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Rispetto ai tempi del goffo "editto bulgaro", le nubi censorie che si addensano su Michele Santoro e su Milena Gabanelli (e tramite loro sulla Rai nel suo insieme) esprimono un punto di scontro più nitido e, nel suo genere, più maturo. Non è solo e non è tanto la "faziosità politica" - colpa opinabile per definizione - a essere sotto tiro. È la sostanza stessa del medium più importante e penetrante, la televisione, che trasmissioni come Annozero e Report interpretano come un contro-potere strutturalmente autonomo (tale è l’informazione nella tradizione delle democrazie), e questo potere politico intende, invece, come cingolo di trasmissione dei propri scopi: non per caso è un potere al tempo stesso politico e mediatico. Anche tecnicamente.

Nei giorni drammatici del terremoto, lo scontro tra queste due funzioni della televisione è stato evidente. Si trattava di mettere l’accento sulle deficienze strutturali e le responsabilità umane che hanno aggravato di molto il bilancio delle vittime e dei danni. Oppure di esaltare l’opera dei soccorsi e l’efficienza dello Stato. Il primo obiettivo è tipico del giornalismo-giornalismo, che qui da noi, non si capisce bene per quale strambo equivoco, si chiama "d’assalto". Il secondo obiettivo è invece tipico della propaganda politica. Genera un linguaggio che tende alla retorica del positivo quanto il primo rischia di cadere nella retorica del negativo.

Scelga ognuno quale di questi due rischi sia più sgradevole e pericoloso per la pubblica opinione. Ma si sappia che è solo il primo rischio - quello di una televisione aspra e irriducibile - a essere sotto accusa, e a nessuno, né dentro la Rai né nella cerchia della politica, è venuto in mente di biasimare o sanzionare le centinaia di ore di televisione leziosa e piagnona che hanno imbozzolato la tragedia del terremoto in un reticolo implacabile di buoni sentimenti, misurando ben più volentieri il diametro della "bontà nazionale" che quello dei pilastri sottodimensionati.

Che i media abbiano anche, in queste situazioni, una funzione di rete connettiva, non solo logistica, che aiuta a reggere l’urto della morte, e a sentirsi comunità, è fuori di dubbio. Ma questa funzione è stata svolta perfino con sovrabbondanza, e fino a rendere stucchevoli anche le immagini del dolore e della rovina. Santoro e la sua redazione hanno scelto � in minoranza � di fare il resto del lavoro, come compete alla storia professionale di un giornalista molto discusso (e discutibile) ma molto tenace. E premiato dall’audience, concetto evidentemente sacro quando si tratti di contare i soldi della pubblicità, ma subito sottaciuto quando si tratti di misurare la temperatura di una parte consistente dell’opinione pubblica.

Peccato che questo "resto del lavoro", sicuramente complementare a un quadro generale molto più blandamente critico, risulti insopportabile al potere politico, così come la puntuta inchiesta di Milena Gabanelli sulla social-card non poteva che fare imbufalire il ministro Tremonti.

"Remare contro" fu una delle prime accuse che il Berlusconi leader nascente mosse ai suoi oppositori. Non lo sfiorò (e non lo sfiora) il sospetto che c’è chi rema né contro né a favore, ma per suo conto. Anche sbagliando, ma sottoponendo al giudizio del pubblico, non al giudizio del potere, i propri errori. Il giornalismo è questo, e dovrebbe saperlo anche il direttore del Giornale Mario Giordano, che un minuto dopo avere potuto dire esattamente quanto voleva dire ad "Annozero" ha orchestrato una violenta campagna di stampa contro lo "sciacallo Santoro". Qualcuno aveva forse detto a Giordano, o a uno qualunque dei giornalisti e telegiornalisti governativi, che usare il terremoto per magnificare la prestanza e la generosità del premier era "sciacallaggio"? Ci si era limitati a pensare, magari, che fosse cattivo gusto, e la libertà di cattivo gusto, se non è sancita dalla Costituzione, è suggerita dal buon senso.

Quanto alla vignetta di Vauro trattata da casus belli e ridicolmente accusata di mancanza di "pietà per le vittime", varrebbe il concetto di cui sopra: qualora la si ritenga di cattivo gusto, da quando il cattivo gusto è oggetto di censura? E quelli che, al contrario, affidano la "pietà per le vittime" a ben altri canali, magari privati, e apprezzano la ruvida intelligenza e la lunga coerenza professionale di Vauro, dovrebbero forse ingoiare il boccone della censura nel nome di una "informazione corretta"? Ma corretta da chi? Dal direttore del Giornale?

Il piano per liberare l'edilizia, quello evaporato in una sera e risorto con la complicità dei presidenti regionali, colpisce non solo per il pressapochismo e l'azzardo (su questo c'è già una ricca letteratura con le ultime riflessioni nella mente le immagini delle case d'Abruzzo sbriciolate). Ma pure per il capitombolo di quella visione che invece la destra italiana ha storicamente mantenuto su questi temi. Il Pdl si può permettere di tenere insieme modi di stare a destra molto diversi. Con il proposito di fare uscire dalla centrifuga un ammodernamento di quel percorso politico fascista e postfascita. Cosa avveduta - senza dubbio. Ma è una evoluzione da guardare con attenzione: succede infatti che alcune cose buone da non buttare, da tenere almeno nello sfondo (non sono mancate anche in quella terribile fase della storia d'Italia), vengano invece inghiottite in quel vortice neoliberista senza senso e dall'estrosa politica del premier.

Ne esce un'idea strana della libertà: lo stato etico che ti entra in casa in punto di morte, e lo stato lassista verso le pulsioni anarcoidi perché "in amore e in edilizia è vietato vietare" - secondo Cetto Laqualunque.

I provvedimenti del 1939 sui beni naturali e culturali e la successiva legge urbanistica del 1942, davvero buoni esempi per quel tempo, applicavano, in linea con quel tempo, il principio di precauzione, indispensabile per governare il territorio in quanto valore pubblico. Il paesaggio "rappresentazione materiale e visibile della patria" - aveva scritto Benedetto Croce, poi ripreso da Bottai.

C'era la preoccupazione di violare la sacralità delle proprietà private; eppure il Fascismo ci pensava al superamento della linea indolente dell'ideologia liberale, del lasciafare che aveva dominato gran parte dell'Ottocento. Si è corrotta incontrando Berlusconi quell'idea di conservare "le bellezze naturali" e le cose d'arte, che seppure con difficoltà si era mantenuta, confermata di recente dal ministro di destra Urbani (che ha dato il nome al Codice dei beni culturali).

Inopinatamente si è ora aperto un altro capitolo, che ci riporta molto indietro, a passi decisi verso la deregolamentazione che non era immaginabile nel corso del Novecento. Ma attenzione: neppure nel lontano Medioevo, la cui civiltà urbana era tutt'altro che sregolata. Negli statuti trecenteschi di molte città italiane si badava a fare osservare regole di convivenza urbana e a evitare i conflitti tra confinanti negli abitati: vigeva un principio regolatore, perché era l'insieme da tenere in conto. Perché ogni mossa negli incasati (quelle parti che chiamiamo centri storici) poteva provocare squilibri, togliendo luce o aria o vista, a uno o all'altro, e impoverendo la qualità complessiva dell'abitare.

Da qui si fa strada l'idea, che evolve nei moderni strumenti urbanistici, della città come bene comune: l' igiene, la bellezza, la funzionalità. Difficile da realizzare senza una regia: l' editto del priore di molti secoli addietro, o un moderno regolamento edilizio mirano alla coerenza che le crescite percentuali non consentono.

Colpisce che le regioni governate dalla sinistra, accettino il principio berlusconiano del piano casa 2 che è la forma edulcorata del piano casa 1. Stupisce che anche osservatori attenti non abbiano colto che è passato interamente il principio populista del primo messaggio.

Ed ecco l'ultimo atto: il disegno di legge - delega al governo che ripristina il diritto a edificare implicito nel diritto di proprietà. Sarà un serio danno, ben oltre la contingenza: servirà a fare passare la deregolazione come metodo, così da travolgere ogni idea di pianificazione, offrendo la versione più rozza dell'incremento delle preesistenze edificate: una pratica ammissibile dentro una attenta contabilità urbanistica.

Tutto questo rafforzerà le maniere arruffone di quell'Italia che si vede nei film di Totò e Peppino, difficili da combattere più di quelle in" Le mani sulla città" di Francesco Rosi.

La tragedia dell’Abruzzo martoriato dal terremoto spazza via la farsa del cosiddetto "piano casa". Frutto di cinica improvvisazione in caccia di voti, esso prevedeva persino «procedure semplificate per le costruzioni in zone sismiche», fra cui l’abolizione di ogni autorizzazione preventiva, sostituita dal «controllo successivo alla costruzione, anche con metodi a campione».

Ci sono voluti centinaia di morti perché un residuo di decenza cancellasse (sembra) queste parole sinistre, preludio a nuovi disastri, a nuovi lutti. Conflitti di competenza Stato-Regioni, furberie e tatticismi procedurali hanno ormai consegnato il "piano casa" a una sorta di percorso carsico, da cui esso riemerge ogni giorno in vesti mutate. Ma è vero che il "piano casa", «a furia di passare di mano in mano e dal setaccio delle Regioni, è diventato un pianerottolo» (così Feltri su Libero)? O ha ragione invece Bartezzaghi quando scrive che, accantonato il Piano A, il governo è passato a un Piano B («l’opzione alternativa, la via di fuga, la riserva mentale, la scappatoia»)? E il Piano B, scritto con la voglia del Piano A, non ne avrà conservato, nonostante le copiose lacrime di coccodrillo, le peggiori istanze?

Per valutare il Piano B e i suoi travestimenti, ricordiamoci quel che diceva il Piano A. Esso incoraggiava ampliamenti indiscriminati di tutti i fabbricati, infestando case e condomini con funeste escrescenze: ampliamenti del 20% degli edifizi ultimati entro il 2008, per giunta con opzione di acquisto dai vicini delle quote di loro spettanza, onde raddoppiare (e oltre) quel 20%; per chi abbatta un edificio, possibilità di ricostruirlo ampliato del 35%. Il tutto in deroga a ogni norma vigente, mediante il ricorso massiccio al silenzio-assenso e alla d.i.a. (dichiarazione inizio attività), che perfino nei centri storici doveva precedere (di fatto, sostituire) il parere delle Soprintendenze, ribaltando la sequenza prevista dal Codice dei Beni Culturali e dal T.U. per l’edilizia. Insomma, la legalizzazione previa di abusi e reati: una vera e propria istigazione a delinquere nei panni di una bozza di legge, un regalo agli «osceni palazzinari di cui ci lamentiamo da anni, ai comuni annaspanti nella corruzione, ai costruttori senza regole e ai politici imbroglioni: uomini che disprezziamo, ma che sono stati prodotti da noi, sono parte di noi, e il nostro disprezzo non ci protegge dalle loro malefatte» (Orhan Pamuk).

Molto si è reclamizzato il fatto che nel Piano B uscito dalla Conferenza Stato-Regioni del 31 marzo, e rimaneggiato fino al 9 aprile, le escrescenze (la "soluzione 20%") vengano limitate a villette uni e bifamiliari (resta invece la "soluzione 35%" per la demolizione e ricostruzione di edifici residenziali di qualsiasi dimensione), e che ne vengano esclusi i centri storici. Resta da capire come mai una norma che prevede la rottamazione dei fabbricati di bassa qualità costruttiva (quelli che all’Aquila sono crollati come castelli di carta) inciti poi a ricostruirli più in grande senza garanzie di sicurezza; e questo in un Paese che da decenni vede il drammatico calo di tecniche costruttive e controlli pubblici, come le rovine d’Abruzzo dimostrano anche ai ciechi.

Ma il Piano B fa di peggio. Dove il Codice dei Beni Culturali prevede l’autorizzazione paesaggistica preventiva, con controlli incrociati di Stato, Regioni ed Enti locali (art. 146), si sostituisce la vana opzione di annullamento ex post di quanto già approvato dai Comuni, ma «solo per contrasto con le prescrizioni del Codice»; e ciò in via permanente (secondo una versione), ovvero fino al 2011 (secondo un’altra, che però aggiunge il silenzio-assenso). Peggio ancora, e ancora contro il Codice, un basso espediente causidico nullifica ogni potere e responsabilità dello Stato nella gestione dei vincoli paesaggistici, obbligando il Soprintendente ad esprimersi in una "conferenza dei servizi", cioè a sedere a un tavolo in cui può facilmente esser messo in minoranza dai rappresentanti degli enti locali, anche se privi di competenza tecnica in materia di paesaggio. Si assimilano alla manutenzione ordinaria e straordinaria gli interventi di "edilizia libera", prefigurando un condono garantito a regime, e si estende in perpetuo la sanatoria paesaggistica che il Codice bloccava al 2004. Infine, si delega il Governo a "semplificare" le sanzioni degli illeciti paesaggistici, depenalizzando in particolare le false dichiarazioni tecniche dei progettisti, punibili solo dopo l’accertamento del danno (cioè dopo il prossimo terremoto, dopo altri lutti e rovine). Anche il Piano B calpesta dunque senza scrupoli il Codice dei Beni Culturali, che pure nacque da un altro governo Berlusconi, e a cui ministri e loro lacché continuano a rendere omaggio pro forma, mentre lavorano per smantellarlo. Intanto le Regioni, dopo aver protestato perché il Piano A non rispettava le loro competenze, tacciono, soddisfatte del Piano B, quasi per un patto scellerato: accettano di subire l’invadenza dello Stato sul piano casa, purché i controlli paesaggistici previsti dal Codice vengano posticipati sine die o annullati.

Questo richiamo al Codice non è l’ubbía di qualche nostalgico. I valori in gioco sono la memoria storica del Paese, la sua dignità etica, il patrimonio naturale e artistico che abbiamo ereditato dai nostri padri e dobbiamo trasmettere ai nostri figli. Sono valori presidiati dalla Costituzione: e sarebbe bene che qualcuno, a Palazzo Chigi e dintorni, andasse a rileggersi l’articolo 9 («La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»), e si ricordasse che, in quanto inserito tra i principi fondamentali, esso è sovraordinato a tutto quel che segue, inclusa l’attività economica privata, che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» (art. 41). Perciò la Corte Costituzionale ha spesso sancito la «primarietà del valore estetico-culturale, che non può esser subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e anzi dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale» (151/1986), affermando che il paesaggio è «un valore primario e assoluto, che precede e costituisce un limite agli altri interessi pubblici» (367/2007). Precisamente il contrario della ratio del piano-escrescenze, che fa appello all’egoismo individuale per inondare città, borghi e campagne d’Italia con un’immensa colata di cemento. Sarebbe un delitto contro l’ambiente come bene pubblico, contro la storia e la memoria di questo Paese: questo vuol dire il severo, tempestivo monito del Capo dello Stato contro le «molte insidie alla salvaguardia del patrimonio artistico, culturale e paesaggistico, valori che la Costituzione tutela e di cui impone il rispetto».

Il terremoto d’Abruzzo è una tragedia per l’Italia, e costringe, oltre le emozioni del momento, a un severo riesame delle priorità nazionali. Se davvero vogliamo "far ripartire i cantieri", questo è il momento di ricordarsi delle leggi antisismiche, ogni giorno disattese: basti ricordare le misure del governo Berlusconi nel 2003 dopo il terremoto di San Giuliano di Puglia, mai entrate in vigore dopo svariati rinvii (l’ultimo dei quali nel recente "decreto milleproroghe"). Anziché costruire il ponte sullo Stretto di Messina (una delle aree più sismiche del mondo, oltre centomila morti nel terremoto del 1908), è il momento di concentrare energie e investimenti in un grandioso piano di messa in sicurezza del Paese (non solo monumenti, ma case, scuole, ospedali, uffici, fabbriche, università, musei) con le tecnologie antisismiche più avanzate, come in Giappone e in California, promuovendo architetture di qualità, inasprendo e non allentando i controlli.

Anziché legiferare per poi cancellare le norme mediante indecenti sequele di "rinvii", è il momento di attivare la virtuosa ricostruzione non di anonime new town che cancellino memoria storica e identità culturale, ma del prezioso tessuto abitativo, anche "minore", della nobile terra d’Abruzzo, mantenendo le caratteristiche costruttive dei borghi (come dopo un altro terremoto fu fatto, nelle Marche assai meglio che in Umbria). Invece di irresponsabili demolizioni, l’Abruzzo merita una campagna di accurato ripristino: non è un caso che abbiano retto benissimo al terremoto le case della splendida Santo Stefano di Sessanio, sul Gran Sasso, restaurata di recente come "albergo diffuso" nel rispetto delle norme antisismiche. Profitto imprenditoriale e rispetto delle regole di tutela si possono coniugare, salvando vite umane. Non di uno sgangherato "piano casa" ha bisogno l’Italia, ma di un vero piano-sicurezza, che sia insieme un piano-tutela dell’ambiente, del paesaggio, della memoria storica.

In tv continuano a scorrere le immagini del disastro dell’Abruzzo. Le case sventrate, le chiese ferite, le bare allineate, gli sfollati spersi. "È terribile", dice Edoardo Sanguineti. "È terribile vedere come certi edifici siano finiti in briciole e abbiano portato la morte. Eppure dovevano essere garantiti dal rischio sismico...".

Si ferma un attimo poi aggiunge con tono polemico: "E davanti a questa grande tragedia c’è chi cerca di ricavare consenso dalle tende azzurre...". A Edoardo Sanguineti, poeta e saggista acuto e ironico, Berlusconi non è mai piaciuto e non lo nasconde. Non gli piace per niente, oggi, quella continua esibizione di sé tra le rovine dell’Aquila. Proprio il terremoto - il segno di questa Italia vulnerabile e sofferente - è il punto da cui partiamo per ragionare su di noi e sul futuro.

Allora, Sanguineti un disastro ineluttabile quello dell’Abruzzo?

"Non credo proprio. Diciamo che non c’è stato controllo. Come è stato possibile che l’ospedale, la prefettura, la casa dello studente siano venuti giù in quel modo? Come è possibile che chi era lì per studiare non abbia avuto la minima garanzia di sicurezza? Che fine hanno fatto le leggi sul rischio sismico? È tutto terribile e dimostra a che livello di degrado siamo arrivati. Meno male che di fronte all’emergenza almeno una certa risposta di solidarietà c’è stata..."

L’emergenza mostra sempre il lato migliore degli italiani. Ma secondo lei nella normalità l’Italia di oggi non è invece cinica e indifferente?

"Io direi che questa Italia è molto scoraggiata. È caduta ogni fiducia, ormai si dice solo "spendete e spandete". Ma questo scoraggiamento va oltre i nostri confini. La globalizzazione infatti sta mostrando i suoi effetti perversi. C’è un mondo pieno di proletari che non sanno di esserlo e la coscienza di classe si è persa. Ormai la pratica sociale più diffusa è il mobbing".

Eppure solo qualche anno fa ci dicevano che il capitalismo era trionfante...

"E invece nel momento di massimo splendore il capitalismo entra in crisi. Ma attenzione, perché vedrete che reagirà e lo farà con durezza. Però, possiamo dirlo: aveva ragione Marx. Basta vedere come nelle nostre città si aggirano masse disperate e ricchi spaventosamente ricchi per i quali non ci sono limiti. Rileggere Marx, questo dobbiamo fare se vogliamo riorientarci. Dico Marx, ma anche Gramsci e Benjamin: credo possano ancora aiutarci".

Qualcuno dice che è fallito un modello, quello del consumismo. È d’accordo?

"Certo. Ormai siamo cittadini non più di una Repubblica fondata sul lavoro ma di una Repubblica fondata sulla concorrenza spietata. Quando il consumo è tutto la Costituzione può essere rovesciata come un guanto. È quel che dice il nostro premier".

Insomma ha vinto Berlusconi?

"Sì, ha vinto violando, tanti anni fa, le norme sulle tv. Lì è nato un avveduto affarista che costruisce il suo apparato di persuasione. La tv non serve più a insegnare a leggere e a scrivere come faceva il maestro Manzi, né a formare una coscienza critica. La tv si occupa di questioni di letto, di grandi fratelli. E allora Berlusconi diventa un modello. Appunto: è l’uomo che ricava consensi dalle tende azzurre del terremoto. Le tende azzurre sono il simbolo del berlusconismo. Si è comprato il paese e utilizza ogni mezzo per dominarlo: il suo è un modello nazional popolare".

Che arriva persino all’uso delle ronde contro gli immigrati...

"Anche le ronde sono espressione di un paese arcaico. Un paese che non è più in grado di sopportare la presenza di chi non è noto. Non si tollera lo straniero e allora si occupa il territorio. È un elemento spaventoso della nostra storia recente".

Un vero disastro. E la sinistra dov’è finita?

"E chi lo sa... La sinistra è scomparsa in tutte le sue forme. E non solo nei suoi tentativi di trasformazione dopo gli errori di Occhetto. C’è stata una generazione dissennata che ha lavorato per cancellare la propria storia. E Berlusconi infatti si presenta come il salvatore dal comunismo. All’opposizione dice: arrendetevi. Tutto questo fa impressione".

Insomma non c’è speranza?

"Ma no, mantengo sempre una disperata speranza nella sinistra. Ma devo dire che è sempre più flebile".

Qualche segnale positivo ci sarà pure. Per esempio, i ragazzi dell’Onda. O il sindacato. Non sono un po’ di luce in mezzo al buio?

"Il sindacato sì. La Cgil sì e non solo per la bella manifestazione del Circo Massimo. L’Onda invece no, assolutamente. Ho visto in quel movimento una spaventosa depoliticizzazione, non sanno proprio quel che vogliono. C’è solo tanto individualismo".

Per fortuna che c’è Obama allora. Persino Ingrao dice che è l’unica grande novità...

"Non sono d’accordo con Ingrao. Certo Obama mica è da buttar via, un nero alla Casa Bianca, o un abbronzato come dice qualcuno, è una novità. E ci sono elementi positivi nei suoi primi passi. Anche una certa spinta utopica. Il punto è: chi rappresenta e quali classi? Non dimentichiamo che l’America non ha mai conosciuto la lotta di classe".

E se invece Obama riuscisse laddove la sinistra ha fallito, cioè cambiare il mondo?

"È possibile, è possibile. Ma io non ci credo, non credo che l’America cambierà mai. Un paese nato con una Dichiarazione di Indipendenza così arcaica e conservatrice dove può andare? Per me Obama non è una speranza. L’unica speranza resta il comunismo".

Il comunismo è la sua ossessione...

"Ma che cosa c’è d’altro? Il mondo è precarizzato, l’uomo è ridotto a merce. Quando vai in banca ti rendi conto che chi ti serve dietro lo sportello è uno sportello. È un essere docile che obbedisce per salvarsi. Se questo è il mondo bisogna impegnarsi e non solo con le manifestazioni o con le notti bianche. Ho spiegato due anni fa, proprio in occasione di un compleanno di Ingrao, come si diventa materialisti storici, come ci sono diventato io..."

E come ci si diventa?

"Con gli operai. La mia storia di materialista comincia con un operaio. Per me, bravo ragazzo borghese, tutto è cambiato quando ho conosciuto un operaio per la prima volta. Eravamo in guerra, lui si è fermato e ho capito che era parte di un altro mondo. L’ho visto poi con il fucile in spalla il giorno della Liberazione: l’operaio era un partigiano. Abitavo a Torino, tutto è cominciato da lì".

Un verso della sua raccolta "Postkarten" dice: "la poesia è ancora praticabile probabilmente". In un mondo così a che serve la poesia?

"Serve a scrivere poesie che guardano il mondo con ottica comunista. Guardano il mondo, lo raccontano, lo interpretano".

Qual è il poeta che ha capito meglio il carattere degli italiani?

"Sicuramente Dante anche se era un feroce reazionario. Lui ha capito che il mondo era cambiato, che la borghesia era in ascesa, ha capito che la storia aveva avuto una svolta irreparabile. Insomma ha capito meglio di altri il disordine del mondo".

Sanguineti, qual è il leader della sinistra a cui si è sentito più legato?

"L’ultima persona sana è stato Berlinguer. Poi certo la sua impresa è fallita. Ma è fallita perché sono arrivate le armi. Hanno rapito Moro, sono cominciate le sedute spiritiche e il progetto si fermò".

Quale lezione ha lasciato Berlinguer?

"Berlinguer diceva allora una cosa semplice e forte: far soldi non è lo scopo dell’esistenza. C’è ancora qualcuno che lo dice? Mi pare di no e infatti guardate dove siamo finiti".

Ancora comunista, ancora avanguardista: insomma fedele a se stesso?

"Una volta mi chiesero quale fosse la mia migliore qualità e quale il mio peggior difetto. Risposi: l’ostinazione. Mi ostino, come Berlinguer, a dire che non si vive per accumulare ricchezza e penso che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sul consumo. Qui invece ti dicono grazie solo perché consumi. E allora io ripeto: no grazie. E mantengo la mia ostinazione".

Ha descritto un quadro fosco: quindi è pessimista per il futuro?

"Userei questa espressione: ottimismo catastrofico. Certo che è un dovere essere ottimisti, come si fa. Però, devo essere sincero: non scommetterei un soldo sull’ipotesi che il mondo così com’è duri altri cinquant’anni. Forse ce ne andremo su Marte. Ma costa troppo, vedrete che non si farà".

Lacrime lacrime lacrime. Composte, represse, trattenute, a volte singhiozzanti, a volte silenziose in lunga riga sulle guance da occhi che fissano il vuoto. Ma ora, in questa Pasqua dolente, non è più tempo di lacrime che non siano strettamente private. Ora è tempo di decisioni rapide e sagge e di pubbliche assunzioni di responsabilità.

Siamo un paese capace di mobilitarsi e di dare il meglio di sé nell’emergenza, sedendosi poi su se stesso nei tempi lunghi. Accade addirittura che lo sguardo lungo verso il futuro si addica di più alle famiglie che al potere pubblico e alle istituzioni. Dovrebbe avvenire il contrario ma non è così, non in Italia.

Prendete il piano casa voluto dal governo. Al principio fu una proposta avventurosa di Berlusconi per rilanciare l’industria delle costruzioni: il 20 per cento di cubatura in più concessa a tutti i proprietari di case, in città, nei centri storici, nelle campagne. Le sovrintendenze costrette al silenzio-assenso con trenta giorni di tempo per opporsi. I privati autorizzati a iniziare i lavori con la semplice autocertificazione firmata dal professionista incaricato di dirigere i lavori. E sgravi fiscali per tutti.

Poi le Regioni bloccarono il progetto, lo ridimensionarono escludendo le città e le aree vincolate al rispetto paesaggistico, introdussero vincoli speciali per le zone a rischio sismico.

Adesso, dopo il terremoto d’Abruzzo, quel piano è da buttare. L’emergenza ha riproposto il problema delle scuole fatiscenti (San Giuliano di Puglia insegni) e dei rischi naturali. Non siamo soltanto la terra ballerina dei terremoti, ma anche la terra dei torrenti e dei fiumi senza argini, secchi d’estate e devastanti d´inverno; la terra dei vulcani non spenti; la terra delle montagne franose; lo "sfasciume pendulo" che incombe sulle sottostanti marine.

Un piano casa deve dunque includere la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici, la messa in sicurezza di tutte le costruzioni nelle aree di rischio sismico seguendo le priorità già indicate nelle mappe del 1996; la ricostruzione degli edifici abbattuti e lesionati dal terremoto in Abruzzo. Infine la costruzione di case nuove nei limiti indicati dal mercato per abitazioni dignitosamente economiche. E criteri di rigorose demolizioni per le abitazioni e gli edifici industriali eretti lungo i fiumi, i torrenti e i vulcani a rischio di esondazione e di eruzione.

C’è un lavoro enorme da fare, che non riguarda il bravissimo Bertolaso che di lavori ne fa già troppi, non riguarda l’emergenza di poche settimane e di pochi mesi, ma un arco di anni e impegni di bilancio di grandi dimensioni. Riguarda il tempo lungo che le nostre classi dirigenti non hanno mai preso in considerazione, assorbito soltanto dal fare con ritorni politici ed elettorali immediati, lasciando che le antiche piaghe geofisiche del "Bel Paese" imputridissero e incancrenissero, provocando emergenza dopo emergenza, strage dopo strage e lutti e rovine e lacrime.

Ricordiamole quelle catastrofi avvenute che hanno costellato la storia nazionale nel dopoguerra (senza scordare il terremoto-maremoto che distrusse Messina e lo Stretto ai primi del secolo scorso provocando una strage di proporzioni inusitate).

Il primo fu l’alluvione del Polesine. Poi l’immensa e paurosa ondata del Vajont. Il terremoto del Belice. L’esondazione dell’Arno che sommerse Firenze mentre un’acqua alta eccezionale sommergeva Venezia. Poi il terremoto dell’Irpinia. Quello del Friuli. La catastrofe in Valtellina. L’esondazione della Dora e degli affluenti del Po. Il terremoto in Umbria e nelle Marche. L’ondata di fango che devastò la valle del Sarno. Ed ora l’Abruzzo.

Sessant’anni di rovine, lutti, tendopoli, roulotte, prefabbricati, cucine da campo, Forze dell’ordine e Forze armate mobilitate, pompieri e vigili, ordinanze, editti, processi, mafie e camorre all’opera per trarre vantaggi.

E lacrime lacrime lacrime. Di emergenza in emergenza. Ma tra l’una e l’altra liberi tutti. Liberi di costruire sul bordo dei fiumi e dei vulcani. Liberi di impastare il cemento con la sabbia del mare. Liberi di lesinare sulle armature di ferro. Liberi di scempiare il paesaggio. Liberi di violare i piani regolatori. Un popolo di eroi, di navigatori e di abusivi. Sempre condonati. Spesso incitati ad abusare. Come accade quando il fare diventa un fine a se stesso e sgomita per farsi largo, egoismo che lotta con altri egoismi.

Sono queste le invasioni barbariche del nostro tempo, in testa alle quali ha cavalcato e cavalca gran parte della classe dirigente di ieri e di oggi. Anche di domani?

Il terremoto d’Abruzzo, pur col suo carico terribile di vittime, ha registrato un numero di morti e di feriti minore di quelli che l´hanno preceduto. Ma con alcune particolarità che aggravano molto le incognite della ricostruzione.

La principale di queste particolarità riguarda l’Università, una delle più antiche d’Italia, concentrata sulla facoltà di Ingegneria, frequentata complessivamente da trentamila studenti molti dei quali provenienti da paesi e luoghi lontani. È improbabile che questi studenti "foranei" tornino a L’Aquila anche quando la città sarà stata ricostruita. I rischi sono troppi. Ma lo smantellamento del polo universitario sarebbe (sarà) un’altra catastrofe nella catastrofe della città. La popolazione universitaria produce infatti un indotto di traffico e di servizi che è il vero motore propulsivo dell’economia cittadina.

Un discorso analogo, anche se in misura più ridotta, vale per le scuole elementari e secondarie, anch’esse a rischio di spopolamento e intanto di lunga interruzione. Bisognerà organizzare un anno scolastico d’emergenza cercando in tutti i modi di preservare l’unità delle classi e dei loro insegnanti.

La terza questione riguarda i modi della ricostruzione e innanzitutto la scelta del luogo: una nuova città lontana dall’attuale insediamento oppure ricostruire negli stessi luoghi e nelle stesse forme architettoniche badando ovviamente ad una rigorosa vigilanza sulla progettazione tecnica e sulla qualità dei materiali?

La maggior parte degli esperti propende per questa seconda soluzione ma c’è ancora discordanza. Forse dovrebbero essere gli abitanti a decidere.

Quale che sia la scelta occorre far presto: il clima in Abruzzo è rigido, ad ottobre l’inverno è già cominciato. Trascorrerlo sotto le tende è impensabile, tanto più che abbondano le persone anziane. Ma è impensabile anche disperderli e non si tratta soltanto del capoluogo: il sisma ancora parzialmente in corso ha sconvolto gran parte dell’Abruzzo, sicché è un’intera regione con caratteristiche alpine che si accinge a passare un inverno assai disagiato.

Da questo punto di vista l’emergenza è massima e la sua durata non sarà certo minore dei diciotto mesi. Una regione intera. Non è pensabile che ci si affidi all’improvvisazione: governo e protezione civile dovranno presentare un piano ed una tempistica attuativa al Parlamento e indicando insieme con essa l’ammontare dei fondi necessari e la loro copertura.

La Cassa depositi e prestiti potrà fornire un appoggio che in parte rientra nelle sue competenze istituzionali. Si tratta tuttavia di investimenti infrastrutturali (ospedale, palazzi di città, scuole e Università) che riguardano istituzioni e pubblici servizi in capo alla Regione, ai Comuni e allo Stato. Per la Cassa si tratta comunque di prestiti che dovranno esser rimborsati e che richiedono quindi copertura.

Con i tempi che corrono questa partita è molto difficoltosa. Se non ci fosse di mezzo l’orgoglio di Berlusconi, il provvedimento più logico riguarderebbe la reintroduzione dell’Ici sulle prime case che frutterebbe all’Erario un maggior gettito di 3 o 4 miliardi. Ad essi si potrebbe aggiungere un "eccezionale" inasprimento dell’Irpef del 2 per cento per i redditi superiori a 120mila euro annui, il cui maggior gettito, stimato dai tecnici del Partito democratico che ha formulato la proposta, darebbe 2 miliardi. Sarebbe un’imposta di scopo motivata dal terremoto e quindi percepibile ed accettabile dai contribuenti chiamati a farvi fronte.

Infine l’accorpamento del referendum alle elezioni europee del 7 giugno, con un risparmio di 400 milioni.

Si tratta complessivamente di risorse che ammontano a circa 6 miliardi, per far fronte ad una ricostruzione "una tantum". È chiaro che ben altre cifre sono quelle che riguardano la messa in sicurezza delle scuole e delle costruzioni in zone a rischio di catastrofi naturali.

È stata notata da gran parte dell’opinione pubblica e sottolineata da giornali e televisioni la diversità di comportamento tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio di fronte al terremoto d’Abruzzo. Più composto e riservato Napolitano, più emotivamente impegnato nel dirigere e nel fare Berlusconi. Commossi ambedue e più volte presenti sui luoghi del disastro, Napolitano con appena un tremito della voce subito represso, Berlusconi con lacrime sincere e copiose. Infine il Capo dello Stato ha chiamato in causa le responsabilità di quanti hanno male progettato e male eseguito opere che – se le regole fossero state osservate – avrebbero dovuto reggere all’impatto del sisma ed ha stimolato la magistratura ad accertare eventuali reati.

Si potrebbe dire con una punta di ottimismo che i due maggiori rappresentanti delle nostre istituzioni hanno caratteri e culture molto diversi ma complementari che, presi nel loro insieme, danno luogo ad un tandem bene assortito.

Purtroppo questa punta di ottimismo è troppo… ottimistica. Il fare del presidente del Consiglio – l’abbiamo già detto in precedenza – si limita ad una veduta corta e si esaurisce nell’immediato, insegue ritorni politici ed elettorali a scadenza breve, è intriso di emotività e di populismo. La sua sincerità non è sufficiente a dar vita a processi produttivi di lunga lena e di scarsa redditività ai fini del consenso e della popolarità.

Quanto al presidente della Repubblica, non è suo compito proporre programmi politici né Napolitano è persona che voglia eludere le sue competenze istituzionali. Ha grande rispetto per i poteri del governo e per quelli del Parlamento. Incoraggia nei modi appropriati alla sua carica il guardare lungo, a darsi carico del futuro, insomma a guidare il paese come spetta ad una classe dirigente consapevole delle sue responsabilità. Più di questo non può fare, anche se è prezioso che lo stia facendo con tenacia e fermezza.

Il resto spetta a tutti gli altri settori che formano la classe dirigente: i rappresentanti degli imprenditori, i sindacati dei lavoratori, i partiti, gli ordini professionali, la magistratura, le Regioni e gli Enti locali. Ma spetta soprattutto ai cittadini.

I cittadini (l’ho già scritto in altre occasioni ma voglio qui ripeterlo) sembrano ormai presi da sentimenti di indifferenza e apatia che non sono consoni alla temperie che stiamo attraversando. Sono delusi ed hanno buone ragioni per esserlo, ma la delusione non ha alcuna logica connessione con l’apatia, specie quando una parte non piccola di essa riguarda anche il modo come abbiamo esercitato il nostro ruolo di cittadini e di popolo, come abbiamo vissuto il nostro diritto di cittadinanza.

È illusorio pensare che la classe dirigente possa esser migliore del popolo che la esprime. C’è un rapporto stretto tra questi due elementi di una democrazia funzionante e governante, tra la cittadinanza e la dirigenza. Se entrambe sono parte d’un circolo virtuoso si migliorano a vicenda, ma se entrambe fanno parte d´un circolo perverso, a vicenda si imbarbariscono.

In questa Pasqua dolorosa sia questo un pensiero sul quale impegnarsi e sul quale tutte le persone di buona volontà sappiano guardarsi negli occhi e stringersi la mano.

Parchi a trecento metri da casa. Un aeroporto progettato in modo da far risparmiare carburante agli aerei che atterrano. E l’80% delle persone che nelle ore di punta usano i trasporti pubblici: le fermate, del resto, sono distanti in media trecento metri dalla porta di casa. Sembrerebbe una città delle favole, ma esiste e non è neanche troppo lontana. Il luogo dove i sogni di ambientalisti e comuni cittadini stanchi delle metropoli diventano realtà è Stoccolma. A tirarla fuori dal libro delle favole e ad ancorarla solidamente alla realtà ci ha pensato la Commissione europea, che l´ha appena premiata come Capitale verde d’Europa per il 2010 nella prima edizione di un premio destinato a valorizzare i centri urbani che più fanno in campo di sviluppo sostenibile. La capitale della Svezia ha battuto di misura Amburgo, che però si è già aggiudicata il premio per il 2011.

Stoccolma - si legge nella motivazione del premio - si è data l’ambizioso obiettivo di rinunciare all´uso di combustili fossili entro il 2050. Il 95% della popolazione vive a meno di trecento metri da zone verdi, cosa che migliora la qualità della vita, facilita la purificazione delle acque, la riduzione del rumore e lo sviluppo della biodiversità. Ha un innovativo sistema di raccolta dei rifiuti e alte percentuali di riciclaggio. Il suo pionieristico Congestion Charging system ha ridotto l’uso di macchine, aumentato quello del trasporto pubblico e portato a una diminuzione del 25% pro capite di emissioni di anidride carbonica dal 1990". Parole che spiegano senza possibilità di errore perché Stoccolma abbia battuto le altre 34 concorrenti (per la cronaca, tutte città nord-europee: Germania, Francia, Olanda, Svezia sono stati i principali paesi da cui arrivavano le città candidate).

"Il nostro segreto - spiega con orgoglio Karim Dhakal, vice responsabile dell’ufficio che si occupa del coordinamento ambientale delle politiche di Stoccolma e fra gli artefici della vittoria - è un approccio integrato. Alcune delle città candidate avevano, su singoli temi, performance migliori delle nostre. Ma nessuna aveva come noi un piano verde globale. Non parlo di progetti singoli, per qualche area: ma di un’intera concezione di sviluppo urbano dove le zone verdi, i trasporti pubblici, il traffico, la gestione dei rifiuti e l’uso di energie verdi si sommano. Sono decenni che lavoriamo su queste questioni e ora i risultati si vedono".

Quello che Dhakal non dice, ma che è chiaro alle migliaia di visitatori che ogni anno - e sempre di più - arrivano ad ammirarla, è che Stoccolma ha vinto la battaglia per il futuro senza dimenticare il passato: le grandi finestre, i palazzi affacciati sull’acqua e l’architettura storica restano dei punti di forza. E non sono stati toccati.

Ad essere rivisto, nella corsa verso un futuro verde, è stato il modo di vita della città, in tutte le sue forme: dalla gestione delle acque e degli spazi pubblici, alla cruciale questione dei trasporti. Così la riduzione delle emissioni è arrivata costruendo case con un sistema energetico legato ad acqua e vento. Alimentando gli autobus con energia elettrica prodotta non lontano dalla città. Smantellando progressivamente il parco auto tradizionale, per sostituirlo con vetture elettriche: oggi l’85% delle macchine di proprietà del comune è alimentata con fonti di energia rinnovabile. E l’obiettivo è arrivare al 100% entro i prossimi anni. I tassi di inquinamento acustico sono fra i più bassi d´Europa (solo il 34% dei cittadini è sottoposta a qualche forma di rumore). E l’11% del cibo acquistato dagli uffici pubblici è al 100% biologico.

Per mantenere standard così alti, Stoccolma richiede ai suoi abitanti di rispettare regole ben chiare ma il patto sembra ben accetto: "La risposta dei cittadini è molto positiva - prosegue Dhakal - è vero che siamo tradizionalmente una città attenta a queste cose (nel 1972 qui si svolse il primo summit ambientale delle Nazioni Unite, in un’epoca in cui di ambientalismo parlavano ancora in pochi, ndr) ma è anche vero che le persone, per avere un’aria pura, acqua pulita in cui nuotare vicino casa e spazi pubblici disponibili, accettano di pagare una tassa per entrare in città. O di raccogliere la spazzatura in maniera differenziata. O ancora, di rinunciare a possedere una macchina".

In qualità di città vincitrice, nel 2010 Stoccolma ospiterà una serie di iniziative destinate a illustrare le sue politiche ambientali. Il modello cittadino verrà portato alla World Expo di Shangai e i responsabili sperano che possa attecchire anche oltre: "Pensiamo che sia un nostro dovere condividere le nostre conoscenze, ma abbiamo anche ancora molto da imparare da quello che fanno gli altri", conclude Dhakal. Italia compresa?

Alla domanda, Rainer Winter, bioarchitetto, specialista nella costruzione di edifici e ambienti rispettosi dell´ambiente, risponde con ironia: "Ci sono pro e contro. È vero che noi italiani siamo indietro - spiega - ma è altrettanto vero che stiamo recuperando in fretta. Sfruttiamo gli errori degli altri, acquisiamo solo le pratiche migliori, e sono fiducioso che nei prossimi anni faremo molti passi avanti".

Nel confronto con la realtà svedese quello che manca di più all’Italia è l’approccio integrato. Un piano di sviluppo che preveda di utilizzare le acque di scarico delle case nel processo di sviluppo di energie verdi. L’idea di materiali "verdi" o provenienti da zone non lontane. O di incanalare l’energia eolica prodotta nei dintorni della città al fine di alimentare il parco auto municipale: tutte realtà che ancora non appartengono al modo di pensare italiano. "Stiamo iniziando solo ora a concepire la progettazione di un’area urbana come un insieme di elementi diversi. Ma già in Umbria ci sono degli esempi interessanti - prosegue Winter - le leggi che hanno incoraggiato la bio-edilizia (intesa come costruzione di strutture con un basso impatto energetico, realizzate usando materiali locali e comunque non sintetici, dotate di tecnologie non fini a se stesse ma destinate a ridurre i consumi, ndr) hanno già provocato reazioni positive. E per il futuro c’è da sperare". Insomma se Stoccolma è ancora lontana, la classifica europea è un obiettivo che - fra qualche tempo - potremmo almeno provare a raggiungere.

Nessuno è senza colpa, dice Giorgio Napolitano ridando alle istituzioni l'onore e l'onere di parlare di responsabilità, anzi di «irresponsabilità diffusa». Parola fuori campo, come fuori campo cerca di restare il presidente della Repubblica rispetto all'occhio invadente degli obiettivi, «non sono venuto qui per farmi fotografare da voi, fatevi da parte, non rompete!». L'opposto simmetrico del presidente del consiglio, che da lì va e viene per farne cento e spararne mille, ma sempre in favore di telecamera.

Di responsabilità non sta bene parlare, ammonisce regolarmente in prima serata tv il mantra della squadra di governo: adesso è il tempo del dolore, della solidarietà, degli aiuti. Bisogna sospendere i cattivi sentimenti e stringersi attorno alle vittime con i sentimenti buoni. Bisogna sospendere la polemica politica e prendere esempio dal paese reale, dalla società civile che si sta rivelando civilissima, dall'orgoglio degli abruzzesi che è più forte del terremoto, dai volontari che accorrono da ogni dove senza ideologia. «L'Italia è un grande paese». Fine del mantra. Poscritto: mandate soldi, lo Stato non ne ha, ma nel grande paese ne circola in abbondanza (sarà per l'evasione fiscale).

Le catastrofi e i traumi collettivi sono sempre un'occasione d'oro per riformulare il discorso pubblico: certe parole vanno fuori corso, certe altre schizzano in primo piano e il senso segue a ruota, anche a seconda di chi le pronuncia o le tacita. Mettere in contrapposizione il dolore per le vittime e la denuncia delle responsabilità è un'operazione cinica e bara che si commenta da sé: sono i lutti senza responsabilità quelli che non si elaborano mai e che aprono la pista alla coazione a ripetere, sempre lo stesso delitto e sempre senza colpa.

L'ode in rima baciata al Grande Paese, invece, qualche commento se lo merita. Ci mancherebbe pure che non fossimo solidali, che non accorressimo in soccorso, o che tutti ce ne andassimo gaudenti al mare dotati di crema abbronzante secondo i consigli di chi sappiamo. Ma quando l'elogio della società civile deborda in bocca alla compagnia di governo, rafforzato per giunta dalla sistematica ingiunzione a «lasciar perdere la politica» di fronte all'ira degli elementi, non si tratta più di un omaggio alla virtù civica, ma di una autodimissione dalla virtù politica. Questo è infatti precisamente lo spot che gli uomini di governo ci stanno mandando a ripetizione: c'è una catastrofe naturale, non ci sono responsabilità e non c'è colpa, non c'è illegalità e non c'è impegno di legalità, la politica non c'entra niente e deve solo tacere di fronte al lutto, il governo sta facendo di tutto e di più ma il pallino vero, la possibilità e la responsabilità, l'oggi e il domani, stanno in mano vostra.

Politica dell'antipolitica. Più colpevole e più irresponsabile del solito, di fronte al lutto. Corroborata dall'attivismo del premier-imprenditore, con l'imprenditore che fornisce le ricette al premier, una dieci cento Milano2, l'esperienza c'è, potete fidarvi. Più che ammaccato e più che ferito nelle sue pretese seduttive al vertice di Londra fra i grandi della terra, gira fra le macerie d'Abruzzo come uno fra tutti, abbraccia gli sfollati come uno di loro, elogia la virtù civica come uno di noi. Forza dell'empatia, debolezza del mimetismo. Anche la commedia dell'assurdo fa parte dei tratti del «grande paese». E' una commedia dell'assurdo nascondere le crepe del Palazzo sotto le macerie di case qualsiasi.

Una regola s’impone nella tragedia del terremoto aquilano: essere rapidi ed efficienti nel migliorare l’assistenza ai terremotati e avviare la ricostruzione quando si hanno le idee ben chiare. Senza promesse infondate.

In Umbria, nel ’97, Prodi parlò di tre anni. Berlusconi, nei giorni scorsi, di due anni. Ora accenna a tempi più lunghi. Gli uomini di governo dicano la verità vera: i tempi di una ricostruzione fatta bene si misurano in non pochi anni, da cinque in su, a seconda delle situazioni. E allora agli attendamenti bisognerà far seguire, prima dell’autunno, non i famigerati container bensì veri villaggi o acquartieramenti di case prefabbricate in legno, le «instant houses», quelle usate con successo fra Umbria e Marche. Con scuole e servizi. In tal modo nessuna identità comunitaria, neppure la più piccola, verrà dispersa.

Non siamo all’anno zero. Per L’Aquila e dintorni si può prendere il meglio dalle esperienze dei molti (purtroppo) terremoti dell’ultimo quarantennio. Da Tuscania (Viterbo), terremoto dimenticato che registrò nel ’71 oltre trenta morti e forti distruzioni nella città dalle belle mura e da Venzone (Udine), medioevale anch’essa, quasi sbriciolata nel ’76, si prenda l’incoraggiamento a ricostruire, ovunque sia possibile, «com’era e dov’era» il tessuto storico, l’intero contesto e non i soli monumenti. Con la partecipazione attiva delle popolazioni al processo di decisione e di ricostruzione.

Da Assisi si prenda l’idea-forza di concentrare una massa formidabile di competenze tecnico-scientifiche (restauratori, strutturisti, ecc.) nella chiesa-simbolo tanto minacciata, la Basilica superiore di San Francesco, per restaurarla al meglio in tempi ragionevolmente rapidi. Per L’Aquila i simboli sono due: Santa Maria di Collemaggio, senza dimenticare le altre chiese della città, e il poderoso Castello. Ma tutto il centro storico, tanto massacrato e tanto stratificato, esige di venire analizzato, inventariato, studiato, progettato al dettaglio nel restauro e nella ricostruzione. Investendo anche in esso con una massa di competenze ben orientata e diretta dagli organismi dei Beni Culturali e da nessun altro. Qui come nei borghi minimi.

In Friuli si scelse di ricostruire prima le fabbriche e poi le case. In Umbria di ricostruire anzitutto le chiese («le nostre fabbriche», commentò un vescovo alludendo al turismo religioso). All’Aquila la scelta è più complessa: riattivare l’Università, soccorrere le piccole e medie imprese, ridare un tetto alla gente, restaurare i monumenti-simbolo. Fondamentale è non calare dall’alto le strategie, interrogare le comunità locali. In Umbria vennero creati consorzi fra proprietari privati i quali hanno poi gestito bene i finanziamenti.

Evitiamo anzitutto l’ingrandimento dell’area del sisma oltre i suoi confini reali: in Irpinia si inclusero ben 213 comuni nei quali «nessuna abitazione risultava seriamente lesionata» (Rapporto della commissione di inchiesta Scalfaro, 1991). Da San Giuliano di Puglia ci si è allargati all’intero Molise... Sono indecenti pratiche politico-clientelari che portano a sprechi enormi e aprono una autostrada alle imprese della criminalità.

Non siamo all’anno zero. I terremoti e le ricostruzioni dell’ultimo quarantennio (come minimo) ci dicono cosa fare e cosa non fare. Seriamente.

Siglati gli accordi sulle misure contro la crisi, sulla Nato e sull'Afghanistan, messo sul tavolo il contrasto fra l'amministrazione americana e la coppia Sarkozy- Merkel sull'ingresso della Turchia nella Ue, del primo viaggio di Barack Obama in Europa si continuerà a discutere a lungo quanto al profilo dell'Europa che ne viene fuori e ai rapporti fra Europa e Stati uniti, nella doppia cornice della strategia del dialogo con il mondo musulmano inuagurata dal presidente americano e dell'evidente spostamento sul Pacifico dell'asse geopolitico ed economico globale. La valutazione dello stato di salute della eternamente a- venire Unione europea è evidentemente complicata, oltre che dalla crisi, dalla clamorosa virata impressa da Obama alla politica americana rispetto agli anni di Bush, che il viaggio in Europa ha ribadito, sia sul fronte della politica economica sia sul fronte della politica estera. Finita la religione del mercato e sepolto il programma dello «scontro di civiltà», anche il discorso europeo (e la retorica europeista) devono trovare nuovi argomenti: i confini fra modello sociale europeo e modello individual-liberista americano si fanno meno netti e si prestano meno di prima a essere usati ideologicamente da una parte e dall'altra, oltre che di americanizzazione della politica europea bisognerà magari cominciare a parlare di una certa europeizzazione della politica americana, l'antiamericanismo che negli ultimi decenni abitava il campo della sinistra tende adesso, come già si vede, a spostarsi (o meglio a tornare, se si tiene conto del suo andamento nel secolo scorso) nel campo della destra. E il vecchio continente, se per un verso è destinato a un ruolo minore in un multipolarismo che fa asse sul Pacifico, per l'altro verso può ritrovare un ruolo cruciale, in linea con la sua vocazione originaria, come terra di confine fra civiltà occidentale, mediarientale e asiatica.

C'è materia di riflessione in abbondanza per le sinistre europee, radicali e moderate, che all'appuntamento con questo tornante politico e storico arrivano quasi tutte politicamente disastrate e culturalmente disarmate, e all'appuntamento con la prima crisi economica globale arrivano prive di quella strategia comune su scala continentale che sarebbe la prima condizione per affrontarla: strette dunque fra la necessità di «più Europa» e la realtà, nella maggior parte dei casi, di governi di destra che hanno in mano le leve del controllo pubblico sull'economia indispensabile per gestire la crisi e i suoi costi sociali. Si può parlare, in questo quadro poco confortante, di una eccezione spagnola? L'esperimento Zapatero regge all'impatto con la crisi? Come si posiziona rispetto alla svolta obamiana? E può funzionare come riserva di idee per quelle sinistre europee moderate che negli ultimi due decenni si sono fatte affascinare più dal modello liberista blairiano che da quello liberal-liberatario spagnolo? Poche ore dopo che a Praga l'incontro di Obama con Zapatero si apriva con il «Sono contento di poterla chiamare amico» di Obama e si chiudeva con il «non dobbiamo chiederci che cosa può fare Obama, dobbiamo chiederci che cosa possiamo fare per aiutarlo» di Zapatero, mettendo così fine ai cinque anni di gelo fra il premier spagnolo e George W. Bush, a Roma un seminario fra il Centro per la riforma dello Stato e il presidente della Fondazione «Ideas» del Psoe Jesus Caldera (presentato pochi giorni fa sul «manifesto« da Aldo Garzia) si poneva queste domande, cercando di rilanciare il confronto con il laboratorio spagnolo fin qui poco praticato dalla sinistra italiana ai livelli ufficiali. E si capisce perché, ascoltando la piana ostinazione con cui Caldera, appellandosi alla necessità, per la sinistra europea, di riscoprire «la coerenza con i propri valori», ribadisce gli ingredienti fondamentali della ricetta spagnola: diritti, libertà dal dominio diretto e indiretto, laicità, tolleranza, rispetto delle diversità, equità sociale sostenuta da azioni positive, keynesismo, redistribuzione. Una ricetta socialista classica, corretta da forti iniezioni di liberalesimo, che secondo Caldera resta l'unica base giusta e possibile anche per dare alla crisi una risposta non «dolorosa», come recita il mantra di tutti gli altri governi europei, ma improntata a criteri di protezione sociale (e non di protezionismo economico), e per salvare ciò che va salvato del modello sociale europeo. Forse non è abbastanza per dare soluzione ai troppi tormenti d'identità delle altre sinistre europee, ma certo l'esperimento spagnolo è materia imprescindibile per ripensare il rapporto fra democrazia, libertà e lavoro che la crisi politica ed economica ci riconsegna aperto.E forse qualcosa ci dice anche sul tema, oggi tanto sbandierata in Italia da destra, della leadership carismatica, se Caldera può serenamente rivendicare «l'influenza politica e morale» di Zapatero e giudicare altrettanto serenamente che Berlusconi non può rivendicare carisma alcuno, «all'estero è considerato uno senza vergogna».

Man mano che s’estende e s’aggrava, la crisi economica che traversiamo somiglia sempre più all’esperienza che l’uomo fa della guerra. È violenta, e suscita nel popolo violenza, ira. Chiude le porte dell’avvenire, troncando non solo le vite ma i progetti, le aspettative che oltrepassano l’immediato presente. Le sue due prime vittime sono il tempo lungo e la verità. Al pari dei generali, i governanti tendono a esecrare le cattive notizie che gli organismi internazionali diffondono ogni ora sulla ricchezza delle nazioni che scema, sulla disoccupazione che cresce. Le brutte notizie pubblicizzano i mali, aprono finestre che sarebbe preferibile tener chiuse, permettono alle lingue di sciogliersi, di sfatare menzogne dette per decenni sulle intrinseche virtù del mercato.

Nella sete di verità e nella sua divulgazione non si vede che disfattismo, questa passione triste che tenta il soldato in trincea. In parte per pigrizia, in parte per vigliaccheria, i governanti sembrano quasi voler curare il male con i mali che l’hanno scatenato: con l’illusionismo, con il nascondimento dei rischi, con il pensare-positivo che ignora i pericoli, con l’escamotage. Non con l’analisi psicologica ma con il coaching, l’incoraggiamento sbrigativo che ti riconforta scansando non tanto il pessimismo, ma il realismo. Non con lo sguardo proiettato sul domani, ma con l’istante che l’abolisce. Quel che diceva Samuel Johnson della guerra, in un articolo del 1758, s’adatta all’oggi in maniera impressionante: "Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia".

Il gruppo dei 20 Paesi riunitosi giovedì a Londra s’è sforzato di uscire dalle pigrizie, e anche di far luce su quel che tanti vorrebbero oscurare: ad esempio su alcuni paradisi fiscali, o sui conti bancari segreti. Ma il fastidio che la verità incute nei governanti resta intenso, specie in Europa. Sarkozy ha perso la pazienza qualche giorno fa, irritato dalle cifre pessimiste che circolano a Bruxelles. E il fastidio è forte nel governo italiano. L’Italia è più impreparata alla crisi di quanto il potere voglia far credere, ma il capo del governo è aggrappato al pensare-positivo come ci si aggrappa a una droga. Il contrario del pensare-positivo non è per lui altro che pensare-negativo: non è verità, necessità. Le colpe sono sempre di altri, e in particolare degli organismi internazionali che sfornano ogni giorno cifre più allarmiste: l’Ocse è invitata a "star zitta", i commissari europei "a lavorare piuttosto che far prediche ai governi" e "disturbarne" il lavoro. Così facendo Berlusconi ammette il disastro: chiede di non renderlo pubblico. Eppure la verità è rimedio essenziale, e chi comincia a dirla già compie metà del cammino, già si esercita a veder più lontano e più chiaro.

Solo se si conosce l’ampiezza del male e la sua natura, solo se si discerne l'enorme mutazione che sta avvenendo e se si guardano in faccia le violenze e i conflitti sociali che s'accompagneranno alla mutazione, si può pensare di uscire dal disastro non distrutti. La verità è un’etica e al tempo stesso un farmaco contro il pensare positivo o negativo: nelle tragedie, è il punto in cui l’eroe accecato o colpevole si trasforma grazie alla peripezia, al rovesciamento di cose che parevano avere un senso e d’un tratto ne hanno un altro. La medicina della verità, Kant la chiama pubblicità: che non è réclame ma è il dibattito fra opinioni diverse reso pubblico, la rinuncia del potere alla segretezza dispotica, le istituzioni comuni che prima ancora d'esser democratiche si fanno repubblicane, appartenenti alla sfera pubblica.

Il rischiaramento dei Lumi e il sapere aude! (osa sapere!) che Kant invoca permettono all’uomo di diventare cittadino e alle nazioni di divenire cosmopolite: l’uno e le altre non più responsabili solo verso se stessi. Non so cosa pensi Sergio Marchionne del grande crollo ma non è del tutto improbabile che la sua visione del futuro sia scabrosa, non ottimista: che veda un domani dove l’auto sarà un peso, costoso e dannoso per il pianeta. Che proprio questa visione l’abbia spinto a innovare radicalmente e conquistare l’America. La mutazione del mondo è la cosa più difficile da vedere, governare. È difficile per l’America, che fatica a smettere l’egemonia. Ma non è meno difficile per gli europei, che alla trasformazione rispondono concentrandosi su singoli duelli con Obama, e chiedendo che l’America ripari il riparabile visto che è stata lei a sfasciare.

L’ascesa di nuove potenze come Cina e India è un’ulteriore verità che disturba il loro sonno dogmatico, e il mal dissimulato desiderio di ricominciare la storia di ieri: una storia in cui l’Unione europea brilla forse per intelligenza, ma non per capacità di guida e responsabilità mondiale. Quando Berlusconi dice che il vertice veramente importante sarà quello degli Otto Grandi alla Maddalena, quando i governanti europei parlano della crisi come di una burrasca passeggera, la presa di coscienza è rinviata e il rovesciamento tragico lontano. La verità di cui si teme il disvelamento è che la piccola élite del G8 è sorpassata, non è neanche più élite. Le idee nuove sulla crisi sono venute non dall’Europa o dall’America ma dalla Cina, che con realismo vede il declino del dollaro e con questa visione attrae un numero crescente di Paesi: non solo il governo russo che per primo ha denunciato il pericolo del dollaro-moneta di riserva mondiale ma anche Indonesia, Filippine, Malaysia, Argentina, Venezuela.

La Cina non solo è più inventiva: il racconto che fa del mondo - lo spiega bene lo storico Paul Kennedy sull’Herald Tribune del 2 aprile - fotografa il reale e le necessità del domani con fedeltà difficilmente confutabile. Il racconto veritiero sul mondo che abitiamo - il filosofo Paul Ricoeur lo chiama la "narrativa" - è da tempo usato nelle terapie dei tossicodipendenti, per la ricostituzione di identità frantumate. È utile anche per la tossicodipendenza delle nostre società e dei loro governanti: aiuta a comprendere meglio le rivolte che si estendono, la questione sociale che si risveglia, Marx che secondo Paul Kennedy rinasce. È futile parlare di piagnoni o fannulloni: i tumulti di questi giorni a Londra e Strasburgo, ma ancor più i sequestri di manager o l’ira contro i ricchi che si moltiplicano in Francia, sono segni ominosi. Alle rivolte partecipano sempre più lavoratori - scrive il sociologo Carlo Trigilia che le analizza con lucidità - e a esse occorre replicare riconoscendo gli effetti sociali della crisi e dando ai minacciati più giustizia e protezione (Sole- 24 Ore, 2 aprile).

Anche Obama ha parlato di violenza, vedendola come fenomeno della società-mondo, e sembra desideroso di opporre un suo racconto della crisi al racconto ostile che va gonfiandosi. Ha cominciato col descrivere il proprio Paese, denunciando la fede nel mercato che per anni l’ha cattivato e annunciando che l’America di domani non sarà più il Paese che era: "Voracemente consumatore", drogato dall’indebitamento, incapace di risparmiare. Un mercato ideale per tanti.

In un saggio scritto nel 1926 su Montesquieu, Paul Valéry racconta la Francia prima della rivoluzione e narra un Paese arguto ma smarrito: "Senza che nulla di visibile sia mutato (nelle istituzioni dell’epoca), esse non hanno più altro che la bella presenza. Il loro avvenire si è segretamente esaurito. Il corpo sociale perde dolcemente il domani. È l’ora del godimento e del consumo generalizzato". È un Settecento adorabile e tuttavia viziato, senza futuro. Non diverso da quello dipinto da Samuel Johnson: affetto da credulità, interesse miope, disamore della verità. Un mondo che precede le guerre, le rivoluzioni, e se tutto va bene le grandi trasformazioni.

La letteratura liberista è passata dal tono maggiore, assertivo e imperioso, al tono minore, nostalgico e ammonitore. Ieri affermava perentoriamente la superiorità del modello americano, autoregolato da congegni finanziari sofisticati, su quello europeo, costretto nelle maglie di una regolazione pubblica rozza e invadente. Oggi ci si chiede con ansia quando tornerà il sereno e si invoca lo Stato, tornato necessario, ad affrettare i tempi pagando i debiti e sgombrando subito dopo il campo. Ciò che c’è di costante, nella sonata, è l’accento pedagogico. Lungi dal rileggersi le lezioni fino a ieri impartite, i maestri continuano ad addottrinarci ex cathedra.

La diagnosi della crisi fornita da economisti di indubbio valore ma di scarso senso dell’humour è disarmante. Il crollo dei titoli rappresentativi della ricchezza, dicono, non è «credibile». Esso non è affatto dovuto a una diminuzione del valore reale delle attività economiche che rappresentano, ma a un crollo della fiducia che ha paralizzato il flusso della liquidità. Basta quindi che qualcuno, incurante dei segnali fasulli del mercato, ristabilisca la verità, offrendosi di ricomprare quei titoli a un valore ragionevole, non quello stratosferico ante-crisi, né quello miserevole al quale sono caduti, perché le transazioni riprendano e la fiducia ritorni. Qualcuno chi? Ma lo Stato, ovviamente, quello che secondo la vulgata, non era la soluzione ma il problema. Ma non era il mercato autoregolato l’unico strumento rivelatore della verità economica? E non era in base a questa fede cieca che si sono convinti i cittadini a legare le loro pensioni ai valori della borsa? Ora che hanno perso i loro risparmi gli si dice che quei valori sono ingannevoli. E come è avvenuto che quei valori diventassero ingannevoli? Attraverso una colossale inflazione finanziaria, un flusso di liquidità originato dai crediti facili delle banche. Inariditosi quel flusso, si pretende di ristabilirlo ricorrendo ai soldi dei contribuenti. Questo è il senso del piano Geithner-Obama, che si distingue da quello Paulson-Bush per una rappresentazione ipocrita. Si reinserisce liquidità nel sistema riacquistando la spazzatura dei cosiddetti titoli tossici. Ma invece di farli acquistare direttamente dai contribuenti si affida l’operazione a operatori privati assicurandoli dei rischi che assumono con generose sovvenzioni: pagate da chi? ma dai contribuenti: elementare, Watson!

Insomma, una crisi originata da un eccesso di liquidità finanziaria è fronteggiata con una nuova immissione di liquidità. Probabilmente, allo stato delle cose non c’è altro da fare. Uno però può pensare: va bene, paghiamo e diamo olio alle macchine. Ma chi ci assicura che non si incepperanno di nuovo? E qui il discorso diventa serio. Ai «restauratori» bisognerebbe fare osservare che l’origine della crisi non è finanziaria, ma reale: consiste in una squilibrata distribuzione dei redditi, che, non volendosi arrestare l’aumento dei consumi americani, ha generato, per alimentare una domanda altrimenti insufficiente, il ricorso a un indebitamento smisurato, annullando il risparmio interno e ricorrendo al risparmio esterno: quello di una Cina che, finora, si è preoccupata di sostenere le sue esportazioni in America più che di migliorare le condizioni sociali del paese.

Se è così non basta ridare olio alla macchina. Bisognerebbe riparare la macchina: ristabilendo, per esempio, politiche dei redditi all’interno dei paesi e una disciplina internazionale dei cambi che riequilibri i flussi di risparmio mondiali. Ma per questo è necessaria una visione lunga dello sviluppo (vedi in proposito il bel libro di Tommaso Padoa Schioppa e la recensione di Eugenio Scalfari sulla Repubblica del 26 marzo) e una capacità di coordinamento politico mondiale (una nuova Bretton Woods, come è diventato di moda dire) delle quali, malgrado il frequente cinguettio degli incontri internazionali (G8 G10 G20) non si vede traccia.

Poiché una ristrutturazione della macchina così impegnativa sembra altamente improbabile, non rimane che essere ottimisti. Dopo un formidabile «pieno», la macchina ripartirà. Tranquilli, dunque: come diceva Badoglio, la guerra continua.

A dire tutta la verità, però, un’altra via per uscire dalla crisi ci sarebbe. L’ha inventata il governo italiano. E’ la via del disarmo ecologico. Anzichè indebitarsi con le banche, ci si può indebitare con l’ambiente: un debito che ha il vantaggio di non dover essere restituito. Si lasci dunque libero campo al cemento. Quand le

Cos'è la Cgil? «L'unica opposizione disponibile», «un ammortizzatore sociale», «un presidio democratico»? Forse sono vere tutte e tre queste risposte, suggerite dalla straordinaria manifestazione che ha ridato a Roma e al paese un volto umano. Un gruppo di operai piemontesi canta «I treni di Reggio Calabria», la canzone che Giovanna Marini ha reso famosa. Un pensionato di «Roma sud» si avvicina, si inserisce nel coro e modifica la conclusione: «Alla sera Roma era trasformata/ sembrava una giornata di mercato/ quanti abbracci e quanta commozione/ gli operai hanno dato una dimostrazione». E aggiunge, puntando i cantori con l'indice: «Voi partite e noi restiamo con Alemanno sindaco».

Una grande giornata sindacale, la testimonianza di una società del lavoro sconfitta ma non pacificata. Tartassata prima dal liberismo sfrenato e poi dalla sua implosione, ferita da leggi che cancellano diritti conquistati in un secolo di lotte, privata dei contratti, privata del voto sugli accordi, privata del Testo unico sulla sicurezza, minacciata nel diritto dei diritti: quello di sciopero. In piazza, con la Cgil, la società del lavoro e quella del non lavoro, di chi vorrebbe lavorare e invece è a salario ridotto in cassa integrazione, oppure il contratto gli è scaduto, oppure dovrà trasmigrare con la sua laurea in tasca a Parigi o a Barcellona per provare a costruirsi un futuro. Una società del lavoro, del non lavoro e di chi ha lavorato quarant'anni per stringere in mano una pensione da fame, o solo una miserabile social card. I pensionati sono i più pazienti tra gli italiani, sono tra i non molti che continuano a votare e a votare a sinistra, o per quella che vorrebbero fosse una sinistra ma non lo è più.

Ci sono gli studenti, che un futuro non riescono a immaginarselo perché gli viene negato, non dalla crisi ma dalle risposte berlusconiane, da politiche economiche e sociali che non curano le malattie di oggi e preparano un domani ancor più malato. Studenti che neanche più i cortei riescono a fare senza essere bastonati, come del resto è capitato anche agli operai dell'Alfa di Pomigliano, o a quelli milanesi dell'Innse.

Una grande forza, che ha ancora una rappresentanza sociale ma non ha più una rappresentanza politica, ha ripreso la parola. Ma tante parole d'ordine «anticicliche» che spiegano come si potrebbe uscire dalla crisi in modo solidale non trovano sponde, in Parlamento e fuori. La sinistra è «in» libertà, e come dice un delegato africano della Fiom emiliana, «per rifare una sinistra qui in Italia bisogna ripartire dal lavoro, da questa gente e da quella che non c'è perché è delusa». Assente il suo compagno di corteo, emiliano purosangue, e cerca di spiegare al cronista un concetto fin troppo chiaro: «Lui vuole dire che senza centralità del lavoro non può esistere alcuna sinistra».

Centinaia di migliaia di uomini e donne in cammino, di tutte le età, con la pelle di tutti i colori. Mai si erano visti tanti migranti in una manifestazione nazionale per il lavoro, i diritti, la giustizia sociale. Ci sono gli africani della Campania che arrivano di corsa al Circo Massimo sostenendo lo striscione «uniti contro la camorra e il razzismo», vicino a loro il sindaco tricolorato di Pompei da un lato e Antonio Bassolino dall'altro. Tanti slogan, tanti pezzi di corteo contro la criminalità organizzata che si somma alla criminalità finanziaria (e a quella politica). Ci sono gli indiani di Reggio Emilia che nei cortei della Cgil sono diventati habitué. Ci sono i magrebini bresciani che fanno marciare le fonderie dei loro padroni leghisti e ci sono anche i neri che fanno il cordone di testa del corteo proveniente dalla stazione Ostiense, sono quelli che proteggono il segretario Guglielmo Epifani da chi vorrebbe abbracciarlo, salutarlo, stringergli la mano, e sono tanti. Si può dire che la Cgil è diventata un po' più colorata, anche dal palco si ricordano insieme i caduti sul lavoro - uccisi dal primato del profitto e dal servilismo cinico e classista del governo nei confronti del padronato - e i caduti del mare, chi muore cercando di raggiungere un lavoro e un futuro nel nostro «ricco» mondo. I morti sul lavoro rappresentano per entità l'unico primato italiano in Europa, quelli del mare affogano in acque internazionali, vengono da chissà dove, sono cibo per pesci.

La giornata inizia all'alba, per molti provenienti dalla Sicilia o dal Trentino è cominciata il giorno prima. I torinesi che bevono il quarto caffè sono a pezzi, «su quattro treni che ci hanno dato tre erano quelli dei pendolari, hai presente? Quelli su due piani», brontola un dirigente della Fiom con il braccio rotto ma per fortuna non dai manganelli della polizia, rimasta discretamente al margine. Quando i poliziotti tentano di fare un cordone in testa a un corteo, un corteo che arriva da un'altra strada li scavalca e si ritrovano accerchiati dalle bandiere rosse. Arrivano fiumi di uomini e donne dall'Esedra, dal Tiburtino, dall'Ostiense, da via Gallia, dalla Sapienza, da piazza dei Navigatori. Arrivano da ogni regione, città e paese d'Italia, sono l'Italia che non si rassegnano ai Berlusconi, ai Brunetta (il più fischiato), ai Sacconi. Non si rassegnano all'idea che possa diventare Fini il simbolo della democrazia, non ci credono. Un operaio lombardo alza un cartello che se la prende senza giri di parole con chi cambia casacca. C'è scritto «Zipponi vaffanculo», a qualcuno non è piaciuto il passaggio dell'ex dirigente sindacale da Rifondazione ad altri lidi, l'ultimo quello dipietrista. Sono tanti i politici che si affollano nel ridotto del palco, premono da sotto per salire; per vedere o per farsi vedere? Le elezioni sono vicine, i posti pochi, la concorrenza sfrenata.

Nazional-popolare, come tutte le grandi manifestazioni di popolo con tanto di Fratelli d'Italia. Ma anche un ottimo Luis Bacalov, i Modena City Ramblers ma anche Shapiro che auspica per tutti «E' la pioggia che va/ e ritorna il sereno». Non basta però una rondine a far primavera, lo sanno i minatori sardi costretti anticipatamente alla pensione e arrivati al Circo Massimo utilizzando tutti i mezzi di locomozione, automobile, treno, pullman, nave. E gambe. Lo sanno le maestre e i professori precari «da sempre, e se seguita così per sempre». La strada per la liberazione è lunga, piena di buche e impreviste curve a gomito che come nel gioco dell'oca ti riportano al punto di partenza. A Berlusconi. A una sinistra che questa marea va cercando, che sarebbe anche disposta a ricostruire.

E' difficile non pensare al 23 marzo 2002, un altro Circo Massimo, un'altra speranza, un altro segretario della Cgil. Quando Sergio Cofferati entra nel corteo dell'Ostiense, dalle parti di piazza Albania, e abbraccia con calore Gugliemo Epifani, molti applaudono, qualcuno si irrigidisce, una voce velata - accento friulano e cadenza da cantiere navale - si rivolge al segretario di oggi della Cgil: «Guglielmo, non fare come lui». Ma il rumore degli altoparlanti sui furgoni è troppo forte, quella supplica velata la sentiamo in pochi.

Forse saranno un po' meno di sette anni fa i lavoratori di ogni tipo, gli studenti, i disoccupati, i pensionati; non saranno tre milioni (2 milioni e 700 mila per gli organizzatori, mentre stime provocatorie di regime parlano di 200 mila, o di «una scampagnata», o di «uno sciopero contro la pioggia») ma sono pur sempre una marea. E i tempi, in sette anni, sono cambiati e non in meglio. Il 23 marzo del 2002 in tanti avevano visto nella Cgil e nel suo segretario trascinatore un futuro possibile per la sinistra italiana, acciaccata anche allora nonostante i forti movimenti contro la guerra e il liberismo. Poi le cose andarono come andarano. Oggi tutti si sono fatti più prudenti, i sentimenti sono importanti e le passioni non vanno sciupate. Ma «da qui si può ripartire», si dice, e ci dice, l'operaio marchigiano di padron Merloni che per prendere i soldi da due stati vuole chiudere la Indesit a Torino e portare il lavoro in Polonia. A Roma, questo tipo di Fabriano è venuto per difendere il suo lavoro e la sua dignità. Come aveva fatto il 23 febbraio quando in piazza, ad aprire la pista per una ripresa del movimento sindacale generale erano stati i metalmeccanici della Fiom e i lavoratori pubblici della Fp. In tanti, ieri, hanno ringraziato questi precursori della grande giornata di lotta della Cgil. Che «deve reggere, non farsi spaventare dal fatto che Cisl e Uil si sono imbarcati sul carro dei vincitori». Lo dice un postino di Rovigo, ma sono in tanti a essernr convinti. Buon 5 aprile a tutti.

L’obiettivo centrale di Silvio Berlusconi, il Primo Ministro italiano, era da tempo chiaramente e spudoratamente evidente. Fin da quando ha mosso i suoi primi grandi passi nel vuoto politico creatosi nel 1993 dai simultanei scandali di corruzione del governo da un lato, e il collasso del comunismo italiano dall’altro, il signor Berlusconi ha usato la sua carriera politica e il suo potere per proteggere se stesso e il suo impero mediatico dalla legge. Durante il più lungo dei suoi tre periodi come Primo Ministro, il signor Berlusconi non solo ha consolidato la sua già salda presa sul settore italiano dei media - ora ne possiede circa la metà - ma nella passata legislatura si è anche concesso l’immunità dai suoi procedimenti giudiziari. Poi, quando tale legge è stata dichiarata incostituzionale, lo scorso anno il neo rieletto Presidente Berlusconi l’ha portata in una nuova veste ed è con successo diventata legge.

Il signor Berlusconi deve il suo successo alla sua audacia e in modo rilevante anche alla profonda debolezza dei suoi oppositori. La sinistra italiana, in particolare, non è riuscita a dare vita a un’efficace opposizione. Ancora, l’ultimo atto di Berlusconi - la fusione nel suo nuovo blocco del Popolo delle Libertà, completato ieri, della sua Forza Italia con Alleanza Nazionale, che deriva direttamente dalla tradizione fascista di Benito Mussolini - può lasciare un segno più duraturo di quello lasciato da qualunque altro magnate populista, sulla vita pubblica italiana.

A differenza della Germania postbellica, l’Italia del secondo dopoguerra non si è adeguatamente confrontata con la sua eredità fascista. Come risultato, mentre i neofascisti in Germania non sono mai seriamente riemersi, in Italia vi sono state importanti continuità - ereditate da Mussolini - tra cui leggi e dirigenti e la rinascita postbellica del partito fascista sotto un altro nome a dispetto di una cultura pubblica italiana ufficialmente antifascista. Queste continuità sono appena diventate più forti.

E’ un giorno di vergogna per l’Italia.

D’altro canto, AN ha percorso una lunga strada in questi ultimi 60 anni. Il suo leader Gianfranco Fini, ha rigettato i costumi della vecchia politica e ha portato il suo partito verso il centro. Ha lavorato per più di 15 anni per l’alleanza del signor Berlusconi, parla della necessità di un dialogo con l’Islam, biasima l’antisemitismo e auspica un’Italia multietnica - posizioni che il signor Berlusconi, con le sue campagne anti-zingari, anti-immigrati e la sua predilezione per un razzismo “soft”, dovrebbe sforzarsi per avvicinare.

Nonostante le sue lontante origini liberali, l’Italia è storicamente un paese di destra. Ancora, è molto scioccante pensare che ci sarà un capo di governo tra i 20 leader del mondo a Londra per il vertice economico di questa settimana, che ha ricostruito la sua base politica sulle fondamenta gettate dai fascisti e il quale sostiene che come risultato la destra probabilmente rimarrà al potere per generazioni.

(31 marzo 2009)

Ci sono l’Italia della pellecchiella, un’albicocca che matura sui ciglioni del Monte Somma, accanto al Vesuvio, e l’Italia della vite maritata, che nel casertano si arrampica su un nodoso fusto di pioppo. Per la prima volta vengono censiti in un catalogo i paesaggi rurali che da secoli si mantengono sufficientemente integri e che, nella loro varietà, sono i più rappresentativi dell’identità multipla, tanto ricca quanto minacciata, della nostra penisola. Sono centotrentasei. Dai Quadri di Fagagna e dalle colline moreniche del Friuli agli orti e ai castagneti terrazzati di Liguria fino al bosco della Ficuzza fra Corleone e Monreale, dalla risara delle Abbadesse, pochi chilometri fuori Vicenza, passando per il parco della Moscheta in Toscana e arrivando agli altipiani di Castelluccio a Norcia.

Il Catalogo del paesaggio rurale storico italiano è il frutto di un lavoro compiuto da una settantina fra i massimi esperti di colture agricole, ma anche di storia e di discipline territoriali (Piero Bevilacqua, Diego Moreno, Giuseppe Barbera, Saverio Russo, Antonio Di Gennaro, Franco Cazzola, Lionella Scazzosi, Tiziano Tempesta, Massimo Quaini, Alberto Magnaghi, Paolo Baldeschi, Claudio Greppi). Il coordinatore è Mauro Agnoletti, che insegna alla facoltà di Agraria di Firenze. L’iniziativa è promossa dalla Direzione generale Sviluppo rurale del ministero dell’Agricoltura. Ogni paesaggio agricolo, forestale o pastorale ha la sua scheda (valori estetici, di biodiversità, economici, stato di conservazione, assetti geomorfologici e di colture). E di ognuno si racconta la vulnerabilità.

A poche centinaia di metri dalla risara delle Abbadesse, per esempio, si aprono gli sconquassi del cantiere dell’A 31 Valdastico, un’autostrada che attraversa quella parte di Veneto compresa fra i Monti Berici e i Colli Euganei, e distesa lungo pianure e valli parzialmente intonse, un paesaggio mosso dalle colline e attraversato da filari di gelso e dalle rogge, i corsi d’acqua che, per volontà della Serenissima, irrigavano i campi. Ma in tempi di "piano casa" e di fervore cementizio, fa impressione sentire che la multiforme ricchezza del paesaggio rurale italiano è minacciata certo dall’espansione urbana, ma anche - e anzi soprattutto - dalla sua "banalizzazione", da quel velo di uniformità che si posa su di essa a causa dell’abbandono di molte colture (le estensioni coltivate sono passate da 23 milioni di ettari degli anni Trenta ai 13 milioni attuali). O anche perché si diffondono incontrollati i boschi (nei primi decenni del Novecento la loro superficie era di circa 3 milioni e mezzo di ettari, oggi occupano 10 milioni di ettari). O, infine, come conseguenza di concimi chimici e agricoltura industriale, che fanno scomparire paesaggi tradizionali ritenuti di ostacolo alle produzioni intensive: e così, laddove c’erano campi promiscui con vegetazione e colture diverse, ora si espandono monocolture: tutto mais, tutto girasole, tutto vite, tutto ulivi.

Un esempio? La Toscana. Fino a tutto l’Ottocento, racconta Agnoletti, in un’area di circa mille ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi arborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi, per un totale di 65 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 "tessere" di un ricchissimo mosaico paesaggistico. Ora su quella stessa estensione di usi se ne contano diciotto.

Sono l’abbandono, spiega Agnoletti, e la troppa natura alcuni dei fattori che minacciano i paesaggi rurali italiani, che invece hanno come elemento tipico la manipolazione dell’uomo, il quale nei secoli ha creato, regione per regione, luogo per luogo, assetti diversi. «Chi viene in Italia - dice - non è richiamato dalla naturalità del paesaggio, altrimenti se ne andrebbe in Amazzonia o sul Grand Canyon».

Nel catalogo sfilano pascoli arborati e orti periurbani, limonaie e filari di gelso. «È un catalogo - afferma Marco Magnifico, direttore generale del Fai (Fondo ambiente italiano) - che documenta anche come in Italia l’uomo abbia integrato i paesaggi, ma senza occuparli e stravolgerli». Ma Agnoletti osserva: «Nel Nord sono ormai scarse le aree estese che conservano i caratteri tradizionali del paesaggio rurale. La montagna alpina presenta spesso zone con pascoli e terrazzi a vigneto, come in Valtellina o in Trentino. Sopravvivono le foreste cinquecentesche che i veneziani usavano per la costruzione delle navi. La pianura padana, però, ha perso gran parte del paesaggio storico: troviamo tracce di fontanili, marcite, cascine e risaie, ma con pochissime alberature, un tempo invece estesissime». Delle regioni centrali il catalogo sottolinea la permanenza dei castagneti da frutto in Toscana, «vecchi anche trecento, quattrocento anni», oppure le alberature nelle Marche, i tracciati della transumanza in Abruzzo. «Al Sud, poi, la dotazione è molto più ricca: i mandorleti terrazzati del Gargano, i pistacchieti di Bronte, le viti maritate dell’aversano, una coltura vecchia anche duemila anni, citata da Columella, Varrone e Plinio, o ancora il paesaggio agrario della Valle dei Templi di Agrigento».

Molti dei centotrentasei paesaggi hanno grandi attrattive per un turismo selezionato, ma in costante crescita. «Nelle regioni meridionali - ricorda Agnoletti – l’offerta agrituristica è cresciuta negli ultimi anni dell’ottanta per cento». Ma è fondamentale che quei paesaggi restino vivi, insiste il professore, che chi li abita non sia costretto ad abbandonarli e che si incentivino le produzioni di qualità: «Il rapporto fra il buon cibo, il buon vino e un territorio ben conservato è un valore che il nostro paese sfrutta ancora poco, a differenza di altri. Ci siamo molto concentrati sui prodotti, poco sui paesaggi che li esprimono. Eppure gli esperti di marketing sanno che è indispensabile costruire "una storia" per vendere bene un formaggio o un olio: i nostri paesaggi sono ricchissimi di queste "storie"».

Non c’è solo la semplificazione dei paesaggi a mettere a repentaglio la multiforme varietà dell’Italia rurale. Le città si espandono, dilaga la cosiddetta "città diffusa", quella delle villette che potrebbero ampliarsi del 20 per cento o del 30-35 se abbattute e ricostruite anche in deroga a tutte le norme urbanistiche. E gli spazi rurali periurbani sono i primi a soccombere. «Il cosiddetto "piano casa" è rischiosissimo», insiste Magnifico del Fai. «Quasi il nove per cento di tutta la superficie agricola italiana si trova intorno a grandi aree urbane, fra le quali le più importanti sono Milano o Napoli», calcola Agnoletti. I territori dell’agro romano fanno gola a nuovi e vecchi palazzinari. E una vera devastazione interessa l’area fiorentina, dove il paesaggio rurale della piana a ovest della città sta scomparendo e si sta realizzando la saldatura fra il capoluogo e gli insediamenti della provincia: uno degli ultimi baluardi di verde è l’area di Castello, sulla quale dovrebbero abbattersi più di un milione di metri cubi (la vicenda è ora in mano alla magistratura).

Sfogliando il catalogo sono molte le pagine in cui suonano i campanelli d’allarme. Ma una in particolare si segnala, quella dedicata al paesaggio agrario del Parco delle colline a nord di Napoli, un’area di oltre duemila ettari che dalle pendici della collina dei Camaldoli, dalle conche dei Pisani e di Pianura si infila fin dentro il centro storico della città, con le sue macchie di vegetazione e di giardini. L’area è saldamente tutelata e valorizzata dal piano regolatore, ma la sua vulnerabilità è massima. Lungo i confini meridionale e occidentale si aprono le voragini di numerose cave, profonde fino a ottanta metri, ora dismesse (quelle che si vedono nelle inquadrature del film "Gomorra"). In una di queste, a Chiaiano, è stata sistemata l’imponente discarica che adesso viene riempita con l’immondizia dei napoletani.

Non credo che il fascismo sia alle porte. Se le parole hanno un senso, ed è buon uso lasciarglielo, fascismo è quel che abbiamo conosciuto dal 1922 al '43: partito unico che si fa stato, fine delle elezioni e della divisione dei poteri, fine dei sindacati, illegittimità del conflitto di lavoro, fine della libertà di associazione e stampa, razzismo e singolarmente antisemitismo. Un regime del genere è oggi impensabile in Europa. Nell'evocarne golosamente due aspetti, poteri allargati del premier senza il contropotere d'un parlamento e di una magistratura indipendente, Berlusconi ha fatto una gaffe.

Che ne abbia profittato Fini è ovvio. E che lo faccia con l'intenzione di succedergli, tanto più che il Cavaliere non lascia spazio ai suoi, eccezion fatta per Letta, come eminenza grigia capace di tirarlo silenziosamente fuori dai guai, con stile opposto a quello che il boss coltiva per catturare la «gente». E che gli funziona, gli italiani avendo un'antica tendenza a farsi, da popolo, plebe; oggi non più stracciona, ma piccolo e medio borghese, egoista e sorda.

Questa massa sarebbe anche disposta a benedire, come i suoi nonni liberali, un fascismo tale e quale, ma Fini, che è più intelligente, ha capito che non solo sarebbe fuori tempo, ma non è necessario a un muscoloso dominio di classe. Per indebolire partiti e sindacati basta una democrazia elettiva disinnescata da idee forti, un'opinione coltivata con libero zelo dai media all'antipolitica, al decisionismo, ai privilegi e al razzismo; l'antisemitismo, dopo la Shoah e in presenza di Israele, non usa più. Per il resto basta una democrazia presidenziale, tendenzialmente bipolare, tendenzialmente d'opinione, spontaneamente non partecipata con contropoteri più che legittimati ma ridimensionabili in situazioni definite consensualmente di emergenza. Di che altro ha avuto bisogno Bush? Di che ha bisogno Sarkozy, cui de Gaulle ha già fornito nel 1958 quel che Berlusconi vorrebbe, e sta spossessando la magistratura dalla decisione di impostare o archiviare i processi? La democrazia elettiva ha permesso Bevan e Thatcher, Bush e Obama. Può oscillare fra apertura sociale pacifista e repressione sociale bellicista. Senza strappi istituzionali. Dipende dal carattere del presidente.

Fini ha una larga possibilità di farsi strada come più presentabile leader di destra, e Berlusconi ieri lo ha capito. Assisteremo al duello. Almeno finché non si presenterà uno scenario diverso. Oggi non c'è una opposizione capace di imporlo. Non quella moderata, mandata al tappeto da Veltroni e difficilmente resuscitabile dal volonteroso Franceschini e dai suoi modesti secondi ufficiali. Non quella detta radicale, che tutto si propone tranne dare una rappresentatività e qualche ragionevole speranza al blocco sociale dei salariati, dei precari, delle donne più coscienti di sé, dei cattolici non ratzingeriani, dei movimenti. Neppure ora che dentro tutta l'Europa monta la collera dei buttati fuori dal lavoro e dal sostentamento, di una intera generazione di giovani senza prospettiva; una massa che potrà sommarsi o, in mancanza di qualsiasi riferimento, scontrarsi con una immigrazione sicuramente crescente. Mai la sinistra è stata così vergognosamente assente, mai ha così abbandonato la protesta alla sconfitta o a rivolte riducibili a questione di ordine pubblico. Mai davanti a un sistema sociale incastrato nemmeno dalle sue contraddizioni ma dai più sfacciati e, a quanto pare, incontrollabili imbrogli. A tanto siamo a venti anni dal liberatorio 1989.

Nonostante le allegre foto di gruppo, il coro, l’Inno alla gioia, il congresso di fondazione del Pdl non è stato soltanto una cerimonia. Al termine di un cammino cominciato un anno e mezzo fa con il discorso del predellino, la destra ha effettivamente cambiato pelle. L’unione di Fi e An cambia nel dna il "partito dei moderati" e ora occorre fare i conti con l’entità politica nuova. Il problema è se oltre alla pelle è cambiato anche il corpo, ossia se dalla confluenza nasce una destra moderna o no.

In sintesi. Il Pdl ha visto confermarsi un vistoso dualismo al suo interno, che prelude già a una complessa linea di successione tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini; a ques’ultimo, il premier non ha offerto nessuna risposta sulle questioni più brucianti, a cominciare dai dilemmi di laicità sul biotestamento. Si sono manifestate infatti fra i due leader differenze di concezione così esplicite che si faranno inevitabilmente sentire all’interno del partito anche nel prossimo futuro. Ma l’aspetto più importante è un altro: il Pdl non è più la forza liberal-modernista, fondata sugli «istinti di mercato» e sugli slanci di vitalismo libertario a cui si rifaceva il primo Berlusconi.

Il Pdl è oggi una realtà tutta da interpretare. Nei suoi due discorsi congressuali, probabilmente Silvio Berlusconi ha perso l’occasione di presentare un progetto moderno per la società italiana. Come nei momenti di ispirazione più fiacca si è concentrato sui dettagli, talvolta sfidando il grottesco (come per l’attenzione all’ambiente, «che comincia dal non lordare i muri dei nostri palazzi»). Tuttavia è stato chiarissimo su alcuni aspetti cruciali, che riguardano essenzialmente la nuova concezione ideologica del Pdl. Il nuovo partito è «il partito degli italiani». La formula è rivelatrice e, a suo modo, preoccupante. Perché testimonia ben più che una intenzione maggioritaria, annunciata con il riferimento euforizzante all’obiettivo del 51 per cento.

Sotto questo aspetto, il ripetuto richiamo alla «rivoluzione liberale» è un esercizio retorico. L’etichetta «partito degli italiani» disegna un perimetro al di fuori del quale sembra non esserci legittimità pubblica. All’esterno del Pdl, nel grigiore di una «sinistra senza volto», secondo Berlusconi ci sono oppositori a cui non si riconosce una dignità politica sufficiente per un confronto sulle «missioni» del governo e della maggioranza, a cominciare dal rifacimento dell’impianto costituzionale.

La definizione «partito degli italiani» appare infelice proprio perché segnala una volta ancora l’orientamento ultraideologico del berlusconismo. Nel 1994 Berlusconi prometteva «un nuovo grande miracolo italiano»; oggi evoca il miracolo vicario di uscire dalla crisi. Tuttavia la formula della salvezza è sempre la stessa: il premier traccia una linea che esclude, dal buonsenso, dalla democrazia, e in ultimo dall’italianità, la metà del paese.

Da un lato ci sono gli italiani legittimati dal consenso al Pdl, dall’altro i nemici della libertà, e tutti coloro che non accettano di essere complementari al disegno di potere del premier. C’è da augurarsi che la missione di uscire dalla crisi economica abbia successo, altrimenti una minoranza «che come ha detto Tremonti fa opposizione non al governo ma al paese» potrebbe benissimo essere accusata di sabotaggio alla nazione.

Nella sua opacità democratica, l’idea del «partito degli italiani» ha una certa forza perché prospetta una soluzione permanente ai rischi dell’instabilità politica. Anzi, rappresenta un concetto fondante, in quanto comincia a rendere visibili i tratti politici, e anche socio-economici, del Pdl. L’idea di Berlusconi consiste nel costituire un blocco sociale integrato, in cui gli interessi si coordinano costituendo un assetto di potere permanente, praticamente inscalfibile.

Quindi Berlusconi prova a consolidare il suo regime. Quali siano gli interessi che il premier sta intrecciando nel suo progetto di stabilizzazione lo ha ricordato ieri Eugenio Scalfari: «Le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro». Ma non viene a nessuno il sospetto che non ci sia niente di autenticamente liberale in tutto questo? L’egemonia a cui punta Berlusconi tenta di rendere non contendibile il potere in Italia; ma soprattutto precostituisce un ordine sociale in cui gli interessi citati sono resi complementari, in un modello evidentemente organicista.

Non si sentono obiezioni, in proposito, da parte dei liberali di casa nostra. Nessuno che dica che il disegno berlusconiano rievoca una società premoderna, basata su un’architettura corporativa, in cui le membra del corpo sociale cooperano sotto la guida del leader. Il Pdl non è l’ingresso nella modernità, è un’esperienza che affonda le radici nel «pensiero italiano», in un Novecento chiuso e corporativo, per non dire altro.

La società decisionista che Berlusconi vuole è eclettica: unisce conservatorismo compassionevole e sbrigative modernizzazioni dall’alto, il tutto garantito dalla mobilitazione continua del popolo e dalla benevolenza lungimirante, dalla «lucida follia», del capo. In quanto tale rappresenta un’evoluzione profonda nella qualità democratica italiana. Prelude a una democrazia sotto tutela, governata con un chiaro accento paternalistico. Prima che l’ascesa di Berlusconi verso il 51 per cento abbia successo, tocca alla sinistra tenere vivi gli anticorpi istituzionali e, ebbene sì, liberali del sistema; e per il momento almeno la possibilità di una dialettica che eviti di bloccare per un altro quarantennio, un altro ventennio, insomma per un’altra fastidiosa eternità, il potere in Italia.

C'è il tempo della follia e c'è quello della razionalità. C'è il calore del carisma e c'è la freddezza dell'affidabilità. C'è l'abbraccio simbiotico col popolo, e c'è l'ordine istituzionale che separa corpi e gerarchie. Chi fin qui s'è posto il problema del rapporto fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini nei termini canonici della successione e del delfinato, scrutando nelle risse quotidiane i segni di un contrasto strategico, potrà interpretare le performance dei due leader alla Fiera di Roma come una conferma, ma forse meglio farebbe a vederci una smentita. In politica, come nella storia, non vale il tempo lineare e progressivo: i tempi si sovrappongono, e le divaricazioni possono convergere.

Distanti nei contenuti e nelle forme, Berlusconi e Fini non si elidono e non si contraddicono, si sommano come le due metà complementari di un disegno a un'unica direzione. Senza la "lucida follia" di Berlusconi, è Fini a dirlo, il glorioso quindicennio che va dal '94 a oggi non ci sarebbe stato e il Pdl non sarebbe mai nato. Ma senza la gelida razionalità di Fini, quel quindicennio sarebbe destinato a finire nel vento di una storia che comincia a girare dall'altra parte, il carisma del Capo a sgonfiarsi prima o poi come la bolla speculativa, il sistema istituzionale ad assestarsi senza sedimentare il terremoto degli anni novanta. Per Berlusconi Fini non è solo un ingombro: è una necessità. E per Fini Berlusconi non è solo la fonte mistica della grazia ricevuta in forma di sdoganamento: è un propellente da cui continuare a drenare energia.

Consumata, nel discorso d'apertura di Berlusconi, l'apoteosi della "rivoluzione azzurra" iniziata con la mitica "discesa in campo" del '94; confermati uno per uno i suoi luoghi comuni, i suoi falsi storici e i suoi fantasmi anticomunisti; messa in scena la relazione d'incantamento fra capo e popolo che del Pdl è il cuore e quella fra partito e nazione che ne è il programma, bisognerà pure pensare al futuro. Ed è qui che arriva in soccorso Fini, per prefigurare la ragione generata dalla follia, l'ordine generato dalla rivoluzione, la farfalla - nelle sue parole - che prima o poi dovà pur nascere dalla crisalide. Ovvero, la grande riforma dello stato, del governo e del parlamento che darà finalmente un profilo definito alla seconda repubblica, ripulirà il quindicennio rivoluzionario dei suoi eccessi populistici, e metterà fine ai contrasti di oggi fra l'uomo delle istituzioni, che "deve" difendere la norma vigente, e l'uomo di governo, che "giustamente" rivendica più poteri. Quella riscrittura della Costituzione che dopo il '94 Berlusconi non potè fare con un'assemblea costituente, che non volle concludere in una bicamerale che non gli concedeva abbastanza, che in seguito gli fu bloccata da un referendum, "il partito degli italiani" potrà finalmente imporla con piglio egemonico. Diversamente da come qualcuno sperava anni fa a sinistra, la "nuova destra" italiana non si è costituzionalizzata: viceversa, concluderà la sua avventura riscrivendo la Costituzione. E diversamente da come qualcuno scrive oggi, nel futuro non c'è una nuova Dc ma il suo reciproco: la Dc traghettò pezzi dello stato corporativo nella repubblica costituzionale, il Pdl vagheggia uno stato neo-corporativo sulle macerie della repubblica costituzionale.

C'è materia, certo, che divide Fini dal Capo carismatico: ma sui diritti degli immigrati ci penserà la Lega a frenarlo, sulla laicità dello stato ci ha già pensato il dibattito di ieri, sulla politica economica continuerà a dettare legge il premier-imprenditore e sul referendum si vedrà. Per il resto, la prospettiva è la stessa, parla la lingua comune della Nazione e della tradizione, e si avvale di una contro-narrazione della storia repubblicana che ha i suoi intellettuali organici alla Quagliariello e i suoi replicanti alla Cicchitto, ed è diventata di senso comune senza adeguati anticorpi da parte della sinistra. La quale, in questo Fini ha ragione, a confronto con la nascita del Pdl non appare in crisi di consenso, ma di idee. C'è ancora un errore che per mancanza di idee può fare, ed è quello di prendere Gianfranco Fini a propria star di riferimento per rimettere in ordine il paese.

il manifesto

Lo spettro comunista

di Valentino Parlato

Dopo avere sopportato il lunghissimo discorso di Berlusconi, il primo giudizio che viene in mente è un'autoglorificazione senza costrutto. Di solito all'apertura di un congresso, in particolare di unificazione, il relatore dovrebbe esporre il programma, sul quale i delegati possano discutere e decidere. Questo discorso programmatico Berlusconi lo ha rinviato a domenica, cioè a congresso concluso. Il Pdl, come ha scritto ieri sul Corsera Sergio Romano, è un «partito padronale» e quindi è del tutto logico che ci sia la glorificazione del padrone. E - sempre a stare a sentire Berlusconi - non si capisce come questo partito possa sopravvivere ora che non incombe più la minaccia del terribile comunismo, il cui spettro aleggiava di continuo nella sala del Congresso. Il populismo di destra specie nella situazione presente, non basta più a dare alimento ai successi (indubbi) che il Cavaliere ha ottenuto nel passato.

Proprio la celebrazione del trionfo nasconde, ma non elimina, i problemi che al nuovo partito si porranno, innanzitutto con l'unificazione con An, che, invece, è un partito. Certo, anche tra quelli di An ci saranno (ci sono già) i berluscones, ma non bastano; la conduzione padronale del partito sarà molto più difficile. E dunque «Berlusconi dovrà dedicarsi d'ora in poi a qualcosa che probabilmente non gli è congeniale: l'avvento del successore». Problemi con An (già sono emersi) ci saranno e non semplicissimi.

Dette queste poche cose sul ripetitivo discorso di Berlusconi, quel che interessa è vedere che cosa intenda o sia capace di fare l'opposizione, non solo del Partito democratico, ma anche delle altre componenti della sinistra. Certo se ci si limita a ripetere la solita e inutile solfa contro il Cavaliere c'è poco da sperare, e ben poco da aspettare dal discorso conclusivo di domenica prossima. Il padronal-populismo di Berlusconi continuerà e farà ulteriormente degenerare il tessuto sociale e culturale del nostro paese, per passare dal decantato bipolarismo al monopolarismo. La sinistra deve capire che l'attuale crisi dà armi di massa al berlusconismo: la legge sull'edilizia, che stimola i desideri e le ambizioni di tanta parte del ceto medio che è proprietaria di un pezzo di casa, non è cosa da ridere o solamente da denunciare perché può guastare l'intero Belpaese. Le sinistre devono e possono avere iniziative che promuovano movimenti di opinione e di lotta. Altrimenti per un altro po' d'anni - salvo possibili implosioni - continueremo a sorbirci il partito della libertà, ovviamente quella di «lor signori» come scriveva Fortebraccio su l'Unità.

La Repubblica

Principe e popolo

di Ezio Mauro

Concepito come una "cerimonia" (lo ha detto Emilio Fede) più che come un congresso, l’atto fondativo del Popolo della Libertà è tutto nel profilo biografico dell’avventura politica berlusconiana che il Cavaliere ha celebrato ieri dal palco, consacrando se stesso non soltanto nel fondatore della destra moderna ma nel destino perenne del Paese, o almeno del 51 per cento degli italiani.

La rivisitazione eroica degli ultimi quindici anni consente al paesaggio politico e retorico attorno al Cavaliere di rimanere immobile, tutto ideologico come nel ‘94. Così per il Premier la sinistra resta ancora e per sempre comunista, il Pd è un bluff, il riformismo è un’illusione, anzi la sinistra sta addirittura uscendo di scena, e la stessa parola "non piace più". Un ideologismo coatto, che vuole tenere l’Italia dentro uno schema vecchio e impaurito, mentre rinuncia a parlare all’intero Paese.

Non è infatti al Paese che guarda Berlusconi, ma al "popolo", vero soggetto politico del nuovo movimento, strumento di consacrazione quotidiana del carisma egemone, che nel popolo più che nelle istituzioni cerca la sua forza e la sua legittimazione. Anche il concetto di libertà è giocato in questa chiave, con una diffidente separazione-contrapposizione tra il cittadino e lo Stato, come se la politica - adesso che Berlusconi ha compiuto la sua rivoluzione "liberale, borghese, popolare, moderata e interclassista" - si riassumesse nella delega al Principe, con la fine del discorso pubblico così come lo abbiamo finora conosciuto in Occidente.

La Costituzione resta sullo sfondo, citata dopo il Papa, sovrastata da un moderno "patriottismo della nazione", della tradizione, delle radici cristiane dell’Italia in cui si recupera anche la "romanità". È il profilo classico di una destra carismatica che può forse illudere il Paese di semplificare la complessità della crisi ma che rischia di non governarla: perché il vecchio populismo non può reggere a lungo la sfida della modernità nel cuore dell’Europa.

L’Unità

L’uomo del passato

di Concita De Gregorio

Ai delegati arrivati dalla provincia coi figli per mano hanno dato un attestato con scritto «io c’ero», tipo cartolina ricordo della visita al Papa per l’anno santo. A differenza dei pellegrini questi hanno avuto trasporto vitto e alloggio pagato per l’intera durata del soggiorno, sono stati trasferiti non a San Pietro ma in un posto in mezzo al nulla della periferia romana, seduti col kit del delegato davanti a un palco tipo concerto degli U2. Votazioni per acclamazione. Colonna sonora di Domenico Modugno, intermezzi di Apicella. A metà strada fra gli anni Sessanta e la fantascienza politica: il futuro come lo si immaginava mezzo secolo fa. Eccolo, dunque: un posto di mezzo fra il villaggio globale e lo strapaese. L’isola del Famoso. Il Grande Fratello Silvio Berlusconi punta al 51 per cento dei consensi e la notizia è che moltissimi ci credono, gli credono. L’Italia è sul punto di assecondarlo. Siamo già al 43,2, dice. Entusiasmo in platea e del Paese in diretta quasi unificata tv. Una sorta di incantamento collettivo per un uomo senza età, nemico del passare del tempo, rimasto fermo con ostinazione non solo grazie agli artifici chirurgici ai suoi trent’anni. L’ossessione per il comunismo, Stalin e Pol Pot, l’amico Craxi. Il sorriso da venditore. Il disprezzo del dissenso, del confronto. Le frasi sussurrate nell’orecchio ad Annagrazia Calabria, vestale ventisettenne, e alle donne tutte, di ogni età. Il vero uomo, l’eroe. Così lo ha chiamato uno dei quattro giovani saliti sul palco: un eroe. Le parole di Berlusconi le leggerete nelle nostre pagine. Qui ecco quelle dei ragazzi chiamati a rappresentare il futuro. Giada dice ci arruoliamo nel popolo della libertà. Ci arruoliamo. Più donne al lavoro e meno femministe in tv, dice anche. Alessia, 19 anni: non mi piacciono i compagni di scuola di sinistra, per fortuna abbiamo Silvio. Il ragazzo di Acerra lo ringrazia per il termovalorizzatore e lo chiama eroe. Annagrazia Calabria, deputata junior, quasi piange di emozione. Berlusconi saluta Stefania Craxi, «figlia e degna erede di un mio carissimo amico». Poi parla un’ora, discorso rodato. Poi chiama gli alleati e i soci: De Gregorio, Dell’Utri, Mussolini, Giovanardi, La Russa. In prima fila applaude Fini. Si resta, a fine discorso, con la sensazione di aver assistito a uno show preparato con cura da professionisti dello spettacolo che vivono in un paese diverso da quello in cui viviamo noi. È davvero questo il destino che ci aspetta? Finire tutti a far da comparse nel reality delle illusioni e delle menzogne? È davvero pronta la maggioranza degli italiani a farsi incantare, domandano sbalorditi i colleghi della stampa straniera. La risposta non è degli editorialisti. La risposta è a voi. L’avete visto, sentito? Daremo ai nostri figli un futuro così? E cosa gli diremo, poi: dove gli diremo che eravamo stati nel frattempo?

Il governo ha varato il nuovo testo sulla sicurezza sul lavoro nel segno della deregulation: fate un po’ come vi conviene e pazienza per i poveracci che ci restano secchi. I salari sono fermi al 1993, proprio come il premier che nel frattempo però ha avuto diversa fortuna. Pietro Ingrao compie 94 anni, dice: «Berlusconi ha vinto soprattutto per la debolezza e gli errori dei suoi avversari. È un uomo del passato la sua è una destra vecchia». Leggete l’inchiesta di Roberto Rossi su Scientology. È il giorno giusto.

Si è a lungo sottostimata la forza del populismo di Berlusconi, ma proprio adesso non la sopravvaluterei. L'impero di Berlusconi (e il suo stesso appeal politico...) si basa su una merce molto sensibile alla crisi finanziaria, la pubblicità. Qualche scricchiolio lo rivelano le dichiarazioni dei redditi del Principale (come lo chiama Ciarrapico) e della sua azienda di famiglia... Ragionerei sul passaggio di Fiorello a Sky - e sull'improvvisa maleducazione di Mediaset con Mike Bongiorno (suo ex candidato senatore a vita) - almeno con la stessa attenzione che molti dedicano all'Isola dei famosi e al Grande fratello...

La terra bruciata a sinistra (fuori e dentro il Pd) sembra però aver prodotto una conseguenza molto pericolosa: l'incapacità a comprendere il senso politico degli avvenimenti. E' avvenuto con il mistero del grande spazio dedicato da Repubblica alla proposta di Baricco di chiudere i teatri per rafforzare la tv (derubricata da Giovanna Melandri, neo responsabile del Pd per la cultura, in un'«intelligente provocazione»). Intelligente da quale punto di vista? Quello degli editori che cominciano (Fandango e Repubblica/Espresso compresi) a avvertire le conseguenze della crisi della pubblicità, e vorrebbero sostituire le entrate perse, senza il coraggio di dirlo esplicitamente, con iniezioni di denaro pubblico? (cominciando - come i manzoniani polli di Renzo - a beccare il più debole tra i compagni...). Qualcosa di simile era già avvenuto con le sparate estive di Tremonti, Gelmini e Brunetta «contro il '68», poi trasformate in tagli mortali ai bilanci di università e la scuola pubblica, come per punirle delle riforme mai fatte dopo il '68... E' avvenuto con il mite Bondi che non protesta per i tagli al bilancio del suo ministero, non pensa certo a bandire concorsi per rinforzare l'organico tecnico scientifico di quelle che un tempo erano l'orgoglio d'Italia, le Sopraintendenze, nomina il presidente del Casinò di Campione direttore generale per la valorizzazione dei beni culturali, accetta lo sfregio alla dignità professionale di tutti gli archeologi d'Italia del doppio movimento che vuole portare - per meriti (?) acquisiti nell'immondizia - Bertolaso a commissario dell'area archeologica centrale di Roma (quella di Petroselli e Cederna) e realizzare nell'agro romano uno squallido parco a tema della Roma antica (che certo ha duemila anni di svantaggio nei confronti della modernità di Disneyland...). Sta avvenendo con una Rai sempre più integrata al controllo del governo (dallo staff della Presidenza del consiglio alla Direzione generale...) e all'idea di tv generalista privata alla Mediaset. Qui non si parla solo di teatri, di scuola, di beni culturali. Si parla del valore che deve avere il pubblico (inteso come valori condivisi, libertà di espressione, di dissenso e di conflitto...). Cioè di quello che è il sale di ogni concezione pubblica della vita associata: l'autonomia della cultura, il rifiuto di subordinare l'interesse pubblico alla bassa cucina dell'(effimera...) convenienza politica.

Il piano casa di Berlusconi è fatto della stessa sostanza dell'attacco alla cultura e alla formazione scolastica pubblica. La soffitta in cui si vuole riporre il concetto di pubblico accoglierà anche lo spazio pubblico. In questa logica, diventa inutile non solo il lavoro degli urbanisti, ma l'idea di città su cui l'urbanistica si fonda. Scompare il progetto dello spazio pubblico, il diritto di edificare nasce dalla proprietà della casa e si riduce alla casa, che si può ampliare dal 20 al 35 %, in modo di soddisfare nella propria abitazione le necessità che prima erano affidate allo spazio pubblico. Chi già ha avrà di più, e chi non ha nulla non avrà nulla. L'essere si trasforma in avere. «L'italiano produce da sé la propria casa, come la lumaca dal proprio mantello», scriveva - profeticamente nel 1900 la rivista La casa. Eduardo De Filippo invece scriveva, nel clima della Resistenza, in Napoli milionaria, che «... la casa era nu poco tutta la città». Berlusconi avrà forse pensato a Napoleone, al Barone Haussmann e alla trasformazione di Parigi. Qualcuno si sarà dimenticato di informarlo che si trattava di Napoleone III, che Victor Hugo aveva ribattezzato «il piccolo»... Quello che è in gioco non va visto con gli occhiali degli architetti e delle loro insoddisfazioni e polemiche... E' piuttosto una tappa nello smantellamento di quell'egemonia culturale della sinistra di cui parlano Bondi e Cicchitto... Il suo valore simbolico è confermato dal fatto che dal punto di vista tecnico ancora non esiste, cambia forma ogni giorno, riflettendo la tensione proteiforme di Berlusconi a intercettare gli umori del pubblico... Anche se, pur in questa forma labile, uno dei suoi elementi - la liberalizzazione delle destinazioni d'uso - è immediatamente pericoloso... Di quanti teatri (e ex cinema) si sta già progettando la trasformazione in luoghi del commercio... E quanti altri luoghi urbani e superstiti botteghe artigiane sono destinati a seguire la sorte di Campo de' Fiori... E che possibilità avremo di tutelare il moderno? Cos'altro siamo destinati a perdere dopo il Velodromo e le Torri di Cesare Ligini? Perché seguire Berlusconi «sulla sua cattiva strada», quando la sinistra (anche nella sua attuale forma rabberciata) potrebbe rivendicare un diritto di primogenitura sulla rottamazione (ho svolto ricerche in merito per la regione Calabria fin dal 2000...) o su quei terrain vague - che non sono né città né campagna, ma appartengono alla forma concreta della metropoli, ben lontana dalle utopie (penso alla rivista Gomorra di Massimo Ilardi, che purtroppo ha concluso le sue uscite...)?

Nella discussione in corso tra regioni e governo può pesare anche l'autonomia del pensiero tecnico e scientifico... A condizione di gridare prima forte che il Re è nudo e che compiti seri come ricreare le condizioni di una vita civile negli orrori dell'abusivismo e dell'infiltrazione mafiosa e camorristica negli appalti (Roberto Saviano) non possono essere affidatI al fai da te degli italiani, e a una smisurata estensione dei diritti edificatori. Di rivendicare, contro il pressapochismo, i diritti dell'autonomia e del progetto. Chi ben comincia, non chi comincia con la testa nel sacco, è a metà dell'opera (da tre settimane stiamo cantando il coro dell'Aida, Partiam partiamo...) Una volta concessi in via prioritaria i diritti edificatori a tutti i proprietari in quanto tali, senza nessuna condizione, che possibilità di contrattazione avrebbero le istituzioni, dalle regioni ai comuni? La posta in gioco non sono le due stanze in più nelle villette, ma la sostanza dell'identità italiana, di quello che per la qualità del suo paesaggio, delle sue città e della sua vita era chiamato il Bel Paese.

C'è una filiera economica che parte dall'edilizia, ma può anche essere distrutta - penso al turismo - dalla cattiva edilizia. Un'arma potente e eccezionale come un premio del 35%, che potrebbe essere usata per liberare le coste dagli abusi (in Calabria ne abbiamo censiti quasi 5000...) trasferendo in altri luoghi la cubatura, o per riqualificare le periferie, non può essere sprecata sparando a salve, per distrarre gli italiani dai nodi straordinariamente complicati di questa crisi...

«Il 4 aprile è un appuntamento importante. La manifestazione della Cgil può facilitare una percezione di massa della gravità della crisi e, dunque, l'assunzione politica della centralità del nodo del lavoro. Che è una precondizione per ricostruire un ostacolo al rischio di un'uscita da destra dalla crisi stessa. Il 4 aprile può segnare una svolta, un inizio della controffensiva e non certo una conclusione». Ne è talmente convinto, Mario Tronti, che sta preparando un appello rivolto agli intellettuali «formati e in formazione perché salutino con simpatia e partecipazione la protesta della Cgil. E siccome siamo nel tempo dei gesti simbolici, ne voglio fare uno anch'io schierando il Crs (Centro per la riforma dello stato, ndr) come promotore di un appello alle forze intellettuali, ai lavoratori della conoscenza, agli studenti a partecipare alla manifestazione dietro uno striscione che reciti: 'la cultura con i lavoratori'». Da questa proposta a rompere il silenzio parte la conversazione con Tronti sulla sinistra, la cultura e il movimento operaio. Iniziamo con la crisi, la sua natura e le risposte politiche in campo.

Il tema da sollevare con forza è il rapporto crisi-lavoro, e quanto la crisi pesi sui lavoratori in carne e ossa. Vedo una cosa strana: si è parlato molto di ciò che è e ciò che invece viene percepito - pensa solo al tema della sicurezza, a com'è stata gonfiata la paura nei confronti degli immigrati. Ora c'è un rovesciamento, la realtà è molto più drammatica di come viene percepita. E' forte la percezione individuale della crisi da parte di chi vive in vicinanza con il mondo dei semplici. Nessuno sta più sicuro sul suo posto di lavoro, si è scavalcato il problema della precarietà di una parte perché essa conquista l'intero mondo del lavoro. La crisi ricade sulla vita quotidiana, nelle case, nelle famiglie, si vive male. Però manca la percezione pubblica, il tema non viene gridato. Lo schermo dell'informazione, quel che dice e quel che non dice, è decisivo.

Berlusconi dice agli italiani che devono lavorare di più, all'inizio di una crisi che cancella il lavoro si sono defiscalizzati gli straordinari.

È uno sgarbo nei confronti dei lavoratori, chiamati a lavorare e consumare di più. Ma non esplode la denuncia delle parti politiche, il tema non è assunto neanche da chi dovrebbe avere nel lavoro le sue radici. C'è una crisi mondiale del capitalismo ed è la prima volta che una crisi di tale intensità si manifesta senza il movimento operaio e il suo contrasto. È una novità rispetto al '29, quando una crisi magari ancora più profonda trovava in campo il movimento operaio internazionale che ha imposto l'uscita dalla crisi con il compromesso socialdemocratico sui temi classici, dal lavoro al welfare.

Però, mentre gli Usa rispondevano con il new deal e cresceva il conflitto per i diritti collettivi, in un'Europa divisa crescevano i fascismi, fino alla guerra.

Comunque la crisi ha fatto vedere la forza del movimento operaio che andava contrastata, prima con le concessioni e poi con la repressione. Quando la crisi è profonda, nessuno è in grado di contrastarla e c'è il rischio di uscite pericolose. Anche oggi: in mancanza di un'alternativa al sistema capitalistico passa il tentativo di salvataggio individuale, ognuno cerca per sé un'uscita dalla crisi. Un'opinione disorientata sceglie di affidarsi al sicuro, alle forze politiche che danno risposte populiste facili e accattivanti, o si cerca di attaccarsi ai rimedi del potere pubblico aspettando la ricetta miracolosa - si salvano le imprese e così si salva il lavoro.

Ma l'alternativa al modello capitalistico, come dici tu, non si vede...

È un momento delicato, preoccupa il silenzio delle forze di sinistra sulla natura della crisi e i pericolosi smottamenti che produce; con l'eccezione di qualche pezzo di sinistra radicale, il grosso del movimento è incapace di cogliere il momento che viviamo.

Persino nella sinistra radicale c'è la tentazione di assumere l'esistente come immutabile: c'è l'individuo e ci sono le moltitudini, via la classe non resterebbe che ripartire dall'individuo o, al massimo, dal territorio. Non dal lavoro.

Bella osservazione. In altri paesi, va detto, esplode la protesta di massa ma è più spontanea che diretta. Se la crisi pesa innanzitutto dal lavoro, è da lì che bisogna ripartire. O la sinistra ritrova il suo posto naturale al centro del sociale, dov'è il lavoro di uomini e donne, oppure non vedo la possibilità di una sua rinascita politica. Dentro la globalizzazione neoliberista è venuto avanti uno squilibrio pesante nella distribuzione della ricchezza a danno del lavoro dipendente. La sinistra e le forze della cultura ci si sono adagiate come se il processo fosse irreversibile, come se non si potesse fermare ma, al massimo, mitigare. Penso che la crisi del liberismo sia leggibile come crisi da lavoro, su cui certo si sono innestate le note vicende finanziarie. Va messa in discussione l'idea che la crisi nasca da una cattiva gestione del capitale. Con una lettura marxiana si può dire che la crisi è molto più materiale, legata al meccanismo classico produzione-distribuzione-consumo. Un bel tema, questo, da cui ripartire, il tema classico della sinistra che è il lavoro. Naturalmente il lavoro è cambiato, frantumato, difficile da rappresentare e organizzare. C'è bisogno di un di più di conoscenza della sua struttura, e di un di più di iniziativa politica. Se rimettessimo al centro questi temi, invece di scendere in campo armati a ogni parola del papa o alle buffonerie di Berlusconi, la sinistra potrebbe tornare in campo in modo riconoscibile.

Controriforma dei contratti, smantellamento del Testo unico sulla sicurezza, attacco al diritto di sciopero, sono gli addendi di un'operazione pericolosissima, non solo per i lavoratori dipendenti.

Per questo la manifestazione del 4 aprile diventa un passaggio strategico. Dobbiamo stringerci intorno alla Cgil, dimostrare che non è sola. E' in sintonia con i lavoratori e c'è il dovere politico, non etico, delle forze intellettuali di stare dentro la mobilitazione. Fin qui gli intellettuali sono stati assenti, distanti, e questo è il motivo non ultimo della generale deriva culturale.

È la destra, oggi, ad avere l'egemonia culturale.

Il cambio di egemonia inizia negli anni Ottanta, e non è indifferente la responsabilità delle forze politiche e culturali di sinistra.

Inizia dalla sconfitta operaia nei 35 giorni a Mirafiori?

È partito tutto da lì. Sono cambiate le figure intellettuali, ma non sono scomparse in un magma imprecisato. Ci sono state manifestazioni positive nel campo dell'arte penso al cinema, al ritorno sullo schermo del lavoro. Ma si tratta di uno spiraglio nel buio. C'è un paradosso: la cultura è ancora a maggioranza di sinistra ma l'egemonia culturale è della destra. Forse perché spesso l'intellettuale di sinistra assume pulsioni di destra. Non c'è un ancoraggio al mondo del lavoro, senza cui non può esistere una cultura di sinistra. Gli orientamenti che emergono oggi incrociano lo smantellamento dei diritti dei lavoratori con una grave deriva istituzionale. Siamo al passaggio non contrastato al federalismo che è una tappa verso il presidenzialismo, perché più si articola la struttura federativa più si accentra il potere esecutivo. Dunque, le due battaglie, quella istituzionale e quella sul lavoro, vanno legate. Se non si impegneranno le forze culturali della sinistra, le forze politiche saranno travolte dai processi. La controffensiva può partire proprio il 4 aprile.

La crisi è mondiale, l'Italia non è un'isola. È difficile pensare a una battaglia paese per paese, o fabbrica per fabbrica.

Certo, e la crisi conferma la natura mondiale del capitale. La mondializzazione non poteva che creare un effetto a catena in un sistema integrato in cui il volo di una farfalla provoca un uragano dall'altra parte del mondo. In questo contesto è drammatica l'assenza di una forma internazionale del movimento operaio e di una sinistra internazionale, almeno ci fosse un sindacato europeo. È impressionante il silenzio delle forze politiche che hanno cantato i tempi moderni: dov'è, che dice il Partito socialista europeo? Perché si riuniscono i G8 e i G20 senza che prima i partiti di sinistra si siano incontrati per elaborare un orientamento comune sulla risposta da dare alla crisi? E' questo vuoto che rende drammatica la situazione. Non so se è vero che l'Italia e la sua finanza siano più protette come ci si dice, so che la crisi colpisce ovunque, soprattutto il nostro campo, quello del lavoro che siamo chiamati a difendere. So dunque che dunque che dal lavoro dobbiamo ripartire.

Una sfida personale, contro tutto e contro tutti, ascoltando solo le pressioni di Confindustria. Il ministro Sacconi non ha voluto prendere in considerazione nemmeno l’appello del suo collega di partito Fabio Granata. Non proprio l’ultimo arrivato del Pdl, visto che si tratta pur sempre del vicepresidente della Commissione Antimafia. «Modificare il Testo unico abbassando le ammende per gli imprenditori sarebbe strano e gravissimo perché darebbe l’idea di un senso di impunità», ha detto Granata tra gli applausi della platea «bipartigiana» convocata ieri alla Camera da Articolo 21 per chiedere a Sacconi di fermarsi.

Niente da fare. Questa mattina il Consiglio dei ministri esaminerà le modifiche al Testo unico sulla sicurezza del lavoro. Sfidando dunque anche i suoi stessi colleghi di partito, Sacconi tira diritto e accelera. Molti scommettevano che il polverone sollevato dal solo rischio di modifiche avesse almeno l’effetto di rimandare l’esame del nuovo testo alla prossima settimana. E invece.

SANZIONI RIDOTTE, MENO CONTROLLI

Ma cosa conterrà il nuovo testo? Come il piano-casa di Berlusconi, Sacconi si è sentito scoperto: le anticipazioni della scorsa settimana che hanno fatto gridare allo scandalo saranno in buona parte modificate. Qualcosa la protesta ha giù spuntato. Per esempio il mantenimento dell’arresto del titolare dell’azienda in caso di gravi irregolarità. Oppure (ma il condizionale è d’obbligo) il mantenimento della figura del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale per le imprese sotto i 15 dipendenti che non possono averne uno interno.

Ma il disegno complessivo rimane lo stesso: riduzione della sanzioni e dei controlli perché - come ha spiegato Sacconi - il Testo Unico oggi in vigore è «pieno di eccessi formalistici». La cosa è stata richiesta con insistenza da Confindustria e da tutte le associazioni datoriali interessate e Sacconi ha obbedito.

E allora ecco che al posto della «reiterazione» di una inadempienza arriva la «plurima violazione». Qual è la differenza? È presto detta: per chiudere un cantiere non basterà che al secondo controllo rimangono delle irregolarità. Ora dovrà esserci un terzo controllo e solo se l’impresa non avrà sanato le contestazioni allora scatterà il sequestro. Le sanzioni pecuniarie saranno diminuite della metà addirittura rispetto alla legge 626 del 1994 e quindi di quasi tre volte rispetto al Testo unico ora in vigore. Un altro capitolo riguarda la cosiddetta «cartella rischio personale». Si tratta di quel documento che racchiude la storia sanitaria di un lavoratore. Se un interinale passa da un cantiere all’altro, consultando questa cartella l’impresa sa che dovrà evitare di mettere, ad esempio, un ragazzo pieno di fratture su un traliccio. Se la norma verrà cancellata questo non accadrà più e il rischio incidenti aumenterà. Per ultimo, spazio alla bilateralità: i controlli saranno sostituiti da accordi fra imprese e lavoratori.

PD E ARTICOLO 21: DAREMO BATTAGLIA

Le reazioni a tutto questo sono durissime. «A parte qualche marcia indietro come quella sull’arresto - spiega Cesare Damiano - mi pare si vada verso uno scardinamento del testo. Se così sarà, daremo battaglia perché il Testo unico è basato essenzialmente sulla prevenzione e limitarla significa rimettere in pericolo i lavoratori». Molto duro anche Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21: «Un pessimo segnale perché a difesa del Testo si era costruita un’alleanza trasversale che andava da Renata Polverini dell’Ugl ad importanti esponenti della Chiesa e della maggioranza, come Granata. C’è un vizio ideologico dietro questo attacco: il governo chiede pene severe per tutto e invece sulla sicurezza sul lavoro le riduce. Spero che anche qualche imprenditore illuminato se la senta di protestare».

Articolo 21 e Cesare Damiano sono i primi ispiratori della Carovana per la sicurezza che continua a girare l’Italia (prossime tappe l’8 maggio a Moncalieri, il 26 giugno a Vicenza, poi La Spezia e Ravenna) per lottare contro quella che il regista Giuliano Montaldo definisce «l’orribile guerra sporca che sta devastando anche culturalmente il paese».

Wulf Daseking, uno dei city-manager più importanti d’Europa, e che da 25 anni si è occupato stabilmente della trasformazione di Friburgo in senso sostenibile, nei giorni scorsi ha tenuto una lezione presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Sassari, invitato dal Centro Studi Urbani dell’Ateneo. Il quesito centrale in cui si inquadrava la sua lezione è stato “Perché in Italia è difficile applicare modelli di sostenibilità urbana?”.

La lezione di Daseking, supportata da 100 fotografie, si è concentrata attorno ai seguenti principi che egli definì “elementari”: 1. conservare confini netti tra campagna e città; 2. costruire le infrastrutture necessarie, a partire dalla linea tranviaria, prima di avviare un qualunque piano di sviluppo edilizio; 3. consumare e produrre energia pulita negli edifici di nuova costruzione, che non devono superare i 4-5 piani, ciò al fine di garantire un maggior controllo sociale del territorio circostante anche dal punto di vista visuale (si pensi ai bambini che giocano ‘sotto casa’ e che possono essere controllati a vista dagli appartamenti); 4. porsi l’obiettivo di trasformare il patrimonio edilizio esistente in senso sostenibile, a partire dai pannelli fotovoltaici; 5. praticare mobilità urbana con mezzi pubblici e sostenibili, quali il tram, con piste ciclabili e aree pedonali, mentre le auto non devono sostare lungo le strade della città, utilizzate dai suoi abitanti, a partire dai bambini; 6. prevedere mescolanza sociale nei nuovi quartieri, ciò al fine di evitare forme di segregazione, considerate fattore di insicurezza sociale; 7. considerare la partecipazione dei cittadini essenziale per il controllo sociale di ogni tipo di intervento.

Friburgo oggi funziona attorno a questi principi ed è perciò che altre città, anche più complesse, come Los Angeles, vedono in questo city-manager una fonte preziosa per capire come governare gli effetti negativi della diffusione di urbana. Ma questi principi sono così ‘elementari’? Per il buon senso sembrerebbe di sì, ma se provassimo ad applicarli in Italia ci apparirebbero utopici. E ciò per varie ragioni.

Innanzitutto perché è evidente che, per poterli applicare, sono necessarie politiche pubbliche autorevoli e riconosciute socialmente, ma che qui appaiono irraggiungibili non ultimo perché non esiste una legge sul regime dei suoli che separi nettamente l’essere proprietari di suolo (e perciò essere portatori di interessi particolari contingenti) dalle scelte pubbliche che dovrebbero rispondere a interessi generali e a un’idea futura di sviluppo urbano. E ciò in Italia è andato a scapito di un’idea di città da intendere come bene comune.

In secondo luogo perché l’indebolimento dell’azione pubblica nei processi di trasformazione urbana si è tradotto sostanzialmente in rinuncia alla pianificazione “ordinaria” in senso proprio. Ciò ha favorito e talvolta sollecitato forme private di intervento nel territorio, in nome di una non ben precisata, almeno in senso regolativo, “urbanistica contrattata”, qual è il caso di Castello a Firenze, un esempio di significativa commistione tra politica e rendita immobiliare nell’uso del territorio, giacché, mettersi d’accordo sui metri cubi da costruire e decidere dopo le altre utilizzazioni, comprese le infrastrutture necessarie, in Italia è una pratica diffusa ed è l’opposto della pianificazione.

In terzo luogo perché non avere regole chiare è diventato un “fatto sociale” normale e rientra in un insieme di comportamenti condivisi, perché si è affermata l’idea che essere proprietari di suolo equivalga automaticamente alla costruzione di volumetrie, ovvero alla concreta possibilità per i singoli di trarre profitti in tempi brevi, senza peraltro correre tutti quei rischi insiti nei settori economici produttivi. Infatti, il processo di consumo di suolo che va di pari passo con l’estensione del fenomeno dello sprawl, non solo non è oggetto di intervento regolativo e di attenzione sociale, ma rischia di accelerare il suo corso tanto per le più recenti politiche urbane che hanno coinvolto importanti città come Milano e Roma, quanto per le politiche governative relative alla grave crisi economica in cui versano il Paese e il resto del mondo, e per le quali “la ripresa edilizia” sembra essere la risposta più facile per recuperare posti di lavoro e rilanciare l’economia. Ancora oggi in Italia non si riflette sufficientemente a livello sociale sugli scempi ai paesaggi urbani e naturali di questi ultimi decenni - sui quali comunque c’è una vasta letteratura e di cui ha dato conto anche la migliore cinematografia italiana -, scempi che non sono mai serviti a risolvere i problemi di chi non ha una casa, mentre sono stati utili alle pratiche speculative di ogni tipo e alle cosiddette bolle immobiliari che possiamo trovare un po’ ovunque. Come ad esempio il complesso di Santa Giulia a Corvetto-Rogoredo, pubblicizzato come “città ideale”, ideata da Norman Foster, e che Stefano Righi in un articolo sul Corriere della Sera (24 Novembre 2008) aveva definito “città bunker” perché «chi finisce il turno di lavoro tardi viene accompagnato al parcheggio dai vigilantes armati, che sono numerosissimi…».

In quarto luogo perché la debolezza delle politiche pubbliche va di pari passo con il fatto che la figura del sindaco ha assunto l’ambiguo ruolo di amministratore pubblico e di manager, e in pratica è diventato il diretto interlocutore delle forze produttive e finanziarie che generalmente hanno più voce. Di contro, i problemi di coesione sociale, di integrazione multietnica, di formazione e di lavoro, insomma, tutti quei problemi vissuti comunemente dalle diverse popolazioni presenti nelle nostre città, continuano a essere governati come problema di sicurezza e di ordine pubblico: dalle impronte digitali dei rom alle ronde e ai cosiddetti guardiani del territorio.

In Italia vi è sempre stata una sottovalutazione delle questioni attinenti al consumo di suolo e al degrado delle nostre città e dei nostri paesaggi. Con ciò non voglio sostenere che il consumo del suolo sia generalizzato, anzi si registrano buone pratiche sia in alcune regioni del nord-Italia che nelle aree centrali e insulari. Ad esempio, la Regione sarda sotto la guida di Renato Soru aveva adottato nel 2006, attraverso lo strumento del Piano Paesaggistico Regionale, una politica di vincoli al fine di ridurre il consumo del suolo costiero, anche se appare superfluo ricordare che questa è stata una delle ragioni principali (anche se non l’unica) della sconfitta elettorale di Soru.

Per concludere, se in Italia siamo “disattenti” rispetto a questi problemi, lo sguardo straniero ne avverte tutta la gravità: è come dire che “Prima che Mosca stessa, è Berlino che si impara a conoscere attraverso Mosca”, come ha scritto nel 1929 Walter Beniamin in Immagini di città.Si pensi, per ultimo, alle dichiarazioni rilasciate da Rafael Moneo al Corriere della Sera (6 marzo 2009), secondo il quale in Italia si costruisce “fin troppo, al di là del bisogno della gente, ancora una volta solo per speculazione”. Ma la “disattenzione” ha a che fare direttamente con la pratica della democrazia e con tutto ciò che attiene all’individuazione di interessi comuni di lungo periodo e che necessitano del superamento della primaria preoccupazione individuale di difendere i singoli interessi, ossia tutto ciò che attiene all’esito finale di un processo di formazione di cittadinanza in senso democratico. Non è un caso, infatti, che il contesto di politicità debole ben si concili con la pratica del metodo Decidi, annuncia, difendi perché considerato il più efficace per accelerare il processo decisionale. Metodo ampiamente praticato dal nostro Governo, a partire dall’annuncio reiterato della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina fino alla sciagurata ipotesi di liberalizzare l’edilizia.

Finalmente, l'attesa è finita. L'ex presidente della Regione batte un colpo e annuncia la nascita di Sardegna democratica. Un'associazione, «attraverso la quale organizzare i nostri incontri, la discussione, il lavoro di approfondimento delle nostre proposte, la vigilanza attiva e il controllo democratico dell'attività di governo della destra». Un'associazione, come si legge nel blog personale, «con cui costruire la rete territoriale per l'incontro di un'area più vasta, comprensiva dell'intero centrosinistra e del sardismo diffuso». Il nome sembra un compromesso tra l'ormai defunto Progetto Sardegna e il mai nato Partito democratico. Una casualità, visto che lo stesso nome circolava da settimane come gruppo sul popolare network Facebook.

Del resto il piddì, dai numerosi commenti diffusi in rete non sembra coincidere esattamente con il nome e la persona di Renato Soru. Che, tuttavia, non ha trascurato di sottolineare: «Da parte mia continuerò l'impegno nella costruzione di un vero Partito Democratico sardo insieme a chi in questo si riconosce: un partito che dovrà essere capace di rappresentare in modo autorevole le istanze della Sardegna, prima fra tutte la difesa del suo irripetibile ambiente, da noi tutelato perché unica ricchezza di cui disponiamo per costruire opportunità di lavoro e di benessere».

Ma intanto, il popolo di Renato Soru ha ritrovato la bussola: è bastato un messaggio sul suo blog per scatenare quell'entusiasmo disorientato ma mai sopito che nell'ultimo mese ha covato rumorosamente in altre piattaforme virtuali. Perché il rispetto verso una singolare forma di ritiro, dove l'orgoglio ferito, la delusione hanno coinciso con un salutare periodo di riflessione, non è mai mancato. La paura di perdere una guida politica invece, quella sì, c'è stata. Anche perché l'incarnazione di un progetto non era necessariamente sintomo di un degenerante culto della personalità.

Mancano pochi minuti alle undici e, sorpresa, Soru parla ai suoi sostenitori. Con il suo stile, quello che gli è proprio: «Cari amici - esordisce - scusate se per alcune settimane ho sentito la necessità di prendere una pausa, di riordinare le idee, di riflettere su come ripartire». Una necessità che nell'angoscia non è mai stata messa in discussione dal suo popolo. «Come forse molti di voi sanno, rientro nel cda di Tiscali per dare il mio contributo al rilancio e alla messa in sicurezza della società. È una responsabilità che ritengo di avere verso questa impresa - che ho fondato e che cinque anni fa ho lasciato per dedicarmi esclusivamente alla politica - verso la sua possibilità di crescita, i suoi finanziatori e verso le persone che ci lavorano».

Rassicurazioni, se ce ne fosse bisogno, anche sul fronte politico: «Tuttavia, come avrete visto e letto - scrive Soru -continuo il mio impegno in politica attraverso la presenza in Consiglio regionale, ma più che mai consapevole che è necessario radicare nella società sarda e in tutti i territori della Sardegna il progetto di cambiamento avviato in questi ultimi cinque anni, per un rinnovamento della politica nelle diverse forme di partecipazione, discussione, formazione e selezione della futura classe dirigente».

Un impegno che è rimasto scolpito nell'anima di chi aveva assistito impotente alla disfatta del 16 febbraio in una piazza Carmine gremita di speranza e delusione. Un impegno, a caldo, quella sera. Un impegno rinnovato a mente fredda. «In questa recente campagna elettorale è emersa però, in maniera persino sorprendente, la volontà di partecipare di tanti giovani, di tante persone finora distanti dalla politica perché non motivati dagli attuali modelli e assetti dei partiti - spiega Renato Soru - ma assolutamente disponibili ad impegnarsi nel dibattito, nella necessità di difendere l'idea di una Sardegna dei diritti e delle responsabilità, totalmente alternativa a quella di Berlusconi e della sua maggioranza nella nostra regione».

E allora: «È il momento di organizzare queste energie e questa appassionata volontà di partecipazione. Con diversi amici abbiamo deciso di proporvi la costituzione di un'associazione che chiameremo Sardegna Democratica, attraverso la quale organizzare i nostri incontri, la discussione, il lavoro di approfondimento delle nostre proposte, la vigilanza attiva e il controllo democratico dell'attività di governo della destra».

Sembra scontato, ma Soru sembra volerlo sottolineare: «La sconfitta politica non è la sconfitta di un progetto: Il recente esito elettorale non ha intaccato la volontà di affrancamento e di emancipazione del popolo sardo, non ha scalfito la nostra storica aspirazione di autodeterminazione, non ha messo in secondo piano la necessità sempre viva di uscire dal ritardo di sviluppo assumendoci la nostra diretta responsabilità e non affidandoci a qualcuno che lo faccia per noi».

Il blog avrà una funzione strategica per veicolare dibattito e informazione: «Per tenerci sempre aggiornati, per ritrovarci, incontrarci, confrontare proposte e opinioni, raccogliendo documentazione e approfondendo gli argomenti». E allora si riparte. Si riparte da Sanluri: sabato pomeriggio alle 15.30 all'Hotel Rosy di Sanluri (SS 131 km 41), per proseguire quello che Soru chiama «il nostro percorso insieme».

Dopo poche ore il sito era già invaso di commenti. Tra un “Finalmente” e un “Bentornato Presidente”, è emerso chiaramente lo smarrimento di fronte ad una sconfitta. Davanti a quella battaglia temuta e persa, ma coraggiosamente combattuta da migliaia di supporters. Molti dei quali estranei agli ambienti salottieri che spesso i partiti allestiscono intorno a candidati preconfezionati. Si chiamano ancora “soriani”o di sinistra e sono in centinaia a ringraziare il “Presidente Renato Soru” per il suo ritorno.

Si riparte, insomma. Non senza polemiche, purtroppo. Tra i fondatori del movimento Progetto Sardegna Democratica, l'antesignano nato su Facebook, c'è stato qualche momento di sbandamento. Manco a farlo apposta aveva già fissato un incontro per domenica prossima a Milis. Ordine del giorno: 1) Forma e organizzazione del movimento; 2) Nome e logo del movimento; 3) Principali punti programmatici e linea d'azione.

L'obiettivo dichiarato era quello di costituire un “Movimento autonomo”, «che promuova gli ideali e i progetti che Renato Soru ha reso concreti durante il suo mandato e che vogliamo continuare a sostenere. Per non disperdere le energie e l'impegno che molti di noi, che crediamo nel cambiamento e in un nuovo modo di fare politica - veramente al servizio dei cittadini e contro la partitocrazia e il clientelismo - vogliamo continuare a portare avanti».

L'obiettivo comune, comunque, dovrebbe riportare tutti al contrordine e all'unità. Almeno per dare un segnale di discontinuità verso il tanto criticato Pd, che della guerriglia interna ha fatto la sua ragione di vita. E forse di morte.

Il lavoro italiano ai lavoratori italiani. E' difficile contestare ai nostri operai il diritto a difendersi dalla crisi, dentro una globalizzazione che scarica su di loro le conseguenze della caduta mondiale della domanda. Tanto più che spesso è lo stesso prodotto marchiato «made in Italy» a vedere la luce in paesi più convenienti, dove lavoro e diritti sono low cost. Anche se è innegabile che una vittoria degli operai italiani si trasformerebbe automaticamente nella sconfitta di altri lavoratori, cinesi d'Italia o di Cina, o magari polacchi di Polonia. Anche i francesi che rilocalizzano in patria il lavoro che per convenienza era stato trasferito all'estero hanno le loro ragioni, peccato che contrastino con quelle dei lavoratori sloveni a cui vengono sottratti modelli di automobili e dunque lavoro. E che dire dei polacchi, pronti a offrire copiosi incentivi alle nostre aziende purché trasferiscano in Slesia la produzione italiana? Il primo leader europeo a lanciare la campagna di protezione degli operai «indigeni» contro lo «straniero» è stato Gordon Brown, con una parola d'ordine subito assunta dai lavoratori di un porto del Lincolnshire che protestavano contro la concorrenza di colleghi italiani e portoghesi: «Lavoro inglese ai lavoratori inglesi». Poi il premier inglese s'è pentito, ma ormai la frittata era fatta.

Gli esempi di come la concretissima crisi economica in atto possa essere utilizzata per trasformare i tradizionali conflitti verticali tra lavoro e capitale in conflitti orizzontali tra i lavoratori sono già moltissimi. In assenza di una risposta politica di sinistra e di una battaglia sindacale almeno europea, il valore della solidarietà rischia di lasciare il posto alla competitività, in una guerra di tutti contro tutti, o meglio in una guerra tra poveri. I lavoratori tessili di Prato non individuano nel padrone il loro nemico, anzi si schierano con il padrone contro il nemico comune, un altro blocco sociale anomalo che mette insieme imprenditori e dipendenti cinesi. Gli operai francesi della Renault si ritrovano insieme al presidente Sarkozy che lega i sostegni all'impresa alla difesa delle fabbriche e dell'occupazione in Francia, al punto che l'azienda semipubblica annuncia l'intenzione di riportare nell'Esagono la Clio costruita nello stabilimento di Novo Mesto (Slovenia). Anche i lavoratori Fiat di Ternini Imerese, che quando terminerà la produzione della Lancia Ypsilon potrebbero restare senza nuovi modelli, vorrebbero che il Lingotto facesse costruire a loro la futura Topolino, assegnata invece agli operai serbi di Kragujevac, nella fabbrica della Zastava rasa al suolo dalle bombe intelligenti e umanitarie.

Ma il caso più clamoroso di tutti è forse quello denunciato dai licenziandi della Indesit di None. La storia è esemplare per i conflitti che incorpora, per l'inesistenza dell'Unione europea, di un sindacato europeo e di una sinistra italiana. Dunque, Merloni prende i soldi pubblici per acquisire la Indesit, poi ne prende altri come sostegno pubblico all'industria degli elettrodomestici. Ma vuole chiudere la fabbrica in Piemonte licenziando 6-700 dipendenti per trasferire la produzione di lavastoviglie a Radomsko. Non solo perché in Polonia gli stipendi sono poco più di un terzo che a None: un accordo di Merloni con il governo polacco prevede aiuti pubblici in cambio di assunzioni. Trattasi di guerra tra due paesi aderenti all'Unione europea, con la Polonia che paga un'azienda italiana perché licenzi i suoi lavoratori italiani e assuma i polacchi. Il massimo di internazionalismo sindacale è un articolo di un sindacalista di Solidarnosc che esprime solidarietà agli operai piemontesi. Ciliegina sulla torta, Maria Paola Merloni, amministratrice dell'azienda paterna, è una pregiata parlamentare del Pd, lo stesso partito dell'ex ministro Cesare Damiano che alza le bandiere degli operai di None.

Se la sinistra non fa politica non resta che il modello della destra, capace di guardare con lungimiranza al dopo-crisi, anzi di costruirlo ridisegnando rapporti di forza e relazioni sociali. Creando cioè un contesto favorevole all'egemonia culturale della destra. Se non esiste un vero sindacato europeo, ogni sindacato nazionale si batterà - se va bene - per la difesa dei suoi lavoratori, con il rischio di perdere paese per paese e di rinunciare a definire e imporre con il conflitto un pacchetto di diritti universali. Se non esiste un'Europa politica, tanti piccoli Tremonti lavoreranno al servizio delle proprie imprese. Se la domanda continuerà a cadere, infine, si potrebbe sempre riconvertire la produzione di automobili e frigoriferi in produzione di cannoni. Non è già successo ottant'anni fa, al tempo di un'altra crisi?

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