Fosse soltanto un colossale affare immobiliare (come raccontato nella prima puntata, l’Unità, 5 maggio) l’idea del governo di creare la Difesa Servizi Spa, società di diritto pubblico che può operare con procedure privatistiche di cui il ministero della Difesa sarebbe unico azionista, potrebbe essere liquidata in un capitolo dell’arcinota finanza creativa del centrodestra. Ma nel disegno di legge governativo n.1373, fermo in commissione Difesa al Senato, c’è molto di più. Prendiamo il comma 3 dell’articolo 2 che spiega che la nuova Spa "ha ad oggetto la prestazione di servizi e lo svolgimento di attività strumentali e di supporto tecnico-amministrativo in favore dell’amministrazione della difesa per lo svolgimento di compiti istituzionali di quest’ultima anche espletando, per il comparto sicurezza e difesa, le funzioni di centrale di committenza".
Centrale di committenza, che significa che domani la Difesa Servizi potrà farsi carico di tutti gli appalti (esclusi gli armamenti) per Esercito, Aeronautica, Marina Militare e Carabinieri affidandoli anche senza bandi di gara. Dalle forniture delle divise al carburante, dagli shampoo per i soldati alla manutenzione dei mezzi. Una montagna di denaro (fra i 4 e 5 miliardi di euro, secondo stime) che circolerebbe fra privati e pubblica amministrazione scivolando ai margini del controllo pubblico, in una pericolosa zona grigia dell’economia in cui anche la libera concorrenza sarebbe messa a rischio. A che pro? Difficile capirlo. "Anche perché - accusa Noemi Manca, Cgil Difesa - si tratterebbe di una attività inutile visto che la direzione generale del ministero della Difesa, la Commiservizi, ha già iniziato le procedure per garantire nei prossimi anni l’approvvigionamento dei principali servizi. Gare che sono già state bandite a breve, quindi prima che la Difesa Sevizi Spa possa essere operativa".
Proprio in virtù di questa anomala duplicazione e trasferimento di competenze, il Pd in commissione Difesa aveva chiesto che venissero ascoltati in audizione gli ispettori logistici di Esercito, Marina, Carabinieri e Aeronautica (che dirigono i centri di responsabilità amministrativa, ossia che materialmente gestiscono i fondi a disposizione peri beni e i servizi) oltre ai rappresentanti della Corte dei Conti, del Garante della Concorrenza e del Mercato, del Garante dei Contratti Pubblici e della Commiservizi. La maggioranza ha risposto picche, e di fronte al rifiuto il capogruppo del Pd Giampiero Scanu ha inviato una lettera di protesta al presidente del Senato Renato Schifani. Non ottenendo alcuna risposta. Quel che è certo, però, è che la maggioranza ha fretta di procedere. Anche perché, una volta creata la Spa, al ministero della Difesa spetterebbe la nomina del consiglio d’amministrazione e del collegio sindacale. "In questo modo - è la preoccupazione di Scanu - all’interno della PA si va a creare una bolla di discrezionalità che altera la fisiologia stessa di ciò che è pubblica amministrazione. Se è una Spa ad esercitare certe funzioni, ovviamente verrà a prevalere un "interesse imprenditoriale" di natura completamente diversa rispetto a quello pubblico.
In questo modo - prosegue - si arriva alla destrutturazione di un pezzo della pubblica amministrazione, una forma di attacco che oggi interessa la Difesa ma che domani potrebbe riguardare la scuola, oppure la giustizia". Tutta da capire, invece, è la partita relativa al personale che transiterebbe in organico alla Spa dal ministero. Se per i militari, infatti, è prevista la messa fuori ruolo in deroga alle leggi vigenti, i civili passerebbero da un contratto di tipo pubblico ad uno privato. "E questo - sottolinea Noemi Manca - è un aspetto che ci preoccupa molto su cui il ministero ad oggi si è limitato ad "informarci" senza un vero confronto".
Come non bastasse tutto questo, c’è ancora di più. E per capirlo bisogna ripescare la brochure che il ministero della Difesa ha portato a Cannes al "Mipim 2009", il più importante forum immobiliare al mondo, per mettere in mostra e sul mercato i propri gioielli. La Difesa Spa, si legge infatti a pagina 9, "consentirà di snellire le procedure attualmente in vigore in materia di compravendita, permuta e impiego industriale delle aree di interesse per la produzione di energia". Aree di interesse per la produzione di energia? Questa è nuova. O forse non troppo, se facendo un passo indietro di qualche mese si va a spulciare il disegno di legge numero 1195, quello che riapre le porte al nucleare in Italia. Recita l’articolo 22: "Il ministero della Difesa (...) allo scopo di soddisfare le proprie esigenze energetiche, nonché per conseguire significative misure di contenimento degli oneri connessi e delle spese per la gestione delle aree interessate, (...) può affidare in concessione o in locazione, o utilizzare direttamente i siti militari, le infrastrutture e i beni del demanio militare o a qualunque titolo in uso o in dotazione alle Forze armate, compresa l’Arma dei carabinieri, con la finalità di installare impianti energetici destinati al miglioramento del quadro di approvvigionamento strategico dell’energia, della sicurezza e dell’affidabilità del sistema". Per farlo, è scritto nel comma 2, il ministero "può stipulare accordi con imprese a partecipazione pubblica o private". È l’identikit perfetto della Difesa Servizi Spa.
Questo significa, ragionando per assurdo (ma forse non troppo), che un domani in uno dei beni della Difesa transitato alla Difesa Spa potrà essere istallato un termovalorizzatore o addirittura una centrale nucleare. E nessuno potrà protestare. A pensar male si fa peccato, ma ci si indovina quasi sempre. Anche perché qualcosa è già successo nei mesi scorsi. Ad esempio quando, per far sparire l’immondizia dalle strade di Napoli, tonnellate di ecoballe vennero stipate all’interno del poligono militare di Persano, in provincia di Salerno, sotto il naso di circa 2000 mila soldati.
La prima puntata dell'inchiesta
Se il Carroccio tradisce la vecchia anima di Milano
Curzio Maltese – la Repubblica
Al presidente Fini viene da rispondere che la proposta leghista di riservare posti per indigeni nella metropolitana di Milano, prima ancora di offendere la Costituzione, ferisce l’orgoglio di noi milanesi.
Per chi è cresciuto nella Milano degli anni Settanta, la metropolitana era la prova più fiera dell’internazionalità della città, della sua modernità, del suo essere "vicina all’Europa". Nessuna capitale italiana aveva una metrò decente. Quella romana era ed è rimasta un ghetto sociale sotterraneo. Quella di Milano è uguale a quelle di Parigi o Londra o Monaco. Quando l’Italia era lontana dall’essere una nazione multietnica, la metropolitana milanese era il luogo più interculturale e interclassista del paese. È la rete che collega tutti i simboli internazionali della città, la Borsa e la Fiera, il Piccolo e la Scala, la Triennale e lo stadio di San Siro. Ma una volta alla meta la gente si divideva. I sedili della metropolitana erano l’unico luogo della società italiana dove tutto e tutti s’incontravano. L’operaio di Sesto seduto accanto alla modella svedese, il broker della finanza e lo studente, la casalinga e l’intellettuale, l’immigrato e il barone universitario, il turista giapponese, l’hooligan e il violinista. Un crocevia di autentica urbanità. Perché poi si parlava, in un modo o nell’altro, molto più di quanto sia mai accaduto nei famosi capannelli di piazza del Duomo, dove vanno da sempre soltanto i pensionati.
Ora, la proposta di umiliare questo simbolo con l’affissione di cartelli più adatti all’Alabama degli anni Quaranta o alla Germania degli anni Trenta, dovrebbe far riflettere. È chiaro che non passerà mai. Per la maggioranza dei milanesi rimane ripugnante. Questa sì, straniera. Non c’entra con la storia di Milano. È roba venuta da fuori, una malapianta coltivata nelle aree dell’eterno fascismo pedemontano, che ha sempre visto con misto di rabbia provinciale e invidia la vocazione cosmopolita della capitale. I milanesi non sono razzisti per storia, cultura e anche per convenienza. Alla fine lo sanno che la ricchezza della città, rispetto alle altre capitali italiane, è frutto della sua internazionalità, del lavoro di immigrati italiani e stranieri, di soldi portati da fuori. Milano da sola attira il quaranta per cento di tutti i capitali stranieri investiti in Italia. Già questa notizia, rimbalzata sulla rete in giro per il mondo, è un danno enorme.
Eppure sarebbe sbagliato liquidare la proposta di Salvini come un delirio xenofobo. Si tratta piuttosto di un astuto ballon d’essai per tastare il livello di degrado civile del Paese e magari lavorarci ancora sopra. Salvini non è una camicia verde di seconda fila e nemmeno un personaggio pittoresco alla Borghezio. È il giovane capo dei leghisti milanesi, lanciato ai vertici di un partito che si prepara a festeggiare, sondaggi alla mano, il più grande trionfo elettorale della sua storia. E quanto più conquista consensi al Nord, nelle aree decisive del Paese, tanto meno si modera, anzi spinge sul pedale dell’estremismo xenofobo. Due passi avanti e uno indietro, è la tattica. Oggi vengono riconsegnati dei clandestini africani, che avrebbero diritto d’asilo, nelle mani dei loro aguzzini libici. La proposta dei posti riservati ai milanesi verrà ritirata. Ma intanto la reazione della società milanese lascia perplessi. Silenzi, timidezze, imbarazzi da tutti i palazzi del potere economico e politico. Uno non può credere che arrivi il giorno in cui i milanesi assisteranno senza vomitare alla scena di un anziano immigrato o di una donna africana incinta costretti a cedere il posto a un ragazzo bianco. Ma mese dopo mese, qualcuno ci sta abituando a trattare con gli incubi.
Una risata ci seppellirà
Alessandro Portelli – il manifesto
L'ultima volta che sono stato in metropolitana a Milano i posti erano tutti occupati - anche se non so da chi e se con adeguato diritto di sangue - per cui sono stato in piedi. Se non altro, tenendomi agli appositi sostegni, non ho dato occasione a nessun padano di prendersela anche per questo con Roma ladrona. Almeno su questo, ho la coscienza a posto, adesso che, nella "capitale morale" del paese, il capogruppo in consiglio comunale di un partito di governo - non il primo che passa, insomma - se ne esce dicendo che bisogna riservare ai nativi un congruo numero di posti a sedere. E nessuno lo caccia fuori a calci.
La domanda politica principale in questi giorni è la seguente: "Ci sono, o ci fanno?" Diceva Carlo Marx che la storia avviene in tragedia e si ripete in farsa. Se fosse così, non avrebbe senso disturbare il fantasma di Rosa Parks, la signora afroamericana che consapevolmente decise di sfidare le leggi razziali dell'Alabama rifiutando di cedere il posto a un bianco. E ancora meno ne avrebbe evocare la memoria delle leggi razziali come hanno fatto Franceschini e Amos Luzzatto. In fondo, diciamo, quella del dirigente leghista milanese è solo una delle solite boutade, lo sa anche lui che non è destinata a essere messa in pratica.
Il problema però è che - come sapeva benissimo William Shakespeare - tragedia e farsa invece sono inseparabili e si specchiano fra loro. La tragedia può scadere in farsa, ma la farsa prepara la tragedia. E a forza di dire che le sparate dei leghisti, del loro leader Bossi e del loro guru Gentilini (e del loro compare Berlusconi) sono folklore, colore locale, spiritosaggini che non vanno prese sul serio, intanto non ci accorgiamo che queste buffonate stanno diventando realtà in spazi assai più vasti e cruciali dei vagoni milanesi: è l'intera Italia che si trasforma in territorio segregato, con scuole e ospedali riservate agli indigeni, e galera per chi ne varca gli inviolabili confini. Le schifezze folkloristiche locali si allargano e diventano politiche governative nazionali: Gentilini propone di prendere a fucilate gli immigrati come leprotti a Treviso, e tutti ridono; il suo capopartito Calderoli propone di prendere a cannonate le barche dei migranti senza permesso nell'Adriatico, e ci cominciamo a preoccupare; il loro ministro Maroni lascia le barche alla deriva, rispedisce i migranti al mittente e se ne vanta, e la gente comincia a morire. La farsa milanese si fa tragedia nei campi di concentramento dei migranti in Libia, nei suicidi nei centri di detenzione ed espulsione in Italia. Non "ci fanno": ci sono, e fanno finta di non esserci.
Il nostro paese è dominato della terribile serietà del poco serio. Berlusconi che fa cucù alla Merkel, che vuole palpeggiare l'assessora trentina, che dice ai terremotati di considerarsi in campeggio, che racconta sadiche barzellette sui campi di sterminio e sui desaparecidos non fa ridere non solo perché non è spiritoso, ma soprattutto perché questi sono discorsi seri, in cui ridefinisce la correttezza politica nella nuova Italia: sono il linguaggio che dà forma alla pratica dei rapporti fra gli stati, fra i generi, fra le classi, fra la vita e la morte. E' tutto uno scherzo, è tutta una farsa - che si porta via con un ghigno le cose poco serie come i soldi della ricostruzione in Abruzzo, le politiche per la crisi, i morti sul lavoro, i posti di lavoro, i diritti e i salari, la dignità delle donne e dei migranti, la bambina ammazzata dai nostri ragazzi in Afghanistan, e altre pinzillacchere. Forse "ci fanno" e non "ci sono" solo perché in questa commedia sta tutto il loro esserci. Dicevamo "una risata vi seppellirà". Avevamo torto. La risata sta seppellendo noi.
Doveva essere l'hotel delle notti di Obama e Sarkozy, il cinque stelle superiore dei capi di Stato del mondo. È già una cattedrale nel deserto, con la sua facciata bianca stretta tra un capannone della Marina militare, una strada trafficata e il mare senza spiaggia che qui, e solo qui su tutta l'isola, a volte puzza di fogna. Nessuno vuole gestire il più grande dei due alberghi costruiti alla Maddalena per il G8 che non si farà. La gara indetta dalla Protezione civile è andata deserta. Perché, almeno per pareggiare il capitale già speso, lo Stato o la Regione Sardegna dovrebbero affittare l'albergo a un imprenditore che a sua volta dovrebbe far pagare mille euro a notte per queste stanze con vista da motel. Una cifra folle e completamente fuori mercato. Qualcosa non ha funzionato nel controllo dei costi, come 'L'espresso' aveva già scoperto nel dicembre scorso. Ma i dubbi adesso sono ufficiali. Tutte queste opere sono sotto inchiesta.
I carabinieri del Ros stanno indagando sulla catena di appalti. Un'indagine condotta per il momento dalla Procura di Firenze. Anche il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, commissario delegato per il G8 e responsabile dell'applicazione delle procedure d'urgenza, ha avviato un'indagine interna. Un provvedimento seguito pochi giorni fa dalla decisione del Consiglio dei ministri di chiedere per decreto il taglio retroattivo dal primo marzo delle maggiorazioni alle imprese per le lavorazioni su più turni, dei premi di produzione e la riduzione del 50 per cento dei compensi per le prestazioni professionali destinati a progettisti, esecutori e collaudatori. Maggiorazioni, premi e compensi confermati da almeno 16 tra ordinanze e decreti voluti, firmati o proposti dal governo e dalla Protezione civile.
Un dietrofront che limita (di poco) i danni per le casse statali, ma anche le possibili responsabilità giudiziarie di funzionari e controllori, tuttora da identificare, che prima avrebbero avvallato le spese e ora stanno lavorando per contenerle. Letta così la decisione di Silvio Berlusconi di trasferire il vertice a L'Aquila, non è solo un atto d'affetto e un doveroso impulso al risparmio. È anche una via d'uscita necessaria. Forse bastava una formulazione più moderata dei preventivi e dei contratti. E i soldi per l'evento sarebbe bastati.
La domanda da cui parte l'inchiesta dei carabinieri del Ros è una: nella formulazione delle offerte, c'è stata o meno concorrenza tra imprese? Un dubbio che hanno avuto anche i vertici della Protezione civile. Nel giugno 2008 Bertolaso chiede al professor Gian Michele Calvi come poter verificare se alla Maddalena si stia spendendo più del necessario. Calvi, oltre che amico del capo della Protezione civile, è tra i massimi esperti di ingegneria antisismica e membro della Commissione grandi rischi. Pochi giorni dopo, il professore, che insegna a Pavia, viene accompagnato a visitare i cantieri.
Sempre in quei giorni un'ordinanza di Berlusconi sostituisce il soggetto attuatore degli appalti Angelo Balducci con il suo collaboratore Fabio De Santis e istituisce una commissione di tre esperti: "Al fine di assicurare un'adeguata attività di verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere dai soggetti attuatori in termini di congruità dei relativi atti negoziali", è scritto nell'ordinanza. Insomma, un'indagine su interventi e contratti. In autunno viene sostituito anche De Santis e a capo degli appalti è nominato il professor Calvi. La questione dei costi continua a preoccupare. Calvi avvia le verifiche delle spese, voce per voce. E a fine febbraio spedisce tutti i progetti al Consiglio superiore dei lavori pubblici perché esprima un parere. Presidente di questo consiglio è proprio Angelo Balducci, nel frattempo promosso dal ministro Altero Matteoli al vertice del massimo organismo di controllo del ministero. "È vero che il Consiglio si trova a dover valutare provvedimenti di spesa approvati quando Balducci era soggetto attuatore", spiega una fonte vicina alla struttura di missione della Protezione civile alla Maddalena, "ma Balducci conosce i cantieri e gli imprenditori che hanno vinto gli appalti. E forse è l'unico funzionario di Stato in grado di far accettare a quegli imprenditori tagli ai loro incassi. Il rischio è sempre quello dei ricorsi".
Tutti nei cantieri della Maddalena sanno che i carabinieri stanno indagando. L'indagine del Ros parte dall'intercettazione il 9 agosto 2008 di una telefonata dell'architetto Marco Casamonti, 43 anni, fondatore dello studio Archea, uno dei progettisti dell'hotel. Casamonti, arrestato e rilasciato dopo l'interrogatorio, è sotto inchiesta in Toscana dall'autunno per i presunti accordi sottobanco tra la Fondiaria-Sai di Salvatore Ligresti e alcuni politici della giunta di Firenze. "Ci hanno chiamato per dare una mano per i progetti del G8 all'isola della Maddalena", dice Casamonti nella telefonata intercettata, "perché stanno facendo i lavori e sono nella cacca più nera. Perché hanno dato incarico agli architetti di Berlusconi che non sono in grado...".
Adesso il decreto voluto dal governo per tagliare i premi alle imprese potrebbe addirittura aggravare i conti. La retroattività al primo marzo, quando ancora si parlava di G8 alla Maddalena, e la decisione di dimezzare i compensi ai professionisti rischia di esporre lo Stato ai ricorsi. Alcune ditte appaltatrici, una minoranza, stanno già studiando la questione con i propri legali. La maggior parte degli imprenditori ha per ora deciso di concludere comunque i lavori. In palio c'è l'Abruzzo e la possibilità di partecipare agli appalti per la ricostruzione.
Il caos di questi giorni, la manifestazione degli abitanti, le proteste del sindaco della Maddalena, Angelo Comiti, hanno nascosto il risultato positivo dei lavori sull'isola. Per la prima volta in Italia un'opera pubblica viene progettata, appaltata, eseguita e consegnata in poco più di un anno. Al posto di un arsenale militare, contaminato da amianto e idrocarburi, ora c'è uno yachting club con porto turistico per 700 barche, aree per conferenze, scuole di vela e un albergo di lusso progettati dall'architetto Stefano Boeri. Un polo di attività che avrà forse più successo dell'hotel-cattedrale ricavato nell'ex ospedale militare, quello che nessuno vuole. Per la sua gestione, il cuore del progetto che avrebbe dovuto ospitare il meeting, ha vinto la Mita Resort, società della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. E il fatto che altre due società sarde abbiano presentato ricorso al Tar per far annullare la gara, significa che questo complesso richiama interesse. Con il suo indotto di posti di lavoro e ricadute economiche. Facendo qui il G8, Berlusconi rischiava cioè di dar lustro a un'idea uscita dal programma dell'ex governatore sardo di centrosinistra, Renato Soru. Un'eventualità che il premier ha sempre tentato di evitare, fin da quando appena eletto aveva proposto di trasferirlo a Napoli.
L'altra incognita sull'avvenire della Maddalena è la mancanza di infrastrutture. Dirottate alle imprese costruttrici le principali risorse, non sono rimasti più soldi per l'allargamento dell'aeroporto di Olbia, la realizzazione della superstrada Olbia-Sassari e la costruzione della passeggiata a mare che avrebbe dovuto collegare il paese della Maddalena al nuovo porto turistico. I tre progetti, più volte confermati dal governo, sono stati via via sfilati perché i costi già alti e le varianti in corso d'opera stavano svuotando la cassa. "A più di due settimane dal trasferimento del G8", racconta il sindaco, Angelo Comiti, "non ho ricevuto una sola telefonata di Bertolaso. Di nessuno, né del governo, né della Protezione civile. Ci hanno spinti in una situazione antipatica. Perché sembra che vogliamo fare concorrenza agli amici dell'Aquila che vivono settimane tragiche. Non è così, andrò a L'Aquila a spiegarlo. Però il lavoro enorme che abbiamo fatto qui non può essere ridotto a una sceneggiata di 'Scherzi a parte'. Ti svegli una mattina e ti dicono che era tutto una finzione".
Pochi giorni fa Comiti ha potuto visitare i cantieri, ancora coperti dal segreto di Stato e presidiati dal battaglione San Marco come se il G8 si dovesse svolgere ancora qui. La riservatezza sui cantieri dovrebbe essere tolta il 20 maggio. Al sindaco i rappresentanti della struttura di missione, Riccardo Micciché e Francesco Piermarini, cognato di Bertolaso, hanno garantito che i lavori saranno completati entro il 31 maggio. Come previsto. Data confermata dall'architetto Boeri: "Non posso dire di più perché vale sempre il segreto, ma nonostante i tagli le imprese hanno deciso di concludere". Verranno comunque consegnati immobili senza arredamento. La Protezione civile ha inoltre deciso di non completare l'asfaltatura dei viali e l'arredo a verde per risparmiare altri 50 milioni da impegnare per il G8 a L'Aquila. Questo dovrebbe ridurre i costi alla Maddalena da 377 a 327 milioni di euro. La previsione di spesa al momento della firma dei contratti era di 308 milioni. Secondo la Protezione civile che, va detto, ha sempre garantito trasparenza sulle cifre, c'è stato dunque un rincaro del 22 per cento. Le imprese però avevano già ottenuto per contratto un incremento del 30 per cento per il fatto di lavorare su un'isola, del 15 per cento per i turni di lavoro giorno e notte e ancora del 12 come ulteriore 'premio di accelerazione'. Cioè un aumento del 57 per cento.
Il risultato è un valore degli immobili completamente fuori mercato che difficilmente potrà restituire alle casse pubbliche quello che tutti noi abbiamo speso. Per l'albergo nell'ex ospedale che nessuno vuole gestire si tratta di 16.800 metri quadri. Ci sono costati 73 milioni, calcolando un aumento medio del 22 per cento sui 60 milioni previsti. Significa un costo di costruzione senza arredamento di 4.345 euro al metro (3.571 senza l'aumento). Alla Maddalena i costi non superano i 1.200 euro al metro. Le ultime tabelle dell'Agenzia del territorio fermano il costo di vendita di una villa di lusso a 3.200 euro al metro. Poiché tra suite e standard, le stanze sono 101 significa un costo medio per ogni stanza di 722 mila euro. Cioè l'equivalente, per ogni camera, di 14 mini appartamenti da 50 mila euro da costruire a L'Aquila. Considerata una rendita del 4 per cento, se lo Stato dovesse pretendere il pareggio da questo investimento con l'incasso di un affitto, il povero gestore dovrebbe sperare di incassare 28 mila euro l'anno per ogni stanza. E poiché l'estate alla Maddalena riempie gli alberghi non più di 40 giorni, significa partire già da 722 euro a notte. E a questo punto fallirebbe perché non avrebbe soldi per pagare il personale, la manutenzione, le tasse. Alla fine dovrebbe alzare il prezzo. Almeno mille, 1.200 euro a notte. Per affacciarsi su un capannone, una strada, lo scarico. E gustarsi il panorama che Obama e Sarkozy non hanno mai visto.
C’è un fenomeno che accomuna democrazie di diversi continenti e paesi, con più o meno solide tradizioni costituzionali, con governi di destra e di sinistra: lo sfilacciamento e l’impotenza dell’opposizione. Negli Stati Uniti, la vittoria di Obama e del Partito democratico è stata accompagnata da un crollo senza precedenti del Partito repubblicano, il quale nonostante la radicalizzazione del linguaggio reazionario di alcuni suoi leader non riesce a riconquistare credibilità presso il suo proprio elettorato; e soprattutto è incapace di definire una politica di opposizione che sia seria ed efficace. Si dirà: le sconfitte sono sempre accompagnate da delusione e smarrimento in chi le subisce.
Nulla di nuovo sotto il sole. Non é forse vero che dopo la vittoria di Reagan lo stesso destino era toccato al Partito democratico che ha impiegato due decenni per rinascere? Eppure qualcosa di nuovo sembra esserci. In Brasile, per esempio, il presidente Lula è al suo secondo mandato e gode di una larghissima popolarità, tanta quanto quella del nostro presidente del Consiglio, di Sarkozy e di Obama. A differenza degli altri paesi, la sua maggioranza ha una storia di più lunga durata e questo avrebbe dovuto consentire all’opposizione di meglio attrezzarsi al suo ruolo e raffinare linguaggio e strategia. Invece, come notano anche osservatori che condividono la politica del presidente Lula, la prova che danno di sé i partiti di minoranza (tanto di sinistra estrema quanto e soprattutto di destra) è deludente.
Eppure un governo che fa buone politiche e ha largo consenso non ha meno bisogno di essere incalzato dall’opposizione di un governo che fa politiche pessime e ha un consenso risicato. In Europa, la situazione non è diversa. In Francia, il Partito socialista non gode di miglior salute del nostro Partito democratico, e l’insoddisfazione dei suoi elettori non è meno accentuata. Pierre Rosanvallon ha avuto modo di commentare di recente le ragioni della crisi della sinistra francese e ha osservato che è fuorviante parlare genericamente di crisi delle ideologie. In realtà, a essere in crisi è solo l’ideologia che esce sconfitta dalle elezioni.
L’identificazione delle elezioni con la competizione sportiva, la lettura dell’esito elettorale in termini di vittoria-e-sconfitta, è un segno indicatore per comprendere quella che chiamerei la sindrome dell’inutilità della dialettica politica post-elettorale. Il suffragio, come sappiamo, contiene due diritti: quello di formare una maggioranza (i voti si contano) e quello di essere rappresentati (i voti si traducono in seggi). Il secondo non è meno importante del primo perché il Parlamento, per godere di una legittimità non solo formale, dovrebbe essere in grado di riflettere il maggior numero delle componenti ideali della società, anche quelle che non hanno vinto. Chi ha "perso" le elezioni è assente dall’esecutivo ma non è né può essere assente dal Parlamento. In questo senso è scorretto usare il linguaggio della vittoria e della sconfitta perché suggerisce l’idea - fuorviante e pericolosa - che conta solo chi vince.
Nell’ottica della vittoria e della sconfitta, l’opposizione non pare avere altro ruolo che quello di testimoniare i perdenti presso il pubblico dei vincitori. E il perdente in una competizione che registra solo chi vince è certamente inutile o impotente; non conta nulla. Ma questa non è né la logica né la procedura che opera nelle democrazie rappresentative, anche se è vero che i sistemi elettorali maggioritari sono più di quelli proporzionali predisposti a favorire questa mentalità. Ma l’intensità del problema che si manifesta oggi travalica la stessa funzione dei sistemi elettorali e chiama in causa la cultura politica, se si vuole l’ethos, il modo di pensare che si sedimenta nell’opinione pubblica. Le democrazie contemporanee sembrano essere sempre di più governi della maggioranza, non semplicemente sistemi nei quali i partecipanti alle decisioni parlamentari decidono secondo il criterio di maggioranza. L’etica della gara per la vittoria è il segno di uno stravolgimento della partecipazione alla costruzione della politica nazionale, perché è evidente che anche chi non ha conquistato la maggioranza contribuisce a determinare la politica nazionale: lo fa sia perché siede in Parlamento e il suo voto è comunque decisivo anche quando sia solo per registrare l’esito di una votazione, sia perché la sua presenza è comunque attiva, attraverso la voce, la contestazione e la capacità di condizionare una proposta di legge. Il lavoro dell’opposizione ha una grande dignità e il voto a un partito che non vince non è un voto perso.
Ma l’ideologia che sembra dominare il campo oggi è quella che vuol far credere che la popolarità dei sondaggi renda l’opposizione inutile, che la maggioranza sola debba governare e che i leader debbano essere come in una permanente campagna elettorale. Un elemento che non può sfuggire in questa politica della celebrità del capo e della sua maggioranza è l’esautoramento delle assemblee legislative. Il Parlamento decade nella misura in cui solo la maggioranza ha voce e visibilità. La funzione dell’opposizione è anche per questa ragione cruciale - la sua sconfitta numerica non si traduce mai in una sconfitta del suo ruolo politico, perché la sua voce e la sua presenza sono la nostra garanzia di libertà democratica. Più di questo: l’opposizione politica è depositaria della nostra certezza che l’alternanza democratica non è un’utopia. Ci si dovrebbe imporre di non ascoltare le sirene dell’ideologia dell’inutilità dei perdenti perché il gioco democratico ci assicura che non c’è la fine della storia.
Il gossip, come diceva Flaubert, «dispensa dal pensare» e dunque nessuno si stupisce di questo cortile, di questo anfanare plebeo sugli amori di una coppia di speciale visibilità come sono i coniugi Berlusconi.
Né è una novità l’asservimento della televisione pubblica ai vizi del principe, con il "Porta a porta" diventato per l’occasione "Letto a letto". Ma la velocità, la passione e l’intensità del gossip sul divorzio hanno coperto lo scandalo reale, ancora irrisolto e dunque intollerabile in un paese civile. Berlusconi infatti non ha mai chiarito, né i suoi detrattori hanno mai pienamente dimostrato, quanto erotici siano in Italia i dicasteri e quanto ci sia di Morgensgabe, di dono del mattino, nelle cariche istituzionali. Insomma, l’accanimento sul tradimento della moglie nasconde la vera questione italiana: siamo tornati, unico Paese dell’Occidente avanzato, alle forme autocratiche del potere, quando lo Stato, i posti di Stato, i ministeri di Stato, venivano appaltati ai famigli, ai favoriti, ai mariti delle amanti, alle amanti?
Berlusconi, fiutando il palcoscenico maschile, ha consegnato a Bruno Vespa le sue dichiarazioni di innocenza accompagnate dai soliti ammiccamenti verso i peccati che giura di non avere commesso. Ma il sospetto infamante e dunque calunnioso che pesa su di lui non è l’adulterio, non è l’avere oltraggiato la delicatezza femminile della moglie, non è l’avere offeso e rinnegato il berlusconismo ingentilito che c’è in Veronica, ma l’avere portato il letto al potere d’Italia.
Ed è persino divertente che il giornale dei vescovi gli rimproveri l’impertinenza e la mancanza di sobrietà, insomma proprio i famosi peccati di cui l’italiano, da simpatica canaglia, sa pentirsi e negare, e al tempo stesso compiacersene e andare fiero. Inconsapevolmente, a riprova che il moralismo è cieco, "Avvenire" ha reso un favore al Berlusconi che si bea appunto della propria impertinenza e delle proprie marachelle e non si rende conto che chiedere a un’assessora il permesso di palpeggiamento, chiedere «posso palpeggiare un po’ la signora?» con un mezzo sorriso burocratico istituzionale durante una visita nelle zone terremotate non è una pulsione ma è una patologia. Eppure "Avvenire" ha accreditato, censurandola, l´esuberanza sessual-affettiva e non la malattia, ha certificato quell’eterna adolescenza nella quale Berlusconi finge drammaticamente di vivere e non la sindrome del nonno immaturo che ridiventa bambino con i bambini e con le bambine.
Più acutamente il mondo religioso avrebbe dovuto vedervi la decadenza di quell’infoiamento che fu raccontato al cinema da Tognazzi. Qui infatti non c’ il premierato annichilito dalla commedia all’italiana, dalle Baruffe chiozzotte, dalle trame dell’Ubalda tutta calda o del Magnifico cornuto, ma c’è invece il sesso ossessione, il sesso fantasma, il sesso che nessun concetto prefabbricato dalla psicologia può spiegare e contenere e che nessuna velina potrà mai addomesticare; qui non c’è lo spettacolo delle soubrette dalle forme rotonde e le gambe lunghe che capitalizzano e investono sulla propria bellezza impataccando di carezze gli uomini ricchi e potenti, ma c’è lo spettacolo degli anziani uomini di potere che le esibiscono e le istruiscono alla politica: le ricompensano con la politica.
Ma perché i vescovi non gli chiedono conto di quell’altro peccato che, se fosse vero, sarebbe ben più grave, peccato mortale contro l’Italia e contro gli italiani? Stiamo parlando della simonia laica, del sospetto, mai provato e mai fugato, di ricompensare l’avvenenza con i posti in Parlamento e con i ministeri.
Fu nell’estate scorsa che l’Italia fu invasa da decine e decine di "aforismi telefonici" sui meriti sessuali di ministre e sottosegretarie, frasi più o meno volgari e più o meno verosimili che ancora adesso purtroppo accompagnano la Carfagna, la Gelmini, la Brambilla nonché l’intero educandato di attrici, veline e ballerine che non sono più la gioia malandrina del potere ma sono ormai una degenerazione del potere italiano.
È vero che fu gossip anche quella divulgazione, per passaparola e per mormorio, del contenuto, non si sa quanto calunnioso, di alcune intercettazioni, come sempre di nessun valore penale. Ma la distruzione legittima e legale di quelle intercettazioni non ha certo smontato l’infamia della quale Berlusconi e le sue ministre si dichiararono vittime. Anche perché l’Italia deve all’ambiguità della sua storia la fama di paese nel quale si distruggono solo le prove, di paese nel quale più si distrugge e più si costruisce la prova.
Attenzione dunque a quel che accade. Con la complicità delle televisioni e dei giornali che trascinano anche Veronica nel letamaio e la mostrano senza veli per farne una velina dissennata e scosciata, Berlusconi sta trasformando le ferite che ha inferto alla moglie in una battaglia e magari già in una vittoria politica, con l’idea tutta berlusconiana della politica che, come la vita sregolata e romanzesca, fluisce nel viso rifatto e nei capelli che ricrescono, nella prostata che guarisce e nel seduttore che ringiovanisce, nel padre in pericolo e nel marito monello: è un fumo, una magia, un "a me gli occhi" che non solo restaura il mito guasto e avariato del "Silvio Priapo" ma nasconde il vero, l’ultimo scandalo di un’Italia non più governata dal conflitto di interessi, ma dal conflitto di piaceri: prurito di interessi, conflitto di pruriti, conflitto di interessi pruriginosi.
Eurostat, l’ufficio statistico della Commissione europea, che in tema di lauree assegna anche la maglia nera ai giovani uomini italiani. Ma non solo: la probabilità di conseguire i più alti livelli di istruzione, in Italia, è ancora fortemente legata alle condizioni della famiglia di provenienza. I giovani che vivono in contesti familiari contrassegnati da un livello di formazione basso hanno una probabilità nettamente inferiore di raggiungere l’agognato titolo rispetto a coloro che vivono in famiglie con genitori laureati. Insomma: l’ascensore sociale del nostro Paese sembra proprio bloccato.
L’Italia, nell’Unione europea a 27 paesi, per numero di giovani laureati si colloca alle ultime posizioni. Tra i connazionali di età compresa fra i 25 e i 34 anni, soltanto 19 italiani su 100 risultano in possesso di un diploma di laurea. La media europea si colloca attorno al 30 per cento, con Paesi come Francia, Spagna, Danimarca, Svezia e Regno Unito attorno al 40 per cento. Soltanto Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia fanno peggio di noi.
Ma a tirare in fondo alla classifica il Belpaese sono gli uomini che si beccano la maglia nera. In Italia si contano poco meno di 15 giovani laureati maschi, contro le 23 donne, su 100. A Cipro sono 42 su 100 i giovani uomini laureati. La situazione è bloccata proprio a livello sociale. I laureati fra i 25 e i 34 anni che provengono da famiglie "a basso livello di formazione", in Italia, sono soltanto il 9 per cento: un dato che colloca il nostro Paese al livello di Lettonia e Polonia.
Il tasso schizza al 60 per cento se passiamo a famiglie in cui i genitori sono in possesso della laurea. In buona sostanza, in Italia, i figli dei cittadini più istruiti hanno una probabilità sette volte superiore di raggiungere la laurea rispetto ai coetanei che vivono in contesti più deprivati.
Nei Paesi europei più sviluppati, probabilmente a causa di un sistema di istruzione e formazione più attento ad attenuare le differenze sociali di partenza, questa sperequazione tra "ricchi e poveri di cultura" è di parecchio attenuata.
Nel Regno Unito la probabilità di tagliare il traguardo più lontano dell’istruzione è doppia per i figli dei laureati. Gap che aumenta a due volte e mezzo in Francia e Spagna. L’impietoso quadro del nostro Paese, che ha ripercussioni negative in campo sociale ed economico, emerge dall’ultimo rapporto pubblicato da Eurostat il 28 aprile, dal titolo "Il processo di Bologna nell’educazione universitaria: indicatori chiave della dimensione sociale e della mobilità". E lascia intravedere la necessità di una riforma del sistema universitario e in genere dei sistemi di istruzione nazionali.
Il cosiddetto "processo di Bologna", avviato nel 1999, è un percorso di riforma a carattere europeo che si propone di realizzare entro il 2010 uno "spazio europeo dell’istruzione universitaria". Tra i diversi scopi c’è quello di allargare le possibilità di accesso all’istruzione universitaria per i cittadini europei a fini sociali e occupazionali.
«L’istruzione universitaria - si legge nel rapporto - gioca un ruolo determinante per ottenere un impiego». Anche «le differenze di retribuzione dipendono soprattutto dal livello di istruzione: coloro che sono in possesso di un livello di istruzione superiore guadagnano in media il doppio dei lavoratori con un livello di istruzione debole». L’insegnamento universitario, inoltre, «gioca un ruolo chiave nell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita», condizione necessaria ai futuri lavoratori per cambiare lavoro.
Nella serata di venerdì primo maggio, tra le 20,45 e le 21,45, un gruppo di alcune decine di studenti ha occupato l'Hotel de ville, il comune di Parigi. Un'azione ai margini di uno spezzzone del corteo del 1er mai tutto dedicato al proseguimento della protesta contro la riforma dell'università. Di fronte all'Hotel de Ville, del resto, la «ronde des obstinés», la ronda gli ostinati, ha continuato a passare per tutto il primo maggio e ha proseguito la notte e il giorno dopo. Sono quasi mille ore che gli «ostinati» girano in tondo per sottolineare la loro determinazione contro la riforma. L'iniziativa è partita dall'università Paris VIII, poi non solo altre facoltà, ma anche cittadini qualunque e addirittura dei turisti si sono uniti, chi per un momento chi per ore, a questa marcia di protesta.
L'episodio dell'occupazione dell'Hotel de Ville, fatta senza danni, è stata l'azione più decisa del primo maggio parigino. Il corteo che ha attraversato la capitale era tipico della circostanza: famiglie intere, persone che non avevano manifestato per anni, clima allegro. Anche se un fondo di gravità toccava un po' tutti, vista la crisi. A Parigi sono scese in piazza più di centomila persone, un milione e duecento in tutta la Francia nei 283 cortei che hanno sfilato in città grandi e piccole.
Il governo e l'Eliseo, che non hanno nessuna intenzione di rispondere alle domande dei lavoratori e dei cittadini preoccupati dalla gestione «molle» della crisi, hanno giocato la vecchia carta del ridimensionamento della partecipazione. Il primo maggio è arrivato, difatti, dopo le due giornate di cortei eccezionali del 29 gennaio e 19 marzo. A marzo, i sindacati avevano conteggiato da due milioni e mezzo a tre di persone in piazza. Il governo sottolinea quindi che il primo maggio la partecipazione si è dimezzata. Il ministro del lavoro, Brice Hortefeux, dopo aver minimizzato il corteo, ha concesso per prima dell'estate una «valutazione» con i sindacati dell'effetto delle misure contro la crisi già prese dal governo. Niente di più. Il portavoce del governo, Luc Chatel, ha escluso nuove iniziative governative. Ma i sindacati insistono sulla valenza «storica» del primo maggio di quest'anno, il ventunesimo: c'erano cinque, sei volte più persone nei cortei di quante ce ne siano state l'anno scorso. Mai una festa del lavoro è stata così celebrata: anche quella «politico» del 2002, tra i due turni delle presidenziali, con Le Pen al ballottaggio, aveva attirato meno persone, malgrado l'unità contro il Fronte nazionale.
Per la prima volta dopo la Liberazione, i sindacati del cosiddetto «G8» - cioè le otto principali organizzazioni (Cgt, Cfdt, Fo, Fsu, Cfr-Cgc, Cftc, Solidaires-Sud, Unsa) - hanno sfilato assieme, con i leader praticamente a braccetto a Parigi. Tutti hanno espresso soddisfazione per questa unità. Tutti hanno attaccato il padronato «invisibile» che nasconde dietro l'assenza di dialogo «un irrigidimento all'anglosassone», secondo François Chérèque, segretario della Cfdt. Ma, dietro l'unità dei cortei, le divisioni permangono, tra radicali e riformisti. Lunedì i leader del «G8» si incontreranno di nuovo per decidere cosa fare dopo la forte mobilitazione delle tre giornate da gennaio a maggio. «Adesso, il governo deve dare risposte concrete alle nostre rivendicazioni sui salari e il potere d'acquisto» afferma Jean-Claude Mailly, segretario di Force ouvrière. La Fo vorrebbe una giornata di sciopero generale, prima dell'estate. La Fsu è d'accordo. Anche Sud è su questa linea più radicale: vorrebbe uno sciopero generale non solo di 24 ore, ma rinnovabile, fino ad aver ottenuto qualche risposta dal governo. Ma la Cfdt è decisamente contraria. La Cgt tergiversa e resta prudente. Eppure, nel corteo, erano molto numerose le persone che mostravano ben in vista lo sticker ripreso dalle manifestazioni contro il Cpe, il contratto di primo impiego del 2006: «Rêve générale» (un gioco di parole, con l'accordo sbagliato, tra rêve e grève). I sindacati dovranno «trovare la risposta a tre domande: quali rivendicazioni? quando? con quali modalità?», spiega Marcel Grignard della Cfdt. L'accordo potrebbe essere raggiunto su una nuova giornata di mobilitazione, probabilmente il 19 maggio. E forse altre iniziative dopo le europee del 7 giugno. Ma, ormai, sia il governo che i sindacati pensano al rientro di settembre: allora, molte altre fabbriche avranno chiuso e i morsi della crisi si faranno più duri. Tutti vogliono evitare il rischio di derive violente, alimentate dall'esasperazione sociale.
Il Ps è tornato a patecipare con forza al corteo di venerdì. A Parigi, anche se i socialisti sono stati obbligati a prendere una via laterale, Martine Aubry ha partecipato alla manifestazione, assieme al sindaco Bertrand Delanoë. Olivier Besancenot, portavoce del Nuovo partito anticapitalista, che spera nello sciopero generale, era invece al corteo in Guadalupa, accanto al leader sindacale Elie Domota.
LA DESTRA - il Centrodestra, per usare un linguaggio politicamente corretto - ha fatto del territorio un fondamento della propria identità. Per la Lega Nord è il più importante. Un riferimento costitutivo. Reso visibile da una presenza territoriale diffusa. Attraverso i gazebo, i volontari in divisa, le stesse ronde (talora in camicia verde). Il federalismo fiscale, approvato dal Parlamento la settimana scorsa, contribuisce a rafforzare questa immagine. Non è possibile sapere, oggi, in che misura garantirà, effettivamente, l’autonomia responsabile delle regioni e degli enti locali. Tuttavia, si tratta di una bandiera piantata sul territorio. Per usare un ossimoro: un "simbolo pratico", che fa sembrare reali e attuali gli effetti di una legge approvata, ma non ancora in vigore.
Anche il principale partito di Destra (pardon, Centrodestra), il PdL, ha accentuato sensibilmente il rapporto con il territorio, facendone quasi un marchio. Non tanto perché l’aggregazione tra Fi e An ha disegnato una geografia elettorale precisa e complementare a quella della Lega. Quindi: centro-meridionale. Ma perché il PdL ha sviluppato e sta sviluppando una politica "localizzata": profondamente associata ai "luoghi". È questa, a nostro avviso, la principale ragione del successo di pubblico - se non di critica - riscosso da Silvio Berlusconi dopo aver vinto le elezioni. Ciò può apparire singolare e quasi paradossale. Berlusconi è il Signore dell’Immagine. Della "politica come marketing". Il suo territorio coincide con lo "spazio mediatico". Anzitutto con la televisione. Non per caso, negli ultimi giorni, è stato coinvolto da polemiche relative alle candidature in vista delle prossime elezioni europee. Selezionate, alcune, non in base alla "presenza" nel partito e sul territorio. Ma alla "bella" presenza. E basta.
Silvio Berlusconi. Negli ultimi mesi, nell’ultimo anno, ha costruito la propria immagine - oltre a quella del governo - in rapporto diretto ai "luoghi" che hanno concentrato l’attenzione degli italiani. Nell’ultimo mese: l’Abruzzo e i luoghi del terremoto. La cui tragedia ha suscitato l’emozione e la solidarietà popolare. Il dolore e la distruzione: sotto i riflettori, le telecamere. Ogni giorno: L’Aquila, Onna. E Berlusconi. Sullo sfondo Gianni Letta. Visibile, nella sua invisibilità. Davanti a tutti - apripista e battistrada - Guido Bertolaso. Efficiente direttore della Protezione Civile. Ormai un’icona. Garante, appunto, della "protezione" dei cittadini, in occasione delle catastrofi che si abbattono - numerose, sempre impreviste e sempre prevedibili - nel nostro paese. Così bello e martoriato. Berlusconi c’è. Accanto ai terremotati. A testimoniare la "sua" solidarietà e la "sua" presenza: personale, politica e come capo del governo. In Abruzzo, fra qualche tempo, si riuniranno anche i Grandi del Mondo. Guidati da Lui. Che, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, continuerà a recarsi lì. Per controllare e sottolineare la ricostruzione che procede. Il ritorno alla normalità. (Prospettive che - noi per primi - auspichiamo).
Questo legame - diretto, personale e politico - fra Berlusconi e i "luoghi", a nostro avviso, è all’origine della grande popolarità del premier in questo momento. L’Abruzzo ne è l’esempio recente, ma non unico. Basta pensare a Napoli, al tempo della campagna elettorale e all’indomani del voto. La città sommersa dai rifiuti, a sua volta palcoscenico e scenario mediatico frequentato da tutte le reti e da tutti i giornali. Non solo italiani. Più efficace di qualsiasi mobilitazione politica a raffigurare la sconfitta del progetto di "ricostruire" il Mezzogiorno. E, dunque, di Bassolino ma soprattutto della Sinistra. Pardon: del Centrosinistra. Napoli. Divenuta il simbolo dell’efficienza miracolosa e quasi taumaturgica di Berlusconi. Affiancato e sostenuto da Bertolaso. Sullo sfondo, invisibile e per questo più visibile, Gianni Letta. Da un anno, i rifiuti sembrano scomparsi. Almeno, dai media. E da un anno Silvio Berlusconi continua a recarsi con frequenza a Napoli. Vi riunisce il governo. Partecipa a feste private di compleanno. Semplicemente, ci passa. Un salto rapido per vedere come vanno le cose e via.
L’identificazione del governo e di Berlusconi con i "luoghi del degrado e della ricostruzione", della morte e della rinascita. E, insieme, il legame della Lega - l’allitterazione non è involontaria - con il territorio e in particolare con il Nord. Rendono più evidente, per contrasto, la distanza dell’opposizione di Sinistra - pardon: centrosinistra - dal territorio. Un paradosso, perché il Pd è l’erede dei maggiori partiti di massa della prima Repubblica. La Dc e il Pci. Tanto radicati nel territorio e nella società da caratterizzare la stessa definizione geopolitica di alcune zone del paese. Definite "bianche" (le regioni del Nordest) oppure "rosse" (quelle del Centro). Oggi il Pd è affaccendato in altre faccende. Certo, nelle sue liste per le europee non si incontrano "veline". Ma ha presentato candidati e soprattutto capolista scarsamente collegati al territorio. (Per usare un eufemismo). Mentre i sindaci - principali interpreti del legame della Sinistra con il territorio, durante la seconda Repubblica - non godono di grande popolarità. Soprattutto quelli del Nord. Le loro critiche al distacco del partito dagli interessi locali sono accolte con insofferenza. E indifferenza. Il Pd come il PdL: si è personalizzato. Concentrato e diviso alla ricerca del suo Berlusconi, sta perdendo i presidi sul territorio. Non solo nel Nord. A Roma, dopo 15 anni governa la Destra. Nel Sud, pare aver abbandonato Napoli e la Campania, per oltre dieci anni le nuove "zone rosse". E alle elezioni di giugno la "battaglia europea" sembra più importante, per il Pd, rispetto alla difesa delle ultime roccaforti: Bologna e Firenze.
Si assiste, così, a un singolare - e oseremmo dire: storico - rovesciamento delle parti. Mentre la Destra costruisce e inventa i suoi luoghi, la Sinistra li ha dimenticati.
Era utopica. Oggi è atopica.
Il legame col territorio si può esprimere in molti modi. C’è quello di cogliere le calamità, antropiche o naturali, e fare promesse impossibili e poi raccontare bugie rifiuti a Napoli, terremoto all’Aquila). C’è quello di far leva sulle “percezioni” alimentate dai mass media asserviti al pensiero dominante, e adoperare gli strumenti della demagogia (sicurezza, edilizia). Ci sarebbe anche quello di conoscere seriamente i problemi del territorio e guardare e guidare verso il futuro, cioè governare; ma sembra assai poco praticato.
La proposta di legge che la stampa con le sue semplificazioni (spesso efficaci e appropriate) ha subito registrato come “blocca ricorsi” non è tanto allarmante per l’affrettato, e forse infine innocuo, dispositivo del suo unico articolo (che va a mettere una coda velenosa nell’articolo 18 della legge istitutiva del ministero dell’ambiente), quanto per gli umori e i propositi rivelati nella relazione di presentazione e illustrazione dai 135 deputati (tutti appartenenti alla maggioranza di governo) che hanno assunto l’iniziativa legislativa. Un vero e proprio manifesto politico della intolleranza verso la funzione di controllo di legittimità che la legge istitutiva del ministero dell’ambiente assegna alle “individuate” “associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale”, ad esse riconoscendo la legittimazione a ricorrere davanti al giudice amministrativo per l’annullamento degli atti illegittimi lesivi dei valori ambientali. Ma intolleranza innanzitutto verso le stesse garanzie di legalità, previste dal sistema per tutti i comportamenti della pubblica amministrazione, che è già stata concretamente manifestata dal “decreto anti-crisi” (convertito nella legge 28 gennaio 2009, n. 2), espressamente e non a caso richiamato nella relazione. La quale sottolinea che l’art. 20 di quel decreto solleva in pratica le opere pubbliche che siano state dichiarate “prioritarie per lo sviluppo economico del territorio” dall’onere del rispetto della legalità, non solo abolendo la “facoltà sospensiva” del giudice amministrativo investito del ricorso, ma perfino sopprimendo la sua potestà di annullare l’illegittimo atto amministrativo, impugnato, che le approva. “Lo snellimento delle procedure non permetterà più che sia il TAR a decidere se un’opera si debba fare o meno”, così cantano vittoria i 135 proponenti della legge, che intendono dunque completare la manovra con una energica misura di intimidazione delle associazioni che si permettessero di invocare il rispetto della legalità nel governo dell’ambiente. Palesemente di comodo (oltre che espressione di un malevolo pregiudizio verso le associazioni sempre pronte, si dice, a far proprie anche le ragioni pretestuose degli interessi locali) è il quadro che la relazione disegna, attribuendo ai ricorsi delle associazioni i deplorati ritardi nella realizzazione delle opere e perfino la paralisi. Quando invece ben altre ne sono le ragioni, spesso intrinseche alla stessa natura della specifica opera e alla cattiva gestione del relativo sviluppo attuativo, ma pure dovute alla incapacità di costruire appropriati rapporti di partecipazione con le comunità insediate nei luoghi immediatamente incisi dall’intervento e di gestire politicamente le loro anche accese contestazioni e resistenze. Mentre è ben noto l’orientamento generale dei giudici amministrativi, assai restrittivo in tema di opere pubbliche nel concedere la sospensione dell’esecuzione. E quando la sospensione (dalla quale soltanto e non dalla mera presentazione del ricorso può derivare il ritardo) sia stata concessa, essa è orientata anche dalla valutazione di fondatezza nel merito del ricorso, dunque il ritardo mai può essere imputato alla pretestuosità della contestazione.
Quali allora le misure punitive previste per le associazioni dalla proposta di legge? Già si è detto di un unico articolo (concepito sembrerebbe da chi ha scarsa cultura e pratica dei processi) che nel primo comma riprende un istituto processuale di carattere generale e quindi applicabile a tutte le parti che abbiano agito in giudizio in mala fede o colpa grave e sono perciò tenute al risarcimento dei danni così cagionati alla parte vittoriosa. E’ istituto pacificamente operante anche nei giudizi amministrativi e dunque non v’è ragione di confermare che la responsabilità da lite temeraria, come si dice, vale anche per le associazioni. Le quali ben lo sanno, ma quel rischio non le riguarda, perché a ragione (non avventatamente o in mala fede) ricorrono alla giustizia amministrativa. Più insidioso, odioso anzi nelle intenzioni, il secondo comma che solo per le associazioni (quindi in palese contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza dell’art. 3) amplia la responsabilità processuale, a prescindere dalla colpa, prevedendo la condanna (anche d’ufficio del giudice, indipendentemente dalla domanda della parte pubblica) al risarcimento dei danni, quando il ricorso sia respinto perché manifestamente infondato. Si tratterebbe di un dispositivo atipico, riservato alle associazioni, mai altrimenti previsto, perché il giudizio di annullamento dell’atto amministrativo si conclude con l’accoglimento o il rigetto del ricorso; mentre la sanzione del risarcimento dei danni è fatta dipendere da un apprezzamento eminentemente soggettivo quale è quello che qualifica come manifesta l’infondatezza del ricorso. E’ chiaro insomma il proposito discriminatorio e dissuasivo, di condizionare cioè negativamente l’esercizio del diritto di agire in giudizio, che è garantito dall’art. 24 Costituzione. E altrettanto chiaro l’ indiretto messaggio fatto giungere ai giudici amministrativi. Ma credo che neppure con questo secondo comma i deputati proponenti, contro le intenzioni, abbiano saputo in concreto creare un efficace freno al controllo di legittimità esercitato con i ricorsi delle associazioni. Si è già osservato che il danno da ritardo nella realizzazione dell’opera può darsi soltanto se il giudice abbia preliminarmente disposto la sospensione e con valutazione necessariamente estesa anche alla fondatezza nel merito del ricorso, che non potrà perciò, nella pronuncia conclusiva, essere ritenuto manifestamente infondato.
Italia Nostra e le altre “associazioni di protezione ambientale” registrano con preoccupazione non solo il radicato pregiudizio e l’insofferenza (dei 135 deputati che hanno assunto questa iniziativa legislativa) verso il ruolo di controllo di legittimità ad esse riconosciuto dalla legge istitutiva del ministero dell’ambiente, ma innanzitutto la esplicita determinazione di rimuovere ogni ostacolo, anche quelli opposti dal rispetto della legalità, e dalle obbiettive ragioni di salvaguardia dell’ambiente, alla realizzazione delle opere pubbliche ritenute “prioritarie” per il malinteso “sviluppo economico del territorio”.
La crisi ha rivelato che le nostre società sono costituite apparentemente non più da classi sociali, ma da universi paralleli: una differenza non retorica, conseguenza di un’evoluzione implacabile che ha diviso le popolazioni in categorie distinte, pur senza unire le persone in seno a ogni categoria. Ai tempi delle classi sociali, se così posso dire, ciascuno aveva un’identità sociale, e la coscienza di appartenere a un gruppo. Per di più, i rapporti tra le classi, spesso conflittuali anche se talora pacificati dal paternalismo dei capitani d’industria, erano frequenti, se non continui; in breve, non avevano nulla di anonimo. Era il senso di appartenenza a una classe, insieme ai rapporti tra le classi, a fare la società.
Le rette parallele si incontrano solo all’infinito: è un modo per dire che gli universi di cui sopra generalmente si ignorano. Quest’evoluzione è il frutto di un cambiamento dei valori e del crescente individualismo. I valori della solidarietà, anche se imposti dalle disuguaglianze e dalle difficoltà della vita quotidiana, hanno ceduto progressivamente il passo a quelli del merito individuale, misurato col metro del denaro. Paradossalmente, una parte di quest’evoluzione potrebbe essere ascritta a due dinamiche eminentemente positive: la lenta azione della democrazia, che liberando l’individuo lo rende al tempo stesso più solitario, e gli effetti di un sistema di protezione sociale che mutualizza i rischi, rendendo l’individuo più autonomo rispetto al suo gruppo di appartenenza. Questa solitudine, e quest’autonomia, inducono sempre più a ritenere che nel bene e nel male, ciascuno sia il solo responsabile del proprio destino. Ed è evidentemente qui che si produce il controsenso. Difatti, se l’individuo è libero e autonomo, lo è soltanto in ragione delle decisioni collettive prese in seguito a un dibattito democratico, e in particolare di quelle che hanno assicurato a ciascuno l’accesso (diseguale) ai beni pubblici: istruzione, salute ecc. Diseguale, perché la fruizione dei beni pubblici è anche determinata dalle condizioni iniziali di ogni individuo. Come dimostrano numerose inchieste, le università più prestigiose (anche quando l’iscrizione ai corsi è gratuita) sono frequentate in grande maggioranza dai giovani dei ceti più favoriti. La solidarietà permane, ma è divenuta talmente astratta che chi è stato favorito nel gioco a dadi del destino non si sente in alcun modo debitore. Pensa di essere ciò che è solo per meriti propri, e ignora il ruolo delle decisioni collettive grazie alle quali ha potuto realizzare le proprie potenzialità. Secondo questa logica, le scuole e le università della Repubblica ad esempio non avrebbero avuto alcun peso!
Ma ad aprire la strada agli universi paralleli di cui ho parlato è intervenuta un’altra astrazione: il denaro. Se il merito, come ci racconta non la teoria (che è più sottile) ma l’ideologia liberale, si misura col metro del denaro, allora non esistono più limiti morali all’entità delle remunerazioni. Se io guadagno mille volte (o cento, o dieci volte) più di te, vuol dire che il mio merito è mille volte (o cento, o dieci volte) superiore al tuo. In tal modo diventa possibile attribuire al denaro un valore intrinseco: quello del mio merito, della mia competenza. Al resto pensa la natura umana – l’ego e/o l’arroganza: sono in molti a considerare il proprio valore precisamente inestimabile. Il luogo privilegiato ove questa (iper)valutazione di sé incontra i minori ostacoli è evidentemente il mercato finanziario, nel senso generico del termine. La moneta è un’astrazione – l’«astrazione delle astrazioni», diceva Hegel. Si comprende così come mai può accadere che le remunerazioni non abbiano più alcun rapporto con la realtà. A confortare il suddetto credo è stata la dottrina del libero mercato, divenuta una quasi religione: il mercato è efficiente, e quindi la remunerazione che mi fa avere (la cui entità, come si è visto in alcuni casi recenti, può anche andare oltre ogni immaginazione) è legittimata dalla mia propria efficienza. Posso dunque dire di partecipare al bene comune, ancorché indirettamente e astrattamente, attraverso la creazione di valore resa possibile dal mio lavoro, e ne sono ricompensato.
Ma ecco che – patatrac! – il sistema crolla: la creazione di valore si trasforma in distruzione, e gli universi paralleli entrano in rotta di collisione. Il risultato è spettacolare e, a memoria di matematico, inaudito: le rette parallele si incrociano, l’autonomia diventa interdipendenza, la solidarietà è riaffermata con enfasi per convincere il «tax payer», o contribuente, a soccorrere chi prima aveva voluto le camere separate. In ogni modo, non c’era scelta, dato il fittissimo intreccio tra economia e finanza e gli stretti rapporti di dipendenza reciproca tra i pseudo-universi paralleli. Le scaglie cadono dagli occhi: l’illusione di un arbitraggio tra efficienza e solidarietà dimostra la sua inconsistenza. La crisi ricorda a ciascuno quanto deve agli altri, sottolineando – se ce ne fosse bisogno – una verità etica dimenticata troppo in fretta: sono i ricchi a trarre il maggior vantaggio dalla loro cooperazione con gli altri membri della società, e in particolare con i poveri.
Da tutto questo si possono trarre due conclusioni: la prima è che almeno in parte, ciascuno deve il proprio successo agli altri, in ragione dei beni pubblici dei quali ha potuto fruire grazie alla democrazia. Ne consegue l’invito a una maggior modestia e sobrietà nel fissare le remunerazioni più elevate, per ragioni non morali, ma di sostenibilità del sistema: perché altrimenti è la società intera a dover pagare il conto, se si vuole evitare una catastrofe.
Seconda conclusione: i più favoriti, che nel contesto attuale hanno beneficiato della solidarietà altrui, non possono più rifiutare agli altri il proprio contributo. Perciò le voci di chi insiste nel giudicare eccessivi i contributi sociali e le tasse dovrebbero essere messe in sordina. Ma lo saranno?
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Le Monde, 29 aprile 2009
Les architectes continuent de penser au Grand Paris
Béatrice Jérôme
L'aventure architecturale duGrand Parisne fait que commencer. Le présidentNicolas Sarkozydevait inaugurer, mercredi 29 avril à Paris, l'exposition de la Cité de l'architecture et du patrimoine qui réunit "les idées"des dix architectes consultés sur le "grand pari de l'agglomération parisienne". A l'origine de ces travaux, le chef de l'Etat devait indiquer, mercredi 29 avril, la suite qu'il entend leur donner.
Il ne s'agit pas d'un concours d'urbanisme, ni de projets à réaliser, mais d'une réflexion sur ce que devrait être la capitale à l'horizon 2050. Les architectes ont travaillé sur les mêmes thématiques et donné leur vision de la capitale en tenant compte du protocole de Kyoto sur le climat : transports, préoccupations écologiques, densification des espaces bâtis, nécessité de réhabiliter plutôt que de détruire. M. Sarkozy souhaite prolonger la réflexion des dix équipes d'architectes, qui auraient accepté, selon l'Elysée, de se regrouper au sein d'un "atelier commun".
De plus, un texte de loi permettant d'assouplir les règles d'urbanisme devrait être élaboré. En effet, tous les architectes - parmi lesquels Roland Castro,Yves LionouJean Nouvel- ont demandé à pouvoir s'affranchir de l'interdiction de construire en zone inondable, à proximité des autoroutes ou d'augmenter la hauteur autorisée des immeubles ou des pavillons.
NE PAS RANGER LES CRAYONS
L'objectif est de pouvoir construire davantage. l'Elysée annonce la création de 70 000 logements, soit deux fois plus que l'effort actuel. "Il s'agit de faire en sorte de construire plus vite, tout en construisant bien", précise-t-on à l'Elysée.
Une mission a été confiée àThierry Tuot, conseiller d'Etat, qui vise à la modification des règles d'urbanisme. Celui-ci devrait rendre un rapport sur lequel le gouvernement s'appuiera pour élaborer un texte de loi. Le chef de l'Etat entend également donner, par la loi, un plus grand rôle aux architectes dans la conduite des chantiers.
Grisé par les travaux présentés, M. Sarkozy accède ainsi aux requêtes des architectes, qui craignaient de devoir ranger leurs crayons dès le premier rendu de leurs travaux. Président du conseil scientifique chargé de veiller à la qualité des travaux de la consultation, l'architectePaul Chemetova appelé à créer une "école du Grand Paris".
Cheville ouvrière de la consultation pilotée par le ministère de la culture, l'urbanisteEric Lengereaua proposé, lui, la création d'un "laboratoire du Paris métropolitain".
Le futur "atelier" commun des architectes devra permettre, selon l'Elysée, de "relancer la réflexion sur la ville en sortant du strict cas de la métropole parisienne et d'élargir cette pensée à d'autres types de villes dans le monde". L'Elysée attend que se constitue un "stock d'idées pour mettre en oeuvre un projet urbain". Ce projet urbain est "à portée de main", s'emballe-t-on à l'Elysée.
Aucun des architectes qui ont participé à la consultation ne devrait prendre la tête de l'"atelier". Mais tous ont le sentiment d'être consacrés dans leur rôle de pionniers du Grand Paris.
The Guardian, 29 aprile 2009
Sarkozy unveils his legacy: Paris as a futuristic eco-metropolis
Angelique Chrisafis
François Mitterrand left his mark with daring constructions such as the giant glass pyramid at the Louvre, Georges Pompidou created a modern art centre and Jacques Chirac ordered a jungle-themed museum of African and Asian art.
ButNicolas Sarkozytoday made it clear his presidential legacy to the Parisian landscape will go much further, as he set out his philosophy of creating a futuristic, eco-friendly metropolis that would swallow up the surrounding suburbs.
Sarkozy has styled himself as patron of the city's most ambitious urban overhaul since Baron Haussmann flattened medieval inner-city slums to create Paris's famous 19th-century boulevards.
Launching an exhibition of projects by 10 of the world's top architects for his ambitious Greater Paris plan, the president vowed he would break down boundaries and expand the capital into a greater metropolis, the first post-Kyoto eco-city. He promised to create a city in the vein of "Jerusalem, Athens or Rome" that would embody "truth, beauty and grandeur".
Big names including the British architect Richard Rogers and French award-winners Jean Nouvel and Christian de Portzamparc were asked to offer plans for the transformation of the Paris area. Proposals include covering the city's railway tracks to provide new green spaces, building futuristic glass towers with cascading gardens, a monorail above the ring road or an artificial island in the Seine.
Sarkozy will not make his mind up immediately. But he has unveiled the first step: 35bn investment to revolutionise Paris's choked and failing suburban transport system over 12 years. New connections will link airports and important business and residential areas surrounding the city, and there will be an automatic super-metro 130km long.
Sarkozy also favoured revitalising former industrial sites along the Seine and expanding the capital's links to the Channel with a high-speed connection to the port of Le Havre.
Paris, dubbed a "living museum" for its well-preserved splendour, is one of the world's most visited cities but it is also one of Europe's smallest capitals. While Greater London has a population of about 7.5m, Paris is limited to 2m people, encased within a ring road that acts as a barrier against neighbouring suburbs.
Sarkozy now wants to open the city out and loosen tight building rules. He said he was not opposed to skyscrapers if they worked "harmoniously" with the urban landscape. "We can build high, we can build low, big or small, as long as it's beautiful." He said the only thing he opposed was "ugliness".
About 12 million people live in the Ile de France region surrounding Paris, which accounts for about 30% of French gross domestic product. But poor transport and inequality between prosperous areas and isolated, under-resourced council estates have limited the region's potential.
Commuters complain of a decrepit transport system. Some isolated estates only 15km from Paris have such poor transport links that it can take almost two hours to reach the city centre.
il manifesto, 30 aprile 2009
Una metro di 130 chilometri, così Sarkozy sogna di abolire la banlieue
Anna Maria Merlo
Un treno chiamato «Sarkozy». È questo il progetto a cui il presidente francese vuole lasciare legato il proprio nome nella storia, un grande métro lungo 130 chilometri, che con due anelli collegherà tutti i poli di attività economica che circondano la capitale, con una linea che passa per il centro, in modo da far sì che «i tempi di percorso siano al massimo di 30 minuti, qualunque sia il luogo da cui si parte».
Come Georges Pompidou ha lasciato il Beaubourg, François Mitterrand la piramide del Louvre e Jacques Chirac il museo del Quai Branly, Sarkozy dovrebbe passare alla storia per una metropolitana automatica che funzionerà 24 ore su 24. Il presidente ha inaugurato ieri alla Cité de l'Architecture et du patrimoine la mostra sui progetti finalisti dei dieci studi di architettura di fama mondiale che hanno partecipato alla consultazione, voluta dal presidente nel 2007, sulla «Grande Parigi» del futuro. Non si sa ancora cosa verrà realizzato di questi progetti, pieni di idee (la sola idea citata ieri da Sarkozy è quella di Antoine Grumbach, che ha proposto una valle della Senna, che trasformerebbe la città di Le Havre nel porto di Parigi). Per il momento, Sarkozy ha parlato di «città ecologica del dopo-Kyoto», che «allea la natura senza combatterla», rispondendo alla New York verde di Obama.
Ha parlato della «più grande sfida del XXI secolo» e ha promesso un milione di alberi sui 2.500 ettari che portano all'aeroporto di Roissy. Per i trasporti, dovrebbero venir stanziati 35 miliardi di euro e i lavori dovrebbero iniziare nel 2012, anno elettorale delle prossime presidenziali. I lavori dovrebbero durare 12 anni. Per finanziare questo progetto faraonico, la Francia pensa di contrarre un prestito con le banche. «La Francia uscirà dalla crisi - ha detto Sarkozy - solo se ha grandi progetti». Sarkozy ha annunciato la costruzione di 70mila alloggi l'anno nell'agglomerazione parigina, cioè il doppio di oggi, anche grazie alla berlusconata di un alleggerimento delle regole urbanistiche.
L'idea di Sarkozy è, in un certo senso, di abolire la banlieue per risolvere i problemi che la riguardano. «Bisogna che i cittadini siano eguali in termini di accesso a Parigi, qualunque sia il luogo dove abitano nella metropoli», che dovrà diventare un insieme omogeneo di 11 milioni di abitanti. Era stato lo stesso Sarkozy nel 2007 a lanciare l'idea di una riflessione sulla metropoli del XXI secolo, poiché Parigi si sente allo stretto nello spazio comunale, concentrato su 105 chilometri quadrati, dove risiedono all'incirca 2 milioni di abitanti, al centro di un'agglomerato dove vivono più di 9,5 milioni di persone. Amministrativamente, è stata messa nel cassetto l'ipotesi di riforma della Grande Parigi. Ma, malgrado le rivalità politiche che hanno bloccato questa iniziativa, tutti sono d'accordo sul fatto che sono necessari degli interventi urbanistici. La constatazione comune dei dieci progetti architettonici realizzati da sei studi d'architettura francesi e quattro stranieri, è che si deve preservare la bellezza del centro, che costituisce il fascino di Parigi da secoli, ma va canalizzata al tempo stesso l'urbanizzazione divorante che allarga la banlieue e vanno miglioranti i trasporti, oggi organizzati in grande maggioranza a raggiera, confluenti verso il centro.
Inoltre, tutti i progetti hanno tenuto conto dei vincoli ambientali del Protocollo di Kyoto, per far sì che Parigi resti un centro mondiale anche nel XXI secolo. Per l'architetto Paul Chemetov, presidente del comitato scientifico per la Parigi del futuro, «mai una riflessione così complessa è stata condotta su una città su una scala analoga».
Nota: sulla medesima vicenda si veda anche la raccolta degli articoli internazionali proposta qui su eddyburg a suo tempo con link anche al sito dedicato del Ministero della Cultura (f.b.)
La prevalenza del maschio
di Natalia Aspesi
Dopo quasi trent’anni di matrimonio non è così facile lasciare un marito, sia pure recidivo nell’offendere platealmente e pubblicamente la dignità di una moglie. E non perché magari lo si è molto amato, o perché con lui si sono avuti tre figli, o perché è ricchissimo e ormai onnipotente. Ci avrà pensato molte volte Veronica Lario. La più invisibile e discreta delle first lady lo avrà pensato, come lo pensano centinaia di mogli ignote, deluse e offese. Che poi restano lì, nella casa non più amata, nel gelo del rancore irrimediabile, nel fastidio di una vicinanza insopportabile anche se saltuaria, perché c’è sempre una speranza che le cose cambino miracolosamente. E perché certi gesti da eroina paiono del tutto inutili e velleitari, sapendo che l’umiliazione e il dolore di un fallimento personale non saranno leniti da una porta sbattuta, anche se è la porta di una dimora sontuosa, dietro cui si potrebbero lasciare agi grandiosi, ma anche silenzio, riservatezza, una vita appartata e protetta.
Lo sdegno che l’altro ieri la signora Berlusconi ha espresso per quella specie di Bagaglino che si stava preparando per entrare nelle liste elettorali europee del pdl, arriva 27 mesi dopo la famosa lettera a Repubblica con cui la signora chiedeva pubbliche scuse del marito per le sue amenità erotiche ai Telegatti. Allora con qualche banale distinguo, la gente apprezzò il coraggio della signora, come capita quasi sempre quando si tratta di schierarsi anche solo astrattamente verso il più coraggioso e il più ferito.
Ma i tempi cambiano in fretta e oggi, imperando incontrastato il premier della libertà anche libertina, sono tutti con lui, i devoti del suo partito, che fanno scoppiare il sito del Pdl di attacchi a colei che ha osato dire la sua. Qualcuno la faccia tacere, ex attricetta, se voleva ricordarci che esiste l’ha fatto nel modo peggiore, ha perso una buona occasione per stare zitta, offendendo tuo marito offendi te stessa e tutti quelli che hanno fiducia in lui, certo che sputare nel piatto che ti ha permesso la bella vita…Magico e irrefrenabile pifferaio, qualunque cosa dica o faccia gli rende sempre più appassionato il suo popolo, che non ha ragione di porsi dei dubbi, e per esempio chiedersi in questo caso se possa giovare al paese e quindi anche a loro che la via per l’esercizio della politica anziché passare dalla cultura e dalla pratica nasca da portfolio in cui si mostrano enormi tette o dalle accoglienti ginocchia del Capo. O anche solo domandarsi: come reagirebbe la mia signora se assumessi come grandi manager solo signorine ventenni di gamba lunga, scosciate e scollate, scarti di concorsi di Miss Italia? Mi taglierebbe la gola o fuggirebbe con tutto il conto in banca?
Anche lo stesso premier, che ai tempi della lettera pubblica della moglie aveva reagito con garbo romantico, questa volta si è arrabbiato, forse perché per smentire la perfida sinistra, per vendicarsi della sua signora che ha osato credere alla realtà della stampa di opposizione e non alle sue finzioni, per far contenti i suoi cortigiani che hanno già promesso liste europee solo di premi Nobel per di più maschi oppure centenari, è stato costretto a limitare le sue vistose e disinibite aspiranti all’europarlamento e ai relativi emolumenti, intasandole di nuovo nelle sue tante televisioni già debordanti di beltà insaziabili. In più con l’onere di dover sopportare le signore dell’opposizione che come si sa, sono troppo spesso «maleodoranti e malvestite», roba che gli appanna il buonumore e il fuoco d’artificio inventivo.
Ma la signora Lario non è solo una moglie e madre che si indigna per le offese all’integrità della sua famiglia, quali l’infantile volo a Napoli per sentirsi dare del "papi" (confidenza che i suoi cinque figli non osano) da una graziosa diciottenne, su stampo identico a tutte le aspiranti tivù, non ancora in politica ma già "gossipista" su un televisioncina privata. Veronica è una donna intelligente, preparata, attenta: quel «ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere», che costituisce quello che lei definisce il divertimento dell’imperatore, è il risultato della «sfrontatezza e della mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne». La signora inquadra benissimo e con belle parole un momento drammatico: non si era mai visto un simile arretramento delle donne da una presunta parità, al ritorno dell’unica affermazione possibile della femminilità, quella delle favorite di corte. Questa situazione «va contro le donne in genere e soprattutto contro quelle che sono sempre state in prima linea e che ancora lo sono a tutela dei loro diritti», dice Veronica Lario.
Di nuovo, il valore delle donne si identifica nella grazia fisica e nella giovinezza, cioè in un breve periodo della vita, e ci si può quindi chiedere se la carriera politica delle signore Carfagna e delle altre terminerà con le loro prime rughe o i chili in più. Se da noi la televisione è un veicolo indispensabile a ogni tipo di carriera cominciando da quella politica, che negli altri paesi si prepara in scuole di massimo prestigio e difficoltà, ci si chiede come mai non sono stati cooptati per le prossime elezioni i pur amatissimi maschi dai toraci lucenti del Grande Fratello o della Fattoria o della pubblicità. È semplice (fino a quando non avremo un premier gay); perché la gestione politica del potere è tornata solidamente in mano agli uomini che come ci mostra ogni giorno il telegiornale sono spesso inguardabili per bruttezza, antipatia, ridicolaggine, volgarità, e non li vorrebbe proprio nessuno, tranne appunto la politica. Già le donne di età, esperienza, forza, pazienza, che, in numero esiguo, si erano guadagnate un posto nei parlamenti e nei governi passati, dovevano subire i lazzi per i loro tailleur sbagliati o la loro scarsa avvenenza. C’erano ma non le volevano, oggi non si vorrebbero neppure le giovani e belle, ma pazienza, se tiran su il morale del Capo non si può dire di no, purché da vere donne, non pretendano di capire, sorridano e dicano sempre di sì.
Se la regina grida "Il re è nudo"
di Curzio Maltese
Se a gridare "Il re è nudo!" stavolta è la regina, la notizia fa il giro del mondo. Del mondo più che dell’Italia, anche se il re, anzi l’imperatore, tocca a noi. Tutti i giornali e i siti del mondo titolano con caratteri di scatola le critiche di Veronica Lario al ciarpame politico di Berlusconi e aprono un dibattito sulla democrazia in Italia. Da noi il dibattito è già chiuso, nascosto dai telegiornali o recintato nell’angusta dimensione del conflitto coniugale, troncato e sopito dai cani da guardia del giornalismo, sommerso infine dal mare della banalizzazione. I regimi sono sempre banali.
Le parole di Veronica Lario hanno aperto una breccia nel muro dell’immagine costruita intorno al potere. Per l’ultima volta, proviamo a guardare dentro e a guardarci da fuori. Che paese stiamo diventando? Siamo un paese dove è considerato normale che il premier scelga veline, ballerine, presentatrici o comunque presunte sue conquiste per fare il ministro, il sottosegretario, il parlamentare italiano o europeo, un paese dove ragazze 18enni nemmeno parenti chiamano "papi" il presidente del Consiglio, dove padri di aspiranti candidate si danno fuoco davanti a Palazzo Grazioli. In qualsiasi democrazia (e perfino sotto molte dittature) questo modo di selezione della classe dirigente, solleverebbe ondate d’indignazione popolare e magari di semplice schifo. E qui è invece tutto un ammiccare complice, di uomini e donne. La sesta o settima potenza industriale sembra felice di essere rappresentata da un premier che, essendo il più anziano in carica ai vertici internazionali, in quindici anni non ha mai pronunciato un discorso politico decente e viene ricordato all’estero soltanto per gaffe, scherzi, corna, battutacce da vecchio macho, regali da sceicco, vanterie sessuali, e per aver detto kapò, Kakà, cucù. Un’ampia maggioranza di cittadini apprezza che il premier si cambi d’abito quando deve recarsi sul luogo del terremoto, come fossimo a teatro. Sorride alle sue battute da schiaffi, "prendetelo un po’ come un campeggio". Applaude allo spostamento del G-qualcosa dalla Maddalena all’Aquila, invece di nascondersi sotto il tavolo dalla vergogna a una trovata così platealmente demagogica. L’opinione pubblica, anche d’opposizione, si felicita con il premier che si è degnato finalmente di presenziare al 25 aprile, patrocinato ormai dagli ex fascisti, senza tuttavia resistere alla tentazione di cambiarne il nome e soprattutto di demolire nei fatti e ogni giorno il risultato, la Costituzione. Gli uomini sono per natura obbedienti, e alcuni popoli, come il nostro, più della media. Ma l’accettare come normale questo stato di servitù, in un’acquiescenza generale e finanche serena, non sembrava possibile. Berlusconi è stato abile, bravo, furbo, ad assuefare, per non dire a corrompere, un popolo intero o quasi. Ci siamo ridotti così un po’ alla volta, e ora tutto insieme.
Alla vigilia di un regime conclamato, qualcuno ci ricorda ancora che esiste la dignità. La sua, di donna, moglie, madre. La nostra di cittadini. Non si tratta dunque di un affare privato, ma di una questione politica. E’ importante ricordarlo, perché ci sono momenti in cui il fiume della cattiva politica tracima in dato antropologico permanente, e questo è il passaggio che stiamo vivendo. Alcuni il confine l’hanno già superato, basta leggere i commenti di certi giornali o il linciaggio via Internet della destra alla signora Lario. Altri si allenano a farlo e altri ancora, una minoranza, non lo faranno mai. Si ostineranno, magari senza successo, a voler abbattere il muro dell’Immagine, che da quindici anni nel nostro paese ha preso il posto di un altro Muro. Ma quella era la storia, queste sono storielle piuttosto miserabili. Se a gridare "il re è nudo!" è la regina, forse il regno non durerà a lungo
Il senso comune della nostra epoca ci dice che, rispetto alla vecchia distinzione tra doxa (opinione accidentale/empirica, Saggezza) e verità o, ancora più radicalmente, tra conoscenza positiva empirica e fede assoluta, si dovrebbe tracciare una linea tra ciò che si può pensare e si può fare oggi. Sul piano del senso comune, il punto più lontano a cui si può arrivare è un liberalismo conservatore illuminato: ovviamente non ci sono alternative praticabili al capitalismo; allo stesso tempo, lasciata a se stessa la dinamica capitalistica minaccia di minare le proprie fondamenta. (...) All’interno di questo orizzonte, la risposta non è né un liberalismo radicale alla Hayek, né un crudo conservatorismo, sempre meno aderente ai vecchi ideali dello Stato sociale, ma una miscela tra liberalismo economico e un minimo spirito «autoritario» di comunità (l’enfasi sulla stabilità sociale, i «valori» eccetera) che controbilanci gli eccessi del sistema - in altre parole ciò che hanno sviluppato i socialdemocratici della Terza Via, come Blair.
Questo è il limite del senso comune. Ciò che sta dietro di esso implica un Salto di Fede, una fede nelle Cause perse, Cause che, dall’interno dello spazio della saggezza scettica, non possono che apparire folli. E questo libro parla dall’interno di questo Salto di Fede. Ma perché? Il problema, ovviamente, è che in un tempo di crisi e rotture, la stessa saggezza empirica scettica, costretta nell’orizzonte della forma dominante del senso comune, non può fornire delle risposte, e dunque si deve rischiare un Salto di Fede. Questo passo è il passo da «io dico la verità» a «la verità stessa parla (in/attraverso di me)» (come nel «mathema» lacaniano del discorso dell’analista, in cui l’agente parla da una posizione di verità), sino al punto in cui posso dire, come Meister Eckhart, «è vero, e la verità stessa lo dice». Sul piano della conoscenza positiva, ovviamente, non è mai possibile raggiungere la verità o essere sicuri di averlo fatto - ci si può solo approssimare senza fine, poiché il linguaggio è in ultima istanza autoreferenziale, non c’è modo di tracciare una linea definitiva di separazione tra sofismi, esercizi sofistici, e la Verità stessa (questo è il problema di Platone). La scommessa di Lacan è, in questo senso, la stessa di Pascal: la scommessa della Verità. Ma in che modo? Non correndo appresso a una verità «oggettiva», ma basandosi sulla verità riguardo alla posizione da cui si parla.
Esistono solo due teorie che implicano e praticano una nozione così impegnata di libertà: il marxismo e la psicoanalisi. Sono entrambe teorie di lotta, non solo teorie sulla lotta, ma teorie esse stesse impegnate in una lotta: le loro storie non consistono in un’accumulazione di conoscenza neutra, sono al contrario segnate da scismi, eresie, espulsioni. (...) Normalmente ci si dimentica che i cinque grandi resoconti clinici di Freud sono al fondo resoconti di un successo parziale e di un fallimento finale; nello stesso modo, i più grandi racconti storici marxisti di eventi rivoluzionari sono racconti di grandi fallimenti (della guerra dei contadini in Germania, dei giacobini nella Rivoluzione francese, della Comune di Parigi, della Rivoluzione d’ottobre, della Rivoluzione culturale cinese). Una tale analisi dei fallimenti ci mette di fronte al problema della fedeltà: come riscattare il potenziale emancipatore di questi fallimenti evitando la doppia trappola dell’attaccamento nostalgico al passato e dell’adattamento un po’ troppo furbo alle «nuove circostanze»?
Il tempo di queste due teorie sembra concluso. Come ha affermato recentemente Todd Dufresne, nessun personaggio nella storia del pensiero umano ha commesso più errori rispetto a tutti i fondamentali della propria teoria di Freud - con l’eccezione di Marx, qualcuno potrebbe aggiungere. E infatti nella coscienza liberale le due teorie emergono come i maggiori «complici del crimine» del ventesimo secolo: com’era prevedibile, nel 2005, il famigerato Libro nero del comunismo, che elencava tutti i crimini comunisti, è stato seguito dal Libro nero della psicoanalisi, contenente l’elenco di tutti gli errori teorici e gli inganni clinici della psicoanalisi. Anche se in modo negativo, la profonda solidarietà tra marxismo e psicoanalisi è ora sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, ci sono dei segnali che disturbano questo autocompiacimento postmoderno. Commentando la crescente risonanza del pensiero di Badiou, Alain Finkelkraut lo ha recentemente definito «la filosofia più violenta, sintomatica di un ritorno di radicalità e della crisi dell’antitotalitarismo»: un’onesta e sorpresa ammissione di fallimento del lungo e arduo lavoro di tutti i difensori «antitotalitari» dei diritti umani, che hanno combattuto contro «i vecchi paradigmi estremisti», dai nouveaux philosophes francesi ai sostenitori di una «seconda modernità». Ciò che sarebbe dovuto essere morto, liquidato, del tutto screditato, sta ritornando per vendicarsi. Questa disperazione è comprensibile: com’è possibile che questo genere di filosofia stia ritornando nella sua forma più violenta? La gente non ha ancora capito che il tempo di queste pericolose utopie è finito? La nostra proposta è di rovesciare la prospettiva: come affermerebbe Badiou nella sua originale maniera platonica, le idee vere sono eterne, sono indistruttibili, fanno sempre ritorno ogni qual volta vengano proclamate morte. Questo è sufficiente a Badiou per affermare nuovamente queste idee in maniera chiara, e il pensiero antitotalitario si mostra in tutta la sua miseria per ciò che realmente è, un esercizio sofistico privo di valore, una pseudo-teorizzazione delle paure e degli istinti di sopravvivenza più meschini e opportunisti, un modo di pensare che non solo è reazionario ma anche profondamente reattivo nel senso nietzschiano del termine.
Un paio d’anni fa, la rivista Premiere riportava un’inchiesta intelligente sul modo in cui i finali famosi dei film di Hollywood erano stati tradotti in alcune delle maggiori lingue non inglesi. In Giappone, il «Francamente, mia cara, me ne infischio» di Clark Gable a Vivien Leigh da Via col vento era reso con: «Mia cara, temo che fra di noi ci sia un piccolo malinteso» - un omaggio alla proverbiale cortesia ed etichetta giapponese. Al contrario, il cinese (nella Repubblica popolare cinese) traduceva il «Questo è l’inizio di una bella amicizia!» di Casablanca con «Noi due costituiremo ora una nuova cellula di lotta antifascista!» - essendo la lotta antifascista la priorità maggiore, ben al di sopra delle relazioni personali. Per quanto possa sembrare che questo volume ceda spesso ad affermazioni eccessivamente polemiche e «provocatorie» (cosa potrebbe essere più «provocatorio» oggi di mostrare una sia pur minima simpatia o comprensione per il terrore rivoluzionario?), esso pratica piuttosto uno spostamento nel modo degli esempi citati in Premiere: laddove la verità è che me ne infischio del mio avversario, dico che c’è un piccolo malinteso; laddove la posta in gioco è un nuovo condiviso campo di battaglia politico-teorico, può sembrare che io stia parlando di amicizie e alleanze accademiche. In questi casi, spetta al lettore risolvere il rebus che giace di fronte a lui.
(c) 2008 Traduzione di Cinzia Azzurra Pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie
Non avevamo neanche fatto in tempo a tirare un sospiro di sollievo alla notizia che dal decreto sicurezza era stata eliminata la norma che obbliga i medici a denunciare i pazienti stranieri irregolari quando è arrivata puntualmente la doccia fredda: il governo - ha annunciato - ripristina nel disegno di legge sulle sicurezza sia le ronde che il prolungamento fino a sei mesi della detenzione dei «clandestini» nei Cie.
Si tratta di norme tanto disumane quanto inutili (oltre che dannose) che hanno determinato in passato un'alzata di scudi all'interno della stessa coalizione di centrodestra. Ma non erano certo le uniche di questo genere. Norme di pari crudeltà sono infatti presenti nello stesso ddl - che da domani sarà nell'aula di Montecitorio - e riguardano il divieto d'iscrizione all'anagrafe dei figli degli immigrati senza permesso di soggiorno e - la cosa è stata resa più evidente soltanto ieri - la stessa possibilità di iscriverli a scuola. Tutte norme sulle quali pende ora la minaccia di richiesta di fiducia da parte del ministro degli Interni Roberto Maroni nel caso non dovesse esserci pieno accordo nella maggioranza.
Da un po' di anni sulla questione dell'emigrazione la Lega ha deciso di fare la parte del carabiniere cattivo. All'apparente buonsenso e alle dichiarazioni tolleranti dei «carabinieri buoni» del Pdl- in primo luogo l'on. Fini - si contrappone sempre più sistematicamente la faccia feroce della Lega Nord che mostra di aver deciso di cavalcare - anzi di aizzare - le peggiori pulsioni xenofobe e razziste presenti nella società italiana.
La strategia della destra è quella del «cattivismo» per cui - a prescindere dalla stessa efficacia dei provvedimenti presentati - l'importante è dare il segno di una volontà punitiva e persecutoria nei confronti degli immigrati allo scopo di apparire come l'unico bastone di difesa contro l'invasione degli immigrati e la crescente minaccia alla sicurezza.
E per questo che se ne inventano una al giorno e si esercitano continuamente nel produrre norme inutili e irrazionali volte solo a rendere più difficile la vita degli immigrati. Basta leggere anche superficialmente il decreto sicurezza.
Si va da norme relative all'allungamento del periodo di detenzione all'interno dei Cie (centri di identificazione ed espulsione, definiti - non si capisce perché - dalla televisione centri d'accoglienza) all'ultima trovata che è quella dei «presidi spia» che sostituiscono, almeno per ora, i «medici spia». Quest'ultima norma è in contrasto con le direttive delle Nazioni unite sottoscritte dall'Italia in materia di diritto universale all'istruzione. Si chiede ai presidi di rifiutare l'iscrizione dei bambini figli di irregolari in tal caso mettendo questi funzionari pubblici in una condizione di estrema difficoltà paragonabile a quella dei medici.
Insomma la coalizione di maggioranza ha di nuovo ceduto ai ricatti della Lega. Ma questa stessa interpretazione a mio avviso è piuttosto riduttiva, è solo la superficialità «politica» delle cose. Il cedimento c'è stato, ci mancherebbe altro, ma si tratta di un cedimento praticato ben volentieri dalle altre forze del governo. Perché alle norme scandalose proposte dal decreto corrisponde già da ora, nella pratica quotidiana delle circolari e delle applicazioni delle norme di legge, una situazione di razzismo istituzionale che deve preoccupare tanto quanto le proposte «cattiviste» della Lega. Anzi, persino di più delle minacce fatte a ogni piè sospinto dal recidivo Maroni.
Sul 25 aprile di Berlusconi si è aperta un'altra divisione a sinistra. Emanuele Macaluso è un antico e caro compagno dal quale ho anche imparato, ma stavolta non sono proprio d'accordo con lui. Emanuele intervistato dal Messaggero, mi accusa di miopia politica per non aver accolto come un successo della sinistra il discorso di Berlusconi il 25 aprile a Onna.
A me sembra che Macaluso continui a ragionare come quando era nel grande Pci, dove poteva valere la regola «a caval donato non si guarda in bocca». Il Pci poteva farlo perché era forte e quindi anche quelle che potevano essere strumentalità dell'avversario diventavano sue conquiste. Con la sinistra tutta nelle attuali condizioni questo ragionamento non vale proprio. Sì, «a caval donato non si guarda in bocca», ma questo è un cavallo di Troia, con in bocca la dichiarata volontà di Berlusconi di diventare il capo di tutti, anche dei vecchi e bravi partigiani della Maiella (quelli che gli hanno donato il fazzoletto tricolore).
Anche l'editoriale dell'Unità di ieri titola: «Purtroppo è sempre lui» e dell'Unità non voglio citare la bella vignetta di Staino. E c'è ancora da ricordare l'editoriale di Adriano Prosperi sulla Repubblica di ieri che, sottolineando la gravità della cancellazione della parola Liberazione, si differenziava dall'editoriale domenicale di Eugenio Scalfari, di sostanziale, seppur sofferto, apprezzamento della mossa di Berlusconi. Ma vale sottolineare che anche Scalfari scrive che «l'ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di Festa della Libertà è certamente una proposta contro la memoria» e che indebolisce notevolmente le osservazioni (dello stesso Scalfari) precedentemente fatte. E, sempre Scalfari, fa notare che è anche «un passo indietro verso il populismo autoritario».
Il punto dal quale deve partire ogni ragionamento su che fare è che «Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano». La citazione è sempre di Scalfari, che in questo modo contraddice il suo giudizio positivo. Con il discorso di Onna, e le citazioni di Togliatti e Terracini tanto apprezzate da Macaluso, Berlusconi marca un decisivo e pericolosissimo passo in avanti sulla via del suo populismo autoritario, ulteriormente agevolato dalla divisione di quel che resta della sinistra, tra quelli che la pensano come il mio amico Emanuele Macaluso e gli altri.
Un altro passo avanti verso la Festa della Libertà del Partito del popolo della Libertà. Bravo Berlusconi!
La Resistenza non ha colore
Giorgio Bocca – la Repubblica, 22 aprile 2009Silvio Berlusconi, accogliendo l’invito del segretario pd Franceschini, parteciperà per la prima volta al 25 aprile. È una decisione che va giudicata positivamente perché in essa oltre che a un diritto si riconosce il dovere del presidente del Consiglio di celebrare assieme a tutti gli italiani la festa della Liberazione e i valori della Resistenza, dell’antifascismo e della Costituzione. Ma quando aggiunge che lo farà perché di questa festa non se ne appropri soltanto la sinistra il premier rivela di essere ancora lontano da una autentica maturità democratica e storica. Più fallace di lui si dimostra il ministro della Difesa Ignazio La Russa.
La Russa, uno dei neofascisti sdoganati da Berlusconi, dichiara che "i partigiani rossi meritano rispetto ma non possono essere celebrati come portatori di libertà", cioè fra i fondatori della democrazia italiana. È difficile capire su cosa si basi l’affermazione di La Russa dato che il Partito comunista italiano che organizzò e diresse i partigiani rossi, meglio noti come garibaldini, fece parte e parte decisiva dell’Assemblea costituente da cui è nata la Repubblica democratica. Che i comunisti italiani abbiano scelto la democrazia invece che la dittatura potrà sembrare ai loro avversari una scelta opportunistica, obbligata dai rapporti di forza in Europa e nel mondo ma si prenda atto anche da chi avrebbe preferito un esito diverso che essa ci fu e fu per i comunisti italiani vincolante. Gli storici non hanno ancora fornito la prova di chi fu la responsabilità di questa scelta: se fu decisa da Stalin o dalla Internazionale comunista di cui l’italiano Palmiro Togliatti era un autorevole dirigente, ma l’accettazione da parte comunista della divisione del mondo in due sfere di influenza fu un dato di fatto accettato sin dagli anni della guerra di Spagna, riconfermato nell’incontro fra i vincitori della guerra contro la Germania nazista e rispettato anche dopo l’invasione sovietica dell´Ungheria.
Fosse interprete del pensiero politico di Stalin o convinto della necessità di convivere con le grandi democrazie occidentali Togliatti, arrivato in Spagna durante la guerra civile, dettò i tredici punti di una costituzione che sarebbe entrata in vigore a guerra finita di chiara impostazione democratica: autonomie regionali, rispetto della proprietà e della iniziativa privata e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il nazismo, ingresso della Spagna nella Società delle nazioni. Naturalmente già allora gli avversari dei comunisti dissero che era una scelta tattica in attesa della rivoluzione, ma una scelta vincolante come si dimostrò in Grecia quando i partigiani rossi di Markos e il loro tentativo di impadronirsi del potere furono abbandonati alla più dura sconfitta. Che la scelta democratica fosse valida nella Repubblica fu chiaro quando tutte le fiammate rivoluzionarie della base comunista, dall’occupazione della prefettura di Milano a quella del monte Amiata dopo l’attentato a Togliatti, furono spente dalla polizia diretta da Scelba senza reazione del partito.
Possiamo dire che le affermazioni di La Russa sull’inaffidabilità democratica dei partigiani rossi sono un processo alle intenzioni smentito dal rispetto alla Costituzione dei comunisti italiani, che al contrario dei neofascisti alla Borghese o delle trame nere, non hanno mai progettato colpi di Stato e si sono schierati con decisione contro il terrorismo delle Br. Ma c’è un’altra ragione, anche essa storica, per dissentire dalla dichiarazione di La Russa ed è quella di considerare il movimento partigiano garibaldino come un tutt’uno con il partito comunista e il partito comunista come la stessa cosa di una dittatura stalinista. Procedere per generalizzazioni arbitrarie è un cattivo modo di fare la storia e anche la politica. Chi ha conosciuto il movimento partigiano nella sua improvvisazione e varietà estrema sa bene che diventare un partigiano rosso non era sempre una scelta politica, ideologica, che si andava nelle brigate Garibaldi per molte ragioni non politiche, perché erano fra le prime formatesi o le più vicine, le prime che si incontravano fuggendo dalle città occupate dai nazifascisti magari per raggiungere dei conoscenti, degli amici. Si pensi solo al comando garibaldino piemontese, che si forma in valle Po con gli ufficiali di cavalleria della scuola di Pinerolo che seguono Napoleone Colajanni, nome partigiano Barbato, perché loro amico non perché comunista, o gli altri che in Val Sesia vanno con Cino Moscatelli perché è uno della valle come loro non perché è comunista.
Così come noi delle bande di Giustizia e Libertà nel Cuneese che non avevamo mai sentito parlare del partito di azione e del suo riformismo liberal-socialista, ma che eravamo compagni di alpinismo di Duccio Galimberti o Detto Dalmastro. Nella guerra partigiana prima veniva la sopravvivenza, la ricerca delle armi e del cibo, poi sul finire arrivò anche la politica, ma le ragioni di lealtà e di amicizia restarono dominanti per cui egregio ministro La Russa mi creda ma per uno che è stato partigiano le differenze di cui parla non ci sono state. Per venti mesi, per tutti, la ragione di combattere era la libertà.
Io, la generazione dell’odio che ha dimenticato di vigliare sul fascismo
Michele Dalai – l’Unità, 26 aprile 2009
Mercoledì mattina mi sono svegliato e non ho trovato l’invasor. Niente di tutto ciò, nessun tedesco in divisa sul mio zerbino, solo un giornale, La Repubblica. In prima pagina una firma pesante, una di quelle che quando forano il muro dei dispacci dal fronte Nuova Resistenza e di quella che Aldo Nove chiama fantascienza grigia lo fanno per buoni, ottimi motivi. Giorgio Bocca e il 25 aprile si frequentano da più di cinquant’anni.
Mercoledì mattina mi sono svegliato e mi sono svegliato. Giorgio Bocca ha quasi 90 anni e dai tempi della Val Grana e del comando della Decima Divisione Giustizia e Libertà ne sono passati ben più di 60, ma la forza e la grazia con cui ha dosato le parole, ricostruito il contesto e rifiutato qualsiasi ri-lettura della Resistenza sono sempre le stesse, sono forse ancora migliori di quelle di altre celebrazioni, di anni più lontani in cui il valore dell’antifascismo non è mai stato discusso non è mai stato minato da distinguo e distinguisti dell’ultima ora. Io sono nato in quegli anni, la mia generazione è cresciuta in quegli anni. Abbiamo respirato l’aria viziatissima dell’odio e siamo diventati piccoli e inevitabili reduci. Poi, all’improvviso, qualcuno ha deciso che non avremmo dovuto ripetere gli errori dei padri e dei fratelli maggiori e invece di una chiara presa di coscienza degli orrori ideologici ci è stata propinata una folle anestesia dei valori. Basta con il conflitto sociale, basta con le ideologie, basta con questo gioco sanguinoso della guerra civile e degli opposti estremismi. Via col disimpegno.
Giorgio Bocca ha 90 anni e ha commesso tutti gli sbagli che una vita così lunga e piena di passione mette sulla strada di un uomo forte, ha combattuto e conosciuto bene il suo nemico. È stato il suo nemico. Giorgio Bocca è un antifascista perché ha visto e frequentato da molto vicino il fascismo. Io no, noi no. Lo abbiamo sempre considerato alla stregua di altri autoritarismi e per questo respinto senza troppa convinzione.
La mia generazione si è addormentata e ha preferito demandare il valore dell’antifascismo ai militanti, ai comunisti, allo strenuo lavoro di sensibilizzazione dell’A.N.P.I. e al supporto incondizionato dei centri sociali, confondendo uno dei cardini su cui la Repubblica è nata e si è consolidata con una specie di volontariato militante. Abbiamo pensato che almeno noi non dovessimo dedicarci più a vigilare sul funzionamento democratico della Repubblica e sul rischio di infiltrazioni fasciste e tentativi di ricostruzione del peggior male possibile.
Abbiamo sbagliato.
Essere democratici non basta, non è sufficiente in questo caso, abbiamo omesso uno dei doveri fondamentali, uno di quelli che garantiscono i diritti. Perché vedere uno come Borghezio che ha rivestito ruoli di responsabilità istituzionale mentre partecipava ad adunate fasciste, in cui chiedeva a gran voce di infiltrare le amministrazioni locali e faceva clamorosa ed evidente apologia del fascismo significa che noi, che io, ho dormito. Che abbiamo dormito in tanti, dando per scontato che il Male sia obiettivamente un male e che tutti dispongano di un apparato critico in grado di decodificarlo. Abbiamo permesso che il Sindaco della più importante città del Nord la consegnasse a una impensabile manifestazione xenofoba e filonazista con la grande giustificazione della libertà di espressione. Abbiamo sperato che tanto i cittadini avrebbero capito anche da soli che quelle bandiere nere, i saluti romani e le celtiche fossero lugubri e sbagliate.
Bisogna ricominciare a raccontarsi che erano tutti ragazzi ma non erano tutti bravi ragazzi e che non lottavano tutti per degli ideali, perché la violenza, il razzismo, la sopraffazione e la guerra nazista non sono e non possono diventare ideali. Perché la patria è bella in quanto somma di persone e di comunità e non solo in quanto luogo fisico non ancora completamente cementificato. Abbiamo dormito ma è tempo che tutti raccolgano quel testimone e non lascino che l’antifascismo diventi un tema di militanza ma torni a essere un valore indiscutibile, non scomponibile e adattabile alle bestialità pre e post elettorali. Abbiamo dormito, ma svegliarsi senza che l’invasor abbia (ancora), vinto è un sollievo. Ora è tempo di raccogliere i testimone, di ringraziare quel meraviglioso e collerico giornalista e garantirgli che quella fermezza, quella lucidità saremo in grado di farle nostre e di trasformarle in una certezza granitica. Una di quelle su cui non si fanno concessioni, tantomeno il 25 aprile.
Gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l’Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Persone? Per definirle tali dovremmo "percepirle". Invece non esistono. Sono "clandestini" quando si mettono in viaggio e quando riescono ad entrare nei paesi di destinazione. Ma anche quando vengono ammassati nei Cpa. Migranti perenni. Non riescono a trovare una nuova sistemazione – stabile e riconosciuta – ma non possono neppure tornare indietro.
Come i 140 stranieri raccolti e trasportati dal cargo Pinar. Rimpallati fra l’Italia – che alla fine li ha accettati – e Malta. Indisponibile. Perché la fuga dall’Africa e dall’Asia, come l’esodo dai paesi dell’est europeo, spaventa tutti i paesi ricchi. Non solo noi. La vecchia Europa vorrebbe diventare fortezza. Trasformare il Mediterraneo in un canale inaccessibile. A cui mancano i coccodrilli, ma non gli squali. Eppure, nonostante la politica della fermezza, la tolleranza-meno-uno, i Cpa e migliaia di espulsioni. Nonostante tutto: i flussi non si fermano.
Gli sbarchi proseguono senza sosta. Da gennaio ad oggi: oltre seimila. Il doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Che già aveva segnato il livello più alto della nostra storia di immigrazione. Breve e travolgente. Nel 2008 erano sbarcati sulle nostre coste 37mila stranieri. Quasi il doppio del 2007. Difficile non nutrire dubbi sulla produttività delle nostre politiche e della nostra politica. Anche se l’attuale maggioranza di governo ha vinto le elezioni promettendo di fermare gli stranieri. Di bloccare l’invasione. Con le buone ma soprattutto con le cattive.
Propositi chiari ma, fin qui, inattuati. Semplicemente perché inattuabili.
Quando a migliaia intraprendono il viaggio sulle carrette del mare, stipati come animali. Come i disperati del Pinar. Dietro alle spalle le storie terribili raccontate da Francesco Viviano, su queste pagine, nei giorni scorsi. In fuga da persecuzioni, conflitti etnici. Dalla fame. Disposti a tutto. A ogni costo. Come la ragazza annegata con il suo bimbo in grembo, nelle acque davanti a Malta.
Questa emigrazione è una tragedia senza fine. Che, tuttavia, non ci commuove. Anzi, suscita perlopiù distacco e ripulsa. Difficile non cogliere la differenza con l’onda emotiva e la solidarietà sollevate dalla catastrofe in Abruzzo. Ma noi riusciamo a provare pietà e solidarietà solo quando le tragedie accadono sotto i nostri occhi. Quando i media le illuminano, minuto per minuto, luogo per luogo, in modo quasi compiaciuto. Quando la politica le accompagna e le segue da vicino. Perché si tratta della "nostra" gente. Allora ci emozioniamo. Gli "altri", invece, non hanno volto. Le loro tragedie non hanno quasi mai le aperture dei tigì. Gli sbarchi vengono raccontati come una calamità. Per noi. E a nessuno, comunque, verrebbe in mente di organizzare un G8 a Lampedusa. Non solo per ragioni logistiche.
Naturalmente, si tratta di considerazioni che possono apparire "buoniste", fradice di retorica. E con la retorica non si risolvono i problemi. Non si proteggono le città insicure. I cittadini minacciati dalla nuova criminalità etnica, dai clandestini che affollano le periferie. D’altronde, in pochi anni siamo diventati un paese di grande immigrazione. Quasi come la Francia e la Germania. Fino a ieri eravamo noi, italiani, a disperderci nel mondo, a milioni, per fuggire la miseria. Ora invece ci sembra che il mondo si stia rovesciando su di noi. E questo mondo è troppo grande per stare dentro a casa nostra, dentro alla nostra testa. Noi non siamo in grado di controllarlo né di comprenderlo. Non ci riusciamo noi. Ma non ci riescono, soprattutto, i poteri economici e finanziari, le istituzioni di governo. In balia dei collassi delle banche e delle borse, delle guerre, del terrorismo, delle epidemie.
La politica.
Non riesce a difenderci ma neppure a spiegarci ciò che avviene. E rinuncia a contrastare le nostre paure. Anzi, complici i media, le enfatizza. Inventa muri e confini che non esistono. Promette di chiudere i nostri mari, di sbarrare le frontiere. Promette di difenderci, a casa nostra, dagli stranieri che si insinuano nei nostri quartieri. Ricorrendo a iniziative a bassa efficacia pratica e a elevato impatto simbolico. Come le ronde. I volontari della sicurezza locale. Dovrebbero esercitare il controllo sul territorio un tempo affidato alle reti di vicinato, alla vita di quartiere, alla presenza quotidiana delle persone. Rimpiazzando una società locale che non c’è più.
La politica.
Promette di difendere la nostra identità, la nostra religione, la nostra cultura, la nostra cucina. E per questo combatte contro la costruzione di moschee. Oppure lancia battaglie gastroculturali. Contro i cibi consumati per strada. Anzitutto e soprattutto: contro il kebab. Insieme alle moschee: icona dell’islamizzazione presunta del nostro paesaggio e della nostra vita quotidiana.
La politica e le politiche usate come placebo. Per rassicurare senza garantire sicurezza. Per guadagnare voti e consenso. La Lega, secondo i sondaggi, sembra essere riuscita a superare i confini del Nord padano e ad espandersi nelle regioni dell’Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Ma la retorica della "protezione dal mondo", la costruzione della paura: non riguardano solo la Lega. E neppure la destra. Perché gli stranieri possono "servire", politicamente e culturalmente, ma tanto in quanto le distanze fra noi e loro sono visibili e marcate. Tanto in quanto restano stranieri.
Oggi, domani. Sempre. Lontani e diversi. In questo modo ci permettono di ritrovare noi stessi. Di ricostruire – artificialmente, per opposizione e paura – la nostra identità e la nostra comunità perduta. A condizione di fingere: che le nostre frontiere immaginarie, i nostri muri emotivi possano arrestare l’onda degli stranieri. A condizione di non vedere. Diventare ciechi e cinici. Perdere gli occhi e il cuore.
Non c'è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po' di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato "terra di nessuno". Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra Resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l'attuale ministro della difesa. O per denunciarne - dopo averlo disertato per anni - "l'usurpazione" da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come fa l'attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora - in apparenza l'atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso - per riproporre l'eterna retorica della "memoria condivisa": quella che in nome di un'Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell'anima, all'interiore sentire, vorrebbe cancellare - anzi "rimuovere", come accade nelle peggiori patologie psichiche - il fatto, "scandaloso", che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei duri decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.
Un'Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell'esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il "premier" parla come di luoghi di vacanza): un'Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici a ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a "non mollare" anche quando il "popolo" stava dalla parte del despota, di "disfattisti" contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell'Impero. L'Italia, insomma, dei "pochi pazzi" che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono fedeltà al regime, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei "troppi savi". E dall'altra parte l'Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L'Italia "vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti", come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.
Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all'altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori.
Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un'Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l'osteggiò. Una che si sforzò di continuare l'opera di bonifica contro quell'espressione "dell'autobiografia della nazione" che è stato il fascismo, e un'altra che, sotto traccia, in quell'autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un'Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un'altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non persino a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella "seconda Italia" (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell'anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L'autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l'ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro "noi". Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all'insegna di quella domanda di "ricomposizione" delle fratture, che nel fingere di "celebrare" le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.
Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d'imporre, con la logica dell'emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell'informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l'opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l'appello alla "memoria condivisa", in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero "male oscuro" delle peggiori vicende nazionali?
Per questo - per tutto questo - per la prima volta, nei 64 anni che ci separano dall'evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c'è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale... Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo mai. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l'aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.
L’energia costituente
Carlo Galli – la Repubblica
Che il Capo dello Stato, a ridosso del 25 aprile, sia intervenuto con solennità a proposito dei fondamentali assetti istituzionali del Paese istituisce un chiaro riferimento fra la Resistenza e la Costituzione.
Ma anche fra il perdurante significato del massimo documento della nostra vita civile e la sua origine storica e politica. È come se Napolitano avesse ricordato che l’unità politica di uno Stato si fonda su una dualità conflittuale dalla quale è sprigionata l’energia costituente; e che se è certamente vero che il conflitto originario deve essere neutralizzato e portato a unità, e dare vita a un ordinamento che ottiene il consenso di tutti, è anche vero che quel conflitto, pur cessando di esistere come lacerazione e separazione, resta in qualche modo interno all’unità politica raggiunta, e, permanendovi, la orienta a favore di certe opzioni, mentre ne esclude altre. Che insomma all’origine del testo costituzionale c’è una decisione, che il consenso e il dialogo rimediano uno strappo, che l’ordine politico è nato da un disordine fecondo ma anche sanguinoso. Il che, del resto, colloca l’Italia, almeno da questo punto di vista, fra le grandi democrazie occidentali, che simile destino hanno conosciuto.
La nostra Costituzione è in virtù della sua origine, appunto questa unità politica orientata: e il fatto che (solo oggi) sia (almeno a parole) universalmente riconosciuta come un patrimonio di tutti non può significare né che è divenuta un oggetto inerte e senza vita, né che è un contenitore disponibile a tutto. Deve invece significare che – benché nessun partito, fra quelli che le diedero vita, sia rimasto vivo e vitale sulla scena politica – essa è ancora rigida, quanto ai principi e agli obiettivi. Che la complessità e la poliedricità della Resistenza – le sue molte anime – hanno preso una forma impegnativa (appunto, la Costituzione), e che questa conserva in sé un progetto ancora da realizzare, un passato che è presente, un’origine che è attuale.
Da ciò, alcune conseguenze: la prima è che coloro i quali (molto in ritardo) mostrano di comprendere che il 25 aprile non è una festa di parte, una ricordo dell’odio, ma il patrimonio civile di tutto un popolo libero, non la possono oggi banalizzare come un’innocua ricorrenza patronale, o come folklore, o come un generico momento di antitotalitarismo. La Costituzione è prima di tutto antifascista, perché quello è stato il totalitarismo che la Resistenza ha effettivamente combattuto. E l’omaggio alla Resistenza implica una coerenza nella prassi politica, e nel rispetto della Costituzione: il 25 aprile ha generato scelte politiche e costituzionali forti – allora come ora –, e ha disegnato in modo impegnativo una qualità specifica della democrazia, autentica e non virtuale, inclusiva e non populista, pluralistica e non conformistica, laica e non clericale, liberale e non autoritaria: una democrazia umanistica e pluralistica, non etnica né plutocratica. E ciò vale sia per le istituzioni sia per la costituzione materiale della società, con tutto quello che ciò significa in merito ai poteri opachi che condizionano la nostra democrazia, e alle disuguaglianze che la limitano pesantemente. E dovrebbe valere anche a far ricordare a tutti che l’esercizio diretto della sovranità popolare (il referendum) non può essere considerato – nella democrazia repubblicana – un incidente di percorso nelle strategie delle forze politiche, un fastidio da rimuovere con una ‘leggina’.
Infine, quell’esigenza di coerenza vuole che un eventuale momento costituente debba esprimere l’energia capace di ridisegnare il quadro istituzionale in senso federale e autonomistico – per consentire alla politica reale, quella che sta dentro la società, uno spazio superiore a quello che ora trova nelle istituzioni –, ma debba anche conservare la qualità specifica della democrazia prevista dalla Resistenza e dalla carta costituzionale del 1948: una democrazia segnata da un equilibrio reale dei poteri, e non da una ipertrofia dell’esecutivo, che garantisca lo sviluppo libero e equilibrato della società e della vita politica, e che lo incardini sulla legge e sul bene comune, non sul potere personale di qualcuno. L’omaggio formale ai principi della prima parte, insomma, non deve valere come il lasciapassare perché la costituzione democratica venga trasformata, e sfigurata, in una costituzione postdemocratica.
Quirinale contro
Valentino Parlato – il manifesto
Questo giornale che si ostina, caparbiamente, a definirsi "comunista", nei suoi trentotto anni di storia (il compleanno è il 28 aprile) è stato prodigo di critiche e avaro di apprezzamenti anche nei confronti delle alte cariche dello Stato. Ma questa volta il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ci impone di fare un'eccezione e di esprimere il massimo apprezzamento per il suo discorso del 22 aprile alla "Biennale della Democrazia" a Torino e per le sue parole di ieri all'Ossario di Forno di Coazze dove sono sepolti 100 dei 300 partigiani caduti della Val Sangone. Parole ferme e pesanti nell'attuale clima di subordinazione delle regole della democrazia alle necessità, vere o supposte, della governabilità. "La Costituzione repubblicana non è una specie di residuato bellico" ha detto per poi subito aggiungere "come da qualche parte si vorrebbe talvolta fare intendere...". E questa parte, aggiungiamo noi, è ormai una componente forte della cultura nazionale ed è al governo.
Ma questa Costituzione repubblicana pone limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell'investitura popolare, diretta o indiretta di chi governa. C'è anche, ci dice il Presidente della Repubblica, un populismo al quale la Costituzione deve fare argine, ed è significativo che il soggetto, al quale quelle parole erano indirizzate, abbia scelto di fare finta di non sentire, e alla fine abbia accettato di partecipare a una celebrazione del 25 aprile. Ed è al 25 aprile, alla Resistenza, alla lotta e al sacrificio dei partigiani che ieri Giorgio Napolitano ha voluto richiamare l'attenzione. Quella Costituzione che va difesa e valorizzata contro la continua pressione a eroderla e svuotarla, ha il suo fondamento nella lotta di liberazione contro il fascismo e il nazismo. La Costituzione non è il parto indolore del pensiero di alcuni saggi riuniti a congresso, ma nasce dalla sanguinosa lotta di liberazione condotta da una parte degli italiani in concorso con le forze militari Usa, inglesi e francesi. Questi argomenti, queste parole del Presidente Napolitano, noi cittadini e soprattutto noi giornalisti dobbiamo tenerle a mente e ripeterle tenacemente. Con i tempi che corrono c'è anche il pericolo che quella del Presidente divenga una vox clamans in deserto.
Il deserto ci circonda.
In questi giorni le uniche parole di seria opposizione vengono dal Quirinale.
Lo scopo dichiarato è quello di contrastare "l’egoismo territoriale" che rallenta "il cantiere Italia". Ma l’effetto della legge anti Nimby (not in my back yard, non nel mio giardino), in caso di approvazione, sarà di azzerare, attraverso la minaccia di risarcimenti milionari, i ricorsi alla giustizia amministrativa da parte di associazioni ambientaliste storiche, che difendono ciò che resta del Belpaese da abusi edilizi e colate di cemento.
La proposta di legge 2271 è sottoscritta da 136 deputati del Pdl ed il primo firmatario è l’onorevole Michele Scandroglio, genovese, fedelissimo del ministro Claudio Scajola. Aderiscono, tra i tanti, l’ex ministro Pietro Lunardi, il presidente della commissione Cultura Valentina Aprea, il vice di quella Ambiente Roberto Tortoli, l’ex presidente della Regione Liguria Sandro Biasotti.
Presentata in sordina nei giorni del "piano casa", con due brevi aggiunte all’articolo 18 della legge 8 luglio 1986 (responsabilità processuale delle associazioni di natura ambientale), potrebbe schiacciare all’angolo celebri sigle come Italia Nostra, Legambiente, Wwf, Vas Verdi Ambiente e Società, senza parlare della miriade di comitali locali.
Con la modifica 5-ter qualora il ricorso alla giustizia amministrativa "sia respinto perché manifestamente infondato, il giudice condanna le associazioni soccombenti al risarcimento del danno oltre che alle spese del giudizio". Pensiamo a cosa vorrebbe dire un anno di fermo cantiere per il ponte sullo stretto di Messina tra una prima sentenza favorevole del Tar e una bocciatura del Consiglio di Stato: un risarcimento per milioni di euro.
"È una legge liberticida, intimidatoria, di regime - attacca l’avvocato Daniele Granara, docente alla facoltà di giurisprudenza di Genova, legale in molti ricorsi ambientali - . Confido che venga ritenuta palesemente anticostituzionale visto che l’articolo 24 stabilisce che "Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi"".
Ma per il deputato e coordinatore ligure del Pdl Scandroglio le istanze ambientaliste hanno moltiplicato "comportamenti di protesta contro le scelte infrastrutturali sviluppate da soggetti pubblici e privati... proteste che, conosciute con l’acronimo "Nimby", determinano un ritardo costante del "cantiere Italia"... di gran parte degli interventi pubblici... e della stessa edilizia residenziale". Tutto ciò, prosegue il deputato "senza che sia previsto alcuno strumento di responsabilizzazione delle associazioni di protezione ambientale, le quali, talvolta, presentano ricorsi pretestuosi, con il solo e unico scopo di impedire la realizzazione dell’opera pubblica". Scandroglio aggiunge che, per combattere questa "forma di egoismo territoriale", il governo ha già varato norme per "l’iter accelerato delle opere pubbliche".
Le modifiche richieste (la proposta è al vaglio della commissione giustizia) accennano anche all’applicazione di azioni risarcitorie ai sensi del codice civile in caso i ricorsi respinti abbiano agito "con mala fede o colpa grave", ma secondo l’avvocato Granara questa possibilità è già garantita e prevista. La vera svolta è quindi l’eventualità di un risarcimento in caso di ricorso respinto.
"È chiaro - spiega il presidente di Italia Nostra Giovanni Losavio - che lo scopo specifico della proposta di legge è quello di mettere catene (concrete e psicologiche) alle Associazioni, impedendo di fatto lo svolgimento del proprio ruolo civico con la minaccia di ritorsioni per avere la via spianata a fare del territorio quello che "loro" vogliono".
Avanti tutta con calce e mattoni. In tempo record - poco più di un mese dal summit Galan-Berlusconi - ieri il piano casa ha ottenuto il via libera dalla commissione Urbanistica e ora si appresta a sbarcare in Consiglio regionale per ottenere il sigillo definitivo. Motivo per il quale è stata richiesta addirittura una nuova doppia seduta, verosimilmente la settimana prossima. Segno evidente che, quando a premere sull’acceleratore sono le persone giuste, il Consiglio rispolvera punte di efficienza significative quanto inconsuete.
Fermo restando l’impegno dell’assessore Renzo Marangon di illustrare ai consiglieri i contenuti della nuova manovra emendativa che verrà proposta direttamente in aula per recepire eventuali richieste ed osservazioni di maggioranza e opposizione lasciate a mezz’aria a causa della velocità imposta alla manovra, il provvedimento licenziato dalla Giunta è uscito dalla Commissione con novità significative, a partire dall’ulteriore aumento di cubatura - che passa dall’iniziale 35 al 40% - per gli interventi che utilizzano tecniche di bioedilizia e impianti ad energia rinnovabile.
Inoltre, rispetto al provvedimento inizialmente presentato dalla Giunta, il testo licenziato ieri con i soli voti della maggioranza consente ampliamenti non solo nelle singole unità immobiliari dei condomini, ma anche nelle villette a schiera, purché l’intervento sia realizzato in modo uniforme su tutte le abitazioni del blocco. Il provvedimento agevola inoltre le operazioni di adeguamento e riqualificazione urbanistica contenendo al minimo gli oneri di costruzione (rapportati al 60% della parte eseguita se prima casa o all’80% in tutti gli altri casi), azzerandoli nel caso di interventi edilizi che prevedano l’installazione di pannelli solari e impianti a energia rinnovabile. E ancora, prevista l’estensione dell’aumento di cubatura e superficie, di demolizione e ricostruzione, a chi è in possesso di progetti di ristrutturazione autorizzati al 31 marzo 2009. Sotto il profilo dell’amministrazione pubblica, il testo licenziato prevede procedure autorizzative semplificate da parte dei Comuni, che tuttavia avranno un tempo molto limitato per vincolare immobili o aree del territorio escludendo le possibilità di ampliamento: si tratta di appena 60 giorni a decorrere dall’entrata in vigore della legge. In ogni caso - esplicita il testo di legge - il piano veneto non modifica le normative nazionali di tutela su distanze, vincoli e rispetto delle aree di particolare pregio ambientale e paesaggistico; anzi, qualunque intervento su immobili tutelati dovrà essere autorizzato dalle autorità competenti.
Tra le richieste del centrosinistra, l’introduzione del divieto di edificare o ampliare edifici già esistenti in prossimità delle coste marine e lacustri oltre che lungo i corsi d’acqua avanzata da Giampietro Marchese che ha proposto il vincolo di distanza minima dalla battigia di 300 metri per non peggiorare la qualità dell’offerta turistica e prevenire il rischio esondazioni. Marchese ha inoltre contestato il meccanismo del silenzio-assenso da parte delle amministrazioni comunali, considerandolo una semplificazione troppo pericolosa per la salvaguardia del territorio veneto. Simili preoccupazioni sono state espresse anche da Franco Frigo (Pd), che ha chiesto che ampliamenti e ricostruzioni prevedano il rispetto della normativa antisismica e che vengano esclusi gli immobili non residenziali dalla possibilità di abbattimento e ricostruzione integrale, in sede propria e non, con consistenti incentivi di cubatura. Richiesta quest’ultima, immediatamente respinta. Così, mentre Michieletto critica la consistenza della legge, rimpiazzata dalla velocità, il centrodestra si tributa applausi e commenti lusinghieri, scomodando persino l’irraggiungibile coordinatore del Pdl Alberto Giorgetti che da Roma sollecita una tempestiva approvazione in Consiglio.
Se un muratore cade da un'impalcatura e si frattura le gambe - o se un operaio muore bruciato in acciaieria - è per colpa sua: si è distratto, non ha rispettato le norme di sicurezza. Quante volte ci hanno raccontato questa favoletta, i padroni. Ogni volta che c'è un infortunio sul lavoro, ogni volta che un lavoratore perde la vita, loro hanno le mani pulite come i democristiani raccontati da Francesco Rosi in «Mani sulla città». Se non è colpa del destino cinico e baro, è colpa sua. Ma nel paese europeo in cui si uccide di più chi crea la ricchezza per la collettività, finalmente erano arrivate norme serie per individuare tutti i livelli di responsabilità nel ciclo lavorativo. Norme che affermavano il principio per cui la responsabilità prima risiede in chi sta sullo scalino più alto della catena di comando, che è poi chi ha il potere di spesa e di decisione per rendere sicuri gli impianti e i processi lavorativi. La prassi giudiziaria, corroborata dalla Cassazione, confermava questa tesi.
I tempi, però, sono cambiati. Si sono spenti i riflettori sulla ThyssenKrupp, sul lavoro si continua a morire come e più di prima ma le vittime sono tornate invisibili. Se non ne muoiono sette alla volta, o almeno tre nello stesso posto, non c'è notizia. Poi al governo è tornato Berlusconi, il presidente imprenditore che non può restare insensibile al grido di dolore dei suoi colleghi, quando denunciano gli alti costi del nuovo Testo unico sulla sicurezza che ha visto la luce durante il governo Prodi sull'onda dell'emozione creata dalla stage di Torino. Così, ecco pronto il nuovo Testo, una controriforma che ci ributta indietro di anni, a tanti morti fa quando la colpa era sempre dell'operaio, mai del padrone e dei suoi manager. In una sorta di vendetta berluscon-marcegagliana, le multe per il mancato rispetto delle norme da parte dell'impresa diminuiscono e di carcere, di fatto non si parla più. Licenza di uccidere, e non siamo in un film ma in fabbrica e nei cantieri.
Non basta, bisogna introdurre la norma per liberare i top manager dalle loro responsabilità. Detto fatto, se ci sono sottoposti coinvolti nella stessa inchiesta, la responsabilità ricadrà su di loro, loro andranno sotto processo, ammesso che non ci sia qualcuno ancora più in basso su cui scaricare il fastidio, fino ad arrivare alla base della piramide: l'operaio, sempre che non sia bruciato in acciaieria. Peggio del lodo Alfano, che dichiara non processabili i vertici dello stato ma solo per la durata del mandato.
Non basta ancora. Bisogna far saltare i processi in corso in cui sono imputati gli alti vertici industriali. Detto fatto, il Testo unico che una volta varato dal governo entrerebbe immediatamente in vigore, avrebbe effetto retroattivo. L'effetto ammazza-processi, quello ThyssenKrupp in primis, annullando il lavoro certosino del giudice Raffaele Guariniello, colpevole di aver risalito l'intera catena di comando, individuando i livelli crescenti di responsabilità.
Il lodo ThyssenKrupp si può e si deve fermare, anche se il tempo stringe. Altrimenti, al prossimo funerale operaio i sopravvissuti potrebbero non limitarsi a buttare giù per le scale della chiesa solo le corone di fiori dei loro padroni.
Satira
di Umberto Eco
Da un po’ di tempo tutto quello che accade in Italia, e che crea subbuglio e inquietudine, è dovuto ai comici, alle molte vignette. Vi ricordate il tempo in cui i mali d’Italia erano denunciati dall’Espresso (capitale corrotta, nazione infetta), dall’opposizione , dalla magistratura? Finito. Che cosa accada in parlamento non interessa più nessuno (Berlusconi dice che non vale la pena di andarci per ripetere cose che sanno tutti). È sano un paese dove solo i comici danno il via alle polemiche, al dibattito, senza ovviamente poter suggerire le soluzioni?
Ma, a ripensarci bene, questo non è dovuto al fatto che i comici stanno andando al parlamento, bensì al fatto che il governo è caduto in mano ai comici, o che molti che in altri tempi sarebbero stati figure da avanspettacolo sono andati al governo.
Chi decide se i comici passano il limite?
di Filippo Ceccarelli
Dopo il caso delle vignette di Vauro si riapre la discussione sui confini di questa arte antica e sul suo rapporto contrastato con il potere politico. «Satira è un piangere antico» proclamava Gaio Fratini, sommo epigrammista. Satira, insisteva, è credere all’arte «come esplosione, rovesciamento, irrisione. Satira è saper correre i cento metri sotto i nove secondi».
Ecco: nel tempo delle vignette proibite, forse è bene che tocchi proprio a un artista della parola, a un poeta, ricordare che questo scatto fulmineo, questa emozione dolorosa e questo potere dissacrante hanno tuttavia un prezzo: la censura, appunto, che della satira certifica il valore al di là di qualunque conseguenza.
E quindi al di là di pressioni, divieti, denunce, oscuramenti, addomesticamenti, soppressioni, emarginazioni, condanne, multe, anche galera, a volte. Tanto più netta e variegata la censura, quanto più ambigua la nozione di satira. E tuttavia, è la minacciata punizione che forgia la creazione satirica e ne alza il livello, e gli dà spessore.
«Alla Rai non esistono organi né attività di carattere censorio»: così, nel 1974, l’allora direttore generale Ettore Bernabei rispose a una pubblica lettera di Alberto Moravia. Non era tanto vero, essendo i dispositivi dissuasivi ieri e oggi in uso a viale Mazzini un po’ più complessi. Eppure colpisce, a distanza di oltre trent’anni, la serena risolutezza disciplinare con cui l’altro giorno l’odierno direttore generale Masi, nel suo primo atto pubblico, ha comunicato a Vauro la sospensione da Annozero.
Di solito i censori non sanno di esserlo, oppure riconoscono il loro ruolo dopo molto tempo; in genere quando è troppo tardi – ammesso che il potere stia lì a controllare l’orologio. Nel 1962 Bernabei bloccò uno sketch di Dario Fo e Franca Rame che a Canzonissima avevano messo in scena – c’era un padrone molto ricco e volgare e la sua vistosa amante impellicciata – la questione degli omicidi sul lavoro. C’erano appena stati dei violenti scontri a Roma tra polizia e lavoratori edili: «Non so se debba chiamarsi censura, del resto io non ho paura delle parole – ha poi ricordato Bernabei – Sì, censurai Dario Fo, non volevo fargli usare la tv per mettere le parti sociali una contro l’altra. Non me ne sono pentito per niente e se tornassi indietro lo censurerei un’altra volta».
Nel caso di Dario Fo, che negli anni a venire ebbe grane anche più serie – intimidazioni fasciste, questori che vietavano gli spettacoli con tanto di poliziotti in sala – molto porta a ritenere che esista una qualche correlazione tra i diversi sbarramenti della censura e successivo trionfo del premio Nobel.
Lo stesso Roberto Benigni, che pure a fatica si può designare autore satirico, ebbe i suoi guai e le sue purghe Rai. Quando all’Altra domenica, per dire, cantò l’Inno del corpo sciolto; e poi nel 1980, a Sanremo, per quel "Wojtylaccio" che gli costò addirittura un’incriminazione, oltre che la messa al bando dal video. E anche per Benigni è possibile che biasimo e controlli abbiano a loro modo affinato l’arte e quindi favorito il successo.
Ora, non si vuole dire che in futuro Vauro sarà studiato nelle scuole e nelle università. Non è obbligatorio farsi piacere la satira. Occorre piuttosto togliersi di mente l’equivoco che debba necessariamente far ridere, perché a volte deve far piangere, e comunque la satira più riuscita, la più tagliente e mordace e corrosiva, è quella che fa scoppiare di rabbia. E se è certo che prima o poi tutti i grandi e veri artisti, da Totò a Sordi passando per Eduardo, sono dovuti passare sotto il giogo della censura, altrettanto sicuro è che da questa prova sono usciti migliori perché le difficoltà frapposte dai censori – ottusi bacchettoni o autentici difensori del sacro che fossero – non solo aguzzano l’ingegno, ma lo purificano anche, rendendo la libertà più sacra della paura.
Fare satira senza rischi e senza sanzioni è troppo comodo, è uno spreco, una furbata che si accartoccia su se stessa. Ma siccome questo accade di rado, va a finire che le vittime non si contano. Per una caricatura di Carletto Manzoni, che sul Candido aveva ritratto il presidente della Repubblica Einaudi mentre passava in rassegna le bottiglie del vino da lui prodotto, Giovannino Guareschi (già condannato per certi falsi scritti di De Gasperi) finì in prigione. Alla Rai Vianello e Tognazzi ebbero diverse grane per aver fatto indignare Gronchi; Alighiero Noschese fu a lungo sorvegliato speciale; Beppe Grillo pagò cara una barzelletta sui socialisti craxiani; e sempre per una vignetta, nel 1999, Forattini si vide chiedere tre miliardi di lire dal presidente del Consiglio D’Alema.
Tra costi e benefici, sbarramenti ed equivoci, blasfemia e autoritarismi, la faccenda ha tutta l’aria di essere cominciata qualche millennio fa; e per uno di quei formidabili cortocircuiti che a volte la cronaca offre su un piatto d’argento nel 2002 accadde che al festival dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa Luca Ronconi avesse messo in scena Le rane di Aristofane arricchendo il fondale della scenografia con i ritratti di Berlusconi, Fini e Bossi, oltre a uno dei loro slogan nell’ultima campagna elettorale "La forza di un sogno". Bene: apriti cielo, insorse il sottosegretario Micciché, si vergogni il regista, disse, via quei personaggi! La questione venne poi risolta, pare su indicazione di Veronica Lario (che ha lavorato con Ronconi), grazie a un comunicato di Berlusconi che inneggiava alla libertà dell’arte, proclamava di «non sapere neanche cosa sia la censura» dichiarandosi addirittura preoccupato dell’«autocensura a dispetto».
Sono dichiarazioni da tenere a mente, sia pure con il dovuto scetticismo perché il potere è pur sempre soggetto alla tentazione di fare il suo oppressivo mestiere; e il colmo dei colmi è che a volte lo fa pure meglio in presenza di un automatico, gratuito e ridanciano cupio dissolvi.
Quella sottile autocensura
di Jean Plantureux, vignettista di "Le Monde"
Vignettista del giornale Le Monde dal 1972, Jean Plantureux - in arte "Plantu" - applica nel suo lavoro il principio della "autocensura". «Mi muovo su una sottile linea rossa, ho imparato a flirtare con il politicamente scorretto senza sposarlo sempre e comunque».
Cosa significa "autocensura"?
«Non esistono regole universali. Esiste un comune senso di responsabilità, che i vignettisti devono tutti avere, ma poi la concezione dell’ironia resta propria di ogni cultura, paese. In Algeria c’è per esempio un fantastico disegnatore, Dilem, che scherza sulle stragi terroristiche e sui morti sgozzati dagli integralisti islamici. Io non potrei mai farlo».
Non è così che, lentamente, si comincia a frenare la critica?
«Ciò che frena la critica e la polemica è piuttosto la dittatura della "fifa", la paura che domina la nostra epoca. Le faccio un esempio. A Parigi è stato appena censurato il manifesto sull’ultima retrospettiva dedicata a Jacques Tati. Nell’immagine si vedeva il suo mitico personaggio, Monsieur Hulot, con in bocca l’inseparabile pipa. I benpensanti si sono opposti».
Se ci fosse stato un terremoto in Francia cosa avrebbe disegnato su Le Monde?
«Nei primi giorni, probabilmente non mi sarei permesso di mischiare tragedia e ironia. Nel 2001, quando c’è stato l’11 settembre, per quindici giorni ho disegnato solo personaggi che piangevano. Al quindicesimo giorno ho pubblicato la mia prima vignetta polemica, per dire che erano stati gli americani ad armare i Taliban».
Subisce molte pressioni o censure nel suo lavoro?
«L’ultima volta mi è successo un mese fa, quando ho disegnato il Cristo dopo la "moltiplicazione dei preservativi", anziché dei pani, assieme al Papa ovviamente critico e al cardinale Williamson che diceva: "Tanto l’Aids non è mai esistito". In redazione, sono arrivate le rimostranze del Vaticano, ma anche da lettori italiani e da associazioni americane».
Una telefonata di Sarkozy l’ha mai ricevuta?
«Il presidente mi ha scritto qualche volta per protestare. Ma quasi sempre si rivolge al direttore e il caporedattore del giornale che, per fortuna coprono e difendono il mio lavoro. A me direttamente ha detto che non gli piaceva essere raffigurato con delle piccole mosche che svolazzano sopra alla sua testa».
E perché ci sono degli insetti sopra alla testa di Sarkozy?
«Perché ha detto di voler parlare con la "pancia". Quando hai le trippe di fuori, basta un po’ di sole per far svolazzare le mosche. Ma non dico che Sarkozy abbia sbagliato a chiamare: è un suo diritto. L’importante è non farsi influenzare. Anche Carla Bruni ha chiamato il direttore dell’Express per lamentarsi di una delle mie vignette».
Quale?
«Una vignetta in difesa di Siné, un disegnatore licenziato da Charlie Hebdo per antisemitismo. Christophe Barbier (il direttore dell’Express, ndr.) ha risposto che io posso fare quel che voglio. Che tra l’altro non è corretto perché io rispetto appunto l’autocensura».
E dov’è che si ferma?
«Le faccio un esempio. Due settimane fa, quando ho visto alla tv Berlusconi che faceva aspettare la Merkel, ho cominciato a lavorarci sopra. Nella notte c’è stato il terribile terremoto in Abruzzo e allora mi sono vietato di divertirmi con il primo ministro italiano. Ma come dicevo prima è una questione culturale peculiare a ogni paese. I disegni di Vauro sul terremoto non mi sono sembrati affatto scioccanti. Anzi, ci tengo a dire che lo sostengo e lo abbraccio».
Il potente è permaloso
Intervista di Simonetta Fiori
allo storico Luciano Canfora
«Nell’età d’oro della democrazia ateniese, oltre duemilaquattrocento anni fa, nella censura incappò anche Aristofane, il massimo comico dell’epoca. Il controllo è connaturato al potere, passa attraverso i suoi mille travestimenti, e non ne sono immuni le repubbliche di Atene e Roma». Neppure l’ironia sferzante del più grande rappresentante della commedia antica riuscì a sfuggire all’ira di Cleone, però Aristofane si vendicò scrivendo un’opera contro il suo persecutore. «La storia della censura comincia in età classica e attraversa i secoli, segnando i regimi autoritari, ma anche le democrazie di ispirazione liberale», dice Luciano Canfora, antichista con passione per l’età contemporanea, autore di innumerevoli saggi su libertà e politica, il più recente La natura del potere appena uscito da Laterza.
Anche le democrazie temono la satira fino a censurarla?
«Sì. Se torniamo indietro alla democrazia ateniese, incappiamo nelle primissime forme di censura. E le troviamo proprio a teatro, là dove impropriamente si ritiene che regnasse la libertà più totale. Si è indotti a questo errore dall’abitudine praticata sulla scena di lasciarsi andare all’ingiuria più imbarazzante. Invece proprio sul teatro comico - ancor più che sulla produzione tragica - veniva esercitato un controllo preventivo».
Esisteva una precisa procedura?
«Nel teatro attico, in occasioni delle celebrazioni lenee o delle feste dionisie, l’arconte re o l’arconte eponimo - le due cariche preposte alla censura - dovevano ispezionare il canovaccio della commedia, prima di concedere il "coro", così si chiamava l’autorizzazione. Anche i grandi tragici - Eschilo, Sofocle, Euripide - si sottoponevano al rituale. Naturalmente c’era sempre la possibilità di eludere la censura con la battuta improvvisata sulla scena».
Senza conseguenze?
«Non proprio. Una volta un Aristofane ventiquattrenne - era il 426 a. C. - mise in scena I Babilonesi, un’opera di denuncia contro l’impero ateniese accusato di opprimere i suoi alleati. Tra gli spettatori c’erano anche molti stranieri. Così il commediografo fu portato davanti al consiglio della città con l’accusa di aver procurato danno al demo ateniese. Aristofane ne parla negli Acarnesi. Cleone, demagogo fazioso, lo strapazzò pubblicamente, esercitando un potere di intimidazione non meno micidiale della censura».
Roma non godette di maggiore liberalità.
«La situazione notevolmente peggiorò. Nel De Repubblica, a proposito degli attacchi di cui era stato bersaglio Pericle, Cicerone scrisse che a Roma quelle critiche non avrebbero mai potuto avere cittadinanza. Nevio che attacca gli Scipioni? Inimmaginabile».
La censura della satira non è un tratto esclusivo dei regimi autoritari.
«Negli anni Venti, nell’Unione Sovietica, furono sottoposti a censura scrittori satirici come Bulgakov e Zoscenko. Ma esiste anche una tradizione censoria di segno schiettamente democratico. Per un lungo periodo, il futuro premio Nobel Dario Fo insieme a Franca Rame fu tenuto distante dalla Tv di Stato». La censura in un’età che promette la massima libertà di parola: non c’è un aspetto paradossale?
«È un problema di difficile soluzione. Scatenarsi oggi per una vignetta mi sembra demenziale. A Mosca, negli anni Cinquanta, usciva un giornale umoristico intitolato Krokodil. Un funzionario politico provvedeva non solo a controllare le vignette, ma anche a spiegarle: sotto il disegno, compariva la didascalia con l’interpretazione. Forse potrebbe essere un modello per i nostri potenti».
Perché limitarsi a costruire una new town al posto de L'Aquila distrutta dal terremoto, quando si potrebbe ricostruire una intera New Italy al posto di quella vecchia nella quale viviamo? Il governo ci sta riflettendo. Il progetto più ambizioso prevede un nuovo Stivale di gomma gonfiabile da stendere accanto all'attuale Penisola, coprendo l'Adriatico e parte dei Balcani. La sagoma sarebbe uguale a quella dell'Italia attuale, ma ampliata del 20 per cento come prevede il piano casa. L'ampliamento sarebbe ottenuto grazie al prolungamento del Gargano fino a Belgrado. Nel caso di una insanabile opposizione da parte delle nazioni che verrebbero parzialmente ricoperte dalla New Italy, si potrebbe ripiegare sul piano B: progetti locali. Vediamo quali.
New Milano Dovrebbe sorgere nella immensa e desolata landa che separa l'attuale Milano da Malpensa, una zona nella quale gli unici segni di vita sono le urla dei viandanti che si chiedono l'un l'altro "ma dove cazzo è l'aeroporto?". Il progetto è stato affidato alle più grandi star dell'architettura mondiale: dal giapponese Uramaki, famoso per avvolgere i grattacieli con enormi rotoli di alghe, al texano John Grunt (inventore della tavola da pranzo col rinforzo di ghisa per evitare che gli speroni la rovinino), che ha dichiarato di amare molto Milano e di considerarla la più affascinante tra le città spagnole. Ma l'appalto è stato vinto dal geometra Perego, che ha in mente una megalopoli di grattacieli a schiera. La new Madunina, sulla guglia più alta del new Duomo, avrà le fattezze della cantante Magalì Brembasca, che nessuno ha mai sentito nominare, ma è stata imposta dalla Lega in cambio della rinuncia alla poltrona di direttore del 'Corriere'.
New Roma Sorgerà sull'attuale area urbana, interamente spianata con l'eccezione del Vaticano che rimarrà identico e con lo stesso papa sottoposto a lifting su consiglio di Berlusconi. Verranno costruiti i new sette colli, che grazie a una sponsorizzazione della Disney avranno il nome dei sette nani. Sul Gongolo sorgerà il nuovo Palazzo Chigi. Il Colosseo, ricostruito in polistirolo antisismico, verrà riportato alla sua forma originale, che secondo Berlusconi era identica alla Rinascente con la sola eccezione della scale mobili. La plebe potrà continuare a dedicarsi ai suoi pittoreschi atteggiamenti, ma su consiglio di Berlusconi non dovrà più accalcarsi nei vicoli gridando 'ah Nandooo!', ma accalcarsi nei vicoli gridando 'ah Piernandooo!'
New Napoli Dovrebbe sorgere dove capita. I bassi dei Quartieri spagnoli saranno replicati fedelmente, ma su suggerimento dello stesso Berlusconi avranno la moquette. Il new Vesuvio sarà collegato a quello vecchio con un modernissimo sistema di sensori, dando luogo alla prima eruzione stereofonica della storia, che verrà ripresa in diretta e trasmessa in tutto il mondo in sensorround per registrare fedelmente le grida di terrore e i gemiti degli agonizzanti. Il governatore sarà Bassolino almeno fino al 2150, grazie a un accordo politico tra il Pd e un'azienda di formalina. Berlusconi ha suggerito di intitolare il nuovo teatro a Gaetano De Filippo, rimanendo molto contrariato alla notizia che si chiamava Eduardo. Per rimediare alla gaffe, ha chiesto che all'inaugurazione sia presente Pulcinella, purché non passi a Sky.
New Sardegna Sarà la prima isola antisismica del mondo. L'idea è di abolire la causa scatenante dei terremoti, e cioè il terreno, erigendo in mezzo al Mediterraneo la prima isola di sole barche. Migliaia di panfili legati l'uno all'altro con gomene e ponticelli sospesi, dando luogo alla più eccitante movida del pianeta, con veline e calciatori che si rincorrono cercando di evitare le fucilate di Vittorio Emanuele di Savoia. Tutte le barche saranno disegnate da Briatore e avranno due poppe.