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Un mondo vastissimo, compresi molti cattolici, è rimasto sbalordito di fronte ad alcune affermazioni del Papa, governo e istituzioni internazionali hanno protestato e i vescovi italiani, invece di interrogarsi seriamente e criticamente su una vicenda così grave, la trasformano in un pretesto per lanciare un proclama intimidatorio, un vero e proprio diktat al quale Parlamento e politica italiana dovrebbero inchinarsi. Non è nuova l’arroganza di una politica vaticana che, debole nel mondo, cerca occasioni di rivincita nel giardino di casa, in questa povera Italia che, presentata come il luogo dal quale doveva partire la riconquista cattolica del mondo, appare sempre di più come un fortilizio dove una gerarchia disorientata cerca di rassicurare se stessa alzando la voce. Con parole forti si vuole imporre l’approvazione di una legge sul testamento biologico sgangherata e incostituzionale, lesiva dei diritti delle persone.

Si urla contro una deriva verso l’eutanasia mentre il Senato sta discutendo un disegno di legge lontanissimo dall’apertura che, su questo tema, hanno mostrato le conferenze episcopali di Germania e Spagna.

Siamo di fronte ad una prova di forza, alla volontà vaticana di sottomettere il Parlamento. Sono in gioco proprio la sovranità parlamentare e, con essa, l’autonomia dello Stato. Una inerzia colpevole, una pavidità delle istituzioni lascerebbero oggi un segno profondo sulla stessa democrazia. E un intervento così diretto può addirittura far venire il sospetto che si voglia incidere sulle dinamiche interne del nascente Pdl, chiudendo ogni spiraglio di laicità e autonomia

I governi di Francia e Germania, l’Unione europea, il Fondo monetario internazionale avevano criticato le parole del Papa sull’uso del preservativo, con una presa di distanza che metteva in discussione il ruolo internazionale della Chiesa. Il governo tedesco è guidato da una donna cattolica, Benedetto XVI aveva compiuto un viaggio in Francia accompagnato da parole impegnative del presidente Sarkozy sulla necessità di passare ad una laicità "positiva", parole che lo stesso presidente aveva già pronunciato in occasione della sua visita ufficiale a Roma. Assume grande significato, allora, la decisione di governi "amici" di non riconoscersi nelle posizioni della Chiesa. A ciò dev’essere aggiunta la decisione di Obama di firmare la dichiarazione sui diritti degli omosessuali, proposta all’Onu proprio dalla Francia e che aveva suscitato una durissima reazione del Vaticano. Viene così respinta la pretesa vaticana di dettare al mondo la linea etica su grandi temi della vita, ed emerge un isolamento che non è solo diplomatico, ma rivela una perdita di egemonia culturale.

Ora il tema del conflitto è costituito dalla legge sul testamento biologico. Tardivamente ci si è accorti di quanto fosse saggia la richiesta di moratoria, di un tempo di riflessione che allontanasse emozioni e strumentalizzazioni nell’affrontare un tema che riguarda la libertà stessa delle persone. Forse anche i cento "ribelli" del Pdl che hanno firmato contro i medici-spia dovrebbero rendersi conto che quella legge è anch’essa profondamente negatrice di diritti e che è necessaria una riflessione più profonda sui rischi di un uso sbrigativo e autoritario dello strumento giuridico. Riflessione, peraltro, che dovrebbe essere estesa ad altre materie, anch’esse affrontate finora in modo sbrigativo. Non ci si è accorti dei rischi dello stillicidio di norme che riducono la tutela della privacy, della pericolosità di proposte che vogliono introdurre controlli e censure per Internet, della disinvoltura con la quale sono state approvate in prima lettura le norme sulla banca del Dna. Se la nuova sensibilità per la dimensione dei diritti non è solo una fiammata, di tutto questo è bene che si cominci a discutere seriamente e fino in fondo.

Moratoria o non moratoria, è indispensabile ribadire in ogni momento che il testo della maggioranza sul testamento biologico è un ammasso di incostituzionalità, di regressioni normative, di piccoli deliri burocratici e linguistici, di procedure che produrranno nuove contraddizioni e nuove angosce. Non vi sono astuzie parlamentari che possano redimere quel testo dai suoi peccati. Ricordiamo che appena ieri, a fine dicembre dunque già nel fuoco della polemica sul caso Englaro, la sentenza 438 della Corte costituzionale ha riconosciuto che l’autodeterminazione costituisce un "diritto fondamentale" della persona. Come si concilia con questo diritto la pratica cancellazione del consenso informato, la sua degradazione da manifestazione di volontà a semplice "orientamento", come fa il testo di maggioranza? Come non vedere che, dietro una versione assai fumosa della formula dell’"alleanza terapeutica" tra medico e paziente, il potere sul morire viene consegnato ai medici, facendo enormemente e impropriamente crescere la loro responsabilità? Come non vedere che il rifiuto da parte del medico di dare attuazione alle direttive anticipate creerà nuovi drammi, nuove rappresentazioni pubbliche del dolore e ricorsi che trasferiranno al giudice la decisione finale sul morire, cioè esattamente quello su cui si è tanto polemizzato?

Sono interrogativi provocati da pervicacia politica e incultura, dal fatto che la dimensione costituzionale non appartiene a questo governo e questa maggioranza, che vogliono cogliere ogni occasione per cercar di liberarsene. Proprio per questo si cerca di costruire una Costituzione abusiva, dove la possibilità di imporre per legge trattamenti obbligatori è svincolata dall’unica sua premessa costituzionalmente corretta, il rischio per la salute pubblica, come hanno sempre messo in evidenza gli studiosi (venerata ombra di Costantino Mortati, grande costituente cattolico, manifestati!); dove si propongono indecorosi pasticci tra rifiuto delle cure e vendita di organi; dove il rispetto della dignità è convertito in strumento per imporre una misura della dignità in conflitto con la libertà di scelta della persona.

Una vigile attenzione per i diritti dovrebbe segnare la discussione politica, il primo passo dovrebbe essere appunto il ritorno pieno nella dimensione costituzionale. E, insieme ad esso, i legislatori dovrebbero interrogarsi sui limiti della legge, su quanto si addica alla vita "l’ipotesi del non diritto", che attribuisce alla norma giuridica non un illimitato potere di ingerenza, ma la funzione di costruire le condizioni necessarie perché ciascuno possa decidere liberamente.

La notizia, se confermata, è di quelle che fanno arrossire di vergogna. Dopo aver attaccato il diritto di sciopero e intaccato lo strumento contrattuale in materia di lavoro (cioè fondamentali diritti e strumenti collettivi), il governo si preparerebbe a dirigere la propria azione restauratrice sul terreno stesso della tutela di quel bene essenziale che è la vita - la sicurezza, la salute, l'integrità fisica - dei lavoratori. Le anticipazioni sul progetto di «riscrittura» del Testo unico in materia di sicurezza e salute sul lavoro in discussione nel prossimo consiglio dei ministri sono molto inquietanti. Dimezzate le sanzioni pecuniarie nei confronti dei datori di lavoro colpevoli di gravi inadempienze nelle misure di sicurezza (ridotte dagli originari 5-15.000 euro a 2.500/6.500). Abolito l'obbligo di arresto anche nei casi più gravi e per quanto riguarda aziende ad alto rischio industriale, e sua possibile sostituzione con una multa. Cancellato il riferimento alla «reiterazione». Attenuato il controllo pubblico sul rispetto delle norme a favore di «enti bilaterali» (organi concordati tra le parti sociali, consulenti del lavoro, università...).

C'è da augurarsi, con tutto il cuore, che le anticipazioni vengano smentite dai fatti (il ministero continua a ripetere che «un testo definitivo non c'è»). Perché se, invece, fossero confermate, si tratterebbe di un fatto gravissimo. Di un rovesciamento radicale di quella «filosofia» in materia di tutela della vita e dell'integrità fisica dei lavoratori, che sembrava essersi fatta faticosamente strada dopo l'orrore della Thyssen Krupp, e le sconvolgenti cifre sulla strage quotidiana nella fabbriche e nei cantieri. Si affermerebbe l'idea, purtroppo non isolata di questi tempi, che, nel peggiorare quotidiano della crisi economica, la vita degli uomini al lavoro, il loro corpo, la loro salute, può essere sacrificato come nell'imminenza dei naufragi si getta a mare la zavorra. E che il tema, tanto sbandierato, della «sicurezza» si arresta al confine della fabbrica e del cantiere. Riguarda il «cittadino» - soprattutto se può essere contrapposto allo «straniero» - ma non il «lavoratore», per cui vale lo statuto dell'apolide da quando ha perduto rappresentanza e potere contrattuale.

Ancora una volta, come nei drammatici anni Trenta, l'Italia sembra tentata dal seguire la strada perversa che sedusse, allora, la parte peggiore dell'Europa: quella che scelse la compressione verso il «basso», la liquidazione delle organizzazioni autonome del movimento operaio, le peggiori forme di corporativismo e la liquidazione dei diritti politici e sociali, mentre l'America di Roosevelt scopriva all'opposto il ruolo virtuoso del conflitto sociale e della libera dinamica salariale. Lo fa (lo minaccia) in un silenzio preoccupante, nella politica e nell'informazione. Solo la Cgil, pagando un duro prezzo, sembra aver compreso la portata della partita, e avvertire la gravità dello scontro. Non lasciamola sola.

San Piero a Sieve.- Non servono sismografi per capire dove passa il tunnel dalla Tav tra Bologna e Firenze. Basta seguire una traccia di foreste rinsecchite, alvei vuoti, macerie. Persino i cinghiali rifiutano di vivere lassù. Sopra la "grande opera" esiste una scia di "grandi disastri" che la segnala fedelmente.

L´abbiamo percorsa, verso Nord, e per capire ci è bastata la parte toscana. Il Mugello, snodo cruciale dello scavalco appenninico. I danni li hanno appena quantificati i giudici: 150 milioni di euro solo per lo smaltimento abusivo dei terreni di scavo. Poi vengono i cantieri abbandonati, le cave e le frane. Il peggio è il sistema idrico distrutto: per ripagarlo non basterebbe una mezza finanziaria. Fra 750 milioni e un miliardo 200 milioni, per ventidue minuti di viaggio in meno. Spariti o quasi 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi, 5 acquedotti: in tutto 100 chilometri di corsi d´acqua.

Ma le cifre non sono niente. Per farsi un´idea bisogna sentire il tanfo polveroso della montagna morta. Rifare i sentieri della Linea Gotica, tra i rovi, come in guerra. Solo che stavolta i danni non li hanno fatti i generali ma gli ingegneri, che possono essere peggio. Le ferite delle bombe si rimarginano. Queste restano per sempre. Siete avvertiti: non siamo di fronte a un evento naturale, ma a qualcosa di biblico. Tace la valle del torrente Carzola. Niente più uccelli. La falda è precipitata di trecento metri e la montagna è sotto choc idrico. Ha piovuto tutto l´inverno, ma le conifere sono morte, le querce moribonde. C´erano salmoni, trote, gamberi: ora più nulla. Un catastrofe come il Vajont, ma alla rovescia.

Polvere, silenzio. Nel canyon si spalanca una finestra di servizio. È sguarnita, potrebbero entrarci uomini e bestie. Cento metri sotto, il tunnel che ha inghiottito tutto. I tecnici ricordano quando avvenne. Esplose un getto da 400 litri al secondo a tredici atmosfere. Da allora, anche se in superficie la valle scende a Nord, le falde scaricano a Sud, verso Firenze. E del Mugello a secco chi se ne frega.

Paolo Chiarini, 30 anni, ingegnere ambientale, è cresciuto sui fiumi e, quando il Carza sparì di colpo un giorno di febbraio di 11 anni fa, fu il primo ad accorgersene. Corse in Comune ad avvertire, ma gli risposero giulivi: «Per forza, non è nevicato». Capì subito che l´unica acqua che interessava gli italiani era quella del rubinetto, e fece l´unica scelta possibile: combattere da solo. Da allora Paolo ha battuto ogni rigagnolo e raccolto dati. Oggi ci fa da guida su questa strada partigiana. A Campomigliaio c´era la piscina naturale dei fiorentini. Poi è arrivata la talpa maledetta che ha "impattato" la falda e oggi sul greto resta solo un ridicolo cartello "Divieto pesca" e, a monte, uno scolo fognario a secco.

Il Carlone era il paradiso dei pescatori. Oggi è ingombro di bungalow dai vetri rotti, rottami, tubi, cisterne, caterpillar arrugginiti. Su un muro, la scritta "Ciao, è stato bello". Sotto, un torrente in agonia. Ma a monte è peggio. Una strada bianca in mezzo a una foresta sbiadita, fiancheggiata dai tubi che fino a ieri hanno pompato acqua per tenere in vita il torrente. Una finzione. Sopra, una montagna di rocce intrise di asfalto collante, oli e bitumi. Quando piove, la morchia scola sulla vasca di captazione del comune di Vaglia, che raccoglie la poca acqua. Purissima, era, da imbottigliare senza filtro. Tutto quel materiale poteva essere reimpiegato nel tunnel, come in Svizzera nella galleria del Gottardo. Qui invece s´è portato tutto in superficie. E nel buco hanno portato ghiaia fresca, aprendo decine di cave inutili sul monte. Ecco perché la Tav è costata il quintuplo del previsto.

A San Piero a Sieve la ferrovia veloce esce a palla di fucile e s´infila sotto l´autodromo del Mugello. Siamo nel cuore della conca, l´Appennino perde asprezza, l´orrore diventa bucolico. Tra le fattorie il torrente Bagnone è scomparso. Poco in là, anche il Bosso. Nove anni fa le sorgenti saltarono tutte assieme, ricorda l´avvocato Marco Rossi che segue le cause civili. «Quando sparì il torrente la gente pensò che sarebbe tornato. Invece non tornò. Finita. Arrivarono le autobotti. Poi il disseccamento salì fino a Farfereto e Striano».

A Sergio Pietracito hanno fatto di tutto. Gli hanno tolto l´acqua per gli animali, fatto franare il bosco, aperto crepe in casa, semidistrutto i frutteti con le polveri, terremotato il sonno con esplosioni, ventole al massimo, bip di cicalini, fischio di allarmi, rombo di tir in retromarcia. Poi, a cantiere chiuso, gli hanno ripristinato i terreni con zolle miste a cemento, plastica e ferri arrugginiti. Pietracito ha speso 30 mila euro in avvocati, senza aiuto degli enti locali. L´italiano è solo davanti al potente. Lui non molla, ma molti altri sono stanchi. Sanno che, più dei danni, sono i processi a mangiarti la vita. Finisce che sei tu a dover pagare. La politica cala le brache: è già tanto se i sindaci sono riusciti a farsi dare il tracciato della galleria.

Risaliamo verso il Giogo della Scarperia. Ormai è un "trek" nella devastazione. Conifere moribonde, castagni in sofferenza. Fra un mese gli animali scapperanno anche da qui. A Lugo hanno visto «i caprioli scendere a valle per bere dai sottovasi dei giardini». Non era mai successo prima del 2006, quando la Tav ha smesso di pompare acqua "finta" in quota. Dopo il crinale, il versante del Santerno ci sbatte davanti l´ultimo sacrilegio. Sul lato della Sieve avevamo censito pozzi defunti col nome di santi e beati. Qui, nell´abbazia di Moscheta, succede di peggio. Hanno rubato l´acqua santa. La pieve, per riempire il suo secolare abbeveratoio rimasto a secco, deve farsi sparare acqua da Fiorenzuola. Sempre per quei maledetti ventidue minuti.

Oltre si spalanca un abisso dantesco, il canyon chiamato Inferno. Era il top del Mugello, segnato su tutte le guide. Trote, gamberi, muschi. Sopra, il sentiero dove un tempo Dino Campana andava a Firenze incontrando bande di musicanti e pescatori di fiume. Oggi si cammina a secco tra massi enormi e smerigliati, segno della sacra potenza uccisa dall´uomo. Chi pagherà tutto questo? Quale nazione chiederà il conto?

Il fiume infernale si butta nel Santerno, dove s´apre il cratere della colossale stazione intermedia della Tav. Intorno, la devastazione. Novanta cave. Novanta cicatrici. Ed è solo il preludio dell´ultima è più spaventosa ferita. La più lontana, la meno visibile. La condanna, esecuzione e morte del torrente Diaterna, con la doppia sorgente biforcuta sotto il Sasso di San Zanobi.

Ora si procede solo a piedi, tra ghiaie terribili, guadi algerini, qui nell´Italia di mezzo a fine inverno. Tre anni fa Chiarini vide e fotografò vasche piene di pesci putrefatti. Da allora è morte biologica. Querce cadute, polvere, vento, lucertole. Sotto, la galleria spara la sua traiettoria in un fondale umido carico di bitumi. Qui sopra, il biancore abbacinante di un greto. La frazione di Castelvecchio - sopra l´ultima finestra della Tav in terra Toscana - ha perso il suo acquedotto nel ´98. Ora vorrebbero costruire un invaso per compensare lo scippo. Ma per metterci quale acqua? Con quale canalizzazione? Cementificando gli impluvi? Ricoprendoli di resine? Coprendo lo scempio con uno scempio ulteriore? La parola catastrofe non basta.

Il viaggio è finito. «Cosa ci riserva il futuro Dio solo sa» brontola Piera Ballabio, della Comunità montana del Mugello. «Con la nuova legge sulle grandi opere, i Comuni avranno ancora meno voce in capitolo. Siamo vicini a una militarizzazione del territorio. Alla faccia del federalismo».

Il futuro di Venezia e Mestre passa attraverso un nuovo porto a Malamocco, la sublagunare fino al Lido, quartieri residenziali lungo l’area vincolata della gronda lagunare, meno aree pedonali e piste ciclabili, strade più larghe e scorrevoli per stimolare il commercio in città? Il Pdl è convinto di sì, che il «fare» sia meglio del «vincolare», facendone le basi della bozza di programma elettorale, firmata da un redivivo (politicamente) Umberto Carraro, già presidente Psi del Consiglio regionale. E le reazioni arrivano a stretto giro di posta.

«Certamente non è giusto ingessare il territorio, ma la nostra maggiore risorsa in Italia è proprio un territorio ancora unico, nonostante capannoni e cemento: ogni intervento richiede raffinatezza, qualità degli insediamenti, non si può certo agire regalando a tutti il 20-30% di cubatura in più», commenta Sergio Pascolo, docente IuaV di Composizione architettonica, «gli amministratori devono ricercare equilibrio, non “ammazzare” la Venezia insulare ed “ingigantire” oltremisura Mestre, si deve stare attenti a non agire in maniera deregolata, ma operare con strategia. Il nostro waterfront è unico, è la nostra risorsa: la laguna è una perla che non si può mangiucchiare un po’. Interventi si possono, si devono fare, ma puntuali: “testate” che leghino questa meravigliosa città anfibia, senza occupare ogni spazio. Non si tratta di fare tutela congelata, ma richiamare insediamenti abitativi a Venezia, perché qui ha colpito l’esodo, e turismo ecologico».

Duro il giudizio dell’urbanista Eddy Salzano. «Costruire sul waterfront? Un salto indietro di mezzo secolo, quando si è devastata l’Italia costruendo ovunque: una proposta demenziale», critica l’ex assessore all’Urbanistica della giunta Rigo, «proposte tanto più incredibili perché è noto che nel Veneto e nel veneziano ci sono molte più case di quelle che servono: il problema è semmai quello degli affitti troppo alti. Per di più, il piano del Pdl attacca ciò che serve per far vivere meglio i cittadini, come tram e piste ciclabili che decongestionano il traffico. Mi vien da pensare che la crisi attuale, prima di essere finanziaria ed economica, sia crisi di intelligenza e buonsenso».

Pro e contro nell’interpretazione di un altro professionista ed ex assessore veneziano (sindaco il dc Ugo Bergamo), Giovanni Caprioglio. «Per quel che ho letto sui giornali, mi pare un piano ideologico: non credo proprio che la bici sia di sinistra», commenta l’architetto mestrino, «certamente, non appoggio una logica solo vincolistica nella gestione del territorio e mi auguro che quanto prima sia cancellata la Commissione di salvaguardia, ridotta a balzello sulla città di Venezia. Credo però fermamente che il waterfront lagunare vada salvaguardato nelle sue unicità, soprattutto dai Pili a Campalto, magari anche proprio attraverso nuovi collegamenti ciclabili e pedonali che uniscano le sue isole, come previsto dal piano regolatore, che non va travalicato con un indistinto edificare lungo la gronda. Resto contrario a un vincolismo senza selezione, appoggio la sublaguanare fino al Lido, penso che il decreto in materia edilizia del governo possa essere lo strumento per rottamare un patrimonio immobiliare post bellico fatiscente, rinnovandolo con edilizia qualificata. Ma con schiettezza dico che non si può intervenire su un waterfront unico come quello lagunare».

Poi c’è la politica. Il Pdl critica la gestione «ingessata» del territorio e il piano della mobilità della giunta. «Tram, car shering, parcheggi scambiatori, strisce blu, piste ciclabili: il nostro è un progetto integrato per riqualificare la città. Strano che principi di civiltà accolti anche da amministrazioni di centrodestra come Parma o Latina, siano criticati dal Pdl veneziano», osserva l’assessore alla Mobilità, Enrico Mingardi, «il commercio muore senza qualità urbana, non senza le auto. Anche Chioggia si muove in tal senso. Seppoi la Regione non fosse in enorme ritardo con la Sfmr, il tema dei collegamenti Venezia-Mestre - con 450 treni - sarebbe già risolto».

«Ingessamento? Il centrodestra stia tranquillo: la trasformazione che chiede la stiamo facendo da anni», replica l’assessora al Piano Strategico, Laura Fincato, «a Venezia l’innovazione è fibra ottica e Venice Connected, l’Arsenale è il luogo della rinascita con cultura (Biennale) e centro ricerche, San Servolo da manicomio è università internazionale, la Marittima si trasforma con il people mover, il parco di San Giuliano è la cerniera tra Venezia e Mestre, sul waterfront si opera con la riqualificazione di Porto Marghera, con il Parco scientifico Vega e l’accordo sulle bonifiche, il tram ci rende una città più moderna. Il problema sono le risorse: i governi aiutino invece di scoraggiare».

Postilla

Sorvolando per ora sulle devastanti sciocchezze dell’applicazione veneziana della ideologia urbanistica di Berlusconi (ma ci torneremo presto), osserviamo solo che viene considerato “vincolo” qualunque destinazione del suolo a un uso diverso da quello edilizio, e “ingessatura” qualunque utilizzazione che contrasti con la trasformabilità a fini di immediato sfruttamento economico. L’ideologia del Popolo delle libertà espressa da Umberto Carraro è probabilmente al limite estremo del degrado culturale, ma neanche gli altri scherzano. Destinare un suolo alla vegetazione, alla ricreazione nella natura, all’osservazione del creato, alla produzione di ossigeno, alla conoscenza della storia dei luoghi e della civiltà, alle attività agricole, alla ricostituzione delle energie primordiali, è considerato esclusivamente un impaccio al libero gioco della rendita fondiaria ed edilizia, cioè alla speculazione. É difficile pensare che si possa scendere ancora più in basso, eppure…

Era un po' che non capitava, girando per le capitali d'Europa, di imbattersi in una manifestazione imponente. Da qualche tempo comincia a riaccadere. Qui a Parigi, in questo assolato giovedì 19 marzo, vengo coinvolta da una moltitudine nello sciopero generale contro la politica di Sarkozy, raffigurato in mille modi sui cartelli di questo corteo cui se ne accompagnano altri 200 nel resto della Francia.

Sono tantissimi. Perché quando i francesi decidono di scioperare, scioperano per davvero compatti. La città è paralizzata. Da Place de la Republique devono avviarsi verso la Nation due flussi diversi, lungo Boulevard de Filles du Calvaire e Voltaire, altrimenti la folla non riuscirebbe a defluire. Perché con i lavoratori - vecchi, e però in maggioranza giovanissimi, assieme a pensionati, insegnanti, precari e ricercatori, dietro alle sigle di tutte le confederazioni sindacali senza eccezione - c'è anche l'«Onda» francese - immensa - degli studenti universitari e medi, che non hanno mollato dopo tre ininterrotti mesi di lotta, sebbene abbiano già ottenuto il blocco delle minacciate riforme.

E ci sono anche gli immigrati, molti, dietro agli striscioni della Cgt che li sta recuperando, e delle organizzazioni di solidarietà con i sans papiers. C'è persino un drappello cinese, con gli striscioni nella loro lingua, la prima volta che li vedo in una manifestazione sindacale.

Ai crocevia drappelli di ostinati militanti di partito distribuiscono le loro ultime proposte elettorali: il Pcf, tutt'ora il più attivo nonostante le batoste, insiste sulla parola d'ordine «unità delle sinistre» e mette assieme nel «front de gauche» anche la recente scissione di sinistra dal partito socialista di Jean-Luc Mélenchon («Partì de Gauche») e quella, piccolissima, di Christian Piquet («Gauche uniter»), che non ha seguito la Ligue communiste, trasformatasi in Npa («Nouveau Parti Anticapitaliste»), che di allearsi non vuole saperne. Così come i trozkisti di Arlette Laguiller e un'altra parte di quelli che avevano condotto la battaglia per il no al referendum sulla costituzione dell'Unione europea. Mentre i verdi sembrano essersi invece accordati con José Bové. Tutti in ordine sparso, insomma, come in Italia. Un disastro.

Ma qui, ora, importa poco. Nello sciopero e nell'immenso corteo ci sono tutti. A livello sociale, ci si unisce e ci si mobilita. Ed è già qualche cosa.

Ricordo, molto tempo fa, quando - a New York - un nipotino di Roosevelt, giovane economista di sinistra, mi raccontò di esser andato, mentre era studente al Mit a chiedere al suo professore Paul Samuelson cosa c'era di interessate in Marx che avrebbe dovuto sapere. «La lotta di classe» gli aveva risposto il kennedyano premio Nobel. E infatti si riparte proprio di qui, a quanto sembra. A Parigi, ma anche altrove. Persino in Italia. Non basta da sola, certo, ma è un prezioso zoccolo duro.

Realisticamente, con modestia, più di un cartello ricordava tuttavia che la trincea in questi anni, è un po' arretrata: «Chiediamo democrazia»,

Piccole enormità

di Gabriele Polo

Per via amministrativa si può cambiare il mondo. In peggio. E' un divieto «amministrativo» - prodotto del protocollo che a Roma regolamenta i cortei - quello che ieri ha impedito agli studenti della Sapienza di uscire dalla loro Università per unirsi alla manifestazione della Cgil contro i tagli alla scuola e alla ricerca. Solerti dirigenti di polizia hanno impartito l'ordine, precisi uomini in divisa l'hanno eseguito. Picchiando un po', sequestrando tutti.

Non è successo nulla di anomalo rispetto all'esistente, semplice applicazione di una politica rinchiudente, quella che smorza e impedisce ogni slancio pubblico, ogni tentativo di partecipazione che vada oltre la digitazione del telecomando. Ogni fantasia. Concordemente con lo stato depressivo del paese. Talmente depressivo che persino chi lo guida si dice un po' schifato da ciò che fa. Ma, poi, continua a farlo.

Fossimo un po' meno abituati a questa routine diremmo che ieri a Roma è successo un fatto enorme, per quanto in dimensioni ridotte. Perché se la libertà è appesa agli atti amministrativi - ai protocolli sul traffico - essa non esiste più. Soprattutto se ciò che ieri è avvenuto alla Sapienza si colloca in continuità con quel che è successo a Bologna e Pisa ad altri studenti o agli operai di Pomigliano.

«Statevene a casa», in buon ordine, o - al massimo - «fate solo ciò che vi dicono di fare»: il messaggio che arriva è chiaro quanto cieco, visto ciò che sta accadendo nel mondo giovanile e studentesco in tutta Europa. E' un messaggio che si colloca nel solco di Genova 2001 ed è solo un problema di «quantità» se viene trasmesso in modo meno violento. La qualità è la stessa. Con la differenza che ormai siamo all'ordinaria amministrazione. Per questo è peggio.

Tolleranza zero per l'Onda

di Stefano Milani

L'Onda è tornata ed evidentemente fa paura. D'altra parte il premier Berlusconi l'aveva promesso lo scorso autunno, nel culmine del dissenso studentesco: «Manderò la polizia nelle università». Detto fatto. Così quello che doveva essere il ritorno dell'esercito del surf contro i tagli all'istruzione del trio Gelmini-Tremonti-Brunetta, è diventato lo spunto per mettere in pratica la linea dura del governo. La politica del manganello e del «da qui non si passa».

Succede a Roma, alla Sapienza, nella più grande università pubblica d'Europa. Cinquecento studenti caricati e sequestrati per ore all'interno della cittadella, intimati a non mettere naso fuori dalle mura accademiche, proprio nel giorno dello sciopero della conoscenza indetto dalla Flc-Cgil. L'idea era di uscire in corteo, arrivare fin sotto il ministero dell'Economia e confluire nel sit-in sindacale a piazza SS. Apostoli. Ma niente, la strada dell'Onda è sbarrata. Piazzale Aldo Moro, via dell'Università, via Cesare De Lollis, via Regina Margherita: ogni varco del quadrilatero universitario è off-limit, presidiato da polizia, carabinieri e guardia di finanza. Caschi, scudi e manganelli. Perfino i vigili urbani a dare un mano come possono, con palette e fischietti. «Correte stanno uscendo dalla parte delle segreterie...», grida un pizzardone ad un funzionario della celere.

Ma i caschi blu non si limitano a presidiare. Caricano. E più volte. La prima all'entrata principale di piazzale Aldo Moro, poi in quelle laterali. «Qui non si passa», intima un funzionario di polizia: «Il vostro non è un corteo autorizzato». La nuova politica del sindaco Alemanno ha già fatto scuola, il protocollo appena siglato sulla di restrizione dei percorsi dei cortei a Roma è preso alla lettera. Così le manganellate si sprecano. «Mi hanno circondato in quattro e picchiato con il manganello girato (come documenta la foto qui accanto, ndr.)», denuncia Emanuele mostrando i segni rossi sulla schiena e su un gomito. «Restiamo calmi, non cadiamo nelle loro provocazioni», grida qualcuno. L'«arma» studentesca rimane la parola, urlata e amplificata dal megafono: «Vogliamo andare nelle nostre strade: libertà di movimento». Ma niente «da qui non si passa», ribadisce il brigadiere dei carabinieri di turno sghignazzando.

I minuti passano e le parole lasciano spazio al lancio di giornali appallottolati, bottiglie, scarpe. Tante scarpe. Come hanno fatto gli universitari francesi contro i loro ministeri e come ha fatto il giornalista iracheno contro Bush. Le volevano gettare all'indirizzo del ministero dell'Economia, ma visto l'impedimento ad uscire in strada il tiro a segno è tutto contro i celerini. Al secondo tentativo di forzare i blocchi, arrivano a rinforzo gli agenti della guardia di finanza ed effettuano una nuova carica. Di «alleggerimento», diranno poi. Una «leggerezza» che manda sei ragazzi al pronto soccorso. A quel punto la tensione sale. Inevitabilmente. E oltre le scarpe, vola anche qualche sampietrino, accompagnato dallo slogan «Roma libera! Roma libera». All'interno della città universitaria, intanto, non c'è più un corteo unico, ma tanti gruppi, dieci-quindici persone che corrono da un lato all'altro, passando di facoltà in facoltà alla ricerca di una via d'uscita. Chi prova a «sfondare», davanti all'entrata di Antropologia, subisce un'altra carica, la terza. «Siamo sequestrati», urlano dal megafono. Fuori non si esce e allora qualcuno lancia la proposta: «Occupiamo il Rettorato». Ma anche lì le porte vengono prontamente serrate.

È mezzogiorno quando l'Onda si ricompatta. I ragazzi si ritrovano sotto la statua della Minerva, nel luogo da dove erano partiti due ore prima. «Bisogna parlare, bisogna denunciare quanto è accaduto», i vari leader dei collettivi si affrettano ad organizzare un'assemblea a Lettere. Il giudizio sulla giornata è pesante: «Siamo entrati in una nuova era, oggi possiamo dirlo con chiarezza, senza equivoci - si legge nel comunicato dei collettivi - La recessione è realtà concreta, il governo non ha dubbi: polizia contro gli studenti, polizia contro chi dissente, polizia e cariche contro chi la crisi non vuole pagarla! La mattinata della Sapienza ci parla di questo, ci parla del vuoto di democrazia che riguarda questo paese e la città di Roma, con il suo protocollo contro i cortei». E assicurano: «Non finisce qui». Ma non è una minaccia, bensì la consapevolezza che «l'Onda è tornata».

Postilla

Mentre nelle scuole elementari si stanno raccogliendo decine di migliaia di firme contro la riforma Gelmini, dall’università riparte l’Onda, bloccata dalla polizia in attuazione delle norme repressive di Alemanno, longa manus di Berlusconi. Chiudere gli spazi pubblici della città al dissenso è un’operazione perversa su entrambi i fronti: quello della società, nella quale il dissenso è la condizione della democrazia, e nella città, la quale è il luogo dell’espressione delle esigenze, delle passioni, dei consensi e dei dissensi - di tutto ciò insomma che costituisce la vita della società.

L’augurio è che l’Onda trovi le vie per proseguire e contribuire al cammino contro le mille aggressioni al bene comune che vengono compiute. Sarebbe bello se la protesta degli universitari si esprimesse anche nel chiarire a tutti i cittadini il merito delle scelte sbagliate dei governi, e nello spiegare i rischi e i danni che quelle scelte comportano per tutti. Per esempio, se gli studenti di urbanistica, architettura, ingegneria scendessero a spiegare, nelle strade e nelle piazze, nelle fabbriche e nei mercati, nelle discoteche e, fra poco, sulle spiagge, perché il Piano Casa dei berluscones distrugge quel che resta del Belpaese?

Molti analisti - cifre alla mano - sostengono che tra economia di carta e economia reale c'è un rapporto di 18 a 1. E aggiungono: quando il rapporto sale oltre «quota 10» significa che si è innescato un circuito monetario «vizioso» e che la bolla prima o poi è destinata a scoppiare. Anzi - come ben sappiamo - è scoppiata, trascinando nel disastro - ce l'ha confermato ieri il Fondo monetario - tutto il globo. Prime responsabili di questo disastro sono le banche e ha una certa rilevanza il dibattito che ieri ha visto ancora una volta contrapposti Mario Draghi e Giulio Tremonti.

Il governatore della Banca d'Italia nella polemica è stato raffinato, ma deciso: ha mandato a dire al ministro dell'economia che l'idea di fare dei prefetti i controllori del credito è assurda. Assurdo - aggiunge il manifesto - che l'ordine pubblico e amministrativo sia centrato sui prefetti dei quali in tempi non sospetti abbiamo chiesto l'abolizione, con risparmi non indifferente per l'erario. Ma i prefetti da sempre sono la lunga mano della politica, spesso ex sbirri, soliti «obbedir tacendo». E neppure Maroni con i suoi trascorsi di sinistra se la sente di abolire una figura, impolverata, fuori dal tempo che gli garantisce però un potere senza pari.

Draghi ha anche detto altre cose interessanti. La prima che l'economia italiana è avvitata su se stessa e il peggio non è alle spalle. Anzi. Una affermazione in particolare colpisce: «I piani di investimento delle imprese sono stati drasticamente ridotti a causa degli ampi margini inutilizzati di capacità produttiva». Insomma, per far ripartire la produzione sarebbe necessario aumentare il potere d'acquisto di salari e pensioni, perché una delle specificità di questa crisi è la pessima distribuzione dei redditi. Ma significa anche che se i privati non investono, è necessario che l'investimento sia fatto direttamente dalla mano pubblica. Come consigliava Keynes nel suo Trattato sulla moneta.

Draghi dopo aver lodato i «Tremonti bond» che ampliano la base patrimoniale delle banche, lancia però una frecciata al curaro a Tremonti sui prefetti sostenendo che debbono «essere evitate interferenze politico-amministrative nella valutazione del merito di credito di singoli casi». E questo perché «il credito è e deve restare attività imprenditoriale, basato su un prudente apprezzamento professionale della validità dei progetti professionali».

In realtà i banchieri ormai sono dei semplici contabili, visto che il «merito del credito» è valutato applicando acriticamente i parametri di Basilea-2. Come dire: il credito lo concedono non sulla base della bontà dei progetti di investimento (o sulle necessità finanziarie) ma unicamente considerando la capacità patrimoniale di chi chiede soldi a prestito.

In questa ottica i «Tremonti bond» non hanno nessuna logica. Al pari dell'incarico ai prefetti di controllare l'erogazione del credito. Un industriale amico mi ha confessato: «Questo sistema bancario non è in grado di far ripartire l'economia reale». Ha ragione, anche se il giudizio potrebbe essere viziato dall'essere parte interessata in quanto industriale. E' fin tropo facile parlare male delle banche alla luce del disastro nel quale ci hanno trascinati, ma il sistema creditizio - anche quando è sano - tende ad agire secondo il criterio indicato da Draghi. Che significa fare soldi con i soldi, senza la volontà e la capacità di distinguere quando il credito fa l'interesse pubblico o quello privato. Ciò che manca è una politica pubblica del credito, forzare le banche a comportamenti virtuosi. Che significa non dare soldi solo a chi rispetta i parametri di Basilea-2, ma finanziare chi si impegna in progetti di riconversione delle industrie in crisi che sono tante e lo saranno sempre di più. E chi si getta nel costoso settore dell'innovazione che porta occupazione.

Vuol dire che il sistema bancario deve essere nazionalizzato? Ci piacerebbe, anche se la banca pubblica quando agisce secondo i criteri dei privati commette gli stessi errori, magari aggravati dal clientelismo e dai rapporti politici. In alternativa, significa predisporre strumenti d'intervento diretto e vincolante che non sono i «Tremonti bond» che sono una foglia di fico che copre solo le vergogne delle banche.

Ma fuori Italia che succede? Accade per esempio che Barack Obama ha messo le mani e i piedi nel piatto, obbligando le banche che hanno ricevuto aiuti (tutte) pubblici a tagliare i vergognosi bonus ai manager. In Italia invece si fa l'opposto: ieri in Parlamento è stata stoppata dalla maggioranza la proposta dalla Lega che imponeva un tetto di 350.000 euro ai manager pubblici. Tetto che in passato era stato abbassato a 500.000 dal governo Prodi, ma con molte eccezioni. E, poi, è stata cassata in commissione finanze della Camera la norma che prevedeva l'aumento al 20% dell'una tantum (invece del 10%) per i precari licenziati. I co.co.pro si rassegnino e imparino a campare: la prossima volta scelgano di fare i banchieri. Magari per salvare la faccia scelgano il ruolo di banchiere immortalato in uno splendido romanzo di Pessoa.

Il Gazzettino

Dal mondo ambientalista atto d’accusa alla Provincia

di Daniele Duso

Contro gli scempi ambientali della destra e della sinistra. È un’ira bipartisan quella che associazioni ambientaliste e comitati di cittadini hanno espresso ieri nell’incontro pubblico sul tema della tutela ambientale e della difesa del territorio. Al bersaglio grosso, quel Piano territoriale provinciale che «accetta due devastanti e inutili interventi di Veneto city e Tessera city», si aggiunge quel Piano casa del Governo Berlusconi che «deregolamentando la materia urbanistica la pone in pratica al di fuori da ogni controllo». Accanto a questi temi, durante la mattinata, organizzata nell’auditorium della Provincia di Venezia a Mestre per iniziativa dei Cantieri Sociali, associazioni, comitati e cittadini hanno presentato ognuno le proprie esperienze di battaglie e proposte. A seguire i contributi di numerosi studiosi e personaggi pubblici attivi da anni sulle questioni legate all’ambiente.

Su tutti quello dell’urbanista Edoardo Salzano, già presidente del corso di laurea in urbanistica dell’Iuav, che presentando l’incontro come il coronamento di un lavoro coordinato di numerosi soggetti, gli stessi che hanno sottoscritto le osservazioni al PTCP provinciale, ha auspicato la prosecuzione dell’impegno puntando, sul piano "politico", a far modificare le proposte del Piano provinciale e, sul versante della cittadinanza, ma non solo, a «far crescere la consapevolezza dei rischi che corriamo con le scelte sbagliate». Secondo Salzano «le trasformazioni del territorio avvengono fuori da qualsiasi meccanismo di corretta pianificazione, il PTCP stesso si limita ad avvallare trasformazioni già decise dai poteri economici forti, come per Veneto city, Marco Polo city e la Città della Moda sul Brenta». Quindi la questione del berlusconiano Piano casa, che «facendo leva su piccole valorizzazioni degli immobili porterà a peggiorare la situazione ambientale delle nostre città. Altrove, in Europa – ha sostenuto Salzano –, la pianificazione punta a equilibrare l’ambiente a favore dei cittadini, in Italia l’unica molla è la rendita fondiaria. Per fortuna la gente si accorge – chiude, citando Giorgio Bocca – che la deregulation non ha vie di scampo, i danni che produce sono irreversibili». Tolta la Denuncia di Inizio attività, spiega infatti un successivo intervento, i dirigenti comunali saranno di fatto impotenti di fronte a una dichiarazione di conformità firmata da un professionista che solo una denuncia specifica può portare a mettere in discussione, ovviamente con i tempi di una magistratura intasata che già conosciamo. In questo panorama, «di fronte al debole contrasto dell’opposizione – messo in luce dallo stesso Salzano – le uniche azioni sono quelle della società», deboli però perché prive di peso. Per questo l’invito al professor Alberto Asor Rosa, che presentando la rete di comitati e associazioni nata tra Toscana, Lombardia, Emilia Romagna e Lazio di cui «quasi casualmente mi sono trovato alla guida», si è detto disponibile a promuovere un coordinamento regionale anche in Veneto sottolineando l’esigenze di «passare dal problema locale, germinativo dei comitati, all’interesse generale di tutti, tornando ad approfondire il nesso storico tra lavoro, ambiente ed economia».

la Nuova Venezia

Comitati ambientalisti: alt a Veneto City e Tessera

Asor Rosa: facciamo rete a livello nazionale

di Michele Bugliari

I comitati bocciano il Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) e annunciano: «Chiederemo alla Provincia di modificarlo, per fermare i mostruosi progetti di devastazione del territorio come Tessera City e Veneto City». E’ il messaggio che è partito, ieri mattina, dalla sala convegni del centro servizi della Provincia di via Forte Marghera, nel corso del convegno sul tema: «Stop al consumo di suolo. Vogliamo cambiare il Ptcp» che ha visto la partecipazione di oltre 100 persone. Alla fine dell’incontro, uno dei più importanti critici letterari del Paese, Alberto Asor Rosa, è intervenuto come coordinatore dei comitati toscani per la salvaguardia del territorio, proponendo: «Fondiamo un coordinamento nazionale dei comitati, per avere più forza nel porre la centralità della questione ambientale».

La sintesi della critica dei comitati l’ha illustrata Carlo Costantini: «La questione di fondo è che il Ptcp non è un piano, ma al massimo un documento con delle linee guida per la contrattazione con i Comuni ed i privati delle scelte urbanistiche e territoriali. La Provincia ha scelto, sbagliando, di abdicare ai compiti che gli sono assegnati per legge. Nel Ptcp ci sono indirizzi condivisibili sul piano ambientale ma che poi non sono stati tradotti in norme, come è previsto dalla legge regionale. Di fatto, si lascia ai Comuni la possibilità di fare quello che vogliono. Le grandi trasformazioni del territorio che sono il frutto di accordi sovra-provinciali sfuggono a qualsiasi limite quantitativo e qualitativo. Lanciamo una sfida in positivo alla Provincia, chiedendo di modificare il Ptcp, per la salvaguardia del territorio».

Oscar Mancini, invece, ha puntato il dito contro un’altra contraddizione: «Il territorio è già stato abbastanza cementificato e non ha assolutamente senso assecondare progetti di mera speculazione edilizia. Anche il governo ha riconosciuto che bisogna evitare che il depauperamento di Porto Marghera, per dare sbocchi per nuove attività e nel contempo difendere il territorio ormai troppo urbanizzato. Per portare avanti questo disegno però è necessario fare partire una volta per tutte le bonifiche ma l’esecutivo ha tagliato i fondi per il disinquinamento della zona industriale. Tessera e Veneto City sono state pensate per crescere a ridosso del Passante, secondo vecchi e negativi modelli di sub-urbanizzazione americana». Stefano Boato ha aggiunto: «Bisogna che le nuove urbanizzazioni crescano vicino alle fermate della Sfmr (Sistema ferroviario metropolitano regionale) e non a ridosso del Passante. Sono 17 anni che aspettiamo questa benedetta Sfmr e finora non abbiamo ancora visto una fermata. E’ tutta la politica della mobilità che è sbagliata. Il Passante deve avere molti più accessi di quelli attuali, perché così non serve a niente. Sinora la tangenziale è stata sgravata solo dal 15% di traffico, di cui solo il 10% grazie al Passante, perché il 5% è il risultato della crisi».

Nel 1946, in mezzo alle macerie dell’Europa uscita moralmente, politicamente e fisicamente distrutta dalla Seconda guerra mondiale, Winston Churchill, premier britannico durante gli anni del conflitto, sognava: «Se l’Europa fosse finalmente unita - allora non ci sarebbero limiti per la felicità, il benessere e la gloria dei suoi quattrocento milioni di persone». Oggi incombe il rischio opposto: se di fronte alla crisi economica mondiale l’Europa si sfaldasse, allora non ci sarebbero più limiti all’infelicità, agli affanni e alla vergogna dei suoi politici e dei suoi cinquecento milioni di persone.

Oggi, nel 2009, stiamo forse vivendo una seconda rivoluzione mondiale dopo quella del 1989? Vent’anni fa crollarono in modo del tutto inatteso prima il muro di Berlino, poi l’Unione Sovietica e infine l’ordine mondiale bipolare della guerra fredda. Ora, in questo ventennale, rischia ironicamente di crollare a sua volta proprio il modello del capitalismo - l’idea che il libero mercato sia la soluzione - , di cui allora era stata celebrata la vittoria: questa volta, però, minaccia di trascinare con sé l’Unione Europea. Dove rimane oggi l’entusiastico slancio europeo di un Churchill, la sua voce visionaria che ricorda agli europei come la sempre più diffusa grettezza nazionale non distrugga soltanto il miracolo europeo (trasformare i nemici in vicini) ma, alla fine, anche sé stessa? Naturalmente, nessuno lo vuole.

Ma nessuno desiderava neppure il socialismo di Stato per i ricchi e il neoliberismo per i poveri, che improvvisamente ci ritroviamo.

Nello scorso autunno, quando il fallimento delle banche strappò finalmente anche l’Unione Europea dalla sua attività preferita, ossia l’autocontemplazione, pensai: «Mio Dio, che opportunità!». La crisi finanziaria globale che si aggravava sembrava fatta apposta per l’Unione Europea. Di fronte alla globalità della crisi che si dispiega in modo inesorabile i percorsi solitari nazionali sono chiaramente inefficaci, anzi, controproducenti. E i personaggi chiave della politica europea - il presidente francese Sarkozy e perfino l’euroscettico premier britannico Gordon Brown, per non parlare dell’europea-per-forza Angela Merkel - sembravano vedere e presentare pubblicamente le cose proprio in questo modo. Chi, se non l’Unione Europea, possiede l’esperienza per gestire le interdipendenze globali e per contemperare gli interessi nazionali impegnandosi in vista di un interesse comune sovranazionale?

Il presidente francese Sarkozy propose, in sorprendente sintonia con il premier britannico Gordon Brown, un’estensione delle competenze di politica economica dell’Unione Europea. Tuttavia questa proposta incontrò, in modo non meno sorprendente, il deciso rifiuto della cancelliera Merkel - europea esemplare - , rifiuto sostenuto da quasi tutti i pubblici commentatori tedeschi. Analogamente, di colpo tutta l’attenzione tornò a concentrarsi esclusivamente sulla consistenza e il contenuto degli interventi di salvataggio nazionali e su come essi potessero essere accelerati dai parlamenti. Così facendo, si commetteva l’errore marchiano di trascurare l’insegnamento della grande depressione degli anni Trenta, e cioè che il ritorno - come per riflesso condizionato - all’idillio nazionale è fatale e non fa che contribuire al realizzarsi di ciò che incombe, ossia il crollo dell’economia mondiale.

Noi barcolliamo da uno scenario inimmaginabile all’altro. Inimmaginabili quantità di miliardi di dollari, sterline, euro sono stati a quanto pare - inimmaginabilmente - polverizzati. Comunque, la valanga dell’inimmaginabile catastrofe economica mondiale procede inarrestabile. La disoccupazione esplode su scala globale. Le onde d’urto delle tensioni sociali e della xenofobia già scuotono l’Europa. Ed ora, culmine dell’inimmaginabilità, improvvisamente anche lo spettro degli Stati falliti si aggira per l’Unione Europea, paradiso del benessere e della sicurezza. La crisi ha preso in contropiede la periferia dell’Unione Europea, e precisamente i nuovi membri e i membri-modello dell’Europa orientale. Questi Paesi che hanno sopportato le riforme finora realizzate dell’Ue si sentono ora ingannati e piantati in asso anche dal sistema capitalistico, come prima lo erano stati dal sistema comunista. Avevano appena ricevuto un plauso per aver applicato le "pratiche migliori" e adesso queste pratiche si rivelano come le peggiori. Anche se questi Paesi si dimostrano vulnerabili in misura assai diversa, lo shock e la delusione sono enormi. Forse violenti. E i seduttori populisti di destra si strofinano le mani.

La crisi strutturale dell’Europa, nella quale siamo scivolati, solleva impietosamente la questione della giustificazione dell’esistenza: Cos’"è", cosa vuole essere l’Unione Europea? A che scopo, dunque, l’Unione Europea? Al di là dei discorsi celebrativi con le loro grandi visioni c’è una risposta plausibile alla semplice domanda su perché dovremmo avere un’Unione Europea? O forse il rinnovamento della risposta e del senso della Ue sta proprio nella crisi finanziaria? Sì, è così. Se non ci fosse l’Unione Europea, occorrerebbe inventarla e fondarla oggi. Chi nel nostro angolo di società mondiale del rischio vuole riacquistare sovranità deve volere l’Europa, pensare l’Europa, diventare Europa. O, per dirla in termini più generali: l’unità d’azione politica nell’era cosmopolitica non è più la nazione, ma la regione.

Un nazionalismo reciproco, come quello che hanno in mente i pragmatici europei di tutti i giorni, è la soluzione? Esso presuppone che ogni Stato abbia l’autonomia e il dovere di regolare i propri problemi finanziari. Nello stesso tempo ciascuna nazione deve riconoscere la sovranità delle altre, così da evitare che le conseguenze negative delle proprie decisioni ricadano su di esse. Questo modo di vedere si basa su tre princìpi: parità di diritti, piani di intervento concordati e responsabilità reciproca. Ad essi si aggiunge un quarto principio: è severamente vietato ampliare le competenze dell’Ue in materia di politica economica.

Questo modello di nazionalismo reciproco può funzionare in tempi di vacche grasse, ma in tempi di crisi non può che fallire. Nessun Paese è abbastanza forte da tirare gli altri fuori dal pantano. Nello stesso tempo è fin troppo evidente che tutti sono interconnessi: se un Paese fa bancarotta, trascina con sé gli altri.

Tuttavia, finora non c’è una politica finanziaria comune, una politica fiscale comune, una politica industriale comune, una politica sociale comune per contrastare efficacemente le conseguenze della crisi finanziaria che minacciano il mercato comune. E chi rifiuta questo sovrappiù di Europa divenuto ormai storicamente necessario � e perciò danneggia tutto e tutti � , è proprio la cancelliera federale tedesca Angela Merkel. I suoi modelli, i cancellieri della Cdu ed europei-tedeschi Adenauer e Kohl, avrebbero fatto della crisi l’occasione per rilanciare l’Europa. E quindi avrebbero vinto le elezioni. Infatti, oggi l’investimento nel futuro dell’Europa di fronte ai costi davvero inimmaginabili della recessione promette non solo un incredibile guadagno, ma soprattutto una speranza in tempi oscuri � ovvero, con le parole di Churchill: «Felicità senza confini».

In estrema sintesi, o più Europa o niente Europa. Questo imperativo del fallimento possibile fonda la speranza à la baisse: solo una Ue rinnovata dalla crisi può essere credibile ed efficace a livello globale nell’esigere la regolazione dei mercati finanziari, in sintonia con la nuova apertura al mondo dell’America di Obama. Già il vertice dei venti più importanti Stati industriali del prossimo aprile potrebbe realizzare la svolta verso questa realpolitik cosmopolitica.

Traduzione di Carlo Sandrelli

L’autore ha scritto con Edgar Grande, "L’Europa cosmopolita", trad. it. di C. Sandrelli, Carocci, Roma 2006

ROMA - Slitta il via libera al piano straordinario per l’edilizia. Il governo continua a lavorare al provvedimento per stimolare il settore, ma oggi al Consiglio dei ministri comincia solo l’esame preliminare. I tempi di allungano, almeno di una settimana, rispetto a quanto aveva previsto il premier.

La "rivoluzione" voluta da Berlusconi come misura anti-crisi viene frenata da dubbi di carattere tecnico e dalle critiche degli alleati. Per la Lega la questione non è solo il nodo immigrati, ma anche l’impatto della riforma sul territorio. Il presidente dei deputati del Carroccio, Cota, ha chiesto al governo attenzione per l’ambiente: «Rappresenta un patrimonio della nostra gente e come tale va tutelato». An, invece, teme abusi nel settore dell’edilizia privata e rischi di "condoni mascherati". Questo avrebbe portato a modificare all’ultimo minuto uno dei punti più controversi della bozza del ddl: quello che puntava a introdurre una sorta di "sanatoria perenne" con l’unica condizione di non arrecare danno ai beni tutelati e non toccare immobili dichiarati monumento nazionale.

Dall’altra parte anche le Regioni aspettano di esaminare le norme quadro del governo e la bozza del testo che prevede l’intervento a sostegno del settore edilizio, che ha avuto il via libera solo dalla giunta regionale del Veneto.

Berlusconi avrebbe voluto accelerare e non nasconde che avrebbe ancora una volta preferito lo strumento del decreto legge: «Sarebbe stato più efficace, visto che abbiamo un sondaggio che rivela che il 50% delle famiglie vive in un bilocale e il 30% ha l’esigenza di dotarsi di una stanza in più».

Il progetto al momento resta lo stesso. Un testo base per l’intervento regionale che consente, a chi lo adotta, di ampliare le abitazioni private aumentando la cubatura fino al 20%, aggiungendo una o due stanze, sia nel caso di villette che di palazzi se si ottiene l’assenso dei condomini. E ancora: prevede la "rottamazione" degli edifici costruiti prima dell’89 che non abbiano standard qualitativi adeguati e la loro ricostruzione con un aumento della cubatura fino al 30%, e dà la possibilità ai Comuni di introdurre sconti fiscali.

Accanto a questo testo il governo continua a lavorare al un ddl che rivede la normativa statale in materia, mettendo mano al Testo Unico e al Codice per l’ambiente. Per il ministro per gli Affari regionali, Fitto, «è sbagliato esprimere un giudizio negativo a prescindere. Il governo si muoverà nel pieno rispetto delle norme costituzionali». Ma si allungano i tempi per il testo che punta a semplificare le procedure per ottenere le autorizzazioni nell’attività edilizia. Tra le novità, verrebbe abolito il permesso di costruire, sostituito con una certificazione di conformità firmata dal progettista, ampliato l’ambito di operatività dell’attività edilizia libera, introdotto il fascicolo di fabbricato per conoscere lo stato conservativo del patrimonio edilizio e provvedere alla individuazione delle situazioni di rischio. In forse invece l’inasprimento delle sanzioni per gli abusi in aree vincolate. Ieri, intanto, ultimo passaggio per il via libera ai 550 milioni del Piano nazionale di edilizia abitativa. Con la ratifica dell’accordo governo-Regioni che prevede lo sblocco immediato di 200 milioni e una tranche successiva di 350, per il sottosegretario alle Infrastrutture Mantovani il "piano casa" «entra in una fase operativa».

Per i comitati è una doccia fredda: Il Tar ha detto no. Respinta la richiesta di sospensiva dei lavori per la base americana al Dal Molin. Tre le motivazioni: primo, la «insindacabilità» della decisione del governo; secondo, l'opera attiene «alle esigenze di difesa nazionale»; terzo, la base «al momento dell’avvio del procedimento» cioè «al 15 06 05» risultava sottoposta alla legislazione italiana in materia ambientale, che prevede deroghe alla Via nei casi, appunto, di opere per la difesa nazionale. La richiesta di stop ai lavori – avanzata da Legambiente, coordinamento comitati, Più Democrazia e con l'appoggio del Comune di Vicenza - era motivata con le ultime novità: l’inizio dei lavori, in una situazione di mancata Via e di assenza di un

progetto esecutivo.

«E’ allucinante: i giudici sono andati anche oltre le tesi dell’Avvocatura di Stato – è il commento a caldo di Giancarlo Albera del coordinamento dei comitati -. Affermano che il procedimento sia iniziato nel 2005, quando il Comipar diede il sì due anni dopo. Nel 2005 si parlava di una base ad est della pista, mentre ora i lavori sono iniziati ad ovest. E' tutta un'altra cosa». La contraddizione, secondo i comitati, è palese: «Il Tar nelle precedenti sentenze ha detto che non c'era un progetto definitivo, motivo per cui non si poteva pronunciare. Ora si pronuncia riferendosi a un fumoso “procedimento” di quattro anni fa. O è vera una cosa, o è vera l'altra – attacca Albera -. Non è finita. Mi consulterò con gli avvocati e con il Codacons».

Cinzia Bottene, consigliera comunale di Vicenza Libera, parla di «considerazioni non accettabili: non c'è nessun documento ufficiale che attesti che si tratti di opera nazionale. Poi parlano di insindacabilità della decisione politica, riferendosi alla sentenza del consiglio di Stato di ottobre che vietò il referendum. Nessuna decisione in democrazia è insindacabile». Nel futuro c'è un viaggio in terra americana: «In Italia i diritti della gente non trovano ascolto. Ci rivolgeremo alle autorità di Washington».

A Washington pensa anche Valentina Dovigo, presidente di Legambiente vicentina: «Se fossi Obama mi vergognerei di costruire una base militare in questo modo. Riescono a rigirare i regolamenti pur di giustificare l'assenza della Via, arrivando ai limiti dell'irrazionalità. E' uno schiaffo nei confronti di quello di buono che la cultura ambientalista ha aggiunto alla politica in tutti questi anni. Pensavamo che la compatibilità ambientale fosse un fattore acquisito, così come la cultura della legalità».

“Uscire dalla crisi” è la parola d’ordine. Anche a sinistra. E non è dubbio che tentare di contenere la catastrofe già dilagante di disoccupazione, precarietà, impoverimento crescente, sia il primo compito delle organizzazioni del lavoro. Ma forse, nel mentre stesso in cui doverosamente questo obiettivo viene perseguito al suo meglio, non sarebbe inutile considerare che tutto ciò significa anche (tentare di) ridare fiato e stabilità al capitalismo; edomandarsi se davvero meriti impegnarsi nel salvataggio del mondo così come oggi è.

Un mondo in cui l’1% della popolazione detiene il 50% della ricchezza prodotta. Un mondo in cui – dice la FAO – si produce cibo a sufficienza per sfamare tutti, ma ogni cinque minuti un bambino muore d’inedia. Un mondo altamente tecnologizzato, dove sarebbe possibile produrre il necessario e più con poche ore di lavoro al giorno, ma le industrie puntano a settimane di ottanta-novanta ore. Un mondo che usa la guerra non solo come normale mezzo di politica internazionale, ma come lo strumento più utile per rilanciare la produzione quando il Pil non cresce a dovere.

Un mondo che, d’altronde, è impossibile da difendere così com’è. Sono in molti a crederlo e a dirlo. Mi limito a citare due nomi, di persone molto diverse per formazione e storia. “Siamo di fronte a una crisi complessiva del meccanismo di accumulazione capitalistica,” scrive Paolo Ferrero (Liberazione 8 marzo). “La logica del capitalismo è l’accumulazione. La quale è per natura illimitata (…) una logica impossibile, quindi illogica” scrive Giorgio Ruffolo (La Repubblica 9 marzo). E tutt’e due vedono nell’accumulazione la causa della crisi ecologica planetaria.

E al proposito davvero riesce difficile capire il lungo disinteresse (appena mitigato oggi) delle sinistre per un fenomeno come questo, che ha finora registrato un saldo di tre milioni di morti e cinquanta milioni di profughi. Come se poi queste cifre non contassero in massima parte operai, contadini, pescatori, poveracci dei paesi più miserabili. Come se non fosse natura (minerale, vegetale, animale) tutto ciò su cui il lavoro esercita la sua fatica, la sua intelligenza, il suo sapere. Come se non fosse natura (minerale, vegetale, animale) tutto quanto viene trasformato dall’industria capitalistica nello sterminato universo delle merci. E dunque i limiti del mondo naturale, e la catastrofe planetaria che l’ignorare quei limiti ha causato, non gridassero l’urgenza di superare un impianto economico-sociale fondato sulla crescita illimitata, un sistema ormai senza futuro.

Non sarebbe questa la base da cui muovere per tornare a pensare una rivoluzione possibile? Per darsi un’idea portante, una strategia al cui interno situare e agire scelte politiche anche di breve termine e di portata locale, purché a quell’idea omogenee e funzionali? Non era così che lottavano le sinistre del passato, impegnandosi per singole rivendicazioni e insieme cantando per “l’internazionale futura umanità”? E non è stata proprio l’ampiezza di quell’assunto a consentire tante vittorie del lavoro? Una linea di largo respiro non sarebbe più che mai necessaria oggi, in un mondo globalizzato, mentre il capitalismo sta divorando la base stessa del proprio operare, vivendo una crisi non solo gravissima ma diversa da ogni altra? Trovarla non potrebbe di per sé favorire il superamento di quella animosità interna a tutte le sinistre, che induce risse continue e ripetute scissioni, incomprensibili a una base che c’è, vorrebbe esistere e agire, ma non vede come?

Il “come” è certo una difficoltà che può parere insormontabile. Ma forse no. E’ un grosso discorso, che vorrebbe ben più spazio di quanto sia qui concesso. Provo comunque a sintetizzare al massimo la riflessione che di recente ho cercato di mettere a punto, riassumendola in quattro “mosse”. 1) Tutto l’ambientalismo più qualificato afferma la necessità di tagliare il prodotto per tentare di scongiurare un degrado ecologico irrecuperabile. Non dice però cosa tagliare, da dove cominciare. Bisogna pensarci. 2) La produzione di armi rappresenta ufficialmente il 3,5 del Pil mondiale: una quota che, qualora gli umani smettessero di risolvere i loro guai uccidendo i propri simili, e di contare su questa attività per sostenere l’economia, garantirebbe a tutti noi una buona boccata d’aria pulita e un notevole risparmio di materie prime. 3) Tralasciando le mille possibili obiezioni, occorre porsi però una domanda ineludibile: come sistemare coloro (tanti) che lavorano nell’industria degli armamenti? Ma è facile replicare. Di taglio generalizzato dei tempi di lavoro a pari salario le sinistre discutono da alcuni decenni: dopotutto non sta scritto da nessuna parte, se non nella logica industriale-capitalistica che la gente debba spendere quasi metà della propria vita lavorando. 4) Altra inevitabile domanda: chi paga? Be’, in un mondo dove (lo notavo sopra) metà della ricchezza è in mano all’1% della popolazione, porsi la questione mi pare quasi sconveniente. Sbaglio?

Utopia. Spesso (non sempre) così vengono commentate queste mie riflessioni. Tralascio di citare i mille possibili esempi di cose di uso quotidiano che appunto solo utopie erano fino a tempi non lontanissimi. Trovo più utile ricordare che la Nasa dedica una parte non secondaria dei suoi programmi alla ricerca di un pianeta con caratteristiche simili a quelle della Terra. Scopo: trasferirvi cospicue quote di umani da impegnare in attività produttive di ogni sorta, e finalmente lassù trovare spazio, materie prime a volontà, e piena libertà di inquinamento, per un vero grande rilancio della crescita, che riduca la crisi a una pallida memoria. Utopia per utopia: quale vi pare meno impossibile?

Del «pacchetto sicurezza», cioè del disegno di legge governativo «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica», si è parlato molto, ma in realtà persino molta parte dei cittadini più sensibili ne conoscono soltanto quei frammenti che hanno avuto più eco mediatico. E così, non solo si ignora largamente la vera portata della stretta securitaria contro i migranti, sia irregolari che regolari, contenuta nei 66 articoli del «pacchetto», una sorta di galleria degli orrori, ma anche che il progetto non si limita alla sola immigrazione. Infatti, il ddl - approvato il 5 febbraio scorso dal Senato e ora all'esame della Camera - introduce altresì una serie di norme che riguardano più o meno direttamente il conflitto sociale e la libertà di espressione, ponendosi così in linea di continuità con le recenti iniziative restrittive in materia di diritto di sciopero e libertà di manifestazione. Lasciamo stare in questa sede lo sdoganamento delle ronde, peraltro già anticipato con il decreto «anti-stupri» del 20 febbraio, oppure le varie norme che intensificano le sanzioni in tema di «decoro urbano», nella sua accezione più ampia, per concentrarci invece su tre innovazioni altamente significative.

Anzitutto, vi è la reintroduzione nel codice penale di un reato abolito nel 1999: l'oltraggio a pubblico ufficiale, punibile con la reclusione fino a tre anni. E come se non bastasse, la definizione del reato è talmente vaga, cioè «chiunque offende l'onore e il prestigio di un pubblico ufficiale», che non è difficile prevedere che si ripresenteranno i medesimi abusi che avevano motivato la precedente abolizione. Attenti dunque ai vostri slogan e alle vostre parole al prossimo corteo, presidio o sciopero, perché potrebbero costarvi caro.

In secondo luogo, c'è la norma che prevede la sospensione cautelativa e lo scioglimento di «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi», qualora la loro attività abbia «favorito» la commissione di un delitto con finalità di terrorismo o di un reato aggravato dall'«eversione dell'ordine democratico» (ai sensi del decreto-legge n. 625/79). La sospensione viene disposta dal giudice nel corso del processo, ma lo scioglimento può essere ordinato dal solo Ministro degli Interni in seguito a sentenza definitiva. Certo, a prima vista questa norma può apparire innocua per quanti agiscono alla luce del sole, ma poi basta richiamare alla mente i recenti e sempre più frequenti proclami di politici della destra, come De Corato, ma non solo, che tentano di accreditare le loro campagne politiche contro i centri sociali o i movimenti antagonisti con l'allusione che sarebbero contigui al terrorismo. In altre parole, sarà sufficiente che un condannato per le fattispecie di reato indicate abbia frequentato qualche volta un certo centro sociale o riunione pubblica e il Ministro potrà procedere allo scioglimento.

Infine, vi è il gentile contributo dell'Udc al «pacchetto», cioè l'emendamento, ovviamente accolto, del senatore D'Alia. Si tratta di un vero e proprio intervento censorio rivolto a internet, poiché prevede che se su un sito vengono pubblicati contenuti considerati apologia di reato, istigazione a delinquere o semplicemente un invito «a disobbedire alle leggi», allora il Ministro potrà ordinare al provider di oscurare il sito entro 24 ore. Detto altrimenti, Facebook, You Tube o blog che sia, tutti a rischio censura.

E soprattutto una pesante limitazione della libertà di espressione e di parola di ognuno e ognuna di noi. Non abbiamo mai condiviso l'allarmismo di quanti gridano al lupo, al lupo di fronte a ogni difficoltà, ma quello che sta accadendo oggi, per giunta in maniera accelerata, contiene tutti gli elementi per poter parlare, armati di sano realismo, di una deriva autoritaria. O più concretamente, siamo di fronte all'esplicitazione di che cosa significhi «uscire a destra dalla crisi»: non solo sei chiamato a pagare il prezzo in termini di lavoro, reddito, studio e condizione sociale, ma devi pure stare zitto e applaudire i potenti. E se proprio non ce la fai a tapparti la bocca, allora prenditela con lo straniero della porta accanto o con il barbone. Questo e non altro è il «pacchetto sicurezza» e sarebbe bene che nessuno e nessuna di noi lo dimentichi e che agisca di conseguenza.

L’autore è consigliere regionale Prc

Mi pare indispensabile raffreddare l’entusiasmo con il quale Adriano La Regina in un articolo su la Repubblica di Roma ha salutato la proposta di legge recentemente presentata al consiglio regionale del Lazio relativa a "Conservazione e riqualificazione agricolo-ambientale dell’Agro Romano". Condivido ovviamente fino in fondo gli argomenti esposti per sostenere la necessità e l’urgenza di tutelare la campagna romana, e soprattutto va sottolineata la riflessione che La Regina conduce riguardo all’aspetto dei luoghi, che è "il riflesso dei modi d’uso del suolo", e alla necessità quindi di mantenere e ripristinare le attività che hanno determinato i paesaggi. L’agricoltura, nel caso dell’agro romano.

Il dissenso riguarda il fatto che, nella proposta di legge regionale di cui trattiamo, l’agro tutelato è rappresentato dai territori perimetrati in una cartografia allegata. Sono spazi discontinui, che riguardano il comune di Roma e alcuni comuni limitrofi e non c’è una riga né nella relazione né nelle norme che attesta e documenta in base a quali criteri sono stati disegnati. Si legge solo che l’agro romano comprende "le parti del territorio extraurbano non urbanizzato […] prevalentemente utilizzate per attività produttive agricole o comunque destinate al miglioramento delle attività di conduzione agricola del fondo e che, in prevalente condizione naturale, presentano valori ambientali essenziali per il mantenimento dei cicli ecologici, per la tutela del paesaggio agrario, del patrimonio storico e del suo contesto". Con il massimo rispetto: sono chiacchiere. Dell’ambito di applicazione delle leggi si diceva un tempo ubi voluit dixit. Nel nostro caso, evidentemente, la proposta di legge non volle. E allora non sappiamo perché ci sono ambiti tutelati nel comune di Gallicano del Lazio e non a Pomezia. Perché Riano sì, Formello e Sacrofano no? Delle ragioni certamente ci sono, e allora si dicano. Lo stesso vale per le aree tutelate all’interno del comune di Roma che certamente non sono state scelte a caso.

Il problema che sollevo credo che meriti di essere discusso soprattutto in riferimento alle norme transitorie (art. 3) che disciplinano il, presumibilmente, ahimè, lunghissimo periodo di tempo intercorrente dall’approvazione della legge a quando i comuni avranno adeguato i propri strumenti urbanistici ai precetti del piano paesaggistico regionale, cui spetta di dettare le norme definitive di tutela. Nella lunga fase transitoria, vigono, secondo il progetto di legge, criteri d’uso del suolo abbastanza severi e rigorosi, comunque certamente molto più restrittivi di quelli attualmente in essere nelle ordinarie zone agricole o comunque non urbanizzate. Perciò, non c’è bisogno della zingara per immaginare che nel consiglio regionale del Lazio, intorno al perimetro delle aree sottoposte a tutela, si scateneranno furiosi tentativi per ridurne l’ampiezza. E che, in assenza di criteri oggettivi, scientifici, precisamente definiti e difendibili, si rischia di aprire un inverecondo e micidiale mercato. È evidente infatti che, una volta approvata la legge, un’area non urbanizzata non inclusa nei perimetri di tutela avrà guadagnato un valore enormemente superiore a quello attuale, e sarà difficilissimo difenderla dalla speculazione.

A confermare il mio pessimismo sta il riferimento che lo stesso Adriano La Regina fa alla proposta per salvaguardare le aree dai forti caratteri storici e ambientali della Cecchignola e del Colle della Strega inserendole nel parco dell’Appia Antica. Ma la proposta, scrive La Regina, "ha finora trovato forti ostacoli nella stessa maggioranza della Regione Lazio" e sul medesimo argomento interviene oggi su la Repubblica nazionale Giovanni Valentini. Le aree della Cecchignola e dei Colli della Strega sono comprese nel perimetro delle aree tutelate di cui discutiamo? O no?

"Il Veneto ha già pianificato un'offerta edilizia in eccesso"

Alessandro Zuin, intervista a Domenico PatassiniProfessor Domenico Patassini, preside della facoltà di Pianificazione del territorio allo Iuav, che impatto potrà avere il Piano casa per l'edilizia?

"È evidente che la legge nasce con un connotato anticiclico. Da un lato si propone di rilanciare i consumi sul versante del bene-casa, dall'altro, per la natura stessa dei lavori che prevede, contiene una forma di sostegno alle imprese del settore. Almeno nelle intenzioni".

Per l'appunto: queste intenzioni potranno trasformarsi concretamente in misure anticrisi?

"Studi aggiornati che ci consentano una valutazione dei benefici purtroppo non ne abbiamo, vedo che il Cresme ha cominciato, per ora, a elaborare delle stime. Dal mio punto di vista, ho una netta sensazione: il rapporto tra ciclo economico e ciclo edilizio, oggi, è molto diverso rispetto agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso".

Secondo il suo giudizio, perché proprio il Veneto e la Sardegna fanno da capofila in Italia?

"Non è un caso. La Sardegna, per dire, viene da una fresca campagna elettorale che si è combattuta proprio su questi temi".

E il Veneto?

"Il Veneto esce da un periodo di transizione dalla vecchia alla nuova legge urbanistica regionale, in cui si sono accumulate migliaia di varianti ai Piani regolatori comunali. Questa corsa alla variante ha creato - e noi allo Iuav lo possiamo dire con cognizione di causa, poiché abbiamo studiato il fenomeno per conto della Regione una situazione di sovradimensionamento e di eccesso di offerta edilizia, già pianificata ".

Questo cosa comporta?

"Potremmo tranquillamente fermarci qui per almeno 5 anni e dichiarare una moratoria, senza che le potenzialità dell'offerta edilizia vengano minimamente intaccate".

Il presidente Galan, illustrando gli obiettivi del progetto di legge, ha indicato due bersagli precisi: la "villettopoli" veneta e i capannoni. Missione possibile?

"La legge ha un suo target ed è probabile che questi siano i segmenti che ne beneficeranno di più. Però, ripeto, parliamo di un settore che già adesso è sopra standard, non siamo certo in una situazione di carenza ".

E nei centri storici?

"In molti centri del Veneto ci sono aree dismesse o in via di dismissione, con cubature spesso notevolissime. Occorre che diventino occasione di riqualificazione per le città, più che di aumento delle volumetrie. Il provvedimento di legge, sotto questo aspetto, andrebbe meglio orientato: se c'è una cosa che non si può e non si deve fare, nei centri storici, è intervenire alla spicciolata. La manutenzione urbana è assolutamente fondamentale e costituirebbe un'opportunità enorme per il mercato ".

Il premier Berlusconi, dal canto suo, ha parlato invece di un'occasione per migliorare la "bruttissima edilizia" degli anni Sessanta. Sul fatto che sia brutta è difficile dissentire.

"Potrei presentare, come molto spesso facciamo a scuola, un corposissimo album degli orrori. Basta girare per la nostra "villettopoli", come la chiama Galan, per rendersene conto. Proprio per questo non vorrei che consentire un'aggiunta del 20 per cento, come prevede la legge, finisse per aggravare la situazione, sommando bruttura a bruttura. Meglio una politica di demolizione e ricostruzione, basata non tanto su incentivi individuali quanto, piuttosto, su programmi di riqualificazione urbana".

Venezia che cade a pezzi nel Paese dei maquillage

Roberto Ferrucci

"Piazzale Roma via Canal Grande", esclama il marinaio che ha appena legato il motoscafo linea 52 all'imbarcadero. Utenti stupiti per l'itinerario inatteso e lui: "È crollata la riva di Santa Marta".

Un altro pezzo di Venezia che va giù. Aggiungeteci ponti che si crepano, frammenti marmorei di Palazzo Ducale che precipitano al suolo, cornicioni traballanti. Insomma, Venezia cade a pezzi. E per rimetterla a nuovo, tocca accettare i soldi di chi vuole fare una inestimabile pubblicità ai propri prodotti piazzando davanti ai restauri i loro marchi in formato gigante. Non c'è altro da fare, in questo paese i soldi pubblici per le piccole ma fondamentali cose di tutti i giorni non ci sono più. In questo paese, ormai, viene privilegiata solo la facciata, un appiattimento alla forma, alla vetrina.

Chissenefrega del contenuto.

Che altro sono del resto le grandi opere tanto sbandierate se non la messa in mostra di un paese che dietro la facciata nasconde la sgangheratezza di una quotidianità ormai fuori controllo? E che cosa sono i tagli quasi totali alla cultura e all'struzione se non la rinuncia manifesta al contenuto? Il contenuto che ti fa crescere, che arricchisce menti e anime, non le tasche, non nell'immediato, almeno. E allora via col Mose, già anni fa, opera mastodontica, tutti i soldi concentrati lì per mostrare al mondo chissà cosa e nascondere, invece, dietro la facciata, l'incapacità di occuparsi del quotidiano.

Che senso ha il ponte sullo Stretto quando poi le due regioni che unirà hanno strade che assomigliano a mulattiere? E che senso ha parlare di treni ad alta velocità quando poi i treni di tutti i giorni cadono a pezzi, offrono agli utenti un servizio da paese in via di sviluppo? È la politica dello schermo, quella in atto. È l'equivalente della televisione che invece di mostrarti la realtà, di raccontarti come va il mondo, si concentra in reality show e cronaca spicciola atta ad alimentare paure e intolleranze. La gestione del paese Italia è una gestione di facciata. Una continua e infinita operazione di maquillage, di abbellimento del fuori, dello schermo. E allora, come si esce dalla crisi, quali soluzioni adottare? Semplice, aggiungendo, per esempio, protesi alle proprie ville, ingrandendole, abbellendole.

Così, mentre il paese va a pezzi, gli unici a non essere in crisi sono gli estetisti, perché alle sopracciglia scolpite — maschi e femmine — non si può rinunciare, così come al tatuaggio e al piercing. C'è da tenere in piedi lo show dello schermo, mettere in mostra la facciata, attitudine spiccatamente italiana. Così le costosissime e probabilmente inutili grandi opere vanno avanti, e intanto il paese, Venezia, i treni, le strade della Sicilia, cadono a pezzi.

Come le nostre anime, del resto.

Piano casa, il centrodestra accelera. Le opposizioni: pronti alle barricate

Michela Nicolussi MoroMaggioranza e opposizione preparano la battaglia in Consiglio regionale per l'approvazione del piano casa, varato martedì dalla giunta. Sta ai capigruppo evitare che il progetto di legge voluto dal governo Berlusconi per rilanciare l'economia e recepito subito dal Veneto non ammuffisca per mesi agli ultimi punti dell'ordine del giorno. Ipotesi che Remo Sernagiotto (Fi) e Piergiorgio Cortelazzo (An) spazzano via: "Già la prossima settimana il testo approderà in commissione Urbanistica, che lo licenzierà nel giro di dieci giorni, ed entro il 10 aprile riceverà il via libera anche dal consiglio. Siamo d'accordo tra capigruppo di centrodestra. In un momento così difficile, tutto quello che serve a rimettere in moto l'edilizia va promosso subito e poi il provvedimento uscito dalla giunta è perfetto: nessuna cementificazione selvaggia".

"Non ostacoleremo l'iniziativa del governo — aggiunge Onorio De Boni (Udc) — approveremo il piano prima della campagna elettorale". Cronometro alla mano anche per Nereo Laroni (Nuovo Psi): "Questi dispositivi contingenti o passano subito o non hanno più senso. La crisi c'è adesso perciò il progetto, di qualità, non può aspettare i soliti tempi del consiglio, deve avere la precedenza". L'unica condizione la pone Gianpaolo Bottacin (Lega): "Avanzeremo una proposta per migliorarlo, cioè l'inserimento degli incentivi per chi allarga o riqualifica un immobile".

Il centrodestra appare dunque compatto, ma se davvero punta alla rapida approvazione sarà meglio si presenti in aula al gran completo, perchè il centrosinistra non garantisce certo l'assist.

Presenteremo emendamenti — attacca Giovanni Gallo (Pd) — così com'è, la legge non ci convince. Non contiene la vera novità del piano casa, cioè il finanziamento dell'edilizia residenziale pubblica, necessario ai meno abbienti". "Farò di tutto perchè non passi — incalza Pierangelo Pettenò (Rc) — è un'azione che punta a riempire il Veneto di cemento. E poi, in una regione in cui si stanno cancellando centinaia di posti di lavoro chi ha i soldi, almeno 300 mila euro, per demolire e ricostruire?". Ironico Nicola Atalmi (Pdci): "Gli unici beneficiari saranno gli immigrati impiegati nell'edilizia. Ringraziamo la giunta per la sensibilità, ma se pensa di rilanciare l'economia con la liberalizzazione degli abusi edilizi ci riduce a Paese da Terzo Mondo. Cominciamo invece a ripopolare i centri storici, a restaurare gli alloggi popolari e ad abbassare gli affitti: il problema casa tocca chi non ce l'ha, non chi vuole allargarla. Inoltre gli sconti sugli oneri di urbanizzazione svuoteranno le già povere casse dei Comuni".

Nessun "prego s'accomodi" nemmeno da Gustavo Franchetto, vicecapogruppo del-l'Idv: "No a tutto ciò che significa slalom delle regole. Il piano crea conflitti tra cittadini: ognuno guarderà il proprio, senza considerare eventuali danni al prossimo. Risolviamo piuttosto il problema delle migliaia di appartamenti rimasti invenduti perchè la gente non ce la fa a pagare il mutuo. Diamole i mezzi, con lavori sicuri e stipendi adeguati". Avverte Gianfranco Bettin (Verdi): "Cercheremo di migliorare il dispositivo, che altrimenti bocceremo. Lavoreremo sul ricostruire per riqualificare, ma senza aggiungere altro cemento. Sennò il progetto rischia di essere un'ulteriore facilitazione al saccheggio del territorio ".

Che effetto fa vivere in un paese dove il presidente del Consiglio dichiara di voler chiudere il Parlamento? Non lasciamoci rassicurare da chi dice che questa proposta "cadrà nel vuoto". Non banalizziamo, non derubrichiamo a battuta occasionale un’affermazione così pesante secondo un costume invalso in questi anni e che ha portato al degrado del linguaggio e della politica. Le parole aggressive della Lega sono state un potente veicolo di promozione degli spiriti razzisti. Lo stillicidio delle dichiarazioni di Berlusconi contribuisce a distruggere gli anticorpi che consentono ad un sistema di rimanere democratico. Soprattutto, non isoliamo le ultime affermazioni del presidente del Consiglio da un contesto ormai caratterizzato da un quotidiano attacco alla Costituzione.

Si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione, proprio quella che, a parole, si dice di voler tenere fuori da ogni proposito di riforma. La legge all’esame del Senato sul testamento biologico viola la libertà personale e l’autodeterminazione delle persone. Si mettono in discussione la libertà d’espressione e il diritto dei cittadini ad essere informati con la legge sulle intercettazioni telefoniche. Si nega il diritto alla salute come elemento essenziale della moderna cittadinanza quando si prevede che i medici possano denunciare un immigrato irregolare la cui unica colpa è la richiesta di cure. Si privatizza la sicurezza pubblica legittimando le ronde, con una abdicazione pericolosa dello Stato da una delle funzioni che ne giustificano l’esistenza. Si avanzano proposte censorie che riguardano Internet. Si erodono le garanzie della privacy per improprie ragioni di efficienza. Si propone una banca dati del Dna con scarse garanzie per la libertà delle persone.

Non era mai accaduto che il nostro sistema politico vivesse quotidianamente ai margini della legalità costituzionale, che si dubitasse della costituzionalità di tutte le leggi di qualche peso in discussione alle Camere. Si altera così il funzionamento del sistema istituzionale, e si trasferisce l’intero compito di garantirne il corretto funzionamento ai "due custodi", il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, di cui si accentuano le responsabilità e la politicità. E si dimentica che proprio la cultura costituzionale segna la politica e la civiltà di un paese.

Distogliamo per un momento lo sguardo dalle nostre lacrimevoli vicende, e rivolgiamolo agli Stati Uniti. Barack Obama non sta soltanto liberando il suo paese da inammissibili vincoli, come quelli sul divieto del finanziamento pubblico alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, mostrando come sia possibile e necessaria una politica lungimirante e svincolata da ipoteche fondamentaliste. In un documento indirizzato a tutti i responsabili dell’amministrazione federale, Obama ha scritto che, "esercitando la mia responsabilità nel decidere se una legge sia incostituzionale, agirò con prudenza e misura, basandomi unicamente su interpretazioni della Costituzione che siano solidamente fondate".

Qui è evidente l’imperativo di allontanarsi dalle pratiche lesive dei diritti dell’amministrazione Bush, proprio per ricostituire quegli anticorpi democratici la cui distruzione stava minando la coesione interna e la stessa credibilità degli Stati Uniti.

Quale distanza, quale abisso ci separano da questa volontà di ridare la bussola costituzionale al funzionamento dell’intero sistema politico, e quale deriva ci sta travolgendo proprio perché stiamo abbandonando quella bussola. Grande, allora, diviene la responsabilità della cultura che si cimenta proprio con il tema della Costituzione, e con il modo in cui oggi si deve guardare ad essa.

Le reazioni, gli atteggiamenti sono diversi. Si è diffidenti verso una difesa della Costituzione che sembra fine a se stessa, che non tiene nel giusto conto la dimensione della politica. Che è preoccupazione giusta a condizione, però, che la sacrosanta invocazione di una politica non più latitante abbia quei solidi fondamenti che, per le ragioni appena accennate, debbono essere trovati proprio nei principi costituzionali. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una politica "costituzionale".

Della legittimità stessa di questa politica si dubita quando si mette in evidenza che proprio la prima parte della Costituzione, quella delle libertà e dei diritti, è segnata da un inaccettabile statalismo, dall’accentuazione di una funzione protettiva delle istituzioni pubbliche che apre la porta alle tentazioni stataliste. È singolare, o rivelatore, il fatto che questo atteggiamento ritorni proprio nel momento in cui i guasti enormi della economia deregolata hanno fatto emergere una imperiosa richiesta di regole. Disturba, ad esempio, il fatto che si adoperi la parola "tutela" quando ci si riferisce alla salute. Eppure proprio negli Stati Uniti, nella materia della salute, si è verificato un gigantesco fallimento del mercato e la riforma del sistema è un punto chiave del programma di Obama.

Si torna, poi, a ripetere che la nostra Costituzione dovrebbe essere modificata perché non dà spazio adeguato al riconoscimento del mercato. Che cosa dovrebbe dire, allora, la Germania la cui costituzione parla di una proprietà il cui "uso deve servire al bene della collettività"? La verità è che rimane forte il fastidio per un contesto che vuole il mercato rispettoso dei diritti fondamentali. In Italia si è arrivati a proporre l’abrogazione dell’articolo 41 della Costituzione, che stabilisce che l’iniziativa economica privata "non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Statalismo o soglia minima di civiltà?

La spallata berlusconiana al Parlamento nasce in tempi di costituzionalismo debole e ha come fine, insieme alla cancellazione del sistema parlamentare, l’azzeramento delle garanzie, lo smantellamento del sistema dei diritti.

«Ci siamo illusi che la democrazia fosse un sistema naturale, nelle corde dell´essere umano. Non è così». Partendo da questa premessa, Gustavo Zagrebelsky ha presentato ieri al Vittoriano la prima edizione della Biennale Democrazia di cui è presidente. La manifestazione vede nel comitato dei garanti Stefano Rodotà e Franco Cardini, presenti all´incontro moderato dal direttore di Reset Giancarlo Bosetti, ed è in programma a Torino dal 22 al 26 aprile. In calendario oltre cento appuntamenti, tra tavole rotonde e dibattiti, inaugurati da una lezione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Teatro Regio.

Quella del capo dello Stato, però, sarà l´unica presenza "politica" prevista: «La nostra iniziativa - spiega infatti Zagrebelsky - esclude la partecipazione dei partiti. Non diventerà la tribuna di nessuno, anche se abbiamo ricevuto richieste di esponenti politici. Faremo cultura civilmente impegnata, interrogandoci su quali possano essere le forme concrete di democrazia nel nostro tempo. Oggi ci accorgiamo, non solo in Italia, che la democrazia è una forma di convivenza sempre a rischio. Se gli altri regimi politici, come la monarchia, hanno riservato una certa attenzione all´educazione dei governanti, in democrazia i governanti e i governati coincidono. Siamo noi a governare, ma - e la crisi dell´educazione civica lo dimostra - trascuriamo l´educazione al governo. La Biennale affronterà tutte queste tematiche inserendole in una prospettiva globale».

L´iniziativa si colloca nel solco tracciato dalle "Lezioni Bobbio", ideate da Pietro Marcenaro a Torino nel 2004, all´indomani della morte del filosofo. L´obiettivo è di alimentare il dibattito pubblico tra intellettuali, accademici, studenti e semplici cittadini su temi e sfide a cui la democrazia è sottoposta oggi, come il multiculturalismo e il testamento biologico.

«Perché una democrazia funzioni, occorre che il cittadino sia fornito di strumenti conoscitivi, anche su temi legati al progresso scientifico - dice Stefano Rodotà -. È un problema con cui ci siamo confrontati in occasione del referendum sulla procreazione assistita, quando ci fu chi invitava a non votare perché il tema era troppo tecnico. Luigi Einaudi ripeteva: "Conoscere per deliberare". La Biennale si eserciterà su questo. Il testamento biologico è solo una delle tante questioni. In Italia, ha avuto una valenza sopra le righe, caricandosi di significati politici e religiosi. Altrove il tema è stato risolto con più semplicità».

Franco Cardini, storico del Medioevo tra due giuristi, ha accettato di far parte della Biennale con qualche dubbio: «Non sono uno specialista di tutto ciò che riguarda la democrazia. Ma mi accorgo che le democrazie finiscono perché la gente è stanca, si disamora della politica, perde il diritto di votare perché non lo esercita. E così si finisce col perdere anche la libertà. Ci sono rischi da enumerare sui pericoli che ricorrono quando si parla di democrazia. La riflessione su qualunque argomento è un po´ come la nottola di Minerva: si leva solo al tramonto». Insomma, se la democrazia godesse di ottima salute, non ci sarebbe bisogno di dedicarle una biennale.

Eccola la democrazia berlusconica, cioè la democrazia supersonica. Davanti all’assemblea dei deputati del Pdl, il premier ha chiarito quali sono le riforme istituzionali a cui tiene. Liquidare i regolamenti parlamentari «inadeguati», riassumere il voto dei singoli nel voto dei capigruppo, in modo da procedere indisturbati all’approvazione delle leggi. Senza dibattiti, con il voto perlopiù nelle commissioni, e l’aula che si riduce a un coro muto. Il governo decide, e le anime morte guardano.

Questa sarebbe la modernità. Una modernità spettrale e per ora solo berlusconiana, dal momento che il presidente della Camera, Gianfranco Fini, poco dopo avere candidato informalmente il premier al Quirinale, ha liquidato con freddezza il nuovo numero del capo del governo. Ma anche quest’altra sortita del premier, esposta fra storielle di vita vissuta, scherzi sulla sua età, accenni ridenti alle fidanzate del ministro Frattini, inni alla libertà e all’ottimismo, rappresenta un segnale fin troppo chiaro di quale sia la concezione della democrazia nella versione di Berlusconi.

Dunque, efficienza, rapidità, tempestività. Ma non si avverte un sentore, altro che di modernità, di procedure rudimentali, un che di medievale e imperfetto, di corporativo e di vincolante, tutto a scapito delle libere decisioni dei rappresentanti della nazione (per il momento, a rigor di Costituzione, eletti senza vincolo di mandato)? Sotto questa luce, è inutile perfino addentrarsi nelle tecnicalità, e discutere ad esempio su come si potrebbe svolgere nei fatti il voto in dissenso, e immaginare invece quali forzature si prospetterebbero sulla libertà e la volontà dei singoli nel giudizio parlamentare dei provvedimenti.

Occorre piuttosto prendere atto che Berlusconi persegue un suo disegno di svuotamento delle istituzioni e di restringimento di tutte le sedi di discussione. Lo si era avvertito nei giorni del caso Englaro, con le minacce sul «tornare al popolo» per farsi concedere la possibilità di governare per decreto. Da tempo circolano voci e sussurri sull’intenzione berlusconiana di cercare il pretesto per una nuova e plebiscitaria investitura elettorale. Ma in realtà non passa giorno senza che affiori un’intenzione tesa al ridimensionamento della rappresentanza. Quindi fra i sorrisi e gli scherzi di ieri si avverte in realtà la violenza di un nuovo strappo, che si aggiunge ai precedenti, e configura un’idea di democrazia tanto suggestiva per il decisionismo berlusconiano e quanto inquietante per tutti gli altri.

Il capo plebiscitato da un popolo "mediatizzato" emana ordini, una sorta di gabinetto consortile dà forma alle leggi, un parlamento anonimo, possibilmente dimezzato negli organici, approva attraverso l’inchino dei suoi rappresentanti. Altro che modernità. Questo è l’ancien régime. Un potere indiscusso che presiede una forma di rappresentanza premoderna, dai diritti depotenziati.

Gli effetti dell’attacco berlusconiano, ora strisciante ora conclamato, sono già prevedibili. In primo luogo risulterà impresentabile qualsiasi progetto di riforma costituzionale, perché anche i cambiamenti in apparenza più ragionevoli, come l’eliminazione del bicameralismo e la riduzione dei parlamentari, si iscriverebbero comunque del disegno voluto da Berlusconi. Allora arriveranno altri strappi, altre lacerazioni, presentate ogni volta sotto il vessillo della razionalità, e brandite provocatoriamente contro l’immobilismo altrui.

Ecco perché nel frattempo si dovrà guardare con serietà e preoccupazione alle elezioni europee. Un altro sfondamento berlusconiano preparerà il terreno a ulteriori «pulsioni autoritarie», come le hanno definite nel Pd. Converrà allora essere consapevoli di quale posta Berlusconi ha messo sul tappeto. Perché, ridendo e scherzando, ci si gioca la qualità democratica della Repubblica.

Una proposta di legge della Regione Lazio presentata da consiglieri della maggioranza, riguardante la protezione dell’agro romano dall’incalzante aggressione speculativa, verrà presto posta all’esame del Consiglio regionale. L’iniziativa è stata presentata al pubblico con il motto "una bella campagna per Roma". Interessi immobiliari e dilagante abusivismo da una parte, e debolezza degli strumenti di difesa dall´altra, sono all´origine delle degradanti trasformazioni che da anni investono il territorio circostante la città. Se il fenomeno non sarà riportato sotto controllo, le aree agricole gravitanti su Roma saranno ben presto svilite nelle loro potenzialità produttive e occupazionali, con danno economico per la città e con effetti devastanti su un paesaggio da secoli conosciuto e amato in tutto il mondo.

Il provvedimento, inteso al mantenimento delle caratteristiche, degli elementi costitutivi e della morfologia del paesaggio agrario, consentirà alla Regione di individuare sulla base del Codice dei beni culturali e del paesaggio le zone agricole da sottoporre a tutela. All’interno delle aree così delimitate saranno ammessi solamente interventi per lo svolgimento delle attività rurali, per la conservazione degli aspetti storici, paesaggistici, naturalistici, e per la difesa del suolo.

Per quanto concerne la tutela del paesaggio la proposta è straordinariamente innovativa. Le leggi finora approvate, a partire da quella del 1939 sulla protezione delle bellezze naturali, si sono rivelate inefficaci. Basta guardarsi intorno per constatare cos’è avvenuto in molte delle località più belle d’Italia. Un fallimento così generalizzato, anche laddove più attenta è stata l’azione di controllo, rivela carenze normative ben precise.

Si è infatti finora ritenuto che per tutelare i caratteri formali di un luogo, ossia ciò che definiamo "paesaggio", fosse sufficiente intervenire con provvedimenti di natura meramente formale. La "forma" nel suo grado di maggior pregio, la "bellezza", è stata intesa come categoria autonoma, difendibile in se stessa mediante norme che ne imponessero la conservazione. L’attività degli uffici preposti alla tutela del paesaggio si è di solito così risolta nella formulazione di prescrizioni riguardanti la qualità degli interventi senza alcuna considerazione per le alterazioni strutturali, quali ad esempio la destinazione d’uso.

Ha stentato insomma ad affermarsi, riguardo alla nostra concezione di paesaggio, la consapevolezza del nesso tra forma e struttura. L’aspetto dei luoghi è infatti il riflesso dei modi d’uso del suolo. Questo è il motivo per cui la conservazione e la ricostituzione di un paesaggio si possono ottenere non altrimenti che mediante il mantenimento e il ripristino delle attività che lo avevano determinato. Nell’ambito del Parco regionale dell’Appia antica si è infatti deciso di sostenere e ricostituire, nella misura possibile e in modi controllati, le attività produttive che attraverso i secoli avevano creato quel paesaggio agrario in cui sono inserite le spettacolari rovine dell’antichità.

Vi è un altro motivo per cui possiamo ritenere che i criteri adottati con questo provvedimento possano dimostrarsi efficaci. Essi hanno un precedente illustre nella legge urbanistica del 1967, la quale istituì la tutela dei centri storici, allora in rapido decadimento ed esposti a gravi alterazioni, consentendo nel loro ambito solamente interventi di conservazione e restauro. Quella legge fu allora avversata perché, si sosteneva, avrebbe provocato un ulteriore impoverimento dei centri storici e il loro abbandono. Avvenne invece il contrario: l’obbligo di conservazione promosse forme di autorisanamento e di valorizzazione senza interventi di spesa pubblica.

Così, parimenti, il mantenimento e la protezione dell’agricoltura possono evitare ogni ulteriore consumo della campagna indirizzando le attività edilizie sul recupero delle grandi superfici suburbane degradate e male utilizzate, sulla sostituzione di interi comprensori abitativi privi di dignità urbana. La legge potrà costituire un correttivo agli aspetti più deboli del nuovo Piano regolatore di Roma, che hanno aperto la strada all’urbanizzazione di vaste e pregiate porzioni dell’agro romano, senza peraltro istituire regole atte a garantire l’integrità delle zone di cui è stata confermata la destinazione agricola. La prospettiva di una celere approvazione, prima dell’estate, trova consensi nella maggioranza del Consiglio regionale.

La permissività urbanistica ha infatti determinato reazioni di contrarietà in settori sempre più ampi di un’opinione pubblica ormai attenta alle vicende del suburbio romano. È di questi giorni una nuova sollevazione di residenti nell’area della Cecchignola, i quali hanno insistito per anni, persino con un proposta di legge di iniziativa popolare, per la salvaguardia del Colle della Strega, un lembo di territorio dai forti caratteri ambientali e storici che rischia di essere travolto dalla costruzione di nuovi palazzi. Ne era stato prospettato l’inserimento nell´adiacente Parco dell’Appia, ma la legge di ampliamento del parco ha finora trovato forti ostacoli nella stessa maggioranza della Regione Lazio. Le annunciate misure governative a favore dell’edilizia costituiscono un ulteriore motivo di preoccupazione anche per la sorte dell’agro romano.

Periodicamente qualcuno proclama la fine dell'era postmoderna, con questa espressione approssimativa intendendo cose altrettanto approssimative quali la rivincita del materiale sul virtuale, del reale sull'immaginario, dell'etica collettiva sul desiderio individualistico eccetera. Accadde ad esempio nell'immediatezza dell'11 settembre, quando il trionfo dell'immaginario sul reale parve toccare il suo apice e cominciare perciò la sua parabola discendente: quei due aerei-cyborg che si infilavano nelle torri gemelle, improvvisa materializzazione dell'incubo hollywoodiano dell'invasione degli alieni, per un verso segnalavano la potenza dell'immaginario, per l'altro verso lo riportavano alla dura realtà della morte, del terrorismo, della guerra. Si disse allora infatti che quelle immagini ossessivamente ripetute dalle tv di tutto il pianeta, che peraltro si aggiungevano ai primi segnali di crisi dell'economia virtuale, segnavano la fine del postmoderno. E negli anni successivi, campagne morali, ideologie nazionaliste e belliciste e «guerre culturali» dell'America di Bush jr. si sono variamente scagliate contro il postmodernismo (e contro i campus universitari rei di averlo cavalcato), sinonimo di lassismo morale, individualismo, nichilismo, disinvestimento dai valori «veri» eccetera. Una campagna che, se ha avuto i suoi bastioni nei neocons, ha trovato sostenitori anche in alcuni settori «leftist» legati alla tradizione più ortodossa e da sempre diffidenti verso l'ideologia postmodernista.

Ma un conto è l'ideologia postmodernista, un conto sono le trasformazioni reali che marcano una discontinuità senza ritorno fra modernità e tarda modernità e che è pura fantasia nostalgica pensare di poter periodicamente cancellare. Per stare ancora all'esempio dell'11 settembre, il seguito della vicenda storica si è incaricato di dimostrare l'ovvio, e cioè che non era in corso un derby fra virtuale e materiale, immaginario e reale, soggetti morali e soggetti amorali eccetera, ma un conflitto globale che coinvolgeva tutti questi campi e ciascuno di essi, ridisegnando i confini mobili e sottili che nella tarda modernità li separano. Basta pensare al gioco di cruda materialità e cinica virtualità tipico delle guerre scatenate dopo l'11 settembre per capirlo.

Adesso la storia si ripete sulla scia della crisi economica e delle sue prevedibili e imprevedibili conseguenze sul piano politico, sociale, antropologico. Sul Corriere della Sera di ieri era la rubrica settimanale di Francesco Alberoni a intonare il mantra della fine del postmoderno, dandone, va detto, una versione alquanto caricaturale: postmoderna sarebbe una società in cui «spariscono non solo le ideologie ma tutte le certezze»; in cui «realtà e illusione si confondono, non conta più la realtà oggettiva ma solo l'immagine e l'apparenza»; in cui «perde importanza lo stato», i cittadini diventano consumatori, «non ci si arricchisce facendo buoni prodotti ma con astute operazioni finanziarie, tutto è provvisorio, liquido, dominano l'individualismo e l'edonismo».

Caricature a parte (Lyotard si rivolterebbe nella tomba), andiamo al sodo delle conclusioni di Alberoni, che come sempre raccolgono e riecheggiano un senso comune facile e diffuso: «Oggi ci rendiamo conto che continua ad esserci differenza fra reale e immaginario, fra realtà e apparenza. Ci sono banche e imprese che falliscono realmente, ci sono disoccupati veri, poveri veri, occorrono investimenti veri. Bisogna fare davvero delle scelte, prendere davvero delle decisioni. Il consumatore non è più il re capriccioso di ieri, deve fare i conti con precisione. E tutti torniamo a guardare allo stato, per prime le banche e le imprese».

Ora è indubitabile che la crisi economico-finanziaria stia avendo questo effetto di disvelamento della cruda realtà dei numeri e delle disuguaglianze occultata dall'ideologia delle magnifiche sorti del neoliberismo e del capitale finanziarizzato. Ma è altresì indubitabile primo, che questa cruda realtà era perfettamente leggibile anche quando era coperta da quell'ideologia a chi solo lo volesse, secondo, che raccontarsela in modo tanto semplice sul confine fra realtà e apparenza così come sul ritorno alla retta via dell'homo oeconomicus fin qui coccolato nelle nostre democrazie a destra e a manca, è - questo sì - illusorio e non ci aiuta a capire granché di quello che sta capitando. In primis, l'impasto di virtuale e reale che è proprio della finanziarizzazione del capitale e che fa saltare la linea di demarcazione fra economia reale e economia finanziaria, fra comportamenti virtuosi del risparmiatore e soddisfazione egoistica del desiderio del consumatore, fra sfruttamento del lavoro materiale e sfruttamento del lavoro immateriale, fra profitto e rendita e via dicendo. Forse, se invece di proclamare ogni settimana la fine di un'era e l'inizio di un'altra ritrovassimo il gusto di analizzare pazientemente continuità e delle discontinuità il senso della realtà ne trarrebbe giovamento.

Trent’anni fa un giovane economista inglese, Fred Hirsch, poi immaturamente scomparso, pubblicò un libro intitolato I limiti sociali dello sviluppo. Era un libro elegante e intrigante, che affrontava allora il cuore di quello che è poi diventato il problema della crescita.

Al di là dei livelli di produzione che soddisfano i bisogni di autosufficienza - questo era il tema - le soddisfazioni che se ne traggono dipendono in misura crescente non dal proprio consumo individuale, ma dai consumi degli altri. Per un uomo affamato la pagnotta è un bene tipicamente privato. Per un pedone che transita in città l’aria che respira è un bene pubblico. Elementare, Watson. Ma mica tanto.

La scienza economica, infatti, ha riconosciuto il fenomeno dell’interdipendenza (le cosiddette economie e diseconomie esterne) ma lo ha relegato (quell’aggettivo «esterne» è significativo) in secondo piano rispetto all’importanza primaria dei bisogni e dei consumi individuali. Sono stati così gravemente sottovalutati i limiti che all’accumulazione e al consumo della ricchezza derivano dai comportamenti sociali. Il problema è diventato drammatico per quanto riguarda i guasti inferti dai comportamenti collettivi all’ambiente naturale. E sta diventando sempre più drammatico per quel che riguarda i comportamenti «morali». Leggendo l’articolo di Jean Paul Fitoussi (Se torna l’etica nel capitalismo, Repubblica del 23 febbraio) mi sono venute in mente proprio le considerazioni fatte da Fred Hirsch a proposito della morale come bene collettivo e della esigenza vitale, per la stessa sopravvivenza del capitalismo moderno, di quella che egli definiva una «moral reentry»: un «ritorno alla morale».

Hirsch era un disincantato economista liberale e non incline alle prediche. Ma sapeva bene che le due forme tipiche del capitalismo, l’impresa e il mercato, non possono tenersi insieme se non sulla base di una legittimazione morale: che può essere la «pietas» cattolica, la «grazia» calvinista, o la «simpatia» di Adam Smith. Ciascuna di queste «passioni», religiose o laiche, pone limiti al comportamento egoista. Limiti logici, prima che morali: come quello dell’impossibilità che tutti possano stare «meglio degli altri». Quei limiti impediscono che il comportamento egoista, varcando i limiti della logica, diventi distruttivo.

Ora, proprio questo è avvenuto nelle due grandi crisi che hanno investito il capitalismo moderno, quella degli anni Trenta del secolo scorso e quella attuale. È avvenuto che l’avidità e il successo individuale sono stati eretti a principio collettivo: l’ideale impossibile che tutti possano star meglio degli altri. Il che ha indotto istituzioni severissime, come le Banche Centrali, a praticare politiche di indebitamento sconsiderate, che a loro volta incoraggiavano comportamenti irresponsabili scorretti o criminosi da parte di amministratori, dirigenti, consulenti, di ogni ordine e grado.

È significativa l’analogia tra guasti ambientali e guasti morali dell’economia. Entrambi discendono dall’insostenibilità di comportamenti distruttivi: degli equilibri naturali nel primo, degli equilibri etici nel secondo caso. Ma questa insostenibilità non è il risultato di una patologia del sistema. È invece il frutto di una esasperazione della sua logica. La logica del capitalismo è l’accumulazione. La quale è per natura illimitata. Si dovrebbe dire, più propriamente, sterminata. Ed è una logica impossibile, quindi illogica.

È la logica della sterminatezza che sta alla base sia dei disastri ambientali che di quelli finanziari. E dovrebbe essere venuto il momento di opporre a questa logica dissennata l’etica dei limiti. Di combattere la vergogna criminale dei paradisi fiscali. Di limitare la «creatività» delle scommesse finanziarie. Di rallentare i movimenti di capitale speculativi. Di reintrodurre politiche dei redditi che proporzionino lavoro e produttività. Di introdurre misure di decenza nella sfrenata corsa delle rendite manageriali. Di osservare proporzioni programmatiche nella dinamica rispettiva dei consumi pubblici e di quelli privati.

Insomma, di realizzare una «moral reentry» dalla follia che ci ha condotto a questo passo. E che non riguarda solo l’economia, ma anche e soprattutto la politica. Vedete: quando dalla sommità della politica, si fa per dire, giunge un messaggio di comprensione dell’evasore fiscale, è lì che si misura il guasto arrecato all’etica del capitalismo. Quando io difendo le ragioni dell’antiberlusconismo non mi curo delle battute sulle donne (ciascuno ha i suoi gusti) ma dell’immoralità politica di quel messaggio (come di tanti altri dello stesso «tenore», nel doppio senso) e dell’insensibilità che insigni maestri di «liberalismo» dimostrano nell’accantonarlo.

Un piano straordinario per l'edilizia

libertà di ampliare o ricostruire

diAlessandra Carini

C'è chi la chiama legge anti-catapecchie, chi un rinnovamento edilizio stile Obama, cioè per promuovere l'utilizzo delle fonti di energia alternativa. Ma la rivoluzione annunciata da Silvio Berlusconi per l'edilizia, "un piano straordinario con effetti eccezionali sulla casa", dice il premier, promettendone l'approvazione al prossimo consiglio dei ministri, è anche qualcos'altro.

C'è un intervento di edilizia popolare con un piano da 550 milioni concordato con le regioni: le case saranno date in affitto a giovani coppie, anziani, studenti e immigrati regolari, con diritto di riscatto. Ma il grosso della manovra è un altro: il via libera a un sostanzioso aumento delle cubature di tutto il patrimonio edilizio esistente, una liberalizzazione spinta delle norme per costruire, un ritorno in alcuni casi al "ravvedimento operoso" dal sapore di condono. C'è un articolato, già discusso da Berlusconi con i governatori del Veneto, Giancarlo Galan, e della Sardegna, Ugo Cappellacci, che costituisce l'ossatura di quella "rivoluzione" annunciata ieri, che ha ottenuto già l'approvazione delle due Regioni. È probabile che al prossimo consiglio dei ministri il premier proponga un progetto molto simile a quello dei governatori.

Vediamolo questo progetto di stampo "federalista" che potrebbe essere ripreso in gran parte dal governo. Titolo: "Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per promuovere l'utilizzo di fonti di energia alternativa". Dà la possibilità alle Regioni che la accettino, di ampliare gli edifici esistenti del 20%, di abbattere edifici ( realizzati prima del 1989) per ricostruirli, con il 30% di cubatura in più, in base agli "odierni standard qualitativi, architettonici, energetici", di abolire il permesso di costruire per sostituirlo con una certificazione di conformità, giurata, da parte del progettista, di rendere più veloci e certe le procedure per le autorizzazioni paesaggistiche.

Il primo punto riguarda l'ampliamento degli edifici esistenti. I Comuni posso autorizzare, " in deroga ai regolamenti e ai piani regolatori" l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20% del volume, se gli edifici sono destinati ad uso residenziale, del 20% della superficie se sono destinati ad altri scopi. L'ampliamento deve essere eseguito vicino al fabbricato esistente. Se è giuridicamente o materialmente impossibile sarà un " corpo edilizio separato avente però carattere accessorio". In caso di edifici composti da più unità immobiliari l'ampliamento può essere chiesto anche da singoli separatamente.

Ma non basta. La Regione "promuove" la sostituzione e il rinnovamento del patrimonio mediante la demolizione e la ricostruzione degli edifici realizzati prima del 1989, che non siano ovviamente sottoposti a tutela, e che debbono essere adeguati agli odierni standard qualitativi, architettonici ed energetici. Anche qui i Comuni possono autorizzare l'abbattimento degli edifici ( in deroga ai piani regolatori) e ricostruirli anche su aree diverse ( purché destinate a questo scopo dai piani regolatori). Qui l'aumento di cubatura previsto è del 30% per gli edifici destinati a uso residenziale, e del 30% della superficie per quelli adibiti ad uso diverso. Se si utilizzano tecniche costruttive di bioedilizia o che prevedano il ricorso ad energie rinnovabili l'aumento della cubatura è del 35%.

Tutti questi interventi debbono rispettare le norme sulle distanze e quelle di tutela dei beni culturali e paesaggistici, non potranno riguardare edifici abusivi, o che sorgono su aree destinate ad uso pubblico o inedificabili, non potranno essere invocate per aprire grandi strutture di vendita, centri commerciali. Sono previsti sconti fiscali: il contributo di costruzione sugli ampliamenti sarà infatti ridotto del 20% in generale e del 60% se la casa è destinata a prima abitazione del richiedente o di uno suo parente entro il terzo grado.

Fin qui la legge che verrà proposta alle Regioni, che ha già la disponibilità di Veneto e Sardegna, anche se non c'è dubbio che, con Comuni assetati di quattrini e assediati dalla crisi economica, le adesioni saranno molte. C'è anche una ridefinizione delle sanzioni, solo amministrative nei casi più lievi e più severe se nel caso di beni protetti. E' previsto un ambiguo "ravvedimento operoso con conseguente diminuzione della pena e nei casi più lievi estinzione del reato", dal sapore di condono, e norme per semplificare le procedure riguardanti i permessi in materia ambientale e paesaggistica.

Hotel di lusso nelle ex caserme

per finanziare le missioni militari

diLuisa Grion

Dalla camerata alla suite, dai militari di leva ai turisti. Là dove ieri c'era una caserma, domani ci sarà un albergo; là dove una volta l'aria risuonava di batter di tacchi e "signorsì", si sentirà solo il brusio ovattato delle grandi hall. Il ministero della Difesa vuole vendere o affittare una bella fetta del suo patrimonio immobiliare, mille edifici circa, di cui 200 di prestigio. Molte caserme, ma anche vecchi arsenali o fabbriche di armi. L'obiettivo, chiaramente, è quello di fare cassa, di recuperare liquidità da reinvestire, magari per finanziare le missioni militari all'estero.

In tempi di magra, infatti, si vendono i gioielli di famiglia e la Difesa ne ha diversi; perché nascosti fra centinaia di caserme in disuso (le esigenze di un esercito di professionisti sono diverse rispetto a quelle dei tempi della leva) vi sono anche palazzi storici e siti di prestigio. Ci sono per esempio l'arsenale di Venezia e l'isola di Sant'Andrea, l'arsenale di Taranto, l'isola Palmaria a La Spezia, il deposito di Punta Cugno ad Augusta, le caserme Cavalli e il Comprensorio San Gallo a Firenze, la Tagliamento a Bologna, La Marmora e Mardichi a Torino, la Montebello a Milano.

Ecco, il ministro Ignazio La Russa intende affittare o magari vendere (non subito, l'attuale legge non lo consente) tale patrimonio. Per metterlo in mostra parteciperà, nei prossimi giorni (dal 10 al 13 marzo), alla fiera immobiliare di Cannes: dove la Difesa organizzerà un suo stand, giusto per "prendere il biglietto da visita dei potenziali acquirenti".

E' sottinteso che sarà molto più difficile piazzare la sperduta caserma in disuso sul confine del Nord Est piuttosto che la prestigiosa sede amministrativa in centro o l'infrastruttura collocata a due passi da una zona turistica, ma il ministro La Russa mette in conto anche di cedere usi e proprietà a comuni e regioni in cambio di case per i militari ("vi è una domanda superiore all'offerta") o della costruzione di nuove sedi in nuovi posti. Oppure di cedere le parti degli arsenali meno prestigiose all'industria privata.

Sia chiaro: l'intenzione, spiega il ministro: "Non è di decurtare l'operatività e l'efficienza dei nostri militari, ma anzi di migliorarla. E per farlo ci sono due strade, entrambe da percorrere: il riordino del settore e i maggiori introiti". In tempi di tagli alla spesa pubblica però, meglio pensarci da soli e sacrificare qualche bene al sole.

Il fatto è che l'operazione rischia di dar vita ad un "doppione" e sprecare così parte delle risorse recuperate. Perché l'idea di cedere o affittare pezzi del patrimonio pubblico non è una novità: nel precedente governo Prodi era stata avviata una operazione ad hoc, chiamata "Valore Paese", che avrebbe dovuto appunto valorizzare gli immobili della Difesa. Il progetto era stato affidato all'Agenzia del Demanio, guidata allora da Elisabetta Spitz, alla quale - attraverso due decreti - la Difesa stessa aveva "girato" la gestione di circa 400 caserme. L'Agenzia avrebbe dovuto concederle in affitto per 50 anni garantendo agli affittuari la tutela degli investimenti effettuati. Poi il governo è cambiato, la Spitz è stata sostituita con Maurizio Prato e l'operazione non è mai davvero decollata. Peccato che nel frattempo l'Agenzia si fosse dotata di una Spa istituita apposta e tuttora esistente, necessaria per seguire gli affitti (e un domani, probabilmente le vendite). E che la Difesa - che nel frattempo si è ripresa l'Arsenale Venezia "passato" a suo tempo alla Spitz - ancora non ce l'abbia. Quando l'offerta sul mercato davvero ripartirà, gli immobili e terreni di Stato potranno comunque contare sulla "concorrenza" di ben due "agenzie".

La nuova America di Barack Obama mantiene le promesse riguardo i diritti umani violati a più riprese dall'amministrazione di Bush Jr. La Commissione di intelligence del Senato americano indagherà a breve sui metodi di interrogatorio e sulle modalità di detenzione messe in atto negli anni scorsi dalla Cia nei confronti di presunti terroristi. La notizia - confermata da fonti del partito democratico del Congresso - è stata ignorata dalla maggior parte dei mezzi di informazione italiani, anche da quelli che parlano molto - ma un po' ritualmente - di diritti umani.

Il silenzio è sconcertante, specie se si considera, per esempio, che nel lager di Guantanamo, dove i detenuti erano reclusi in celle simili a stie per polli, dal 2001 al 22 gennaio di quest'anno, quando il nuovo presidente degli Stati uniti, evidentemente anche lui turbato da questo quadro, ha dato l'ordine di chiuderlo, sono transitati 775 prigionieri dei quali 420 sono stati liberati, dopo torture e offese, senza nessuna accusa o incriminazione. Un contesto tragicamente simile a quello descritto da Claudio Fava, giornalista, scrittore e parlamentare europeo, presidente della Commissione che ha indagato sulle extraordinary rendition, in un passaggio della prefazione per il libro di Giulietto Chiesa Le carceri segrete della Cia in Europa: «Questa storia è anche un viaggio nell'orrore e nel ridicolo: nomi storpiati, abbagli, menzogne. Con un più tragico e grottesco dettaglio: delle venti extraordinary rendition che la Commissione di inchiesta ha ricostruito, almeno diciotto riguardavano casi di persone totalmente innocenti. Catturate, detenute, torturate e infine - un anno dopo, due anni dopo, cinque anni dopo - liberate con un'alzata di spalle 'c'eravamo sbagliati'. E' solo una stolta avventura della Cia? Non credo. Quegli abusi, quelle menzogne, quegli eccessi sono anche i nostri».

Anche i dati che abbiamo citato sopra sono indiscutibili e fino a qualche tempo fa, perfino nell'Italia democristiana, avrebbero imposto almeno una riflessione di prima pagina. Ora invece sono letteralmente spariti, anche in quotidiani prestigiosi come il Corriere della Sera che ha ben due vicedirettori che si dichiarano esperti nell'argomento diritti umani, Magdi Cristiano Allam, candidato dell'Udc alle europee, che appena può lancia una fatwa contro il mondo islamico, per lui radice di ogni violenza del mondo moderno, e Pierluigi Battista che, nei suoi fondi, senza nessun rispetto per i lettori, chiama «dittatore» Ugo Chavez, che in dieci anni di governo del Venezuela ha affrontato una dozzina di consultazioni elettoriali o referendarie, perdendone una sola, e accettando nell'occasione e senza discussione quel risultato.

Mi viene naturale, allora, ricordare con fastidio le faccie stolide di quei presunti esperti di strategie militari che nello studio televisivo di Bruno Vespa, fra il 2001 e il 2003, giocavano a RisiKo con i plastici raffiguranti l'Afghanistan e successivamente l'Iraq convinti, in entrambi i casi, che gli Stati uniti avrebbero archiviato quelle pratiche strategiche in poche settimane e avrebbero «esportato la democrazia».

Invece l'Afghanistan è nuovamente in mano ai talebani, ai mercanti d'oppio e ai signori della guerra. Mentre nella terra della civiltà babilonese le vittime civili sono ormai 900mila e a Falluja e in altre zone è provato siano state utilizzate dall'armata Usa armi chimiche.

Lo sconcerto, poi, diventa totale leggendo la conclusione preliminare dell'inchiesta voluta da Barack Obama, addirittura all'indomani dell'investitura, che afferma «Nonostante gli ingenti finanziamenti disposti a partire dal 2003, con i soldi dei contribuenti americani, è impossibile trovare testimonianza di un solo cantiere aperto nella capitale irachena, fatta eccezione per quello del complesso che da pochi giorni ospita la nuova ambasciata Usa», la più faraonica sede diplomatica del governo nordamericano nel mondo, un complesso di ventuno edifici costato quasi due miliardi di dollari.

In compenso quella che fu la terra della civiltà babilonese è stata inondata di denaro, 125 miliardi di banconote che Paul Bremer, allora scelto da Bush Jr. per «ricostruire» un paese appena raso al suolo, aveva preteso in contanti.Ora l'indagine governativa in corso sta rilevando che la metà dei soldi risulta sparita nel nulla, 57,8 miliardi di dollari, che dovevano essere destinati a scuole, ospedali, strade, abitazioni e a ricostruire i servizi essenziali, e che invece sono finiti nelle tasche degli speculatori internazionali, o fanno parte dei bilanci di ditte come la Hullyburton, creatura cara all'ex vice presidente Dick Cheney, i cui manager arrivavano in Iraq accompagnati da guardie del corpo chiamate contractors e pagate non meno di 15mila dollari al mese.

Al Pentagono, gestito allora dal disinvolto ministro Donald Rumsfeld, che stava conducendo la guerra e aveva già approvato informalmente la pratica della tortura, Bush aveva infatti affidato, senza scrupolo anche l'incarico della ricostruzione. L'ordine era di sospendere sia la legge irachena, sia quella americana.In questo modo gli investitori hanno potuto godere di una immunità tale da traformare l'Iraq in una «zona di libera frode», in cui milioni di dollari in contanti sono stati consegnati a truffatori per opere mai portate a termine.

La stampa occidentale, compresa quella liberal nordamericana (era l'epoca dei giornalisti uccisi a Baghdad o a Falluja dal «fuoco amico») che, nell'occasione, come mi disse Noam Chomsky, aveva abdicato alla sua storia, non ebbe il coraggio e la dignità di denunciare quello scempio. Paura o cinismo? Forse solo opportunismo.

Silenzi interessati

Certo, ora che la realtà viene a galla, così meschina, così feroce, è sconcertante scoprire che, salvo alcuni casi, l'atteggiamento dell'informazione non è cambiata. Ignorare, eludere, queste notizie continua a essere la linea dei media occidentali, specie in Italia dove è passato sotto silenzio perfino l'inquietante lavoro di lobby che il presidente Bush nell'estate del 2006 fece con i senatori repubblicani McCain, Warner, Graham e Collins, compagni di partito che, assaliti evidentemente da un sussulto di coscienza, si opponevano all'approvazione della legge che avrebbe autorizzato la tortura, ora subito sospesa da Barack Obama.

Una storiaccia senza morale che avrebbe meritato, allora come adesso, uno straccio di editoriale, due righe di commento, delle penne democratiche del nostro paese o della satolla Europa. Ma la latitanza morale dei più prestigiosi editorialisti e commentatori tv diventa ancor più colpevole quando, meno di una settimana dopo, è arrivata la notizia che Bush Jr. aveva trovato un accordo con i senatori «ribelli». Ribelli a che cosa? Al cinismo e all'ipocrisia della nazione guida delle democrazie occidentali?

Eppure le conclusioni preliminari dell'inchiesta amministrativa in corso sono esplicite: «L'intero progetto di ricostruzione in Iraq è stato un pieno fallimento. Si è passati da una guerra lampo all'idea di mettere insieme uno stato dalle fondamenta, senza avere un progetto degno di questo nome alle spalle. La Coalition Provisional Authority ha dato prova di cattiva gestione, di assoluta mancanza di controllo, spalancando le porte ad ogni tipo di attività criminale».

Sono parole che mi fanno venire in mente il bellissimo documentario Ma dove sono finiti i soldi del giovane medico e giornalista iracheno Ali Fadhil, trasmesso all'epoca alle undici di sera a C'era una volta, il programma di Rai Tre di Silvestro Montanaro, dove si vedevano i marines durante le operazioni di scarico di un aereo in Iraq prendere a calci, come se giocassero a football, i sacchi di dollari inviati per la «ricostruzione».

Norma Rangeri, nella rubrica sui programmi televisivi che tiene sul manifesto, si domandò giustamente perché nemmeno una di quelle immagini fosse stata mostrata in un telegiornale e, aggiungo io, nemmeno nei programmi di Vespa, Ferrara, Mentana, Santoro, Floris e Piroso.

Purtroppo i giornalisti liberali o riformisti, come si dice ora, sono in Italia, tendenzialmente, distratti o servili. Non provano nemmeno il disagio che Barack Obama ha espresso già il giorno successivo al suo insediamento, quando ha deciso di chiudere il lager di Guantanamo, fermare le commissioni militari, veri illegali tribunali speciali che vi agivano e mettere al bando l'uso della tortura da parte della Cia. Insomma, tentando di smontare alcuni dei passaggi più inquietanti della politica di Bush Jr. Anzi al Corriere ultimamente non nascondono la loro antipatia per le scelte di Obama. Da noi gli otto anni nefasti di W., che Oliver Stone, il regista di Platoon, Nato il 4 luglio e JFK, ha accusato pubblicamente di «aver infranto ogni limite morale», hanno trovato eco solo recentemente nella rubrica del critico televisivo del Corriere della Sera.

Aldo Grasso si è offeso perché Miguel d'Escoto, antico combattente per i diritti dei più poveri e degli esclusi, prete sospeso a divinis dal Vaticano, aveva accettato l'incarico di ministro degli esteri dell'esausto Nicaragua sandinista, scampato alla guerra sporca dei contras, le milizie del dittatore Somoza, sostenute dal presidente Usa Ronald Reagan, si era augurato, in un collegamento con il Festival di Sanremo, di poter superare l'isolazionismo che aveva caratterizzato la politica nordamericana negli anni della presidenza di Bush Jr.

D'Escoto parlava da New York come presidente (eletto per il suo prestigio internazionale) della 63a sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, estemporaneamente intervistato da Paolo Bonolis in una di quelle iniziative spericolate della tv generalista, quando vuole dare prestigio a un programma nazionale e popolare.

Aveva affermato d'Escoto: «O ci amiamo o affondiamo tutti (...) Cogliamo, con l'aiuto della musica l'occasione di rinnovare lo spirito per lottare tutti insieme per un mondo migliore», accenando alla speranza di superare l'atteggiamento non collaborativo dell'America di Bush nei riguardi delle Nazioni unite.Ma tanto era bastato al critico del Corriere per sollecitare addirittura le alte cariche dello Stato italiano a chiedere scusa agli Stati uniti. Scusa di che, Aldo Grasso? Se è vero, come è vero, che d'Escoto ha affermato una verità inconfutabile, specie per un cittadino di un paese latinoamericano, massacrato dalla «guerra sporca» benedetta trenta anni fa da Ronald Reagan?

Questa purtroppo è la nostra informazione. Tutte le notizie non gradite agli Stati uniti, o che sottolineano una loro sconfitta materiale e morale, vengono eluse, evitate, respinte, quasi fosse il pedaggio da pagare ancora ai vincitori della seconda guerra mondiale, per antonomasia indiscutibili, democratici e liberatori.Invece, le «gesta» dei nordamericani, nell'ultimo mezzo secolo, sono state spesso anche scorrette, egoiste, poco eroiche. Dalla guerra in Vietnam, per di più persa miseramente, al crudele Plan Condor, voluto dal presidente Nixon e dal segretaio di stato Kissinger per coordinare fra loro le dittature militari latinoamericane degli anni '70, e aiutarli ad annientare tutte le opposizioni progressiste del continente, fino alla guerra in Iraq.

Quando si verificano eventi così inquietanti c'è, in Italia, una sorta di consegna del silenzio, una fuga dalla realtà.

Per capire con quale superficialità vengono spesso decisi i nostri destini c'è voluta, per esempio, la testardaggine di Oliver Stone, un vecchio cacciatore di documenti inoppugnabili, che diventano sceneggiature di indimenticabili film di denucnia. Questa volta, raccontando nel film W., le «imprese» del Presidente degli Stati uniti negli anni in cui è crollato anche il muro del capitalismo, si può permettere perfino il lusso di essere magnanimo e di leggere il catastrofico bilancio del suo governo come la frustrazione di un piccolo uomo schiacciato dalla figura del padre, che fu direttore della Cia, vice presidente di Reagan e poi, a sua volta, presidente.

Tutto questo però senza dimenticare di sottolineare la follia di una politica avida, corrotta e guerresca, che solo la malafede della nostra informazione ha continuato pervicacemente a ignorare.

La Grande Crisi sta mostrando che non al mercato ma alla politica spetta il compito di ricondurre a un minimo di ordine, di stabilità e di prevedibilità le dinamiche delle società del XXI secolo.

E del ritorno in grande stile della politica – con il suo tratto qualificante, il potere – abbiamo un esempio nelle decise, massicce, penetranti misure d’intervento volute da Obama.

In modi diversi, anche la destra al governo in Italia risponde alla nuova esigenza di politica. Alcune iniziative come la questione nucleare, il testamento biologico, la regolamentazione degli scioperi, ma anche il decreto sulla sicurezza e quello sulle intercettazioni, sono riconoscibili e valutabili se si pone mente al loro risultato, che è un aumento esponenziale – realizzato, perseguito o annunciato – del potere politico concentrato nell’esecutivo.

La decisione a favore delle centrali nucleari, infatti, scavalca certamente le procedure e le mediazioni parlamentari (oltre che un atto di volontà popolare); ma è ancora più importante sottolineare che l’accesso sistematico al nucleare implicherebbe anche, per sua natura, un rafforzamento del potere politico, per ragioni di sicurezza e di gestione implicite in quella tecnologia, che anche quando è civile ha un effetto "militarizzante" per l’esigenza, ovvia, di predisporre misure antisabotaggio, antiterrorismo, di custodia dei siti, di segretezza operativa. Al di là di ogni altro dibattito economico e ecologico, il nucleare è l’occasione privilegiata perché lo Stato – come Stato tecnico, custode delle infrastrutture strategiche – tocchi il vertice della propria potenza, nella sua forma piramidale classica: la storia della seconda metà del Novecento mostra che in quest’ambito è massimo l’aumento della asimmetria di potere e di sapere fra Stato e cittadini, fra Stato e società.

L’alimentazione e l’idratazione forzata – previste dai progetti governativi, insieme al divieto di cessazione delle cure mediche se da questa consegue la morte – sono poi un esempio della sottomissione del singolo, e della sua libertà, al potere politico nella sua forma etica, che gli impone valori salvifici, e nella sua forma biopolitica, che pretende di allevarlo in senso non metaforico. L’acuta ossessione securitaria della destra – perenne oggetto di infinite decretazioni e legislazioni – rientra a pieno titolo nella classica dimensione "leviatanica" del potere politico, tanto che sia sicurezza imposta dall’alto attraverso le forze dell’ordine quanto che sia "partecipata", aperta agli equivoci volontariati di base, o di parte. La progettata limitazione degli scioperi in alcuni servizi pubblici fornisce infine la cifra oggi più spendibile politicamente dell’aumento del potere politico a scapito dei diritti di libertà: quell’incremento si giustifica in vista del bene, dell’utile, della comodità dei cittadini. E anche le misure anti-intercettazione, che appaiono "liberali" e non ascrivibili a logiche di rafforzamento del potere statale, hanno la loro legittimazione politica in una resa dei conti con la magistratura e la stampa. Tecnico, etico, biopolitico, securitario, lo Stato è oggi avviato ad assumere una fisionomia autoritaria: ovunque corregge, ordina, interviene e dispone, limita e comanda.

Che sia proprio un governo espresso da una maggioranza la cui principale forza politica si richiama al liberalismo a realizzare questo incremento del potere dello Stato è paradossale ma spiegabile: l’esigenza di politica è realmente all’ordine del giorno, e, inoltre, questo aumento di potere politico non prende certo, oggi, le forme novecentesche: non, evidentemente, quelle della ferocia totalitaria né quelle soft del consumismo (che in questa fase non è un’opzione praticabile), non quelle della disumanizzazione tecnica della politica (sul modello delle alienanti tecnostrutture di Metropolis) né quelle della "confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà "di marcusiana memoria (tolleranza e piacere non sono più di moda).

Siamo davanti, oggi, a un vero nuovo quadro problematico, dentro al quale sta anche il conflitto d’interessi, ma che va oltre questo. Siamo davanti, cioè, a un nuovo Leviatano, la cui potenza e imponenza non implicano necessariamente efficienza; a un Leviatano per molti versi casuale, ansimante e sbilenco, capace sia di nuocere realmente alle libertà e ai diritti costituzionali attraverso la promozione di discriminazioni, di diseguaglianza, di conflitti, sia di essere inefficace o controproducente rispetto ai fini che si prefigge e che proclama: la sicurezza e il nucleare (con le sue scorie) non stanno facilmente insieme; lo stesso vale per l’ordine pubblico e le ronde, che creeranno più problemi di quanto ne risolveranno; la limitazione delle intercettazioni renderà più difficile indagare su fatti criminali anche gravi così che la "difesa della vita" si rivelerà l’obbligo di restare in vita, imposto a chi non può difendersi dall’etica di Stato; la lotta aspra all’immigrazione clandestina produrrà reazioni sempre più violente, ecc.; mentre i grandi interventi della politica sull’economia non si vedono.

A questo cattivo ritorno della politica non basta opporre la difesa formale della costituzione (ovviamente necessaria perché prevede e prescrive appunto i limiti democratici del potere); la lotta per rilanciare la centralità delle libertà, della democrazia, della costituzione, implica l’affermazione e la promozione di autentici contropoteri democratici diffusi nella società: per domare il nuovo Leviatano, zoppicante ma pericoloso, occorrono una libera stampa, un’università combattiva e orgogliosa (come quella francese, che sta rifiutando misure non peggiori di quelle che colpiscono la nostra); oltre che, naturalmente, anche una coerente opposizione.

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