fosse stata progettata per replicare ai razzi Qassam. In dieci anni questi rudimentali strumenti bellici non avevano provocato più di una decina di vittime israeliane.

Gaza deve scomparire, soffocata nel sangue: questo è l'obiettivo strategico delle autorità israeliane dopo il fallimento del «ritiro» voluto da Sharon nel 2005. Gaza verrà falciata come entità civile e come struttura politica autonoma: non a caso i missili e i carri armati israeliani stanno distruggendo accanitamente le sue strutture civili, politiche e amministrative. Gaza verrà ridotta a un cumulo di macerie e scomparirà come sta scomparendo la Cisgiordania, che ormai sopravvive come un relitto storico, come una sorta di discarica umana differenziata, dopo quarant'anni di illegale occupazione militare.

Quello che rimarrà del popolo palestinese sarà sottoposto per sempre al potere degli invasori in nome del mito politico-religioso del «Grande Israele». Rispetto a questo mito il valore delle vite umane è uguale a zero, nonostante il «diritto alla vita» di cui ha fabulato la Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948. Il 1948 è proprio l'anno dell'auto proclamazione dello stato d'Israele e della feroce «pulizia etnica» imposta dai leader sionisti al popolo palestinese, oggi rigorosamente documentata da storici israeliani come, fra gli altri, Ilan Pappe, Avi Shlaim e Jeff Halper.

In questi anni l'idea di uno stato palestinese è stata l'ultima impostura sionista, sostenuta dal potere imperiale degli Stati uniti, con la complicità dell'Unione europea. L'inganno è servito non solo a coprire un processo di occupazione sempre più invasiva dell'esigua porzione di territorio - il 22 per cento della Palestina mandataria - rimasta al popolo palestinese dopo la guerra di aggressione del 1967. L'inganno è servito soprattutto per avviare una progressiva e irreversibile colonizzazione dell'intera Palestina. Oggi non meno di 400 mila coloni sono insediati in Cisgiordania e le colonie si espandono senza sosta.

A Gaza e in Cisgiordania i leader politici palestinesi sono stati costretti all'esilio, incarcerati o eliminati con la tecnica feroce degli «omicidi mirati». Decine di migliaia di case sono state demolite e centinaia di villaggi devastati. Centinaia di pozzi sono stati distrutti e le riserve idriche sotterranee sequestrate e sfruttate per irrigare le coltivazioni delle colonie e dei territori israeliani. Migliaia di olivi e di alberi da frutta sono stati sradicati. Un fitto intreccio di strade che collegano le colonie tra di loro e con Israele - le famigerate by-pass routes - sono state interdette ai palestinesi e rendono ancora più difficoltose le comunicazioni territoriali, già ostacolate da centinaia di check point. A tutto questo si è aggiunta l'erezione della «barriera di sicurezza» voluta da Sharon, il muro destinato a stringere in una morsa la popolazione palestinese, relegandola in aree territoriali sempre più frammentate e dislocate. Nel frattempo Gerusalemme è stata trasformata in un'immensa colonia ebraica che si espande sempre più verso oriente, cancellando ogni traccia della presenza arabo-islamica e dei suoi millenari monumenti.

L'etnocidio del popolo palestinese si consuma nell'indifferenza del mondo, con la complicità delle cancellerie occidentali, l'omertà dei grandi mezzi di comunicazione di massa, il servilismo degli esperti e dei giuristi «al di sopra delle parti», il fervido sostegno del più ottuso e sanguinario presidente che gli Stati uniti d'America possono vantare. Per quanto riguarda il popolo palestinese, il diritto internazionale è un pezzo di carta insanguinata, mentre le Nazioni unite, dominate dal potere di veto degli Stati uniti, macinano acqua nel mortaio e lasciano impuniti gli infiniti crimini internazionali commessi da Israele. La triste vicenda di Richard Falk ne ha offerto in questi giorni l'ennesima prova. Ciò che sicuramente riprenderà vigore in un futuro molto prossimo - e sarà per tutti la tragedia più grave - sarà il terrorismo suicida dei giovani palestinesi, la sola replica «economica» al terrorismo di stato. E altissimo sarà il rischio di un allargamento del conflitto nell'intera area della mezzaluna fertile.

Che senso storico e umano ha tutto questo? Qual è il destino del Medio Oriente? Che funzione svolge la strage di uomini, donne e bambini palestinesi? Come si giustifica la spietatezza del governo Olmert e la complicità delle autorità religiose israeliane?

Una cosa sembra certa e è la funzione sacrificale di un lembo di terra tra i più densamente abitati poveri e disperati del pianeta. Chi persegue un obiettivo assoluto e si crede portatore della giustizia e della verità, si attribuisce un'innocenza assoluta e è sempre pronto, come ci ha insegnato Albert Camus, a imputare agli avversari una colpa assoluta e a spegnere la loro vita negando loro ogni speranza. Gaza è ormai un immenso patibolo dove si celebra di fronte al mondo una condanna a morte collettiva. L'umanità assiste allo «splendore del supplizio», per usare una celebre espressione di Michael Foucault. La pubblica esecuzione della condanna a morte dei propri avversari è uno strumento essenziale di glorificazione di un potere che si sente più che umano.

Ci sono anche sindaci felici. «Il Grand Hotel Marmolada wellness sarà costruito qui, dove c’è il grande parcheggio per la funivia. Gli chalet saranno poco lontano, sulla strada verso la centrale idroelettrica. Ma saranno fatti bene, sembreranno i fienili di una volta». Il sindaco contento è Maurizio De Cassan, 53 anni, albergatore a Malga Ciapela e primo cittadino di Rocca Pietore. «Gli hotel, e anche le seconde case, continuano a pagare l’Ici. Così avremo i soldi per il bilancio comunale».

«È uno scempio ambientale, e non solo» dice Fausto De Stefani, presidente dell´associazione ecologista Mountain Wilderness. «La vita sulle Alpi si difende costruendo un equilibrio fra le comunità. Qui invece arriva una massa di cemento, imposta da interessi imprenditoriali, che rompe ogni equilibrio. L’identità e la storia di Rocca Pietore vengono cancellate. Gli artigiani e i piccoli imprenditori di questa conca avranno purtroppo un solo futuro: andare a fare i camerieri al Grand Hotel».

L’insulto alla Regina delle Dolomiti dura ormai da troppi anni. Strade scavate nel ghiacciaio per costruire i nuovi impianti della funivia, crepacci usati come discariche, silenzio spezzato dagli elicotteri che portano in vetta gli appassionati di eliski. Non si scompone, il sindaco albergatore Maurizio De Cassan. Resiste anche alle critiche dei suoi colleghi della Federalberghi, che hanno definito il progetto «una svendita del territorio, un’eresia, perché non può esistere turismo senza bellezza». «Quelli lì - dice - parlano senza conoscere bene le cose. Qui alberghi a 4 o 5 stelle non ne abbiamo e certi clienti non vengono nei nostri tre stelle. E poi piscine e centro benessere saranno aperti anche ai clienti degli altri hotel che faranno le convenzioni».

Tutto iniziò nel 2005, quando in consiglio comunale venne approvata la cosiddetta «variante Vascellari», pochi giorni prima che la Regione Veneto bloccasse le modifiche ai Prg. Mario Vascellari è presidente della società Tofana Marmolada proprietaria della funivia che porta in cima alla regina delle Dolomiti (ristrutturata nel 2005 con 15,5 milioni di euro, 6 dei quali dati dalla Regione Veneto a fondo perduto). Valentino Vascellari, fratello di Mario, è il presidente dell´Associazione industriali di Belluno (e socio nella società della funivia) che l´altro giorno ha presentato il progetto di Malga Ciapela assieme ad un altro hotel da 180 camere a Sappada. «I fratelli Vascellari - dice il sindaco Maurizio De Cassan - sono anche i soci principali della società che vuole costruire il Grand Hotel resort. Del resto, la variante del 2005, quella che abbiamo approvato in consiglio, l’avevano preparata, e pagata, proprio loro. Così ho risparmiato i soldi della comunità».

Contro il «mostro della Marmolada» si alzarono subito polemiche. «Nonostante le proteste il progetto è rimasto quello iniziale. Il corpo centrale sarà alto 12 metri e mezzo, più qualche torre». Già oggi gli appartamenti non mancano, a Rocca Pietore e frazioni. Secondo il censimento del 2001 per 1.451 abitanti (e 650 famiglie) ci sono 1.887 abitazioni. «Penso che in 5 anni - dice il sindaco - il resort sarà realizzato. Credo che costerà 50 milioni».

Walter De Cassan, presidente della Federalberghi di Belluno, è infuriato con il quasi omonimo sindaco di Rocca Pietore e con chi, come lui, «butta via il territorio». «Il Grand Hotel di Malga Ciapela è una follia. Nel bellunese i letti degli alberghi sono occupati solo per il 40%. Il problema è fare conoscere le nostre Dolomiti, altro che costruire nuovi hotel portando tonnellate di cemento sulla Marmolada».

Per capire la differenza fra un hotel a gestione familiare e l’albergo gestito da una catena nazionale o internazionale, basta entrare all’hotel Principe Marmolada, a Malga Ciapela, che fa parte della Emmegi hotel srl con sede a Milano. Con sette gradi sottozero nel menù del pranzo si offrono riso all’inglese e prosciutto e melone. Nessuna traccia di zuppe o polenta. Acquisti e menù sono decisi a livello nazionale, e la tavola del ristorante davanti alla Marmolada è uguale a quella di un self service milanese. «Il grande complesso alberghiero - dice Luigi Casanova, vice presidente di Cipra, la Commissione internazionale per la protezione delle Alpi - è invadente, cancella l´identità della popolazione locale, frantuma le filiere corte dell’economia che ancora oggi resistono. Cancella l’artigianato, i piccoli albergatori, gli affittacamere».

La battaglia di Mountain Wilderness per difendere «l’ultimo vero ghiacciaio delle Dolomiti» è iniziata nel 1988. «In quell’estate - ricorda Fausto De Stefani - raccogliemmo centinaia di sacchi di immondizie sotto la parete sud. Ci calammo nei crepacci per raccogliere funi, plastiche, prodotti chimici, rifiuti di ogni tipo scaricati dalla società della funivia assieme a oli esausti e carburanti».

Per questo inquinamento la società funivie Tofana Marmolada è stata multata di 100.000 euro, da pagare alla Provincia di Belluno come risarcimento per danni ambientali. Il 4 febbraio 2008, a Cavalese, tre rappresentanti della stessa società sono stati condannati a 8 mesi di reclusione (indultati) per avere costruito senza autorizzazioni una strada di accesso al cantiere della funivia, nel cuore del ghiacciaio. Fra i condannati anche il presidente della società, Mario Vascellari, che assieme al fratello Valentino (il presidente degli industriali bellunesi) ora ha il permesso di costruire il mega resort di Malga Ciapela. Valentino Vascellari non ha certo risparmiato elogi al progetto. «Il turismo bellunese - ha detto - uscirà dall’età della pietra».

Ed entrerà nell’età del cemento ad alta quota. Colato fra i cristalli di ghiaccio della Marmolada.

Nel discorso di Capodanno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha proposto di fare della crisi un’occasione "per impegnarci a ridurre sempre più le acute disparità che si manifestano nei redditi e nelle condizioni di vita". Supponiamo per un momento che il governo o l’opposizione prendano sul serio le sue parole. Caso mai lo facessero, dovrebbero elaborare una politica rivolta a ridurre in modo stabile le disparità, ovvero le disuguaglianze socio-economiche osservabili nel nostro paese. Il percorso da seguire a tale scopo comprenderebbe diverse tappe. Vediamo quali sarebbero le principali.

Anzitutto, parlando dell’Italia, è poi vero che da noi le disuguaglianze sono maggiori che in altri paesi? Ammesso che lo siano, perché mai il potere politico dovrebbe preoccuparsene? Una risposta alla prima domanda l’ha fornita l’Ocse con un rapporto pubblicato un paio di mesi fa. Sui trenta paesi aderenti all’Ocse, soltanto 5 presentano indici di disuguaglianza superiori all’Italia, mentre ben 24 presentano indici inferiori. D’altra parte i ricercatori della Banca d’Italia forniscono da anni dati analoghi. In Italia il 20 per cento della popolazione più povera percepisce meno del 7 per cento del reddito totale; il 20 per cento più ricco riceve più del 41 per cento. Se si guarda al patrimonio, le disuguaglianze sono anche più grandi: il 10 per cento formato dalle famiglie più ricche detiene la metà della ricchezza reale e finanziaria, mentre la metà formata da quelle più povere possiede appena il 10 per cento della ricchezza totale. Soltanto gli Usa, il Brasile e pochissimi altri paesi mostrano disuguaglianze altrettanto piramidali.

La politica, sostiene la destra, non dovrebbe occuparsi delle disuguaglianze socio-economiche. Perché in fondo, essa dice, sono giuste. Coloro che stanno in alto lo debbono nell’insieme a un impegno nello studio e sul lavoro superiore a quello di coloro che stanno in basso. Se lo Stato interviene in tale processo, sminuisce il riconoscimento dovuto ai primi e compensa i secondi che non se lo meritano. Sostenendo questo la destra commette due errori. Il primo fattuale, perché la spiegazione vale per casi individuali, ma per un fenomeno collettivo come le disuguaglianze socio-economiche non c’è evidenza disponibile che la confermi. Il secondo errore è politico.

Chi si trova nella parte bassa della distribuzione del reddito e della ricchezza ha in media una vita più corta di qualche anno; svolge un lavoro più faticoso; si nutre come può; tende ad ammalarsi più spesso; stenta a mandare i figli all’asilo da piccoli come alle superiori o all’università da grandi; spreca in media un paio d’ore al giorno a fare il pendolare; a suo tempo, avrà una pensione da fame. Soprattutto, chi si trova nelle predette condizioni non conta niente nelle decisioni che vengono assunte dal potere politico giusto in tema di organizzazione del lavoro, salari, sanità, prezzi, costo e disponibilità di asili, scuola, trasporti pubblici, pensioni. Ora, finché si tratta d’una parte modesta della popolazione, un problema politico non si pone per chi sta in cima alla piramide: quelli che stanno alla base sono semplicemente invisibili. Quando invece capita che la base diventi maggioranza, o si affronta la questione delle disuguaglianze sul piano politico, oppure esse corrompono in profondità le strutture della società che le ha tollerate fino a quel punto. Che è il limite al quale l’Italia pare si stia approssimando.

Superata la tappa dell’accertamento dei dati, una politica volta a ridurre le disuguaglianze dovrebbe interrogarsi sulle loro numerose cause. Basta scegliere quelle su cui concentrarsi. La produttività delle imprese italiane, che dovrebbe essere fatta anzitutto di ricerca e sviluppo, prodotti innovativi, organizzazione del lavoro ad elevato contenuto professionale, nonché mezzi di produzione idonei a migliorare la qualità di prodotti e servizi e non soltanto a risparmiare lavoro, ristagna da circa un decennio. Le imprese piccole pagano salari molto più bassi in media che non quelle grandi, e l’Italia ha un numero spropositato di esse. Alle politiche attive e passive del lavoro, intese a facilitare un rapido ritorno al lavoro di chi lo ha perso, l’Italia destina poco più dello 0,5 per cento del Pil; Germania, Francia e Spagna, quasi cinque volte tanto. Infine la finanziarizzazione delle imprese ha dirottato masse di capitali che potevano andare agli investimenti verso impieghi improduttivi, come il riacquisto di azioni proprie e i compensi astronomici ai manager sotto forma di stock option, bonus, paracadute e pensioni d’oro in aggiunta allo stipendio.

In compenso è cresciuto il numero dei miliardari in dollari facenti parte del decimo al top delle persone più ricche del mondo. Quelli italiani formano ora il 7 per cento di tale decimo, appena un punto meno della Germania che ha una popolazione molto più grande, e tra 1 e 3 punti in più rispetto a Regno Unito, Francia e Spagna.

Allo scopo di elaborare una politica diretta a ridurre stabilmente le disparità di reddito, come richiesto dal Capo dello Stato, occorre coraggio e consenso sociale. Il primo, è noto, se uno non ce l’ha non se lo può dare. Quanto al consenso, il governo in carica pensa evidentemente di averlo trovato distribuendo qualche euro una tantum ai poverissimi e ad una frazione minima dei precari. L’opposizione farebbe invece bene a pensare di accrescere il proprio prendendo sul serio l’invito di Napolitano. Tenendo conto che in assenza d’una simile politica l’emergenza salariale di cui scrive l’Oil, con le sue componenti finanziarie, potrebbe notevolmente peggiorare nel corso del 2009.

Che cosa persegue realmente Israele con i bombardamenti e l'invasione di Gaza? Certo non quello che dichiarano Tzipi Livni e Ehud Barak. Sono troppo intelligenti per farsi trasportare dall'antica paura che i modestissimi missili di Hamas distruggano il loro paese. Quando hanno iniziato la rappresaglia i Qassam tirati da Gaza avevano ucciso tempo fa una persona, ferito alcune, fatto danni minori su Sderot, incomparabili con i cinquecento morti, migliaia di feriti e le distruzioni inflitti da Tsahal alla Striscia in tre giorni, e che continuano a piovere. Né che siano mirati a distruggere le infrastrutture di Hamas, sapendo bene l'intrico che esse hanno con gli insediamenti civili, tanto da impedire alla stampa estera di accedere a Gaza. Né sono così disinformati da creder che si possa distruggere con le armi Hamas, votata da tutto un popolo, come se ne fosse una superfetazione districabile. Sono al contrario coscienti che l'aggressione aumenterà il peso e l'influenza sulla gente di Gaza oggi e in Cisgiordania domani, contro l'indebolito Mahmoud Abbas. Né gli sarebbe possibile ammazzarli tutti, ci sono limiti che neanche il paese più potente può varcare, ammesso che abbia il cinismo di farlo, e tanto meno all'interno del mondo musulmano che circonda Israele e nel quale, dunque con il quale, intende vivere.

Gli obiettivi sono dunque altri.

Primo, battere nelle imminenti elezioni Netanyahu, che si presenta come il vero difensore a oltranza di Israele. Già le possibilità appaiono ridotte; l'assalto a Gaza sembra sotto questo aspetto una mossa disperata. Che sia anche crudelissima è un altro conto, siamo qui per ragionare.

Secondo, usare le ultime settimane di Bush alla Casa Bianca per mettere la nuova presidenza americana davanti al fatto compiuto. Il silenzio assordante di Obama è già un risultato, quali che siano le circostanze formali che gli rendono difficile parlare su questo, mentre si esprime su altri problemi di ordine interno. Non è ancora insediato che si trova nelle mani una patata bollente, causa prima e annosa di quella caduta dell'immagine americana nel mondo che ha più volte detto di voler restaurare. Queste sono le carte che Olmert, Livni e Barak deliberatamente giocano in una prospettiva a breve.

Neanche Hamas si è mossa sulla semplice onda di un giustificato risentimento. I suoi dirigenti hanno visto benissimo in quale situazione il governo israeliano si trovava quando hanno deciso di rompere l'approssimativa tregua, sapendo anche che per modesti che siano i guasti prodotti dai Qassam nessun governo può presentarsi alle elezioni con una sua zona di confine presa di mira tutti i giorni. Anch'essi puntano a far cadere Olmert, già fuori gioco, la Livni e Barak, secondo la logica propria delle minoranze accerchiate di produrre il massimo danno perché la situazione si rovesci. Gaza è stata messa, e non da ieri, agli estremi, periscano Sansone e tutti i filistei.

Si può capire, ma è una logica reciproca a quella di Israele. Non ritenevano certo che quei modesti spari di missili l'avrebbero distrutta e convertita alla pace. E anch'essi puntano a mettere la nuova amministrazione americana davanti a un incendio che non tollera rinvii. Lo sa la Lega Araba, lo sa l'Iran. Obama ha fatto molte promesse di cambiamento, e lo sfidano a mantenerle o a discreditarsi subito.

Tanto più colpevole di questo sanguinoso sviluppo, che la gente di Gaza paga atrocemente, è l'inerzia dell'Europa. Essa, che sulla questione ebraica ha responsabilità maggiori di chiunque al mondo, nulla ha fatto per impedire che si arrivasse a questa catastrofe. Ne aveva la possibilità? Certo. Poteva mettere, a condizione ineludibile dell'alleanza atlantica e della Nato, e soprattutto quando con la caduta dell'Urss ne venivano meno le conclamate ragioni, la soluzione del nodo Israele-Palestina, sul quale gli Usa erano determinanti, per adempiere alle disposizioni dell'Onu.

Più recentemente, doveva riparare a costo di svenarsi all'assedio di Gaza, dove non ignorava che la mancanza di mezzi elementari di sussistenza, cibo, acqua, elettricità, medicinali, faceva altrettanti morti di quanti stanno facendo adesso gli aerei e i blindati di Tsahal. Ma neanche questi hanno fatto muovere altro che il presidente francese, a condizione che le sue vacanze fossero finite.

Siamo un continente che fa vergogna.

«Vuoi tramutare i giovani del Mezzogiorno in un popolo di camerieri?». Saranno passati quarant’anni ma ricordo ancora l’insulto sprezzante di cui tanti uomini politici e sindacalisti gratificavano Francesco Compagna, uno dei più intelligenti e vivaci intellettuali meridionali, direttore di Nord Sud, nonché esponente politico repubblicano. La sua colpa consisteva nel sostenere che l’avvenire di Bagnoli, una perla paesaggistica al limite estremo del golfo di Napoli come di Gioia Tauro, il porto affacciato nella splendida piana a sud di Reggio Calabria, non andava individuato nell’ampliamento delle grandi acciaierie o nella costruzione di nuovi impianti siderurgici ma nella programmazione di un compatibile e congeniale sviluppo agroturistico. Analogo il discorso per la Sicilia dove stavano approdando devastanti e inquinanti impianti petrolchimici. Vinse il mito della grande industria come volano della rinascita, con la conseguenza che oggi l’Italsider è affondata, Bagnoli è chiusa, l’impianto siderurgico di Gioia Tauro non è mai nato, la petrolchimica è tramontata con le crisi energetiche ma le devastazioni del territorio sono irreversibili.

Nel frattempo il turismo, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle Isole, è cresciuto negli interstizi di un ambiente compromesso, fuori da ogni programmazione che collegasse l’offerta alberghiera a quella infrastrutturale, una rete di eccellenza agroalimentare alla valorizzazione del patrimonio artistico, la formazione degli operatori all’offerta culturale. Ma anche nel resto del Paese la consapevolezza delle potenzialità non accortamente sfruttate non è stata pienamente avvertita, se si tolgono le tre città mondiali (Roma, Venezia, Firenze), la riviera adriatica nordorientale e, in una certa misura, l’arco alpino. Abbiamo, quindi, un sistema in cui gli attori si muovono ognuno per conto proprio, senza un disegno d’assieme che ponga al centro dello sviluppo economico un’offerta turistico-culturale complessa, efficiente e concorrenziale. Le varie famiglie politiche ma anche le élite intellettuali e persino gli economisti, da un lato seguitano ad agire e a pensare all’interno dei vecchi stilemi di una cultura industrialista di stampo otto-novecentesco ma, dall’altro, sembrano avere una scarsa percezione della realtà materiale del nostro Paese. Al di là degli effetti della crisi economica in atto, i dati oggettivi danno, infatti, il quadro di una economia reale forte nell’industria manifatturiera piccola e media, nel turismo e nell’agricoltura, tre settori nei quali siamo secondi in Europa (dopo la Germania nel manifatturiero, dopo la Spagna nel turismo, dopo la Francia nell’agricoltura). Nessun altro paese dell’Ue è così forte contemporaneamente in questi tre ambiti di attività (la Germania è solo quarta nell’agricoltura e nel turismo, la Francia è quarta nella manifattura e nel turismo, la Spagna è terza nell’agricoltura e quinta nel manifatturiero). Ma i comportamenti pubblici e lo stesso dibattito economico non sembrano partecipi di questa specifica realtà. Anche se il dato è secondario, non è certo un caso che sia scomparso il ministero del Turismo e Spettacolo e che nelle Regioni e nei Comuni l’assessorato preposto al settore figuri tra quelli meno ambiti nelle spartizioni di giunta.

Il prossimo Quaderno di approfondimenti statistici della Fondazione Edison diretto dall’economista Marco Fortis, è appunto dedicato all’argomento e ci ricorda come nel 1970 il nostro fosse il primo paese al mondo per arrivi turistici internazionali, al vertice della graduatoria dove seguivano Francia, Spagna, Canada e Stati Uniti. Certo, operavamo in un mondo più piccolo, diviso dal muro di Berlino e l’Italia era la "spiaggia" d’Europa. Dopo è seguito il declino e nell’arco di 25 anni siamo scesi al quarto posto, dopo Francia, Spagna, Stati Uniti. Dal 2006 siamo stati superati anche dalla Cina, un paese che ci aspettavamo ci sopravanzasse in tanti settori ma non nell’appeal turistico.

Eppure registriamo ancora grandi possibilità di rilancio. Il flusso dei turisti stranieri negli ultimi anni è raddoppiato, da 22 a 41 milioni di presenze. Le entrate turistiche hanno registrato nell’ultimo anno il record storico di 31,6 miliardi di euro, il patrimonio artistico e paesaggistico unico al mondo non può essere insidiato che da noi stessi. La Spagna con una politica turistica e infrastrutturale più dinamica e intelligente ci suggerisce i termini di una ripresa stabile e vincente. Occorre, però, capire che il turismo del XXI secolo non è l’offerta di un cameriere svogliato che biascica: «Bianco o rosso?».

Postilla

La critica dell'editorialista di Repubblica all'arretratezza culturale della nostra classe politica ed economica, incapace financo di una lettura aggiornata ed adeguata della realtà sociale ed imprenditoriale del paese è pienamente condivisibile.

Così come andrebbe ripreso l'assunto di Francesco Compagna che prefigurava come occasione di riscatto e ripresa per il Mezzogiorno, uno sviluppo mirato sulle vere eccellenze di quell'area: il patrimonio culturale e il paesaggio e quindi, per conseguenza, un uso del territorio radicalmente diverso da quello attuato nel secondo dopoguerra.

E allo stesso modo il richiamo ad un più strutturato e sistemico intervento nel settore turistico appare più che giustificato: a patto di non reiterare ancora una volta le solite classifiche sui primati perduti e sulle posizioni in classifica da recuperare.

Come tante volte ribadito anche su eddyburg, il turismo non è un'industria light, ma implica un'impronta ecologica pesantissima, e spesso è causa prima di degrado urbanistico ed ambientale, così come dimostrano invariabilmente tutti gli esempi "positivi" portati da Pirani dei centri storici di Roma, Firenze e Venezia, della costa adriatica, della montagna: è, insomma, una risorsa da "maneggiare con cura", senza preconcetti puristi che possono sfociare in un elitarismo non più ammissibile, ma anche senza il mito del record a tutti i costi.

Anche in questo caso la quantità mal si sposa con la qualità. Della nostra vita innanzi tutto. (m.p.g.)

Lo Stato della Città del Vaticano ha voluto ridefinire le proprie regole sulle fonti del diritto, dunque sulle norme che costituiscono il suo ordinamento giuridico, e la relativa legge è entrata in vigore all´inizio di quest’anno. L’operazione è di grande importanza, come sempre accade quando uno Stato sovrano stabilisce il perimetro della legalità, e anche perché si tratta di una materia particolarmente rilevante dal punto di vista politico e culturale (al tema delle fonti ha recentemente dedicato una riunione l’Associazione italiana dei costituzionalisti). Ma la mossa vaticana ha suscitato attenzione e polemiche perché contiene una rilevantissima novità nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra la legislazione della Repubblica Italiana e quella della Città del Vaticano. Fino a ieri questi rapporti erano fondati sul principio della recezione automatica, che portava con sé l’applicabilità delle norme italiane nell’ordinamento vaticano, recezione «solo eccezionalmente rifiutata per motivi di radicale incompatibilità con leggi fondamentali dell’ordinamento canonico», com’è accaduto per leggi come quelle sul divorzio e l’aborto. Ora, invece, «si introduce la necessità di un previo recepimento da parte della competente autorità vaticana», come sottolinea esplicitamente sull’Osservatore Romano il presidente della Commissione che ha preparato la nuova legge, José Maria Serrano Ruiz. Non più automatismi, dunque, ma un filtro, una valutazione preliminare della compatibilità con l’ordinamento canonico di ogni singola legge italiana.

Questa è una innovazione che non può essere adeguatamente valutata ricorrendo al tradizionale criterio dell´"indebita ingerenza vaticana" o guardando solo alla spicciola attualità politica, e quindi interpretandola solo come una reazione a qualche specifica vicenda italiana, come un avviso a questo o a quel partito. Siamo di fronte ad una strategia impegnativa, che si proietta al di là di questa o quella occasione, e che va compresa e valutata proprio in questo suo orizzonte più largo.

Non risultano convincenti, quindi, i tentativi di ridurre la portata della nuova legge che qualcuno, anche da parte vaticana, ha voluto fare, dicendo che la novità è di poco conto, visto che già prima il filtro vaticano aveva operato nei casi di evidente incompatibilità tra principi della Chiesa e norme italiane. Si passa, infatti, da un regime eccezionale ad uno ordinario, da una valutazione selettiva ad una generalizzata. Prima poteva valere il silenzio, ora bisogna attendere la parola. Peraltro, questi tentativi riduzionisti sono contraddetti da quanto scrive lo stesso Serrano Ruiz, indicando con chiarezza l’obiettivo della legge: la Chiesa non può «rinunciare al suo ruolo di testimonianza unica nel concerto del diritto comparato e nella riflessione sul fenomeno giuridico universale».

Non solo l’Italia, dunque. L’ambizione è planetaria: fare dei principi della Chiesa l’unico criterio di legittimazione di qualsiasi norma, di qualsiasi forma di regolazione giuridica, in ogni luogo del mondo. Un orientamento, questo, che già era ben visibile nelle ripetute prese di posizione dello stesso Pontefice aspramente critiche nei confronti delle Nazioni Unite e di molti documenti giuridici da queste approvati o promossi.

All’Italia, però, sono riservate una attenzione ed una motivazione particolari, anche perché solo per le sue leggi valeva fino a ieri il criterio della recezione automatica. Tre sono le ragioni esplicitamente indicate per giustificare il rovesciamento di quella impostazione: «il numero davvero esorbitante delle leggi italiane»; «l’instabilità della legislazione civile»; «un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Quest’ultimo è l’argomento che, giustamente, ha più colpito e ha suscitato le maggiori polemiche, ma pure gli altri due meritano qualche riflessione.

Si è detto che il riferimento all’inflazione legislativa è pretestuoso, visto che questa esiste ed è ben nota da molti anni. Perché accorgersene oggi, ha protestato il ministro Calderoli, proprio nel momento in cui è stata imboccata la via della semplificazione cancellando 36.100 leggi? Si potrebbe osservare che all’eccesso di legislazione non si risponde soltanto con qualche potatura, ricordando ad esempio la ben diversa esperienza francese in materia. E, d’altra parte, la riforma vaticana prende il posto di una legge del 1929, sì che doveva tener conto di quanto è accaduto tra allora e oggi.

Più significativo, e insidioso, è il secondo argomento. L’instabilità della legislazione civile è giudicata «poco compatibile con l´auspicabile ideale tomista di una lex rationis ordinatio, che, come tutte le operazioni dell’intelletto, cerca di per sé l’immutabilità dei concetti e dei valori». Questa radicale affermazione arriva in un tempo in cui il sistema delle fonti, sotto tutti i cieli, conosce un mutamento profondo, proprio per poter dare risposte adeguate ad una realtà incessantemente mutevole, non solo sotto la spinta delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma di profonde trasformazioni sociali e culturali. Si scambia per instabilità la necessaria flessibilità delle regole, la capacità di assumere il nuovo e di incorporare il futuro, che implica anche la necessità di sottoporre a critica concetti e categorie del passato, anche per far sì che valori ritenuti fondamentali, affidati soltanto ad una logica conservatrice, non vengano travolti.

L’argomento dell’instabilità si congiunge così con quello del contrasto con «principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Nel modo in cui è formulata quest’ultima critica si coglie una esplicita polemica con la più recente legislazione italiana, visto che si afferma che questo contrasto si sarebbe già verificato «con troppa frequenza». Ma a quale legislazione si allude, poiché proprio le norme più recenti sono piuttosto fitte di compiacenze, per non dire di cedimenti, verso le richieste o le pretese vaticane? Qui siamo in presenza di un ammonimento, e non di una constatazione; di un perentorio invito a non fare più che ad una critica del già fatto.

Un alt così netto alla libertà di determinazione del Parlamento italiano non era stato mai pronunciato, neppure in quegli Anni 70 quando v’erano più fondati motivi di risentimento, non solo per le leggi su divorzio e aborto, ma pure per la riforma del diritto di famiglia, invisa a molti ambienti cattolici perché finalmente realizzava la parità voluta dalla Costituzione tra i coniugi e tra i figli nati dentro o fuori del matrimonio. Si ripeterà, com’è ormai d’uso, che le parole della Chiesa sono legittime. Ma è legittimo, anzi è doveroso, valutarne gli effetti. Si fa così tutte le volte che non si vuole sottostare ad un diktat.

L’annuncio è chiaro. Il mondo è grande, ma l’Italia è vicina. La sua legislazione, da oggi in poi, sarà sottoposta ad un continuo "monitoraggio etico", accompagnato da una sanzione: non entrerà a far parte dell’ordinamento canonico tutte le volte che il legislatore italiano sarà colto in flagrante peccato di violazione dei «principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Formalmente tutto può essere ritenuto in regola: uno Stato sovrano deve poter sottrarsi alle logiche altrui. Ma quali possono essere le conseguenze politiche e culturali di questo atteggiamento?

La politica italiana è debole, stremata. Qui la nuova linea vaticana può entrare in maniera devastante, aprendo conflitti di lealtà per i cattolici, stretti tra il loro dovere di legislatori civili e l’annuncio preventivo che leggi ragionevoli e miti, poniamo quelle sul testamento biologico o sulle unioni di fatto, non supereranno il test di compatibilità introdotto dalla nuova normativa vaticana. Per poter reagire dignitosamente, come si conviene ai parlamentari di un paese non confessionale, servirebbe un senso dello Stato che sembra perduto, qui dovrebbe fare le sue prove una laicità che non può ritenersi consegnata al passato. Servirebbe soprattutto la consapevolezza, smarrita, che l’unico filtro ammissibile è quello della conformità alla Costituzione, vero "principio non rinunciabile" in democrazia.

Ma il conflitto di lealtà può andare oltre le mura del Parlamento, devastare una società già divisa, dove già si manifestano impietose obiezioni di coscienza, dove davvero "pietà l’è morta" pure di fronte a casi, come quello di Eluana Englaro, che esigerebbero rispetto e silenzio. E che esigono rispetto perché espressivi di un quadro di diritti che si vuole radicalmente revocare in dubbio. Di questo dobbiamo discutere. Dell’autonomia e della laicità dello Stato, del destino delle libertà.

Nel pantano dell’urbanistica fiorentina l’avvocato Lucibello, difensore del sindaco Domenici, ha dichiarato: «La Procura sta confondendo le contrattazioni giornaliere tipiche dell’urbanistica contrattata, come atti di corruzione che invece non ci sono». Il problema è infatti l’urbanistica contrattata, cui l’avvocato aggiunge un’aggettivo terribile: «quotidiana».

Ricapitoliamo, sulla base delle intercettazionipubblicate, come funziona l’urbanistica contrattata. Il sindaco della città viene invitato a pranzo dal potente di turno che espone le sue esigenze e propone una speculazione immobiliare in aperta violazione dei piani regolatori.

Ilsindaco si mette subito in moto e allerta i suoi fedelissimi, mentre l’altro prende contatti con la proprietà immobiliare. E’ auspicabile che queste due ultime figure appartengano ai due differenti schieramenti nazionali. Così, se Della Valle è collocabile nel fronte progressista, il fatto che la proprietà dei terreni sia di un berlusconiano come Ligresti cade a pennello. Un altro piacevole pranzo a tre e il gioco è fatto.

Così al posto di un parco vedremo uno stadio di calcio, più ipermercato, più fitness e tanto altro, firmato da una delle numerose archistar disponibili. Facilissimo.Volete mettere la fatica che avrebbe fatto il povero sindaco a convincere l’inflessibile moralità di Ornella De Zordo, che al consiglio comunale queste denunce le ha ripetute un’infinità di volte? O i testardi cittadini che si erano perfino arrampicati sugli alberi per non farli tagliare per lo sventurato progetto della tramvia? O i tanti comitati che in questi anni hanno cercato di difendere i beni comuni? Finalmente la modernità: il futuro delle città si decide nel ristorante. Ha ragione l’avvocato Lucibello, non c’è alcuna corruzione: c’è l’accordo di programma a risolvere i nodi in un baleno. Certo, qualche mancia non richiesta arriva, come quella ad esempio che Ligresti ha dato per finanziare l’opuscolo anti-lavavetri del prode assessore Cioni, ma mica è un reato. E’ un’opera di misericordia, perché - così si sono giustificati! - ha fatto risparmiare all’amministrazione comunale qualche soldo.

Gli amministratori- che pure hanno militato nella sinistra – non pensano che quei soldi potevano arrivare nelle casse dei comuni con procedura limpida: con una legge moderna sul regime dei suoli. Siamo l’unico paese dell’Europa occidentale a esserne privo e la sinistra parlamentare non se ne accorge. E’ forse per questo che il Domenici, presidente dell’Anci, si è ben guardato dal fare una battaglia di principio per avere una legge di riforma sul regime dei suoli, o anche per scongiurare la famigerata legge Lupi, la (cosiddetta) riforma dell’urbanistica di Forza Italia che rischia di essere approvata tra breve.

Quella legge abroga infatti gli standard urbanistici, e cioè le quantità minime di aree da destinare a servizi che fu approvata negli anni ’60. E’ l’ultimo tassello che ancora manca. I cittadini di Firenze avrebbero infatti potuto invocarla per scongiurare la costruzione dello stadio e di quant’altro. I parlamentari di opposizione ancora non conquistati dal mito del «mercato» dovrebbero farne una battaglia esemplare. E anzi dovrebbero avere l’ambizione di proporre una legge di riforma del regime degli immobili che faccia tornare alla collettività le gigantesche plusvalenze che gli speculatori ottengono senza il minimo lavoro. Così uscirebbe un nuovo progetto sulle città per ristabilire il primato delle regole e la prevalenza degli interessi della collettività.

C’è una domanda cui bisogna rispondere. Sembra una domanda facile, e il guaio è là. Che il numero dei morti palestinesi per l’offensiva israeliana a Gaza sia così alto, e cresca ancora, è un segno di vittoria di Israele, o di sconfitta, o di che cosa? E una sottodomanda, in apparenza ancora più facile: che i morti palestinesi siano tantissimi, e quelli israeliani pochissimi, è una vittoria o una sconfitta di Israele? Leggo che il generale Yoav Galant, comandante della regione sud, ha dato la sua risposta secca ad ambedue le domande, illustrando il proposito dell’offensiva: "Ributtare indietro di decenni la striscia di Gaza in termini di capacità militare, facendo il massimo di vittime presso il nemico e il minimo fra le forze armate israeliane". Il massimo dei loro, il minimo dei nostri. Noi, i generali, le donne e i bambini, e loro, i bambini, le donne e gli sceicchi. Ah, come sono difficili le domande facili!

Si tratta del capriccio con cui il libero mercato fissa il pregio delle diverse vite umane. Avete visto a che ritmo vertiginoso è cresciuto da noi l’impiego del termine: Bioetica. L’impiego, e gli impiegati. La bioetica ha a che fare coi progressi spettacolosi della medicina, della biologia, dell’ingegneria genetica, gli inseguimenti trafelati della filosofia e del diritto, e le supervisioni delle chiese. Una sua esemplare dichiarazione è che "la vita umana è sacra e va difesa dal concepimento alla morte". La cito non per ridiscuterla qui, ma per osservare che la nostra fresca sensibilità bioetica si concede il lusso di concentrarsi sui due poli, il concepimento, o almeno la nascita, e la morte, il capo e la coda, riservando un’attenzione minore a quello che sta fra l’inizio e la fine, cioè alla vita nella sua durata, che poi è la vita.

Così, benché le innovazioni che la scienza introduce e la filosofia insegue col fiato corto e la religione rilega in pergamena, valgano per tutte le disgrazie che investono l’intermezzo fra nascita e morte - la fame, le malattie, le guerre - ce ne commuoviamo meno. La nostra guerra (di religione) sulla trovata secondo cui la vita è così sacra da essere "indisponibile" alla stessa singola persona vivente sta ai luoghi in cui la vita viene mietuta all´ingrosso, come i nostri botti di Capodanno, adorati da tutti tranne i cani i bambini e chi ha conosciuto una sola notte di guerra, stanno ai bombardamenti su Gaza. Così vicino, oltretutto - due sponde dirimpettaie- che si potevano sentire reciprocamente, e raddoppiare l’allegria degli uni e lo spavento degli altri.

Io resto affezionato a Israele come a quella che potrebbe essere, "per un pelo", la miglior madrepatria di un cittadino della terra di oggi, così come lo sarebbe stata l’Atene del V secolo - per un pelo, la questione degli schiavi. Siccome voglio così bene a Israele, e ne taccio da un bel po’ di tempo, dirò come si è andato incupendo il mio stato d’animo settimana per settimana. Ogni settimana, la rivista "Internazionale" pubblica una rubrichetta di poche righe, intitolata "Israeliani e palestinesi", che aggiorna il numero dei morti dell’una e dell’altra parte a partire dalla seconda Intifada, cioè dal settembre del 2000.

Piano piano, ma inesorabilmente, la sproporzione è cresciuta, e se i morti israeliani erano sempre stati meno numerosi, a un certo punto arrivarono a essere solo la metà di quelli palestinesi, e già questo provocava un turbamento complicato; poi il divario ha continuato ad accrescersi, finché all’inizio di dicembre, ben prima dell’attacco a Gaza che fa impennare le cifre, il totale dei morti palestinesi superava di più di cinque volte quello dei morti israeliani (5.301 a 1.082). Complicato, il turbamento: perché si è involontariamente indotti, come di fronte a ogni sproporzione eccessiva, a desiderare che la forbice si riduca, ciò che può avvenire riducendo le morti degli uni o moltiplicando quelle degli altri...

Descrivo qualcosa che assomiglia più a un riflesso condizionato che a un pensiero. Del resto il mondo, benché secondo molti e benevoli suoi passeggeri continui a progredire, è platealmente pieno di smisuratezze, a cominciare dalla differenza fra ricchi e poveri, e fra vite medie che si allungano spettacolosamente e vite medie dimezzate.

La popolazione ottuagenaria e passa dell´Europa potrebbe protestare di non avere colpa nella popolazione sì e no quarantenne dello Zimbabwe: ma non sarebbe del tutto vero. E non è vero, certo non del tutto, che gli israeliani non c’entrino con la mortalità di guerra cinque volte superiore dei loro vicini. La sproporzione si riproduce e si moltiplica in una quantità di circostanze. Negli scambi di prigionieri, che Israele rilascia a centinaia in cambio di uno o due propri, o anche di due salme, com’è appena successo con gli hezbollah libanesi. Israele ha pressappoco undicimila prigionieri palestinesi, la Palestina, cioè Hamas, uno solo, il povero Gilad Shalit.

Negli ultimi otto anni, se non sbaglio, dalla striscia di Gaza sono stati lanciati sulle città del sud di Israele migliaia di razzi sempre più micidiali (l’ultimo ha colpito una scuola per fortuna evacuata di Beersheva, aveva dunque una gittata di 40 km) facendo in tutto 18 morti. L’offensiva aerea su Gaza ne ha fatti oltre 400 in pochi giorni, contro 4 dalla parte israeliana: in ragione di più di 100 a uno. E’ vero che il conto dei morti non dice tutto. Ad Ashkelon, Sderot, Ashdod, Gan Yavne, è un decimo della popolazione di Israele a vivere sotto la minaccia quotidiana dei missili. Tuttavia quel complicato turbamento resta, e anzi si fa sempre più pungente. Dunque, la domanda: più morti palestinesi facciamo, più vinciamo? E la sottodomanda: più forte è la differenza fra "il massimo dei morti loro" e "il minimo dei morti nostri", più vinciamo?

C’è un argomento forte in favore di Israele. Israele fa tesoro della vita dei suoi figli. Guarda con orrore il fanatismo islamista che addestra i figli al suicidio assassino, e si inebria del loro "martirio". E’ appena successo un episodio esemplare e agghiacciante. Nizar Rayan, sceicco invasato, già mandante di un figlio kamikaze e reclutatore per amore o per forza di scudi umani, nemico feroce di Israele come di Fatah, bersaglio prelibato della caccia israeliana, si trovava in un edificio al quale è arrivata la telefonata di avvertimento dello Shin Bet: sarebbe stato bombardato di lì a poco. Rayan "non è scappato", dicono i suoi. Ha voluto morire da martire, e si è tenuto stretti qualcuno dei dodici figli, qualcuna delle quattro mogli: proprietà sue, vite consacrate non alla vita, ma alla morte. Ma gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un’elezione.

Tanto meno i bambini, e le sorelle e i fratelli ammazzati insieme dalle incursioni, com’è inevitabile in uno zoo così fitto di umani e così prolifico. Ci sono madri che non trionfano per la morte da shahid delle loro creature, e invece rinfacciano al cielo e alla terra la doppia misura. La madre delle cinque sorelline di Jabaliya ammazzate: "Se venisse ucciso anche un solo bambino israeliano, il mondo intero si indignerebbe... Ma il sangue dei nostri bambini non conta niente per il mondo". Non importa nemmeno da che parte sia venuta la strage, come per le due sorelline di Beit Lahya, ammazzate dal razzo kassam di Hamas, "per errore". Dice quel padre: "Non s’è scusato nessuno. Siamo poveri".

La bioetica, dunque. Se davvero un’azione militare mirasse al "massimo di vittime nel nemico", l’ideale sarebbe lo sterminio. Se la confermasse, il generale che ha pronunciato una frase del genere andrebbe messo ai ferri. Ma resterebbero sempre gli altri. Quelli - quasi tutti, fra le autorità, e a gara di sondaggi e di voti- che dicono amaramente: "E’ la guerra. La guerra esige le vittime civili. Noi facciamo di tutto per ridurne il numero". Non è un buon argomento, non più. Non è "la guerra". E’ qualcosa di più, per il soffocante odio di vicinato, e di meno, per la sproporzione delle forze. Di quella sproporzione (provvisoria, peraltro, con l’Iran che incombe) Israele non dovrebbe avvalersi per proclamare preziose le vite dei bambini palestinesi come quelle dei proprii, e agire di conseguenza? Utopia? Certo, bravi, continuiamo così. Se l’utopia troverà mai un luogo, sarà in quel pezzetto di terra in cui il Dio di tutti gli eserciti ha deciso da sempre (dalla strage degli innocenti, che nessun angelo avvertì, sospira Massimo Toschi) di togliere il senno alle sue creature. Continuiamo così. Il sangue dei martiri è il seme della cristianità ? diceva Tertulliano. Il sangue dei martiri, anche di quelli equivoci e abusivi, è seme di qualunque pianta. Si vuole cancellare Hamas? Sarebbe bello.

Ma i bambini e i ragazzi di Gaza che sopravviveranno ai bombardamenti aerei (l’esperienza più paurosa) non avranno un futuro ragionevole e gandhiano. L’ammasso di profughi e figli e nipoti di profughi che è Gaza ha un’età media, ho letto, di 17 anni. Quanto al resto del mondo, dei razzi su Ashkelon ha sentito sì e no parlare. Ma le immagini di questi giorni le ha viste. Israele sembra aver smesso da tempo di badare all’opinione del mondo. E’ vero che il mondo, quando gli ebrei erano al macello, applaudì o guardò dall’altra parte. Appunto. Tzipi Livni si è industriata di spiegare al mondo le sue buone ragioni, poi è bastata una frase ?"A Gaza non c’è una crisi umanitaria"- per cancellarne ogni effetto.

Mi dispiace delle parole rassegnate di Yehoshua: "Non avevamo altra scelta". Non è possibile che Israele, cioè gli israeliani, pensino e sentano di "non avere altra scelta" ? dunque di non avere scelta. Ce l’hanno, sanno anche qual è: tutti, o quasi. Sanno qual è, e vanno da un’altra parte. In cielo e, tanto peggio, in terra. Nel giorno della strage nella moschea - ci sarà la battaglia di propagande sul fatto che fosse un deposito di armi, o un deposito di umani, o le due cose insieme, ma non cambia – l’ingresso dei soldati israeliani fa temere che tutta la macabra contabilità della morte stia per impazzire. Soldati bravi, ben equipaggiati e risoluti ad andare avanti si troveranno di fronte, oltre a nemici votati alla morte, una gente disperata ed esasperata, in cui i bambini sono la maggioranza. I carri armati dovranno decidere che cosa fare quando si troveranno davanti una folla di bambini. Poi, comunque vada, dovranno chiedersi ancora una volta come tornare indietro.

Dalle inchieste e dagli scandali comunali, veri o presunti, emergono almeno un paio di dati difficilmente contestabili: il poco o nullo controllo “dal basso” su delibere di giunta invece di grande peso economico; la debolezza, anzitutto culturale, quasi di “status, del ceto politico rispetto a quello imprenditoriale. Affiora una sorta di identificazione antropologica, di compenetrazione dei ruoli. Con l’interesse pubblico assai indebolito rispetto agli interessi privati. Berlusconi fa scuola: certi grandi immobiliaristi o imprenditori dei servizi diventano essi “una risorsa” per la città. Non il contrario.

Un lettore di questo giornale ha scritto che tutto il male è cominciato con la legge per la elezione diretta di sindaci e presidenti, con la nomina da parte loro degli assessori (in realtà più che mai spartiti fra le correnti politiche), e col conseguente svuotamento di poteri delle assemblee elettive. Sarà stato anche troppo drastico e però ha posto un problema serio. L’elezione diretta dei sindaci ha certamente assicurato stabilità, ma ha sottratto al vaglio pubblico del dibattito consigliare decisioni di grande portata. Ieri i consigli comunali contavano fin troppo. Oggi contano ben poco, sono casse di risonanza delle giunte. Ho fatto per cinque anni, fra ’90 e ’95, il consigliere comunale in una città piccola e però carica di patrimonio storico e di problemi, ed ho sperimentato quanto potere avessimo, allora, noi consiglieri. Per lo meno di provocare accese discussioni pubbliche che potevano durare anche giorni, con un pubblico folto a partecipare.

Con la nuova legge si è passati all’estremo opposto: da un assemblearismo forse eccessivo allo svuotamento delle assemblee che sono chiamate a ratificare (come le Camere coi decreti legge). Da qui una maggiore opacità delle decisioni più importanti e un non meno evidente stato di frustrazione dei consigli e dello stesso pubblico, ormai rado. Ne scrisse molto bene Gianfranco Pasquino, sul “Sole 24 Ore”, perché non tornarci su? L’elettore di sinistra è “sconvolto e sopreso” (Yards Byrds, dazed and confused), non vede aprire dibattiti, neppure in caso di batoste elettorali come quella, sempre più dolorosa, di Roma. In un altro Paese i responsabili sarebbero andati a casa, in modo automatico e tranquillo. Qui non c’è stata nemmeno una analisi che aiutasse a capire, a correggere, e quindi a reimpostare una prospettiva con iscritti e simpatizzanti. I quali, così, scelgono una silenziosa astensione. Fra l’altro per le elezioni politiche generali è stata loro tolta pure la piccola arma della preferenza: tutto è già preconfezionato. E questa è democrazia?

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