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Opposizione debole - Potere senza confini - Carey, il managing editor di The Nation: il potere totalizzante di Berlusconi da noi sarebbe impossibile - Obama "ignora" perché non ha dialogo con la vostra opposizione, che è debole e non minaccia la tenuta del premier - Il sistema politico italiano è in crisi: c’è un signore che ha raccolto nelle sue mani un potere senza confini, usato per fini privati

NEW YORK - Svegliati, America. La corruzione? Le escort? «E pensare che basterebbe far parlare i fatti. Nessuna crociata: basterebbe che l’America sapesse. Basterebbe che i giornali americani dessero regolarmente notizia di tutte le accuse che gli vengono mosse e state sicuri che il Congresso e il Presidente esiterebbero a mostrarsi vicini a Berlusconi. Anzi». Anzi? «Quell’amicizia sbandierata in Italia, che l’America oggi ignora, imbarazzerebbe il Congresso. Imbarazzerebbe il Presidente. Qualcuno comincerebbe a porsi delle domande. E sarebbero bei problemi».

Roane Carey ne è convinto. «Questa storia è imbarazzante e disturbing, preoccupante, anche per noi americani». Carey è il managing editor di The Nation, il magazine di Katrina Vanden Heuvel che conta tra i suoi collaboratori Naomi Klein, Toni Morrison e Michael Moore, e che a questa "storia imbarazzante" ha dedicato, tra i primi negli Usa, inchieste e reportage. La scorsa settimana una corrispondenza di Frederika Randall sui "pillow talk" del premier (come gli anglosassoni definiscono le conversazioni intime di due partner sessuali) ha riacceso l’attenzione americana sul caso.

L’America si è dunque svegliata? Il caso Berlusconi è in prima pagina da Londra a Berlino. La vicenda-escort imbarazza l’opinone pubblica di mezzo mondo. E qui? Per Silvio ieri c’era l’amico Bush e oggi l’amico Obama.

«Distinguiamo. Chiaro che l’Italia è un alleato importante soprattutto per il supporto in Iraq e in Afghanistan. Finché non è un problema, Berlusconi è un alleato. Ma da qui a dire che è un amico...».

Raccontata da Roma è così: anche dopo il G8 il film è quello. Possibile che Obama non sappia?

«Ma non scherziamo. Obama sa: briefing giornalieri, consiglieri che lo informano. Obama sa. Ma può permettersi di ignorare per due motivi. Il primo: la pressione dell’opinione pubblica. Non c’è. L’America è distratta. La recessione si mangia tutto. Quel poco di esteri di cui si parla è sempre quello: l’Iraq, l’Iran. Per voi europei è diverso: un francese, un inglese, un tedesco sono interessati a quel che si coltiva nell’orto del vicino: potrebbe attecchire anche da lui».

E il secondo motivo?

«La mancanza di pressione e dialogo con la vostra opposizione. Non avete una sinistra forte e anche questo l’amministrazione Usa lo sa. Per Berlusconi nessuna minaccia politica vera. E per Obama, che pure è un presidente progressista, è un problema. Ma la vera questione resta la prima: la pressione dell’opinione pubblica e della stampa Usa».

Perché ne è così convinto?

«Il sistema politico italiano è in crisi. Attacchi alla libera stampa come succede solo in Iran e Nord Corea. Questa si chiama democrazia a rischio. Succede in Italia, Europa, Occidente. E non è una storia da raccontare?».

Insomma Berlusconi è un problema della democrazia e come tale non è solo una storia italiana: riguarda tutti.

«Ho provato a cercare un Berlusconi qui da noi. Non c’è. Michael Bloomberg? Sì, un imprenditore che si butta in politica. Un imprenditore dei media, pure. Ma seppure a New York siamo sempre a livello locale. E poi i casi non sono comparabili. In Italia c’è un signore che ha raccolto nelle sue mani il potere economico e il potere politico. Un potere senza confini, totalizzante. Lo usa per attaccare la stampa, per coprire le sue vicende private. No, qui sarebbe inconcepibile. Ripeto: nessuna crociata. Ma come può l’America continuare a tollerarlo lì da voi?».

L'incontro di questi giorni a Milano tra il Presidente Napolitano e i familiari delle vittime di Piazza Fontana è stato un momento simbolico, ma nel 40° anniversario della strage non possono bastare le commemorazioni. La strage di Piazza Fontana è imprescrittibile non solo sul piano giudiziario ma anche sul piano storico-culturale, perché è un evento che ha condizionato la storia del nostro Paese ed ora è possibile far avanzare i confini della verità ed arretrare quelli del «mistero» che in realtà già in buona parte non è tale. Dopo il processo di Catanzaro, giunto comunque alle soglie della verità, le indagini condotte a Milano negli anni '90 dall'Ufficio Istruzione hanno fatto fare un salto di qualità.

Si conosce molto della strategia e del meccanismo operativo dell'operazione che si è conclusa il 12 dicembre e anche se non sono state affermate responsabilità di singoli imputati, nelle stesse sentenze di assoluzione è scritto che non è ormai più dubbio che la paternità dell'ideazione e dell'esecuzione degli attentati risalga ai neofascisti veneti di Ordine Nuovo aiutati da ufficiali dei Servizi Segreti di allora.

Ma oggi è possibile andare oltre, nuovi spunti di indagine emergono dal lavoro di ricerca di Paolo Cucchiarelli che nel libro Il segreto di Piazza Fontana ha riportato tra l'altro la confessione quasi completa ricevuta da un neofascista romano e altri elementi nascono spontaneamente quasi per forza propria da nuovi testimoni che accettano di raccontare. È stata trovata grazie alla Procura di Brescia l'agenda del 1969 di Giovanni Ventura con le annotazioni che sembrano confermare post-mortem il racconto del pentito Carlo Digilio, ci sono le prime confessioni sugli attentati che hanno preceduto la strage come le due bombe alla Stazione Centrale di Milano dell'8/8/1969, sembra ormai chiaro quale esplosivo sia stato utilizzato.

E l'ex-capo del Sid, generale Maletti, da molti anni latitante in Sud-Africa, sembra disposto a riferire quanto sa pur di poter tornare, molto anziano com'è, in Italia. L'Ufficio Istruzione che, nell'isolamento e tra lo scetticismo aveva sviluppato le indagini negli anni '90 è un ufficio investigativo che da molti anni non esiste più.

C'è chi potrebbe raccogliere e completare oggi questo lavoro: gli uffici inquirenti milanesi che hanno dato con successo svolte ad indagini come quelle sull'omicidio Calabresi, sulle nuove Brigate Rosse, su Abu Omar. L'impegno e l'entusiasmo dimostrati in questi e in altri casi anche per Piazza Fontana possono portare a nuovi elementi di conoscenza di quanto avvenuto. Sarebbe un risarcimento per le vittime e la città che si è sentita tradita dalle istituzioni.

Le carte arrivate sembrano ancora in attesa ma la richiesta di riprendere le indagini presentata in luglio con decisione ed argomenti dal difensore dei familiari delle vittime, deve essere ascoltata.

Non farlo sarebbe una pagina negativa. Il nostro Palazzo di Giustizia, così vicino a Piazza Fontana, scriverebbe forse l'unica pagina bianca della sua storia giudiziaria, una storia di cui la città è stata sinora giustamente orgogliosa.

L’autore è il giudice di Milano che ha riaperto l'inchiesta su Piazza Fontana

Ieri è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d´eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.

Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l´intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del «partito dei giudici della sinistra» che avrebbe «scatenato la caccia» contro il premier.

Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa «forme e limiti» per l´esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere «profondo rammarico e preoccupazione» per il «violento attacco» del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L´avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.

Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all´opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.

Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell´avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell´ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: «Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?».

La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d´eccezione. Carl Schmitt diceva che «è sovrano chi decide nello stato d´eccezione», perché invece di essere garante dell´ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione («abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale»), rende l´istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l´unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.

Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d´eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l´assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l´autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.

Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l´ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l´eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell´attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l´unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell´interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell´esclusivo interesse del singolo. L´eccezione, appunto.

Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l´abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all´accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un´ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell´uomo più potente d´Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?

L´eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un´istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.

Per questo, com´è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d´eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell´Italia di oggi.

Al cuore dello stato

di Valentino Parlato

Siamo a una crisi istituzionale, dell'equilibrio tra i poteri costituzionali della Repubblica, come non ne ricordo. A questo punto mi viene da scrivere che siamo alla vigilia di un colpo di stato o al 25 luglio di Silvio Berlusconi (per i più giovani ricordo che il 25 luglio il Gran consiglio fascista liquidò Benito Mussolini). L'aggressività smodata del presidente del consiglio è sintomo della sua insicurezza e, quindi, della volontà di fare il colpo di stato, sferrare l'attacco finale. Vorrei ricordare che il 12 ottobre di quest'anno Il Giornale (la proprietà è nota) scriveva: «Se eleggessimo noi l'uomo al Quirinale?» L'annuncio della volontà di fare dell'Italia una repubblica presidenziale, non all'americana, ma piuttosto fascista.

Silvio Berlusconi ha scelto il congresso del Partito popolare europeo, a Bonn, per sferrare un attacco durissimo, e con la volgarità che si accoppia alla violenza, alla magistratura, alla Corte costituzionale e ai presidenti della Repubblica (gli ultimi tre, tutti di sinistra e tutti responsabili dei suoi guai). In sintesi l'attacco centrale è alla Costituzione che va violata, roba di un passato da rigettare. Mai un riferimento negativo al fascismo o, positivo, alla resistenza o anche alle potenze che sconfissero Hitler e Mussolini. Di conseguenza, il suo stato maggiore chiama a una grande manifestazione a Milano dei suoi sostenitori.

A Bonn non mi risulta che abbia avuto applausi, la Merkel si è tenuta al no comment. In Italia ci sono state le reazioni non solo di Di Pietro, ma anche di Fini che ha voluto ricordare a Berlusconi gli articoli 1, 134 e 136 della Costituzione che per Fini è ancora vigente. E, sempre Fini, si augura che «il premier trovi modo di precisare meglio il suo pensiero». Ma un Berlusconi che proclama, anche a Bonn, di «avere le palle» non rettifica. Sarebbe un suicidio. Anche il Quirinale (dove c'è il terzo presidente di sinistra) ha espresso «profondo rammarico e preoccupazione» per «il violento attacco» alla Costituzione. Bene, ma questo non mi sembra tempo di «rammarichi». Eloquente il silenzio (almeno fino a ieri sera) del presidente del Senato.

Ripeto, e temo di non sbagliare, siamo alla liquidazione della Costituzione e di tutti i poteri costituenti, compreso il Parlamento. Occorre produrre, d'urgenza una risposta proporzionata al pericolo. E, francamente Bersani, il segretario del maggiore partito di opposizione, non può limitarsi a dar ragione a Napolitano e dire che i popolari europei, sentendo Berlusconi si sono resi conto dei pericoli del populismo. Lui, Bersani e il suo partito, che fanno?

Oggi a Roma c'è una grande manifestazione sindacale, di lavoratori qualificati e importanti: pubblico impiego e istruzione: lo Stato e la cultura. Non possono fermarsi alle legittime e giuste rivendicazioni sindacali. Debbono andare oltre. In queste settimane è in gioco la democrazia, l'eguaglianza (almeno formale) tra i cittadini.

Tutti dobbiamo metterci in movimento: non possiamo attendere tranquilli la grande manifestazione di Milano per l'aspirante duce Silvio Berlusconi.

Rodotà: «Errore il dialogo Adesso va isolato»

intervista di Andrea Fabozzi

«Siamo al punto: dopo aver praticamente chiuso il parlamento, dopo aver ridotto il Consiglio dei ministri a un comitato di affari del presidente del Consiglio, ecco che Berlusconi annuncia la sospensione dei diritti costituzionali. Perché è questo il significato dell'attacco alle istituzioni di garanzia». Stefano Rodotà commenta con preoccupazione le parole di ieri di Silvio Berlusconi. E aggiunge: «Qualcuno mi aveva detto che ero stato eccessivo a scrivere che in Italia c'era il rischio dell'estinzione dello stato costituzionale di diritto ma è esattamente quello che sta succedendo. Nella cultura di Berlusconi non c'è la democrazia. È un padrone delle ferriere con l'attitudine a identificare l'interesse generale con il suo interesse personale».

L'interesse e la volontà generale, spiega Berlusconi, si è manifestato al momento del voto. Bisogna lasciarlo governare.

Il voto popolare non scioglie dall'osservanza dalle leggi. È un postulato elementare dello stato di diritto. Viceversa dobbiamo parlare di stato monarchico o assoluto che evidentemente è quello che ha in testa Berlusconi quando propone le riforme istituzionali. Dunque stiamo attenti. Per il cavaliere i poteri indipendenti non esistono. Sono automaticamente opposizione. Ossessivamente comunisti. E così la corte Costituzionale diventa un partito della sinistra ma Berlusconi neanche sa qual è la provenienza dei giudici costituzionali, se lo sapesse non parlerebbe così. Il discorso di ieri è chiarissimo: o si sta con chi ha vinto le elezioni ed è in testa nei sondaggi oppure si sta fuori. Ecco perché dice che è finita l'epoca della ipocrisia: è partito all'assalto delle istituzioni d garanzia.

Lei vede un salto di qualità in questi attacchi? Siamo al punto di non ritorno?

C'è un effetto reiterazione, questo è innegabile. Gli attacchi ci sono già stati, giusto un anno fa Berlusconi lanciò il suo affondo contro il capo dello stato a proposito del decreto per Eluana Englaro. Questa da una parte è la conferma di un atteggiamento consolidato ma dall'altra è il segnale gravissimo di una escalation che non si vuole in nessun modo arrestare. E così ieri, dopo aver detto mille volte che non si deve denigrare il nostro paese, in una sede istituzionale all'estero ha denigrato le massime istituzioni di garanzia del paese, il presidente della Repubblica e la Consulta.

Ma quest'ultimo affondo lo ha travestito da difesa del parlamento. Lì si fanno le leggi - ha detto - e i giudici della Consulta si mettono di traverso.

La risposta è molto semplice. Giudicare le leggi è il mestiere della corte Costituzionale. Se non lo facesse tradirebbe la sua missione. Diciamo pure che la Consulta si muove sempre con grandissima prudenza e se stanno crescendo le sue occasioni di intervento è perché c'è un'escalation nel mettere da parte la Costituzione. Non è la Corte che va sopra le righe ma il parlamento che sta uscendo dal circuito costituzionale corretto.

Di fronte a una situazione del genere la Costituzione prevede qualche rimedio o garanzia?

No, non ce ne sono perché la Costituzione è stata scritta da persone che avevano la democrazia nel sangue. Mentre adesso assistiamo a un'estraneità totale alla dimensione costituzionale. Se Berlusconi avesse il minimo senso della legalità costituzionale non direbbe queste cose.

E dunque che fare?

In questo momento tutti coloro che hanno un qualsiasi ruolo all'interno delle istituzioni devono prendere una posizione esplicita e pubblica per misurare la distanza tra chi ritiene che le istituzioni siano questo e chi ancora crede che le istituzioni siano il cuore della democrazia. E soprattutto, lo dico senza mezzi termini, con Berlusconi che segue questa linea devastante di politica istituzionale non si può avere nessun dialogo. Serve un cordone sanitario, fino a oggi l'atteggiamento del cavaliere e dei suoi pasdaran è stato troppo sottovalutato. Pensi alla discussione che si fa ogni volta che viene presentata una nuova legge, è davvero un fatto inedito. La prima preoccupazione è: «Napolitano la firmerà?». E la seconda: «Supererà l'ostacolo della Consulta?». Non c'è prova migliore di quanto il riferimento alla Costituzione sia ormai fuori dalla logica parlamentare. La maggioranza è un gruppo politico che come il capo Berlusconi ha da tempo deciso di vivere ai margini della legalità costituzionale. Non parlo di un rischio, parlo di quello che è già avvenuto.

Come se non bastassero tutti i lutti e i disastri: l’Italia è un paese dalla memoria corta e così malgrado le frane e le alluvioni, nel79% dei Comuni che hanno partecipato all’indagine di Legambiente e Protezione civile, «Ecosistema rischio 2009», c’è ancora chi vive in aeree a forte rischio idrogeologico. Nel 28%dei casi, poi ci sono interi quartieri mentre nel 54% fabbriche e industrie. In alcune zone, concentrate nel 20% dei comuni, ci addirittura strutture ricettive turistiche o «sensibili». Stiamo parlando di 5.581 comuni che ballano sull’incognita «tenuta» di fronte a piogge forti, di questi 1700 sono a rischio frana, 1.285 a rischio alluvione e 2.596 che le rischiano entrambe. «Il nostro territorio è reso ancora più fragile dall’abusivismo, dal disboscamento dei versanti e dall’urbanizzazione irrazionale - si legge nell’indagine di Legambiente e Protezione Civile -. Sono la Calabria, l’Umbria e la Valle D’Aosta le regioni con la più alta percentuale di comuni classificati a rischio (il 100%), subito seguite dalle Marche (99%) e dalla Toscana (98%)».

ITALIA INDIETRO TUTTA

Ad oggi soltanto il7%delle amministrazioni comunali ha delocalizzato le abitazioni dai luoghi a rischio, mentre soltanto nel 3% dei casi si è provveduto a spostare aziende e fabbriche. Quindici comuni su cento non si sono dotati di piani urbanistici che mettano paletti all’edificazione, a riprova del fatto che in una situazione così drammatica e in presenza di forti ritardi nel prevenire i disastri, l’impatto dei condoni edilizi emanati dai vari governi Berlusconi, sia stato devastante. «Le frane che hanno colpito inmaniera drammatica Ischia e Messina - dice Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente - sono l’ultima tragica testimonianza di quanto sia urgente invertire la tendenza nella gestione del territorio. La continua e intensa urbanizzazione lungo i corsi d’acqua e in prossimità di versanti fragili e instabili, fa si che il nostro Paese sia fortemente esposto ai rischi del dissesto idrogeologico». Desolante anche lo stato di manutenzione ordinaria dei corsi d’acqua. il 36% dei Comuni non se ne preoccupa. A questo si sommano intubazioni lungo torrenti e fiumare, discariche abusive e costruzioni negli alvei, «È necessario iniziare ad abbattere le costruzioni abusive e puntare decisamente sulla delocalizzazione delle strutture a rischio», ha sottolineato Cogliati Dezza. In questo senso il Piano casa approvato dal governo di certo non aiuta, «in molti casi peggiora la situazione accrescendo i rischi, perché può consentire nuove deroghe senza alcun rispetto per le regole della prevenzione del rischio idrogeologico».

VIRUS E CONDONI

L'abusivismo per Guido Bertolaso, capo della protezione civile. è «il virus che ha interessato il nostro Paese » e va bloccato. Come funziona è chiaro: «Oggi è una capanna, tra sei mesi un insediamento più permanente, tra 12mesi ci saranno i mattoni, tra 36 mesi sarà condonato, e dopo 10 anni ci ritroviamo con quello che è successo a Giampilieri». Ma, aggiunge, «alla natura non gliene frega niente della sanatoria. Se non si imposta una cultura della prevenzione potremmo anche stanziare grandi somme di denaro ma non otterremmo alcun risultato». Cita i due fiumi, il Tevere e l’Aniene, dove «ci sono circoli sportivi frequentati da politici, magistrati, e alti funzionari che non sembrano accorgersi di niente». Resta da chiedersi se le stesse osservazioni il sottosegretario Bertolaso le abbia fatte anche a Berlusconi, di fronte a condoni e Piano casa. L’unica buona notizia è che l’82% dei comuni possiede un piano di emergenza da mettere in atto in caso di frana e alluvione che nel 54% dei casi è stato aggiornato negli ultimi due anni.

Le città perdono forma. E diventa più difficile distinguerle dalla non-città. Al tempo stesso si costruisce a ritmi che, così vorticosi, in Italia non si vedevano dal dopoguerra. I due fenomeni sono connessi. Ma il problema è: come si comportano di fronte a queste vicende gli urbanisti, coloro i quali, per statuto culturale, sono addetti a capire quel che sta accadendo e semmai sarebbero tenuti anche a intervenire perché le trasformazioni non siano proprio tremende?

La parola crisi è la più frequente che si senta pronunciare quando due o più urbanisti si siedono al tavolo di un convegno. Qualcun altro, come Leonardo Benevolo, parla apertamente di "tracollo". Benevolo, classe 1923, è uno dei padri della disciplina, in Italia e non solo. Da più di trent’anni vive sopra Brescia, a Cellatica. Qui si rifugiò dopo aver abbandonato Roma e l´università e per seguire uno degli esperimenti più riusciti dell’urbanistica italiana fra anni Sessanta e Settanta, appunto, la pianificazione di Brescia. «Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata», spiega arrotando bene la erre, «considerata con fastidio, e preferibilmente accantonata. Nei programmi elettorali e nel comportamento delle istituzioni centrali questo capitolo è scomparso da tempo. Nelle amministrazioni periferiche, Regioni, Comuni e Province, ha un posto secondario, con uffici ridotti al minimo e disponibilità economiche precarie; nella vita privata dei cittadini italiani compare quasi solo come un ostacolo sgradito, da eludere o eliminare. Dovunque se ne parla malvolentieri, e il meno possibile».

Non è stato sempre così. «L’urbanistica era uno degli argomenti più popolari nel dibattito politico e culturale del dopoguerra e per alcuni decenni almeno. Basti rammentare le discussioni sul piano regolatore di Roma, negli anni Cinquanta». E oggi, invece? «Oggi gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici. La corrispondenza fra gli atti e le trasformazioni reali è difficile o impossibile da accertare. Governanti e governati, per motivi diversi, condividono il desiderio di trascurare, o far semplicemente a meno di questa disciplina. In questa vicenda io vedo un elemento paradossale». Quale? «Tutto questo avviene mentre per il paesaggio, per le modificazioni portate in esso dall´uomo, l´interesse è cresciuto e cresce anche nel nostro paese».

L’urbanistica arretra proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di essa. Grandi trasformazioni investono i paesaggi, sia quelli non costruiti che quelli urbani: ma quante di queste sono culturalmente sorvegliate, per non dire regolate, da chi per mestiere dovrebbe farlo? «Si costruisce per il mercato», è la risposta che dà Paolo Berdini, altra generazione rispetto a Benevolo, che insegna alla Facoltà di Ingegneria di Tor Vergata, a Roma. Berdini ha provato a mettere ordine fra i numeri che indicano, spesso in conflitto fra loro (da una parte cifre allarmistiche, da un’altra molto accomodanti), quanto suolo è stato consumato in Italia. Circa 10 milioni di stanze, fra il 1995 e il 2006, dice l’Istat. Che vuol dire, sommate ai capannoni industriali, ad altre iniziative produttive e alle infrastrutture, 750 mila ettari in un decennio, cioè quanto tutta l´Umbria e, ogni anno, quanto una città come Ravenna. Il problema è, sottolinea Berdini, che la popolazione italiana è cresciuta nello stesso periodo di 1 milione 900 mila abitanti, «quasi esclusivamente emigranti, persone cioè che, salvo eccezioni, non hanno la minima possibilità di accesso alle case che si costruiscono».

L’enorme quantità di palazzi non ha, insiste Berdini, alcuna corrispondenza con la domanda (nel frattempo, infatti, di edilizia popolare o comunque a prezzi contenuti se ne fa pochissima in Italia). E allora a che cosa è legata? «Evidentemente ad altri fattori, per esempio al fatto che il fiume di denaro virtuale creato dall’economia finanziaria doveva trovare luoghi in cui materializzarsi: le città e il territorio». Ma non doveva essere proprio l’urbanistica a regolare il modo in cui città e territori si davano assetti compatibili con lo spazio e con le persone che li abitano, senza lasciare che a decidere fossero solo le leggi del mercato, comprese quelle di un mercato impazzito, i cui sussulti fanno tremare quel paradiso - o inferno – dell’urbanistica globale che è Dubai?

Di fronte alla forza del mercato sembra si possa fare poco. «L’urbanistica moderna nasce in ambito liberale e anzi proprio di economia capitalista per affrontare un problema che il mercato, cioè la spontaneità dei meccanismi individuali, non riusciva ad affrontare». Edoardo Salzano parte da lontano, dal primo piano regolatore della storia, realizzato a Manhattan nel 1811, per spiegare la crisi di oggi. Ex assessore ed ex preside della Facoltà di Pianificazione a Venezia, dirige eddyburg.it, il più frequentato sito in materia di città e territorio, un pozzo di documenti, di interventi e di denunce provenienti dall’Italia e dall´estero. Dice Salzano: «L’urbanistica ha perso la sua dimensione collettiva, si adegua a una società appiattita sull´io e si piega ad aggiustare, a mitigare tecnologicamente le trasformazioni che avvengono sul territorio, senza cercare soluzioni alternative al pensiero dominante, che è poi quello sempre forte della speculazione edilizia». Ma le trasformazioni sono necessarie, ci sono sempre state... «È vero: ma di quali interventi ha bisogno oggi il nostro paese, di quartieri-dormitorio di lusso o di un piano di difesa del suolo?»

Passano sopra la testa degli urbanisti i Piani-casa - ampliamenti per mezzo milione di abitazioni (stima l’Associazione costruttori), demolizione e ricostruzione di 16 mila fabbricati - che ogni Regione ha approvato per conto proprio, spezzettando l´Italia come un vestito di Arlecchino. E poco c’entreranno gli urbanisti con la legge sugli stadi, chiamata così nonostante i campi di calcio occuperanno solo un’infinitesima parte di nuovi quartieri per migliaia di abitanti. Emblematica anche la ricostruzione dell’Aquila: venti insediamenti e un centro storico abbandonato a sé stesso senza un´idea complessiva di cosa potrebbe essere la città del futuro. «È solo attraverso la mediazione dell’urbanistica che la società costruisce il proprio spazio e gli conferisce la propria impronta», insiste Salzano.

L’urbanistica, si insegna all’università, è quella disciplina nella quale convergono saperi scientifici e umanistici, e che dopo un’indagine sulla realtà fisica e sociale di un territorio, pianifica trasformazioni e conservazioni, misurando gli effetti in tempi lunghi e in spazi vasti, e mediando fra gli interessi generali - i bisogni di chi quel territorio abita - e quelli dei privati, in particolare dei proprietari dei suoli. L’urbanistica, poi, offre soluzioni alla politica. Ed è qui un altro nodo che, secondo molti, si è aggrovigliato sempre di più fino a formare una matassa inestricabile. Se l’urbanistica è in crisi, la politica lo è di più.

I Comuni finanziano gran parte del proprio bilancio con gli oneri di urbanizzazione, i soldi incassati rilasciando concessioni edilizie. Sono deboli di fronte al proprietario di un suolo che chiede di poter costruire, anche se le case che sorgeranno servono soprattutto ad accrescere la sua rendita. E gli urbanisti sono spesso schiacciati in questo meccanismo. «In molti di loro», racconta una non urbanista, Paola Bonora, geografa dell’Università di Bologna, curatrice con Pier Luigi Cervellati di Per una nuova urbanità (Diabasis, pagg. 213, euro 21), «prevale un senso di disincanto malizioso e compiaciuto. L’espansione edilizia viene descritta con rassegnazione e disinteresse: ma raramente le mille etichette per raccontare ciò che accade si accompagnano a una seria denuncia degli effetti devastanti del consumo di suolo e a una coerente proposta politica. Nelle facoltà di Architettura c’è un ritorno alla tecnica e poca attenzione ai contesti territoriali in cui calano gli interventi. Da tempo ci si è invaghiti della crescita illimitata: e l’ubriacatura continua».

Nuovi modelli di gestione del territorio: l’”utopia concreta” del Laboratorio di progettazione ecologica del Politecnico di Milano. Da il manifesto, 10 dicembre 2009 (m.p.g.)

Alberto Ziparo

A ognuna delle sempre più frequenti catastrofi «naturali» che colpiscono il fragile territorio italiano, offeso quotidianamente nei suoi ecosistemi fondamentali, cresce la denuncia dell'insensata distruzione del Bel Paese.

Eppure quasi subito l'agenda politica e mediatica nazionale dimentica le varie Sarno, Scaletta di Messina, L'Aquila (a meno di farne set per i propri show televisivi) e continua a propinarci Grandi Opere, Megaeventi, Piani Casa - operazioni quasi sempre socialmente inutili e ecologicamente dannose, ma soprattutto insensate per i territori di riferimento, segnate cioè dalla perdita di quello che i geografi territorialisti chiamano senso del contesto, e oltre tutto spesso destinate a fallire dal punto di vista economico-finanziario, come è stato il caso, per esempio, delle Olimpiadi di Torino (o anche - uscendo dall'Italia ma restando nel tema delle Grandi Opere - dell'EuroTunnel).

Un'idea degli anni '60

Interpretare la bizzarria - o più propriamente l'assurdità - delle attuali politiche territoriali non è facile: anche le analisi legate alle ricadute del modello di sviluppo quantitativo e globalizzato non bastano più. Non si spiegherebbe infatti come mai si vogliano collegare territori le cui relazioni declinano, o perché in un paese come l'Italia, dove già esiste una ventina di milioni di stanze vuote, si discuta da quasi un anno di un Piano Casa Straordinario per realizzarne un altro milione. In realtà oggi non si costruisce né per il mercato sociale, né per il mercato libero, ma per alimentare, anche tramite la rendita edilizia e fondiaria, i meccanismi di quella finanziaria (acquisire immobili e tenerli vuoti, ma a prezzo e a valore alto, oppure prendere commesse per opere, che magari non si realizzano, ma costituiscono mezzi utili a tenere alto l'indicatore di mercato del titolo di riferimento).

Nonostante i continui ridimensionamenti e l'accattivante slogan di presentazione «Nutrire il Pianeta, produrre energia per la vita» (che sembra coniato da Al Gore per la campagna di Obama), anche l'Expo 2015 di Milano si caratterizza per la bigness delle opere legate alla manifestazione (padiglioni, alberghi, attrezzature, infrastrutture) che vanno ad alimentare - più che la Terra - le già gravi congestioni di cemento, di traffico, di rumore, di veleni, da cui è segnato e intossicato l'ambiente metropolitano milanese.

Con il volume Produrre e scambiare valore territoriale. Dalla città diffusa alla forma urbs et agri, da poco uscito per Alinea (pp. 270, euro 30), gli studiosi del Laboratorio di progettazione ecologica coordinati presso il Politecnico di Milano da Giorgio Ferraresi ricorda però come esistano - e siano praticabili - scenari alternativi all'insensato «modello Grandi Opere» e come, proprio nell'hinterland milanese, si stiano realizzando.

Gli studiosi, che fanno capo al programma territorialista di ricerca nazionale coordinato da Alberto Magnaghi, hanno realizzato il loro studio reinterpretando e arricchendo progetti e piani istituzionali, scientifici, sociali, prodotti negli anni scorsi per l'area meridionale - a prevalente vocazione agricola - del capoluogo lombardo. E lo scenario che prospettano per il Parco Agricolo Sud Milano di fatto «decostruisce e ricontestualizza» una idea che risale agli anni Sessanta, quando era in auge per le aree metropolitane «l'ideologia dei Piani Intercomunali» (i Pim) e il Parco Agricolo veniva considerato come lo strumento per bloccare «il declino del primario nella parte sud dell'area metropolitana».

Il ruolo delle fiumare

Oggi quell'idea viene riproposta con ambizioni che vanno oltre l'ambito della disciplina urbanistica e mirano a una innovata relazione tra agricoltura, territorio, ambiente e paesaggio. Lo scenario proposto dai territorialisti milanesi costituisce infatti la traduzione in termini compiuti e concreti del concetto di «sviluppo locale auto-sostenibile», proposto da Alberto Magnaghi. Non solo: quello che il Laboratorio propone è una «nuova estetica dell'abitare» nella quale dinamiche sociali e nuovi stili di vita si coniugano con regole territoriali riattualizzate - muovendo dai rapporti virtuosi che spesso nel passato si allacciavano nella comunità tra territorio ed economia, ambiente e società, allorché «ciascuna civiltà depositava sul territorio i suoi oggetti, ma sempre in coerenza, non in contrasto, con l'assetto ecologico e con il patrimonio culturale esistente». Un uso sapiente del territorio, di cui i paesaggi rurali conservano abbondanti tracce nei beni etnoantropologici dismessi appena qualche decennio fa.

Manlio Rossi Doria, antesignano di quei «pianificatori di contesto», cui appartengono i territorialisti, racconta per esempio del ruolo svolto dalle fiumare nei territori meridionali, «elementi di collegamento e cerniera tra l'osso e la polpa, i rilievi montani e le piane o le fasce costiere, su cui insistono comunità assai coese, sistemi dotati di forte organicità e coerenza interna, ad un tempo economici e ambientali, paesaggistici, sociali e territoriali». Oggi, all'uscita dalla modernità, il Parco Agricolo Sud Milano può giocare un ruolo analogo, fornendo a problemi drammaticamente attuali, nella disciplina come nella società, indicazioni utili per bloccare il consumo eccessivo di suolo, la proliferazione di costruzioni insensate, la distruzione dell'ambiente.

Ma il Laboratorio di progettazione ecologica (che oggi e domani al Politecnico di Milano organizza un seminario internazionale intitolato, come il volume, Produrre e scambiare valore territoriale) va oltre, e nello scenario del Parco agricolo «porta al governo, anzi all'autogoverno» i nuovi stili di vita, ipotizzando tra l'altro la nascita e lo sviluppo di inedite formazioni sociali attorno a valori e risorse presenti - possibili sponde solidali per «le moltitudini in dissolvenza nella società liquida». Con lo scenario di Parco Agricolo, spiega Ferraresi, «si avanza insomma una proposta di utopia concreta, e già operabile almeno su alcuni punti qualificanti e comunque radicata dentro esperienze sociali di cooperazione e su studi e progetti in corso, sebbene a Milano, non si sia ancora giunti, se non in casi isolati, a definire politiche pubbliche».

Filiere corte, ma flessibili

Nel proporre «il ruolo fondamentale del cibo, dei cicli ambientali e di una nuova agricoltura» per una pianificazione non settoriale, il lavoro del Laboratorio prova a rispondere al cruciale quesito su quale sia oggi il senso dell'uso del territorio. A differenza dei modelli immaginifici dettati da una «politica mediatica» che prevede la proliferazione di strutture quasi sempre inutili e dannose, gli studiosi del Politecnico propongono una funzione di valore territoriale, che ricomponga il paesaggio e sancisca un innovativo valore d'uso per lo spazio agricolo, non più legato (come era al tempo dei Pim) alla massimizzazione delle rese per la vendita, ma alla qualità della nuova domanda sociale - dalle richieste di consumatori ecologici, equi e collettivi (per esempio i gas, gruppi di acquisto solidale) alle esigenze di strutture particolari (negozi biologico/biodinamici o mercatini produttori/consumatori), alle «filiere corte» (cicli locali produzione-consumo).

Filiere, spiegano gli studiosi del gruppo di lavoro, che «si possono allargare, per favorire, per esempio, relazioni corto-lunghe socialmente virtuose, tra produzioni di qualità provenienti dai Sud e il consumo equo e solidale occidentale».

Se infatti il Parco è agricolo, lo scenario è ben più ampio, attraversa temi e discipline diverse e ridefinisce nell'ambito del territorio le relazioni «tra produzione, consumo, natura, cultura e società», in modo da fornire non solo un nuovo disegno, ma un senso forte del contesto per le comunità che abitano e abiteranno nell'area.

In questo modo si affronta una delle conseguenze più evidenti di una economia del territorio, qual è quella attuale, sempre più finanziaria e «virtuale», e alla produzione di bigness che la accompagna: lo stravolgimento delle intenzioni - anche le più intelligenti - delle recenti esperienze di governance urbana e territoriale, convinte di poter mediare tra grandi interessi e domanda del mercato e costrette a produrre spazi spesso piegati (e piagati) esclusivamente dai primi. Temi, questi, su cui si sofferma Pier Carlo Palermo nel recente volume I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, pp. 188, euro 27 ).

Razionalità comunicativa

Più in generale, si tratta di assumere le difficoltà dei soggetti di governance e delle istituzioni politiche tout court, di fronte alle nuove questioni poste dalla crisi economica (alle quali si tende a rispondere riproponendo gli stessi meccanismi che l'hanno provocata - comprese le relazioni tra economia reale e finanziarizzazione) e ambientale (rispetto alla quale si avanzano soprattutto declaratorie). Su questo punto basta riprendere una posizione consolidata nel programma territorialista - ottimamente chiarita nel volume di Anna Marson, Archetipi di territorio (Alinea, pp. 286, euro 22) - che da tempo sottolinea come, per fruire di quei beni comuni che derivano dagli elementi fondamentali della nostra vita, sia necessario liberarsi una volta per tutte dalla «ubriacatura di mercato» che ha colpito fino a ieri anche vasti strati della sinistra.

Ma anche questo non basta, se non si coglie che, rispetto a simili problemi, l'innovazione, anche scientifica, può giungere solo da chi il territorio lo abita e lo «agisce», sia pure con la discontinuità dei «nomadi», quali oggi siamo un po' tutti. Come scrive Giorgio Ferraresi in Produrre e scambiare valore territoriale, «nascono nuove culture, un filone di pensiero e di modalità e finalità dell'azione radicalmente altro rispetto a quella ragione strumentale e alla sua potenza tecnologica che si è appropriata della modernità e che ha sottomesso o emarginato ogni altra forma di ragione e comportamento, nutrendo di sé il dominio dell'urbano e il degrado del territorio». In luogo di contesti che producono merci da vendere o spazio da privatizzare (e magari quotare in borsa), se ne propone una profonda, concreta, utilità virtuosa: «il porsi della questione ambientale nella trasformazione del territorio pone al centro i mondi di vita, la forma della razionalità comunicativa che li governa e la ricerca di senso del mondo e delle azioni. I suoi codici di azione e comportamento sono basati sulla cura dell'ambiente e nelle relazioni primarie e su esperienza, sapienza e responsabilità del vivere il presente quotidiano e il futuro, del generare».

Influenze anglosassoni

Lo scenario finale prefigurato dal lavoro del Laboratorio di progettazione ecologica oppone ai disagi e ai disastri della città diffusa una nuova figura di forma urbis et agri, che prende spunto anche dalla tradizione anglosassone del town and country planning e prospetta un paesaggio di qualità in un ambiente ricostituito. E soprattutto stili di vita legati a esperienze innovative che con le loro domande di un uso attento dei beni materiali o di cura dei luoghi, promettono una nuova qualità del vivere e dell'abitare. Nella coniugazione virtuosa e innovativa di territorio urbano e agricoltura, ambiente e cultura, paesaggio e società, ipotizzata dai territorialisti milanesi, lo slogan dell'Expo 2015, «Nutrire il Pianeta, produrre energia per la vita», svuotato di senso dalle scelte che l'operazione comporta, può ritrovare una valenza concreta.

Una pugnalata

di Valentino Parlato

Cari lettori e cari compagni, questo governo si conferma nemico di tutte le libertà. Il 3 di ottobre in piazza del Popolo, a Roma, c'è stata una grande e animata manifestazione per la libertà di stampa. La risposta dell'attuale governo ci ha messo poco ad arrivare. Con un mirato emendamento alla finanziaria ha reso incerta l'entità dei contributi diretti che vengono assegnati in favore delle cooperative di giornalisti e dei giornali di partito. Sarà così il governo a decidere ogni anno quanto dare ai giornali politici cooperativi e non profit. Viene negata ogni idea di autonomia di una parte importante dell'informazione italiana, e cancellate le condizioni della sua sopravvivenza. Una legge di sostegno all'informazione, nata già nel 1981 e consolidata negli anni, viene messa radicalmente in discussione da un emendamento alla finanziaria di cui nessuno ha potuto discutere. Si passa dalla legge uguale per tutti all'arbitrio di chi governa.

Pensando a questa risposta alla manifestazione del 3 ottobre per la libertà di stampa, dovremmo avere qualche preoccupazione, forse anche maggiore, per che cosa si prepara a rispondere il governo all'enorme manifestazione del 5 dicembre a piazza San Giovanni. Quella di ieri, coma ha scritto sull'Unità Vincenzo Vita «è una pugnalata alla schiena».

Con questa pugnalata molti giornali indipendenti, e il manifesto in particolare, sono stati condannati a morte in attesa di esecuzione. Abbiamo le settimane contate. Se vogliamo sopravvivere e continuare la lotta a Berlusconi e al berlusconismo imperante dobbiamo reagire. Noi del collettivo del manifesto facendo un giornale migliore e più efficace. Dobbiamo lavorare di più e meglio se non vogliamo che il Cavaliere possa aggiungere la testata del manifesto ai suoi, già numerosi, trofei. Ma anche voi, lettori e sostenitori, nuovi e antichi, dovete impegnarvi in questo scontro. Scrivendoci, criticandoci, dandoci suggerimenti, ma anche dandoci munizioni per resistere e combattere.

Innanzi tutto comprate tutti i giorni il giornale, preparatevi a comprare il numero speciale a 50 euro, che sarà in edicola il 17 dicembre prossimo, abbonatevi e fate abbonare, sottoscrivete. So che, forse esagero, ma se mille di voi ci mandassero mille euro ciascuno, farebbero un milione di euro e la sicurezza di altri mesi di combattimento.

Scrivete e fate scrivere. In questa nostra deteriorata Italia è ancora possibile combattere ed evitare una sconfitta definitiva che peserebbe non solo su di noi, ma anche sui nostri figli. Il berlusconismo - sono d'accordo con Alberto Asor Rosa - non ha pennacchi e camicie nere ma è peggio del fascismo. Prospetta una dittatura morbida e torbida, che produce un'epidemia di corruzione morale e intellettuale. Con le nostre poche, ma tenaci forze, resistiamo e pensiamo, progettiamo la controffensiva. Anche Berlusconi finirà con lo scoppiare. Ricordiamoci il «non mollare» di chi ha fatto cadere il fascismo.

La notte della stampa

di Roberto Natale*

Queste righe sono dedicate a chi ancora pensa che il 3 ottobre sia stato esagerato ritrovarsi in tanti in piazza del Popolo a difendere la libertà dell'informazione, perché «guarda quanti giornali trovi in edicola». Un bell'esempio di rispetto del pluralismo il governo lo ha dato in questi ultimi giorni con la Finanziaria: venerdì notte ha presentato a sorpresa alla Commissione Bilancio della Camera un emendamento con il quale ha anticipato di un anno la soppressione del cosiddetto "diritto soggettivo" per i giornali di partito, cooperativi e no profit a percepire i contributi diretti dello Stato. Dall'inizio dell'anno prossimo, avranno difficoltà estreme ad approvare i bilanci e a contrattare con le banche, molte testate - all'incirca cento - dei più diversi orientamenti: l'Unità e Il Secolo, la Padania e Europa, Liberazione e Avvenire, il manifesto e il quotidiano in lingua slovena Primorski Dnevnik, solo per citarne alcune. Voci non solo di partiti (veri, esistenti), ma di gruppi sociali e di minoranze linguistiche. Tremonti aveva già provato il taglio nel 2008, ma il Parlamento lo aveva indotto a fare retromarcia. Ora è tornato all'attacco, ed in Commissione non c'è stata alcuna possibilità di modifica del testo, che arriverà blindato in aula, a partire da domani.

Incivile il metodo, al quale ben si addice la presentazione notturna e quasi furtiva dell'emendamento: nessuna forma di interlocuzione con le rappresentanze di un'area editoriale che coinvolge 2000 giornalisti e 2500 poligrafici, nessuna traccia di quel coinvolgimento vantato dal sottosegretario Bonaiuti quando si era trattato di far approvare il regolamento per l'editoria. E incivile il contenuto: si riducono i fondi per i contributi diretti (che negli ultimi 4 anni sono già scesi da 240 milioni di euro a meno di 180) in maniera indiscriminata, senza distinguere fra giornali veri e testate allergiche all'edicola. Non c'è nemmeno la possibile nobiltà del rigore, di quel rigore che tanta parte dell'editoria cooperativa, di partito, no profit chiede da tempo, stufa di vedersi accomunata a esperienze finte al limite della truffa e di sentir spirare un'aria ostile che considera spreco clientelare ogni intervento pubblico. Nel quadro di una editoria già pesantemente segnata dal calo della pubblicità e delle copie vendute, questo intervento rischia di assestare a tante esperienze il colpo di grazia. Nell'Italia dei conflitti di interesse, degli editori che hanno troppe altre attività, degli squilibri clamorosi tra risorse per la tv e per la carta stampata, non accetteremo che l'unica riforma sia lo strangolamento delle voci non allineate alla logica del nostro anomalo mercato. Aspettiamo da un anno gli Stati Generali dell'editoria che il governo aveva annunciato sull'esempio della Francia. Lì sono stati realizzati in pochi mesi; qui, dopo l'annuncio, stiamo vedendo soltanto i tagli. No, non si può proprio tollerare. Contiamo che, nelle prossime settimane, lo capiscano anche i parlamentari, chiamati a decidere se il pluralismo sia ancora un valore.

* Presidente Fnsi

Carta straccia di governo

di Matteo Bartocci

Tagli all'editoria, Giulio Tremonti ci riprova. Per il ministro dell'Economia e il governo la parola pressoché unanime del parlamento a difesa del pluralismo dell'informazione è carta straccia.

L'ultima versione della finanziaria approdata di soppiatto in commissione bilancio alla camera venerdì sera, infatti, cancella con un tratto di penna il «diritto soggettivo» ai fondi pubblici per l'editoria dal 2010. Tutto il faticoso compromesso raggiunto nell'ultimo anno e mezzo tra forze politiche, governo, giornali di partito, di idee e no profit è di nuovo azzerato per un atto di imperio del ministro dell'Economia. L'articolo 53bis della manovra cancella la certezza del contributo pubblico stabilito dalla legge del 1981 e mette a rischio la sopravvivenza di 92 testate (tra cui il manifesto), che impiegano circa 2mila giornalisti (il 18% del totale, fonte audizione del sottosegretario Bonaiuti del 19 marzo 2009 alla commissione cultura della camera) e quasi 2.500 dipendenti tra poligrafici, tecnici, impiegati amministrativi. Con un indotto di collaborazioni occasionali valutabile in altre 20mila persone. Un taglio pesante nonostante il finanziamento del 2007 (erogato alla fine del 2008) non sia impossibile per le casse pubbliche: 178 milioni di euro. Un dato, va ricordato, in netto e costante calo negli ultimi anni anche per un minimo di «pulizia» nell'erogazione dei contributi pubblici.

L'imboscata di via XX settembre non è piaciuta al Pd ma nemmeno alla maggioranza, che fino a ieri mattina aveva presentato due sub-emendamenti soppressivi (uno firmato da Silvana Comaroli della Lega, l'altro dall'ex An Marcello De Angelis del Pdl). Emendamenti che se messi ai voti avrebbero certamente battuto il governo come sempre è accaduto negli ultimi anni (dal governo D'Alema in poi) quando il parlamento si è potuto esprimere sull'argomento. Così non è stato. Dopo l'intera notte di domenica a discutere, come un sol uomo la maggioranza ieri mattina ha dovuto ritirare le sue proposte di modifica. Un «serrate i ranghi totale» su cui si è speso perfino Gianni Letta in prima persona. Il «primo ministro ombra» è dovuto intervenire direttamente nei corridoi della commissione per sedare i deputati furiosi con Tremonti, assicurando che ai «problemi» dell'editoria si metterà mano con un altro provvedimento successivo, forse con l'immancabile «milleproroghe» di fine anno. Un ordine al di scuderia al quale non è estraneo nemmeno Gianfranco Fini, almeno per la parte ex An.

Il presidente della camera infatti non ha battuto ciglio sull'ennesima forzatura scelta dal governo, che ha presentato un testo senza discussioni approvato poi in 35 minuti. L'opposizione ha abbandonato i lavori per protesta e giura di ripresentare le modifiche più significative su famiglia, Abruzzo ed editoria in aula domani. Certo però che se dovesse arrivare il voto di fiducia su finanziaria e fondi per l'editoria calerebbe il sipario finale, visto che è da escludere un intervento del senato nel finale.

Una mannaia finanziaria ma anche politica. Da un lato l'oscurità sulla cifra dei contributi del 2010 (che lo stato eroga effettivamente solo nel 2011) impedirebbe alle imprese di chiudere i bilanci dell'anno prossimo. Dall'altro «un contributo pubblico alla stampa indipendente finisce di fatto nell'arbitrio del principe», spiega Lelio Grassucci di Mediacoop, l'associazione che raccoglie gli editori no profit e in cooperativa. Il governo deciderebbe ogni anno come e quanto dare.

Lo schiaffo di Tremonti però è diretto non solo al parlamento e al mondo dell'informazione ma anche ad alcuni avversari interni al governo e al Pdl. Innanzitutto al ministro delle attività produttive Claudio Scajola, che a luglio aveva ottenuto l'aumento della Robin Tax ai petrolieri per l'editoria e l'anticipo dei fondi previsti a discapito delle Poste, un ente centrale nella tremontiana Banca del sud. E al sottosegretario Paolo Bonaiuti che è delegato all'informazione e che dopo una trattativa complessa durata un anno aveva licenziato un regolamento di riforma che sarebbe entrato in vigore nel 2011. Azzerare tutto significa riportare di nuovo il timone del finanziamento pubblico nelle mani di via XX settembre.

Pd, il sindacato dei giornalisti e i giornali interessati non ci stanno. Già domani ci sarà una conferenza stampa della Fnsi alla camera per denunciare i pericoli dell'ennesimo cambio in corsa delle regole per un settore, l'informazione, sotto attacco su tanti piani, dalle querele del presidente del consiglio contro articoli sgraditi al mai risolto conflitto di interessi a regole «di mercato» che premiano sempre gli stessi a discapito di pluralismo e indipendenza richiesti da una democrazia compiuta.

E' passato un anno è di quei promessi «stati generali dell'editoria» che dovevano riformare il settore e fare pulizia in modo condiviso e trasparente non c'è traccia. Quello di Berlusconi non è il primo governo insofferente verso i giornali scomodi

Articoli di Mariagrazia Gerina, Pietro Spataro, Toni Jop, Maria Zegarelli

Rivoluzione viola, un milione per dire:

Berlusconi dimettiti

di Mariagrazia Gerina

C’è chi se l’è dipinto in faccia, chi ci scrive sopra la rabbia, chi la speranza. Chi lo sventola contro il cielo azzurro. E lo fa avanzare come una nuova bandiera, un desiderio di rivoluzione, per le vie di Roma, da piazza della Repubblica a piazza SanGiovanni. Quel colore viola, lasciato libero dai partiti in oltre sessant’anni di Repubblica. Che, nel linguaggio cromatico, sta tra cielo e terra, tra passione e intelligenza. E significa «metamorfosi, transizione, voglia di essere diversi». Nessuno l’aveva considerato fin qui. Se l’è preso il popolo del «no B. Day». E in un pomeriggio, dopo quindici anni di berlusconismo, antiberlusconismo, girotondi, lo ha fatto diventare «urlo, abbraccio, amore per questo paese », prova a prestargli le parole Roberto Vecchioni, «tutta la gamma dei sentimenti» che la politica è ancora in grado di suscitare. «Nessuna cupezza, nessuna aria di sconfitta», contempla la scena dal palco il grande vecchio del cinema italiano, Mario Monicelli. L’identikit più bello di quel popolo sceso in piazza a chiedere a Berlusconi di dimettersi, lo fa Francesca Grossi, da Massa Carrara, venuta a Roma con suo marito e con i suoi due bambini di 11 e 13 anni. «Siamo di sinistra, usiamo la democrazia con fiducia, non so ancora per quanto - dice -, ci diamo da fare persino nei consigli di classe, vogliamo far sentire la nostra voce, far sapere che siamo tanti, che c’è un’Italia che dà il benvenuto ai marocchini e tiene le porte aperte». E però, dice Francesca, sciarpa viola al collo: «Ci sentiamo poco rappresentati, il nostro essere presenti sventolando il colore viola di questa sinistra sguinzagliata cisembra l’unica forma di rappresentanza rimasta». Lo dice tutto d’un fiato, come si dicono le cose che stanno a cuore. Poi si ferma, guarda avanti. E si domanda: «Ci ascolteranno?».

L’altra Italia

Chissà. Ma mentre parla, alle sue spalle, prende corpo l’altra Italia scesa in piazza per essere «presente». L’Italia dell’antimafia e della Costituzione. «Abbassate le bandiere dei partiti», ripete almegafono unragazzo con i capelli biondi. Davanti a lui, un mare di agende rosse come quella del giudice Borsellino, portate in civile processione da ragazzi che quandoquell’agenda sparì erano appena bambini. Al posto delle bandiere, un gruppetto di signore sventola la Costituzione. «Bisogna ricominciare dalla base in questo paese». Su tutto giganteggiano le lettere cubitali di un verbo semplice, da rivolgere direttamente al premier, senza mediazioni: «Dimettiti». «Ridacci l’Ita- lia, vattene ad Hammamet». E poi: «Fuori la mafia dallo stato». «Caserta non è uguale a Cosentino». «Mangano e Dell’Utri a voi, i nostri eroi Falcone e Borsellino», scandisce il popolo «no B Day». Le stesse parole che il fratello Borsellino scandisce dal palco. Un intervento durissimo e applauditissimo. «A me delle escort non importa nulla, sono qui perché la mafia esca dallo stato, la presenza di Berlusconi e Schifani nelle istituzioni è un vilipendio».

«Dovevamo essere trecentomila, siamo più di un milione», esultano gli organizzatori. Una lezione per tutti i partiti, non solo per Berlusconi. Per l’Idv che corre a prendersi la prima fila. Per le tante bandiere rosse. E per il Pd che arriva in ordine sparso». «A cui ricorda che il Pd - dice Vecchioni - è un progetto vasto, nonsolo partitico». Il popolo del «No B Day» li ha votati un po’ tutti, con delusione e speranza. C’è persino chi incoraggia l’alternativa a destra: «Meno male che Gianfranco c’è». «Guarda se in piazza oggi ci sono io vuol dire che questo paese può cambiare davvero», dice Riccardo Fabbri, 38 anni, impiegato. «Io - spiega - ero l’italiano medio, miimportava solo del calcio, della tv e delle donne, poi però a vedere come hanno distrutto questo paese mi sono inc... anche io».

Tanti giovani, molti lavoratori

«Tiriamo l’Italia fuori dal fango»

di Pietro Spataro

Francesco ha 17 anni, Angelica 65. Davide è disoccupato, Manuela è precaria, Amedeoè piccolo imprenditore. Violetta e Ilaria sono studentesse, Valeria un’insegnante. Storie diverse che si incontrano in questo bellissimo corteo: si toccano, si mischiano, si danno forza stando insieme. Tante persone che hanno un tratto comune: vogliono un’altra Italia. Più giusta, più uguale, più libera, più democratica. Antiberlusconismo? Forse. Ma non basta a spiegare l’esplosione di gioia e di colori, i canti, gli slogan, le parole. Questa è gente che ha voglia di futuro. Di un futuro in cui nonci sia più Berlusconi. Già si definiscono il «popolo viola» e portano la freschezza e la velocità di un movimentonato sulwebche accetta la presenza, ingombrante, delle troppe bandiere di partito. Fanno pensare ai “girotondi”masono davvero un’altra cosa.

La meglio gioventù. Gioiosi ed esuberanti, inventano gli slogan migliori e sono dappertutto. Francesco Blaganò ha 17 anni, studente, è arrivato da Lamezia Terme. Tiene lo striscione che apre il corteo: “Berlusconi dimissioni”. Dice: «Il problema è questa Italia colpita al cuore dal malaffare. Non vogliamo arrenderci, ci siamo per smuovere le coscienze». Poco distante Davide, 20 anni, romano, si fa fotografare sotto la locandina di un film intitolato «L’intoccabile» il cui attore protagonista è Berlusconi. «Che faccio? Mi chiamano inoccupato. Sono qui perché mi dissocio e non solo per Berlusconimaper quello che ci sta dietro: le nubi chimiche, i veleni, la nostra vita rovinata». Arianna sventola una delle poche bandiere del Pd.Ha29 anni. E’ unpo’ arrabbiata. Spiega: «L’opposizione si fa in Parlamento ma anche in piazza. Noi siamo qui, speriamo che il Pd se ne accorga ». Fulvio e Giuseppe, studenti ventenni, vengono da Lecce. «Siamo qui per stanchezza, per sofferenza. Nonne possiamo più. Vogliamo vedere un’altra scena.Ce la faremo?». Violetta ha 18 anni e fa la ragazza sandwich: denuncia la disuguaglianza della vita. Dice: «Se sei figlio di papà vai avanti, altrimenti ti fermi. E’ il senso della riforma Gelmini. I miei genitori sono impiegati, indovina un po’ che speranze avrò?». Urlano, nessuno riuscirà ad ammutolirli.

Lavoratori d’Italia.

Pensi di trovare schiere di giustizialisti inferociti e invece raccogli decine di storie di lavoratori che sono qui soprattutto per difendere la loro dignità. Fabio Frati è uno di questi. Era impiegato Alitalia ora è in cassa integrazione con 850euro eun figlio invalido. «Noi siamola testimonianza della cura Berlusconi. Siamo 10 mila in tutta Italia, un vero massacro sociale». Ida ha 47 anni, lavora in un’azienda ceramica in crisi vicino Reggio Emilia. «Sono separata con due figli e sono in contratto di solidarietà. Ma secondo voi ce la posso fare con poco più di mille euro al mese?». Il lavoro che non c’è, quello che si rischia di perdere, quello precario. Nicola ha 27 anni e viene dalla Sardegna. Fa il ferroviere. «Ho un contratto precario, lavoro 12 ore per900 euro. Eloro pensano allo scudo fiscale e ai processi di Berlusconi». Dice uno striscione: “Sono casertano non sono Cosentino”. Manuela ha 34 anni, è precaria in aeroporto. «Ma tu ti fideresti di uno come Cosentino? Io però sono qui anche per altro: per unmio amico che la Gelmini ha cacciato via dalla scuola, per mia cugina che è senza stipendio da cinque mesi». Chi ascolterà questa Italia? Protesta civile. Ci sono anche loro, quelli che pensano che il regime sia alle porte. Roberto ha 63 anni, pensionato, faceva il dirigente in un’azienda petrolifera. Marcia con un cartello che dice “Come Veronica nun te regghe più”. Spiega: «Ho finito le parole, non ce la faccio più. Non sopporto la volgarità e l’incultura di questi signori». Davide si è sistemato sulla scalinata di una Chiesa con un cartello che recita “Berlusconi vattene, per fare politica servono mani pulite”. E’ vestito di grigio e lo scambiano tutti per il parroco. Gli urlano “grazie”. Lui sta al gioco. Poi dice: «Sono semplicemente unc ittadino incazzato contro Berlusconi che vuole fare il monarca». C’è spazio anche per la poesia. Angelica, 65 anni, viene da Milano. Innalza un cartellino sui cui sono scritti versi di Giuliano Scabia: «Svegliati Italia / scrollati dal fango che ti ammalia ». Dice: «E’ la verità: siamo immersi nel fango». Ormai è buio. Piazza San Giovanni è strapiena e il corteo è ancora in via Merulana. Si balla, si canta. Ragazzi e anziani insieme, generazioni diverse in cerca del “colore della libertà”. Una signora in unangolo tiene altoun cartello minuscolo come tanti fatti in casa. Dice: «Quando la tigre è nella tua casa non discutere come cacciarla». Il «no B day» è finito. Oggi comincia il dopo. Chi caccerà la tigre? V

Pensieri e parole sul palco

«Siamo cuore e cervello dell’ Italia che vogliamo»

di Toni Jop

«Madov’è la sinistra? Dov’è il Pd? Dov’è l’opposizione? Dov’è la Chiesa rispetto alle molte isole di schiavitù che oggi fioriscono in Italia?»: Ulderico Pesce, attore, lo chiede a una piazza sterminata di teste e bandierementre cala la sera su San Giovanni. E la piazza s’infiamma firmando un non-sense meraviglioso, poiché tra i marmi vaticani, il verde e l’asfalto c’è proprio l’anima della sinistra, l’anima dell’opposizione, moltissimi cattolici, l’anima del Pd, per non parlar dei suoi leader, in buon numero scesi in strada col popolo della rete. Così, quel palco allestisce una sorta di drammaturgia analitica, una «doccia » emozionale in cui «vuotare il sacco », i bisogni frustrati, le pulsioni troppo a lungo mediate. Pesce sa il fatto suo quando urla: «Senza il cuore la sinistra è niente, senza emozioni è niente». E racconta dei lager italiani in cui vengono rinchiusi gli emigrati, dei caporali che smistano le «risorse umane» da un campo di mele a uno di pomodori, a una strada lungo cui prostituire il corpo. Chiede aiuto; dice che, per far qualcosa di utile, basta appoggiare la sua richiesta di rendere riconoscibile, come avviene in altri paesi europei, il nome del produttore, adesempio, su ciascun barattolo di pelati. Sembrerà strano, ma questo piccolo accorgimento burocratico sarebbe in grado di sventare trucchi e truffe ai danni dello Stato, della popolazione, dell’Europa, dei lavoratori trattati come schiavi. Ovazione per lui, come, poco prima, per Salvatore Borsellino che aveva chiesto all’Italia di rivendicare il suo diritto di mandare a casa il premier, sottraendo questo potere alle cosche che ora potrebbero considerarlo un insufficiente. Niente, sul palco, accade secondo una liturgia convenzionale, tranne forse lo stile dei due giovani conduttori che fanno quel che possono per aggraziare di maniera una scena di suo così anomala. Due ragazze ventenni che raccontano della loro esperienza in una cooperativa attiva sui terreni fino a poco fa appartenuti alla mafia, a Corleone. Dario Fo che vola surreale sul mare di bandiere, giurando di non aver quasi camminato per arrivare in piazza, perché trascinato sospeso dall’onda di quel milione di persone, per lui sono la certezza che le cose cambieranno; Franca Rame che recita una stanza dedicata soprattutto alle donne, a quelle inchiodate dalla cultura del premier come a quelle offese dalla violenza maschile mentre qualche asta, nei pressi del palco, porta in alto le coppe di un reggiseno. Moni Ovadia, che tuona sul tradimento, sullo scippo, sul furto del nostro vocabolario democratico ad opera di unsolo uomoin grado oggi di controllare e decidere le nostre esistenze. Di fronte, aggiunge Moni, ad una opposizione incerta, malferma. Due messaggi video, uno con lo sdegno verso i nostri tempi di Antonio Tabucchi; un altro per Giorgio Bocca che chiede, anche lui, all’opposizione e al Pddi fare delle scelte di campo. Aveva aperto Monicelli, unresistente di lungo corso e di lunga memoria che ha avuto l’«impudenza» di salutare la classe. Operaia. «Viva l’Italia», canta Vecchioni, bello e discreto, e la piazza gli fa eco e balla, perché era festa grande. Di liberazione.v

Rosy superstar tra i viola

Il Pd c’è, sfila l’opposizione

di Maria Zegarelli

«Rosy, per fortuna ci siamo. Hai sentito quanta gente ha detto “se non foste stati qui ci saremmo sentiti orfani”? ». Dialogo fra Giovanna Melandri e Rosy Bindi, alle sei del pomeriggio. Per fortuna ci sono andati i leader del Pd, si ripetono tra di loro, perché questa rivoluzione viola che è arrivata dal mondo virtuale e si è imposta in quello reale è imponente, molto di più di quanto si aspettavano gli organizzatori, molto di più di quanto vi racconteranno i tg e il bollettini della questura e del Viminale. Per fortuna che c’erano i leader del Pd, dal suo presidente, Bindi, al vice Scalfarotto, all’ex segretario attuale capogruppo alla Camera Dario Franceschini, a Ignazio Marino, Paola Concia, e tanti altri ancora. Perché quando attraversano il corteo il popolo Pd - un sacco di gente - li riconosce e va a ringraziarli. IL POPOLO E LE BANDIERE Un popolo discreto e rispettoso della manifestazione «che non è dei partiti ma della società civile», arrivato senza le bandiere perché così era stato deciso e invece una volta qui si accorge che l’Italia dei valori ne ha portate a pacchi, come i cappellini. Idem Rifondazione comunista, Sl, i Verdi. E così capita che Silvana, del circolo Pd di Trastevere, cuore rosso di Roma, fa un cenno ai suoi ed ecco che ne spuntano una trentina, salta quel telo viola dallo striscione e campeggia la scritta Pd. Rosy Bindi fatica a farsi largo, la fermano ad ogni passo. «Rosy sei l’unica con le palle», le grida unragazzo, e lei «lo prendo come un complimento ».Duegiovani stranieri le offrono una birra, ragazzi di Bergamo vogliono le foto. «Sei grande presidente, però certo Bersani poteva pure esserci... ». «Bersani è qui», porta la mano sul cuore, «non c’è, non c’è» le risponde un gruppo di donne. Il «partito è qui, c’è n’è tanto in questo corteo », risponde una, due, cento volte. Nonle piacciono tutte queste bandiere, «non è giusto che i partiti siano arrivati con le loro bandiere, dovevano venire con il viola o fare come me, un nocciola neutro. Bisogna avere rispetto di questo popolo, di tutta questa società civile che oggi è qui». Poco più indietro Ivan Scalfarotto dice che non ci sono polemiche perché, è stato giusto così: esserci senza metterci il cappello. E però che fatica trovare la collocazione senza rischiare di finire sotto le bandiere dell’Idv o di Rifondazione. Così capita anche che la Bindi per sfuggire la falce e il martello finisca tra i «viola» - «perchè sono di sinistramanon comunista» -senza accorgersi in tempo che dietro c’èuncartello con su scritto «Berlusconi tromba meno». Atletico scatto in avanti. Applausi quando arriva Dario France- schini che si piazza affianco a Marino, «il congresso è finito», scherzano. «Ci sono tantissimi giovani, è una novità straordinaria», commenta Franceschini con Jean Leonard Tuadì. «Per fortuna che ci siete»: se lo sentono dire un’infinità di volte. Perché loro, quelli che vogliono ancora credere sia possibile mandare a casa il premier ci sono e hanno invaso la capitale per dimostrarlo. E non sono «un popolo di frustrati»,comequalcuno nel centro destra vorrebbe sostenere, «è un popolo di indignati», precisa Bindi. «Indignazione costruttiva », la definisce Debora Serracchiani. I PARTITI Parecchi striscioni più avanti, sotto il fiume di bandiere Idv, c’è Antonio Di Pietro. Dice che oggi non vuole fare polemica con il Pd e Pierluigi Bersani. Forse lo farà da domani perché le elezioni regionali sono alle porte, le alleanze ballano sul tavolo dei partiti. Idv o Udc con il Pd? Ecco, se ne riparla domani. «Oggi è la prima giornata di resistenza attiva prima di dare la spallata finale a un governo piduista e fascista», dice Tonino. Paolo Ferrero invece fa polemica con il Pd: «Hanno scelto di non aderire, mi sembra un errore grave, ormai l’opposizione la fa il paese». Oliviero Diliberto si gode la piazza «Se ci fosse tutta l’opposizione saremmo ancora più forti, forse il Pd si sarà pentito di nonaver aderito». No, Pierluigi Bersaninon si è pentito. Dice: «Questa gente dimostra che era giustononmetterci il cappello sopra. Al Pd come partito adesso spetta tradurre questa energia contro in un’alternativa a Berlusconi. Ed è quello che faremo». V Euforici i promotori «Ce l’abbiamo fatta» FRANCESCO COSTA La reteÈil giorno più felice della mia vita», dice Gianfranco Mascia ai piedi del palco. Probabilmente è stato anche uno dei più faticosi, e come per lui la stessa cosa si può dire delle tante persone che hanno lavorato all'organizzazione della manifestazione. Il loro 5 dicembre è cominciato quasi all’alba, ma probabilmente è fuorviante parlare di giornate che iniziano e finiscono: da un paio di settimane il lavoro è andato avanti in modo praticamente ininterrotto, tra riunioni, email e telefonate, senza momenti di cesura netta tra un giorno e l'altro. Il primo atto della giornata è stata la gestione degli arrivi: quasi un migliaio di pullman sono arrivati in mattinata da tutte le regioni d'Italia, e per facilitare le operazioni e gli spostamenti gli organizzatori avevano impartito nei giorni scorsi delle istruzioni precise sui luoghi di ritrovo, suddividendoli secondo la regione di provenienza. Unsuccesso anche la gestione del servizio d'ordine, che era stato costituito mettendo insieme un gruppo di volontari reclutati sul web e tra le associazioni e i partiti aderenti. Qualche riunione nei giorni scorsi, una struttura piramidale che assegnava un coordinatore per ogni venti persone e un determinato tratto del percorso per ogni squadra. Tutto tranquillo, comunque: «Non avevamo paura di disordini, ma sappiamo che potevano esserci dei provocatori». Il bilancio finale, naturalmente, è più che positivo. «Sapevamo che non avremmo potuto sbagliare nemmeno una virgola, ce l'abbiamofatta », dicono i promotori mentre scendono dal palco, euforici e senza più un filo di voce. «Quello che chiediamo adesso a tutti i politici che hanno aderito è un impegno concreto sul conflitto di interessi. Nonci fermiamo qui». Insomma, ci hanno preso gusto.

Quando gli storici arriveranno a scrivere la storia dell'opposizione al regime Berlusconi, non c'è il minimo di dubbio che riserveranno un posto di rilievo alla manifestazione di oggi. Nata da nulla, cresciuta in modo del tutto anomalo rispetto alle classiche mobilitazioni partitiche della storia repubblicana, il No Berlusconi Day impone la considerazione di una serie di temi importanti. Uno di questi è lo stato di salute della società civile e la comparazione di questa manifestazione con la sua sorella girotondina di sette anni fa, sempre in Piazza San Giovanni. Un secondo tema riguarda i ceti medi italiani (più di 60% della popolazione), la loro stratificazione e potenzialità alla fine di un decennio di neo-liberismo puro, culminato in una gravissima crisi occupazionale. L'ultimo tema è il rapporto, finora sciagurato, tra società politica e società civile nella sinistra italiana.

Sul primo, colpisce subito l'entrata in scena di una nuova componente della società italiana. I giovani che si sono mobilitati oggi condividono molti dei valori dei girotondi ma sono diversi da loro. I girotondi, cresciuti culturalmente con il '68 e occupati soprattutto nel settore pubblico godevano in gran parte di un lavoro stabile e avevano in media più di quarant'anni. Erano (è lo sono tuttora ) dei ceti medi riflessivi, nel senso che sono capaci di rivolgere uno sguardo critico nello stesso tempo all'evoluzione della modernità e alle proprie attività. Ma essi erano anche economicamente integrati. Lo stesso non si può dire dei giovani che si sono mobilitati oggi. Anche loro sono cittadini critici e attivi ma fanno parte della prima generazione, nella storia della repubblica, a subire in modo massiccio la mobilità sociale discendente. Spesso possono vantarsi anche loro di un capitale culturale alto, ma di un capitale economico pressappoco inesistente. Non hanno lavoro, né prospettive di auto-realizzazione. La loro voce, quella di San Precario per intenderci, è un grido di angoscia ma anche, straordinariamente, di rispetto della legge e della Costituzione.

Il secondo punto: che potenzialità politica hanno questi due strati dei ceti medi, diversi tra di loro per età e reddito ma che oggi si trovano nella stessa piazza (e spesso sotto lo stesso tetto)? Per quanto riguarda i movimenti sociali in generale, troppo spesso si parla di fiumi carsici che scompaiano per anni per poi tornare improvvisamente in superficie. E' una metafora troppo facile e consolatoria. I ceti medi "garantiti" hanno sempre la possibilità di "uscire" dalla sfera pubblica, di ritirarsi nel privato, di auto-congratularsi sul tentativo di cambiare le cose, finito male non per colpa loro. Si può dire la stessa cosa dell'altro ceto, più giovane e colorato di viola? E' troppo presto dirlo. Ma per loro si gioca il futuro stesso. Sono più costretti a stare in trincea da un mercato del lavoro disastroso. Certamente, in un mondo del lavoro così atomizzato ci vuole una grande dose di creatività per poter restare insieme. L'abbiamo vista nella preparazione di questa manifestazione ma non sarà facile sostenere il momentum.

L'ultimo punto riguarda il rapporto con la politica. Si riuscirà questa volta ad evitare le sciagure del 2002-2003, quando i politici di sinistra giocavano, abbastanza cinicamente, a prendere tempo, cooptare qualcuno, ed aspettare che il movimento si sgonfiasse, come puntualmente si è verificato? Allora erano stati persi decine di miglia di cittadini alla politica attiva. Nulla nel comportamento del leadership del Pd promette meglio, questa volta. E non è solo una questione di responsabilità politica. Qui bisogna ripensare le categorie stesse della politica, la connessione tra società civile e partiti, tra democrazia rappresentativa e quella partecipata. Ci vuole della teoria politica all'altezza del momento. Quella vecchia e gloriosa, propria della democrazia, va difesa a tutti i costi, ma ci vogliono anche strumenti nuovi che impediscano che la piazza rimanga piena ed impotente mentre il palazzo si lecca i baffi per l'ennesima volta.

Guardo la carta d’Europa, e sento lo sforzo di quell’appendice geografica di staccarsi dal "corpaccione" asiatico protendendosi vero l’Atlantico e il Mediterraneo.

Un corpo centrale compatto, dalla Polonia alla Francia, lancia al Nord la penisola scandinava (un’Italia malriuscita) e un’esile punta danese; al Sud, una Spagna tozza e una Grecia che va in frantumi.

Al Nordovest si è distaccata la forma piumata dell’Inghilterra, e al centro del Mediterraneo quella di un’Italia chiomata, che si distende restringendosi alla vita e articolandosi alle estremità. A quella figura elegante non si addice l’immagine sgraziata dello Stivale, ma piuttosto quella di una signora, leggiadramente fluttuante sul mare. Una penisola lunga, un po’ troppo lunga, dissero gli Arabi, che la tormentarono per tanto tempo senza riuscire a possederla tutta intera, come del resto tante altre nazioni dominatrici, tranne Roma, che però la immerse in un grande impero.

Di questa un po’ eccessiva lunghezza si tratta qui, e delle vicende che hanno reso, attraverso la storia, tanto problematica e che tuttora, a distanza di centocinquant’anni, insidiano la sua definitiva unificazione.

* * *

Il 1861, anno dell’unificazione del regno, è l’anno in cui si compie il grande moto del Risorgimento. Ma è anche quello in cui esso comincia a invischiarsi nella grande palude dell’"Antirisorgimento".

L’Antirisorgimento si sviluppa, successivamente, in tre forme storiche.

La prima è la corruzione del patriottismo risorgimentale nel nazionalismo aggressivo, che nasce dal gigantesco complesso d’inferiorità di una piccola borghesia frustrata da secoli di servitù. Cavalcando la denuncia delle fragili istituzioni democratiche create dal nuovo Stato, esso precipiterà il paese nel massacro di una guerra mondiale e nell’avventura retorica e populista del fascismo. La nazione mussoliniana è l’antitesi della patria mazziniana.

Là dove quella era concepita come parte di un generale affratellamento dei popoli europei e di un grande moto di solidarietà sociale, questa è l’espressione del primato militarmente aggressivo, e socialmente oppressivo, di un’élite violenta e dissennata.

La seconda consiste nel condizionamento dello Stato italiano da parte della Chiesa cattolica e della sua massiccia presenza a Roma. Che lo si voglia riconoscere o no, in Italia esistono due sovranità, non una: la sovranità nazionale è limitata da quella ecclesiastica. Si può fingere di non vedere. Nondimeno questa è la realtà che si esprime nei Concordati, e che tutti i discorsi sull’armonia tra le due istituzioni non riescono a dissimulare.

La terza è la questione meridionale. Il carattere antirisorgimentale di conquista del Sud da parte della monarchia sabauda si rivela immediatamente dopo che le camicie rosse sono scomparse, sostituite dalle uniformi blu dei soldati del re, nella cosiddetta «guerra del brigantaggio»: in realtà, una repressione violenta delle plebi contadine, schiacciate con la connivenza dei baroni.

È proprio nella fase più avventurosa del Risorgimento, quella rappresentata dall’unificazione con il Sud, che un’impresa nata sotto l’insegna della liberazione si corrompe in mera conquista, segnando tra le due parti del paese un solco fatale, che i tanti sforzi successivi non riusciranno a colmare.

Se, con un nuovo salto storico, approdiamo ai giorni nostri, dobbiamo domandarci quanta parte di queste tre minacce insidi ancora il nostro paese, a centocinquant’anni dal compimento della sua unità.

Certo, la minaccia fascista è scomparsa; anche se non ne è affatto scomparsa la nostalgia, che si manifesta attraverso una continua campagna di denigrazione di quel secondo Risorgimento che è stato rappresentato dalla Resistenza. Al posto del fascismo, tuttavia, si è installata nel popolo italiano un’altra forma di ripugnanza per le istituzioni della democrazia, un "anti-antifascismo" che non fa appello alla retorica nazionalista, ma a un’altra forma di populismo privatistico, non più trascendente nel sentimento patriottico, ma nel tifo calcistico.

Tutt’altro che scomparsa è la seconda insidia, quella del protettorato cattolico, che trae dal neoguelfismo una tradizione illustre.

E infine, l’insidia più grave, conseguenza del fallito compimento dell’unità, è quella costituita dalla decomposizione, presente al Nord in forme tutto sommato pacifiche, anche se bizzarramente provocatorie, e incombente al Sud nella secessione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere della Repubblica.

Questa è la vendetta suprema dell’Antirisorgimento che il paese, a centocinquant’anni dall’unificazione, deve fronteggiare. Sarebbe triste se le sue speranze di superarla fossero tutte affidate a un’Unione Europea cui, anziché offrire l’esperienza di una ricca tradizione di diversità, si fosse costretti a chiedere di tirare la carretta di una penisola troppo lunga e sconquassata.

Ma una speranza, per quanto controversa, c’è.

L’assicurazione contro le calamità naturali per tutte le case italiane infilata nel decreto di riorganizzazione della Protezione civile in discussione oggi al Consiglio dei ministri, rischia di diventare un grande affare per pochi e l’ennesimo balzello scaricato sulle spalle di molti. Perché il governo intende rendere obbligatoria la polizza, apprestandosi a ripetere con gli immobili l’operazione fatta a suo tempo con l’Rc auto. Ma se per le automobili e le moto l’introduzione dell’obbligo era in parte giustificata dalla necessità generale e sociale di impedire che per le strade circolassero individui irresponsabili privi di copertura che una volta causato l’incidente non avrebbero saputo a chi santo votarsi per risarcire i danni, con gli immobili questa esigenza è del tutto assente. Non a caso contro la polizza obbligatoria per le case è schierato un fronte ampio, dalle associazioni dei consumatori all’Antitrust alle organizzazioni dei proprietari come la Confedilizia.

In ballo ci sono interessi corposi. Secondo la stima probabilmente al ribasso fornita dalle stesse compagnie di assicurazione il costo medio della polizza per ogni singola abitazione sarebbe di circa 180 euro all’anno. Considerando che le case in Italia sono più di 27 milioni (censimento Istat), il costo complessivo dell’assicurazione-casa sfiora i 5 miliardi, soldi che usciranno dalle tasche delle famiglie per transitare in quelle delle compagnie. Le più interessate alla faccenda sono le solite: Generali, Ina-Assitalia, Toro, Fondiaria-Sai, Mediolanum.

Sono anni che tutte quante girano intorno all’osso della polizza anticalamità non riuscendo a ottenere da governo e parlamento l’ok definitivo per una ragione o per l’altra. Questa volta, invece, le probabilità che sfondino sono molte perché l’esecutivo Berlusconi ha inserito la novità in una bozza di decreto che, secondo autorevoli indiscrezioni, quasi sicuramente andrà in porto. In primo luogo perché il provvedimento si inserisce sulla scia dell’emozione per il terremoto d’Abruzzo, e poi perché il testo ha già avuto il placet di due tra i collaboratori più ascoltati dal capo del governo in materie di questo tipo: il responsabile della Protezionecivile, Guido Bertolaso, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta.

Favorire l’introduzione di una copertura assicurativa sugli immobili contro le calamità magari anche attraverso incentivi fiscali può essere un obiettivo condivisibile, entro certi limiti e a determinate condizioni. L’insistenza sull’obbligatorietà, però, sta rendendo l’operazione indigesta. In un pareredepositato il 20 novembre di 6 anni in occasione di una proposta simile elaborata a quel tempo, l’Antitrust aveva già espresso tutta la sua contrarietà: “L’imposizione di un obbligo assicurativo contribuisce a irrigidire la domanda dei consumatori che saranno indotti ad accettare le condizioni praticate dalle imprese anche quando le considerano particolarmente gravose”. In pratica l’obbligatorietà della polizza favorisce un patto leonino a svantaggio dei cittadini.

Ovvio che le associazioni dei consumatori siano nettamente contrarie. Per il presidente di Assoutenti, Mario Finzi, per esempio, «far pagare un premio assicurativo a chi vive in zone non a rischio diventerebbe una vera e propria tassa sulla casa». Dal momento poi che il decreto del governo prevede l’intervento dello Stato “in qualità di riassicuratore di ultima istanza per la parte di danno eccedente la capacità annua complessiva del sistema assicurativo privato” ecco che si profila anche la possibilità di una gigantesca privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. Su questo aspetto si incentrano le critiche di Federconsumatori ed Adusbef: “Non vorremmo che i profitti derivanti dall’obbligatorietà delle polizze vengano incassati dalle imprese, mentre i rischi siano assunti dallo Stato”.

Nettamente contrario alla polizza obbligatoria anche Corrado Sforza-Fogliani, presidente Confedilizia, la più grande associazione di proprietari di case, in genere molto benevola con le decisioni di questo esecutivo. “Il governo non trova 200 milioni per risolvere il problema degli affitti ai disagiati e nel contempo prepara un provvedimento per la polizza obbligatoria anticalamità” accusa Sforza-Fogliani. La conclusione è dura: “Il governo non fa quello che era nel programma della maggioranza e fa, invece, quel che non era nel programma. In entrambi i casi ne fanno le spese, oltre che gli inquilini, i condomini e i proprietari di casa”. Secondo il presidente Confedilizia l’introduzione della polizza in alcune zone del paese funzionerebbe, inoltre, come una doppia tassa in aggiunta a ciò che i cittadini già pagano per lo stesso scopo ai Consorzi di bonifica. Nel 2008 gli italiani hanno sborsato a questi enti più di 500 milioni, con punte di contribuzione in Emilia, Toscana, Veneto e Lombardia.

Avevano tentato a luglio la via ordinaria del disegno di legge per consultare il Parlamento, poi la retromarcia improvvisa, eppure il progetto era scritto e già benedetto da Ignazio La Russa. Il passaggio della Finanziaria al Senato, superate le forche caudine della Commissione e l’opposizione del Pd, spazza via qualsiasi dubbio: si può fare, entro dicembre sarà costituita la società “servizi Difesa spa”. Nel testo ora in discussione alla Camera, prima dell’approvazione definitiva della legge di bilancio, all’articolo 2 il progetto è descritto senza velature: “Ai fini dello svolgimento dell’attività negoziale diretta all’acquisizione di beni mobili, servizi e connesse prestazioni strettamente correlate allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’amministrazione della difesa e non direttamente correlate all’attività operativa delle forze armate, compresa l’Arma dei carabinieri, da individuare con decreto del ministro della Difesa di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze... nonché delle attività di valorizzazione e di gestione, fatta eccezione per quelle di alienazione, degli immobili militari, da realizzare anche attraverso accordi con altri soggetti e la stipula di contratti di sponsorizzazione, è costituita la società per azioni denominata “Difesa Servizi Spa”, con sede in Roma. Il capitale sociale della società di cui al presente comma è stabilito in 1 milione di euro e i successivi eventuali aumenti del capitale sono determinati con decreto del ministro della Difesa, che esercita i diritti dell’azionista”. Questa è la struttura portante, semmai dei ritocchi potrebbero cambiarne la fisionomia, ma nella sostanza siamo dinanzi a una spa con azioni interamente sottoscritte dalla Difesa, ma con un vero consiglio di amministrazione – di nomine ministeriali – con uno statuto più o meno variabile. Da quel cda passeranno contratti di sponsorizzazione, compravendita immobiliare, conversione a nuovo uso di aree militari dismesse, penitenziariabbandonati. Circa cinque miliardi di euro da amministrare. Quel che preoccupa, e che l’onorevole Rosa Villecco Calipari ha denunciato in commissione, riguarda la possibilità di gestire in aree di demanio militare – quindi sottratte al controllo di organi amministrativi e istituzioni – impianti energetici: ovvero centrali nucleari e termovalorizzatori. E in tema di privatizzazioni, almeno in senso giuridico, nel prossimo Consiglio dei ministri sarà approvato il decreto legge che istituisce la Protezione civile spa. La bozza è stata consegnata ieri a Palazzo Chigi. Tutto pronto. Nonostante il ministro Tremonti sia scettico sull’operazione.

Data storica, oggi, per l'Unione europea: insieme con il Trattato di Lisbona entra in vigore anche la Carta europea dei diritti, siglata nove anni fa, dicembre 2000, dopo un percorso non poco accidentato, e accolta, nella sinistra italiana, con alterne valutazioni. Festeggiamo l'evento con Stefano Rodotà, che della Carta è stato fra gli estensori ed è convinto sostenitore.

Rispetto al 2000, quando la Carta fu licenziata, il contesto europeo in cui oggi entra in vigore è migliorato o peggiorato, dal punto di vista della politica dei diritti?

Fra allora e oggi c'è di mezzo l'11 settembre 2001, con le tensioni securitarie che ha scatenato in tutto il mondo, Europa compresa. D'altra parte, sulla politica dei diritti ha pesato in Europa positivamente la spinta di Zapatero. Complessivamente direi che c'è un lieve peggioramento, per questo e a maggior ragione la Carta diventa più importante. Oggi comincia una nuova partita, con una doppia sfida, politica e culturale.

In un'Europa che va visibilmente a destra, e che si è data un vertice evidentemente di basso profilo?

Dal punto di vista degli assetti politici e di governo, l'avvio della nuova stagione europea non è certo esaltante. Resta vero che l'Europa è un gigante economico e un nano politico, che l'Unione «non ha un numero di telefono» e non è una potenza militare. Ed è vero che la coppia Van Romuy - Lady Ashton è debole - la situazione non sarebbe stata migliore con Blair, che sulla Carta dei diritti ha sempre espresso pesanti riserve e come inviato in Medioriente ha dimostrato una capacità politica pari a zero, mentre sarebbe stata certamente migliore con D'Alema, che nel ruolo di Mr. Pesc sarebbe riuscito a dare un segno positivo alla politica estera dell'Unione.

Nomine a parte, pensare che nella temperie internazionale di oggi l'Europa possa ambire a un ruolo politico e militare di peso rispetto alle vere superpotenze è del tutto irrealistico. Ma se ha una chance, questa sta proprio nella cultura e nella politica dei diritti. L'Europa è la regione del mondo dove la tutela dei diritti è più alta, e questa è una risorsa da giocare e far valere sulla scena internazionale, dove infatti la Carta è già diventata un punto di riferimento. Oggi che le grandi narrazioni novecentesche sono finite, l'unica narrazione che percorre il mondo globale è quella dei diritti fondamentali. Il dissidente birmano, il ragazzo cinese, la donna africana che rivendicano diritti vecchi e nuovi sono i protagonisti di un universalismo tendenziale che si afferma a partire dalla lotte sul campo. In questo processo, un'Europa che sappia mantenere e giocare la sua cultura del diritti oltre l'impronta eurocentrica che storicamente li connota può avere sì un ruolo importante.

Nella sinistra radicale italiana molti hanno obbiettato in questi anni, anche sul 'manifesto', che la Carta europea, soprattutto in materia di diritti sociali, istituisce tutele inferiori a quelle della nostra Costituzione.

Ora che la Carta entra in vigore, spero che queste polemiche ce le lasceremo alle spalle. Certo, possiamo decidere di continuare a rimarcare che sui diritti sociali la Carta è più debole della Costituzione, o viceversa, che è più forte e più avanzata nel campo dei diritti afferenti alla biopolitica (sovranità sul corpo, sui dati sensibili etc.). Ma ci conviene continuare con questa contabilità, o c'è un'altra strada da prendere? Io dico che c'è. Il fatto stesso che la Carta esista, che siamo riusciti a vararla contro le resistenze dei paesi più conservatori e più liberisti, ha profondamente intaccato il principio di legittimazione originario della Ue, che era incardinato solo sulla logica di mercato. Con la Carta si è stabilito che tutti gli atti normativi della Ue devono essere ad essa conformi.

Lo sono stati, in questi nove anni?

Sì e no. Ma intanto, le corti l'hanno presa a riferimento, e proprio sui diritti sociali: il primo caso su cui è stata invocata riguardava la retribuzione delle ferie di un lavoratore inglese. Comunque, se fino a oggi si poteva scrivere impunemente «conforme alla Carta dei diritti» su una direttiva Ue non conforme, da oggi in poi diventa possibile invocare il controllo della corte di giustizia. Lo so anch'io che il campo dei diritti sociali è quello meno risolto nella Carta, e sono il primo a soffrire, ad esempio, della mancanza di una affermazione della funzione sociale della proprietà. Ma sia su questo, sia sulla limitazione dell'iniziativa privata, sia sulla qualità dello sviluppo, la struttura assiologica della Carta, che comprende i principi della dignità, dell'uguaglianza, della libertà e della solidarietà, consente ottimi sviluppi. E certamente apre un campo di battaglia: purché la sinistra ci creda e sia pronta a giocare la partita, senza trincerarsi dietro l'assioma che il liberismo ha vinto. Io non gliela voglio dare vinta, voglio combattere, le condizioni ci sono. Finora i giuristi sono stati i più aperti al cambiamento, ora tocca anche agli altri.

Dicevi dei nuovi diritti «biopolitici». Avranno delle conseguenze sulla legislazione italiana?Per cominciare, la tutela dei dati personali metterà dei paletti alle norme securitarie, in Italia e altrove. L'articolo che recita «il corpo e le sue parti non possono costituire oggetto di profitto» è carico di conseguenze. Altro esempio, l'articolo sul vincolo familiare, che elimina la superiorità del matrimonio rispetto alla convivenza, nonché il requisito dell'eterosessualità: l'Italia e gli altri stati nazionali potranno solo «disciplinare l'esercizio» di questa norma, non violarla. Non a caso contro questo articolo la pressione del Vaticano è stata durissima, come pure su quello che limita l'obiezione di coscienza.

L'Europa è attraversata da conflitti di ogni tipo sulla religione e il suo esercizio. Da una parte c'è la sentenza della corte di Strasburgo contro l'esposizione del crocifisso nelle scuole, dall'altra in Svizzera (che non fa parte della Ue, ma dà pur sempre un'indicazione di clima) votano contro i minareti e in Italia la Lega vuole la croce sulla bandiera ...

Per la sentenza sul crocefisso la corte non a caso ha fatto riferimento alla Carta. Che rubrica la libertà di religione e di manifestazione individuale e collettiva, pubblica e privata del culto assieme alla libertà di pensiero, senza conferire alla prima alcun piedistallo. Come pure il rispetto delle diversità religiose sta assieme a quello delle diversità culturali e linguistiche. C'è insomma un riconoscimento laico, secolarizzato, della religione. Alcuni vedono un cedimento sul terreno della laicità non nella Carta ma nel Trattato, che all'art.. 17 parla di dialogo fra le chiese e le istituzioni. Ma la Carta fornisce il quadro normativo necessario per contenerlo nei limiti di una Europa laica e secolarizzata. Purché, lo ripeto, alle norme segua la politica. Il diritto può disegnare un quadro di agibilità, ma poi sta alla cultura politica raccoglierne l'opportunità e la sfida.

Nel raccontare la paura dei grattacieli che tremano in Dubai, i guru dell’economia dimenticano qualcosa: Dubai non è un paese, ma un mercato provvisorio. Dietro le vetrine, niente. Anche la vocazione commerciale è una leggenda del teatro dell’imbroglio. Quando il petrolio finisce, la globalizzazione trasforma i suk dei mercanti indiani (oro e perle) in padiglioni mastodontici dove tutto costa la metà. Trent’anni fa anni diventa paese di servizio per accogliere capitali da risciacquare. Nell’ultimo viaggio mi sono chiesto che senso ha concentrare tecnologie sofisticate, informatica e laboratori in un deserto bollente.

Si può insabbiare il deserto in una Disneyland per adulti schiacciati dai 40 gradi? Manca l’acqua, ron ron dei desalinizzatori: un litro d’acqua costa più di un litro di whisky. Accanto ad ogni aiuola un’ombra del Bangladesh, pompa in mano, giorno e notte. Chilometri di aiuole nell’illusione della primavera di plastica. Il campo da golf più lungo del mondo – Tiger Woods Gold Course – asciuga 16 milioni di litri al giorno. Ma il mare è inquinato e i filtri non ce la fanno: erba che ingiallisce, acqua potabile sempre peggio. La follia di questo verde costosissimo non è solo il consumo astronomico dell’energia per l’irrigazione, la follia sono i battaglioni di emigranti attorno a battaglioni di piante rachitiche. Dietro ogni cespuglio, un extra arabo.

E per mantenere la tradizione che non c’è più, Dubai ed Emirati passano un sussidio a chi in giardino alleva dromedari. Importazione di vasche da bagno: mangiatoie. L’erba arriva dal Pakistan. E nuove spese per mantenere in forma delle navi del deserto grasse come maiali: somali che li fanno correre. I padroni di casa sono meno di 300 mila. Un milione e 200 mila vengono da fuori. Yemenita il tassista che mi carica in albergo. Libanese chi controlla il biglietto. Fra i banchi di scuola e negli ospedali, laureati palestinesi. Voglio sapere dalla ragazza filippina, bar aeroporto: le piace stare qui? Gira gli occhi attorno, orientale guardinga: “A lei piace?”, risponde. Non mi piace. Sospira sollevata. “Un posto terribile. Alberi falsi, contratti di lavoro falsi, isole false. Non è un paese, un’illusione”. Chi fa i raggi alla valigia è egiziano. L’hostess olandese mi accompagna alla poltrona dell’airbus Emirate Airlines. Il pilota inglese annuncia il decollo appena i sudanesi delle pulizie fermano le scope. In fondo alla pista muratori sudcoreani sistemano la torre di controllo. Nella kufia beduina c’è scritto made in Taiwan.

Ma è un islam addolcito. Se in Arabia Saudita mogli e mariti possono frequentare la piscina dell’albergo solo in giorni diversi, a Dubai è permessa la trasgressione del bagno assieme. L’aereo cammina verso la partenza. Angeli custodi, militari pachistani. Sull’Awacs-spia bandiera Usa. Paese lavanderia, specie di Las Vegas dove Berlusconi si è adagiato in visita ufficiale con un occhio agli affari di famiglia. Emiro che può diventare azionista del Milan; Cavaliere che forse prende casa in un’oasi artificiale, cascate e laghetti desalinizzati. Ecco il Dubai, spazio simbolo della finanza che nasconde i milioni nella sabbia come la spazzatura proibita nei deserti africani. Follia che deve continuare altrimenti le banche si ammalano. Il miliardo degli affamati dimenticati dalla globalizzazione non può pretendere di deprimere un paradiso così.

Puntuale come un meccanismo ad orologeria arriva l’attacco alla Einaudi: una volta alla sua pervicace, quasi massonica pretesa di egemonismo; un’altra alla sua forsennata ambizione di governare il Partito (comunista, s’intende); un’altra alla sua cedevole disponibilità a farsene governare; un’altra ancora alle scelte presuntuosamente aristocratiche dei suoi redattori ed autori (gli uni e gli altri, il più delle volte, con un’insopportabile puzza sotto il naso). Questa volta l’attacco è mosso direttamente al suo fondatore ed eroe eponimo, Giulio Einaudi, appunto, responsabile, più che di aver creato la Casa editrice che ne porta ancora il nome (come sarebbe giusto), di averla disfatta. Strano: l’autore dell’attacco è una persona che conosco come seria e posata, Gian Arturo Ferrari, che per ragioni di età lascerà la carica di direttore della divisione libri della Mondadori ed ha assunto quella di presidente del Centro per il libro e la lettura, giustamente offertagli dal Ministro Bondi. Ma tant’è. Un colpo di vento può capitare a chiunque.

Nel merito si possono fare, sinteticamente, tre ordini di considerazioni. Il primo è: l’«egemonia culturale» è come il coraggio, chi non ce l’ha, non se la può dare. Se fra gli anni ‘40 e i ‘70 questa egemonia l’ha avuta indiscutibilmente la Einaudi, invece di esorcizzare bisognerebbe capire. Per carità: questo non significa che nel campo dell’editoria culturale in Italia nel medesimo periodo (o quasi) non ci sia stato altro. Basta fare i nomi, per giunta a me cari sia in passato sia oggi (e credo di averlo dimostrato) di Laterza e Feltrinelli, per rendersene conto. Ma è un’altra cosa. Egemonia culturale vuol dire praticare sistematicamente le strade che, insieme con il prodotto librario, percorrono le tendenze di ricerca più vive e più di avanguardia nel proprio paese e nel mondo. Questo ha fatto in Italia la Einaudi: andare alla ricerca delle tendenze culturali più vive e più di avanguardia, ospitarle e a sua volta alimentarle. Evidentemente è questa la colpa non irrilevante che le si rimprovera oggi, dove è dominante la rincorsa all’appiattimento e alla mediocrità.

Secondo: quando si attacca la Einaudi per l’uno o per l’altro dei motivi sopra ricordati, e per altri ancora, io provo sempre l’impressione che, al di là di quella sigla editoriale, s’attacchi il meccanismo culturale che essa ha largamente praticato e che in generale va oggi incontro a difficoltà d’ogni genere. Bisogna invece ribadire questo punto: l’editoria che guarda al grande mercato non può, non potrà mai svolgere le funzioni che svolge l’editoria culturale. Anche in questo caso, certo, le eccezioni non mancano. Una collana come "I Meridiani" è culturalmente ammirevole, ma è un’altra cosa. La ricerca delle nuove strade si è svolta necessariamente altrove: in Einaudi, appunto, e, come dicevo, altrove.

Terzo: la figura del fondatore ed eroe eponimo, Giulio Einaudi. Non mi verrebbe mai in mente di definirlo megalomane: se mai, eccezionale, uno che ha pensato in grande dall’inizio alla fine della sua vita. Se vogliamo esser precisi fino in fondo, anche sul piano storico, dovremmo dire infatti che le due «grandi opere», che per sua scelta caratterizzano il passaggio fra gli anni ‘70 e gli ‘80, e dunque preludono alla crisi, - e cioè la Storia d’Italia e l’ Enciclopedia, - sono andate incontro a riuscite economiche molto dissimili (ottime la Storia, molto mediocri l’Enciclopedia), senza che di ambedue si possa mettere in dubbio il carattere pionieristico e fondativo (sul quale, per richiamare l’attenzione in concreto sul nesso editore-intellettuali-ricerca, ebbero un ruolo di primaria importanza due studiosi del calibro di Corrado Vivanti e Ruggiero Romano). Osserverò di sfuggita che l’anno medesimo della Grande Crisi usciva il primo volume della Letteratura italiana, cui si possono attribuire molti difetti, ma non quello di non essere andata benissimo sul mercato, anche in tempi molto difficili. Forse a spiegare la Grande Crisi servirebbe di più richiamare la folle corsa al rialzo degli interessi bancari fra i ‘70 e gli ‘80 che non la megalomania egemonistica del fondatore.

Ma veniamo brevemente al presente. Che bisogno ci sarebbe di attaccare così veementemente la Einaudi del passato se la Einaudi di oggi fosse un cane morto da seppellire, una sorta di scheletro vuoto intorno al quale danzare il rito dell’addio? La mia tesi è che non è così, e questo è forse ciò che spiega la durezza e l’insistenza degli attacchi. Nella mia esperienza la Casa editrice, - voglio esser chiaro: tutta la Casa editrice, dagli Amministratori delegati nominati dalla proprietà, e forse vittime di un rapido processo d’innamoramento, allo staff redazionale ai tecnici, - si è battuta in questi anni per continuare quella tradizione: cioè per restare, - non trovo altro modo per dirlo, - nel solco scavato un tempo da Giulio Einaudi (con il necessario rispetto, ça va sans dire, del nuovo e dell’imprevisto). Ci riesce? Ci riesce sempre? Fino a che punto ci riesce? Questo sarebbe un discorso più serio: ma è quello che si fa continuamente nella Casa editrice, e accanto a lei. Ritorna il sospetto già manifestato: forse è questa la Giulio Einaudi editore che dà fastidio, non quella di trenta-cinquant’anni fa. Se è così, lo sapremo presto.

Pochi giorni fa l’amministrazione di una località in provincia di Mantova, governata da una coalizione Lega-Pdl, ha invitato i cittadini, con manifesti eloquenti, a denunciare i clandestini che risiedono entro i confini comunali.

D’altronde, un’esortazione analoga era stata rivolta ai medici ospedalieri, in una versione preliminare del "pacchetto sicurezza" presentata dal governo. Segni di una marcia inarrestabile, che conduce - anzi: ci ha già immersi - in un mondo nuovo. La società spiona. Che tutti sono chiamati a costruire, rafforzare, estendere. In nome della sicurezza. È strano, questo orientamento, perché contrasta con il pensiero unico dell’epoca, che ha come riferimenti la libertà e l’individuo. Riassunti nella libertà individuale. Ancora oggi, reclamata come valore irrinunciabile della nostra civiltà. Liberale (appunto) e liberata da ogni totalitarismo. Tanto più dopo il passaggio dalla comunità tradizionale alla metropoli. Fino alla nascita della "società in rete", di cui parla Manuel Castells. Dove le relazioni avvengono a distanza, senza vincoli di spazio e di tempo. A dispetto di ciò, oggi il paradigma dominante si ispira alla sicurezza. Reclama il controllo sociale. Affidato non più alla comunità, ma agli individui stessi. Oppure allo stato. O ancora: al mercato.

Ciascuno è, dunque, chiamato a difendere se stesso, la famiglia: dagli altri, da ogni altro. Mentre, fra i cittadini, c’è ampia disponibilità a delegare alle istituzioni pubbliche e ad agenzie private il compito di difenderli. A costo di cedere porzioni crescenti della nostra libertà personale. D’altronde, il territorio desertificato delle nostre infinite periferie urbane è controllato dai sistemi di videosorveglianza. Telecamere dovunque, che registrano i nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci spiano e filmano tutti, dappertutto. Davanti agli sportelli bancari, nei supermercati, nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all’aperto. Senza sollevare grandi timori, fra i cittadini. Al contrario. Come rileva un’indagine di Demos-Unipolis, condotta nelle scorse settimane (per l’Osservatorio su "Sicurezza, percezione e informazione"), circa nove italiani su dieci sono favorevoli ad "aumentare la sorveglianza con telecamere in strada e nei luoghi pubblici". Circa uno su due: a "consentire al governo di monitorare le transazioni bancarie". Infine, uno su tre: a "rendere più facile per le autorità leggere la posta, le e-mail o intercettare le telefonate senza il consenso delle persone". Insomma, spioni e spiati, senza troppa angoscia, senza troppi dubbi. È il clima del tempo. Favorito dai media e dalle tecnologie. Evocare Orwell è fin troppo facile. Visto che il Grande Fratello è divenuto un format televisivo di successo globale. Archetipo di tutti i reality show. Il GF, dove i concorrenti stanno rinchiusi in una casa, ciascuno da solo contro tutti gli altri, come ha osservato Bauman. Mentre il mondo fuori li spia, a (tele) comando. Una società allo specchio, fatta di spettatori che apprendono l’arte di arrangiarsi, di guardare e di guardarsi. Dagli altri. Non a caso 7 italiani su 10 dicono che occorre cautela nel rapporto con gli altri; che ti potrebbero fregare (sondaggio Demos, novembre 2009). Dunque: ciascuno per proprio conto. Sottoposto a un "controllo continuo", in un presente istantaneo e dilatato (per evocare Deleuze). D’altronde, le nuove tecnologie della comunicazione rendono possibile ogni intrusione nel privato, immediatamente (senza mediazione). E lo rendono, anzi, di pubblico dominio. Ogni cellulare è dotato di videocamera e di apparecchio fotografico. Per cui ciascuno può riprendere chiunque, in ogni luogo. Riversarne le immagini in rete. In tempo reale. E tutti possono essere spiati e ascoltati ovunque, da soggetti pubblici ma anche privati. Per motivi di sicurezza, ma anche di interesse. Visto che le informazioni private e personali hanno un valore di mercato crescente.

Così avviene il paradosso della perdita di libertà prodotta dalla conquista della libertà. Perché la comunicazione è libertà, Internet è libertà. Come è possibile ribellarsi, opporsi, semplicemente criticare: senza apparire "nemici" della libertà? Nostalgici del tempo passato? Tuttavia, lo sconfinamento fra società della comunicazione e della sorveglianza; fra società in rete e spiona: è continuo e pervasivo. Questa tendenza ha da tempo contaminato la politica. Basta pensare, per ultimi, ai grandi "affaires" degli ultimi mesi. Berlusconi, Marrazzo. Fino alle indiscrezioni sulla Mussolini. Filmati, video, telefonate, servizi fotografici. Chissà quanti altri capitoli in preparazione o già predisposti, sul punto di irrompere, in questa saga della società spiona. Che ha, da tempo, un organo ufficiale autorevole, pubblicato - ovviamente - in rete, la cui testata recita - ovviamente - DagoSpia.

Così rischiamo di scivolare, rapidamente, lungo la deriva delatoria senza accorgercene. E di subirla senza quasi combattere. Assuefatti, più che sopraffatti.

Spinti dalla "società spiona", dove i confini tra privato e pubblico, fra noi e gli altri si confondono, anche nella vita quotidiana. Dove ciascuno si rinchiude nel (e si maschera da) privato anche in pubblico; quando è con gli altri. Dove ciascuno è osservato dagli altri e sorvegliato dal pubblico, anche nel privato. Quando si illude di essere solo. Dove tutti ? o quasi ? indossano occhiali scuri. Non per difendersi dalla luce abbagliante. (Molti li portano anche di sera, perfino di notte). Ma dagli altri. Per guardare senza essere guardati. Per puntare gli occhi sugli altri senza che gli altri possano vedere i nostri occhi.

La società spiona: in nome della sicurezza rischia di trasformarci in nemici. Non solo degli Altri. Ma anche di noi stessi.

Da qualche tempo son molti i politici italiani che pretendono d’aver abbandonato ogni falsità, d’aver infine compiuto l’intrepido gesto che sfata le ipocrisie, d’aver imboccato la via stretta della verità. Dopo parecchio vagare ammettono che in questione non è più l’agire del governo ma il privato destino d’un presidente del Consiglio che non è protetto da processi pendenti, e che potrebbe essere indagato per concorso in stragi mafiose.

Sentono che la terra trema sotto Palazzo Chigi e dicono, come Casini, che è inane sfasciare la giustizia pur di sbrigare un caso singolo: meglio «eliminare le ipocrisie» e riconoscere che serve una legge, la decisiva, per «salvaguardare Berlusconi». La Corte Costituzionale gli ha negato l’immunità, ma egli ha pur sempre vinto le elezioni e deve poter governare: diamogli dunque lo scudo che cerca, visto che alternative non ci sono.

Nella sostanza è il discorso di Berlusconi che vince: la magistratura impedisce alla democrazia di funzionare, quindi è eversiva. È in atto una guerra civile, insinua: uno spettro che in Italia tacita in special modo gli ex comunisti.

Le cose potrebbero tuttavia non stare così, e ci si può chiedere se uscendo da un’ipocrisia non si entri in un nuovo gioco mascherato, che vela anziché svelare. Chi ha detto che l’unica via sia lo scudo immunitario?

L’altra via stretta è la possibilità che Berlusconi si difenda non dai processi ma nei processi, come Andreotti. O la possibilità che il ceto politico tragga le conseguenze, allontanando un leader non condannato ma debilitato da troppi processi e congetture. È accaduto per molti dirigenti in molte democrazie occidentali. Quel che sorprende in Italia è che quest’alternativa, se si esclude Di Pietro, nessuno la propone: subito è detta sovversiva. Essa non presuppone il governo dei giudici, o addirittura dei pentiti. La decisione spetta alla politica, e se questa tace o s’accuccia, c’è solo la voce dei magistrati, per quanto sommessa, a esser udita. L’altra cosa sorprendente è che la tesi sul contrasto tra voto popolare e legalità intimidisca più l’opposizione che la destra.

Su questo giornale, il 23 novembre, c’è stata una presa di posizione forte, di Fabio Granata che è vicepresidente della Commissione antimafia e fedele di Fini, contro chi scredita i processi di mafia. Intervistato da Guido Ruotolo, Granata denuncia il «berlusconismo che rischia di cancellare la nostra identità: quella di chi crede nei valori della legalità, dell’antimafia, della giustizia, del senso dello Stato». Nel Pdl, egli è «guardato come un appestato», «accusato di essere giustizialista».

Ciononostante resiste: «Ho visto la gente impazzita di rabbia e dolore ai funerali di Paolo Borsellino, che (...) faceva parte della famiglia missina. Quella enorme e disperata domanda di giustizia l’ho tenuta nel cuore e per questo non potrei non sostenere chi dal ’92 cerca irriducibilmente di affermarla. Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino. Liberare l’Italia dalle mafie dovrebbe rappresentare il primo punto all’ordine del giorno dell’azione di qualsiasi governo». Granata non ritiene colpevoli Berlusconi e Dell’Utri ma approva le inchieste di Palermo, Caltanissetta, Firenze (le procure che investigano sulle stragi del ’92-’93). Loda il «lavoro tenace» del giudice Antonio Ingroia (il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sul patto Stato-mafia): «Lo ricordo perfettamente accanto a Paolo Borsellino, quel giorno alla sala mortuaria per riconoscere il corpo maciullato di Falcone».

La cosa strana non è che queste parole vengano da destra. Borsellino era vicino alla destra, e quest’ultima ha una lunga tradizione di lotta alla mafia, a causa del senso dello Stato acuto (a volte sfrenato) che la anima. Ci fu l’attività di Cesare Mori in Sicilia, fra il 1924 e il ’29: attività peraltro ostacolata da dignitari fascisti che temettero il suo assedio. Apparteneva alla destra storica il senatore Leopoldo Franchetti, il primo che perlustrò il fenomeno mafioso, scrivendo nel 1876 un rapporto sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: un classico sulla malavita. Apparteneva alla destra storica Emanuele Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia che volle far pulizia e fu ucciso dalla mafia il 1° febbraio 1893. Il mandante era un senatore mafioso, processato e poi assolto.

Strano è il cedimento-fatalismo dell’opposizione, al centro e nel Pd. Ambedue vedono la legislatura divorata dai guai giudiziari d’un singolo, ma nell’essenza si dichiarano imbelli. È come se ritenessero del tutto impensabile una contromossa della politica che non sia l’accomodamento, o come diceva Gaetano Mosca nel 1900: il «lasciar andare, la fiaccona». Come se dicessero: il leader non può governare e il dilemma si risolve non ricongiungendo democrazia e legalità, ma disgiungendole. Fondando il primato della politica non su atti trasformativi, ma tutelativi.

Forse senza rendersene conto, il Pd interiorizza l’alternativa democrazia-legalità. Martedì a Ballarò Luciano Violante ne è parso prigioniero: da una parte la democrazia, dall’altra la legalità. Ha mancato di ricordare che le due cose o sono sinonimi, oppure non si ha né democrazia né legalità. Voleva probabilmente dire che non sono i giudici a far cadere un governo, tanto meno i pentiti. Ha finito col dire che non è neppure la politica (partiti, parlamento) a poterlo fare. Torna a galla l’idea leninista secondo cui la democrazia sostanziale può confliggere con quella legale. È una fortuna che Napolitano abbia detto in modo chiaro, venerdì, che spetta invece a politica e parlamento sanare i presenti squilibri.

Tutto questo avviene forse perché le indagini su politica-mafia sono a una svolta. Si accumulano verbali sempre più sinistri, che legano Berlusconi e Dell’Utri alle stragi. Ce n’è uno in particolare, quello del pentito Romeo, secondo cui nei primi ’90 «c’era un politico di Milano (il nome fattogli dal pentito Spatuzza è Berlusconi) che aveva detto a Giuseppe Graviano (un capomafia) di continuare a mettere le bombe», indicando perfino «i siti artistici dove metterle». I verbali non inducono ancora la magistratura a aprire un’indagine, ma la loro portata è oltremodo conturbante. Un sospetto malefico pesa sul presidente del Consiglio: che oltre al conflitto di interessi economici, ne esista un altro che lo espone a minacce di pentiti e carcerati mafiosi.

Il governo in realtà sostiene ben altro: la sua lotta alla mafia sarebbe dura; secondo alcuni, è sotto pressione proprio per questo. Nell’agosto scorso Berlusconi ha affermato di voler «passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia». Né mancano dati promettenti: la legge del carcere duro inasprita (legge 41 bis), i beni mafiosi sequestrati, un gran numero di capi malavitosi arrestati.

Al contempo tuttavia son favoriti i colletti bianchi che fanno affari con la mafia. C’è lo scudo fiscale, che chiede all’evasore una restituzione minima di quel che dovrebbe (il 5 per cento), e in cambio gli consente, restando anonimo, di cancellare reati come il riciclaggio di denaro sporco (lo spiega il giudice Scarpinato sul Fatto del 15-11-09). C’è la legge sulle intercettazioni, che ostacola le inchieste sulla mafia. C’è il Comune di Fondi, in mano alle destre: tuttora non sciolto, malgrado la collusione con la mafia sia certificata da oltre un anno. Contestata da don Ciotti, c’è una legge che mette in vendita parte dei beni confiscati alla mafia, col pericolo che prestanome incensurati li riacquistino. C’è infine il processo breve: un processo morto, per i colletti bianchi collusi.

La svolta secerne sospetti a raggiera. Quelli che Franchetti chiamava i facinorosi della classe media (amministratori, politici) potrebbero aver l’impressione che il cuore dello Stato sia nelle loro mani. È sospettato il presidente del Senato Schifani, per rapporti con i fratelli Graviano e assistenza giuridica al costruttore Lo Sicco, oggi in galera per mafia. È indagato Nicola Cosentino, sottosegretario al Tesoro, per concorso esterno in associazione camorristica. Ambedue restano al loro posto, sotto gli occhi non tanto dei magistrati quanto della mafia, esperta in ricatti. Che sia l’ora della politica è evidente. Le democrazie vivono e muoiono nel funzionare o non funzionare del comportamento politico, non di quello giudiziario.

L'immagine è un quadro di Mimmo Cosenza, dal titolo "Liberista ipocrita", tratta dal sito web de il Sole 24 Ore.

CAGLIARI. Il colle di Tuvixeddu potrebbe essere salvo: la sesta sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso dell’avvocatura generale e ha annullato la sentenza del Tar Sardegna del 20 aprile scorso con la quale i giudici amministrativi avevano dato il via libera agli ultimi due nullaosta concessi dal Comune di Cagliari a Nuova Iniziative Coimpresa, quelli che la sovrintendenza ai beni architettonici e ambientali aveva annullato a settembre del 2008.

I giudici di palazzo Spada hanno ascoltato nell’udienza del 24 novembre scorso le ragioni dell’avvocato dello stato Sergio Sabelli e quelle dei legali del gruppo Cualbu, gli avvocati Pietro Corda e Antonello Rossi. Si sono riservati la decisione, come sempre accade nel corso delle sessioni d’udienza a Roma. Poi però la notizia del verdetto favorevole per la sovrintendenza è trapelata attraverso i consueti canali ufficiosi ed è arrivata in Sardegna. Perché storici, ambientalisti e intellettuali cagliaritani possano gioire bisognerà però attendere il deposito della sentenza, tra due o tre settimane. Se l’esito del giudizio d’appello verrà confermato il piano di edificazione del gruppo immobiliare correrà il rischio di naufragare. Le due autorizzazioni firmate dal Comune il 25 agosto 2008 davano l’ok a un grande complesso edificato con nove unità abitative in tre corpi di fabbrica e ad altre diciotto in nove strutture più una grande residenza unifamiliare, per un totale di 14.630 metri cubi su un’area molto estesa del colle, con vista sulla necropoli punica. Coimpresa è impegnata nella costruzione di alcuni palazzi su via Is Maglias, ma quella che nel progetto viene indicata come unità insediativa E3 rappresenta il cuore del lussuoso quartiere del quale è cominciata proprio in questi giorni la commercializzazione, con una grande campagna pubblicitaria. Bloccare questa frazione del piano significa pregiudicare il progetto, già messo a rischio dalla procedura di vincolo che la sovrintendenza ai beni culturali ha avviato per le aree pubbliche di Tuvixeddu, compreso il canyon artificiale dove dovrebbe passare la strada d’accesso al nuovo quartiere.

Contro quell’iniziativa i legali del gruppo Cualbu hanno ricorso al Tar insieme a quelli del Comune, ma se le informazioni ufficiose arrivate da Roma trovassero conferma il costruttore sarebbe davanti alla più brutta delle gatte da pelare. Bocciati i due nullaosta finali, si tratterebbe di riaprire la procedura autorizzatoria ma secondo le indicazioni del Consiglio di Stato. Una su tutte, che ricalca le motivazioni con cui l’allora sovrintendente Fausto Martino aveva bocciato le autorizzazioni giudicandole affette da un “vizio esiziale”: prima di firmarle, il Comune avrebbe dovuto trasmettere la pratica alla sovrintendenza ai beni architettonici, il cui parere è indispensabile - come ha ribadito l’avvocato Sabelli - per rendere efficace il nullaosta. In questo caso, a leggere il ricorso dell’avvocatura generale dello stato, non solo sarebbe mancata la richiesta del parere, ma non risulterebbe traccia di alcuna documentazione tecnica sulla parte di progetto oggi contestata. Come dire: il sovrintendente Martino sarebbe rimasto all’oscuro di quanto Coimpresa intendeva e intende fare su Tuvixeddu, malgrado fosse proprio il suo ufficio quello demandato a esercitare il potere di controllo e di verifica. Sabelli peraltro, nel suo ricorso di ventotto pagine in cui si fa riferimento a «numerosi profili di illegittimità», punta il dito su altri aspetti della controversia e mette ancora una volta l’accento su un problema ignorato nei pronunciamenti giudiziari precedenti, quello che rappresenta il cavallo di battaglia delle associazioni ecologiste impegnate da anni nella difesa del colle punico: l’entrata in vigore del codice dei beni culturali e del paesaggio ha cambiato radicalmente la valutazione sull’impatto degli interventi edificatori in aree sensibili. Se le norme precedenti tendevano a tutelare il luogo, quelle in vigore difendono il paesaggio nella sua interezza e complessità naturale. Ora però si tratta di capire quali punti abbiano convinto i giudici di Roma a fermare i nullaosta per Tuvixeddu: forse gli errori commessi - secondo l’avvocato Sabelli - dal Tar Sardegna nella sentenza di aprile. Forse l’assenza di quel passaggio di documenti che ai comuni mortali può sembrare una formalità ma che in un giudizio amministrativo diventa decisivo.

In America Latina sta succedendo qualcosa di strano. Le forze di destra latino-americane sono determinate a ottenere di più, durante la presidenza Usa di Barack Obama, di quanto non abbiano ottenuto durante gli otto anni di presidenza di George W. Bush. Bush guidava un governo di estrema destra che non era minimamente in sintonia con le forze popolari latino-americane. Obama, viceversa, è alla guida di un governo centrista che sta cercando di riproporre la «politica di buon vicinato» proclamata da Franklin Roosevelt per segnalare la fine dell'intervento militare diretto degli Usa in America Latina.

Durante la presidenza Bush, l'unico tentativo serio di colpo di stato sostenuto dagli Usa è stato quello del 2002 in Venezuela contro Hugo Chavez, ed è fallito. Le successive tornate elettorali, in tutta l'America Latina e nei Caraibi, sono state vinte quasi sempre da candidati di sinistra. Il culmine è stato toccato in un meeting del 2008 in Brasile, a cui gli Stati Uniti non erano stati invitati e in cui il presidente cubano, Raúl Castro, è stato trattato praticamente come un eroe.

Da quando è diventato presidente Obama c'è stato un golpe, riuscito, in Honduras. Malgrado la condanna di Obama, la politica americana è stata ambigua e gli autori del colpo di stato stanno vincendo la loro scommessa di restare al potere fino alla prossima elezione del nuovo presidente. In Paraguay il presidente Fernando Lugo, un cattolico di sinistra, ha appena sventato un golpe militare. Ma il suo vicepresidente Federico Franco, di destra, sta manovrando per ottenere da un parlamento nazionale ostile a Lugo un colpo di stato sotto forma di impeachment. E i militari stanno affilando le armi anche in una serie di altri paesi.

Per capire questa apparente anomalia, dobbiamo analizzare la politica interna americana, e il modo in cui essa influisce sulla politica estera americana. C'erano una volta, e non tantissimo tempo fa, due grandi partiti che rappresentavano coalizioni di forze sociali sovrapposte. Il loro equilibrio interno era un po' spostato a destra per il Partito repubblicano, e un po' spostato a sinistra per il Partito democratico.

Poiché i due partiti si sovrapponevano, le elezioni tendevano a costringere i candidati presidenziali di entrambi i partiti a collocarsi più o meno al centro, per conquistare la frazione relativamente piccola di elettori «indipendenti» di centro.

Le cose non stanno più così. Il Partito democratico è la stessa ampia coalizione di sempre, ma il Partito repubblicano si è spostato molto più a destra. Questo significa che i Repubblicani possono contare su una base più piccola. Sarebbe logico aspettarsi che abbiano molti problemi elettorali. Ma, come stiamo vedendo, non è così che funziona.

Le forze di estrema destra che dominano il Partito repubblicano sono fortemente motivate e alquanto aggressive. Esse cercano di purgare tutti i politici repubblicani che considerano troppo «moderati», e di imporre ai Repubblicani al Congresso un atteggiamento uniformemente negativo nei confronti di qualunque cosa il Partito democratico, e in particolare il presidente Obama, possano proporre.

I compromessi politici non sono più ritenuti politicamente desiderabili. Al contrario. I Repubblicani vengono spinti a marciare compatti. Nel frattempo, il Partito democratico sta operando come ha sempre fatto. La sua ampia coalizione va dalla sinistra fino alla destra moderata. I Democratici al Congresso dedicano la maggior parte delle loro energie politiche a negoziare gli uni con gli altri. Questo significa che è molto difficile approvare leggi significative, come stiamo vedendo attualmente nel tentativo di riformare il sistema sanitario degli Stati Uniti.

Che cosa significa dunque questo per l'America Latina (e per le altre parti del mondo)? Bush poteva ottenere dai Repubblicani al Congresso - dove per i primi sei anni del suo regime ha potuto disporre di una maggioranza netta - quasi qualunque cosa volesse. Le vere discussioni si svolgevano nei circoli esclusivi e riservati di Bush, che per i primi sei anni sono stati sostanzialmente dominati dal vicepresidente Cheney. Quando Bush, nel 2006, perse le elezioni per il Congresso, l'influenza di Cheney declinò e la politica del governo cambiò leggermente. L'era Bush è stata segnata da un'ossessione per l'Iraq e, in misura minore, per il resto del Medio Oriente. Le energie rimaste sono state utilizzate per trattare con la Cina e l'Europa occidentale. L'America Latina è sparita dalla prospettiva del governo Bush, relegata in sottofondo. Le forze di destra latino-americane - cosa per loro frustrante - non hanno ottenuto dal governo Usa il consueto impegno in loro favore, un impegno che si aspettavano e che volevano.

La situazione di Obama è completamente diversa. Ha una base diversificata e un'agenda ambiziosa. La sua immagine pubblica oscilla tra una posizione fermamente centrista e gesti moderatamente di sinistra. Questo rende la sua posizione politica sostanzialmente debole. Sta disilludendo gli elettori di sinistra che aveva motivato durante la campagna elettorale, e che in molti casi si stanno ritirando allontanandosi dalla politica. La realtà di una depressione mondiale gli sta alienando alcuni dei suoi elettori indipendenti di centro, che temono un crescente indebitamento pubblico.

Per Obama, come per Bush, l'America Latina non è in cima alle priorità. Obama però (diversamente da Bush) sta combattendo con tutte le sue forze per restare a galla nelle acque agitate della politica. È molto preoccupato per le elezioni del 2010 e 2012 e non senza ragione. La sua politica estera è notevolmente influenzata dall'impatto potenziale che potrebbe avere su queste elezioni. La destra latino-americana sta sfruttando le difficoltà politiche interne di Obama per forzargli la mano. Essa vede che Obama non ha l'energia politica per contrastarla. Inoltre la situazione economica mondiale tende a influire negativamente sui governi attualmente al potere. E oggi, in America Latina, i partiti al potere sono quelli della sinistra.

Se Obama nei prossimi due anni avesse degli importanti successi politici (una riforma sanitaria decente, un vero ritiro dall'Iraq, un calo della disoccupazione), questo in effetti offuscherebbe il ritorno della destra latino-americana. Ma Obama otterrà questi successi?

Copyright Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global, (Traduzione Marina Impallomeni)

LIVORNO. "Bancarotta a Dubai" gridano oggi gli stessi giornali che solo ieri, accompagnando negli Emirati Arabi Uniti la visita di Silvio Berlusconi, magnificavano, con la complicità estasiata dei nostri ministri di turno, il bengodi arabo, le isole cementizie che si sporgono in fogge floreali nell'instabile Golfo persico (od arabo che dir si voglia), i grattacieli record, i pomodori coltivati nel deserto per le tavole di emiri che lasciano una scia di petrodollari, lo shopping mondiale in luccicanti ed esclusivi grandi magazzini planetari che hanno trasformato la Costa dei Pirati di antica memoria, i Trucial Staes occupati dagli inglesi, nel nuovo paese dei balocchi del lusso planetario che tanto vorremmo riprodurre nelle zone franche e nei casinò a cui bramano schiere di comuni e regioni italiani.

Ancora una volta (e fino all'ultimo) il nostro governo e gran parte dei nostri media hanno peccato di provincialismo, hanno scambiato le perline per la sostanza, il luccichio per oro puro. Che Dubai e gli altri 6 emirati fratelli stessero sprofondando nella sabbia di una crescita insensata che riassumeva in sé tutte le esagerazioni dell'ipercapitalismo era cosa nota, gli articoli sulla stampa internazionale si sono sprecati, ma qualcuno pensava che pur essendo crollato il palazzo dell'economia finanziaria di rapina, potesse rimanere intatta la sua vetrina sulle rive del Golfo.

Non è così e non era già così da un pezzo (come ha scritto più volte anche questo giornale) e ben prima che scoppiasse la bolla immobiliare che sta terrorizzando le borse mondiali e che sta svelando la fragilità di una "ripresa" che deve ancora fare i conti con le mine di cui il neoconservatorismo economico ha infestato il pianeta e la sua economia, pronte ad esplodere ad ogni minimo cambio di pressione.

Gli Emirati della cuccagna erano già in crisi da un bel pezzo, nessuno voleva e poteva più comprare le case sulle isole artificiali, gli alberghi si svuotavano per la crisi (ma anche per la cacca in mare), il mondo scopriva sempre di più che quel benessere si basava su un 90% di popolazione immigrata, senza nessun diritto politico e civile, ridotta praticamente in schiavitù che costruiva per gli emiri e per i turisti dello shopping planetario un mondo artificiale, una finzione da ricchi, un tentativo maldestro quanto arrogante di addomesticare l'ambiente con i petrodollari, magari investendoli anche in futuristiche città "verdi" e in progetti di energie rinnovabili. Il greenwashing della disperazione: solo qualche giorno fa il governo indonesiano ha chiesto ai suoi immigrati negli emirati arabi di ritornare a casa per sottrarsi ad uno sfruttamento che diventava ogni giorno più inumano con il progredire di una crisi che segna la fine del sogno filo-occidentale dei monarchi arabi.

Un greenwashing della dittatura, al quale purtroppo ha partecipato anche il nostro Paese facendo passare come moderati Paesi (Arabia Saudita in testa) dove la democrazia e i diritti umani sono un sogno e dove la condizione della donna è ben peggiore di quella del tanto criticato Iran e si avvicina più a quella delle donne afghane che un tempo dicevamo di voler liberare dal burka talebano, che gli è rimasto addosso anche con l'intervento Nato.

Le borse tremano, perdono, piangono, per quel che succede al già ammirato esperimento ambientale-finanziario nel deserto costiero degli Emirati, i pasciuti regnanti rimarranno comunque straricchi e assicurano le banche occidentali rimpinzate dei loro petrodollari, le multinazionali piene di loro azioni, gli investitori traditi dal crollo del sogno immobiliare e delusi dall'incubo dell'artificializzazione dell'ambiente e della costruzione di una società fittizia, che nasconde gli schiavi ed i prezzi ambientali, ingannati dall'assicurazione che sarebbe durata in eterno la società dello scialo e dello spreco di risorse esibito come modello da raggiungere in comodi voli di Fly Emirates, come ci ricordano le maglie di notissime squadre di calcio.

Il super grattacielo da 818 metri del Dubai World rischia di diventare la torre di Babele di una globalizzazione che aveva portato il mondo a parlare lo stesso linguaggio economico, ad usare gli stessi strumenti di rapina, a proporre un unico modello, le isole artificiali rischiano di diventare le polverose arche di Noè di un'ingordigia interrotta in un Paese piccolo e già miserabile che non sembra essere riuscito a gestire una ricchezza improvvisa, un tesoro energetico che comunque finirà, che non è riuscito a non soccombere alla maledizione del petrolio.

La guerra persa dagli Emirati e da Dubai non è quella guerreggiata di Saddam Hussein, è la sconfitta della più luccicante avanguardia di uno scatolone di sabbia che la globalizzazione e l'iperconsumismo avevano trasformato in un supermarket di lusso, è la sconfitta dell'idea che dollari e volontà, artifici economici e spregiudicatezza politica, potessero realizzare un mondo nuovo ed esclusivo basato su una colossale esclusione, sullo sfruttamento di una manodopera schiavizzata che doveva far nascere dalla sabbia un Paese nuovo anche nel suo ambiente, dove si reintroduce l'orice nel deserto e si nascondono centinaia di migliaia di poveri disperati che costruiscono mega-chiese e moschee, grattacieli girevoli, isole che potrebbero diventare la nuova piccola Atlantide della peggiore globalizzazione.

Qui il giornale online Greenreport.it

Sul mercato immobiliare è in arrivo una nuova ondata di liquidità. Secondo gli esperti, infatti, circa un 20% dei soldi che rientreranno con lo scudo fiscale verrà investito nell´acquisto di case. Una somma che oscilla tra i 12 e i 18 miliardi di euro. Denaro che torna in Italia e che verrà speso soprattutto nell´acquisto di immobili di pregio. Chi ha deciso di mettersi in regola con il fisco rivolgerà la propria attenzione ai centri storici e alle migliori località turistiche. Una quota più piccola sarà destinata agli immobili commerciali e alle società di "real estate" quotate in Borsa.

Nuovi potenziali acquirenti, dunque, con una disponibilità di almeno 500mila euro. Dove andranno questi soldi? Roma, Milano, Venezia, Cortina, Forte dei Marmi. Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, prevede anche un flusso verso la Costa Smeralda per chi ha somme più alte a disposizione (fra 1 e 3 milioni di euro). Chi avrà tra i 3 e i 10 milioni di euro si concentrerà, invece, nell´acquisto di palazzine "cielo-terra" con appartamenti da affittare. Un osservatorio privilegiato per rilevare le mosse dei potenziali acquirenti "liquidi" è Milano. «Il segmento degli immobili di livello medio alto - spiega Alessandro Ghisolfi, responsabile ufficio studi Ubh - con valori compresi fra i 500 mila euro e il milione (e oltre) è oggetto oggi di maggiore interesse da parte della domanda rispetto a pochi mesi fa». Si tratta di appartamenti del valore minimo di 7-8mila euro al metro quadrato.

La potenziale domanda potrebbe contribuire al rafforzamento delle quotazioni degli immobili signorili e di pregio. «Il mancato sgonfiamento delle quotazioni delle case - spiega Luca Dondi, analista di Nomisma - che invece si è verificato in altri paesi, rappresenta per l´Italia un elemento penalizzante che impedisce di cogliere appieno i benefici derivanti dall´improvviso ritorno di capitale». Una sorta di «colpo in canna» da usare non appena il mercato si rimetterà in moto, aggiunge Briglia. Che il mercato immobiliare residenziale abbia bisogno di una forte "scossa" viene confermato dai dati resi noti ieri da Nomisma. Continua la flessione delle compravendite. Dopo il crollo del primo trimestre di quest´anno (-18,3%), il calo del secondo trimestre (-12,9%), l´emorragia nel terzo si è fermata a un -11%. E continua anche la lenta discesa dei prezzi delle case che, su base annua segnerebbe un meno -4,1%, mentre continuano ad aumentare gli sconti concessi dai venditori rispetto all´iniziale richiesta per concludere l´affare. Nomisma, inoltre, evidenzia un ulteriore peggioramento della qualità del credito nel primo semestre 2009, come testimonia l´aumento delle insolvenze nei mutui: erano l´1-1,1% fino alla primavera 2008, dopo un anno sono raddoppiate.

TRIESTE - A cinquanta metri, depositi di materiali infiammabili e il sito di una centrale turbogas ad alto potenziale approvata da Roma. A cento metri il terminal di un oleodotto internazionale, con petroliere su tre pontili. Poco in là, un mega-inceneritore rifiuti (150 metri), gli altoforni di una ferriera (500 metri), depositi di formaldeide (700). Tutti potenziali inneschi a catena. Intorno, la città. Una superstrada a 120 metri, le prime case alla stessa distanza, i primi quartieri popolari a 600 metri e lo stadio a mille. Possibile che vada a incastrarsi proprio qui il rigassificatore della spagnola Gas Natural, che ha appena avuto il via libera del governo? Sì, è questo il luogo. Una baia grigia e inquinata, piena di industrie. Attorno, solo nebbia, ansia e silenzio. Ansia per l´ambiente e per il rischio di incidenti a catena. Silenzio delle istituzioni che non spiegano ed esortano a una generica fiducia. Nebbia su tutto: sui progetti, sul senso dell´operazione, sul futuro di Trieste. Nebbia sul mare più vulnerabile dell´Adriatico e sul polo energetico che nel 1972 fu colpito per primo in Europa dal terrorismo internazionale.

Tranquilli, dicono alla Gas Natural, «tutti i possibili scenari sono stati contemplati nei diversi studi di rischio». Sanno della presenza degli obiettivi sensibili attorno al loro impianto? «Ovviamente gli studi sui rischi e sul possibile effetto domino tengono conto di queste installazioni e della popolazione attorno. Studi condotti su alti standard dicono che l´impianto è sicuro. Dobbiamo operare in sicurezza per 30 anni e nessun errore sarebbe tollerabile tra noi». Uno si fida, e va a cercare conferma negli studi. Ma nell´allegato sull´effetto domino si scopre che le cartografie sono monche. Niente depositi costieri, né inceneritore e serbatoi di formaldeide. La commissione ministeriale, farcita di avvocati non specialisti di infortunistica e ambiente, ha davvero letto le carte prima di approvare il progetto? Il Governo non parla che di sicurezza, ma in materia di energia la griglia diventa un colabrodo.

Vedere per credere. Gli studi di impatto spesso riportano solo i cognomi degli estensori e quasi mai sono firmati; talvolta semplici powerpoint, relazioni semi-anonime allegate copia-incolla. C´è persino una fondamentale traduzione in italiano nettamente difforme dall´originale spagnolo, anonima e con logo alterato. Un geometra inorridirebbe, ma i ministri non hanno visto nulla. Nemmeno il sottosegretario all´ambiente Roberto Menia, che è pure triestino. «Se questa roba me l´avesse data uno studente come tesi di laurea, gli avrei detto di ripassare dopo sei mesi», ha detto ieri il professor Marino Valle, specialista europeo di energia e sicurezza. Un esempio? In un corposo documento firmato - questo sì - da José Maria Medina Villaverde, l´acqua fredda scaricata nella baia sale miracolosamente in superficie anziché stagnare sul fondo e l´effetto accumulo delle centinaia di milioni di metri cubi di mare sputati a bassa temperatura dall´impianto è ignorato. Quintali di documenti su tutto lo scibile umano (dalla meteorologia all´impiantistica) attribuiti sempre agli stessi cognomi, spesso illustri sconosciuti. Profili di temperature relativi a zone ben diverse dalla baia o prelevati da Internet; sottostima della bora (36 km orari a fronte di 100) nel calcolo della rotta d´accesso delle navi, con misurazioni prese non a Trieste ma al largo di Caorle.

È così che si valutano i progetti energetici, si studiano i piani d´intervento della Protezione civile e si applica la "legge Seveso" sui disastri a catena? Arriveranno altri dodici impianti così in Italia. Taranto è nella stessa posizione di Trieste, con un rigassificatore incollato alla città in attesa di via libera. E con gli stessi dubbi sulle procedure. «Ho la gente nel panico» lamenta Fulvia Premolin, sindaco di Dolina, comune limitrofo all´impianto. E Nerio Nesladek, sindaco di Muggia: «Nessuno si è fatto vivo per spiegare». Il fatto è che qui pochi hanno dimenticato quelle bombe piazzate 37 anni fa da Settembre Nero sotto i depositi di petrolio della Siot e quel rogo che ci mise giorni a spegnersi e fu visto a centinaia di chilometri.

Ignorata dalla politica, ieri la comunità scientifica ha cercato di rompere il muro di silenzio. Pensate, è stato detto, a un mare che gela in un istante e a una nube di gas altamente infiammabile che lo ricopre e fa tabula rasa: basta un innesco minimo, e l´onda di calore si estende alla città e agli impianti vicini. Chi è contrario all´operazione chiede che la cattedrale energetica venga realizzata altrove, possibilmente off shore. Ma la paura è soprattutto ambientale. L´impianto succhia 800 mila metri cubi d´acqua al giorno: tutta quella della baia tra Muggia e Trieste passerebbe tre volte l´anno nella sua pancia. Il mare, già rimescolato con i fanghi inquinanti per i pompaggi, verrebbe sterilizzato con 70 tonnellate di cloro attivo l´anno e si raffredderebbe di alcuni gradi. Per uno degli spazi più chiusi dell´Adriatico il rischio è il collasso.

Altra sorpresa: il progetto non è mai stato approvato dalla Regione né discusso in Provincia. «Rispetto a dieci anni fa, è scomparsa la figura di un garante indipendente e autorevole», lamenta Giacomo Costa, luminare di chimica all´università. «La collettività è stata lasciata sola di fronte a un balletto di cifre e a una cosa troppo complessa da capire» conferma Adriano Bevilacqua, del sindacato regionale Vigili del fuoco. Che qualcosa non funzioni lo dimostrano le due indagini avviate dalla magistratura penale, irregolarità accertate dalla Finanza, e 5 ricorsi al Tar di cui uno (primo caso in Italia) di un comune straniero, Capodistria, confinante con Trieste. Il caso ormai è internazionale: la Slovenia teme inquinamenti delle acque e interferenze con i traffici portuali, e ha espresso forti perplessità ai ministri Frattini e Prestigiacomo in visita giorni fa a Lubiana.

La domanda ricorrente è: cosa accade quando il metano liquido a meno 162 gradi e la pressione di 85 Bar finisce in mare? «Vaporizza all´istante - risponde Gas Natural - Il vantaggio della miscela a base di metano è che è più leggera dell´aria. Perciò tutto sale in alto senza impatti sull´ambiente marino». Ma gli scienziati dicono il contrario. Ieri esperti sloveni hanno presentato un filmato in cui si vede lo sprigionarsi di una nube fitta che ristagna a lungo, poi si espande di 600 volte. Lo scenario è da fantascienza. È una nube pesante che entra anche nei tombini e, se prende fuoco, è capace di generare un irraggiamento da 5 kilowatt per metro quadro con effetti a catena su depositi di carburante, fabbriche, abitazioni. Ma le ansie riguardano anche la navigazione. Il nuovo traffico navale pesante come convivrà con la pesca, i traghetti, le crociere, il diporto e i commerci? L´ammiraglio della Capitaneria dice che 120 gasiere l´anno non sono un problema. Ma il collega di Chioggia ha istituito attorno al "suo" rigassificatore off shore due aree di interdizione concentriche, la maggiore di due chilometri e mezzo di raggio. Precauzione che, a Trieste, significherebbe la semiparalisi del movimento navi.

Intanto si va avanti al buio, con una politica energetica sibillina, procedimenti separati e una cabina di regia in atteggiamento subalterno. Mentre Gas Natural accelera, un´altra corporation, la Endesa (ora E.On), è in corsa per la costruzione di un secondo rigassificatore in mezzo al golfo. Nel contempo la Snam progetta una conduttura di metano da Trieste a Grado, la Lucchini-Severstahl parte con un turboimpianto i cui effetti sull´atmosfera non sono stati spiegati, e si parla anche dell´arrivo di gas russo a Monfalcone dopo gli accordi Putin-Berlusconi. Quali piani di sicurezza si possono fare in un caos simile? Sembra il Terzo Mondo. La foce del Niger. E invece è Italia.

Postilla

Non si capisce perché queste malvagità debbano essere consentite alla foce del Niger. Lì non ci sono uomini?

Una Finanziaria lunare. Ci sono articoli, commi, e subemendamenti, ma manca l’Italia. In particolare, manca l’Italia in crisi. Il Paese fatto di operai che perdono il lavoro, impiegati che aspettano gli aumenti contrattuali, studiosi che puntano alla ricerca, famiglie con bimbi piccoli da accudire, scolari iscritti alla scuola dell’obbligo, poliziotti impegnati per la sicurezza, magistrati e insegnanti. Manca tutto questo nel testo arrivato alla Camera: per ora ci sono solo i tagli «lineari» (metodo pericolosissimo, perché non distingue tra la qualità della spesa) decisi un anno fa e solo in parte recuperati con accordi successivi, per esempio sulla sanità e sulla scuola. Sulla carta il deficit migliora per 7,5 miliardi: nella realtà non è affatto detto che il rigore sia rispettato.Mai costi sociali di quel taglio ci sono tutti. Dopo la riunione della consulta economica del Pdl di ieri, nel centrodestra si è arrivati a un primo accordo (oggi seguirà un nuovo vertice con la Lega), da cui il relatore della Finanziaria è uscito con una lista di misure da finanziare: welfare, sviluppo e enti locali.

Ancora slogan: nessuna cifra di dettaglio. Solo la «dotazione» di 4 miliardi, il ricavato dello scudo fiscale. Un’entrata una tantum, per interventi una tantum. Nessun disegno strutturale, nessuna politica economica: fuori dal tavolo gli sgravi fiscali (che sia Irpef o cedolare sugli affitti). Restano risposte spot, mentre l’economia frana: gli italiani affrontano da soli la crisi più drammatica di tutti i tempi.Nona caso dall’opposizione Pier Luigi Bersani invoca una reazione «corale» alla crisi.

FAMIGLIE E LAVORATORI

Anche «Famiglia Cristiana» ha lanciato il suo j’accuse: neanche un euro per le famiglie. Non si accenna nemmeno al bonus famiglia (900 milioni) per le famiglie disagiate, mentre la social card è utilizzata dallametà della platea prevista in origine. Non ci sono i 400 milioni per la non autosufficienza, che il pd ha chiesto ieri di ripristinare. mancano 8 milioni per fronteggiare l’influenza A, non ci sono aiuti per i neonati. In primo piano ildrammadei precari, che restano in gran parte fuori dal welfare. nel loro caso chi perde il lavoro va a casa senza nessun aiuto. Eppure Silvio Berlusconi aveva detto che il governo non avrebbe lasciato a casa nessuno. Il ministero del lavoro starebbe lavorando a una mini-copertura,ma ancora non si conoscono i dettagli. E intanto la crisi corre. Aumenterà di qualche punto il sussidio della disoccupazione, ma i «paletti» sono davvero troppo bassi per fermare l’emorragia di lavoro. Nel «pacchetto» di Maurizio Sacconi compare anche una sorta di sanatoria contributiva (ancorauncondono), che aiuterebbe a coprire le misure messe in campo. Probabile poi la proroga degli sgravi sui premi aziendali, sempre che le aziende continuino ad erogarli. Resteranno senza rinnovi contrattuali i tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici.

SOLIDARIETÀ, RICERCA, FUTURO

Manca ancora il 5 per mille (che pure Giulio Tremonti si vanta di aver inventato),mancano tagliati gli aiuti all’economia «verde»:non si vedono gli sgravi sulle ristrutturazioni per il risparmio energetico. Ancora pochi fondi all’Università alla scuola (da finanziare persino i libri di testo), le missioni all’estero. Insomma, è una manovra senza futuro. Tremonti aspetta solo che passi la nottata. Ma così nella Penisola resterà notte fonda. v

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