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Nei giorni scorsi è stata approvata dalla Camera dei deputati, con l’accordo di tutti, la modifica alla legge elettorale per le elezioni europee. La modifica introduce lo sbarramento del 4%. In definitiva viene sancita la possibilità di avere rappresentanti nel Parlamento europeo ai soli cittadini che voteranno per quei partiti che supereranno il 4% del totale dei voti. Detto così suona male?

Allora: quando, riferendosi alle elezioni europee, i nostri illustri politici, dagli schermi dei più importanti telegiornali e dalle pagine dei più autorevoli quotidiani italiani, ci vendono la favola che lo sbarramento è necessario perché così facendo si semplifica il sistema partitico e, lasciando intendere conseguentemente che si rafforza l’efficienza della macchina governativa, non c’è nessuno dei nostri altrettanto illustri professionisti dell’informazione che faccia notare che tale assunto può esistere e resistere nel modo delle favole o nel mondo della propaganda, ma sicuramente non ha spazio nel mondo reale o non dovrebbe averlo nel giornalismo che racconta tale mondo.

Come tutti voi sapete, o dovreste sapere, in un paese dove esistono dei giornalisti e non dei professionisti dell’informazione, che alle prossime elezioni europee non eleggeremo un governo, un fantomatico Governo dell’Europa, che appunto non esiste, ma il Parlamento europeo, che ha la sua ragione d’essere, non nel governare tutti i paesi dell’Unione europea, ma nel rappresentare i cittadini di tutti questi paesi. Allora l’anelito verso la governabilità? Quale governabilità? Le elezioni europee, lo ripetiamo, non devono garantire la stabilità di nessun governo! E quindi l’impegno dei nostri rappresentati, quasi solenne, nel ridurre la frammentazione per garantire una migliore governabilità che senso ha? Ah, dimenticavo, c’è anche l’altra nobile ragione: meno gruppi parlamentari ma più numerosi difendono meglio gli interessi dell’Italia in Europa.

Se questo è vero, lo vedremo nel prossimo parlamento dove grazie alla nostra legge avremo meno partiti. Non posso però fare a meno di notare che questa nobile ragione evidenzia una concezione della rappresentanza europea come una sorta di attività di lobbing, su questo ci sarebbe da riflettere, ma qui mi fermo. Torniamo alle ragioni meno nobili, se ci sono.

Innanzitutto però l’impegno nel mettere la soglia del 4% c’è stato, di questo va dato atto a tutti, e va anche sottolineata l’intesa istituzionale, la concordia parlamentale che tutti quanti hanno dimostrato, sono cose che fanno bene alla democrazia, almeno così ci dicono.

Detto questo, forse, le ragioni del suddetto impegno vanno ricercate in qualcosa di un po’ meno retorico, per esempio, detto brutalmente, e mi scuso con i professionisti del giornalismo di cui sopra, per diminuire i soggetti che si spartiscono la torta. Per chi non lo sapesse: la normativa vigente sul finanziamento dei partiti, così come modificata dal referendum del 1993, prevede un contributo pubblico per le spese elettorali relative alle campagne per le elezioni della Camera dei deputati, del Senato, dei Consigli regionali e del Parlamento europeo. I rimborsi sono riconosciuti, per quanto riguarda le elezioni europee, ai partiti e movimenti politici che abbiano ottenuto almeno un rappresentate eletto, il che alle prossime elezioni sarà possibile superando il 4%.

Il sistema partitico, non solo quello italiano, è un club molto esclusivo, dove è difficilissimo entrare, ma soprattutto una volta che sei uscito quelli che riescono a rimanere dentro fanno di tutto perché tu non riesca più a rientrare, finché poi non hai più le forze (leggi risorse) neanche per provarci.

È l’oligarchia, baby!

Fra le tante parole che han perso il loro significato,anzi hanno assunto quello contrario,c'è «liberale ».Piero Ostellino,che ogni due per tre ricorda di essere un «liberale »(forse per convincere se stesso),scrive sul Corriere che Di Pietro è «autoritario »perché chiede al capo dello Stato di non firmare leggi incostituzionali,e «ha un certo seguito in quella parte dell'opinione pubblica che,negli anni 20,ingrossò in buona fede le file del fascismo ».«Nelle democrazie liberali -spiega Ostellino -i politici non sono legibus soluti,ma sottoposti essi stessi alla Legge. Che è 'uguale per utti'».Ben detto.Peccato che le critiche al Quirinale riguardino proprio la firma sulla legge Alfano che rende «legibus solute »le quattro alte cariche dello Stato,trasformandole in cittadini più uguali degli altri.Ma,anziché prendersela con quella legge e con chi l'ha voluta e avallata,Ostellino,liberale in crisi di identità,attacca chi la contesta dandogli del fascista autoritario.

Altri noti liberali,come gli avvocati affiliati alla confraternita delle Camere penali capitanata da Oreste Dominioni,già difensore di Dell'Utri,denunciano penalmente Di Pietro per «offesa all'onore e al prestigio del capo dello Stato »(art.278 Codice penale)a proposito delle pacatissime critiche rivolte a Napolitano in piazza Farnese.In qualunque altro paese i liberali difenderebbero il diritto di critica,tanto più nei confronti di un'alta carica dello Stato che da sei mesi non è più soggetta alla legge penale.In Italia i «liberali »,quando qualcuno dissente,chiamano la Celere.

Certe foto fanno capire più di mille parole. Difficile indovinare quanto sono interessati a una dignità condivisa i manager di Davos che si divertono a fare i profughi per provare (giocando) se è scomodo abitare sotto le tende della miseria. O se i profughi - profughi che arrivano a Belem per denunciare fame e paura, dignità rubate, insomma malattie endemiche delle quali non si guarisce per la maledizione del dormire attorno alle casseforti che nutrono la felicità dei mercati, se almeno loro hanno capito come obbligare i padroni del mondo ad accettare discorsi normali a proposito di petrolio, gas, biodisel.

Ma con la crisi che avvilisce le vetrine, la dignità delle pance vuote deve portare pazienza. Impossibile mettere assieme protagonisti così diversi. Ecco l'idea di contrapporre ai sussurri del salotto svizzero, l'incontro ballato di chi spera di uscire dal buio. L'anticamera che divide le due strategie è lunga diecimila chilometri e gli appuntamenti diventano un palcoscenico. Tremonti fa notare che il vecchio capitalismo va cambiato. Geniale: diventa l'economista che il mondo ci invidia. Chavez annuncia che un mondo diverso è possibile. Vecchia speranza che i popoli accorsi in Amazzonia salutano ogni anno come futuro prossimo, ma ogni anno il futuro viene rimandato di un po'. Belem ha riproposto senza grandi spese la giustizia sociale di chi non si arrende.

L'entusiasmo dei diseredati non costa niente. Ma mettere in fila a Davos governi coronati e i padroni degli affari costa più dello sfamare i piatti vuoti di Gaza. Il discorso vale per ogni G8 o assemblee Fao a Roma o villa d'Este sul lago di Como. Trionfi babilonesi. Nell'era delle comunicazioni lampo, organizzare le messe cantate dell'economia è utile se le decisioni diventano concrete. Invece rimasticano (censurando) l'intimità delle confidenze che ogni giorno i protagonisti incrociano al telefono e sui tasti internet. Al G8 di Genova Berlusconi aveva promesso di raddoppiare l'aiuto ai popoli della disperazione. Applausi. Spente le luci, dimezza i centesimi che già non bastavano. La novità socialmente eccitante che uscirà dal prossimo G8 della Maddalena proclamerà Berlusconi l'anfitrione più squisito del mondo. Il resto, robetta. Bisogna essere sinceri: è bello ascoltare i propositi di chi condivide un progetto comune. Ma se il forum di Belem occupava le piazze di New York, Tokyo o Parigi, attorno ai palazzi di chi comanda, forse qualcosa poteva cambiare. Invece la disattenzione sociale dei sordi non smetterà di perseguitare i senza nome. Europa, New York, Tokyo e Mosca continueranno a promettere senza fare niente. Belem, Porto Alegre, le afriche e le asie degli stracci continueranno ad invocare ma nessuno cambierà le regole. E la grande informazione si fermerà al colore. Al prossimo meeting, o alla prossima guerra, si vedrà.

Ieri a Vicenza è prevalsa la "saggezza", come ha fatto notare il sindaco Achille Variati. Ma la tensione è ancora alta e la vicenda del Dal Molin e della superbase americana, che da anni domina la scena nel capoluogo palladiano e non solo, promette nuovi e decisivi sviluppi. Domani dovrebbe iniziare la demolizione della caserma abbandonata dall’Aeronautica italiana all’interno dell’aeroporto. L’appalto per i lavori è stato vinto da alcune cooperative, tra le quali la Cmc di Ravenna. Dopo tante polemiche, cortei, veleni e misteri, stanno insomma iniziando i lavori per realizzare la più grande base statunitense in Europa: 800.000 metri cubi di cemento su 500.000 metri quadrati di verde. Per questo il movimento no-base, che non ha mai considerato l’ipotesi di arrendersi, ha promosso ieri l’ennesima protesta.

CENTINAIA DI DIMOSTRANTI

In mattinata alcune centinaia di manifestanti, dopo aver creato un varco nella recinzione svitando i bulloni di un’inferriata, sono penetrati nella parte del Dal Molin ancora di proprietà dell’Enac e affidata alla gestione dell’ex società Aeroporti vicentini. Hanno cioè occupato l’area civile dello scalo, separata da quella militare e dalla caserma italiana. Poliziotti e carabinieri, agli ordini del questore Giovanni Sarlo, si sono schierati in assetto antisommossa e la tensione ha toccato livelli preoccupanti. La polizia ha ricevuto rinforzi e, per un paio d’ore, i no-base hanno temuto che sarebbe stata ordinata la carica. Ma, anche questa volta (non è la prima in questa tormentata vicenda) è prevalso il buon senso. L’Enac, come hanno accertato il liquidatore della società aeroporti Mario Martello e l’assessore Giovanni Giuliari, non ha chiesto lo sgombero dell’area di sua proprietà e, in assenza di questa richiesta, il questore ha ritirato i reparti che si apprestavano alla battaglia campale. I manifestanti si sono messi a cantare vittoria. Ma la partita non è finita. I militanti del "Presidio", l’ala radicale del movimento che si batte contro la realizzazione della superbase, hanno allestito un tendone davanti all’ingresso della zona civile e, nella struttura, è stata organizzata un’assemblea per decidere le prossime mosse.

PRESIDIO

I manifestanti erano decisi, fin da ieri mattina, a mantenere il presidio anche nel corso della notte, nonostante il freddo e la neve che ha cominciato a cadere nel pomeriggio. Quella di domani appare la giornata decisiva. Il governo, per bocca dei ministri Frattini e La Russa e soprattutto di Berlusconi, ha spianato la strada alla base Usa. Da anni i no-base annunciano che, quando arriveranno le ruspe, si stenderanno sul prato decisi a bloccare i lavori. La massiccia partecipazione popolare al referendum convocato in ottobre dall'amministrazione comunale testimonia che il progetto americano non gode delle simpatie popolari. "C’è chi vorrebbe il Dal Molin come servitù militare, ma anche morale - fa notare Giovanni Rolando, esponente della lista Variati in consiglio comunale - ma il popolo di Vicenza non cederà mai all’illegalità del potere di Roma".

Chi ha guardato il telegiornale di Rai Uno, il 29 gennaio, avrà visto lo strano filmato, girato a notte fonda in una strada di Fiumicino: alcuni ragazzi affiggono ai muri due striscioni azzurri, su cui è professata, a enormi caratteri, la loro inalterabile amicizia per Davide. Sono incolleriti, ostentatamente militanti e al tempo stesso chiusi, impermeabili alla parola che viene da fuori. Davide Franceschini è il ragazzo che a Capodanno stuprò una ragazza alla Fiera di Roma, che confessò, e presto fu assegnato agli arresti domiciliari. I suoi compagni fanno quadrato intorno a lui in maniera singolare: proclamano la sua completa innocenza, difendono un’impunità sconnessa non solo dai fatti ma da quel che l’amico stesso ha confessato. La giornalista del tg - Laura Mambelli - è sgomenta, più volte chiede perché, con insistente candore. I giornalisti di cronaca sono grandi, in questo: la verità la cercano con un accanimento ignoto a chi, mai sgomentandosi, ci dà senza esser pregato i nostri panini politici quotidiani.

I ragazzi chiedono alla giornalista di allontanarsi e di non scocciare, con la sua curiosità invadente. Quel che le dicono è chiaro: noi siamo il branco, tu sei l’intrusa. Sugli striscioni è scritto: "Più verità meno bugie, Davide ti vogliamo bene" - "Chi parla male di te è perché non ti conosce" - "Davide: non importa ciò che dice la gente. Sei innocente. Gli amici e le amiche".

La cronista osserva che la loro ira è illogica: chi affigge simili striscioni vuol comunicare al mondo una contraddizione (il reo confesso o il condannato sono innocenti) e la contraddizione deve saperla spiegare. Ma per definizione il branco manifesta passioni, non spiega: la tribù è una camera senza finestre. La muta non riconosce che una realtà: la propria. Il suo circuito è sempre corto; il resto è soffio che passa. La festa alla Fiera di Roma s’intitolava: "Amore".

Forse ci vorrebbero giornalisti di questo tipo, candidi e logici, per dire l’Italia che viviamo: un paese che somiglia in maniera impressionante al filmato notturno di Fiumicino. Non una società, ma un accrocco di branchi: ognuno con proprie leggi non condivisibili, ognuno ostile all’insieme che è la nazione. Non è la guerra di tutti contro tutti, ma di sparse tribù contro la realtà comune. Il branco agisce secondo norme che non valgono per tutti: norme esoteriche, di affiliati e complici più che di amici. Nessuna legge le è più estranea che quella kantiana secondo cui bisogna "agire in modo che la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare legge universale", oggettiva.

Quel che unisce gli affiliati del clan alla nazione e alla società è il nulla, è la realtà negata e abolita. Quando si parla loro di bene comune, di vincoli e legge, di senso dello Stato, rivendicano l’impunità dovuta o all’amicizia del gruppo o all’efficienza tecnica. La fedeltà di gruppo sovrasta la verità, e infrangere i vincoli ha qualcosa di eroico. Commentando sul Tg1 gli striscioni di Fiumicino un poeta - Davide Rondoni - afferma commosso che lo "spettacolo dell’amicizia ci deve fare pensare": un’amicizia così grande "fa tenerezza, ci fa venire un po’ il magone, perché è cosa giusta essere amici anche quando si sbaglia". Il poeta fa qualche riserva ("l’amicizia deve servire anche prima, per correggere") ma pare stregato da questa passione che tanto ci somiglia, e che tutela il crimine ignorando la vittima. Quest’ultima ha detto che avendo Franceschini ottenuto gli arresti domiciliari, la giustizia se la farà da sola. Suo padre ha aggiunto, accennando allo stupratore: "Lui tutte le sere quando va a dormire deve pensare domani che cosa mi può succedere, tutte le sere per tutta la vita, si può sposare, avere dei figli, tanto io lo aspetto non c’è problema". Vivere nel branco, con il nulla fuori di esso, produce questo: altri branchi.

Il branco è un fenomeno antico ma ci sono epoche in cui s’accentua perché nelle classi dirigenti manca l’essenziale: la custodia esemplare del bene comune, la dimostrazione che un’altra via è praticata, proposta a modello. Anche per esse vale invece la legge dell’impunità, l’esaltazione di amicizie che assolvono crimini o irresponsabilità in nome della propria corporazione. Il criminale, quando difende il gruppo col silenzio, è addirittura celebrato come eroe. Il Pdl di Fiumicino ha denunciato giustamente gli striscioni e la "celebrazione ignobile del branco", ma l’idea che in quel partito ci si fa dell’eroe resta quantomeno torbida. Un eroe è ad esempio il mafioso Vittorio Mangano, stalliere di Arcore che secondo Dell’Utri e Berlusconi "ha taciuto nonostante le pressioni dei pm". E di che parlano politici come Bocchino e Lusetti se non di branco amicistico, quando concordano favoritismi con il costruttore Romeo? Le intercettazione indispongono perché rivelano queste parentele, tra branchi minuscoli e maiuscoli: "Quindi ormai siamo una cosa, una cosa consolidata, un sodalizio, una fusione di due gruppi", si compiace Bocchino al telefono con Romeo. L’amicizia non è meno corrotta quando ai più alti livelli vien chiamata stabile comunanza, contiguità, cosa.

Chi ha assistito alla manifestazione dei familiari delle vittime di mafia, il 28 gennaio a Piazza Farnese, avrà ascoltato - magari su Internet - il discorso di Salvatore Borsellino: è stato probabilmente il culmine della dimostrazione, da tanti trascurato. Cruciale è quello che ha detto su circostanze e responsabilità dell’uccisione del fratello, nel ‘92 a Palermo. Cruciale è l’elenco che ha fatto dei veri eroi italiani: Falcone, Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta tra cui Emanuela Loi che dalla bomba venne ridotta a pezzetti: raccolti in una bara, i genitori li ricevettero a Cagliari insieme alla domanda, fatta dallo Stato, di pagare il trasporto dei resti.

Vivere nel branco è come vivere in una bolla, che falsifica il valore delle cose. La bolla può esser finanziaria, perché anche chi specula o chi è preso da panico è in un gregge. E può esser politica e civile, quando per proteggere i "tuoi" fai male agli altri. Anche l’evasione fiscale è agire dentro una muta, indifferente alla società e alle sue norme. Chi se ne importa se a coprire i costi saranno tutti coloro che rispettano la legge pagando due volte: le proprie tasse e la sovrattassa versata per l’evasore. Anche qui sono i dirigenti politici che puniscono i probi e premiano i trasgressori, giustificandoli perfino moralmente. In un importante libro, Dino Pesole e Francesco Piu scrivono che premiato pubblicamente dovrebbe invece essere "il contribuente totale: persona fisica o impresa, professionista, artigiano o commerciante, dipendente o pensionato che con assoluta certezza adempie a tutti i suoi doveri fiscali e contributivi, e che per questo può vantare un assoluto livello di trasparenza nei suoi comportamenti e obblighi nei confronti del fisco". Questo è il vero "azionista del risanamento" italiano. Questa la "nuova figura, cui attribuire un visibile riconoscimento civico e sociale" (Il patto. Cittadini e Stato: dal conflitto a una nuova civiltà fiscale, Il Sole24Ore, 2009).

Le nuove figure ci sono. Sono i contribuenti totali che approvano la solidarietà sociale e dunque i suoi costi. È Peppino Englaro, che invece di rifugiarsi in una clinica straniera per rispettare il volere della figlia decide di battersi molto più faticosamente in Italia, attraverso la sua giustizia. Sono i magistrati che lottano contro mafie, clan. Sono i cronisti giudiziari e di nera che fanno domande accanite, candide e logiche. Eroi simili non sono protetti da tribù. Sono soli, come li descrive Roberto Bolaño nel romanzo 2666: "Perché ogni virtù, salvo nella brevità del riconoscimento, è priva di splendore e vive in una caverna buia circondata da altri abitanti, alcuni dei quali molto pericolosi".

Nel romanzo "Una sporca storia" di Eric Ambler, un personaggio, Arthur Abdel Simpson, ricorda i consigli che da bambino aveva ricevuto dal padre. Uno dei primi insegnamenti fu: "Mai dire una bugia quando puoi cavartela a forza di stronzate". Oggi sottovalutiamo troppo la sorprendente forza delle "stronzate" diventate per la pubblicità e soprattutto per la politica, che si nutre di slogan pubblicitari, un paradigma di governo, una strategia di consenso.

Un autorevole filosofo di Princeton, Harry Gordon Frankfurt, ci ha scritto su un delizioso libriccino (Bullshit, Rizzoli) per concludere che "l’essenza delle stronzate (bullshit) non sta nell’essere false, ma nell’essere finte". La distinzione torna utile per dare un senso a molte sortite del governo e certamente al fiume di parole del ministro di Giustizia, Angelino Alfano, dinanzi al quadro di un’amministrazione giudiziaria indegna anche per molti giovani stati africani. "Chi racconta stronzate contraffà le cose" dice Frankfurt. Ha ragione. Ciò che non va in una contraffazione non è l’aspetto, ma il modo in cui è stata prodotta.

Il disastro della giustizia italiana è sotto gli occhi di tutti, immutabile da decenni, difficile alterarne il catastrofico bilancio. I processi sono lentissimi, le procedure inutilmente cavillose, i codici contraddittori e fluidi. Il modello organizzativo, governato da norme astratte e quindi non governato, produce soltanto inefficienza. Le risorse sono sempre più scarse (meno 40 per cento per sicurezza e giustizia, quest’anno) e lasciano i magistrati senza fax, computer, rimborsi spese e scoperti gli organici del personale amministrativo di oltre il 15 per cento e le toghe in deficit dell’80 in alcuni tribunali del Mezzogiorno (come a Gela). L’incoerenza di una distribuzione degli uffici giudiziari disseminati in 29 corti di appello, 164 tribunali e procure, in 29 tribunali per minorenni e tribunali di sorveglianza assegna ad alcune sedi carichi di lavoro di tutto riposo, ad altre pesi quantitativi intollerabili. L’alluvione di riformicchie, cerottini e tamponi, leggi ad personam e precetti nonsense, mutano le mappe normative a ogni stagione, annullando la stessa funzione pratica del processo dove risulta impotente l’esercizio sia dei diritti di difesa che dei doveri dell´accusa. I gerghi sgrammaticati delle leggi fanno il resto: allevano la confusione e l´imbroglio, rendono impuniti i forti e i furbi, calpestano deboli e poveri cristi.

Questo è lo stato delle cose e neanche un mago della pubblicità riuscirebbe a truccarlo anche a spararle grosse. Stupefacenti "bullshit" possono soltanto confondere le ragioni della malattia e rendere vere le finte soluzioni a questo disastro. E’ già avvenuto in passato (2001/2006) con il governo delle destre. L’abolizione del falso in bilancio doveva liberare le aziende da inutili legacci; la riforma del diritto societario avrebbe reso più trasparente l’economia; nuovi termini di prescrizione avrebbero dato rapidità al processo; la riscrittura dell´ordinamento giudiziario avrebbe fatto funzionare meglio la "macchina". Con la voce di un ministro (che in otto mesi non ha ancora preparato il testo di una riforma sistemica o messo mano a un ripensamento dell’assetto organizzativo o assicurato almeno il toner alle stampanti), la nuova ondata di "bullshit" ci dice oggi che quel disastro troverà soluzione con la disciplina delle intercettazioni sottratte "finalmente" dalla scatola degli attrezzi dei pubblici ministeri; con la riforma della Costituzione (Dio solo sa che cosa c’entra); una maggiore presenza della politica nel consiglio superiore della magistratura (di questa politica); con un "fare squadra" di tutti gli attori in commedia per recitare un misterioso copione che nessuno ancora conosce perché non è stato ancora scritto.

"Bullshit", e tuttavia sarebbe un errore trascurare il metodo e il risultato che raccoglie. Inadatto a risolvere anche soltanto una delle criticità della giustizia, questo rosario di "sciocchezze", ripetuto ossessivamente, riesce a cancellare dal discorso pubblico ogni punto di riferimento, ogni certezza, qualsiasi concretezza, anche la più pallida coerenza tra malattia, diagnosi e terapia. Il governo, in fondo, non vuole convincere nessuno della validità della sua ricetta. Non ne ha bisogno. Ha i numeri per tirare diritto per la sua strada. Vuole solo distrarre l’opinione pubblica, sollevare polvere, creare una contrapposizione radicale di opinioni.

A ogni affermazione ne oppone una contraria (basta guardare un tiggì); a ogni ragionevole argomento un insulto; a ogni verità un falso palese. Nel rumore sempre più assordante che sovrasta la discussione sui guai della giustizia italiana, quanti riescono a farsi un’idea che abbia a che fare con la realtà di questa crisi? Quanti, in questo mare di strombazzanti chiacchiere, hanno ancora voglia di capire? E’ l’esito dichiarato dell’uso intensivo di "bullshit": alla fine si fa largo "l’indifferenza per come stanno davvero le cose", scrive Frankfurt. E’ proprio questo punto di indifferenza, disattenzione, nausea che può dare mano libera al governo.

Capiremo soltanto tra qualche anno, e dolorosamente, quante rovine si lascerà dietro questo vandalismo istituzionale. La distruzione del "servizio giustizia" per il cittadino, una magistratura indebolita, un’organizzazione impoverita, codici a maglie larghe, l’allentamento della rete di garanzie e controlli delle autorità pubbliche lasceranno l’intero Mezzogiorno nelle mani del crimine organizzato e della cattiva amministrazione, le città insicure, le regioni più produttive del Paese trasformate in target ghiotti per la delinquenza domestica e internazionale, i mercati senza regole e controllori governati dalle lobby e dai conflitti d’interesse. L’intero perimetro della sicurezza del cittadino sarà privato di un’accettabile vigilanza.

E’ il prezzo che pagheremo alla pretesa del governo di trasformare la sua volontà in comando politico diretto per la magistratura, per il processo e addirittura per le sentenze. Ne è una conferma esemplare il caso di Eluana Englaro, ricordato ieri a Milano dal procuratore della corte d’appello Grechi. Un "caso" che rischia di travolgere diritti fondamentali, il diritto alla dignità della persona, il diritto alla salute che è diritto di vivere ma anche di morire se si ascolta la Costituzione (art. 32, ultimo comma): "La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Non c’è in tutta la Carta un´altra affermazione così forte, ha osservato Stefano Rodotà. Persino la libertà personale è temperata dalla riserva di legge e dalla riserva di giurisdizione. Qui invece si dice in nessun caso. Quel diritto (il rispetto della persona umana) non può essere consegnato alla decisione del legislatore, figurarsi del governo perché "è indecidibile" e il custode di questa "indecidibilità" sono la Corte Costituzionale e i giudici. Eppure, la legittima "sentenza Englaro" che trova concorde la Cassazione, la Consulta e la Corte europea è negata dal governo: un diritto fondamentale cede il passo al comando politico. Sono allora lo scollamento dai fondamentali della democrazia liberale e il nostro diritto alla sicurezza le poste in gioco in questo conflitto e bisogna metterle bene a fuoco senza lasciarsi accecare (e annoiare) dalle "bullshit" del ministro di Giustizia.

A volte mi sorprendo a provare una sottile corrente di simpatia per la Moratti, quando appare più provata dalle lamentele dei milanesi. Intendiamoci, non è che manchino le ragioni per lamentarsi: ma una cosa è la protesta della ragazza che vive alla Comasina e sta aspettando la metropolitana da quando è nata, e un’altra è la sciura che sbraita perché è scivolata col tacco sul ghiaccio mentre andava in Galleria.

È strano sentire gli abitanti dell’unica grande città italiana in cui è realmente possibile vivere senza auto (almeno entro la cerchia abbastanza ampia dei viali esterni) imprecare contro l’inefficienza dei mezzi pubblici e azzardare paragoni con metropoli come Londra o Berlino. In quel genere di metropoli il loro Suv parcheggiato sul marciapiede verrebbe accartocciato dalla polizia nel giro di due minuti.

Insomma, se Barcellona è esplosa o Parigi funziona meglio non sarà solo perché, fortunate, avranno avuto eccellenti amministratori e politici, ma anche perché i loro abitanti non si impressionano di fronte all’apertura di un locale notturno sotto casa, a una minuscola Chinatown o alla tassa della spazzatura.

Ma se il sindaco fatica a riconoscere i torti subiti dai cittadini, questi possono sentirsi ampiamente ricompensati dall’atteggiamento consolatorio del resto dei politici, che fanno a gara per assecondarli su tutto, dalla cattiveria degli ausiliari della sosta all’infame perversità dei writers. Il leitmotiv è sempre lo stesso: Milano è brutta e incancrenita perché è stata amministrata in modo dirigista da burocrati conservatori, ma liberando la creatività e la forza organizzativa dei privati la città tornerà a fiorire.

Su questo preciso modello, il nuovo Piano di Governo del Territorio lanciato dall’assessore Masseroli si propone come un manifesto rivoluzionario, che intende porre rimedio ai danni prodotti dal dominio incontrastato dell’urbanistica normativa su Milano scommettendo, guarda un po’ che novità, sul coinvolgimento diretto nei privati nella trasformazione e nella gestione della città.

Il presupposto becero è che Milano, come al solito, fa schifo (e passi). L’analisi, ridicola, è che la causa del degrado sia la rigidità dei vincoli urbanistici e dei criteri quantitativi (gli standard) imposti dai piani regolatori: ma anche i bambini sanno che questa è sempre stata la mecca degli immobiliaristi, e di pianificazione ne ha vista poca. La storia dell’urbanistica milanese è una lunga teoria di patteggiamenti con i privati, che di volta in volta hanno preso il nome di varianti, deroghe, accordi di programma, piani integrati, project financing, e infine perequazione (una parola poco attraente, ma è meglio vincere la ripulsa e farla propria). Scaricare la colpa sugli urbanisti tiranni è come prendersela con Batman, ma presentare la perequazione e la sussidiarietà come coraggiosi elementi di rottura col passato sfiora il sublime. Al contrario sono la ratificazione definitiva e il perfezionamento del sistema di relazioni pubblico-privato che si è stabilito negli scorsi decenni.

Perequazione e sussidiarietà si fondano sulla stessa lettura “realistica” della società contemporanea: lo stato (il comune, la regione, o qualsiasi pubblica amministrazione) non ha i soldi per procurare servizi e welfare, e allora è meglio delegare a chi ce li ha: i proprietari dei suoli nel primo caso, i cosiddetti “corpi intermedi” (associazioni, cooperative, gestori di vario genere) nel secondo. La perequazione è uno strumento di redistribuzione dei valori della rendita fondiaria concepito per sostituire l’esproprio, considerato ad un tempo troppo violento nei confronti dei proprietari e troppo costoso per le amministrazioni. Semplificando all’estremo, è un meccanismo che consente all’ente pubblico di acquisire aree private e realizzare opere pubbliche in cambio di concessioni di volumetrie. Uno scambio tra metri quadri e metri cubi, o tra case a canone convenzionato e metri cubi, stazioni della metropolitana e metri cubi, e così via. I comuni gongolano, perché dispensando un bene virtuale che apparentemente non gli costa nulla (il metro cubo) riescono a finanziare grandi e piccoli progetti pubblici appianando il conflitto con i proprietari. Il PGT di Milano, in particolare, propone delle strategie avanzatissime sulla costruzione della città pubblica e addirittura sulla limitazione (relativa) del consumo di suolo per mezzo della perequazione, come illustrato nelle pagine di questo numero.

Naturalmente basta sovrapporre alle immagini leggiadre di bambini cosmopoliti che giocano nei parchi il peso dei metri cubi che caleranno sulle città per mettere alla prova la reale consistenza di questi scenari paradisiaci. Ma non è questo, a mio parere, il focus della questione. La maggior parte dei tormentoni sulle colate di cemento e sui grattacieli fa buon gioco ai sostenitori della crescita, perché anche l’ultimo imbecille può facilmente argomentare che Manhattan coi suoi grattacieli è più bella di Milano e che pure Londra ha scelto la densificazione.

La posta in gioco è molto più alta, e riguarda la possibilità di gestire democraticamente le scelte di sviluppo del territorio. È un argomento assolutamente prioritario, perché condiziona la vita delle persone in maniera molto più diretta di quanto comunemente siamo abituati a pensare: dall’equa distribuzione di trasporti e servizi, dal costo accessibile della casa, dalla qualità dello spazio pubblico (e non del decoro urbano, sia ben chiaro) dipendono la qualità del lavoro, la mobilità sociale, la sicurezza, i diritti delle donne, il tasso di natalità, la partecipazione alla vita politica e culturale e molte altre cose. Una grandissima parte dello sviluppo urbano ed extraurbano prodotto negli ultimi decenni in tutto il mondo, dagli Usa a Dubai alla Brianza, è fatto di isole recintate, singole villette o manciate di palazzine, sempre recintate da un cancello, piccoli mondi a parte dominati da regole proprie, diverse da quelle condivise. E questo determina la morte progressiva della vita associata, la separazione fisica di ricchi e poveri, l’incuria degli spazi comuni. Il successo di questo modello deriva da un complesso intreccio di fenomeni mediatici e culturali, soprattutto dall’ossessione per la sicurezza, ma è anche la normalissima conseguenza del mutato rapporto tra amministrazioni pubbliche e privati: le società immobiliari, lasciate libere di agire come più gli conveniva, giustamente hanno reiterato all’infinito lo schema più redditizio. La sicurezza vale oro, e ormai anche chi vive in soporifere cittadine di provincia si sente un paria se non ha il cancello automatico.

Contrattare alla pari con i proprietari e gli sviluppatori significa escludere dalle decisioni i cittadini, perché le ragioni di chi mette i soldi sono più forti. Le regole non possono che essere flessibili, pena il ritiro dei capitali. E allora, nel corso delle mille negoziazioni che la procedura della perequazione prevede per il piano, dall’attribuzione degli indici di edificabilità all’attuazione dei progetti, quali garanzie ci saranno per i milanesi? Come si realizza l’agognata mixité, quanti si presteranno a costruire appartamenti a canone convenzionato e piscine pubbliche nei loro condomini, senza timore di deprezzarli? E nell’assenza di regole certe a cosa si potranno appellare i cittadini? Al buon cuore dei developers?

I lunghi anni dell’ascesa del Real Estate ci hanno abituato a pensare che questa fosse l’unica soluzione possibile. Da quando la rendita fondiaria è diventata, da investimento passivo e freno allo sviluppo, il motore della finanza mondiale, città e territorio sono amministrati dai privati, e “le buone intenzioni” dell’urbanistica progressista bollate come una ridicola manifestazione del politically correct.

Ora tutti quei patetici fantasmi che di fronte ai cantieri abbandonati, ai sobborghi desolati, alla prospettiva che Dubai demolisca la metà dei suoi inutili palazzi, al picco di sfratti e alla rovina delle banche e delle borse si affannano a ripetere con lo sguardo perso che era tutto vero vengono guardati con commiserazione. Ora è ovvio per tutti che eliminare i vincoli NON è un buon metodo per aumentare il benessere comune. Anche Milano dovrebbe liberarsi al più presto di questa cappa veteroliberista.

Un inverno nevoso e fortemente piovoso, è vero. Ma il Paese smotta a valle perché è già ampiamente dissestato e franoso, oltre che sismico. “Uno sfasciume pendulo sul mare”, così il grande meridionalista Giustino Fortunato definiva la Calabria un secolo fa. Purtroppo siamo sempre lì. Anzi peggio perché il cemento, per lo più abusivo, ha investito montagne e colline dissestandole fino alla costa, irriconoscibile ed esposta a diffuse erosioni. Nel 2006 si segnalavano in Calabria oltre 9.400 movimenti franosi, estesi per 822 Kmq. Bloccate dalle frane le poche arterie strategiche, tutta la regione si ferma.

Ma la Calabria non è un’eccezione. Quasi tutta l’Italia è fortemente franosa, con un picco del 19,4 per cento nelle Marche seguite da Valle d’Aosta, Trentino, Lombardia, ecc. e con un minimo dello 0,4 nella pianeggiante Puglia. L’abbandono biblico delle terre alte da parte dei contadini, seguito a disboscamenti secolari, ha lasciato senza cura un enorme regione dove canali di scolo, torrenti, sottobosco non vengono più puliti né sistemati, dove si sono fatte a fette colline e montagna con strade asfaltate senza valutazione di impatto ambientale e, purtroppo, senza utilità, dove o si è abbandonato o si è lottizzato tutto, insensatamente. Risultato finale: 461.083 movimenti franosi e 70 Comuni su 100 minacciati dalle frane, dalle alluvioni o da tutt’e due (in Calabria il 100 per 100). Nel Sud ha assunto proporzioni agghiaccianti il fenomeno delle colate di fango (si ricordi quella di Sarno), segno che non tiene più niente.

La legge sulla difesa del suolo, arrivata ventitre anni dopo le alluvioni di Venezia e di Firenze, è una buona legge, ma va finanziata con diligente continuità, va attuata con meno cemento e più “rinaturalizzazione”, impedendo l’espansione edilizia, davvero criminale, sui terreni appena messi in sicurezza. I governi Berlusconi hanno sempre trascurato i capitoli di spesa destinati a settori così poco appariscenti, così poco ricchi di materia per gli spot propagandistici. Quello in carica – denuncia il Wwf - ha programmato di tagliare in modo pesantissimo, di oltre la metà, i fondi destinati al Ministero dell’Ambiente (da 1.300 a 628 milioni da qui al 2011) e di destinare la miseria del 2,4 per cento delle risorse pubbliche alle voci ambientali. Fra l’altro, proprio nella cura dei boschi e dei parchi, nella regimazione delle acque, nel riassetto idrogeologico con metodi naturali potrebbero venire impiegate cooperative di giovani, italiani ed extra-comunitari, quell’“esercito del lavoro” proposto da Manlio Rossi Doria e ripreso da Paolo Sylos Labini, destinato a sostituire nella manutenzione ordinaria e straordinaria decine di migliaia di contadini spariti da tempo e il cui esodo, insieme alla diffusione del cemento e dell’asfalto, è alla radice dello sfascio nazionale che in questi giorni riporta la Calabria nei titoli dei giornali. Si può, si deve reagire. Ma bisogna crederci, anche come rimedio di fondo contro la crisi in atto e contro lo “sfasciume pendulo” di cui parlava Giustino Fortunato, divenuto ormai nazionale.

«Fermatevi, saltate un giro. Un segno di maturità. Senza preoccuparsi se questo comporta un regalo a Veltroni. Perché se non vi fermate voi, comunque io, come elettore, mi fermerò». Il sociologo Marco Revelli, da sempre impegnato nell'analisi del campo della sinistra, fa suo l'editoriale del manifesto alle sinistre: alle europee meglio saltare un giro, tanto più che lo sbarramento costringerebbe a rimettere insieme chi finora si è dato duramente battaglia. «Distinguerei i destini della sinistra dalla questione dello sbarramento. Il destino della sinistra si era già giocato in questo ultimo anno. Sbarramento o no. Un anno fa erano stimati al 12 per cento. Con i comportamenti tenuti dalle loro rappresentanze politiche si sono ridotti a una condizioni in cui anche una soglia del 4 per cento diventa mortale. Il segno di un fallimento storico, di lì non si ricomincia nulla.

C'è un momento di svolta, da quel 12 per cento ai voti di oggi ?

Se vogliamo fissare una data entro la quale qualcosa era ancora possibile, direi il corteo del 20 ottobre 2007. Lanciava un segnale forte da parte di un aggregato di gente di sinistra alle proprie dirigenze politiche. Di quel messaggio non hanno raccolto nulla, di lì è iniziato il lungo suicidio.

In questo «loro» ci sono tante diverse identità e entità, a sinistra.

Tutte viziate dalla stessa tara, la mancanza di responsabilità politica, l'autoreferenzialità assoluta. Microformazioni che praticano la scissione dell'atomo in totale assenza di confronto con il reale. Dal giorno dopo la sconfitta elettorale non sono stati un'ora a riflettere su quello che era successo, e hanno subito cominciato a scagliarsi l'un l'altro i mattoni della casa crollata. Uno spettacolo inguardabile.

Dall'altra parte, però, c'è la scelta di Pd e Pdl di introdurre una soglia alla vigilia del voto.

Un pactum sceleris, il segno dell'immeschinimento della politica. L'uso orribilmente tattico della legge elettorale non per decidere le sorti di un paese, ma le sorti di Veltroni, che si gioca la sopravvivenza su due-tre punti in più, e di Berlusconi, che non può prendere un decimo in meno delle politiche: due capetti di bassa statura, divorati dall'immagine. L'uno col problema di sopravvivere, l'altro di stravincere.

Il Pd rischia di cancellare la sinistra.

Veltroni conferma manu militari la linea dissennata dell'autosufficienza che l'ha già portato alla catastrofe elettorale e politica. Brucia le navi, rende impossibile un ritorno a una politica di alleanze con quello che cerca di sopravvivere a sinistra. È l'idea che lo porterà all'estinzione. E ha due elementi: primo, ciò che conta è il governo e il potere. Secondo, si può perseguire questo obiettivo da soli. Le due cose sono incompatibili. È una forma di delirio politico non giustificabile se non con una lettura di tipo personalistico, un groviglio di rancori, odi, ambizioni tali da offuscare l'intelligenza.

Quindi Veltroni sta costruendo le condizioni per la sua sconfitta?

Per la sua fine storica. Il Pd da solo non raggiungerà mai la maggioranza in questo paese, ma intanto distrugge qualsiasi alleato. La sua esigenza tattica di non perdere troppo lo costringerà a perdere sempre.

Torniamo a sinistra. Vendola, dopo la scissione dal Prc, propone a tutti un cartello elettorale.

Leggo tutto questo con un senso di frustrazione. Siamo ostaggi di professionisti della politica che fanno e disfano sulla base del controllo di microapparati. Di per sé sembra una proposta ragionevole. In realtà no. Gli economisti, parlando della borsa, parlano di 'rimbalzo del gatto morto': lo sbatti e sembra che reagisca, ma è un'illusione. L'unità è proposta da figure che hanno nella loro pratica costante quella della divisione. Chiunque può immaginare che, supposto che riescano a fare un cartello elettorale, un minuto dopo ricominceranno dare il triste spettacolo di questi mesi.

Non salva nessuno?

Nel momento in cui salta per aria l'equilibrio socio-economico globale, da nessuno ho sentito un brandello di discorso politico. Il cartello su cosa lo fanno? Di nuovo per mettere in palio la propria sopravvivenza? Da quest'area, in un momento di straordinario rimescolamento anche politico, con quello che è avvenuto con il cambiamento della leadership degli Usa, ci si aspetterebbe un dibattito straordinario. E invece l'unico che ha detto qualcosa è Mario Tronti, che non appartiene a queste formazioni. Da quel paesaggio di macerie non è venuto un vagito. E se non arriva, le ragioni storiche di quella entità sono venute meno. Ne sentiamo un lacerante bisogno perché soffochiamo in questo universo berlusconian-veltroniano. E tuttavia la finestra su quel lato non si apre. Forse quell'esperienza si è consumata in modo irreversibile, e bisogna ricominciare a ricostruire altrove, con altro linguaggio, altri modelli organizzativi.

Servono altri uomini, altre donne?

Dal punto di vista personale continuo ad avere stima di loro. Politicamente non li sopporto più. L'immagine che offrono è quella di chi sta regolando i rapporti interni e lavorando alla propria sopravvivenza. Che valori hanno? La stella polare della politica di domani è la capacità di coniugare le diversità. Il pianeta finisce, se non siamo in grado di ammettere diversità anche radicali e di farle contaminare a vicenda: israeliani e palestinesi compresi quelli di Hamas, migranti e i locali, atei e credenti. Se non siamo in grado di ridefinire il rapporto fra le identità e la capacità di convivere andiamo alla rovina. Questa è la sfida della politica. Invece cosa mi propongono costoro? La guerra civile in una microarea. La contrapposizione fra vicini. L'incapacità di convivere persino fra i simili.

Postilla

Lo “sbarramento” elettorale è stato motivato, quando è stato applicato alle elezioni politiche, con l’esigenza della “governabilità”: se non si riduce il numero dei gruppi e gruppuscoli presenti nel Parlamento, questo non è in grado di formmare un governo che duri, e che quindi possa effettivamente governare. Molti hanno osservato che la governabilità è entrata in conflitto con la democrazia, e ve ne sono mille prove in tutte le assemblee elettive che hanno perso molto del loro potere nei confronti degli esecutivi, senza che i cittadini sentissero un qualche beneficio per la maggiore “governabilità”. Ma comunque, dietro la tesi dello “sbarramento per la governabilità” c’era un ragionamento che si riferiva a un interesse generale. Ma il parlamento europeo non elegge nessun governo. Quindi non c’è alcun ragionamento dietro la proposta veltrusconiana, se non la sopraffazione degli altri, il mero interesse delle liste più forti al loro ulteriore rafforzamento simmetrico, a spese di tutte le altre opinioni.

C’è da inorridire sul modo in cui il regime bipartisan sta distruggendo la democrazia rappresentativa in Italia. E c’è da disperarsi per l’assenza di qualsiasi capacità di proposta politica da parte dei brandelli della sinistra. Con amarezza temo che l’unica reazione possibile sia quella di protestare. Forse un segnale forte in occasione delle elezioni europee può provocare qualche ripensamento nells successive elezioni politiche nazionali.

Si può costruire un federalismo fiscale senza parlamento? Sembrerebbe di sì, dato che nel progetto approvato dal Senato c’è, al suo posto, un buco nero nel tessuto istituzionale della Repubblica. Il bello è che il progetto è passato con giuste, reciproche lodi sul "metodo parlamentare" che ne ha consentito una quasi completa riscrittura rispetto a quello originariamente uscito dal consiglio dei Ministri. Tutto vero. Senonché, alla fine, si è fabbricato qualcosa in cui solo una commissione bicamerale, con tenui poteri consultivi, sembra inserita – come un appunto – per ricordare che sì, insomma, in qualsiasi posto del mondo e delle costituzioni, un meccanismo di tanto forti e vasti poteri dei governi territoriali può funzionare solo con una garanzia parlamentare che lo faccia vivere ogni giorno: e non solo al momento della nascita.

Naturalmente, poiché ogni promessa politica non è un debito, il governo ha promesso che la "Camera delle autonomie" un giorno o l’altro verrà fuori (e non si sa come). La situazione è simile a quella della vendita della carrozzeria di un’auto con l’idea di un motore futuro, ma ignoto. Intanto, c’è il pagamento del prezzo.

Perché vi è la necessità di un "cuore" parlamentare nel progetto? Perché quello approvato dal Senato è solo un modello astratto fatto di ipotesi di combinazioni tributarie senza cifre né percentuali. E’ l’enunciazione di un teorema di interdipendenza di risorse senza dimostrazione di effettive compatibilità tra dare e avere nel congegno immaginato. E’ una scommessa sull’aggiustamento di fabbisogni finanziari incerti a competenze giuridiche indefinite dei governi territoriali.

Con il consueto brillante incalzare argomentativo, il ministro dell’economia ha certificato in Senato l’incertezza "a questa altezza di tempo". "Abbiamo dodici tipi principali di tributo in gioco; cinque soggetti politici titolari dei cespiti tributari; undici tra criteri e principi e un numero non ancora specificato di decreti attuativi". Ed ha anche detto: "è difficile ragionare in termini di meccanismo di finanziamento se non è stato prima definito il costo standard, che è la base da cui partire". Certo, ha assicurato che "i dati sono necessari e possibili decreto per decreto", "ad ogni passo". Ma ha anche detto che "le variabili che devono essere conteggiate, interagiscono tra di loro essendo interdipendenti e coniugate"…

E’ di fronte a tutto questo che il Parlamento è "disarmato", come ha sostenuto l’opposizione in Aula (anche perché non si è voluto attivare la commissione "mista" con poteri procedurali, già costituzionalmente prevista). Il che significa che malgrado la giudiziosa introduzione di regole e formule di garanzia – per patti di convergenza, per perequazione di infrastrutture, per la pressione fiscale complessiva (ma sul deficit è allarme a Bruxelles) – sarà, alla fine, la forza politica di chi farà i decreti di attuazione ad avere la meglio. E non si potrà affidare il tutto ad un piramidale contenzioso costituzionale.

La verità è che il funzionamento di un sistema di tale complessità istituzionale e fiscale, per di più "in un contesto di crisi", richiede una nuova organizzazione funzionale del parlamento. Richiede, appunto, che uno dei suoi rami sia capace di reggere il filo coerente delle cento intese di calcolo e di perequazione tra Stato e regioni (ordinarie e "speciali"), tra regioni e regioni, tra comuni e regioni. Un ramo capace anche di controllare i nuovi equilibri di sistema e la loro compatibilità con le responsabilità "europee" di contabilità finanziaria e di tenuta monetaria. Un ramo, infine, capace di districare il groviglio di funzioni tra i vari livelli di governo, senza aggravare la Corte costituzionale di compiti di regolazione costituzionale, più che di giurisdizione. Solo così si potrà inserire nel progetto una effettiva dimensione parlamentare: di un parlamento, insomma, non "federale" ma "federatore".

E’ inutile nasconderlo. Il progetto approvato, come ha scritto Eugenio Scalfari, "è un manifesto ideologico più che una legge". Reca dunque sottesa – anche soltanto come scenario Potiomkim, come canovaccio di rappresentazione, come "effetto speciale" – una spinta divaricatrice che ha bisogno di un contropotere nazionale per non diventare disgregatrice. Lo Stato accentratore della finanza derivata è ormai un modello che, giustamente, non piace a nessuno. Ma, allora, è necessario un luogo nella Costituzione dove unità e indivisibilità della Repubblica si trasformino da concetti retorici in vincoli effettivi per l’affollato pluralismo italiano. E questo luogo non può essere che un parlamento riorganizzato: l’idea che la ripartizione delle risorse pubbliche possa farsi fuori dalla vista della rappresentanza politica è di per sé una regressione pre-moderna.

Perché hanno certo una loro verità le analisi sulle crisi del parlamento. Prima, a causa della partitocrazia e ora per la fine dei partiti. Prima, per le "degenerazioni" del parlamentarismo ed oggi per le "degenerazioni" del potere di governo in parlamento. Prima, per il voto segreto ed ora per il non più libero mandato parlamentare. Prima, per l’eccesso di proporzionalismo ed oggi per gli eccessi del maggioritario. E così via. Senonché, proprio in un caso come questo del "federalismo fiscale", si capisce che il meccanismo parlamentare è anche qualcosa di altro: e ancora vitale.

E’ il crocicchio in cui istituzioni lontane trovano una formula compositoria fra di loro e si incontrano con le tante realtà del territorio italiano. Il punto in cui la rappresentanza nazionale, di cui parla la Costituzione, acquista una sua verità proprio nel confronto tra interessi parziali e separanti. Il momento in cui la politica, con autorità costituzionale, riguadagna le sue ragioni di fronte alle tante commissioni di tecnici e di esperti.

Certo. La società si è fatta complicata e ancora più la sua rappresentanza rispetto ad una istituzione secolare. Accanto alla classica forma di democrazia rappresentativa, la politica può oggi organizzarsi con altri mezzi sociali. Il ritrovarsi e aggrupparsi nel web sembra oggi più naturale che la via dell’associazione in partiti. La grande campagna elettorale americana, appena conclusa, ha segnato la svolta. Ma anche lo sbocco della nuova democrazia partecipativa ha bisogno del Parlamento, per non fermarsi al momento elettorale. La richiesta è ora di una democrazia continua. Cioè di una democrazia non essiccata dai lunghi intervalli fra un’elezione e l’altra: ma nutrita di dialogo permanente con il corpo elettorale e le identità territoriali. Non in esecuzione di sondaggi ma per creare politiche e opinioni: in uno spazio virtuale che solo il Parlamento può far diventare reale.

Ecco perché in un progetto di coordinamento di autonomie territoriali che non fosse solo un indeterminato e sospettoso disegno di spartizione di soldi pubblici, questa idea nuova (e antica) di parlamento avrebbe dovuto essere il centro. Ma, forse, non è ancora troppo tardi. Non significa buttare via il lavoro fatto se si cercherà di recuperarlo, con vincoli istituzionali e non vaghe promesse, al senso unitario di una Repubblica parlamentare.

Con le recenti inchieste che hanno coinvolto esponenti politici di rilievo del centro-sinistra è tornata prepotentemente di attualità nel nostro paese la cosiddetta "questione morale".

GUSTAVO ZAGREBELSKY - Prima di entrare nel vivo della discussione, desidero fare una premessa. In generale, nell’affrontare questi problemi, dobbiamo tenere conto della circostanza che la politica - da sempre, ab immemorabili - è un impasto potremmo dire di idealismi e di bassure, di idealismi e corruzione. Lo è forse intrinsecamente; quindi pensare che si possa avere una politica totalmente libera da corruzione rappresenta un caso di moralismo essenzialmente antipolitico. Da questa constatazione, però, non deriva che la corruzione debba essere accettata passivamente, anche perché, oltre un certo limite, essa è destinata a minare dall’interno il regime entro il quale si diffonde. Nel nostro caso, il regime democratico. Questa premessa mi pare necessaria. La corruzione politica non è uno scandalo "di sistema". Diventa invece uno scandalo "del sistema" se si diffonde fino al punto da diventare una sua regola costitutiva e da essere accettata come tale, senza che si manifestino reazioni o, peggio, che si manifestino reazioni non nei confronti della corruzione e di coloro che ne sono autori, ma nei confronti di coloro che la mettono a nudo, la denunciano, cercano di colpirla. Qui c’è una prima domanda alla quale dobbiamo tutti una risposta, quale che sia la nostra posizione nella società e nelle istituzioni: nel nostro paese, la corruzione la si combatte o la si copre?

Secondo punto. Si ritorna a parlare di "questione morale", ma siamo tutti d’accordo nell’intendere che cosa sia la "morale" nella questione morale? Non ne sono sicuro. Inutile dire che vi sono concezioni della morale quante sono le visioni del mondo e, per restare al nostro tema, quante sono le visioni della politica. La corruzione è una questione di contraddizione tra concezione della politica e azione politica. Se cambia la concezione della politica, azioni che in una concezione sono perfettamente "morali" possono non esserlo più, e viceversa. C’è una morale politica comune, ora, qui, nel nostro paese? Guardiamo i fatti: i medesimi comportamenti, presso gli uni, provocano riprovazione; presso gli altri, nessuna riprovazione, anzi talora consenso. Ad esempio: la confusione del privato nel pubblico e del pubblico nel privato per alcuni è una gravissima prova di disprezzo delle istituzioni; per altri, è una benefica forma di modernizzazione, sburocratizzazione, perfino avvicinamento delle istituzioni e della politica alla gente. Chi è "morale" e chi "immorale"? Dipende dai punti di vista. Se i punti di vista sono lontani, il discorso sulla necessità di una vita pubblica ripulita dalla corruzione - una questione che dovrebbe unire, nel nome di un interesse comune, superiore a quello delle parti - diventa semplicemente un’occasione, un pretesto per scambiarsi accuse. In conclusione: ciò che dovrebbe essere ripristinata è la visione comune, l’idea del vivere insieme. Come si può fare appello alla morale in un paese in cui l’evasione fiscale, uno dei comportamenti eticamente più condannabili secondo un’etica repubblicana, sia accettata addirittura come esercizio di un diritto o manifestazione di furbizia?

BARBARA SPINELLI - Partirei da quanto ha detto il professor Zagrebelsky a proposito della politica, che è sempre un impasto di idealismo e bassezze o di idealismo e forme di corruzione. È vero che il potere è qualche cosa che naturalmente corrompe. Come diceva lord Acton, "il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente". È un dato di fatto. Nella storia del liberalismo - prima ancora che cominciasse l’esperienza della democrazia - si è guardata in faccia questa realtà e da qui hanno avuto origine tutte le teorie del potere che va limitato o controbilanciato. Montesquieu dice l’essenziale quando afferma: "Perché non ci sia abuso di potere occorre che il potere fermi il potere": che cioè ci siano istituzioni, organismi che facciano da contrappeso. Da qui è nata poi la separazione dei poteri, e da qui è nato anche il quarto potere, quello della stampa, che è un altro potere chiamato ad arginare il potere.

Più avanti avremo modo di parlare di che cosa sia la morale in politica: sono convinta anch’io che essa sia la questione centrale nell’Italia contemporanea. Eugenio Scalfari ha spiegato d’altronde come lo sia quasi da principio, nella sua storia. La cornice fondamentale che impone un comportamento corretto in politica è però costituita sempre dalla possibilità che il potere fermi il potere. Solo la separazione dei poteri può garantire che la corruzione venga fermata, proprio perché il potere tende intrinsecamente a farsi assoluto e dunque a corrompere assolutamente, andando verso la crescente occupazione dello spazio pubblico da parte di singoli soggetti come i partiti, gli interessi particolari, e chiunque non abbia come obiettivo il bene comune o lo Stato, ma la promozione del proprio vantaggio e del proprio bene parziale. Chiunque parli di questione morale - o di giustizia che funzioni - in questo momento storico, nell’Italia di oggi, deve ormai preoccuparsi quasi sempre di spiegare che non è un moralista, che non è un giustizialista; così come deve sistematicamente spiegare, se difende la laicità, che non è un laicista. In questo momento, chi domanda comportamenti eticamente corretti in politica si trova in una posizione difensiva.

LUIGI ZINGALES - Tutto quello che è stato detto finora mi sembra giustissimo. Però prima ancora di una questione morale, io parlerei di una questione legale in Italia, che non interessa solo la politica ma anche il mondo degli affari. In Italia il delitto paga, e paga molto. Tanzi è stato condannato, però non si sa se andrà mai in galera, anzi è probabile che non farà nemmeno un anno di galera nella sua vita. Fiorani è in Sardegna che si diverte, fa la bella vita. In Italia praticamente nessuno va in galera qualsiasi cosa faccia. O meglio, in galera ci vanno solo i poveracci, perché non hanno un buon avvocato e non sanno tirare a lungo le cose.

ZAGREBELSKY - Naturalmente questione morale e questione legale sono strettamente legate. La legge è pur sempre un riflesso di un modo di concepire la vita sociale, secondo un punto di vista che è denso di contenuto etico, che rinvia a un’idea di vita buona, anche se è la legge più permissiva, più liberale del mondo. La libertà comporta un’etica della libertà. Ma in Italia la corruzione politico-amministrativa - e con questa alludo alla corruzione dei meccanismi della pubblica amministrazione come l’alterazione delle gare pubbliche, la compravendita di provvedimenti della pubblica autorità, insomma a tutti quei reati che hanno come vittime non singole persone concrete, ma la società nel suo complesso - viene considerata molto poco grave.

Quando il soggetto passivo è "il pubblico", la coscienza etica si affievolisce. Sembra che ci sia un’idea pervasiva, che ha corrotto le nostre coscienze, secondo la quale ciò che è di tutti - ciò che è pubblico - per questo è di nessuno, non merita di essere difeso, può essere oggetto di spoliazione privata. E così da noi chi viene preso con le "mani nel sacco" sa di aver fatto, in fondo, ciò che molti altri, se ne avessero la possibilità, farebbero. Molte denunce, molte iniziative giudiziarie sono in realtà poco più che un omaggio ipocrita alla virtù. Ma basta lasciar passare un poco di tempo e tutto ritornerà come prima, anzi, in certi casi, peggio di prima. Quanti casi sapremmo indicare di persone incappate in "incidenti" giudiziari che ne sono usciti, in un modo o in un altro, rafforzati negli ambienti in cui operavano e continuano poi a operare?

Nel nostro paese i crimini dei "colletti bianchi" - come si diceva una volta - sono sostanzialmente impunibili, perché tra condoni, indulti, norme che accorciano i termini di prescrizione eccetera, è praticamente impossibile arrivare a sentenze di condanna e poi all’esecuzione delle sentenze. E questa, secondo me, non è causa di corruzione, ma conseguenza di un certo modo di vedere le cose, quando di mezzo c’è "solo" l’interesse pubblico. Ritorno al mio chiodo fisso: quando parliamo di morale, forse fra noi tre c’è un certo accordo sul modo di concepirla, ma nel nostro paese?

Barbara Spinelli faceva riferimento alla grande idea di Montesquieu del potere che arresta il potere, radicata nella convinzione che il potere è, in sé, corruttivo. Il potere corrotto, per Montesquieu, è quello troppo forte, smodato. I regimi sani, per lui, sono i regimi moderati. Ma questa è una, una soltanto, concezione della buona politica, una concezione liberale. Oggi hanno preso piede idee e pratiche politiche che Max Weber avrebbe definito carismatiche. Il capo carismatico, quello al quale i suoi adepti affidano fideisticamente le proprie sorti e dal quale si attendono tutto il bene possibile, non sa che farsi dei limiti, dei contropoteri eccetera. Li considera degli impacci, delle forme di corruzione del potere ch’egli vuole forte perché grande è l’attesa che gli adepti ripongono nel loro salvatore. Ecco, ancora una volta, la relatività dei punti di vista. Perfino l’imbroglio, la corruzione, il furto, il delitto, si giustificano quando la causa è grande e i leader carismatici non si accontentano di una piccola politica: vogliono il potere di fare tutto perché i fini che sbandierano sono grandi, storici, epocali, perché i nemici contro cui combattere sono potenti, pericolosi, subdoli. Perfino il "bossismo", la caricatura del regime carismatico (bossismo non nel senso di Bossi, ma del potere del "boss"), ha bisogno di ideali per giustificarsi e per giustificare l’uso spregiudicato di ogni mezzo possibile.

Nel nostro paese le reazioni all’illegalità sono così diverse proprio perché diverse sono le concezioni delle relazioni politiche e sociali alle quali - consciamente o inconsciamente - ci si ispira. Se si vuole, con una semplificazione, per l’una "il fine non giustifica i mezzi", mentre per l’altra, altrettanto classica, "il fine giustifica i mezzi".

Sono molti anni che vado scrivendo, e non sono il solo, intorno alla necessità per l’architettura di una sua fondazione a partire da una distanza critica rispetto al reale empirico su cui la società è fondata e come costituzione di possibilità altre, agite per mezzo della forma delle specificità della essenza della nostra disciplina. Una predicazione assai poco ascoltata constatando il successo mediatico (che si è sostituito ampiamente alla riflessione critica) delle architetture-spettacolo autoreferenziali dei nostri anni.

Alla discussione tra uso e spettacolo in architettura è dedicato un recente libro, a cura di Anthony Vidler, costituito da undici testi nati da un seminario intorno all´argomento dal titolo Architecture Between Spectacle and Use (Yale University Press - New Haven and London pagg. 189). La discussione muove a partire dalla nozione di «società dello spettacolo», promossa quarant’anni or sono dal celebre libro di Guy Debord, e analizza le idee di forma, di monumento (che è però cosa ben diversa dallo spettacolo) messe in questione dalla nostra instabilità sociale omogenea, che istituisce nuove connessioni tra architettura, moda, design e arti visuali che proprio a causa del loro stato di incertezza si diffondono con confusione spettacolare su ogni cosa ed ambiente. A sua volta nei testi del libro la forma architettonica è confrontata con la nozione di uso funzionale e sociale e le loro attuali deformazioni e con le loro connessioni con i principi della costruzione, principi che sono altra cosa rispetto a quelli della produzione, dipendendo sempre più questi ultimi direttamente dalle leggi del mercato e dalla necessità di comunicazione pubblicitaria.

Hal Foster, uno degli autori scrive giustamente, rovesciando la frase di Debord che definisce lo spettacolo come il capitale accumulato sino al punto di diventare immagine, di come essere oggi sia «un’immagine accumulata a tal punto da diventare capitale».

Si potrebbe osservare come da questa discussione siano, per forza di cose, escluse alcune tipologie architettoniche che sono state protagoniste della storia dell’architettura come chiese, palazzi, piccoli edifici privati, case popolari ed in generale gli aspetti connessi al disegno urbano. Sarah Goldhagen parla è vero, nel suo scritto, di «disegno urbano spettacolare» domandandosi però alla fine che sarebbe importante sapere di quale spettacolo si tratti, ma il tessuto urbano con i suoi enormi problemi è escluso dal discorso, anche se gli esempi antichi certo non mancano.

Ovviamente ci dovremmo anche chiedere perché la storia dell’architettura era in genere costruita sulla successione di grandi fatti monumentali spettacolari perché, pubblicamente e collettivamente significativi. Almeno per ciò che concerne la provvisorietà che è connessa all’idea di spettacolo, perché l’esibizione del potere ha sempre richiesto la costruzione di qualche ambiente in funzione cerimoniale. Anche a quello probabilmente «il pubblico dei più» era chiamato solo ad assistere mentre nella democrazia formale dei nostri anni esso partecipa attivamente come consumatore senza comunque guidarne le ragioni e sviluppi, coadiuvata dalla riproducibilità tecnica dei prodotti, persino nella loro variazione.

Certo anche, Benjamin aveva scritto del tramonto del valore culturale di classe a favore di quello espositivo, ma la società è ben lungi dall’essere una società liberata: forse neanche più una società riconoscibile come tale.

Anche per questo «lo spettacolo», compreso quelle delle arti visive oltre che dell’architettura, ha accelerato i suoi ritmi nello stesso tempo espandendoli nello spazio del mondo globalizzato, accostandoli all’incessante rinnovamento delle merci ed all’idea del colossale: la grandezza fisica vorrebbe coincidere con la grandezza del senso: «Non avendo abbastanza da fare - scrive nel libro Mark Wigley - gli architetti sovente fanno troppo». Così la diffusione sostituisce la durata (cioè, la metafora dell’eternità inseguita un tempo dalle arti) con la «bigness», l’eccesso, la novità come valore in sè, per mezzo del riutilizzo dei linguaggi delle avanguardie del primo trentennio del XX secolo sostituendo con lo scandalo spettacolare la loro ribellione e con la progressiva radicale riduzione dell´iniziativa della pubblica utilità; sino al tentativo populista di trasformare in spettacolo la constatazione del banale costruendo su di esso un’intera estetica.

Il grande storico Michael Baxandall scriveva «Lo stile è un documento di storia sociale» ed in questo senso lo «spettacolismo» è anch’esso un documento della storia sociale dei nostri anni ma certo il documento non è la stessa cosa delle opere dell’arte: e le due cose, credo, non vadano confuse.

E’ dunque ben riconoscibile in questa vittoria «dello spettacolo sull’uso» una logica precisa del potere della merce, anche se una logica fatale ai destini dell’architettura dei paesaggi e delle città. E, ciò che è assai peggio, dei loro cittadini.

Il punto che consente di individuare correttamente qual è la posta in gioco nella vicenda del vescovo lefebvriano negazionista è che la richiesta di perdono dei suoi confratelli è stata rivolta al Santo Padre, e non agli ebrei o all'opinione pubblica mondiale, cioè alla forma concreta che prende oggi l'umanità. All'origine di questa insensibilità verso la fraternità universale e verso il dovere di testimoniare la verità davanti all'intero consesso umano, c'è il nucleo del pensiero dei tradizionalisti. Le loro fonti intellettuali sono infatti i controrivoluzionari cattolici del primo Ottocento - polemisti come Maistre, Bonald, Donoso Cortés - e l'intransigentismo antimoderno che di lì si è propagato dentro la Chiesa e all'interno delle gerarchie, fino almeno a Pio X (a cui è intitolata la confraternita dei lefebvriani).

Un pensiero di micidiale coerenza - superato solo dal Concilio Vaticano II - che consiste soprattutto nell'affermazione di un'autorità (il papa, vertice della Chiesa) e nella interpretazione del cattolicesimo come un insieme di dogmi identitari, al di fuori dei quali non c'è salvezza: non a caso i tradizionalisti avversano il principio conciliare della libertà religiosa, come in generale negano l'autonomia della politica dalla religione, unico fondamento che dia stabilità alle istituzioni umane.

L'identità cattolica consiste nell'obbedienza all'autorità, e nella difesa della Chiesa da chi le è nemico (il mondo moderno, generato dal protestantesimo) e da chi le è estraneo: in particolare, gli ebrei, che per di più sono anche deicidi e che, comunque sia, devono convertirsi alla vera fede.

Lo sterminio nazista, in quest'ottica, può essere negato - o minimizzato come questione storica che non interessa i religiosi, come si legge nella lettera di scuse al pontefice - perché si vuole dimostrare che l'antisemitismo (religioso, s'intende, non razziale) è giustificabile, e che le sue conseguenze non sono necessariamente quel mostruoso crimine davanti a ogni Dio e a ogni uomo che è stata la Shoa.

Se tale negazione crea qualche problema - com'è inevitabilmente avvenuto - allora ci si scusa con l'autorità, che da quel passo falso può avere difficoltà, e subire contraccolpi negativi: la questione è sostanzialmente ridotta a una faccenda di opportunità e si gioca solo nello spazio dell'autorità. Insomma, se il negazionismo "laico" serve a rendere spendibile politicamente il nazismo, liberato dalla colpa dello sterminio e trasformato in uno sforzo di difesa dell'Europa dalle minacce dell'Occidente americano e dell'Oriente bolscevico, l'antisemitismo tradizionalista (più o meno avventato nelle sue formulazioni) è interno e funzionale all'interpretazione autoritaria e identitaria del cattolicesimo.

La Chiesa cattolica ufficiale vede nel nazismo l'esempio estremo (insieme al comunismo) del Male a cui conduce la modernità che diventa pagana e antiumana proprio perché rifiuta Dio e si ribella all'autorità della Chiesa, pervertendo così anche la retta ragione umana. Una posizione che potrebbe essere enfatizzata come opposta a quella dei tradizionalisti: tuttavia la connotazione specifica di questo pontificato porta la Chiesa all'utilizzazione costante del principio di autorità (da ultimo con la contrapposizione della legge di Dio - interpretata dalla gerarchia - a quella dello Stato).

Oggi, le affermazioni autoritarie non vanno certamente nella direzione di una giustificazione dello sterminio (semmai, si impegnano in una difesa dogmatica della vita); eppure la Chiesa sembra trattare i tradizionalisti come "fratelli che sbagliano", come un figliol prodigo esuberante ed estremista ma recuperabile, appunto perché è orientato nel senso giusto, perché crede prima di tutto nell'autorità come dimensione essenziale della vita religiosa organizzata.

È in nome della comune affermazione - l'una prudente, l'altra imprudente - del principio di autorità che, anziché tenere fermo il muro (la scomunica) alzato da un altro pontefice, la Chiesa oggi riammette i lefebvriani nella propria comunità, a patto che tornino all'obbedienza papale.

Probabilmente, è questo uno dei segni che fanno capire con quanta convinzione la Chiesa si schieri oggi sulla difensiva, quanto profondamente si interpreti come una fortezza assediata, un'identità coinvolta in un conflitto di civiltà, che si gioca tanto all'interno dell'Occidente quanto all'esterno. Certo, questo clima intellettuale e argomentativo, che porta la Chiesa a conciliarsi piuttosto con i tradizionalisti che col mondo di oggi, costringe a ritornare ai "fondamentali" della Modernità, alla sua lotta contro il principio di autorità: e a ricordare che le affermazioni dogmatiche, comunque orientate, portano con sé la potenziale negazione della libertà e della verità che gli uomini faticosamente costruiscono nella loro vicenda storica.

C’era ieri a Roma, credo in Italia, una diffusa adesione al tentativo di linciaggio dei criminali arrestati per lo stupro di Guidonia: le immagini le avrete viste in tv. La folla fuori dal commissariato gridava «uccideteli, dateli al padre della ragazza, a morte le bestie». In autobus, nella coda al supermercato, fuori da scuola ho sentito le stesse parole. Come una rivolta all’unisono, come se un odio compresso avesse finalmente trovato lo sfogo. Contro cosa? Le bestie, appunto. Gli stranieri. Sono romeni, no? Sono romeni che abitano dei condomini delle nostre città, dunque il pericolo sul pianerottolo di casa. Uccideteli. Certo, è difficile esercitare la ragione dentro una così grande grancassa emotiva. E poi certo: c’è stata una violenza tremenda, uno di loro ha confessato, li hanno presi perché parlavano con il telefono della vittima. Un crimine orrendo: nessun dubbio.

L’entità della reazione collettiva mi sembra però un fatto in sé: il malessere viene da prima, non c’entra, parla d’altro. Allora proviamo a mettere in fila i tasselli della storia. Una banda di criminali di nazionalità romena - dunque cittadini europei, non clandestini né extracomunitari - aggredisce e brutalizza due giovani italiani. La banda vive a Guidonia, in appartamento: ciascuno il suo. Ruba, traffica, violenta. Usano il cellulare di una delle vittime. Grazie alle intercettazioni chi indaga capisce che stanno per fuggire. Li prendono. Assicurati alla giustizia. Molto bene. Ogni giorno in Italia giovani donne vengono aggredite e uccise dentro e fuori dalle loro case. Ogni giorno criminali di tutte le nazionalità si organizzano per commettere violenza. Lo fanno per telefono, spesso. Il governo sta per varare nuovi limiti all’uso delle intercettazioni: la rivolta di popolo di ieri vuol forse dire qualcosa su questo? Le donne sono le vittime predilette. L’indignazione corale di ieri sarà forse presa in considerazione per varare una legge che da anni giace nelle anticamere dell’aula, tre volte proposta e tre volte accantonata, che permette alle donne minacciate di avere tutela dagli aguzzini? Forse, non è detto.

Anche la legge contro la violenza sessuale sarebbe efficace se solo si mettessero in atto quei tre o quattro provvedimenti che servono: non lo si è fatto finora. Quattro donne sono state violentate ieri. Sei milioni e settecentomila hanno subito violenza nel 2007. Quasi sette milioni, non una. Non abbiamo visto però sette milioni di volte quelle stesse immagini in tv, quelle del linciaggio. È vero, quasi nessuna violenza è stata denunciata: rilevata, sì, ma non denunciata. Sono aggressioni e morti domestiche. È appena uscito un libro che racconta per immagini la violenza del Circeo. Erano italiani, quelli, era un’altra storia, certo. Ma cosa è cambiato da allora, nella testa degli uomini e nelle leggi che li governano? «So’ omini», questo diceva una vecchia ieri in tv. Poi che siano romeni, slavi, criminali comuni o mafiosi, bande di nazisti o balordi di periferia, mariti offesi dal rifiuto o sconosciuti non cambia molto per chi è violentato e ucciso. Servono regole, cultura, buone leggi, tutela di chi non può usare la forza. Poi anche le intercettazioni, certo. E le sanzioni dure e durissime. Ma non una volta sola. Sempre.

La «Lettera provocatoria» (in Passaggio Obama , Ediesse) di Mario Tronti agli amici del Centro riforma dello Stato contro le aspettative messianiche poste in Barack Obama mi sembra indirizzata più al Partito democratico italiano che al nuovo presidente degli Stati uniti. Obama infatti non si presenta per quel che non è, ha giurato sulla Costituzione del suo paese, si propone di riportarlo al prestigio perduto senza guerra e rimettendone in vigore i diritti politici, non si professa né comunista, né socialista, né socialdemocratico - parole che negli Stati uniti non hanno gran senso. E' un democratico americano che una sola cosa promette: di cambiare la linea di politica interna ed estera di George W. Bush.

La potrà cambiare come e quanto un eletto del Partito democratico la può cambiare, cioè dentro un sistema capitalistico dove il mercato, parole sue, è imbattibile, ed è l'unico che gli Stati uniti conoscono e cui aspirano. E' molto? E' poco? Non è poco. Il capitalismo ha più facce, nessuna amabile, ma da diversi anni, come scrive Paul Krugman, ne presenta una delle peggiori. Che non è nata con Bush, si è affermata con Reagan. L'asse ne è stato un liberismo selvaggio, già fallito quando lo predicava von Hajek, ma ripredicato da Milton Friedman e dai suoi Chicago Boys, seguiti con entusiasmo dal Fondo monetario internazionale, dalle Banche centrali nonché dai trattati della nuova Europa. Lo aveva inaugurato Thatcher nel 1974, con la disfatta dei laburisti, e il crollo dei «socialismi reali» nel 1989 ha indotto ad aderirvi, confusi e pentiti, i partiti che ancora si chiamavano comunisti. E con questo è andato a pezzi quel che restava del «capitalismo benevolo» di marca rooseveltiana e più tardi keynesiana.

L'arretramento delle condizioni di vita e della coscienza di sé da parte delle classi subalterne è stato grande, il salto tecnologico che poteva liberarle le ha schiacciate e precarizzate, le loro rappresentanze si sono indebolite e quel che in Europa si intendeva per democrazia - non solo votare ogni quattro o cinque anni ma contrattare salari e essere titolari di diritti di un'altra idea di società si è andato spappolando. Se nel secondo dopoguerra gli stati dell'occidente europeo avevano cercato di gestire il conflitto fra le classi, dalla metà dei '70 in poi, e precipitosamente con l'89, ne hanno disconosciuto fin l'esistenza. Produrre, come ebbe a dire perfino Berlinguer, diventava un valore in sé. Su questo Bush ha poi innestato la «guerra infinita», appoggiandone la gestione interna sul Patriot Act (del quale, detto per inciso, soltanto il manifesto si è accorto subito). Anche l'Unione europea si è fatta su questa filosofia, e quando Bush ha messo sotto i piedi i bei principi dei quali essa ammantava i vincoli di stabilità, concorrenza e competitività, si è dichiarata tutta americana (Francia esclusa).

Quel che è accaduto, facilitando il successo di Obama, è che teoria e pratica liberista hanno deragliato con fracasso. Non sono state le sinistre, la classe operaia o le moltitudini a sbalzarle dai binari, ma l'ipertrofia della finanza - perdipiù virtuale quella su cui si è potuto puntare a profitti impensabili negli investimenti produttivi di beni materiali o immateriali. E' cresciuta la speculazione, il denaro diventava merce in grado di moltiplicarsi sul nulla, su crediti inesigibili, sui titoli «tossici» che banche e assicurazioni, dopo aver succhiato al di là di ogni limite i consumatori, si sono rimpallate per anni, prima di dover dichiarare di colpo, nel 2008, una bancarotta di dimensioni inimmaginabili. Ora gli stati attingono ai fondi pubblici, che saranno pagati dai contribuenti, per salvare le banche. Le grandi imprese, a partire dall'automobile, cui vengono meno i consumatori, ne chiedono anch'essi l'aiuto. Quello che pareva una bestemmia, dall'oggi al domani è diventato benefico e sollecitato dalla schiera degli economisti già liberisti.

Soprattutto se dato gratis, senza contropartita, salvo nel Regno unito e forse negli Usa. Se a questo crollo della finanza, cui seguono a decine di migliaia, fra poco milioni di licenziamenti e una disoccupazione crescente, Obama riuscirà a metter un freno e ristabilire dei controlli, sarà un bene. Non è detto che ci riesca, ma certo non sono in grado di farvi fronte la classe operaia o le masse, senza più né una memoria né un'organizzazione che non vacilli. Anche se Obama riuscirà a mettere fine alla guerra sarà un bene, e non è detto che ci riesca per l'odio seminato nel Medio Oriente e l'ingiustizia assoluta mantenuta da quarant'anni nel conflitto fra Israele e i palestinesi. Per duro che sia riconoscerlo, c'è una dipendenza dalla potenza militare e ancora economica degli Stati Uniti, e un loro anche parziale mutamento di rotta riapre certi margini. Vorrà tentarlo, Barack Hussein Obama? Riuscirà? Tronti ne dubita e in ogni caso non gli basta. Nel dubitare esagera.

Quella cui Obama ha dato voce è una rivoluzione simbolica, la sola che pare possibile ai nostri tempi anche a molti suoi interlocutori del Crs e le rivoluzioni simboliche sono comunque meno difficili di quelle che investono alle radici gli assetti di proprietà e di potere, cui peraltro sono necessarie. Quegli Usa che ora hanno intronizzato Obama avevano votato a piene mani il secondo mandato di Bush, a orrori e menzogne della sua guerra già noti. E' stato necessario che qualcuno svegliasse quel circa 16 per cento di cittadini in più dal sonno astensionista, forse l'eccesso dei morti d'una guerra troppo «infinita», certo un candidato più forte di quanto era stato Kerry e sarebbe stata la sola Hillary. Le prime mosse di Obama hanno confermato, nella chiusura immediata di Guantanamo, di fatto del Patriot Act, e nel mettere il negoziato al di sopra e prima della guerra, che non è un nero sbianchettato. Lo dice anche la chiamiamola così - prudenza dell'Europa e lo spiazzamento non solo di Berlusconi - ha ragione Dominijanni - ma di Sarkozy, per non dire dell'inquietudine di Israele, affrettatasi a lanciare e chiudere la razzia su Gaza finché erano ancora in carica Bush e i suoi. Altro è dire che il passaggio a un capitalismo meno guerrafondaio, più somigliante al «compromesso socialdemocratico», non basta: non basta a Tronti e neanche a me.

Ma non è al presidente degli Stati uniti che affiderei una rivoluzione. A me Obama preme perché il suo effetto nella smorta Europa sarà forse di riaggregare le forze di quel vecchio e nuovo proletariato che oggi è preso alla gola ed appare schiacciato. Diversamente da Tronti, io non credo che il massimo di incertezza, sfruttamento e oppressione alimenti di più, se mai l'ha alimentata, una coscienza rivoluzionaria. Al più delle rivolte, che per gli stati sono un problema di ordine pubblico. Né i movimenti sono in grado di sostituire una forza organizzata e capace di egemonia. Essa mi sembra tutta da ricostruire. Come Tronti e, aggiungerei, Rita Di Leo, sono una novecentesca spero non del tutto impagliata: è una definizione che non si vuole affatto scortese di uno degli interlocutori, Mattia Diletti, della «Lettera provocatoria». E' che fra di noi c'è un lessico comune, cambiato nei più giovani. Un paesaggio dice cose diverse se guardato da un geologo, un agronomo, un possidente, un contadino, un pittore. In questi trent'anni gli sguardi sono cambiati più del paesaggio. Non sarebbe grave se non si affrettassero ad escludersi, anzi. Fra Mario Tronti e me, divisi sulla natura dell'agente di un mutamento di fondo dei rapporti sociali, è comune l'attenzione ai rapporti di proprietà dei mezzi di produzione, come ordinatori non unici ma primi di una società. Per i più giovani non è così. Ma di questo varrebbe la pena di discutere.

Tre torri alte più di sessanta metri, due delle quali firmate da Paolo Portoghesi. Per alcuni sono l’incubo che grava sul centro storico di Bassano del Grappa, quieta cittadina nel cuore del Veneto, bagnata dal Brenta ai piedi delle Prealpi vicentine. Per altri rappresentano l’opera d’architettura progettata da uno dei maestri del contemporaneo che rimetterà ordine in una zona periferica e degradata, sistemandola a verde.

Deturpano il paesaggio, insistono i primi, per trovarne di simili occorre scendere la valle fino a Padova. Sono un’iniziativa ardita che porta un clima europeo, è la replica.

Le torri sono ancora un progetto, ma il paese è spaccato. Il consiglio comunale pure: diciannove i voti favorevoli alla variante urbanistica che consente la costruzione (Forza Italia e An, i partiti che sostengono la giunta), undici i contrari (il Pd e anche la Lega, che è all’opposizione ed è uscita al momento del voto). Contrario anche il vicesindaco, un tecnico di An. Gli oppositori hanno avviato un ricorso al Tar e hanno promosso un sondaggio: su 1.700 interpellati il settanta per cento non vuole le torri.

Portoghesi come Renzo Piano, il cui progetto a Torino è stato accusato di sfidare in altezza la Mole Antonelliana e di alterare lo skyline del tessuto urbano proiettato sulla corona alpina. A Bassano gli addebiti sono gli stessi. Le torri di Portoghesi - superficie ovale, volume a cono rovesciato - sorgerebbero ad appena cento metri da un centro storico fatto di edilizia minuta, orgoglioso del suo ponte e di alcune ville palladiane, un centro storico fra i più conservati in un Veneto invaso da capannoni e villette, com’è la stessa periferia di Bassano.

Il palazzi diventerebbero l’elemento dominante di un paesaggio di pianura che ha per sfondo le montagne. Qui, dicono in paese, l’oggetto più alto è una torre di quarantatré metri e solo nella periferia sud c’è l’edificio del nuovo ospedale che raggiunge i cinquanta. Il piano regolatore prevede che nessuna nuova costruzione possa superare i diciannove metri (e anche per questo è stata necessaria una variante per approvare gli edifici di Portoghesi).

Di rimettere mano a quella zona di Bassano si parla da decenni. Due anni fa, cambiando i precedenti progetti, i proprietari dell’area hanno chiesto di spostare le cubature in verticale. E hanno iniziato a salire. In un primo momento è stata raggiunta quota quarantacinque metri, poi cinquantacinque. Ora si superano i sessanta. Alle due torri di Portoghesi, intanto, se n’è aggiunta un’altra. E nell’ottobre scorso il consiglio comunale ha dato il via all’edificazione. Si è formato un comitato, "La nostra Bassano", si sono mobilitate le associazioni di tutela, in particolare Italia Nostra e il Fai. In un primo tempo sembrava che le torri dovessero ospitare anche residenze. Adesso, invece, pare che siano destinate a uffici. «Ma da noi ci sono centinaia di appartamenti sfitti - insiste Carmine Abate, di Italia Nostra - molto resta invenduto. Ma si continua a costruire».

Domenica scorsa ricorrevano cinquant’anni esatti dall’annuncio del futuro concilio dato da papa Roncalli in una celebre allocuzione. È stata una ricorrenza importante.

Come l’abbia celebrata il mondo vaticano risulta dalla prima pagina dell’Osservatore Romano, appunto di domenica. Il commento del suo direttore aveva questo titolo: «Il Vaticano II e il gesto di pace del Papa». Nel breve spazio di una smilza colonnina erano messi insieme il ricordo dell’annuncio di cinquant’anni fa e il «gesto di pace» con cui il papa regnante ha cancellato la scomunica del plotoncino dei vescovi ordinati da monsignor Lefebvre. Dopo avere legato insieme le due cose l’articolo si concludeva così: «A mezzo secolo dall’annuncio, il Vaticano II è vivo nella Chiesa». Singolare affermazione, visto che la ragione della scomunica «latae sententiae» fulminata nel 1988 da papa Giovanni Paolo II era stato il rifiuto di quei vescovi di accettare il Concilio. E non sembra che i seguaci di monsignor Lefebvre abbiano cambiato idea al riguardo.

Dunque chi ha cambiato idea è il Vaticano. Quel che se ne ricava è una semplice constatazione: non accettare il Concilio non costituisce una frattura con la Chiesa. Buono a sapersi per tanti cattolici: c’è ancora fra di loro qualcuno che non accetta il dogma dell’infallibilità papale stabilito dal Concilio Vaticano I? Bene, potrà prendere argomento da questa storia per mantenere le sue riserve, per fare per così dire «obiezione di coscienza», quella che secondo il vescovo Poletto dovrebbero fare i medici negli ospedali pubblici italiani per disobbedire alla sentenza della Cassazione sul caso Englaro.

Adesso possiamo mettere in serie tutti gli atti che hanno preparato questa scelta. Sono stati molti. E qui potremmo anche lasciare ai cattolici di tutto il mondo il compito di fare i conti con le svolte ad angolo acuto che il supremo timoniere imprime alla navicella di San Pietro. Ma non ce lo possiamo permettere. E non solo perché il modo in cui la Chiesa cattolica volta le spalle all’eredità del Concilio Vaticano II comporta conseguenze pesanti per i valori della tolleranza e per il rispetto dei diritti di libertà. In questa decisione di abbracciare come fratelli quei quattro vescovi c’è qualcosa che iscrive d’ufficio le autorità della Chiesa cattolica tra coloro che Pierre Vidal-Naquet ha definito «gli assassini della memoria». Lo capiremo meglio se si terrà conto della singolare coincidenza tra questa decisione papale e la doppia ricorrenza non solo del cinquantenario del Concilio Vaticano II ma anche dell’appuntamento annuale del «giorno della memoria». È proprio la memoria della Shoah che subisce un’offesa diretta e frontale da questa decisione di papa Ratzinger. Non è certo un caso se proprio un vescovo di quel gruppetto di lefebvriani, monsignor Richard Williamson, ha scelto questa ricorrenza annuale per fare pubblica professione di negazionismo. Come abbiamo letto sui giornali nei giorni scorsi, il vescovo ha dichiarato al canale televisivo svedese Svt1 che secondo lui «le camere a gas non sono mai esistite». Il monsignore si è addentrato con passione in calcoli precisi ai quali aveva evidentemente dedicato molto tempo: ha parlato di altezza e forma dei forni crematori dei lager e ha sostenuto che gli ebrei uccisi sarebbero stati non sei milioni ma «solo» due o trecentomila.

Ma il suo non è un deprecabile caso privato, come vorrebbe far credere l’ineffabile direttore dell’Osservatore Romano. Monsignor Williamson non è un negazionista occasionale. Lui e i suoi compagni di ventura - lo svizzero Bernard Fellay, il francese Bernard Tissier de Maillerais e lo spagnolo Alfonso de Galarreta - seguirono monsignor Lefebvre sulla via del rifiuto del Concilio per ragioni che hanno a che fare proprio con la questione del giudizio della Chiesa cattolica sugli ebrei. Per questi uomini e per la piccola chiesa che hanno guidato finora Papa Giovanni XXIII era un infiltrato di una congiura giudaica, il suo concilio era il prodotto di un complotto contro la vera Chiesa, quella di San Pio V, quella della guerra senza quartiere agli eretici e agli ebrei. Forse non tutti sanno che le ragioni della scissione di monsignor Lefebvre hanno un rapporto molto preciso con lo sterminio degli ebrei. Ciò che spinse il prelato francese a ribellarsi alla Chiesa fu la dichiarazione sulla libertà religiosa e l’apertura verso l’ebraismo. Cercheremmo invano la sua firma sotto la «Nostra aetate», il documento fondamentale sulle relazioni tra la Chiesa cattolica e le altre religioni: un documento che si apriva con queste parole: «Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». E proseguiva con giudizi positivi sulla religione mussulmana e soprattutto su quella ebraica, voltando le spalle a secoli di aggressioni contro gli ebrei e affermando solennemente che «gli Ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura».

Quei documenti sono diventati sempre più desueti negli ultimi anni grazie a una serie continua di atti papali e di decisioni della Congregazione per la Dottrina della Fede. E la marcia di avvicinamento alle posizioni del nucleo dei lefebvriani si era resa evidente in molte scelte simboliche oltre che nell’impulso dato a quella Congregazione, dove si è rinverdita la radice antica dell’Inquisizione. Ma il direttore dell’Osservatore Romano si sbaglia se crede di potersela cavare con quelle parolette finali: secondo lui la bontà della scelta fatta «non sarà offuscata da inaccettabili opinioni negazioniste e atteggiamenti verso l’ebraismo di alcuni». E invece lo sarà, anzi lo è già, irrimediabilmente. Quella che è stata offuscata dalla decisione papale è l’immagine della Chiesa cattolica nella coscienza civile del mondo intero.

Quella che agli avversari e ai critici sembra sottovalutazione, approssimazione, e anche incompetenza, con ogni probabilità rappresenta la vera strategia di Silvio Berlusconi. Anche le spiritosaggini di ieri sugli stupri si iscrivono nel recente fatalismo del premier: gli agguati sono inevitabili.

Il non detto, ma lasciato capire, è che magari accadono perché le belle ragazze sono per l’appunto belle, con quel che può seguire, specialmente «in campagna».

Ciò che soltanto pochi mesi fa rappresentava un bersaglio perfetto, con l’accusa di inefficienza al centrosinistra sul fronte della sicurezza, oggi diventa una fatalità. Sono episodi che avverrebbero anche in «società militarizzate», spiega Berlusconi. Non importa che sullo sfondo ci sia l’emozione suscitata dalla violenza selvaggia del branco, e neppure che a Guidonia si scatenino raid contro albanesi e romeni, subito assimilati a stupratori. Ciò che conta è fare il possibile per dipingere, nonostante tutto, un paese tranquillo. E quindi minimizzare, «troncare e sopire», oppure avanzare la rassicurazione paternalista e provinciale: credete a me, l’Italia non è così brutta come la dipingono.

Semmai gli incubi sono altri: «uno scandalo enorme» come quello delle intercettazioni e i 350 mila dossier; o eventualmente, come qualche giorno fa, l’opa ostile del Manchester City su Kakà. Per il resto, Berlusconi compie ogni sforzo per dilatare il suo format da Mulino Bianco in modo che possa contenere tutto, dalle promesse mancate alle garanzie nuove.

Talvolta senza celare un senso di delusione verso questa Italia così difficile da governare. Perché Berlusconi è l’uomo dei cieli azzurri. Se la realtà incrina il sogno, occorre un atto ipnotico, parole sommesse per ricominciare a dormire e a sognare. Ecco allora il rap lento sull’incomprensibilità della crisi economica. Da risolvere come si dissolvono i cattivi pensieri, con un Prozac commerciale, con lo spontaneismo di uno shopping: «Spendete, spendete». Cede il Pil, con un arretramento del 2 per cento? Sarà come tornare a due anni fa, «e non si stava male». Con un’occhiata di mal trattenuta recriminazione verso gli impiegati pubblici, che riluttano ai consumi «pur avendo un reddito fisso».

E lasciamo pur perdere le barzellette spettrali sui Lager, e l’astiosa, risentita campagna elettorale contro Renato Soru. Questo fa parte dello stile classico del Cavaliere, l’anticonformista che dice pane al pane e chiama gli avversari falliti. Mentre colui che vediamo adesso è il Berlusconi "minimal", evidentemente preoccupato dello sfaldarsi delle misure sulla sicurezza, tonanti nell’annuncio e irrilevanti nella pratica.

Come uomo di governo non può più agitare gli allarmi contro la criminalità: per questo l’insurrezione dei clandestini a Lampedusa è stata ridimensionata a una specie di gita in centro «per una birra». Se proprio la situazione si facesse più preoccupante, il premier sguinzaglierebbe nelle città 30 mila soldati, che invece di «fare la guardia contro il deserto dei Tartari» andrebbero a fronteggiare «l’esercito del Male». Quella dell’esercito del Male è una delle invenzione più recenti, e non è detto che sia di buon auspicio, dato che proietta sull´Italia una luce livida, come se sul territorio urbano si fronteggiassero due eserciti, in lotta a palmo a palmo.

No, l’immagine non va bene. Poteva funzionare per provocare ansia nella società e convincere i cittadini che ci voleva la mano dura della destra. Ma se questa mano dura si rivela molliccia, conviene proprio alzare di nuovo l´allarme spaventando i bravi cittadini? Sarà stato un lapsus. Ogni parola va concentrata sull’obiettivo di ridurre la tensione, moderare l’inquietudine, respingere le critiche colorando di colori pastello il presente e il futuro.

L’importante è che non venga in mente a nessuno di giudicare la qualità della politica economica, verificare la tenuta dei provvedimenti legislativi, controllare il risultato di trovatine fallimentari come la social card e gli effetti reali dell´idea puerile che problemi complessi si possano risolvere con scorciatoie tecniche o colpi di scena mediatici. Cioè occorre evitare a ogni costo che l’opinione pubblica si interroghi sulla mediocrità del governo in carica: con il rischio, non si sa mai, che giunga alla conclusione che l’uomo più potente d’Italia, questo Berlusconi minimalista e minimizzatore, è davvero un Re minimo.

«Dicevano “manderemo viai nomadi”. Come no, il 70% sono italiani, e il 30 cittadini Ue...»

«Non voglio speculare in maniera indegna come invece è stato fatto per lo stupro e l’omicidio della signora Reggiani quando io ero prefetto di Roma e Veltroni sindaco. L’allora opposizione di centrodestra, oggi maggioranza, aveva fatto speculazioni ignobili. Ma non c’è dubbio che sulla politica della sicurezza questo governo non ha fatto nulla: solo spot e messaggi televisivi. Oggi a Roma si avverte la paura di uscire dopo una certa ora: cosa che non mi pare si sentisse dire prima. E con i militari per le strade non si risolve un bel niente». Per il senatore del Pd Achille Serra è una «bufala» l’idea di portare a 30 mila il numero dei soldati impegnati nella sicurezza delle città. «Già i 3 mila militari impegnati - osserva l’ex prefetto - non sono stati di alcuna utilità. Sono una goccia nell’oceano».

Magari portarli a 30 mila potrebbe essere la cosa giusta.

«Militarizzare le città perché si ritiene che ciò possa evitare le violenze sessuali è un’illusione mediatica. I militari fanno un altro mestiere. Anche l’idea delle pattuglie miste è un’altra bufala. Infatti, qualcuno li ha visti? Il governo va avanti con le bugie. La sicurezza è un terreno che dovrebbe unire le forze politiche e non dividerle come è stato fatto in campagna elettorale. Dissero: finora ci sono stati dei deficienti al governo, ma ora arriviamo noi e risolviamo il problema, mandando via tutti i campi nomadi. Bene: non è stato mandato via nemmeno un campo nomade, e questo a Roma come a Milano. Dicevano delle baggianate, intanto perché il 70% dei nomadi sono italiani, hanno la cittadinanza italiana. L’altro 30% sono di origine romena, cittadini europei per i quali non è prevista l’espulsione. Quando il Pdl si è accorto che le cose che dicevano sono irrealizzabili, hanno tirato fuori la storiella dei militari. Ora che le cose vanno peggio si inventano la “decuplicazione” dei soldati».

Come si risolve allora il problema?

«Il primo problema è come gestire i campi Rom, non certo spostandoli da un quartiere all’altro. Quando io ero prefetto di Roma, con il sindaco Veltroni, si era pensato a “campi della solidarietà”, che sono dei campi con casette prefabbricate, viali illuminati e un controllo delle forze dell’ordine 24 ore su 24 per impedire circolassero delinquenti, droga, refurtiva e armi. Avevamo previsto un ufficio che avviasse al lavoro e gli scuolabus per portare i bambini obbligatoriamente a scuola. Invece questi bambini oggi vanno rubare e chiedere l’elemosina e quando sono più grandi forse a stuprare. I “campi della solidarietà” magari non danno un risultato immediato, ma se inseriamo questi ragazzi nella nostra cultura tra 5-6 anni faranno parte della nostra società. Quando abbiamo cercato di fare questo, abbiamo avuto l’opposizione del centrodestra, che soffiava sul fuoco e terrorizzava la gente».

C’è però un problema di soluzioni immediate.

«Certo, è necessario che ci sia un’attività di prevenzione forte di polizia e carabinieri in modo coordinato. Ma ci vuole una vera riforma della giustizia, alla svelta: non per salvaguardare certe figure istituzionali che non possono andare sotto processo, ma di rendere certa e immediata la pena. Se io di sera rubo una macchina e vengo mandato l’indomani davanti al giudice, devo rimanere in carcere. Che all’assassino della Reggiani non sia stato dato l’ergastolo mi fa dire ma che in che Paese viviamo?».

Sin dal primo giorno del proprio mandato, Barack Obama ha fatto capire qual è la sua idea di emergenza, e cosa significa nella storia delle democrazie liberali. I dizionari spiegano che l’emergenza è una situazione di pericolo o crisi inaspettata, nella quale le pubbliche autorità si mettono in allarme e assumono poteri speciali. Per Carl Schmitt, che negli Anni 20 e 30 teorizzò la superiorità del potere assoluto sullo stato di diritto, l’eccezione è «più interessante» del «caso normale»: quest’ultimo è fatto di procedure ripetitive, che intralciano la capacità decisionale del vero sovrano. La vera autorità «non ha bisogno della legge per creare legge». Essa crea proprie leggi, piegando procedure e costituzioni al proprio buon volere e al mondo nuovo che promette: le sue leggi, di volta in volta ad personam o ad hoc, instaurano lo stato di pericolo e sospendono routine normative ritenute inani. Al posto della fiducia si inocula nel popolo la paura. Nel continente della libertà si dilata lo spazio della necessità. Riprendendo Hobbes, Schmitt conclude che non la verità «fa la legge» ma l’autorità, rivelata e temprata dalla situazione limite (Grenzfall).

Precisamente questo è accaduto nei due mandati dell’amministrazione Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: la Costituzione è stata sottomessa alle esigenze del principe e all’accentramento del potere presidenziale. A dominare non era più l’imperio della legge (la rule of law) ma il sovrano e la contingente ideologia da esso incarnata. La prigione extraterritoriale di Guantanamo, dove non valgono le leggi costituzionali americane; le commissioni militari che senza garanzie giuridiche esaminano i detenuti; l’uso della tortura; l’abolizione dell’habeas corpus, ovvero del diritto (risalente al 1679) che ciascuno ha di conoscere i motivi della propria detenzione: queste le misure che hanno trasformato centinaia di prigionieri in animali cui è stato sequestrato il corpo, come direbbe Foucault.

Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri voluto dal pensiero liberale. Ed è importante che sia il suo primo gesto, perché qui è la vera urgenza dei giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. La vera emergenza è l’idea stessa di un’emergenza continua, abbinata alla promessa di rottura col passato e al proliferare di leggi ad hoc: l’esempio statunitense ha rafforzato in molte democrazie questa mistificazione emergenziale-rivoluzionaria. È stata una loro regressione infantile, fondata sulla convinzione che la democrazia non avesse una storia lunga, fatta di norme e routine, ma fosse una pagina tutta bianca da colorare a piacimento. Il principe-bambino fa quel che crede, immaginandosi onnipotente. Ritorna allo stato precedente la separazione dei poteri di Montesquieu, quando il potere che s’espande abusivamente non è ancora fermato da altri poteri. In un passaggio chiave del discorso inaugurale, il 20 gennaio, Obama ha citato la prima lettera di Paolo ai Corinzi (13,11): «Rimaniamo una nazione giovane, ma come nelle parole della Scrittura, è venuto il tempo di metter da parte le cose infantili».

«Divenir uomo» consiste nel ritorno alla norma, nella scoperta del proprio limite, nell’abbandono della speciale arroganza unita a ignoranza che caratterizza l’infanzia. Non sarà facile, perché l’America resta ufficialmente in stato di guerra con il terrorismo, nonostante la volontà presidenziale di «tendere la mano a chi vuol aprire il proprio pugno». Anche se la guerra continua tuttavia, occorre restar fedeli alla Costituzione e alla separazione dei poteri. Occorre far capire al mondo che i prigionieri di Guantanamo saranno correttamente giudicati, che l’America non torturerà né a Guantanamo né in prigioni segrete sparse nel mondo. L’inverno dell’avversità cui ha accennato Obama esige la restaurazione della rule of law: «Noi respingiamo come falsa la scelta fra la nostra sicurezza e i nostri ideali».

È una presa di posizione al tempo stesso morale e pratica. La tortura di prigionieri privati di habeas corpus non ha facilitato la guerra al terrorismo, ma l’ha complicata e invalidata. I video di Abu Ghraib sono usati da Al Qaeda come efficacissimo mezzo di reclutamento. Neppure in stato d’estremo pericolo (la bomba a orologeria che può esser sventata ricorrendo alla tortura) le leggi d’eccezione sono utili. In Italia se ne discusse nell’estate 2006: ci furono intellettuali e editorialisti democratici che aprirono alla tortura, pensando che l’ineluttabile spirito dei tempi fosse ormai questo.

Sono tanti gli studi che sostengono che la tortura, oltre a essere immorale in ogni circostanza, è probabilmente inservibile. Essa rende più difficile la cooperazione internazionale, perché le confessioni estorte sono inutilizzabili da inquirenti e tribunali. Il giudice spagnolo Garzón è di quest’opinione, e ha inoltre accusato le autorità Usa di tener nascosti in prigioni segrete testimoni essenziali per chiarire l’attentato del 2004 a Madrid. Peter Clarke, ex capo della polizia antiterrorista inglese, ha detto all’Economist nel luglio scorso: «Ogni evidenza raccolta a Guantanamo è inammissibile». Un uomo umiliato, cui si infligge l’annegamento simulato (waterboarding), confessa ogni sorta di bugia. David Danzig in un articolo su Huffington Post del 22 gennaio ricorda come i maggiori successi siano stati raggiunti da un’«arte dell’interrogatorio» che rifiuta la violenza, e preferisce l’astuto colloquio con pentiti e perfino con combattenti: Saddam Hussein e al-Zarqawi, ex capo di Al Qaeda in Iraq, furono scovati così.

Non sarà semplice smantellare le tante leggi ad hoc create nell’emergenza terrorismo, in America ed Europa. Perché sono leggi che lavorano nel buio, aggirando perfino sentenze delle Corti Supreme come quella statunitense, che ha restituito ai prigionieri l’habeas corpus. Non è semplice perché ancora deve esser affrontata la questione fondamentale: è veramente guerra quella che viviamo? e se lo è come chiamare l’avversario? E se non è guerra cos’è? Nemmeno Obama ha la risposta, che pure gli toccherà dare senza attendere altri sette anni. E ancor meno sanno rispondere i governi europei, che adottano leggi emergenziali d’ogni tipo (sul terrorismo e sull’immigrazione) evitando furbescamente di dichiararsi nazioni in guerra. Siamo lontani, qui, dalle autocritiche americane. Tony Blair, che ha mimato ogni mossa e ogni disastro di Bush, ancora non è chiamato alla resa dei conti.

Ma qualcosa è cominciato, con una prontezza che fa onore a Obama. Qualcosa comincia a esser detto: che essere uomini adulti in democrazia vuol dire rispettare leggi antiche, messe alla prova in situazioni ben più difficili di quella presente. Che il sovrano capriccioso e falsamente decisionista ha un comportamento immaturo. Che le tradizioni giuridiche contano: quelle racchiuse nelle costituzioni e quelle iscritte in leggi internazionali che Bush ha sprezzato, come la convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri. L’ansia di innovare a tutti i costi può esser letale, in democrazia. Il mito della «rottura» si sfalda. «Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza», ha detto Obama ai connazionali. Non a caso martedì li ha apostrofati in maniera inedita: invece di My fellow Americans, li ha chiamati My fellow citizens.

La questione morale coincide con il ritorno alla cultura della legalità, in America come in Europa. È la più grande necessità del momento: non si restaurerà una duratura fiducia tra governati e governanti, senza riconversione all’imperio della legge. Non si risaneranno l’economia, la politica, il clima. L’alternativa è chiudersi in belle bolle e ignorare i fatti: anche la bolla è qualcosa di molto infantile, che brilla di tanti colori fino a quando (inaspettatamente per i bambini) esplode.

Non sappiamo come andrà a finire la vicenda di Lampedusa. Ma certo fin'ora qualche soddisfazione ce l'ha data. E comunque ha svelato la miseria dei meccanismi repressivi di gestione dell'immigrazione clandestina, anzi dell'immigrazione tout-court dato che la fase della clandestinità nel nostro paese è stata da sempre attraversata dalla stragrande maggioranza degli immigrati.

Sabato mattina il Tg3 a Mezzogiorno trasmette la notizia secondo la quale gli immigrati racchiusi nel lager di Lampedusa (definito surrealmente «centro di prima accoglienza») si sono dati alla fuga è hanno sfilato per il paese tra gli applausi dei cittadini locali. Da non credersi! Ancora maggior soddisfazione dà il messaggio di tim spot arrivato sul cellulare un po' dopo l'una che riporto qui letteralmente «Lampedusa, nuove proteste: un migliaio di immigrati fugge dal Cpa. Il Viminale: nessuna fuga, non è previsto l'obbligo di permanenza». Forse il messagino tim era sbagliato.

O forse no. E, se si parte da questa seconda alternativa, la cosa diventa molto interessante. E' bene che si prenda atto e si sappia dappertutto che «non c'è l'obbligo di permanenza». D'altronde ciascuno può vedere le cose - o dire di averle viste - a modo suo. La «non fuga» - secondo il Viminale - dei tunisini scappati dal Cpt ricorda la celebre dichiarazione di Vittorio Valletta dopo essere stato sequestrato da parte degli operai in lotta durante la occupazione della Fiat nel 1920. Alla richiesta di commentare l'episodio, Valletta rispose che non di sequestro si era trattato e che era stato solo cortesemente ospitato nel suo ufficio dagli operai. Aveva le sue buone ragioni per negare l'evidenza.

Non sta a noi investigare sulle ragioni per cui Maroni e Berlusconi negano l'evidenza nel commentare la ridicola figura che hanno fatto per aver tirato troppo la corda della repressione e della linea del campo di concentramento. Certo è che si sono trovati in grandi difficoltà con, da una parte, le violenze e le aggressioni alle donne in diversi luoghi del paese e, dall'altra, la beffa della fuga dei lavoratori tunisini carcerati a Lampedusa per il solo delitto di essere venuti a cercare lavoro in Italia.

Dopo la grande soddisfazione datami dalla lettura del messaggio tim spot mi sono però subito rabbuiato e sono stato assalito da una grande preoccupazione. «Speriamo - ho pensato - che non venga in mente a qualche disgraziato di commentare l'episodio denunciando la mancanza di fermezza del governo». E difatti, puntuale come la morte, al Tg2 delle 13,30 è arrivata la dichiarazione dell'on. Donati dell'Italia dei Valori che ha lamentato la mancanza di sicurezza, la incapacità del governo di lotta alla immigrazione clandestina, dando così la possibilità all'on. Gasparri di esibirsi in dichiarazioni minacciose contro gli immigrati, promettendo estrema severità e incremento dell'uso dell'esercito nelle città.

CONTINUA | PAGINA 7 Invece di accusare il governo di non aver saputo bloccare la fuga, sarebbe stato giusto e necessario interrogarsi sui motivi e la giustezza di quella fuga («in mancanza di obbligo di permanenza» secondo il Viminale). E prima ancora sarebbe stato necessario interrogarsi sul perché della concentrazione degli immigrati a Lampedusa: sul insomma perché sono lì e perché sono concentrati lì.

Si tratta di due questioni intrecciate e tuttavia distinte. La concentrazione è una pura e semplice scelta politica dei governi che fin'ora si sono succeduti, e in particolare di quelli guidati dall'on. Berlusconi. Le navi degli aspiranti lavoratori immigrati non finiscono a Lampedusa per caso ma perché il sistema di pattugliamento, di intervento, di salvataggio e di trattenimento le indirizza a Lampedusa.

Da qui gli immigrati (e i richiedenti asilo) prima venivano spostati altrove. A Lampedusa questo effetto dirottamento-concentrazione creava qualche problema. Non a caso gli isolani hanno finito per eleggere un sindaco del partito xenofobico «Lega Nord». Ma alla fine c'erano almeno i trasferimenti. La scelta del governo attuale, con la creazione di un nuovo più grande lager, vorrebbe fare dell'isola una grande prigione. E questo spiega la rivolta dei locali e l'incontro felice con i prigionieri («senza obbligo di permanenza»). Gli immigrati vogliono andarsene dall'isola (per poter lavorare in Italia). Gli isolani da parte loro non li vogliono.

Perché non dare esito al loro comune interesse? Per il fatto che questa scelta contrasterebbe con i principi crudeli e miopi che stanno alla base della politica di immigrazione del governo italiano. Le frontiere devono essere chiuse e l'immigrazione clandestina (come quella di centinaia di migliaia di italiani che poco più di mezzo secolo addietro andavano in Francia) deve essere considerata un delitto. E questo risponde alla prima domanda, al perché gli immigrati finiscono nei lager.

I rapporti ineguali di potere tra governi dei paesi del Nord e del Sud del mondo divengono chiarissimi proprio nel caso dell'immigrazione. Ai secondi non resta che accettare le imposizioni, e magari godere di qualche piccolo premio, di qualche briciola, se si mostrano sufficientemente servili e canaglia nei confronti dei loro cittadini che cercano di emigrare: ad esempio la concessione di duemila permessi di soggiorno in più nei confronti di questo o quel paese del Nord Africa che collabora con la repressione, che riduce le possibilità di uscita dei suoi cittadini o si riprende zitto e buono i lavoratori immigrati che gli vengono spediti indietro perché privi di permesso di soggiorno.

Questa è la realtà. Altro che invasione. Ripeto: non sappiamo come finirà, ma una volta tanto abbiamo potuto vedere facce allegre e serene di immigrati «clandestini»: belle facce di giovani tunisini, con l'aria di lavoratori in lotta e non di dannati della terra.

In modo probabilmente inconsapevole, ma certamente per lui doloroso, Beppino Englaro sta portando alla luce giorno dopo giorno alcuni nodi irrisolti dello Stato moderno di cui siamo cittadini, e a cui guardiamo – o dovremmo guardare – come all’unico titolare della sovranità. Questo accade, come ricorda Roberto Saviano, perché il padre di Eluana cerca una soluzione alla sua tragedia familiare in forma pubblica, quasi pedagogica proprio perché la rende universale, sotto gli occhi dell’intero Paese, costretto per la prima volta a interrogarsi collettivamente sulla vita e sulla morte, a partire dalla pietà per un individuo. A parte la meschinità di chi cerca un lucro politico a breve da questo dramma personale e nazionale, trasformando in frettolosa circolare di governo le richieste della Chiesa contro una sentenza repubblicana, e a parte i ritardi afasici di chi dall’altra parte si attarda invece a parlare di Villari, quello che stiamo vivendo – e soffrendo – è un momento alto della discussione civile e morale del Paese. A patto di intendersi.

Fa parte senz’altro della discussione pubblica, che deve interessare tutti, l’intervento del Cardinale Poletto. È vescovo di Torino, la città dove la presidente della Regione, Mercedes Bresso, si è detta pronta ad ospitare Eluana e la sua famiglia per quell’ultimo atto che lo Stato ha riconosciuto legittimo con una sentenza definitiva, e che il governo vuole evitare con ogni mezzo. Mentre altri cattolici hanno sostenuto che "la morte ha trovato casa a Torino" il Cardinale non ha usato questi toni, ma ha detto che condanna l’eutanasia, anche se si sente vicino al padre di Eluana, prega per lui e non giudica. Vorrei però discutere pubblicamente, se è possibile, il significato più profondo e la portata di due affermazioni del Cardinale.

La prima è l’invito all´obiezione di coscienza dei medici, che per Poletto devono rifiutarsi in Piemonte di sospendere l’alimentazione forzata ad Eluana, entrando in contrasto con la richiesta della famiglia e con la sentenza che la legittima. Non c’è alcun dubbio che la coscienza individuale può ribellarsi a questo esito, e il medico - credente o no - può vivere un profondo travaglio tra il suo ruolo pubblico in un ospedale statale al servizio dei cittadini e delle loro richieste, il suo dovere professionale che lo mette al servizio dei malati e delle loro sofferenze, e appunto i suoi convincimenti morali più autentici. Questo travaglio può portare a decisioni estreme assolutamente comprensibili e rispettabili, come quella di obiettare al proprio ruolo pubblico e al proprio compito professionale perché appunto la coscienza non lo permette, costi quel che costi: e in alcuni casi, come ha ricordato qui ieri Adriano Sofri, il costo di questa opposizione di coscienza è stato altissimo.

Mi pare - appunto in coscienza - molto diverso il caso in cui i credenti medici vengono sollecitati collettivamente da un Cardinale (quasi come un’unica categoria professionale e confessionale da muovere sindacalmente) a mobilitarsi nello stesso momento e ovunque per mandare a vuoto una sentenza dello Stato, indipendentemente dalla riflessione morale e razionale di ognuno, dai tempi e dai modi con cui liberamente ciascuno può risolverla, dalle diverse sensibilità per la pietà e per la carità cristiana, pur dentro una fede comune. Qui non si può parlare, se si è onesti, di obiezione di coscienza: semmai di obbligazione di appartenenza, perché l’identità cattolica di quei medici diventa leva e strumento collettivo su cui puntare con impulso gerarchico per vanificare una pronuncia della Repubblica.

Questo è possibile perché il Cardinale spiega con chiarezza la concezione della doppia obbedienza, e la gerarchia che ne consegue. Lo Stato moderno e laico, libero "dalla" Chiesa mentre la garantisce libera "nello" Stato, applica la distinzione fondamentale tra la legge del Creatore e la legge delle creature. Poletto sostiene invece che poiché la legge di Dio non può mai essere contro l’uomo, andare contro la legge di Dio significa andare contro l’uomo: dunque se le due leggi entrano in contrasto "è perché la legge dell’uomo non è una buona legge", ed il cattolico può trasgredirla. La legge di Dio è superiore alla legge dell’uomo.

Su questa dichiarazione vale la pena riflettere, per le conseguenze che necessariamente comporta. È la concezione annunciata pochi anni fa dal Cardinal Ruini, secondo cui il cattolicesimo è una sorta di seconda natura degli italiani, dunque le leggi che contrastano con i principi cattolici sono automaticamente contronatura, e come tali non solo possono, ma meritano di essere disobbedite. Da questa idea discende la teorizzazione del nuovo cattolicesimo italiano di questi anni: la precettistica morale della Chiesa e la sua dottrina sociale coincidono con il diritto naturale, dunque la legge statale deve basare la sua forza sulla coincidenza con questa morale cattolica e naturale, trasformando così il cattolicesimo da religione delle persone in religione civile, dando vita ad una sorta di vera e propria idea politica della religione cristiana.

Ma se la legge di Dio è superiore alla legge dell’uomo, se nella doppia obbedienza che ritorna la Chiesa prevale sullo Stato anche nell’applicazione delle leggi e delle sentenze, nascono due domande: che cittadino è il cattolico osservante, se vive nella possibilità che gli venga chiesto dalla gerarchia di trasgredire, obiettare, disubbidire? E che concezione ha la Chiesa italiana, con i suoi vescovi e Cardinali, della democrazia e dello Stato? Qualcuno dovrà pur ricordare che nella separazione tra Stato e Chiesa, dopo l’unione pagana delle funzioni del sacerdote col magistrato civile, la religione non fa parte dello "jus publicum", la legge umana non fa parte di quella divina con la Chiesa che la amministra, le istituzioni pubbliche e i loro atti sono autonomi dalle cattedre dei vescovi e dal magistero confessionale.

Il cittadino medico a cui si ordina di agire in nome di una terza identità - suprema -, quella di cattolico, non obietta in nome della sua coscienza, ma obbedisce ad un’autorità che si contrappone allo Stato, e chiede un’obbedienza superiore, definitiva, totale alla Verità maiuscola, fuori dalla quale tutto è relativismo. Solo che in democrazia ogni verità è relativa, anche le fedi e i valori sono relativi a chi li professa e nessuno può imporli agli altri. Perché non esiste una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, il quale naturalmente deve garantire la piena libertà per ogni religione di pronunciarsi su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato, per ribadire la sua dottrina. Sapendo che così la Chiesa parla alla coscienza dei credenti e di chi le riconosce un’autorità morale, ma la decisione politica concreta nelle sue scelte spetta all’autonoma decisione dei laici - credenti e non credenti - sotto la loro responsabilità: che è la parola della moderna e consapevole democrazia, con cui Barack Obama ha siglato l’avvio della sua presidenza.

Dunque non esiste una forma di "obbligazione religiosa" a fondamento delle leggi di un libero Stato democratico, nel quale anzi nessun soggetto può pretendere "di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla". Ne dovrebbe discendere finalmente una parità morale nella discussione pubblica, negando il moderno pregiudizio per cui la democrazia, lo Stato moderno e la cultura civica che ne derivano sono carenti senza il legame con l’eternità del pensiero cristiano, sono insufficienti nel fondamento. È da questo pregiudizio che nasce la violenza del linguaggio della nuova destra cattolica contro chi richiama la legge dello Stato, le sentenze dei tribunali, le norme repubblicane. Come se per i laici la vita non fosse un valore, e praticassero la cultura della morte. Come se il concetto di libertà per una famiglia dilaniata, di fraternità per un padre davanti ad una prova suprema, di condivisione per il suo dolore che non è immaginabile, non contassero nulla. Come se la coscienza italiana fosse solo cattolica. Infine, come se la coscienza cattolica, in democrazia, fosse incapace di finire in minoranza davanti allo Stato.

Per quanto si affanni a seminare ottimismo e a ingiungere consumismo (salvo il tardivo allarme per la crisi dell'auto), a promettere sfracelli sulla giustizia e a costruirsi pioli per il Quirinale, a tenersi incollati Fini e Bossi e a emettere decreti legge, Silvio Berlusconi appare ormai un capo di governo e un leader politico fuori dal tempo e dalla storia. E per quanto possa sembrare una fantasticheria dirlo a fronte della nuda realtà dei numeri del parlamento e dei sondaggi, il suo astro appare destinato a tramontare nella svolta politica, geopolitica e culturale che l'elezione di Barack Obama imprime a ciò che negli ultimi decenni si è configurato come l'ordine egemonico del discorso occidentale.

Non si tratta di attribuire alla presidenza americana un effetto immediato di trascinamento sugli equilibri di governo europei: questo effetto non è detto che ci sia, anche se è auspicabile e prevedibile che di qui a poco il vento del cambiamento che spira dall'altra sponda dell'oceano si farà sentire, se non sui governi, almeno sulle società anche da questa. Si tratta, più realisticamente, di ricollocare Berlusconi in un contesto cambiato, e di riproporzionarlo di conseguenza.

Berlusconi, lo sappiamo, è stato e resta un fenomeno prettamente e autenticamente italiano, radicato nella modernizzazione degli anni Ottanta, concimato da una più lunga storia di cittadinanza debole e di «uomini forti» al comando, sbocciato nella crisi del sistema politico degli anni Novanta, alimentato dal consenso di un immaginario sociale ricalcato su di lui dalla sua televisione. Una «autobiografia della nazione», com'è stato detto, della quale non è stato dato tutt'ora sufficientemente conto e con la quale non smetteremo di dover fare i conti anche dopo il suo esaurimento politico.

Tuttavia, Berlusconi non è stato solo un fenomeno italiano: è stato un fenomeno italiano che ha anticipato tendenze più larghe, o le ha imitate o ne ha risentito. La sua «discesa in campo» del '94 ricordò a molti quella di Ross Perot alle presidenziali americane del '92. La sua costruzione di una leadership mediatica ha coinciso con la mediatizzazione della leadership in tutto il mondo, e la personalizzazione della politica da lui incarnata con la personalizzazione della politica in tutto il mondo. I processi di svuotamento e deformazione della democrazia da lui innescati in Italia - attacco allo stato di diritto, de-costituzionalizzazione, rafforzamento dell'esecutivo e indebolimento del parlamento e della rappresentanza - sono gli stessi processi che hanno svuotato e deformato le democrazie di tutto l'occidente. La sua narrativa antipolitica di imprenditore cresciuto fuori dal palazzo ha anticipato la diffusione di sentimenti antipolitici e di infatuazione per gli outsider nelle democrazie di tutto l'occidente.

Ancora, la sua concezione imprenditoriale dello stato, della società e della «riuscita» individuale è stata potenziata dalla razionalità neoliberista che dal centro dell'Impero americano ha irradiato in tutto il pianeta il verbo della forma-mercato, della libertà come imperativo cocainomane al «fai-da-te», della logica costi-benefici come misura morale dell'esistenza. La sua alleanza con i convertiti al fondamentalismo cattolico ratzingeriano ha imitato l'alleanza made in Usa fra la suddetta razionalità liberista e il neoconservatorismo, un'alleanza che lì e qua ha garantito al neoliberismo quel supplemento morale di cui la religione del mercato sarebbe stata altrimenti priva. Infine, l'altra sua alleanza strategica con il localismo razzista della Lega ha trovato eco e potenziamento nell'epidemia dello «scontro di civiltà» che ha colpito il mondo globale su scala micro e macroregionale.

Con l'elezione di Obama questo contesto internazionale, questa onda che ha disegnato il profilo di un'epoca, sono finiti. Ed è questa fine che consegna alla sua fine anche Silvio Berlusconi e la sua «impresa» politica, come se una nuova reazione chimica rivelasse improvvisamente l'obolescenza e le rughe del materiale plastico di cui è fatta.

Non si tratta, lo ripetiamo, di attribuire alla nuova presidenza americana capacità miracolistiche mimandone l'apparenza, né di fantasticare per domani mattina un impossibile ribaltone della maggioranza di governo qui in Italia. Una fine può essere lenta, travestirsi di potere livido, combinare molti guai. E nemmeno la prevedibile erosione di consensi che a Berlusconi verrà dal dispiegarsi della crisi economica autorizza l'opposizione a mettersi nella passiva attesa di una automatica alternanza di governo. Si tratta di percepire, registrare e interpretare questo cambiamento dell'epoca, questo smottamento di egemonia, questa nuova energia. E di reinventarsi, al di là delle alchimie delle sigle esistenti, un'alternativa politica, sociale e etica in grado di camminare in questo «dopo» in cui siamo già sospinti.

Quando un'epoca finisce, travolge nella sua fine i vincenti, ma anche i perdenti se restano attaccati a ciò che in quell'epoca sono stati. Ne può derivare una catastrofe o una rinascita. Prima l'immaginazione che non è al potere realizzerà che l'incubo è finito, smetterà di tenere in vita i propri spettri o di tenersi occupata col caso Villari, comincerà a far vivere nelle maglie di un presente ancora afferrato dal passato le possibilità del futuro, prima si chiarirà se c'è una catastrofe o una rinascita ad aspettarci dietro l'angolo.

Criminalizzare la Resistenza, i suoi eroi è una pratica diffusa, tesa a dimostrare che democrazia e Costituzione sono nate dalla vendetta, dal sangue dei vinti. Ci provarono, attivamente, anche nei primi anni ’50: a migliaia (5.144 soltanto a Modena), ex resistenti vennero incarcerati e processati. Dopo mesi e anni di galera molti furono assolti. Ora la destra getta nuovo fango su Arrigo Boldrini, decorato sul campo di medaglia d’oro dal generale dell’VIII Armata, Richard Mac Creery. Organizzatore della più incredibile e coraggiosa resistenza di pianura. Nel Ravennate nazisti e repubblichini fra i più feroci imperversarono: 70 stragi, 426 civili uccisi, intere famiglie (Baffè, Foletti, Orsini) spente. Uno dei suoi uomini, il ventiduenne Umberto Ricci, torturato, ferito, malato, scrisse ai genitori e agli amici: «Io ho l’onore di rinnovare qui a Ravenna l’impiccagione. Però non ho nessuna paura della morte». Impiccato con Lina Vacchi il 24 agosto ’44 al Ponte degli Allocchi, fu lasciato marcire appeso. Dieci suoi compagni vennero fucilati.

Agli uomini di Bulow dobbiamo anche la salvezza dei monumenti ravennati. Gli Alleati erano decisi a bombardare preventivamente la città. Boldrini li scongiurò: «I nazifascisti si sono già ritirati». Poi chiese e ottenne di venire incorporato nell’VIII Armata. Bulow sperava - me lo disse anni dopo - di arrivare con gli Alleati fino a Trieste e di costituire una sorta di cordone protettivo rispetto ai partigiani di Tito. Purtroppo non gli fu concesso. Nel 1949 alcuni dei suoi furono accusati di aver partecipato all’eccidio di Codevigo: assolti. Nel ’91 la Procura di Padova giudicò «infondata» un’altra denuncia. Anche Cossiga lanciò un’accusa contro Bulow, per poi riconoscere che «fonti storiche e giudiziarie escludono in modo inoppugnabile tale coinvolgimento». Ora ci riprovano, infami.

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