La Grande Crisi sta mostrando che non al mercato ma alla politica spetta il compito di ricondurre a un minimo di ordine, di stabilità e di prevedibilità le dinamiche delle società del XXI secolo.
E del ritorno in grande stile della politica – con il suo tratto qualificante, il potere – abbiamo un esempio nelle decise, massicce, penetranti misure d’intervento volute da Obama.
In modi diversi, anche la destra al governo in Italia risponde alla nuova esigenza di politica. Alcune iniziative come la questione nucleare, il testamento biologico, la regolamentazione degli scioperi, ma anche il decreto sulla sicurezza e quello sulle intercettazioni, sono riconoscibili e valutabili se si pone mente al loro risultato, che è un aumento esponenziale – realizzato, perseguito o annunciato – del potere politico concentrato nell’esecutivo.
La decisione a favore delle centrali nucleari, infatti, scavalca certamente le procedure e le mediazioni parlamentari (oltre che un atto di volontà popolare); ma è ancora più importante sottolineare che l’accesso sistematico al nucleare implicherebbe anche, per sua natura, un rafforzamento del potere politico, per ragioni di sicurezza e di gestione implicite in quella tecnologia, che anche quando è civile ha un effetto "militarizzante" per l’esigenza, ovvia, di predisporre misure antisabotaggio, antiterrorismo, di custodia dei siti, di segretezza operativa. Al di là di ogni altro dibattito economico e ecologico, il nucleare è l’occasione privilegiata perché lo Stato – come Stato tecnico, custode delle infrastrutture strategiche – tocchi il vertice della propria potenza, nella sua forma piramidale classica: la storia della seconda metà del Novecento mostra che in quest’ambito è massimo l’aumento della asimmetria di potere e di sapere fra Stato e cittadini, fra Stato e società.
L’alimentazione e l’idratazione forzata – previste dai progetti governativi, insieme al divieto di cessazione delle cure mediche se da questa consegue la morte – sono poi un esempio della sottomissione del singolo, e della sua libertà, al potere politico nella sua forma etica, che gli impone valori salvifici, e nella sua forma biopolitica, che pretende di allevarlo in senso non metaforico. L’acuta ossessione securitaria della destra – perenne oggetto di infinite decretazioni e legislazioni – rientra a pieno titolo nella classica dimensione "leviatanica" del potere politico, tanto che sia sicurezza imposta dall’alto attraverso le forze dell’ordine quanto che sia "partecipata", aperta agli equivoci volontariati di base, o di parte. La progettata limitazione degli scioperi in alcuni servizi pubblici fornisce infine la cifra oggi più spendibile politicamente dell’aumento del potere politico a scapito dei diritti di libertà: quell’incremento si giustifica in vista del bene, dell’utile, della comodità dei cittadini. E anche le misure anti-intercettazione, che appaiono "liberali" e non ascrivibili a logiche di rafforzamento del potere statale, hanno la loro legittimazione politica in una resa dei conti con la magistratura e la stampa. Tecnico, etico, biopolitico, securitario, lo Stato è oggi avviato ad assumere una fisionomia autoritaria: ovunque corregge, ordina, interviene e dispone, limita e comanda.
Che sia proprio un governo espresso da una maggioranza la cui principale forza politica si richiama al liberalismo a realizzare questo incremento del potere dello Stato è paradossale ma spiegabile: l’esigenza di politica è realmente all’ordine del giorno, e, inoltre, questo aumento di potere politico non prende certo, oggi, le forme novecentesche: non, evidentemente, quelle della ferocia totalitaria né quelle soft del consumismo (che in questa fase non è un’opzione praticabile), non quelle della disumanizzazione tecnica della politica (sul modello delle alienanti tecnostrutture di Metropolis) né quelle della "confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà "di marcusiana memoria (tolleranza e piacere non sono più di moda).
Siamo davanti, oggi, a un vero nuovo quadro problematico, dentro al quale sta anche il conflitto d’interessi, ma che va oltre questo. Siamo davanti, cioè, a un nuovo Leviatano, la cui potenza e imponenza non implicano necessariamente efficienza; a un Leviatano per molti versi casuale, ansimante e sbilenco, capace sia di nuocere realmente alle libertà e ai diritti costituzionali attraverso la promozione di discriminazioni, di diseguaglianza, di conflitti, sia di essere inefficace o controproducente rispetto ai fini che si prefigge e che proclama: la sicurezza e il nucleare (con le sue scorie) non stanno facilmente insieme; lo stesso vale per l’ordine pubblico e le ronde, che creeranno più problemi di quanto ne risolveranno; la limitazione delle intercettazioni renderà più difficile indagare su fatti criminali anche gravi così che la "difesa della vita" si rivelerà l’obbligo di restare in vita, imposto a chi non può difendersi dall’etica di Stato; la lotta aspra all’immigrazione clandestina produrrà reazioni sempre più violente, ecc.; mentre i grandi interventi della politica sull’economia non si vedono.
A questo cattivo ritorno della politica non basta opporre la difesa formale della costituzione (ovviamente necessaria perché prevede e prescrive appunto i limiti democratici del potere); la lotta per rilanciare la centralità delle libertà, della democrazia, della costituzione, implica l’affermazione e la promozione di autentici contropoteri democratici diffusi nella società: per domare il nuovo Leviatano, zoppicante ma pericoloso, occorrono una libera stampa, un’università combattiva e orgogliosa (come quella francese, che sta rifiutando misure non peggiori di quelle che colpiscono la nostra); oltre che, naturalmente, anche una coerente opposizione.
Nell'arco di soli 30 giorni le previsioni di Bankitalia sull'andamento del Pil nel 2009 sono passate da un meno 2% a un meno 2,6%. Tradotto in cifre, un buco da 41 miliardi di euro. C'è di che preoccuparsi ma non da stupirsi, è sufficiente guardare l'esplosione delle ore di cassa integrazione, cresciuta del 556% nel solo mese di febbraio, per rendersi conto della gravità della crisi. Dei precari rimandati a casa, degli ex dipendenti di aziende prive di ammortizzatori sociali che sono la maggioranza, neppure si parla. E se il tasso di disoccupazione italiano non ha toccato ancora gli spaventosi livelli spagnoli, è solo perché le forze del lavoro su cui da noi esso viene calcolato sono decisamente minori.
In questo tzunami dell'economia reale, cosa fa il governo italiano? Tassa i ricchi per dare ai poveri? Estende a tutti gli ammortizzatori sociali? Aumenta l'imposizione sulle rendite finanziarie, portandole ai livelli europei del 20%? Macché. Berlusconi impone accordi separati per cancellare il contratto nazionale e possibilmente anche la Cgil; martella il pubblico impiego e lo spolpa, mettendo alla porta centinaia di migliaia di precari; investe il danaro pubblico non per difendere il lavoro e il reddito delle persone, bensì per sostenere il mercato. Soldi alla clientela, e ai lavoratori e ai disoccupati provveda dio, o la Caritas. Non contenti, Berlusconi e i suoi prodi (con la minuscola) lanciano la guerra santa contro il diritto di sciopero. In parole semplici, ridisegnano i rapporti di forza nel paese. Ma siccome qualche intervento a sostegno dei salari (e dei mancati salari) deve pur farlo, il governo riparte da dove era rimasto prima del biennio Prodi (con la maiuscola): fuoco ad alzo zero sui pensionati, quegli ingordi che si mangiano il futuro dei figli. Se per cancellare il diritto di sciopero il governo è partito dai trasporti, il punto più sensibile dove è facile raccogliere consensi populisti, per colpire le pensioni il governo comincia bastonando le donne, con l'alibi della sentenza europea che chiede all'Italia di adeguarsi al criterio della parità uomo-donna. Parità? Parità di diversi, con diversi diritti, salari, opportunità, carriera? Parità tra portatori e portatrici di culture e bisogni diversi?
Se in questa crisi e con queste risposte politiche il neo segretario dei democratici Dario Franceschini propone un assegno ai disoccupati, viene da commentare: bentornato Pd. Non è una scelta rivoluzionaria, neppure da governo di sinistra, come dimostra il resto d'Europa. E' soltanto una proposta ragionevole. Eppure, c'è qualcosa che non convince del tutto. Limitarsi a chiedere un sostegno per chi perde il lavoro, senza chiedere come fanno la Fiom e la Cgil l'estensione degli ammortizzatori a tutti i lavoratori dipendenti, precari inclusi, è come prendere atto che dentro la crisi ai licenziamenti bisogna rassegnarsi, non c'è alternativa. Non è vero, un'alternativa esiste, e per trovarla basterebbe rimettere al centro il lavoro. La seconda preoccupazione non riguarda la proposta in sé ma il reperimento delle risorse necessarie a renderla praticabile: già i soliti noti nel Partito democratico hanno ipotizzato, unendosi al coro della destra e dei principali media, non una patrimoniale, o la tassazione dei redditi più alti come quella annunciata dal nuovo presidente americano, ma l'ennesima sforbiciata alle pensioni. Partendo con quelle delle donne, che intendono usare come apripista per colpire le pensioni di tutti.
Che ne direbbe Obama?
Un orizzonte di un solo giorno, e ogni giorno far finta di niente. «Faccio come se non fosse così: è una bugia ma mi serve per vivere». Congelati in un’adolescenza senza fine. «Vivo da studentessa, poi mi guardo allo specchio e penso: sono vecchia. La mia immagine riflessa non corrisponde alla mia vita». Non si sa con esattezza quanti siano i precari in Italia. Sei milioni secondo la Cgil. La metà, replica il governo. Una guerra di cifre che ricorda quella del conto dei manifestanti in piazza. Fa rabbia, fa paura. Ieri dieci di loro sono venuti in redazione per raccontare cosa sia la vita dentro un orizzonte breve, come si conviva con l’assenza di un’idea di futuro, come cambi il carattere, il senso di responsabilità, persino la salute. Non è stato facile organizzare l’incontro, ci abbiamo lavorato per giorni: per un precario a 600 euro al mese perdere un giorno di lavoro, prendere un treno e poi un autobus, mangiare fuori è un costo altissimo.
Sono venuti, gliene siamo grati. Le dieci persone che vedete in copertina sono quasi tutte laureate, alcune specializzate, un paio hanno dieci anni di studi universitari alle spalle. Solo due sono padri. Nessuna madre. Uno ha 50 anni: come nei tornei sportivi, abbiamo scherzato per sollevarci un momento, ci sono i precari di andata e quelli di ritorno. Sono tutti vittime di parole diventate di moda, «flessibilità», o di slogan privi di sostanza, «diventa imprenditore di te stesso». Al contrario dei loro omologhi di altri paesi l’insicurezza del loro posto di lavoro non è compensata da retribuzione più alte. Guadagnano, quando ci arrivano, mille euro al mese. Alcuni 250. I dati dicono questo: il 75 per cento delle lavoratrici precarie non ha figli fino a 41 anni. Le donne pagano come sempre il prezzo più alto. In questo caso un prezzo quasi insostenibile - la rinuncia alla maternità - di cui un governo degno di questo nome si dovrebbe vergognare. Smettere all’istante, per esempio, di parlare di sostegno alla famiglia in assenza di una politica per chi la famiglia la deve costruire.
Le persone che sono state ieri da noi sono - in parte, non tutte: non può perdere il posto chi non l’ha mai avuto - destinatarie della proposta di Franceschini per l’assegno di disoccupazione. Non hanno, infatti, alcun ammortizzatore sociale. Sono una massa di uomini e donne che il governo ignora. Si fanno carico di responsabilità grandi, senza il loro lavoro l’economia si fermerebbe. Sono quelli che più di tutti patiscono la crisi e una supplementare ingiuria: quella di chi ne ignora l’esistenza. Provano irritazione, per usare un eufemismo, davanti agli inviti all’ottimismo. Inviti sistematicamente smentiti dalle nude cifre del tracollo economico del paese.
L’ultimo, ieri, è venuto dalla Banca d’Italia: nel 2009 il Prodotto interno lordo scenderà del 2,6 per cento. Se qualcuno non si occuperà delle generazioni precarie nei prossimi mesi, nelle prossime settimane, subito, questo Paese andrà incontro a un collasso da cui ci vorranno decenni per riprendersi. Si può fare, non è vero che non si può. bisogna volerlo.
Clara Sereni ragiona sull’intolleranza, sulla paura, sul dissolversi della memoria. Sogna la nascita di «ronde gioiose» capaci di portare luce nel buio dei quartieri abbandonati. Ronde che distribuiscano libri anche la notte. Grazie.
Repubblica.it ha svelato il Paese dei senza lavoro, un pezzo d’Italia che diventa sempre più grande e disperato. Le persone che raccontano le loro esperienze di senza lavoro rientrano abbastanza chiaramente in due gruppi diversi. Ci sono quelle ancora giovani, al massimo trentacinquenni, che si interrogano sul perché il mondo della produzione non riesce più a trovar loro un’occupazione; e quelle sui 45-50 anni e oltre, le quali hanno compreso che per lo stesso mondo sono ormai troppo anziane.
Del primo gruppo colpisce soprattutto il fatto che i titoli di studio elevati sembrano servire poco per trovare o mantenere un posto di lavoro qualificato, coerente con gli studi fatti. Hanno due o tre lauree, un paio di master, tre o quattro specializzazioni, significative permanenze all’estero. Speravano di far ricerca in aziende di alto profilo, quelle da cui escono le invenzioni che cambiano il mondo e migliorano la vita. Contavano di guadagnare bene e di fare prima o poi un figlio. Oppure di dedicarsi all’insegnamento. Invece si ritrovano a fare il garzone di cucina in un fast food, la badante o l’addetto alle pulizie sui vagoni delle ferrovie. Con paghe effettive da 6 euro l’ora, quando va bene 800 al mese. Naturalmente con un contratto a breve scadenza. Che alla scadenza non viene rinnovato. Con la precisazione, se si tratta di una donna, che non si può rinnovare il contratto a una che potrebbe addirittura fare un figlio. Esperienze ripetute per tre, cinque, dieci anni. Fino a quando non ci si arrende, e si ritorna a casa dai genitori, senza soldi e senza figli, portando con sé il senso di una sconfitta di cui non si ha colpa, ma che pare irrimediabile. Non è un paese per giovani, l’Italia.
Non è nemmeno un paese per vecchi; laddove vecchio, aziendalmente parlando, significa aver passato i quaranta. In questo secondo gruppo i disoccupati che si raccontano sono in prevalenza dirigenti d’azienda, funzionari della PA, tecnici con una lunga pratica di laboratorio, esperti di informatica. Rappresentano un patrimonio immenso di conoscenze, competenze professionali, abilità accumulate in decenni di lavoro. Però alle imprese non servono più. Perché ai tempi della crisi l’impresa deve dimagrire, cioè tagliare posti, e ovviamente preferisce tenersi i dipendenti più giovani. Oppure perché progetta di trasferirsi da Catania a Belluno, o da Novara a Tallin, e una che ha cinquant’anni, due figli studenti e un padre in cattiva salute magari non è troppo disponibile al trasloco. O semplicemente perché la settimana prossima l’impresa chiude, come ha deciso il proprietario che risiede non si sa bene dove, in Irlanda o in Brasile.
Di conseguenza la dirigente o il tecnico con decenni di prezioso sapere professionale, o l’amministratore che maneggiava miliardi, cominciano a spedire curricula in giro. Decine alla settimana. Centinaia al mese. Con i titoli di studio in evidenza, la carriera in aziende di primo piano, i risultati eccellenti della propria attività. In generale non ricevono nemmeno risposta. Nessun Direttore per le Risorse Umane prende oggi in conto l’assunzione di una persona che oltre ad avere già superato i 45 o i 50 anni, si è pure fatta licenziare.
Un paio di elementi accomunano i due gruppi dei disoccupati più e meno giovani. Il primo è il senso di umiliazione che traspira dai loro scritti, di ingiustizia gratuitamente subita. In una società in cui la sopravvivenza stessa dipende dal lavoro che si fa, ovvero dal reddito che ad esso è collegato, venir privati del lavoro o non riuscire trovarlo, non per demerito proprio ma per incomprensibili vicende dell’economia, è la peggiore offesa che possa colpire un essere umano. Lo rode nel profondo, ferisce la sua stima di sé, pesa sui rapporti con il prossimo. Molti di questi racconti trasmettono con dolente vivezza questo senso di offesa.
L’altro elemento in comune è il risentimento, se non la rabbia, verso chiunque svolga un ruolo in campo economico. La politica, il governo, i partiti, la pubblica amministrazione, gli enti locali, le imprese grandi e piccole, i singoli imprenditori, i manager, lo stato: tutti sono oggetto di sprezzanti giudizi. E’ vero, non si tratta d’un campione rappresentativo, a fronte dei milioni che si trovano in condizioni simili. Ma chi sottovalutasse il significato sociale e politico di questi racconti di ordinaria disoccupazione commetterebbe un madornale errore.
La goccia che ha scavato la roccia. «Insistere, martellare, giorno dopo giorno, era l’unica strada da seguire». Così nel 2001 un quotidiano raccontò l’amara vittoria di Girolamo Dell’Olio, fiorentino, professore dell’Iti, martello e goccia. Nella roccia, che poi era friabile come un castello di sabbia, d’illusioni, di progresso scritto su una mappa.
Oggi, otto anni dopo quella goccia, cinque anni dopo l’inizio del processo per i disastri ambientali dell’Alta Velocità nel Mugello, è il giorno della sentenza. Il Tribunale di Firenze si pronuncerà sui danni ambientali provocati dai lavori del consorzio Cavet sulla tratta fra Firenze e Bologna. Oggi si deciderà come e chi dovrà scontare quel danno che nella requisitoria del pm Gianni Tei viene valutato «di oltre 110 milioni di euro sulle risorse idriche e di 741 milioni se si estende la stima a tutto il sistema ambientale».
Il ruscello
Questa è una lotta per un pezzo di terra. È la valle dell’Eden di Steinbeck, verde e avara, violata e incompresa. Traversata da sentimenti atavici, il bene e il male, annidati nei boschi, affiorati nei rivoli così limpidi e leali da non poter nascondere nulla. Affrontata da sorrisi sfuggenti, come quelli che subiva Dell’Olio quando - indefessamente - si affacciava a ogni convegno del Cavet, per far vedere che c’era, come quel petulante personaggio di De Niro, in un film sui sommozzatori e la marina Usa: «Mi piace rompere il cazzo».
Nessuno mette in discussione la necessità dello sviluppo su rotaie, nemmeno il professore, nemmeno i magistrati. Quella linea che libererebbe la rete fiorentina dai treni veloci, per destinarla in esclusiva al traffico locale. Ma il come conta. Il come è tutto e il dubbio venne a Dell’Olio quel giorno in cui portò i suoi studenti a fare trekking nella valle del Terzollina, un torrente alle porte di Firenze, e poi scoprì che in quella zona sarebbe passata l’alta velocità. «Sarà un disastro. Bisogna fare qualcosa». E così radunò gente alle case del popolo, gente che alzava la testa e vedeva. Teste che raddoppiavano, come fosse l’Idra, il mostro mitologico, nome dell’associazione di volontariato che veglia sul Mugello, accanto al Cavet, intorno, sopra, sotto «a uno dei più gravi disastri ambientali nel nostro paese», come disse il professore, il giorno in cui tutti capirono che quel pazzo aveva ragione.
Quel giorno
Un sabato mattina di giugno, 100 carabinieri piombarono come un battaglione nel Mugello verde, nei 22 cantieri della galleria più lunga del mondo, 73 chilometri, che in mezz’ora invece che in 52 minuti collegherà in treno Firenze a Bologna. Fu il pm Giulio Monferini a mettere i sigilli. Lui e Tei hanno condotto il processo. Allora ipotizzò ogni tipo di reato per questa ferrovia sotterranea dal costo preventivato di 8.000 miliardi di vecchie lire: dal deposito in discarica di fanghiglie contaminate alla truffa alla Regione Toscana, a cui non sarebbero state pagate tasse sui rifiuti per oltre sette miliardi. Dalle mancate bonifiche al danneggiamento delle falde e alla dispersione di acqua sorgiva, inquinata dall’olio minerale spruzzato nei camion carichi di cemento, nelle trivelle, nelle casseforme e nelle volte delle gallerie per rallentare l’indurimento del materiale durante le fasi di modellazione del tunnel. Furono le gocce, sempre le gocce, di olio minerale, viste colare dalle pareti sul materiale scavato, che allarmarono i giudici. Quel fango, invece di essere trattato come rifiuto speciale, per anni è finito inerte nelle discariche non autorizzate e nelle cave «apri e chiudi», inquinando le falde. Come, quanto, per colpa di chi, nel disinteresse colpevole di chi altro: oggi si saprà.
Il processo
Sono 59 le persone accusate di inquinamento del territorio e impoverimento delle falde acquifere: tra questi, la maggior parte sono di Cavet, il consorzio di imprese che ha avuto in appalto i lavori per la costruzione della ferrovia. I numeri messi in colonna dall’accusa fotografano un danno ambientale senza precedenti: 57 chilometri di fiumi seccati, 24 chilometri di corsi d’acqua che hanno visto ridotta la loro portata, 37 sorgenti e 5 acquedotti prosciugati. Per una perdita complessiva di 150 milioni di metri cubi d’acqua. A questo, si aggiunge lo stravolgimento della flora e della fauna: in alcuni dei fiumi mugellani sono scomparsi, forse per sempre, felci e alghe, ma anche gamberi e pesci. Abbiamo indicato la stima di 741 milioni di euro di danno ambientale: questo sarà il fronte su cui lavorerà la Corte dei Conti, che dovrà valutare le eventuali responsabilità della Regione e del Ministero dell’Ambiente. Gli atti del processo sono già stati trasmessi. Il processo, iniziato nel febbraio del 2004, arriva a conclusione nel momento in cui la grande opera non è ancora terminata. Nel corso del dibattimento è stato ricostruito l’iter della tratta Firenze-Bologna: dal progetto alla cantierizzazione, avviata nel 1996, alla messa in opera - prevista per il 2003, ma poi slittata al 2010. E se la data di ultimazione dei lavori non è certa - in ballo c’è anche l’annoso e sempre discusso sottoattraversamento di Firenze - certo è che i costi sono lievitati del 400%, secondo le stime di Idra.
Le richieste dei pm
«Questo non è un processo ideologico» ha ripetuto Gianni Tei, nel corso della sua poderosa requisitoria. «Qui non si tratta di discutere se la Tav andava fatta o meno, ma di come è stata fatta». Il disastro, secondo l’accusa - che più volte ha parlato di «omesso controllo» - avrebbe potuto essere evitato. Ci sono richieste di condanne per 43 persone per un totale di oltre 180 anni di reclusione. Le più alte (10 anni) sono per i vertici Cavet: Alberto Rubegni, Carlo Silva e Giovanni Guagnozzi, presidente, consigliere delegato e direttore generale del consorzio. Chiesta invece l’assoluzione di altri 21 imputati del processo, che coinvolge oltre a Cavet, ditte in subappalto, gestori di cave e di discariche, un funzionario del Comune di Firenzuola, intermediatori per i rifiuti.
La terra
Quella meravigliosa terra a ridosso dell’Appennino tosco-emiliano è stata oltraggiata perfino mentre dormiva, da operai sfruttati, mandati di notte con i fari bassi, furtivi, a battere pozzi nel terreno della chiesa di Paterno, per svuotare le gallerie di nascosto. Terra avvelenata «in modo prevedibile e addirittura previsto dagli studi», questa l’accusa senza scampo, perfino filosofica. Terra dei Medici e del Cimabue. Di un verde sfacciato, di boschi lussureggianti, di un lago fasullo ma necessario a irrigare la grande città, e di fiumi dall’acqua cristallina che resistono a tutto, anche all’uomo. E scorrono, nel mezzo fra il bene e il male.
Diceva che sarebbero state rispettate le richieste delle famiglie: è arrivato il momento di mostrare come. Le iscrizioni sono chiuse, i dati sono sul tavolo di Maria Stella Gelmini: il 90 per cento dei genitori che hanno iscritto i figli in prima elementare ha chiesto il tempo medio-lungo. Il mensile Tuttoscuola ha fatto i calcoli sulla base delle previsioni del ministero: la grandissima parte di quei 9 genitori su 10 dovrà accontentarsi delle 27 ore settimanali previste da Gelmini. Non 30 né 34. Tempo vuoto. È una scelta, questa di non dare ore di insegnamento ai bambini che si affacciano alla vita sociale, che ha ripercussioni sulla collettività intera. Non è solo una questione di carenza formativa, già in sé criminale.
Non è solo il fatto che si disinveste sull'educazione primaria - un danno ai bambini - togliendo tutte quelle attività che appaiono evidentemente secondarie: la musica, l'educazione corporea, il primo apprendimento di altre lingue e di altre culture, le arti. Non è solo che si disincentiva l'insegnamento - un danno ai docenti - facendo dei maestri elementari la più povera delle categorie, alimentando il precariato e la disoccupazione di migliaia e migliaia di persone che hanno studiato per insegnare anziché giocare al bingo o cercando di adescare un/a milionario/a da cui farsi mantenere. E' anche un ritorno al passato post-bellico della struttura familiare: un incentivo al ritorno al focolare di migliaia di madri, milioni di donne giacchè si sa che non viviamo in Svezia e che dei figli e della cucina e delle pulizie domestiche, in questo nostro Paese, si ritiene che debbano occuparsi le donne. Più le donne, le quali del resto a parità di lavoro guadagnano assai meno degli uomini e dunque conviene, se qualcuno deve rinunciare a 'lavorare fuori', che rinuncino loro. Anche questa è una di quelle riforme il cui esito sarà chiaro nella struttura della società fra dieci anni, quando ci sarà qualcuno che dirà che 'all'improvviso' è cambiato qualcosa: le donne non lavorano più, non ci tengono, chissà perché, non consumano altro che detersivi e pannolini, mai che investano i loro risparmi in bond.
L’inchiesta di Marco Bucciantini e di Maria Vittoria Giannotti parla della sentenza che emetterà oggi il tribunale di Firenze nel processo per la catastrofe ambientale causata nel Mugello dai lavori per l'Alta Velocità. Una delle più gravi mai avvenute nel nostro paese: un danno di oltre 740 milioni di euro, chilometri di fiumi disseccati, sorgenti prosciugate. Per i 59 imputati l'accusa ha chiesto condanne per un totale di 180 anni di reclusione. Se ci sarà giustizia lo si dovrà all'ostinazione di Girolamo Dell'Olio, fiorentino, professore. Un giorno portò i suoi ragazzi a fare una passeggiata nella valle del Terzollina e inorridì vedendo dove si era progettato di far passare le linee ferroviarie. "Sarà un disastro, bisogna fare qualcosa", disse. E cominciò ad agire. Ecco un maestro davvero unico. Anche Altan riparte dai bambini. Il suo prossimo lavoro, racconta in un'intervista a Renato Pallavicini, sarà uno spettacolo di teatro con protagonista Olivia, amica di Pimpa il cane a pois. «Come fa mia figlia con la sua bambina la Pimpa spiega a Olivia le cose della vita». Ne sentiremmo tutti, anche noi che non abbiamo sei anni, un gran bisogno.
La secessione di Bossi assomiglia alla minaccia nucleare di Teheran. Il piano è già fatto, ma i pezzi arrivano un po’ per volta. La differenza è che, per ogni passo avanti dell’Iran, anche piccolo, anche simbolico, il mondo trasalisce e alza la voce. In Italia, invece, tutti assistiamo assenti o compiaciuti mentre, con espedienti o modalità diverse, la Lega smantella l’Italia. Non siamo ancora arrivati al federalismo fiscale che segnerà lo smembramento ufficiale e legale del Paese. Ma molti pezzi staccati di ciò che era l’Italia giacciono già, in esibizione penosa, sui prati dei "territori".
I cittadini non sono più uguali. I diritti condivisi sono stati spezzati. I sindaci-sceriffi si sono dotati di poteri che - in uno Stato normale - non hanno nulla a che fare con i compiti e le funzioni dei sindaci. Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato (o meglio da un ministro infiltrato dentro lo Stato di cui è avversario) percorrono le nostre strade con il nome civettuolo di "ronde" a cui si danno poteri di controllo del "territorio" che - in condizioni normali, e se vigesse la Costituzione - spetterebbero solo allo Stato.
Tenete conto della parola "territorio". Non esiste nella Costituzione, che infatti recita: "L’Italia è composta di Comuni, Province, Regioni". La Lega Nord ha imposto le parole "territori" e "popoli" perché non sa dire cos’è o dov’è la sua presunta patria, la Padania, e non sa come distinguere i suoi presunti cittadini "padani" da tutti gli altri italiani.
Il colpo di genio è venuto attraverso l’accordo-ricatto di Arcore: invece di svelare le amicizie pericolose di Berlusconi con la mafia (come aveva cominciato a fare "La Padania" nel 1999, pubblicando in prima pagina la foto di Berlusconi accanto a quella di Totò Riina), la Lega viene dotata di tutto il sostegno mediatico e finanziario necessario per sembrare un partito nazionale.
In tal modo un partito locale eletto quasi solo in due regioni italiane conquista punti cruciali di controllo nel governo e dello Stato italiano che era, invece, il nemico (ricordate "Roma ladrona"?).
Ma la strategia della Lega, mentre da un lato ricatta con successo tutto il versante berlusconiano e porta un partito nazionalista come An a sostenere con fervore ogni nuovo atto secessionista, dall’altro affascina e ipnotizza ciò che resta della sinistra. La prova più impressionante sono le "ronde di Penati", ovvero il disorientante sostegno alla cultura della Lega da parte del presidente della Provincia di Milano, già Ds, ora leader Pd, Filippo Penati . "Che c’è di sbagliato nell’associare ai sindaci carabinieri e poliziotti in pensione e mandarli a sorvegliare parchi, scuole, strade? Chiamiamoli presìdi e non ronde e le obiezioni verranno meno". (La Repubblica, 23 febbraio).
Che c’è di male? C’è che salta tutto l’impianto di legalità costituzionale di un Paese democratico. C’è che si nega il compito delle forze dell’ordine regolate dalla legge. C’è che si aboliscono i diritti garantiti dei cittadini. C’è che a Milano l’unico esponente Pd (cioè della normale cultura costituzionale italiana nelle istituzioni) abbraccia in modo pubblico e clamoroso la cultura della Lega che infaticabilmente lavora a divaricare l’Italia.
I governi, centrale e locale, vengono riorganizzati come agenti persecutori degli immigrati e di tutti gli altri cittadini (dai medici ai poliziotti ai giudici) che non intendono prestarsi al brutto gioco della divaricazione morale e della spaccatura fisica del Paese.
Intorno allo slancio della cultura rondista si forma un focoso rapporto plebiscitario e tribale fra sindaco ed elettori, dove tutto avviene al di fuori delle leggi e della Costituzione. I danni sono enormi, da Lampedusa che brucia agli attacchi di natura razziale frequenti, ripetuti, spinti fino all’omicidio e alle persone a cui danno fuoco sulle panchine. Gli ospedali diventano luoghi pericolosi da cui stare alla larga se si è clandestini, anche per chi è portatore di malattie contagiose. Le scuole hanno classi separate per i non italiani e test di "cultura locale" per tenere lontani dall’integrazione i figli degli immigrati, e tenere bassa e umiliante la qualità della scuola italiana.
Devastando con leggi nazionali e arbitrio locale la Costituzione italiana, la Lega ha fatto molto di più della secessione. Ha infettato di cattiveria persecutoria tutto il Paese, aperto la strada ai linciaggi, diffuso disprezzo e odio. La Lega, salita sulla groppa di Berlusconi, governa la Repubblica italiana. È peggio, molto peggio, della minaccia di secessione.
Corriere della sera
Usa, i pericoli del nuovo corso
di Angelo Panebianco
L'inquietudine e le preoccupazioni per i primi passi dell'Amministrazione Obama, per il modo in cui il nuovo Presidente americano sta reagendo alla crisi economica, crescono fra gli osservatori. Tutti sappiamo che le decisioni dell'America ci riguardano, che la crisi mondiale, là cominciata, può finire solo se l'America farà le scelte giuste contribuendo a ricostituire la fiducia perduta dei mercati e ponendo le condizioni per il rilancio, in tutto il mondo, della crescita. Il dubbio che serpeggia è che il nuovo Presidente possa non rivelarsi all'altezza, che la Presidenza Obama possa un domani, quando verrà il momento dei bilanci, mostrare di avere qualcosa in comune con l'Amministrazione (repubblicana) di Herbert Hoover, la quale, con le sue scelte sbagliate, aggravò la crisi seguita al crollo di Wall Street del 1929.
Certo è che fin qui i mercati hanno reagito con scetticismo o addirittura negativamente a tutti gli annunci e a tutte le decisioni prese dall'Amministrazione. Ciò nonostante, Obama sembra deciso a pagare le cambiali contratte in campagna elettorale con la sinistra americana: piano sanitario nazionale, rivoluzione verde, massicci investimenti pubblici, tasse più elevate per gli alti redditi. La dilatazione della spesa pubblica implica un cambiamento epocale, il passaggio a una fase di forte presenza statale nella vita economica e sociale americana. Ma è proprio quella la ricetta giusta per rassicurare i mercati e rilanciare consumi e investimenti? Se lo sarà, la Presidenza Obama risulterà un successo e non solo l'America ma tutto il mondo ne verranno beneficiati. Altrimenti, la crisi si aggraverà e ci vorranno molti più anni di quelli che oggi gli esperti prevedono per uscirne.
Nell'attesa, possiamo però già valutare alcune conseguenze che la crisi, e le prime risposte dell'Amministrazione Obama, stanno determinando in tutto il mondo. Tramonta rapidamente l'immagine di un'America che doveva il suo grande dinamismo alla valorizzazione massima dell'iniziativa individuale e che, come tale, si proponeva quale modello da imitare per le altre società. Se anche l'America «sceglie» lo Stato, il massiccio intervento pubblico, cosa possono fare quelle società che hanno sempre avuto una fiducia assai minore nelle virtù dell'individualismo, nelle benefiche conseguenze collettive della valorizzazione della libertà individuale?
Due aspetti delle risposte, pur fra loro assai differenziate, che i governi, americano ma anche europei, stanno dando alla crisi, dovrebbero essere attentamente valutate. Il primo riguarda la pericolosa rotta di collisione che, in situazione di crisi, può determinarsi fra le ragioni dell'economia e quelle della democrazia. La logica economica, in queste situazioni, può entrare in conflitto con la logica politica. I governi prendono decisioni volte a rassicurare l'opinione pubblica e a sostenere, con politiche pro-occupazione e misure di segno egualitario (più tasse sui ricchi), il consenso nazionale, decisioni che tuttavia possono aggravare o prolungare nel tempo la crisi. Blandire Main Street (l'uomo della strada) scaricandone tutti gli oneri su Wall Street può essere un'ottima mossa politica nel breve termine, ma i costi di medio e lungo termine potrebbero rivelarsi assai elevati.
Il secondo aspetto riguarda gli effetti sugli atteggiamenti culturali diffusi. Nel momento in cui si radica l'idea secondo cui il mercato è il «Dio che ha fallito», si afferma per ciò stesso la pericolosa illusione che la salvezza possa venire solo dallo Stato. Si dimentica il fatto essenziale che tanto il mercato quanto lo Stato, in quanto istituzioni umane e per ciò imperfette, possono fallire ma che i fallimenti dello Stato sono in genere assai più catastrofici di quelli del mercato. Quando il mercato fallisce provoca grandi, ancorché temporanee, sofferenze (disoccupazione, drastica riduzione del tenore di vita delle persone, povertà). I fallimenti dello Stato, per contro, si chiamano compressione delle libertà (sempre), oppressione politica (spesso) e, nei casi estremi, tirannia e guerre. Oggi, i Robin Hood di tutto il mondo (i nostri, i Robin Hood italiani, sono addirittura entusiasti) lodano Obama che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Finalmente, come si sente continuamente ripetere, lo «strapotere del mercato» è finito. Dimenticando che quello «strapotere» ci ha dato decenni di crescita economica impetuosa con molte ricadute virtuose in ambito politico (si pensi a quanto si è diffusa e radicata nel mondo la forma di governo democratica).
Tornare all'epoca dello «strapotere dello Stato» è certo un'idea attraente per coloro che detestano il mercato, e la competizione che ne è l'essenza. Ma che succede se lo strapotere dello Stato impedisce di rilanciare la crescita, e ci fa precipitare in un mondo di conflitti neo-protezionisti? Lo sceriffo di Nottingham sarà pure stato sconfitto ma non resterà, a quel punto, abbastanza bottino per sfamare i poveri.
La Repubblica
La svolta dell’America la crisi dell’Europa
di Eugenio Scalfari
SAPPIAMO, ce lo dicono tutti i dati consuntivi e preventivi, che la crisi economica globale è entrata nella fase culminante, articolata in vari livelli e in vari scacchieri geopolitici. I vari livelli riguardano l’insolvenza del sistema bancario internazionale, la caduta mondiale della domanda di beni e servizi (materie prime, beni durevoli, generi di consumo), la restrizione dell’offerta e quindi degli investimenti come ovvia conseguenza della crisi della domanda, la deflazione, l’ingolfo del credito. Si tratta d’una catena ogni anello della quale è intrecciato agli altri e con essi interagisce generando una atmosfera di sfiducia e di aspettative negative che si scaricano sulle Borse e sul drammatico ribasso dei valori quotati. I diversi scacchieri geopolitici presentano aspetti specifici nell’ambito di un quadro generale a fosche tinte.
L’epicentro è ancora (e lo sarà per molto) in Usa e coinvolge le banche, le imprese, la domanda, il reddito, l’occupazione. Il nuovo Presidente ha imboccato decisamente la strada del "deficit spending" in dosi mai verificatesi prima nella storia americana se non nei quattro anni di guerra tra il 1941 e il 1945. L’entità della manovra di bilancio dell’anno in corso ammonta alla cifra da fantascienza di 4 trilioni di dollari, che si ripeterà con una lieve diminuzione nel 2010. Il bilancio federale, già in disavanzo di mille miliardi, arriverà quest’anno a 1750.
Si tratta di cifre fantastiche ma appena sufficienti a puntellare l’industria, il sistema bancario e la domanda dei consumatori. Purtroppo i primi effetti concreti si verificheranno nel secondo trimestre dell’anno, un tempo breve in stagioni di normalità ma drammaticamente lungo nel colmo della "tempesta perfetta" che stiamo attraversando.
Per colmare questa inevitabile sfasatura temporale Obama ha alzato l’asticella degli obiettivi e, oltre a quelli macroeconomici, ha inserito riforme strutturali e una redistribuzione sociale del reddito senza precedenti. E’ il caso di dire che si è bruciato gli ormeggi alle spalle affrontando lo scontro con i ceti più ricchi, minoritari nel numero ma maggioritari nel possesso e nel controllo della ricchezza e del potere sociale. Neppure Roosevelt era arrivato a tanto e non parliamo di Kennedy e neppure di Clinton. Questa cui stiamo assistendo è la prima vera svolta a sinistra degli Stati Uniti d’America; l’intera struttura economica, sociale e culturale del paese è infatti sottoposta ad una tensione senza precedenti, i cui effetti non riguardano soltanto i cittadini americani ma coinvolgono inevitabilmente l’Europa e l’Occidente nella sua più larga accezione. «Quando la casa minaccia di crollare - ha detto Obama parlando al Congresso - non ci si può limitare a riverniciare di bianco le pareti ma bisogna ricostruirla dalle fondamenta». Noi siamo tutti partecipi di questa rifondazione che si impone anche all’Europa.
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Separare il nostro vecchio continente dall’epicentro della "tempesta" americana è pura illusione. Se cadessero in bancarotta le grandi banche americane, se chiudessero i battenti le grandi compagnie automobilistiche, se l’insolvenza del sistema Usa uscisse di controllo, l’economia europea sarebbe risucchiata nello stesso turbine. Su questo punto è pericoloso illudersi. Chi pensa che l’Europa stia meglio dell’America, chi farnetica che l’Italia sia più solida degli altri Paesi dell’Unione, non infonde fiducia, al contrario alimenta l’irresponsabilità e l’incertezza. Non capovolge le aspettative ma anzi le peggiora.
L’Europa ha scoperto da pochi giorni un bubbone di dimensioni devastanti insediato al proprio interno: l’insolvenza di tutti i Paesi dell’Est del continente, alcuni già dentro Eurolandia, altri ai confini. Si tratta dei tre Paesi baltici, della Polonia, dell’Ungheria, della Romania, della Bulgaria, della Repubblica Ceca, dell’Ucraina, dei Paesi balcanici: Serbia, Croazia, Albania, Macedonia, ai quali vanno aggiunti la Grecia e l’Irlanda.
Questi paesi sono stati ricostruiti e rimodellati sull’economia di mercato grazie a massicci investimenti privati provenienti dall’Europa occidentale e da finanziamenti altrettanto massicci di banche occidentali. L’Austria ha impegnato in questa direzione gran parte delle sue risorse finanziarie e così la Svezia. Di fatto l’economia di questi due paesi è ormai legata a filo doppio con il destino dell’Est europeo, ma un coinvolgimento importante riguarda anche il sistema bancario tedesco.
Bastano questi cenni per capire che la crisi dell’Est, se non arginata entro le prossime settimane, può avere effetti devastanti sull’intera Unione europea, già fortemente scossa in Spagna, in Irlanda e in Gran Bretagna. E’ di ieri la notizia che tre istituzioni finanziarie internazionali hanno stanziato complessivamente 24 miliardi di euro destinati a soccorrere i paesi dell’Est.
C’è da augurarsi che si tratti di risorse immediatamente disponibili perché il cosiddetto effetto annuncio è ormai privo di valore. Ma si tratta comunque d’una cifra assolutamente insufficiente, visto che le dimensioni globali della crisi dell’Est si calcola nell’ordine di 200 miliardi di euro. L’operazione annunciata ieri ne coprirebbe un ottavo, cioè il 12 per cento. Ci vuole dunque uno sforzo ben più consistente, che è inutile chiedere ai singoli paesi. Deve intervenire l’Unione europea e al suo fianco il Fondo monetario internazionale.
I "meeting" tra i capi di governo dell’Unione hanno preso ormai un ritmo settimanale imposto dalle circostanze, ma sarebbe opportuno che da queste consultazioni uscissero decisioni concrete. Finora abbiamo avuto soltanto reiterate quanto inutili dichiarazioni di principio e progetti su nuove regole mondiali relegate in un futuro assai lontano. Parole inutili, progetti privi di attualità. Speriamo che l’incontro di oggi sia all’altezza dei pericoli che incombono.
Queste assai labili speranze hanno un solo modo per diventare concrete: un rifinanziamento massiccio e straordinario dell’Unione europea da parte dei paesi membri. Per avere senso, non meno di 100 miliardi di euro. Ma gran parte dei paesi membri non hanno nemmeno gli occhi per piangere. Quelli che hanno ancora qualche ragionevole capacità sono soltanto due: la Germania e la Francia. Se vorranno compiere questo sforzo assumeranno una nuova responsabilità e potranno reclamare un potere aggiuntivo all’interno dell’Unione, al di là dei trattati e dei regolamenti. Bisogna esser consapevoli di questa situazione, altrimenti continueremo a perderci in una fitta nebbia di chiacchiere e la «tempesta perfetta» europea si aggiungerà a quella americana con effetti di irrimediabile devastazione.
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Poche osservazioni sulla situazione italiana, che registra un progressivo peggioramento a fronte del quale le reazioni del governo sono pressoché inesistenti.
Per fronteggiare alcuni segnali di rischio incombenti e una storica fragilità patrimoniale del sistema bancario italiano, il governo ha mobilitato 12 miliardi, nove dei quali già prenotati da Unicredit, Banca Intesa, Monte Paschi e Ubi. Sono i famosi Tremonti-bond, prestiti a scadenza pluriennale assistiti da obbligazioni con un tasso medio dell’8 per cento a favore del Tesoro che le sottoscriverà. Con una procedura contabile che è arduo spiegare per la sua macchinosità, questi crediti del Tesoro non compariranno nel bilancio dello Stato. Le risorse necessarie saranno chieste al mercato con altrettante emissioni di Bot. Ci sarà uno scarto a favore del Tesoro tra il tasso riconosciuto ai sottoscrittori di Bot e quello pagato dalle banche emittenti dei Tremonti-bond. Insomma il Tesoro ci guadagnerà.
Si dovrebbe dire dunque bravo Tremonti, che in tempi di magra riesce a cavar sugo perfino dalle rape, se non fosse che l’intera operazione (che i media di bandiera hanno esaltato come un miracoloso toccasana) è completamente inutile. Le banche dovrebbero rafforzare il proprio capitale e rilanciare il credito alle piccole-medie imprese. Con i Tremonti-bond aumentano i propri debiti e pagano molto cara questa raccolta. Per di più essa ha una destinazione obbligata: deve esser destinata alle Pim.
Poiché il costo è dell’8 per cento, quale sarà il tasso chiesto alle Pim? Se il Tesoro vuole guadagnare tra il 3 e il 4 per cento in questa operazione, è probabile che le banche spuntino un margine analogo a carico della clientela, cioè impongano un tasso del 12 per cento più gli oneri fiscali. Con questa operazione si sostiene di aver rafforzato il sistema bancario italiano nel quadro della peggiore crisi europea degli ultimi settant’anni? Ci prendete tutti per imbecilli?
Nel frattempo l’Enel, che ha fatto troppi debiti, è costretto a lanciare un aumento di capitale che il Tesoro non sottoscriverà per la quota che ancora possiede. Il mercato ha reagito negativamente. Non era proprio l’Enel il titolo che Berlusconi ha più volte consigliato di comprare, insieme all’Eni, che anch’esso non naviga con la bandiera al vento? Il nostro "premier" non dovrebbe più pronunciar parola perché ogni volta che parla fa danni gravi alla credibilità sua e del paese che rappresenta. Invece la sua loquela esonda e infatti la nostra credibilità all’estero è sotto zero. Basta parlare con uno qualunque degli ambasciatori stranieri accreditati a Roma per averne conferma.
Speriamo che la crisi monetaria e bancaria dell’Est europeo sia arginata. Se così non fosse per far fronte alle sue ripercussioni in Italia ci vorrà ben altro che i Tremonti-bond. In ogni caso noi non siamo in grado di partecipare all’inevitabile rifinanziamento del sistema europeo. Perciò il nostro peso, già assai modesto nell’Unione, diminuirà ancora.
Per fortuna la bandiera nazionale, oltreché dall’Alitalia di Colaninno, continuerà a sventolare per merito del cuoco Michele e del chitarrista Apicella, intrattenitori apprezzati anche dai capi di governo stranieri quando vengono a Roma per vedere il Papa e il Presidente della Repubblica e fare poi sosta un paio d’ore a Palazzo Grazioli per gustare qualche manicaretto di Michele e ascoltare qualche canzone del chitarrista.
La nostra vocazione è la pizza e il mandolino. Ed un attore comico vestito da dittatore. Questo è il copione della commedia all’italiana e questo infatti va in scena anche in tempi di tempesta.
Raramente due racconti dello stesso evento, ciascuno guardato da un punto di vista diverso (anzi, opposto all’altro) hanno dato un’immagine più fedele della realtà rappresentata. “Visto da destra” e “visto da sinistra” Obama (meglio, la sua politica interna) emerge a tutto tondo. Ed è un’immagine che inquieta profondamente Panebianco, e apre il cuore alla speranza a Scalfari.
Il primo si meraviglia che il presidente Usa sembri “deciso a pagare le cambiali contratte in campagna elettorale con la sinistra americana: piano sanitario nazionale, rivoluzione verde, massicci investimenti pubblici, tasse più elevate per gli alti redditi”. Evidentemente condivide l’idea corrente di “democrazia”, che significa elezioni ogni tanto e poi basta. Ma il suo terrore nasce dal fatto che si gli sembra si sia avviato “il passaggio a una fase di forte presenza statale nella vita economica e sociale americana”. In realtà ciò che lo preoccupa è che s’inverta il segno della interdipendenza tra poteri dell’economia e poteri delle istituzioni. Se Obama va avanti la politica comanderà qualcosa nelle Corporations e non ne sarà più docile strumento. I timori di Panebianco sono poi rafforzati da una constatazione per lui amarissima: “Tramonta rapidamente l'immagine di un'America che doveva il suo grande dinamismo alla valorizzazione massima dell'iniziativa individuale e che, come tale, si proponeva quale modello da imitare per le altre società”. E se l’America fa così, “cosa possono fare quelle società che hanno sempre avuto una fiducia assai minore nelle virtù dell'individualismo, nelle benefiche conseguenze collettive della valorizzazione della libertà individuale?”.
Su questo aspetto insiste anche Scalfari, ma dal punto di vista opposto: “l’intera struttura economica, sociale e culturale” degli Usa è “sottoposta ad una tensione senza precedenti, i cui effetti non riguardano soltanto i cittadini americani ma coinvolgono inevitabilmente l’Europa e l’Occidente nella sua più larga accezione”.
L’analisi di Scalfari fornisce le cifre che testimoniano la gigantesca dimensione dell’impresa di intervento sull’economia promossa da Obama. “Si tratta di cifre fantastiche ma appena sufficienti a puntellare l’industria, il sistema bancario e la domanda dei consumatori. Purtroppo i primi effetti concreti” si verificheranno fra parecchi mesi: “per colmare questa inevitabile sfasatura temporale Obama ha alzato l’asticella degli obiettivi e, oltre a quelli macroeconomici, ha inserito riforme strutturali e una redistribuzione sociale del reddito senza precedenti. E’ il caso di dire che si è bruciato gli ormeggi alle spalle affrontando lo scontro con i ceti più ricchi, minoritari nel numero ma maggioritari nel possesso e nel controllo della ricchezza e del potere sociale. Neppure Roosevelt era arrivato a tanto”.
La posta in gioco nello scontro tra potere politico e potere economico è chiaro, ed è evidente che quello è l’aspetto decisivo nell’immediato. Ma altre domande restano aperte. L’intervento politico si limiterà a restaurare il mercato, a contrastare “l'idea secondo cui il mercato è il Dio che ha fallito” (Panebianco), e allora è facile prevedere che il potere tornerà neelle mani di chi comanda il mercato capitalistico? Oppure si aprirà la strada a un’economia diversa, di cui nel mondo attuale nessuno sembra avere il coraggio di immaginare la possibile esistenza? E ancora: quale rapporto esiste tra la politica interna di Obama e quella internazionale? Nell’uscita dalla crisi del 1929 la politica di Roosvelt fu aiutata dagli investimenti per la seconda guerra mondiale. Oggi?
La maggior presenza dello Stato nell’economia, resa necessaria dalla rovina finanziaria, restituisce ai poteri pubblici molti spazi che essi avevano ceduto o perso nell’ultimo trentennio. Restituisce allo Stato una forza inaspettata, vasta, benefica nell’immediato ma anche colma di rischi perché potenzialmente invadente, minacciosa non solo per l’economia ma per gli equilibri della democrazia.
Il fatto è che mancano, in buona parte dell’Occidente, classi politiche all’altezza di una svolta così profonda, anche se temporanea. Se si esclude Obama, giunto al potere in coincidenza con il crollo finanziario, numerosi politici che oggi governano le democrazie son figli dell’epoca che ha visto gli spazi della politica restringersi, e quelli del mercato allargarsi smisuratamente. I pericoli di uno Stato prevaricatore non diminuiscono ma aumentano, se il delicato passaggio è gestito da una generazione che per decenni s’è fidata del mercato più che della politica, abituandosi non a servire lo Stato ma a servirsi di esso, e mostrando un’acuta allergia alle regole. Nelle loro mani, lo Stato rinsaldato potrebbe divenire un Leviatano temibile.
Per tutti costoro, il Grande Crollo rischia di somigliare a quello che per Bush fu, nel 2001, la Grande Scossa dell’11 settembre.
Un’occasione non per consolidare la democrazia che si pretendeva tutelare, ma per accentrare il potere, per accentuare l’unilateralismo, per estendere l’ingerenza nel privato del cittadino, per distruggere l’equilibrio dei poteri sino a violare norme costituzionali come l’habeas corpus, che è il diritto di chi è arrestato a sapere perché il suo corpo viene sequestrato. Proprio dai neo-liberisti venne il più potente attacco alle libertà individuali: un’aggressione che la crisi economica può riprodurre, mescolando proditoriamente, come allora, politica dei valori, della paura, degli interessi particolari, del nazionalismo. Proprio da loro venne l’idolatria di una concorrenza sganciata dalla cooperazione. Dal caos d’un mercato senza briglie sono fuoriusciti governanti che hanno edificato la propria forza, oltre che sulla propria ricchezza, sul rifiuto esplicito delle leggi, costituzionali o internazionali. Che hanno spregiato la politica classica chiamandola inutile teatro. In Italia si parla di teatrino: i paesi feroci adorano i diminutivi.
In molti casi sarà questa generazione politica a gestire il ritorno dello Stato, e proprio questo turba. Dirigenti che aborrivano la politica e le istituzioni, che erano avvezzi a servirsene, che sono andati al potere da privati per privatizzare il pubblico, si trovano ora al volante di Stati dilatati, e tenderanno a comportarsi come ieri. Continueranno ad agire fuori dalle regole, a crearsi spazi dove gli spiriti animali del mercato non son temperati né dal senso razionale del limite, né dalla fiducia nel diverso. Con la politica dei valori e della paura si plasmerà la società. La guerra al Grande Crollo diverrebbe una variazione ben poco armoniosa della Guerra al Terrore.
Tale è infatti il potere, se non controbilanciato: cresce senza misura. Lord Acton diceva che naturalmente "tende a corrompere", e "quando è assoluto, corrompe assolutamente". Ciò è tanto più vero per chi lascia nel vago i fini che col governo della cosa pubblica vuol raggiungere, e tende a profittare del momento per accrescere un potere fatto di forza, muscoli, influenza sulle menti, sulla società, sull’informazione, addirittura sul comportamento etico di ciascuno. La vocazione ad accentrare e privatizzare il potere mal tollera le regole, i contropoteri, financo l’opposizione. In Italia si finge addirittura un’unità nazionale che nessun esito elettorale ha sancito. In Germania la Grande Coalizione è nata nelle urne. Da noi strega e corrode le menti, delegittimando chi vorrebbe, classicamente, fare opposizione.
Eppure solo uno spazio pubblico aperto a opinioni diverse permette di sventare i pericoli di uno Stato straripante: uno spazio nel quale a un potere si contrapponga un altro potere, alla maggioranza faccia fronte la minoranza, con la calma che nasce da una lunga storia della democrazia. A questo compito non sono preparate né le destre, influenzate per decenni dal fondamentalismo del mercato, né le sinistre immerse nello sforzo di tagliare le proprie radici stataliste. Ambedue sono figlie del neo-liberismo e del caos che ha generato. Ambedue dovranno affrontare la crisi ripensando il potere, i suoi fini, i suoi limiti.
C’è bisogno di un potere calmo, non rivoluzionario, per diminuire i rischi di uno Stato troppo forte, nocivo all’economia come ai cittadini. Chi sa i rischi dello strapotere non solo accetta ma favorisce la moltiplicazione di contropoteri, di controlli nazionali, europei, se possibile mondiali. Ma può farlo a due condizioni: deve dire i fini del potere politico, e sapere cosa significa senso dello Stato.
Un potere che si proponga fini alti non passa il tempo a criticare il politicamente corretto e gli ideali di giustizia sociale della sinistra. Attività simili perdono ogni senso: valevano quando si credeva che il mercato si regolasse da solo. Lottando contro il politicamente corretto, i fondamentalisti del mercato hanno scoperchiato tabù ma hanno anche finito con lo svilire i fini della politica: fini come la convivenza tra diversi, l’accoglienza dello straniero, la protezione dei bisognosi. Il potere - che dovrebbe essere un mezzo - è divenuto un fine in sé: nichilisticamente, sostiene Gustavo Zagrebelsky.
Non meno importante è la seconda condizione: che concerne il senso dello Stato, delle istituzioni. Un senso che non combacia sempre con lo Stato-nazione. Oggi, il senso dello Stato tocca averlo sia nazionalmente, sia in Europa: e non per ideologia sovrannazionale, come scrive sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia. L’Europa federale già esiste in numerosi campi (frontiere, moneta, commercio, concorrenza, agricoltura, spazi giuridici crescenti). Siccome nessuna mente, neanche la più fine, può dire il domani, nessuno può escludere che in futuro il senso delle istituzioni diventi senso dell’istituzione-Europa. Jean Monnet lo sosteneva agli esordi dell’unione: tutto sta a creare istituzioni comuni, perché "solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge": "Niente esiste senza le persone, niente dura senza le istituzioni". Nell’odierna crisi finanziaria è evidente: ogni Stato si difende da solo, minacciando col protezionismo l’Europa e se stesso contemporaneamente. Non esiste il sacrificio degli interessi "nazionali" sull’altare europeo, perché i due interessi coincidono più che mai. D’altronde gli europei lo intuiscono: molti irlandesi già si son pentiti del no al Trattato di Lisbona, molti Stati euroscettici sull’orlo della bancarotta riscoprono l’Unione.
In Italia cominciano a farsi sentire voci, anche a destra, che vogliono liberarsi dalla rivoluzione neo-liberista e neo-nazionalista contro le tavole delle leggi. Tremonti invoca regole mondiali e discipline europee, contro il caos del mercatismo. Gianfranco Fini si muove nello stesso senso. Giuseppe Pisanu, ex ministro dell’Interno, mette in guardia il governo, in un’intervista a Metropoli, contro una politica che ignora le regole, e contro lo Stato che si fa invadente, repressivo. Invita quest’ultimo a "governare con sapienza l’immigrazione", a non punirla attizzando cupi risentimenti negli immigrati, a non spezzare "l’unitarietà e l’efficienza del nostro sistema di sicurezza" con le ronde private.
Lo Stato diventa sempre più forte e proprio per questo sono importanti la costituzione, le regole, l’Europa. Solo custodendole si può dire, come Obama giovedì al Parlamento: lo Stato interverrà nell’economia senza danneggiarla ma non rinuncerà a dire la sua, e non mollerà: We are not quitters.
Il disegno di legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri persegue palesemente due finalità: rendere oltremodo difficile l’esercizio del diritto di sciopero nel settore dei trasporti, e in specie far sì che diventi pressoché impossibile per la Cgil indire da sola uno sciopero nel settore; aprire la strada a crescenti limitazioni del diritto di sciopero in altri settori.
Cominciamo da quest’ultimo punto. Tutti parlano (compreso il sito del ministero del Lavoro) del provvedimento in questione come di un disegno di legge delega per la riforma del diritto di sciopero nel settore dei trasporti. In realtà nel testo della legge delega la parola trasporti non esiste. Sia nel titolo che in vari articoli si parla sempre di "libera circolazione delle persone" e di "diritto alla mobilità". È vero che si tratta d’una revisione della legge 146 del 1990, che in tema di tutela della libertà di circolazione menziona esplicitamente i trasporti pubblici autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali e marittimi. Resta il fatto che insistendo in più punti sul diritto alla mobilità e sulla libertà di circolazione, senza mai far riferimento ai trasporti, la nuova legge amplia di molto il suo ambito di applicazione.
Infatti è possibile che la libertà di circolazione venga lesa da molte altre attività che con i trasporti pubblici, i treni, gli aerei o le navi hanno poco a che fare.
D’altra parte la legge delega non fa mistero dell’intenzione di andare molto al di là del settore dei trasporti propriamente inteso. L’articolo1, comma 2/j, prevede infatti il "divieto di forme di protesta (sic) o astensione dal lavoro in qualunque attività o settore produttivo (sic) che, per la durata o le modalità di attuazione, possono essere lesive del diritto alla mobilità e alla libertà di circolazione". Questo articolo apre alla volontà repressiva del legislatore oggi, e domani del giudice, spazi sterminati. Gli addetti ai rifornimenti d’una nave in partenza per la Sardegna, che dipendono da una società di catering e non dalla società padrona della nave, sono in sciopero e la fanno ritardare di un giorno o due? Secondo la nuova legge, è chiaro che ledono il diritto alla mobilità dei passeggeri. Sono in sciopero i tecnici dell’Airbus o della Boeing che dovevano fare determinate verifiche o briefing di aggiornamento, senza le quali gli aerei un certo giorno non possono partire? La libertà di circolazione di coloro che avevano acquistato i biglietti per quel giorno risulta evidentemente compromessa. Ergo quei tecnici, pur appartenendo a un altro settore produttivo, hanno violato il divieto dell’articolo in questione (ovvero di quelli che lo trasporranno nei decreti delegati). Può davvero portare molto lontano, l’articolo 1 del ddld sulla libera circolazione delle persone, nel limitare la libertà di sciopero.
Per quanto riguarda il settore specifico dei trasporti, è chiaro che dal momento in cui il disegno di legge delega diventasse legge e poi decreto attuativo, i sindacalisti del settore, nessuno escluso, potrebbero dedicarsi ad altre incombenze. La proclamazione di uno sciopero diventa per chiunque un’impresa improba, oltre che non poco rischiosa per le possibili conseguenze sanzionatorie. Per intanto, se vuol dichiarare uno sciopero un sindacato deve vantare a priori un grado di rappresentatività superiore al 50% "a livello di settore". Il limite pare fatto apposta per tagliar fuori la Cgil, poiché se il limite fosse di qualche punto inferiore in diversi settori dei trasporti forse ce la farebbe. Ma oltre all’ostacolo della percentuale di iscritti sussiste quello di stabilire quale sia il perimetro esatto di un determinato settore; compito diventato difficile per chiunque a causa della frammentazione di tutti i settori dei trasporti in gran numero di aziende aventi statuti differenti.
A norma del disegno di legge delega, quando il grado di rappresentatività sia inferiore al 50%, o non determinabile, è d’obbligo procedere a un referendum preventivo. A una condizione: l’organizzazione che lo indice deve avere un grado di rappresentatività superiore al 20%.
Fatta una simile fatica, se mai qualcuno ci riesca, lo sciopero sarebbe sì autorizzato, ma potrebbe anche non essere legittimo. Per ricevere questo riconoscimento bisogna infatti che lo sciopero abbia ricevuto il voto favorevole del 30% almeno dei lavoratori interessati. Non basta. Lo sciopero potrebbe essere magari votato dalla quota richiesta dalla legge, e però configurarsi ancor prima di aver luogo come un solenne fiasco. Questo perché i contratti di lavoro o le regole da emanare in seguito dovranno prevedere nulla meno dell’adesione preventiva allo sciopero stesso del singolo lavoratore. Per cui ecco la sequenza: prima il lavoratore vota pro o contro la proclamazione dello sciopero, oppure si astiene; poi prende atto che lo sciopero si può fare, o no; e a questo punto trasmette a qualcuno, oppure no, una dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero stesso. Nell’insieme, visto che l’intento del disegno di legge delega risiede palesemente nel rendere in pratica impossibile proclamare uno sciopero nei trasporti, il Cdm poteva anche risparmiarsi la fatica di varare un testo con cinque articoli e dozzine di commi e paragrafi. Bastava una riga: lo sciopero nei trasporti è vietato.
Questa cosiddetta riforma godrà presumibilmente di un vasto consenso popolare. Vari elementi portano in questa direzione. L’articolo 40 della Costituzione è insolitamente striminzito e lascia tutto lo spazio alla legislazione. La legge che regola gli scioperi nei servizi pubblici è vecchia di vent’anni. Gli scioperi proclamati troppo di frequente da alcune dozzine di autisti di autobus o qualche centinaio di ferrovieri o piloti d’aereo o assistenti di cabina hanno recato innumerevoli disagi a moltissime persone. Però il disegno di legge in questione non ha nello sfondo questi elementi. Ha invece tutta l’aria di prenderli a pretesto per ridurre gli spazi di libertà, di protesta, di manifestazione di gran parte del mondo del lavoro. E’ probabilmente tardi; ma forse bisognerebbe riuscire a dire forte e chiaro al governo che per riformare l’attività sindacale nel settore dei trasporti questa strada è sbagliata.
Per Obama si fa dura: gli Stati uniti sono nel tunnel della crisi economica, ma in fondo non si vede luce, solo buio ancora più profondo. I dati sull'andamento del Pil non lasciano speranza: nel quarto trimestre la discesa annualizzata è stata del 6,2%, il 60% in più di quanto le stime preliminari avevano accertato. E le prospettive sono ancora peggiori come confermano i dati sulle richieste iniziali di sussidi di disoccupazione: da parecchi settimane oltre 600 mila persone perdono il posto di lavoro. E quasi nessuno ne trova uno nuovo.
Ieri l'Fbi ha diffuso il tradizionale rapporto sulla criminalità negli Usa. Ne emerge uno spaccato sulla situazione economica del paese estremamente significativo: nel primo semestre - quando l'economia stava già rallentando, ma cresceva - i "delitti" erano stazionari con una tendenza alla diminuzione; nel secondo semestre c'è stata una netta inversione di tendenza: i delitti contro il patrimonio, gli scippi, le rapine sono in crescita vertiginosa. Insomma, la gente si arrangia come può visti anche gli esempi che arrivano dall'alto. Cioè dai banchieri creatori degli asset tossici che se la cavano a buon prezzo, spesso portandosi a casa belle liquidazioni.
Ora la speranza si chiama Obama: ha ereditato una situazione disastrosa della quale non ha colpe. Gli ostacoli che gli pone il Congresso sono notevoli, ma l'uomo ha dimostrato di saperci fare e l'aggravarsi delle crisi economica potrebbe spezzare molte rigidità. Come accadde ai tempi di Franklin D. Roosevelt, ai tempi della grande crisi. Ieri anche Krugman, il premio Nobel per l'economia, un liberal spesso critico sul programma di Obama, ha ammorbidito la sua posizione. Probabilmente per la svolta sanitaria del neo presidente, ma anche per i progetti sulle energie alternative in grado di sviluppare la ricerca (basti pensare ai pannelli solari senza silicio) che ha visto per anni gli Usa all'avanguardia e grande esportatori di know how. Di più: con lo sviluppo delle energie alternative Obama intende ridurre la dipendenza energetica dal petrolio (a regime 2 milioni di barile di petrolio in meno al giorno). Il che renderà meno "necessarie" le guerre imperialiste nel medio oriente. Inoltre sarà possibile creare 3,5 milioni di posti di lavoro che di questi tempi non sono pochi.
L'impressione è che Obama si stia muovendo con la logica dell'elastico: infila provvedimenti sui quali anche la destra non si oppone (gli sgravi fiscali per stimolare la domanda privata di consumi), media sul ritiro dell'Iraq, ma poi ci infila provvedimenti come quello sulla sanità pubblica. Occhio: Obama non è un socialista, come non lo era Roosevelt. Forse lo era un repubblicano anomalo come Fiorello La Guardia, sindaco di New York che poi divenne stretto collaboratore del presidente. Questo significa che Obama si muove nell'ottica di una restaurazione del sistema su basi più democratiche, con un rilancio del benessere. E questo a molti non piace, ma può dare input importanti alla sinistra nostrana. Quella antagonista paralizzata dal minoritarismo; quella del palazzo, sempre più affannata nella rincorsa al berlusconismo.
Loris Campetti Diritto di precedenza
Nell’editoriale de il manifesto (27 febbraio) la difesa del diritto non di una “categoria”, ma di un’attività che è la base della società. Grazie alle manovre repressive del governo e al silenzio degli altri, “è a rischio la democrazia di tutti”
Il diritto di circolazione dei cittadini viene prima del diritto di sciopero dei lavoratori. In realtà, davanti ai lavoratori c'è una schiera di soggetti con diritto di precedenza, a partire naturalmente dai consumatori. Tutti hanno più diritti dei lavoratori, così dev'essere, e ha ragione il governo Berlusconi a lanciare prima anatemi e poi leggi pesanti come pietre per ridimensionarne le pretese. Ha ragione, visto che quasi nessuno nelle sfere della politica sembra indignarsi e due dei tre sindacati più rappresentativi si dicono disposti a discutere una legge che cancella il diritto di sciopero nei trasporti. Una volta ancora la Cgil viene lasciata sola, il neo segretario del Pd Franceschini ha problemi più seri di cui occuparsi e dunque il ministro Sacconi può dire tranquillamente che un accordo separato in più non gli farà perdere il sonno.
Ma è proprio vero che i tranvieri ci impediscono di circolare? Non si direbbe, data la continua diminuzione del tasso di scioperosità. Né si può dire che vengano violate continuamente le regole ferree già esistenti per imbrigliare e rendere difficile la mobilitazione sindacale nei servizi di pubblica utilità: le contestazioni del comitato di garanzia riguardano lo 0,7% degli scioperi proclamati nel settore dei trasporti.
Allora, di che cosa stiamo parlando? Del fatto che ogni volta che si vogliono cancellare diritti sociali, sindacali, civili, di cittadinanza si inventano emergenze a palazzo Chigi e si rafforzano con la collaborazione attiva della maggioranza dei media. Che si tratti di bastonare gli immigrati e i rom, di speculare sugli stupri o sul diritto di morire quando non c'è più vita. L'emergenza è una forma precisa - lucida, per quanto autoritaria e populista - del nostro governo.
È scaltro Berlusconi, come scaltri sono i suoi ministri di punta. Partono dai sentimenti peggiori di una popolazione colpita dall'unica emergenza non riconosciuta, quella sociale. Parlano alla pancia, agli intestini del paese. Chi non ce l'ha con gli autisti degli autobus che non arrivano? Si comincia a colpire dove è più facile raccogliere consenso, per poi proseguire la caccia grossa contro tutti gli altri lavoratori. Il diritto di circolazione non è che un grimaldello per scardinare quel che resta in Italia del diritto del lavoro. Ha ragione uno dei più prestigiosi leader sindacali della stagione passata, il cislino Pierre Carniti, che in un'intervista al manifesto pubblicata a pagina 6, denuncia: dobbiamo smetterla di dire che quello che abbiamo è un governo cattivo, «è un governo di destra, è il governo dei padroni».
Sta diventando prassi lanciare la polizia contro gli operai che scioperano o difendono le loro fabbriche e le loro macchine, all'Alfa di Pomigliano come all'Innse di Milano. Legge e manganello, sono due buoni sistemi di persuasione. Due rotaie per portare il trenino italiano verso un futuro più ingiusto, più classista, più autoritario. La democrazia, il diritto di chi lavora a dire la parola finale sugli accordi che li riguardino, è soltanto un freno alla corsa del trenino.
Siamo matti noi, oppure è a rischio la democrazia di tutti?
A parole in Italia siamo tutti liberali. Quel che invece è egemone da noi è un comunitarismo d’accatto, e uno statalismo corporativo. Con la destra e la Lega in prima linea e la sinistra purtroppo afona e divisa. A cominciare dalla laicità». Conversazione polemica con un torrente in piena quella con Giulio Giorello, filosofo della scienza, da marxista già allievo di Ludovico Geymonat, milanese, classe 1945. Oggi libertario impenitente e di sinistra: tra Popper, Feyerabend e Stuart Mill. Ma senza tenerezze per destra e sinistra. Alla destra «statalista» Giorello imputa assenza di senso dello stato e integralismo strumentale. E alla sinistra? Divisioni, debolezze laiche, identità fragile.
Nonché incapacità di cavalcare le vere questioni del paese. Che nell’ordine per Giorello sono: «precarietà del lavoro, disservizi, degrado urbano e scuola a pezzi». E però, per lo studioso, tutto ruota attorno alla questione per lui fondamentale. La laicità. Cartina di tornasole di tutte le insufficienze del paese. Quasi un dna malato, che impedisce all’Italia di essere una nazione, e di avere un baricentro civile. Vediamo.
Professor Giorello, da un’inchiesta Swg emerge che il 62% degli italiani nei grandi centri teme crisi economica e precarietà del lavoro. Solo il 24% è in ansia per l’immigrazione. Pochissimi credono alle ronde. E il 37% lamenta inefficienze e crisi della giustizia. La destra al governo ci racconta favole?
«Se il sondaggio è attendibile, ne vien fuori un ritratto del paese molto significativo. E cioè che il malessere attuale poggia su tre fattori. L’insicurezza economica e la precarietà del lavoro. Le inefficienze dei servizi, molto più gravi di certe violenze. Infine il degrado dell’ambiente, non solo dei beni culturali, ma in rapporto alla buona vivibilità dei centri urbani, del tutto degradati e insicuri. Sono tre parametri molto più veri del cosiddetto rischio immigrazione, tema gonfiato ad arte e che genera paradossi e doppi binari. Se un italiano violenta una romena, nessuno se ne accorge. Se un romeno violenta un’italiana, allora è un’emergenza nazionale».
A suo avviso anche i dilemmi della «sacralità della vita» e del testamento biologico generano ansie artificiali?
«Questione delicata, da chiarire bene. Premesso che non ho nulla contro il sacro, reputo bizzarro definire sacro ciò che ci piace. Ed empio quel che non rientra nella nostra scala di valori. Qui non parliamo del sacro in un quadro antropologico o religioso, ma siamo di fronte a slogan ideologici, che qualcuno erige a verità scientifiche. Basterebbe leggere quel che scrive uno scienziato serio come Edoardo Boncinelli, per capire che la “sacralità della vita” non è altro che una retorica per poter prevaricare le libere scelte di coscienza di cittadini e cittadine. E prevaricatrici sono alcune istituzioni e agenzie politiche, impegnate a comprimere la libertà individuale, sia che si parli di interruzione di gravidanza, che di testamento biologico. Non è che questi temi di per sé siano ansiogeni, o fonte di precarietà esistenziale. La verità è che c’è chi li rende tali e li usa in tal senso. E il discorso concerne purtroppo sia la destra e che la sinistra, cioè persone dell’uno o dell’altro schieramento. Le quali ogni volta che arriva un messaggio dal Vaticano, corrono a genuflettersi. Sì, anche nel fronte progressista ci sono raggruppamenti - come i teodem- che su questo fanno a gara con la destra, fino a bloccare l’intero Pd. Condivido perciò l’insofferenza intelligente di Veronesi, che non ha esitato a denunciare la debolezza profonda dei democratici».
Intravede tentazioni confessionali e autoritarie trasversali in tutto questo?
«Sì, le intravedo eccome. E all’insegna di una matrice ben precisa: un certo cattolicesimo italiano. Che fa riferimento a una struttura autoritaria e gerarchica, “derivata” dallo Spirito Santo, e da chi in suo nome prescrive credenze e stili di vita. Non sto polemizzando col dogma dell’infallibilità del Papa in materia squisitamente religiosa. Denuncio un autoritarismo piramidale più generale di tipo religioso, e con pretese civili».
La sponda più immediata di questa tendenza è però senza dubbio la destra al governo...
«Certo, e ciò che mi colpisce a riguardo è la totale mancanza di senso dello stato nella nostra destra, per nulla una destra seria come quella francese. Nondimeno - insisto - anche a sinistra c’è acquiescenza. E non è solo la Binetti ad essere zelante, ma ahimè anche altri, e provenienti da altre storie. Penso alle molte cautele di tanti ex Ds. Quanto ai cattolici progressisti, gente stimabilissima, sono in una condizione difficile. Schiacciati come sono dal clericalismo da un lato, e da cautele di ogni tipo dall’altro».
Non la persuade la netta posizione d’esordio di Franceschini sulla libertà bioetica di scelta?
«Massimo rispetto. Franceschini conosce bene il clericalismo italiano e le sue abitudini. E fa di tutto, generosamente, per contrastarli. Ma mi chiedo: ce la farà? Non c’è solo Franceschini nel Pd, un partito dentro il quale se ne sentono di tutti i colori. Tipo: la vita appartiene alla collettività. L’ultima che ho sentito dire, da una teodem. No, davvero è ora di riscoprire Gramsci e il suo vigore logico nei Quaderni del carcere. Quando mostrava a quali compromessi inaccettabili ci ha condotti la Questione vaticana, ad esempio con il Concordato fascista, purtroppo reinserito da Togliatti all’art. 7 della Costituzione italiana. Attenzione però. Un conto è la burocrazia dello spirito vaticana, altro il ruolo dei cattolici democratici, che in Italia e altrove si sono battuti per i diritti civili e per una società aperta. Franceschini, che mi è molto simpatico, appartiene a questa schiera».
La liquidazione congiunta, tramite fusione, del cattolicesimo democratico e dell’eredità del movimento operaio, non ha aggravato le cose da un punto di vista laico e politico più generale?
«Sì, e da entrambi i punti di vista. Le proprie tradizioni infatti si revisionano, si riesaminano. Ma non si svendono acriticamente. E sarebbe stato bene farlo anche rispetto al Pci, misurando con più attenzione luci e o ombre. Per far emergere il capitale spendibile di una gloriosa tradizione, e sostituire ciò che era inaccettabile. Penso ad esempio ai torti di Togliatti, dalle posizioni sull’Urss al Concordato. Bene, è mancato quel che invece c’è stato nelle grandi socialdemocrazie europee, che si sono lacerate, hanno vissuto aspre lotte interne. Ma alla fine hanno fatto i conti con la loro tradizione, senza liquidazioni sommarie. Ecco, anche per questo deficit interno al post-comunismo, il Pd non può che essere e risultare un’amalgama confuso. Con tutto ciò che ne consegue per l’identità e la forza dell’opposizione».
L’Italia, scriveva Giuseppe D’Avanzo su «Repubblica» di alcuni giorni fa, è sull’orlo di una nuova civiltà, quella dell’odio. Possiamo aggiungere che sta avviandosi a diventare una società sempre più autoritaria, per non dire peggio. Molte forze cooperano a questa trasformazione, alcune di esse scientemente, tutte in maniera scellerata: una parte preponderante dei partiti che formano la maggioranza; parrocchie, parroci e gerarchie cattoliche; movimenti sociali e politici rappresentativi soprattutto di alcune aree del paese; bande violente e razziste un po’ dovunque. Assistiamo al fiorire di proposte schizofreniche, che parlano la lingua della carità cristiana quando è in questione la sospensione dell’accanimento terapeutico e la lingua della violenza persecutoria quando è in questione la cura di persone non italiane. Le stesse forze che urlano per la vita urlano per la sua violazione; le stesse che invocano la perenne cura propongono di servirsi del bisogno di cura dei clandestini come mezzo di schedatura persecutoria.
Diverse nel contenuto, queste posizioni sono schizofreniche in apparenza, ma identiche nel tenore e nel significato: la volontà di una parte (anche se larga) di decidere con imperio su tutto e contro tutti: contro i giudici quando mettono in atto la legge; contro la nostra costituzione che con la divisione dei poteri sancisce la sovranità della legge, non della volontà del più forte; contro la libera scelta dei singoli che la costituzione difende; contro la morale umanitaria e universale che guida convezioni e trattati firmati anche dall’Italia e che impegnano l’Italia al rispetto della vita, della dignità e dei diritti fondamentali di ogni essere umano che giunge o vive sul territorio nazionale, che parli o no la lingua della maggioranza (come se gli italiani parlassero un’identica lingua dalle Alpi alla Sicilia!).
Ma un paradosso c’è: con un governo che gode di una così ampia maggioranza ideologica e numerica, la società civile invece di essere in pace è in guerra permanente, ogni giorno scossa da nuovi e radicali conflitti. Si tratta però di paradosso fittizio. E’ ragionevole pensare, gli eventi paradossali di questi giorni istigano a pensare, che sia proprio questa debordante maggioranza a trovar conveniente generare un senso di instabilità sociale e di disordine. Fomentare la rabbiosa reazione contro il diverso può essere politicamente conveniente per rendere il bisogno di sicurezza inappagato e continuo. Fomentare l’odio verso i giudici che hanno “firmato la condanna a morte di Eluana” può essere conveniente per alimentare il discredito dei giudici e sostenere la politica del governo sulla giustizia. La logica è studiata: avendo costruito la propria legittimità ideologica sul bisogno di sicurezza, questo governo è necessariamente interessato ad alimentare la percezione dell’insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo e, nello stesso tempo, per riuscire a giustificare la propria impotenza quando è necessario.
Creare il bisogno di sicurezza alimentando la paura e l’insicurezza con la moltiplicazione esponenziale delle polizie: rendendo se possibile tutti gli italiani dei poliziotti, dai medici che dovrebbero diventare aguzzini dei pazienti non italiani ai pattugliatori padani in camicia verde.
La cenerentola è la politica, la quale giuoca un ruolo infimo e irrisorio in questo clima permanente e totale di stato d’emergenza, dove ad essere messe in circolo sono le opinioni morali, quelle religiose, quelle razziste, quelle personali di questo o quel ministro - opinioni cioè non politiche perché non mediabili e non traducibili in linguaggio normativo. Dove sia la sfera pubblica in questa giungla di vocabolari nessuno più lo sa. Con gravissimo rischio per tutti.
Che vi sia l’esigenza di rivedere le norme vigenti per scongiurare gli scioperi selvaggi, soprattutto nel settore dei trasporti, è un dato di fatto che nessuno può ragionevolmente contestare. Anche di recente le repentine agitazioni a singhiozzo, che hanno punteggiato l’interminabile vertenza di Alitalia, hanno confermato l’urgenza di una riforma.
La mobilità dei cittadini (e delle merci) non è soltanto un diritto primario ma anche una necessità economica oggi fondamentale per il benessere collettivo. Ma i modi con i quali il governo sembra intenzionato ad intervenire – a giudicare dalle anticipazioni sulla bozza di legge-delega in via di presentazione al Parlamento – lasciano trasparire qualcosa di ben lontano da una razionalizzazione della materia. L’animo di chi ha scritto le nuove norme, infatti, appare piuttosto ispirato da una tale volontà di rivalsa contro certi eccessi del sindacalismo da sconfinare nel desiderio di rendere così complicato il processo di dichiarazione di uno sciopero da azzerare in concreto la stessa possibilità di ogni astensione dal lavoro.
La novità più rilevante al riguardo è quella di rendere obbligatorio, prima della proclamazione dello sciopero, un referendum consultivo fra i lavoratori a meno che l’iniziativa non parta da sindacati che abbiano oltre il 50 per cento di rappresentatività nel settore. A prima vista, il provvedimento sembra mosso dal nobile fine di introdurre elementi certi di democrazia nel mondo sindacale: si sciopera se la maggioranza lo vuole. In pratica, però, la brillante trovata fa finta di non vedere o comunque ignora le contraddizioni democratiche insite in una tale procedura.
Punto primo: per evitare la procedura del referendum, come si fa a stabilire se l’organizzazione che intende proclamare lo sciopero supera oppure non supera la fatidica soglia del 50 per cento di rappresentatività? E´ da decenni che dall´interno stesso del mondo sindacale, segnatamente da parte della Cgil, si chiede una normativa per definire una volta per tutte forme e criteri oggettivi e riconosciuti di valutazione della forza rappresentata dalle singole organizzazioni.
Ma un po’ per la contrarietà delle confederazioni minori e molto per l’ignavia del potere politico nessun passo è stato mai fatto in proposito. E ora che il tema viene usato non per consolidare ma per ridurre il potere dei lavoratori si dovrebbe credere alla buona fede delle intenzioni governative? Ma se così fosse perché non si è fatta precedere questa legge da un’altra che sciogliesse, una volta per tutte, il nodo delle rappresentanze sindacali effettive? Punto secondo e complementare al primo. Suona davvero molto democratica l’idea di obbligare a un referendum per gli scioperi, ma perché – proprio poche settimane fa – tanto il governo quanto Cisl, Uil e Ugl hanno lanciato anatemi contro l’ipotesi avanzata dalla Cgil di fare un referendum sul contratto del pubblico impiego che la confederazione di Epifani non aveva sottoscritto?
Questa idea che le consultazioni dei lavoratori si debbano fare per gli scioperi e non per i contratti offre una concezione di democrazia sindacale a corrente alternata che non riesce a nascondere sia il proprio spirito repressivo di fondo sia un chiaro fine di discriminazione politica.
Come conferma una terza osservazione. E´ difficile che nel mondo dei trasporti vi sia un’organizzazione in grado di essere rappresentativa di oltre la metà degli addetti del settore. Ciò significa che il referendum dovrebbe diventare pratica senz’altro prevalente. A meno che più organizzazioni sindacali non si associno fra loro nella proclamazione dello sciopero. Ipotesi che tradotta in concreto comporta che o la Cgil opera d’intesa con Cisl e Uil oppure si scorda di andare da sola. Si erano già avuti segnali che l’attuale ministro del Lavoro, di antica fede craxiana, sia ossessionato da una volontà punitiva nei confronti della Cgil. Ora se ne ha l’ennesima prova.
Resta, infine ma non per ultimo, da segnalare un altro aspetto preoccupante di questa iniziativa perché la bozza di legge resa pubblica lascia al governo margini di delega assai indeterminati su una quantità di passaggi essenziali, a cominciare da quello relativo alla singolare novità dello sciopero cosiddetto virtuale.
Per cui alla fine dell’operazione ci si potrebbe trovare di fronte a scelte anche ben peggiori in termini di libertà di sciopero di quanto oggi si può già intravedere. Par di capire che siamo all’inizio di una brutta partita politica nella quale il governo – invece di cercare soluzioni mediate e condivise – punta a provvedimenti tali da giustificare reazioni così dure fra i lavoratori da poter poi rispondere in termini ancora più repressivi col favore di un’opinione pubblica fatta maliziosamente esasperare. C’è in tutto questo un alito da Anni Venti del Novecento che dà parecchio da pensare.
Il buon Franceschini ha dichiarato che Berlusconi è contro la costituzione. Forse l'ha fatto per dare un po' di colore al suo pallidissimo partito e togliere un po' di terreno sotto i piedi a Di Pietro. In ogni caso, evviva. Tuttavia, è solo la metà della storia. Berlusconi è l'attore supremo e il simbolo della trasformazione autoritaria in Italia. Ma c'è una parte entusiasta del paese che lo segue ed è questo che inquieta davvero.
Diamo un'occhiata alla mappa delle ronde pubblicata ieri da Repubblica. Pressoché assenti nel sud, tranne che a Napoli, dove peraltro i City Angels pattugliano saggiamente la zona bene di Chiaia, le ronde si infittiscono verso nord, fino a punteggiare la Padania da Cuneo a Trieste.
Si tratta di iniziative composite e molteplici. Ci sono quelle della Lega, i City Angels, i Blue Berets, gli ex poliziotti o carabinieri, le pattuglie antiabusivi (Venezia), con cane e pettorina (Torino), i nonni-vigili (Genova) e così via. Si va da una certa truculenza della Lega e della destra all'amabilità dei volontari nei parchi, sino, crediamo di capire, a istanze come «riappropriamoci del territorio». Chi sono gli obiettivi di questa montante volontà di controllare? Pedofili, potenziali stupratori, ladruncoli e scippatori, fastidiosi marginali, ambulanti, lavavetri, clandestini, nomadi, barboni. Dunque, per lo più, quei margini o scarti sociali a cui si attribuisce, nonostante la diminuzione costante dei reati, l'allarme generalizzato sulla sicurezza.
E chi sono i rondisti? I cittadini risoluti, i difensori del territorio, le vedette lombarde. Secondo me, qui c'è proprio il punto chiave dell'intera faccenda. Al di là del fatto che magari possono anche non essere esplicitamente di destra, i rondisti dimostrano che il messaggio della Lega ha fatto breccia nell'immaginario locale. Il territorio con al centro la casa. La via come prosecuzione della quiete domestica (una quiete del tutto fantastica, visto che la stragrande maggioranza delle violenze sulla persona e degli abusi sessuali ha luogo in casa). La strada come estensione della fabbrichetta. Dunque, la privatizzazione dello spazio pubblico. Come è noto, in uno spazio privatizzato non si danno conflitti. Per il momento, se qualcuno si oppone pubblicamente alle ronde, interviene la polizia. Ma giorno verrà in cui saranno i difensori del territorio a stabilire chi ha diritto di manifestare in pubblico.
Apparentemente, la cautela del governo verso le ronde, che per il momento non sono armate e vanno autorizzate, è all'insegna della protezione della legalità e contro gli abusi. A me sembra soprattutto la costituzione di cinghia di trasmissione tra poteri e soggetti. La costituzione di un autogoverno senza contenuti.
I cittadini, non più divisi dal conflitto sociale e tacitati sugli interessi, si coalizzano contro il buio. Una grande famiglia felice, che sbarra porte e finestre al tramonto. La la crisi economica risveglierà il conflitto, si potrebbe obiettare. E se invece il razzismo democratico, la bagarre perpetua contro i clandestini, la xenofobia di stato, la mobilitazione locale delle ronde non fossero esattamente la strategia per governare il conflitto che incombe, e cioè il fondamento di un regime autoritario e consensuale?
L’annuncio del governatore regionale Giancarlo Galan, che la scorsa settimana ha aperto la porta al progetto di Veneto City, il complesso direzionale e commerciale da due milioni di metri cubi che dovrebbe sorgere fra i Comuni di Dolo, Pianiga e Mirano, non è passato inosservato. E in attesa che l’iter urbanistico e politico dell’operazione faccia il suo corso, si mobilita il fronte che si oppone al progetto. Così il 15 marzo prossimo i "Cantieri sociali" annunciano nella sala convegni della Provincia una giornata di studio dal titolo eloquente: "Stop al consumo del suolo". Fra i relatori figurano l’urbanista Edoardo Salzano e la docente Maria Rosa Vittadini, i sindacalisti Salvatore Lihard e Oscar Mancini e lo studioso Alberto Asor Rosa che tirerà le somme della giornata.
Nel mirino dei promotori del convegno non ci sono però i promotori di Veneto City - ovvero il progettista Luigi Endrizzi e la famiglia Stefanel - ma la stessa amministrazione provinciale di Venezia. Questa, si apprende a Ca’ Corner, si sarebbe limitata a recepire alcune destinazioni urbanistiche a uso economico-produttivo già presenti nell’area dove dovrebbe sorgere il grande complesso direzionale e commerciale. Diversa la versione dei promotori dell’iniziativa: "La Provincia di Venezia - si legge nel documento che annuncia il convegno - ha adottato un piano territoriale di coordinamento (Ptcp) che raccoglie in modo indiscriminato tutte le grandi proposte di cementificazione e super infrastrutturazione del territorio che gruppi d’interesse, prevalentemente privati, hanno proposto negli ultimi anni. La cosa è particolarmente grave perché per la prima volta si dà copertura istituzionale a progetti come Veneto City e Marco Polo City a Tessera: mega interventi di urbanizzazione che hanno, quale unico scopo, la valorizzazione immobiliare, e si saldano strettamente a progetti di ampliamento della rete autostradale. Il carattere devastante del piano provinciale ha provocato la reazione di tutti i comitati e le associazioni che si battono per la difesa del territorio".
Sedici di essi, insieme a un nutrito gruppo di urbanisti, ha costituito un "tavolo di lavoro" il quale, dopo aver esaminato tutti gli spetti del Piano, ha presentato un’osservazione complessiva, alla quale la Provincia dovrà controdedurre. Così come dovrà controdedurre alle altre migliaia di osservazioni (tremila nella sola zona della Riviera del Brenta) che i comitati e le associazioni hanno presentato autonomamente, riprendendo e approfondendo quella del “tavolo”. "Si è trattato di un primo intervento comune - prosegue il documento - di tutte le forze che, sul territorio veneziano, si battono per la sua difesa. Vogliamo consolidare questo risultato".
L’economia sommersa come ammortizzatore sociale. È questa la strategia consapevolmente seguita dal governo nell´affrontare la recessione. Ha scelto di ridurre i controlli sui posti di lavoro.
Li ha ridotti nonostante potesse contare su più ispettori del lavoro di quelli a disposizione dei governi precedenti. Ne sono stati assunti 300 (quasi il 10 per cento in più) nel solo 2008 e 1100 nei due anni precedenti. Ma i controlli sono diminuiti. Nel 2008 sono calati del 6 per cento. E nel 2009 si ridurranno di un quarto. Ce lo dice tra le righe il Documento di Programmazione dell´Attività di Vigilanza nel 2009 predisposto dal ministero del Lavoro e reso pubblico in questi giorni. Se si prendono per buoni i dati forniti dal ministero sui controlli effettuati nel 2008, la riduzione delle ispezioni sarà del 24 per cento, con punte del 50 per cento nelle regioni del Sud (a partire dalla Calabria). Perché questa scelta? Il documento del ministero è molto esplicito a riguardo: «La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su di un´azione di vigilanza selettiva e qualitativa, diretta a limitare ostacoli al sistema produttivo». Insomma, si preferisce chiudere un occhio, se non due, in questo frangente. Più chiaro di così!
È una scelta di politica economica molto pericolosa e fatta senza dire nulla ai cittadini, senza interpellare il Parlamento. Può portare a un ulteriore e forte peggioramento dei nostri conti pubblici nel 2009, ben al di là di quanto previsto nei documenti ufficiali del Governo. Forse per questo il ministro Tremonti è stato così prudente in questi mesi. Secondo l´Aggiornamento del Programma di Stabilità dell´Italia presentato dal governo a Bruxelles, l´indebitamento dovrebbe salire nel 2009 al 4,1 per cento nel caso, sempre più probabile, di una diminuzione del prodotto interno lordo del 2,5 per cento. Ma le previsioni del governo contemplano un anacronistico incremento delle entrate contributive nell´anno in corso e confidano su di un consistente recupero di evasione nella copertura del decreto anticrisi. Con la riduzione della tax compliance, il disavanzo potrebbe perciò avvicinarsi pericolosamente alla soglia del 5 per cento. Il tutto senza che vengano varati provvedimenti significativi a sostegno dell´economia e delle famiglie colpite dalla crisi. La vera manovra, a quanto pare, consiste nel dare spazio all´economia sommersa.
I controlli sui posti di lavoro sono molto efficaci nel recuperare base imponibile. Mediamente una ispezione su due porta al riscontro di frodi fiscali o contributive. Sempre in media, ciascun controllo compiuto dagli Ispettorati del Lavoro, dall´Inps, dall´Inail e dall´Enpals porta alle casse dello Stato fra tasse, contributi e sanzioni circa 55.000 euro, ben di più del costo unitario delle ispezioni. Questo significa che le ispezioni sono uno strumento molto efficiente nel recuperare base imponibile e che quella del governo è una scelta politica, probabilmente volta ad accontentare alcune fasce del suo elettorato di riferimento. È la stessa scelta, peraltro, resa esplicita nei nuovi orientamenti del Governo riguardo alle politiche di accertamento, che «non devono essere invasive nei confronti delle piccole e medie imprese», come recitano i comunicati dell´Agenzia delle Entrate (vedi Cecilia Guerra e Silvia Giannini su lavoce. info).
È una scelta pericolosa anche perché penalizza le imprese che possono portarci fuori dalla recessione permettendo invece la sopravvivenza di quelle più inefficienti. La distruzione creativa che avviene in ogni recessione avrà così luogo all´inverso: sopravvivenza garantita alle imprese con produttività più bassa, mentre si tartassano le imprese, in regola, quelle che hanno il maggiore potenziale di sviluppo, così come le nuove iniziative imprenditoriali che volessero nascere in chiaro, alla luce del sole.
È una scelta pericolosa perché lascerà a tutti noi un´eredità molto pesante di illegalità diffusa, di stato debole e invadente al tempo stesso. Debole perché non garantisce il rispetto della legalità. Invadente perché sarà la Direzione generale per l´attività ispettiva a programmare dal centro le ispezioni sulla base delle direttive del ministro, come affermato nella direttiva emanata il 18 settembre 2008 dal ministro Sacconi. È un accentramento di poteri senza precedenti.
L´economia sommersa, l´insieme di attività svolte senza pagare tasse e contributi sociali, conta tra un sesto e un quarto del nostro prodotto interno lordo, a seconda della stime. Vi sono delle regioni, come la Calabria, dove secondo l´Agenzia delle Entrate fino al ´94 per cento dell´imponibile Irap veniva nel 2006 sottratto al fisco. È una piaga nazionale, un fardello che pesa sulla parte più avanzata del nostro tessuto produttivo, localizzata soprattutto nel Nord del paese, costringendola a pagare anche le tasse degli altri (potrebbero essere di un quinto più basse se tutti le pagassero). Allontana la soluzione dei problemi dello stesso Mezzogiorno. Perché l´illegalità alimenta altra illegalità ben più grave: è proprio sullo smercio delle produzioni del sommerso economico che spesso vive e vegeta la criminalità organizzata, a partire dal "sistema" camorristico narrato con rara efficacia da Roberto Saviano. Ed è sempre molto forte l´intreccio fra, da una parte, evasione fiscale e contributiva e, dall´altra, quel mancato rispetto degli standard di sicurezza da cui scaturiscono molte morti bianche. Le recessioni offrono un´occasione per contrastare in modo significativo la violazione delle norme sulla sicurezza perché per le imprese è meno costoso mettersi in regola quando le attività sono più contenute e, quindi, la regolarizzazione non comporta costose interruzioni del ciclo produttivo. Ma perché le imprese siano indotte a mettersi in regola ci vogliono più ispezioni, non certo di meno.
Si dirà che reprimendo il sommerso si rischia di creare più disoccupazione in un momento già molto difficile per il nostro mercato del lavoro. Ma la disoccupazione viene creata proprio scaricando il peso della tassazione sulle imprese che operano alla luce del sole. Se il governo ritiene che la pressione fiscale sul lavoro sia insostenibile nell´attuale congiuntura, perché non riduce la tassazione sul lavoro, a beneficio di tutte le imprese in regola e di tutti i loro lavoratori? Perché non intensifica, al contempo, i controlli anziché ridurli, permettendo così di finanziare in parte i costi della riduzione delle imposte? In ogni caso, siamo in democrazia e gli italiani hanno il diritto di essere informati su questa scelta esplicita di politica economica del nostro esecutivo.
«I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria ed iniqua della ricchezza e dei redditi»
J.M. Keynes 1936
Perchè il lavoro vale così poco? La domanda dovrebbe essere centrale per tutti i governi, le istituzioni internazionali, i partiti di ogni schieramento di fronte alla divulgazione quotidiana di licenziamenti, esuberi, tagli, ristrutturazioni, scioperi e proteste. Da quando è scoppiata nel 2007 questa crisi economica mondiale, la prima dell’età globale, indotta da una finanza corrotta e malata, i lavoratori di ogni livello, reddito e professione, sono stati le prime vittime. Si contano a milioni le donne e gli uomini che ad ogni latitudine sono buttati fuori dal ciclo produttivo, hanno perso il posto in ufficio, in fabbrica, a scuola.
Chi paga sono i lavoratori, questo è certo. Magari i repubblicani Usa perdono le elezioni perchè non hanno saputo fronteggiare la recessione, forse il simpatico gangster della finanza Bernard Madoff finirà in galera, ma l’evidenza più drammatica della crisi è la disoccupazione di massa, l’impoverimento dei cittadini, le tensioni sociali che salgono a livello d’allarme in tutto le economie industrializzate.
La centralità smarrita Il lavoro, non solo come fonte di reddito, ma come valore sociale, culturale ha perso importanza, non è più prioritario nemmeno per quelle formazioni politiche che ispirano, o ispiravano, la loro azione alla difesa, all’emancipazione dei lavoratori. Per la prima volta, forse, una gravissima crisi economica vede i partiti della sinistra sulla difensiva, a volte non ci sono nemmeno, o non riescono più a rappresentare gli interessi, le paure, le speranze di milioni di persone.
Davanti alla recessione la sinistra è in difficoltà in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna. In Italia la sinistra più radicale non è nemmeno rappresentata in parlamento, e quella più moderata e per questo si vorrebbe assai “moderna”, che dovrebbe ritrovarsi nel partito democratico, fa fatica a parlare, a farsi vedere, a cogliere la drammaticità del momento. È un paradosso: c’è la crisi mondiale e non c’è più una sinistra, arcaica o innovativa che sia. Si potrebbe oggi immaginare e combattere per un nuovo modello economico, delineare una strada diversa di sviluppo, invece niente. La «centralità del lavoro» di un tempo passato, che significava soprattutto in Italia far pesare anche politicamente l’identità sociale dei più deboli, è stata soppiantata da altri principi e mode di valore assai dubbio.
Eppure la realtà dovrebbe risvegliare sensibilità e anche passioni (se non fosse una parola un po’ troppo forte in questa stagione di anemia politica) per ridare al lavoro l’importanza che merita. Quest’anno nel mondo si perderanno cinquanta milioni di posti di lavoro, secondo l’Ilo, l’agenzia dell’Onu. L’America ha denunciato un taglio di 3,6 milioni di occupati. La Spagna e l’Irlanda sono individuati dagli economisti come i punti più deboli dell’Europa. Zapatero vive la stagione del disincanto dopo gli anni del trionfo e fa i conti con un tasso di disoccupazione superiore al 14%. L’Irlanda, paragonata per anni alle tigri asiatiche per i suoi tassi di sviluppo record, oggi ricorda all’improvviso le immagini della depressione di un secolo fa.
E sono i lavoratori a vivere la contraddizione di un’economia globalizzata che un giorno ti porta soldi e benessere e il giorno dopo licenziamenti e povertà. Un esempio emblematico di questa crisi viene proprio Limerick, distretto industriale iralandese. Quindici anni fa arrivò la multinazionale americana Dell che installò una bella fabbrica per l’assemblaggio di personal computer. Oggi Dell ha deciso di spostarsi in Polonia dove il costo del lavoro è molto inferiore. I sindacati di Limerick hanno scritto una lettera ai colleghi di Solidarnosc: «Tra qualche anno Dell se ne andrà in Ucraina o altrove perchè dirà che il lavoro costa troppo..» hanno denunciato gli irlandesi.
C’è sempre qualcuno che costa meno in questo mondo, dove il lavoro perde valore.
Le dimissioni di Veltroni e le convulse giornate del Pd, o di quel che ne resta, culminate nell’elezione di Franceschini a nuovo segretario, hanno oscurato una vicenda che forse meriterebbe qualche riflessione e spiegazione: quella del nuovo Cda Rai. Non si vede perché il Pd abbia partecipato all’ennesima abbuffata di poltrone in base alla legge Gasparri, anziché restarne fuori e battersi per cambiare la legge e departitizzare la Rai. Ma c’è dell’altro. Il vecchio Cda, nominato nel 2005, era composto da 5 esponenti del centrodestra (Petroni e Urbani di FI, Malgieri di An, Bianchi Clerici della Lega, Staderini dell’ Udc) e 4 del centrosinistra (Petruccioli e Rognoni dei Ds, Rizzo Nervo della Margherita, Curzi del Prc). Quello nuovo ne avrà 5 del centrodestra (Verro e Gorla di FI, anzi di Mediaset, Bianchi Clerici della Lega, Rositani di An, cui presto si aggiungerà il solito Petroni, pure lui di FI, nominato dal Tesoro), 3 del Pd (Rizzo Nervo e Van Straten, scrittore e amico di Veltroni, cui dovrebbe aggiungersi il nuovo presidente: o Petruccioli o Pietro Calabrese) e 1 dell’Udc (De Laurentiis). In apparenza nulla cambia: l’Udc ora sta all’opposizione, o almeno così dice,e il Pd ha deciso di regalarle la quarta poltrona riservata alle minoranze, tagliando fuori l’Idv e la galassia della sinistra (che hanno almeno il doppio dei consensi dell’Udc). Scelta davvero curiosa: i rovesci elettorali del centrosinistra in Abruzzo e in Sardegna che han portato alle dimissioni di Veltroni hanno visto l’Idv e la sinistra alleate col Pd, mentre l’Udc marciava ora sola ora addirittura con la destra. Se, puta caso, l’Udc rientrasse all’Ovile delle Libertà, come chiede l’azionista di maggioranza Totò Cuffaro, il centrodestra si ritroverebbe con 6 consiglieri su 9. Del resto già ora c’è da dubitare che il consigliere Udc Rodolfo De Laurentiis, da anni membro della Vigilanza Rai, si batterà contro l’occupazione berlusconiana della tv pubblica. Finora anzi s’è sempre associato agli anatemi del berlusconismo più oltranzista contro i pochi programmi liberi sopravvissuti. Il 9 marzo 2007, per esempio, De Laurentiis attaccava alzo zero Michele Santoro: “Annozero dimostra che ormai non è rimasto altro mezzo che l'aggressione e l'intolleranza. Calpesta la sensibilità altrui in nome di un'ideologia che vuole accampare diritti a tutti i costi. Il programma a senso unico di Santoro non risparmia nemmeno il credo religioso dei cattolici con continue picconate”. Il 21 maggio 2007 tornava alla carica in una nota congiunta coi pasdaràn berlusconiani Butti e Lainati: “Santoro è in pieno delirio di onnipotenza. Fa finta di non capire e si lancia in invettive giustizialiste contro i vertici dell'azienda”. Se questo è un consigliere d’opposizione, figurarsi quelli di governo.
Con il passare dei giorni si fa più netta la natura del conflitto intorno al tema del testamento biologico, che nella prossima settimana verrà discusso al Senato. Nel fuoco delle polemiche che hanno accompagnato le ultime giornate della vita di Eluana Englaro sembrava che una legge dovesse avere una finalità precisa, quella di risolvere le due questioni che avevano appassionato e diviso l’opinione pubblica: le modalità del testamento biologico, per eliminare ogni dubbio sull’effettiva volontà della persona; e l’ammissibilità della rinuncia all’idratazione e alla alimentazione forzata. Ma il disegno di legge della maggioranza ha reso manifesta un’intenzione diversa, più generale, e tanto più inquietante perché incide profondamente sui diritti fondamentali della persona, e così altera lo stesso quadro costituzionale.
Ciò di cui si discute è il rapporto della persona con il suo corpo, dunque l’area più intima e segreta dell’esistenza, alla quale la politica e la legge dovrebbero accostarsi con rispetto e prudenza, consapevoli che vi sono aspetti della vita che la Costituzione ha messo al riparo da ogni intervento esterno, che ha voluto intoccabili. Negli ultimi anni, invece, in Italia si è venuto consolidando un orientamento diverso, che descriverei ricorrendo al titolo di un libro di Barbara Duden: Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita. Del corpo della donna il legislatore si è pesantemente impadronito con l’autoritaria e proibizionista legge sulla procreazione assistita, negando la libertà femminile e creando davvero quel far west legislativo che si diceva di voler combattere. Oggi, infatti, migliaia di donne emigrano ogni anno in altri paesi per sfuggire agli assurdi divieti di quella legge, obbligate a pesanti costi finanziari e umani, mettendo pure a rischio la salute loro e dei figli che nasceranno.
Ora si vuole far diventare "pubblico" il corpo di tutti noi. Il rifiuto di cure, diritto ovunque riconosciuto e caposaldo della stessa soggettività morale, viene sostanzialmente negato dalla proposta della maggioranza. La sorte del corpo nel tempo del morire è sottratta alla libera decisione dell’interessato, viene affidata ad un medico investito del ruolo di funzionario di uno Stato etico che, appunto, ha proceduto alla "pubblicizzazione" del corpo.
Il testamento biologico diviene un simulacro vuoto, una formula che contiene il suo opposto. Si obbligano le persone ad un infinito iter burocratico, con obblighi continui di recarsi dal notaio, di chiedere firme del medico, di effettuare rinnovi periodici. Tutto questo per approdare al nulla. Il delirio formalistico non produce una volontà da rispettare, ma un "orientamento" che il medico può ignorare del tutto. E non solo viene esclusa la possibilità di rinunciare a trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione forzata. Si finisce con il sottrarre alla libera scelta delle persone materie nelle quali il rifiuto è stato finora riconosciuto, dalla trasfusione di sangue alla dialisi, all’amputazione di un arto, al ricorso a tecniche meccaniche e farmacologiche.
Non è di una vicenda specifica, sia pur rilevantissima, di cui dobbiamo preoccuparci. Siamo di fronte ad una ideologia riduzionista del senso e della portata dei diritti fondamentali, che vuole impadronirsi dell’intera vita delle persone. Del nascere si è già impadronita, ora vuole farlo per il morire, e pone pesanti ipoteche sul vivere, come accade quando si rifiuta ogni riconoscimento alle unioni di fatto.
Mettendo così le mani sulla vita delle persone, si mettono pure le mani sulla prima parte della Costituzione che, a parole, si continua a proclamare intoccabile. Si manipolano principi fondativi del nostro sistema, che la Corte costituzionale ha dichiarato immodificabili. E tutto questo avviene mentre tutte le rilevazioni ci dicono che la maggioranza dei cittadini interpellati ritiene che proprio le decisioni sulla vita debbano rimanere patrimonio dell’interessato e della sua famiglia. Si apre così non solo una questione di rispetto della Costituzione, ma di rappresentanza politica. Molti, sempre di più e più spesso, si riuniscono, scendono in piazza. In quali luoghi della politica ufficiale arriverà questa voce?
Vale la pena osservare il naufragio dell’opposizione italiana con l’aiuto d’un terzo occhio, più ingenuo forse ma più vero: l’occhio che ci guarda da fuori. Perché il nostro sguardo s’è come consumato col tempo, se ne sta appeso alla noia, è al tempo stesso astioso e non severo, collerico e passivo. Non credendo possibile cambiare la cultura italiana dell’illegalità, siamo da essa cambiati. Se qualcuno riscrivesse le Lettere Persiane di Montesquieu, racconterebbe il nostro presente come i due principi Usbek e Rica videro, nel 1700, la Francia di Luigi XIV: con stupore, senso del ridicolo, e realismo. È quello che i giornali stranieri hanno fatto negli ultimi giorni: dal New York Times alla Süddeutsche Zeitung, da Le Monde al Guardian o El País. Tutti si son domandati, candidamente, come mai tanto clamore sul caos nel Pd e quasi nulla sull’evento per loro sostanziale: la condanna di Mills. Come mai Veltroni addirittura si scusava, mentre il capo del governo protetto da una legge che lo immunizza avallava il più singolare dei paradossi (il corrotto c’è, ma non il corruttore).
Chi fuori Italia si interroga ha poco a vedere con la sinistra salottiera o giustizialista criticata da Veltroni. Naturalmente c’è caos, nel partito nato dalle primarie del 2007. Ma soprattutto c’è incapacità di fare opposizione, di dire quel che si pensa su laicità, testamento biologico, sicurezza, immigrazione, giustizia, per non urtare gli apparati che compongono il nuovo-non nuovo ancor ieri esaltato all’assemblea che ha eletto Franceschini segretario provvisorio. Il partito democratico non è nato mai, e oggi è chiaro che alle primarie 3 milioni di italiani hanno eletto il leader di un partito senza statuto, senza iscritti, in nome del quale si è distrutto il governo Prodi per poi lasciare l’elettore solo. Arturo Parisi lo spiega bene a Fabio Martini: "Quando un partito si costituisce come somma di apparati, assumendo come premessa la continuità di una storia e di un gruppo dirigente, ogni scelta rischia di essere o apparire come l’imposizione di una componente sull’altra e quindi di mettere a rischio la sopravvivenza del partito". Solo un "partito nuovo, fatto di persone che decidono ex novo, democraticamente" può riuscire (La Stampa, 18-2). Solo un’analisi spietata di errori passati: i siluramenti di Prodi, la fretta di presentarsi da soli, le intese con Berlusconi quando questi parve finito nell’autunno 2007.
Veltroni ha giustamente difeso, mercoledì, il "tempo lungo, quello in cui si misura il progetto (...) che deve convincere milioni di esseri umani". Ma lui per primo ha tolto tempo al tempo, ha avuto fretta d’arrivare, di esserci. Non è un errore di anziani ma di cacicchi, che della politica hanno una visione patrimoniale. L’Ulivo cancella i cacicchi: è stato quindi seppellito. I cacicchi vogliono il potere, senza dire per quale politica: lo vogliono dunque nichilisticamente, al pari delle destre. Come scrive Gustavo Zagrebelsky: lo vogliono "come fine, puro potere per il potere" (la Repubblica 9-2). Per questo il Pd non ha un leader, che rappresenti l’opposizione nella società e sia sovrano sulle tribù. Anche qui Parisi ha ragione: non di facce nuove e giovani c’è bisogno (ci sono giovani vecchissimi), perché "in politica le generazioni che contano sono le generazioni politiche". Si capisce bene lo scoramento di Veltroni: le correnti del Pd e Di Pietro lo hanno logorato. Ma non l’avrebbero logorato se il suo sguardo si fosse interamente fissato sul fine, che non era il potere partitico ma la risposta a Berlusconi. Se Di Pietro non fosse stato bollato, ogni volta che parlava, di giustizialismo.
Naufragi analoghi si son già visti in Europa, conviene ricordarli. Il socialismo francese, prima di Mitterrand, era assai simile. La Sfio (Sezione francese dell’internazionale operaia) fu per decenni un’accozzaglia di partitelli incapaci d’opporsi a De Gaulle. Oscillavano fra il centro e il marxismo, un giorno erano colonialisti l’altro no, volevano e non volevano ampie coalizioni. Erano perpetuamente in attesa, assorti nel rinvio della scelta: proprio come ieri all’assemblea Pd, che ha rinviato primarie e nomina d’un vero leader ("Perché Bersani non si candida segretario oggi, e invece rinvia?", ha chiesto Gad Lerner). Sempre c’era un segretario a termine, guatato da falsi amici. La parabola fu tragica: nel ’45 avevano il 24 per cento dei voti, nel ’69 quando Defferre sindaco di Marsiglia si candidò alle presidenziali precipitarono al 5.
È a quel punto che apparve Mitterrand: non mettendosi alla testa d’un partito ormai cadavere, ma creando una vasta Federazione a partire dalla quale s’impossessò della Sfio e di tutti i frammenti e club. Anche la Sfio era un accumulo di clan in lotta. Mitterrand guardò alto e oltre: l’avversario non era questo o quel clan, ma De Gaulle e poi Pompidou. In una decina d’anni costruì un Partito socialista, lo rese più forte del Pc, portò l’insieme della sinistra al potere.
Prodi ha fatto una cosa simile, battendo Berlusconi due volte. Anch’egli edificò inizialmente una federazione (Ulivo, Unione): è stata l’unica strategia di sinistra che ha vinto. Mentre non è risultata vincente né coraggiosa l’iniziativa veltroniana di correre da solo, liberandosi dell’Unione. A volte accade che si frantumi un’unione per riprodurne una ancor più frantumata. Veltroni osserva correttamente che "Berlusconi ha vinto una battaglia di "egemonia" nella società. L’ha vinta perché ha avuto gli strumenti e la possibilità di cambiare dal mio punto di vista di stravolgere il sistema dei valori e persino le tradizioni migliori" in Italia. Ma che vuol dire "avere strumenti"? Berlusconi ha le tv ma Soru ha ragione quando dice che su Internet la sinistra "ha già vinto, anzi stravinto". Quel che occorre è "lavorare in profondità sulla cultura degli ignoranti, sulle coscienze dei qualunquisti e battere l’incultura del nichilismo aprendo dappertutto sezioni di partito e perfino case del popolo". Berlusconi da tempo inventa realtà televisive, ma è anche sul territorio che lavora.
Per questo è così importante il terzo sguardo. Perché da fuori si vedono cose su cui il nostro occhio ormai scivola: l’illegalità, il fastidio di Berlusconi per ogni potere che freni il suo potere, il diritto offeso degli immigrati, la fine del monopolio statale sulla sicurezza con l’introduzione delle ronde. Perché fuori casa fanno impressione più che da noi certi tristi scherzetti: sui campi di concentramento, su Obama, sulle belle ragazze stuprate, sulla gravidanza di Eluana, su Englaro che "per comodità" si disfa della figlia, sui voli della morte in Argentina: voli concepiti dall’ammiraglio argentino Massera, membro con Berlusconi della P2 di Gelli.
Veltroni ha lasciato senza rappresentanza molti italiani d’opposizione, e il suo monito non è generoso ("Non venga mai in nessun momento la tentazione di pensare che esista uno ieri migliore dell’oggi"). Per chi si sente abbandonato c’è stato uno ieri migliore, e la sensazione è che da lì urga ripartire: dalle cadute di Prodi, inspiegate.
Come nell’Angelo Sterminatore di Buñuel, è l’errore inaugurale che va rammemorato. In un aristocratico salotto messicano, a Via della Provvidenza, un gruppo di smagati signori non è più capace, d’un tratto, d’uscire dal palazzo. È paralizzato dal sortilegio della non volontà, o meglio della non-volizione. Sfugge alla prigione volontaria quando ripensa al modo in cui, giorni prima, si dispose nel salotto. È vero, appena scampato s’accorge che liberazione non è libertà: anche il vasto mondo è una gabbia, tutti come pecore affluiscono in una Cattedrale oscura. Ma almeno i naufraghi hanno sentito una brezza, e in quella Cattedrale potrebbero anche non entrare, e fuori dal Palazzo il mondo è un poco più vasto.
Un militare per ogni bella donna, aveva detto qualche settimana fa Silvio Berlusconi mettendo in barzelletta la violenza sessuale con lo stesso spirito lieve con cui è solito trattare di Auschwitz o dei desaparecidos. Detto fatto, un decreto legge e avremo non un militare ma una pattuglia di ex militari, ex guardie, ex qualcosa in pensione, arruolati dai prefetti in funzione di angeli custodi delle (belle) donne. City Angels, nell'inglese dei serial polizieschi. In italiano, ronde. Nipotini delle camicie nere, nel lessico sbrigativo che circola nelWeb.
Gli angeli custodi non saranno armati e non saranno volontari, anzi dovranno a loro volta passare qualche test ed essere schedati, tanto per prendere con una sola fava due piccioni sulla strada della società della sorveglianza. Che cosa faranno sul piano pratico ci verrà svelato da un altro decreto, di Maroni, a breve. Che cosa faranno sul piano simbolico invece è già chiarissimo. Primo, servono a dare un ennesimo colpo allo stato di diritto, cooptando un pezzo di società civile nelle funzioni statali di sorveglianza e repressione e dividendo la cittadinanza in controllori e controllati. Secondo, servono a nutrire l'immaginario collettivo, maschile e femminile, con una bella iniezione di rassicurazione. Non temete, donne, i vostri uomini vi proteggeranno. Non temete, uomini, siamo ancora in grado di proteggere le nostre donne.
Da chi? Dallo stupro migrante, s'intende. Se ci fossero dubbi, la costruzione del decreto legge di ieri parla da sé. Si chiama decreto antistupro, e mette in fila misure emergenziali contro la violenza sessuale, misure emergenziali contro gli immigrati, misure emergenziali a favore delle ronde. Una sequenza che è una filosofia: gli altri stuprano le nostre donne, noi le proteggiamo con i nostri uomini. In inglese non sapremmo. In italiano, paternalismo autoritario.
Lo stesso, né più né meno, che Berlusconi ha tirato fuori sul corpo inerme di Eluana Englaro, sostituendosi a spintoni al padre impotente per presentarsi come padre onnipotente, «io salverò questa vita per decreto». Non era vero, ovviamente, come non è vero che gli angeli custodi ci salveranno dagli stupri. Ed era improprio allora l'uso della decretazione d'urgenza contro un atto legittimato da alcune sentenze, com'è impropria oggi la decretazione d'emergenza contro un reato, lo stupro, che è - purtroppo - tra i meno emergenziali e i più banalmente normali.
Si dice spesso - è stato detto e ridetto, da destra, per legittimare le guerre «contro il patriarcato islamico» - che il livello di una civiltà si misura col termometro dei rapporti fra i sessi. Se questo è vero, la civiltà del nostro paese è scesa a un livello alquanto basso. Con l'assenso, va da sé, della ministra alle pari opportunità e di quante come lei penseranno che sì, finalmente un governo «che decide» sulla violenza sessuale. Finalmente un uomo forte che ci manda gli angeli custodi.
Ci servono armi nuove per contrastare un delitto antico che si presenta in forme nuove. Ci serve sapere che cosa autorizzi e legittimi, nella mente maschile «straniera» e «nazionale», una pulsione di asservimento, distruzione e revanche che si scarica nella violenza sessuale. Quale cultura nazional- popolare trasmessa ogni sera in tv, e quali attriti culturali transnazionali acuiti da fili spinati, centri di permanenza e barriere simboliche. Quale mito dell'uomo forte, nel ruolo dello stupratore e in quello dell'angelo, in combutta con quale mito della donna a corrente alternata, velina oggi vittima domani. Il resto è propaganda. Per decreto.
NAPOLI — Un Vajont di percolato: così Sergio Asprone, uno degli indagati nell'inchiesta «Rompiballe», descriveva nel 2007 la discarica di Villaricca, dove in alcuni punti la melma velenosa rischiava di colare giù da un momento all'altro. Giovanni Parascandola Ladonea, appuntato dei carabinieri particolarmente inviso a Marta Di Gennaro e Guido Bertolaso, aveva fotografato la massa liquida prossima a venire giù e inviava al commissariato di governo continue relazioni di servizio in cui segnalava il pericolo; per questo motivo lo staff di Bertolaso lo considerava un impiccione da punire.
Eccole, le fotografie scattate da Parascandola: potrebbero essere presto allegate allo stralcio dell'inchiesta al quale sta lavorando il pm Maurizio De Marco, che, assieme al procuratore, dovrà decidere se chiedere l'archiviazione o il rinvio a giudizio per Bertolaso, Pansa, Catenacci e altre quattro persone. Le fotografie sono state scattate nel giugno del 2007; l'appuntato, lo ricordiamo, faceva le ispezioni a Villaricca quando era libero dal servizio e con mezzi propri. In una delle immagini si vede con chiarezza come la poltiglia marrone (otto o novemila metri cubi di percolato) sia arrivata ormai a 30 centimetri dal bordo della discarica. In un'altra appare un imponente spruzzo di percolato, quasi un malefico geyser: quando il biogas presente nella discarica preme, il percolato schizza in alto. In altre ancora si notano rifiuti che affiorano nel magma.
Quelle foto, così come le relazioni di servizio dell'appuntato, infastidivano moltissimo Bertolaso, la sua vice e il loro factotum, il maresciallo Rocco De Frenza; gli ultimi due sono stati rinviati a giudizio il 29 gennaio scorso assieme agli altri 23 coimputati. «Guido ha smesso di autor izzare le missioni dei carabinieri— diceva la Di Gennaro in una telefonata —. Hanno continuato ad arrivare questi appunti su sopralluoghi fatti, alcuni dei quali esordivano dicendo "Questo sopralluogo viene fatto in periodo di ferie dal sottoscritto con mezzi propri". Io non ho voluto più avere a che fare con i carabinieri da quando Guido mi ha detto: "Ferma, questi devono cambiare"... La richiesta di questo Masi (un capitano del Noe delegato dai pm Noviello e Sirleo ad acquisire le relazioni di servizio di Parascandola, ndr): che cosa vuole, vuole quei pezzacci di carta che ti vedi lì. Che dobbiamo fare? Forse li dobbiamo dare, ma così li suffraghiamo... Questi hanno continuato a fare quello che facevano... quella era la ragione per cui ce li volevamo togliere di mezzo!».
Il maresciallo De Frenza, parlando al telefono con Michele Greco, dopo averlo invitato a strappare le relazioni di servizio di Parascandola, diceva: «Adesso te lo cerco e te lo blocco in qualche modo, sennò gli faccio una pratica disciplinare». Giovanni Parascandola, che negli anni Novanta era stato investigatore in Sicilia e aveva fatto parte della squadra del «capitano Ultimo», arrivò al commissariato proprio per decisione di Sergio Di Caprio, oggi colonnello e vicecomandante del Noe. Dopo l'esperienza al commissariato di governo fa ora il piantone nella sede della Regione Carabinieri Campania, in via Salvatore Tommasi. Il suo diretto superiore al commissariato, il tenente Luigi Paolo De Ciutiis, ex maresciallo e anche lui ex collaboratore di «Ultimo», è stato invece trasferito da alcuni mesi dal Noe di Torino all'ufficio Motorizzazione della Regione Carabinieri Piemonte. Nessuno dei due, dunque, ha al momento un incarico operativo. Ieri, intanto, nuovo rinvio per il processo Bassolino, che si sta svolgendo nell'aula bunker di Poggioreale.
L'avvocato Alfonso Maria Stile, che assiste il gruppo Impregilo, doveva recarsi in Cassazione: la Corte avrebbe dovuto pronunziarsi sul ricorso dei pm Noviello e Sirleo contro il dissequestro dei 750 milioni di euro a Impregilo disposto dal Riesame. Ma anche in questo caso c'è stato un rinvio: si va al 16 aprile per un difetto di notifica. Si allungano ulteriormente, dunque, i tempi della decisione: il ricorso dei pubblici ministeri è stato depositato in agosto. Per i giudici del Riesame, i pm non avrebbero distinto le attività lecite da quelle illecite di Impregilo, rendendo impossibile individuare i proventi della presunta truffa. Durissima la replica della Procura, che nel ricorso in Cassazione ha criticato la motivazione racchiusa in tre sole righe a fronte di 57 faldoni processuali: il collegio, ritengono i pm, non ha neppure letto gli atti.