loader
menu
© 2024 Eddyburg

Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell´era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell´impietosa radiografia mediatica d´ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy è finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni. Quali sono i doveri dell´uomo pubblico? Quale dev´essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale?

«La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L´abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione del mentitore. John Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull´esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna.

Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l´identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta "aspettativa di privacy", proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto.

Chi, allora, ha "diritto alla verità"? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l´accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene.

Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt´altro che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella "facoltà di non rispondere" di cui giustamente può giovarsi l´indagato o l´imputato. "Nemo ternetur se detegere", recita un´antica e civile formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore: «non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa?

Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l´inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.

Mauro Rostagno è stato ammazzato dalla mafia ventun anni fa. E' stato ammazzato per far tacere le sue trasmissioni con cui tutti i giorni denunciava amministrazioni locali e malavita organizzata. E' stato ammazzato alla vigilia di un potenziamento del segnale della sua stazione trasmittente che avrebbe esteso il suo ascolto dalla provincia di Trapani a tutta la Sicilia. E' stato ammazzato, verosimilmente, anche perché era sulle tracce di un gigantesco traffico di armi che coinvolgeva mafia e servizi segreti. Ma è stato ammazzato soprattutto all'indomani della sua pubblica e conclamata incriminazione come mandante, insieme ad altri ex dirigenti di Lotta Continua, dell'omicidio, avvenuto diciassette anni prima, del commissario Luigi Calabresi. Questo è stato sicuramente l'elemento scatenante che, delegittimandolo come ex-terrorista agli occhi dell'opinione pubblica, ha messo la mafia sull'avviso che il «momento giusto» per mettere a tacere Mauro era arrivato.

Mauro è stato ammazzato dalla mafia e per qualsiasi persona onesta e di buon senso non c'era, fin da subito, alcuna possibilità di ipotizzare un movente del suo omicidio diverso dalla volontà di interrompere le sue denunce svolte con l'intelligenza, la creatività e il rigore che lo avevano sempre caratterizzato. Ma ci sono voluti ventun anni perché questa verità evidente venisse fatta propria dal documento giudiziario che da ieri prescrive la «custodia cautelare» per due mafiosi già in carcere. E' il risultato di una rigorosa inchiesta, ripresa dopo che la denuncia e le pressioni di migliaia di cittadini hanno invalidato le conclusioni della magistratura trapanese e di una folta schiera di giornalisti che perseguivano e pubblicizzavano piste differenti per evitare di riconoscere a Mauro Rostagno quello che, una volta morte, non è mai stato negato a tutte le altre vittime della mafia, con l'eccezione - anche qui per anni - di Peppino Impastato. Dopo aver tenuto in assoluto non cale la evidente coincidenza tra l'uccisione di Rostagno e la sua incriminazione per l'omicidioCalabresi, si era voluto dapprima sostenere che Mauro era stato ucciso dai suoi ex compagni di Lotta Continua per bloccarne la deposizione con cui avrebbe confermato l'impianto accusatorio che aveva portato all'incriminazione e all'arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l'omicidio Calabresi. Questa tesi era stata avanzata da un ufficiale dei carabinieri che ne aveva attribuito la paternità al giudice istruttore del procedimento per l'omicidio Calabresi (il quale ha negato quella paternità, senza però procedere, come era suo dovere, contro l'ufficiale che gliela aveva attribuita). In ogni caso quella tesi era stata «tirata fuori» e sbandierata per la prima volta - anzi urlata nel corso di un'intera seduta - dal legale di parte civile della famiglia Calabresi durante il processo di appello contro Sofri, Bompressi e Pietrostefani, come prova del carattere criminale degli imputati e dell'organizzazione Lotta Continua, di cui si è sostenuto a lungo che era un'organizzazione ancora attiva (a vent'anni dal suo scioglimento) e dedita ad attività terroristiche.

La famiglia Calabresi, che ha seguito tutte le udienze di questo interminabile procedimento, e che ha avuto molteplici occasioni e ampie ragioni per deplorare i toni e il modo con cui era stata condottala campagna di denuncia contro il commissario, non ha ritenuto, né allora né in seguito - quando era ormai emersa l'assoluta infondatezza di questa calunnia - di dissociarsi da modo in cui la difesa di parte civile ha condotto la criminalizzazione di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Dopo Lotta Continua è stata la volta di Saman. Il delitto, si è sostenuto, con inchieste giudiziarie, trasmissioni televisive in prima fascia, libri, false inchieste e corsivi di quotati columnist di tutte le parti, era maturato negli ambienti della comunità di cui Mauro era uno dei responsabili, per mettere a tacere traffici di droga che si svolgevano al suo interno. Altre persone incriminate - questa volta anche arrestate - e un'inchiesta finita in fumo per assoluta mancanza di indizi. Nel tritacarne di quella inchiesta è stata messa, con provvedimenti giudiziari e arresti corroborati da autorevoli avvocati e giornalisti, Chicca, la compagna di Mauro: con una pubblica esibizione di tutti i particolari, intimi quanto irrilevanti, della sua vita personale, elevandola per alcuni mesi al rango di «vedova nera», mandante o complice dell'assassinio del suo compagno. Una sorte che prima di allora era toccata solo, negli anni '50, alla vedova del commissario Tandoi, messa alla gogna per proteggere gli assassini mafiosi del marito. Le vicende delle indagini sull'assassinio di Rostagno sono uno spaccato del modo in cui l'informazione è stata governata e la mafia è stata coperta in questi ultimi vent'anni e, ovviamente, anche prima. Perché il delitto all'origine di tutte queste vicende, e per il quale sono stati puniti, è la partecipazione di Mauro Rostagno, come quella di Sofri, Bompressi e Pietrostefani al movimento del '68 e alle lotte sociali degli anni seguenti. Una tesi alla fine ammessa anche dal finto avvocato difensore di Leonardo Marino.

Hans Magnus Enzensberger, scrittore tedesco, li chiama i perdenti radicali. Sono coloro che non si guardano intorno e non cercano di capire come il mondo si disfa e si rifà, quando sono alle prese con traumi sociali, ma vivono le calamità come una specie di giudizio universale anticipato. Non hanno altra misura che se stessi: sono loro le uniche grandi vittime, loro gli umiliati e gli offesi. La solidarietà con popoli o persone che soffrono più di loro è inesistente. Potrebbero anche non essere perdenti in modo radicale, potrebbero sforzarsi di vedere quel che in ogni crisi è opportunità, mutazione. Ma la scelta che hanno fatto di essere perdenti ha qualcosa di definitivo, di fatale. La realtà ha poco peso in quel che dicono e che pretendono di vedere.

C’era un po’ di tutto questo nei tumulti della scorsa settimana a Torino: prima al Lingotto, quando alcuni appartenenti ai Comitati di base hanno contestato e malmenato il sindacalista Rinaldini, segretario della Fiom; poi il 18 e 19 maggio, quando due-trecento violenti hanno rovinato la manifestazione dell’Onda e scatenato, come avevano promesso, una guerriglia urbana davanti al Castello del Valentino dove si svolgeva il G-8 dei rettori. L’uso del nome G-8 è stato una provocazione stupida, certo: dopo gli eventi del 2001 a Genova, la sigla evoca un potere che agisce impunemente con inaudita violenza. Ma una sigla errata non giustifica le armi scelte nei tumulti torinesi: gli spintoni brutali al Lingotto e poi, al G-8 universitario, i sassi, le spranghe, i fumogeni, i caschi e le mazze, gli estintori, le auto e i bidoni incendiati.

La storia non si ripete mai eguale a se stessa e nessun movimento ripete le gesta anteriori. Non è nemmeno vero che la tragedia si ripete in farsa, come diceva Marx. La storia è capriccio inopinato e anche quello che dopo chiamiamo tragedia non era all’inizio che gioco, parola. Rudi Dutschke non era affatto un terrorista, ma fu lui, nel febbraio 1966, ad auspicare la guerriglia urbana nelle democrazie. Spesso le tragedie cominciano con discorsi che tollerano, incitano: i romanzi di Dostoevskij - i Demoni, i Fratelli Karamazov - narrano precisamente questo. Uno parla con leggerezza, poi arriva il perdente radicale e passa all’atto cruento. Per questo è giustificato quel che ha scritto Luigi La Spina, il 20 maggio su La Stampa: la memoria di passate violenze «può essere un incubo, ma anche un vaccino».

La crisi economica che stiamo vivendo è una prova, ben più grave per milioni di persone di quel che conobbe la generazione del ’68 o ’77: non a caso i tumulti tendono ovunque a moltiplicarsi (periferie in rivolta, sequestri di manager). Per questo converrà studiarne le radici, e comunque non sottovalutarli. Ma occorrerà farlo evitando se possibile le scorciatoie, che sono due. La prima consiste nel concentrarsi esclusivamente sull’ordine pubblico, reprimendo ogni scontento come se il legame tra scontento e terrorismo fosse automatico. È la via militarizzata, simile alla guerra mondiale al terrore: il male è combattuto solo con le armi. Non meno insidiosa tuttavia è la seconda scorciatoia. È la via che psicologizza, socio-analizza: che condona piccole violenze, e tratta gli estremisti come fossero bambini, non cittadini maggiorenni. Essa rinuncia a indicare il limite invalicabile delle proteste, e s’accomoda - soprattutto in Italia - con una cultura dell’illegalità diffusa sin nei vertici dello Stato. La gioventù è un soffio scottante che viene e che va: basta fidarsi della biologia. La psicologia ha fatto molti danni nell’ultimo secolo e mezzo.

I politici e le classi dirigenti non sono incolpevoli, in questa faccenda. Se si accumulano tante incomprensioni, se piccoli ma numerosi gruppi sono attratti dalla violenza e faticano a guardare il mondo come cambia, è anche perché sono rari i responsabili che esplorano e dicono quel che davvero sta accadendo. I più cercano di nascondere gli scombussolamenti che la crisi porta con sé: il rischio che nella vita di ciascuno si dilata, i risparmi e i salari che scemano, la vasta trasformazione dei costumi che s’imporrà. Gian Enrico Rusconi spiega le differenze che esistono, ad esempio, fra italiani e tedeschi: ci sono sciagure anche in Germania, ma minore tensione sociale. Questo perché il cittadino è meglio informato, da politici e stampa. Diversamente dai governanti italiani, i tedeschi «non hanno mai diffuso ottimismo di maniera» (La Stampa, 17-5).

In Italia e a Torino quel che infiamma gli spiriti è da qualche tempo la Fiat. Quanti impieghi saranno sacrificati per salvare l’industria dandole l’indispensabile dimensione transnazionale? E lo Stato che fa, per proteggere il lavoro italiano? Il caso è emblematico perché rivela tre pericoli al tempo stesso: lo stacco dalla realtà, il nazional-protezionismo, e il nuovo potere dello Stato in questa crisi (uno Stato intrusivo più che spendaccione, scrive Martin Wolf sul Financial Times). Occultare la realtà vuol dire aspettare che «tutto torni come prima, meglio di prima» (Berlusconi, 17-5). Vuol dire ignorare quel che nella crisi dell’auto non è episodico. L’auto ha conosciuto un’espansione straordinaria grazie al petrolio abbondante e poco caro, e all’indifferenza verso il clima devastato. Tante scelte sono legate a quell’epoca - i Suv, il fenomeno delle città residenziali periferiche, i suburbia americani dai quali ci si muove essenzialmente con automobili - e son destinate a diminuire o sparire (è la tesi di James Kunstler, nel libro The Long Emergency uscito nel 2006).

Oggi siamo a un bivio, e il risparmio energetico voluto da Obama lo attesta: ogni auto nuova deve avere un motore capace di fare 35,5 miglia per ogni gallone (57,1 chilometri con 3,8 litri). Un mutamento che può incoraggiare la reinvenzione dell’industria ma che sarà costoso per tutti: consumatori, imprese, operai, politici bisognosi di popolarità. Quel che dice Sergio Marchionne è difficilmente confutabile: si producono troppe auto nel mondo (95 milioni) per un pianeta che va tutelato. 20 milioni sono di troppo. I manifestanti al Lingotto scandivano, lunedì: «Marchionne, tu vvò fà l'americano», occultando anch’essi la realtà. Se si vuol aggiustare il clima, occorre dire queste verità e trarne conclusioni. Secondo alcuni studiosi, bisogna uscire dal mondo auto-industriale: puntando sul trasporto pubblico e su veicoli che risparmino energia drasticamente. Lo scrive l’economista Emma Rothschild in un saggio sul New York Review of Books del 26 febbraio, nel quale è criticata la vista corta di produttori e governi. Lo scrive l’analista Max Fraser il 13 maggio su The Nation. Fraser cita le parole di una sindacalista americana, Dianne Feeley, ex lavoratrice alla Ford: «Salvare l’industria dell’auto così com’è non ci darà impieghi, non ci metterà sulla buona strada per il clima, non aiuterà le nostre città. La strategia deve concentrarsi su come salvare la classe operaia e le nostre comunità».

Marchionne dice un’altra cosa importante: l’America ha più mezzi di noi europei, pur traversando una crisi maggiore. Ha un governo unitario, sindacati che cooperano. L’Europa non è a questo punto: qui è lotta di ogni nazione contro le altre, qui non si pensa in grande (geograficamente, industrialmente, politicamente). Non stupisce che sia così anche dentro le società, come spiega bene lo storico Marco Revelli: al classico conflitto verticale - tra lavoratori e impresa - si sta sostituendo il conflitto orizzontale: lavoratori contro lavoratori, nazioni contro nazioni. Ogni scheggia mira a farsi vedere, «come in un reality show» (La Stampa, 18-5).

Il perdente radicale vive di scontri orizzontali e reality show. Vive di sconfitte, che teme ma segretamente agogna. Esattamente come i mercati, i perdenti radicali «si scatenano quando sentono odore del sangue».

UN PIENO DI MEMORIA

di Concita De Gregorio

Sarà per via del fatto che siamo storditi dalle urla e dagli insulti della destra leghista e di quella fascista, dall'istigazione continua alla paura e alla cura soltanto di sè, dalle subdole minacce degli avvocati forzisti, dai monologhi presidenziali in prima serata con sottofondo di farfalline e minorenni, dai comitati per la candidatura a «Silvio Nobel per la pace» e - più in generale - da un populismo che scivola lungo la china della dittatura, quel genere di dittatura che germoglia fertilizzata da rotocalchi e varietà giornalistici di regime, fiorisce nel servilismo eletto a utile compiacenza e finisce col dire che c'importa del Parlamento e della magistratura, possiamo benissimo fare senza. Sarà che è troppo alto e minaccioso il tono di voce generale, grevi i contenuti, che la comparsa di Marco Pannella in tv, venerdì sera, ha fatto a tutti quelli che ancora conservano un poco di amore per questo Paese un'impressione così grande. A ottant'anni, con il corpo consumato il volto scavato e gli occhi enormi, con la voce in bilico fra il senso delle parole e la forza dei silenzi lì a dire che bisogna stare attenti ma attenti davvero, che l'Italia è in pericolo la democrazia lo è, che le voci dissonanti si spengono, tutte, anche quelle che hanno fatto la storia, e che poi tutto si dimentica perché la memoria è diventata così breve. Un vecchio, certo. Un vecchio gigante della politica, il superstite di una stagione di uomini di un'altra razza. Lo si può detestare, gli si può rimproverare ogni genere di nefandezza o riconoscergli i più alti meriti ma non ignorare la differenza: lo spirito, la forza, la generosità di un'epoca in cui la politica e il bene pubblico venivano prima, erano da costruire e custodire come la casa di tutti e non la reggia di uno solo. Così siamo andati da lui ieri mattina e anziché scrivere anzitempo il suo necrologio come altri hanno già fatto gli abbiamo chiesto di parlarci di questa ultima sua battaglia, del perché ancora combatta a rischio della vita, per cosa. Marco Bucciantini gli ha domandato a cosa serva più il suo «canestro pieno di parole», diceva la canzone che gli dedicò De Gregori. «Sono tempi bui, il regime si sceglie anche gli avversari». Opposizione incorporata.

Per i padri, ormai nonni della Patria sono tempi di delusione e di rabbia, di allarme e di fatica. Cosa resta di un secolo, chi si incaricherà di proteggere il destino dei figli, di garantire libertà e democrazia così faticosamente conquistate alle generazioni future? Li abbiamo cercati. Il più anziano tra loro, Pietro Ingrao, frequentava le elementari nei giorni della Marcia su Roma quando la più arrabbiata, Margherita Hack, aveva pochi mesi. I più giovani ( Dario Fo, Giorgio Ruffolo, Armando Cossutta) non avevano ancora vent'anni al tempo della Liberazione. Giorgio Bocca, il più pessimista, ne aveva 25 e scriveva i suoi primi articoli. Intellettuali, politici, scienziati e premi Nobel che hanno vissuto gli anni della dittatura e i giorni di gioia per il ritorno della democrazia. Li abbiamo trovati delusi, indignati, a volte sbalorditi per la capacità del nostro paese di far male a se stesso. Pietro Ingrao ricorda che l'attacco al Parlamento è ciò che qualifica ogni iniziativa reazionaria. Non hanno voluto consolarci, ci hanno consegnato un compito. Ascoltiamoli, qualunque sia il frammento di storia che hanno da porgerci. La memoria è il miglior viatico sempre.

LA RABBIA DEI GRANDI VECCHI

di Maria Zegarelli

Erano ragazzi quando finì il fascismo. Hanno vissuto le speranze del ritorno alla democrazia. Oggi sono preoccupati per il nostro futuro. Il più anziano tra loro, Pietro Ingrao, frequentava le scuole elementari nei giorni della Marcia su Roma, quando la più arrabbiata, Margherita Hack, era nata da pochi mesi. I più giovani del gruppo (Dario Fo, Giorgio Ruffolo e Armando Cossutta) non avevano ancora vent’anni al tempo della Liberazione. Giorgio Bocca, il più pessimista, ne aveva 25 e scriveva i suoi primi articoli.

Abbiamo deciso di sentire la voce di questi intellettuali, politici, scienziati e premi Nobel con lo spirito di chi, in un momento difficile, si rivolge al padre o alla madre, al nonno o alla nonna. Alle persone, cioè, che hanno vissuto gli anni della dittatura e i giorni di gioia per il ritorno della democrazia. Li abbiamo trovati delusi, indignati, a volte sbalorditi per la capacità del nostro paese di far male a se stesso. Margherita Hack dice di «provare vergogna». L’ex partigiano Giorgio Bocca si dichiara «supersconfitto». Giorgio Ruffolo è sorpreso per le incertezze della sinistra, Armando Cossutta definisce «eversive e populiste» le iniziative del premier, Pietro Ingrao ricorda che l’attacco al Parlamento è ciò che qualifica ogni iniziativa reazionaria.

Non hanno voluto consolarci i nostri grandi vecchi. Sono preoccupati. La loro memoria lancia l’allarme.

Pietro Ingrao

L’offensiva reazionaria

è sempre iniziata così

Non sono sorpreso dall’affondo di Berlusconi contro il Parlamento. Ieri e oggi l’attacco alle assemblee è stato e resta un punto qualificante di ogni offensiva reazionaria. Basti pensare alla polemica di fascismo e nazismo contro la democrazia rappresentativa. L’antiparlamentarismo rappresenta un terreno chiave per le ideologie e le correnti autoritarie. Da sempre infatti il Parlamento incarna la difesa delle garanzie e del libero confronto politico. Il che disturba profondamente i conservatori. Non voglio dire che Berlusconi sia fascista, ma certe sue uscite vanno in una direzione allarmante e ben nota. Tutto ciò non significa che non siano necessarie delle modifiche all’ordinamento parlamentare. Un Parlamento di mille rappresentanti, che fanno tutti la stessa cosa, è pletorico. Ma ridurlo a cento persone, come vuole Berlusconi, sarebbe un annichilimento e uno svuotamento. Per fortuna però, su questo emergono allarmi anche a destra. E le parole di Fini a riguardo mi sono parse molto equilibrate. Da cittadino mi rivolgo perciò al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Camere perché intervengano con decisione a salvaguardia delle istituzioni.

Giorgio Bocca

Ex fascisti nelle alte cariche:

ecco la dittatura morbida

Avendo vissuto la Resistenza e oltre 60 anni di vita repubblicana mi considero supersconfitto: la dittatura morbida è già iniziata. Il premier può dire quello che gli pare senza alcuna reazione della società civile: durante un'assemblea della stessa Confindustria ne definisce il presidente una velina senza che si levi una reazione, e lasciamo perdere gli attacchi a parlamento e giustizia. E infatti oggi nelle alte cariche troviamo tutti ex fascisti come Fini e Alemanno. La cosa grave è che non c'è niente da fare: il piacere di servire sembra più forte di tutto. Lo definirei uno dei flussi della storia: l'unica cosa da fare è assumersi le proprie responsabilità e continuare a essere antifascisti e antiberlusconiani.

Giorgio Ruffolo

Non è ancora regime ma se ne uscirà solo

se la sinistra saprà guardare lontano

Non siamo al regime, ma i rischi sono molto seri. La democrazia attraversa un periodo oscuro a livello internazionale, che in Italia coincide con una crisi a cui Berlusconi dà un'accelerazione di populismo privatistico, e dunque dal carattere plebiscitario e senza regole. C’è un'analisi molto interessante in A destra tutto. Dove si è persa la sinistra di Biagio Di Giovanni. È singolare che la sinistra italiana sembri rincorrere la destra proprio durante una crisi mondiale del capitalismo, senza offrire risposte proprie che superino la contingenza,e mostrando una evidente mancanza di obiettivi. Di fronte a questo attacco di Berlusconi le reazioni sono di sorpresa, scoramento, indignazione, ma non propositive.

Margherita Hack

Che vergogna Pannella

costretto a digiunare

C’è da vergognarsi di essere italiani. Non capisco come sia possibile che la metà di questo Paese continui a fidarsi di un presidente del Consiglio come Berlusconi, che dice bugie, non risponde alle domande scomode, che - come dice la moglie- ha comportamenti immorali. E c’è da vergognarsi se Marco Pannella è costretto a fare lo sciopero della sete e della fame per far apparire il suo simbolo elettorale in televisione perché l’informazione non fa il suo dovere. Berlusconi pensa di essere il raìs dell’Italia, ma quello che mi spaventa di più è il consenso di cui gode. È un bruttissimo segno, vuol dire che il lavaggio del cervello è riuscito. Come si può non indignarsi di fronte al fatto che c’è un signore che ne corrompe un altro, ma il corrotto viene condannato e il corruttore no perché si è fatto una legge su misura come il Lodo Alfano? Fa male vedere quello che sta succedendo nel Paese, ascoltare frasi irriguardose verso le istituzioni da parte di chi le rappresenta. E fa male vedere questa sinistra confusa fare un’opposizione debole rispetto alla gravità dei fatti. A volte mi sorprendo a pensare che mi mancano i vecchi grandi partiti di una volta, come il Pci e la Dc.

Dario Fo

È come il compagno di sbronze ricco:

nessuno dice nulla perché paga da bere

È ammalato: partiamo da quello che dice Veronica che lo conosce bene: Berlusconi sta male e ha pregato le persone che lo conoscono di aiutarlo a uscire dalla malattia, evitando che faccia male a sé stesso e agli altri. Quando parla parte normale, poi si eccita, perde il controllo e dice cose di cui poi si deve scusare. Purtroppo nessuno glielo fa notare, perché la gente che gli è vicina lo tratta come il compagno di sbronze ricco: dicesse e facesse quel che vuole, tanto da bere paga lui. Abbiamo a che fare col matto: può sorprendere che un personaggio simile metta a rischio la democrazia. Ma in Italia abbiamo una secolare tradizione nell'applaudire chi ci fa male: il popolo non perdona chi gli apre gli occhi e piuttosto lo lincia.

Armando Cossutta

Fare muro. Sono comunista

ma stavolta voterò Pd

La democrazia corre pericoli molto seri: la posizione del premier è infatti eversiva e populista. Il suo modo di attaccare le istituzioni rivolgendosi direttamente alla gente ricalca ma solo grottescamente la Costituzione. Se l'articolo 1 della carta dice che il potere appartiene al popolo, afferma anche che questo viene esercitato attraverso il parlamento. Attaccare la giustizia e il parlamento per indebolirli è perciò un tentativo eversivo e populista, di chi vuol governare scavalcando tutti senza più alcun controllo. Di fronte a questo pericolo non si devono avere esitazioni: al di là delle differenze tra le idee politiche bisogna votare un partito in grado di porre un argine concreto. Ero, rimango e rimarrò sempre comunista, ma stavolta voterò il Partito Democratico, l’unica forza che numericamente può opporsi a questa che è una minaccia molto seria. E voglio anche dire che anche in questo periodo di attacchi forsennati alla democrazia in Italia, lavorando all’Anpi mi sono reso conto che tra la gente c’è ancora una coscienza antifascista e la voglia di resistere. Lo ha dimostrato la battaglia vinta contro la legge che voleva equiparazione i repubblichini ai partigiani, una battaglia cui hanno aderito moltissime persone di idee politiche diverse.

Cento deputati piacciono più di seicento al nostro presidente del Consiglio. Non c'è da stupirsi, perché corromperli o assoldarli o semplicemente metterli d'accordo con i suoi propri interessi sarebbe certamente meno costoso e più semplice. La relazione tra assemblee numerose e sicurezza della libertà l'avevano ben capita gli ateniesi di 2.500 anni fa, i quali proprio per evitare le scorciatoie nel nome della celerità di decisione istituirono giurie popolari numerosissime. Il loro intento principale era quello di impedire che nessun cittadino potente potesse condizionare le decisioni a suo piacimento.

Pensavano che nessuno disponesse di tanti soldi quanti ne sarebbero stati necessari per corrompere seicento giudici (tanti erano i giudici che siedevano nelle loro giurie). E qui siamo di nuovo: il capo dell'esecutivo, abituato a comandare sottoposti e stipendiati, non ama né tollera assemblee larghe di rappresentanti che sono chiamati a rendere conto a nessun individuo o gruppo di individui ma solo alla nazione, la quale non è un padrone ma la fonte della loro autorità.

Ma per il capo dell'esecutivo le assemblee larghe sono pletoriche e poi dannose agli interessi di chi decide - ovvero del suo esecutivo.

La logica del capo della maggioranza non è democratica ma è esattamente opposta a quella dei saggi democratici. Le assemblee deliberative devono essere non troppo piccole né troppo grandi, pensavano i Padri fondatori della democrazia americana. Se troppo piccole non possono più svolgere la loro funzione rappresentativa degli interessi più numerosi e diversi e inoltre possono facilmente dar luogo a unanimismi pericolosi o a "cabale" di fazioni. Se troppo grandi non possono svolgere efficacemente la funzione deliberativa, allungando i tempi di decisione e impedendo maggioranze stabili.

Ma in nessun caso una manciata di rappresentanti è una cosa buona per la democrazia. La politica non va per nulla d'accordo con la semplificazione, una qualità degli apparati burocratici e di chi è chiamato a eseguire ordini e applicare pedissequamente regole che non fa; non è una qualità dei rappresentanti e dei cittadini che contribuiscono a determinare le scelte politiche con la loro diversa e complessa partecipazione. Semplificazione è una qualità per la "governance" ma non per il "government" - la prima è organizzazione di funzioni che mirano a risolvere problemi specifici; ma il secondo è azione politica che solleva problemi, crea agende di discussione e di proposte, mobilita idee e interessi, e infine decide facendo leggi che tutti, non solo chi siede in Parlamento e non solo chi è parte della maggioranza, deve ubbidire.

L'Italia si trova vicinissima a una svolta anti-democratica. L'attacco al Parlamento è un attacco alla divisione dei poteri e per affermare la centralità, anzi, il dominio di un potere sopra tutti: quello dell'esecutivo, che non ama eseguire o dover rendere conto e vuole fare quel che vuol fare senza impedimenti; che vuole fare tutto, legiferare e eseguire e, magari, anche determinare la giustizia. Semplificazione è l'equivalente di potere incontrastato.

Nel 1924, Gaetano Mosca, un conservatore di tutto rispetto, tenne un discorso memorabile nel Parlamento del Regno. Lui, che aveva sviluppato la teoria forse più corrosiva della democrazia sostenendo, con il soccorso della storia, che quale che sia la forma di governo, tutti i governi hanno come scopo evidente quello di formare e selezionare la classe politica. Che siano le guerre o le elezioni dipende dal tipo di organizzazione sociale, dalle forme di espansione e arricchimento, forme che possono essere violente e dirette oppure pacifiche e per vie di commercio.

Nella moderna società di mercato, sosteneva Mosca, l'elezione e l'opinione sono forme più funzionali alla selezione della classe dirigente. Ebbene, questo critico dell'ideologia democratica e parlamentaristica, alla vigilia della fine delle libertà politiche e del parlamentarismo liberale, si schierò in Parlamento in difesa di quella istituzione, di quella forma democratica di selezione della classe politica e di governo. Non luogo in cui si perdeva tempo a chiacchierare o un "bivacco" come Benito Mussolini lo chiamava, ma istituzione di controllo e di monitoraggio senza la quale nessun cittadino poteva più sentirsi sicuro. Tra i conservatori di oggi, tra i moderati (se ancora ce ne sono) chi avrà la stessa saggezza o lo stesso coraggio del conservatore liberale Mosca? La difesa del sistema parlamentare non è una questione che interessa o deve interessare solo l'opposizione. Tutti, tutti indistintamente dovrebbero comprendere il rischio che una società corre quando chi è stato eletto per governare con il sostegno del Parlamento cerca di gover

l’Unità

Attacco al Parlamento:

«È inutile, persino dannoso»

di Bianca Di Giovanni

Berlusconi arringa all’Assemblea di Confindustria, contro Parlamento e magistratura. I deputati paragonati ai capponi, i giudici «estremisti di sinistra». Il premier: dobbiamo fare la rivoluzione. La platea applaude.

Quando sale sul palco sembra un felino pronto al balzo. Quella è la «sua» casa, la Confindustria, davanti a lui i «suoi» ministri, poi le «sue» telecamere schierate, persino la sua famiglia (Marina è seduta in seconda fila, tra De Benedetti e Confalonieri). L’occasione è imperdibile. Così all’Assemblea annuale degli imprenditori tenuta ieri all’Auditorium di Roma Silvio Berlusconi offre il meglio del suo repertorio. Parte dalle veline (irritando Emma Marcegaglia) per finire con l’attacco al Parlamento («pletorico e inutile») e poi ai giudici (tutti «estremisti di sinistra»). L’affondo è senza freni, ma il premier si autogiustifica: «sono esacerbato e voglio dichiarare pubblicamente la mia indignazione». Lo stile è quello della prima discesa in campo: Berlusconi è l’Uomo Nuovo che travolge istituzioni e organismi democratici, come farebbe una rivoluzione di popolo. D’altronde lo confessa lui stesso, davanti a una platea rapita: «Ci siamo resi conto che è più facile fare le rivoluzioni che le riforme». Troppi i vincoli, troppi i veti (come quelli sull’ambiente, le costruzioni, il piano casa) troppe le lungaggini (come le direttive europee): meglio ricostruire una nuova Italia Berlusconiana.

Classe dirigente e istituzioni

Il primo a reagire è Gianfranco Fini. Quell’attacco al Parlamento appare feroce e irridente. Il premier si fa beffe dei parlamentari, definiti come i capponi o i tacchini «che certo non anticipano il Natale». Votano senza capire, seguendo i segnali del capogruppo. Il pollice in alto per dire sì, in basso per dire no, a mezz’aria per astenersi. Il premier mima come in una sorta di balletto, che somiglia molto al circo Barnum. La platea ammicca, sorride, ci scherza su. Applaude a più riprese, anche con qualche boato di approvazione. Sul Parlamento europeo il sarcasmo è ancora più duro. «Ci sono parlamentari che non si vedono mai, perché sono imprenditori, sono professionisti, hanno cose più importanti da fare - spiega - che stare lì per un giorno con le mani dentro la scatoletta del voto e votare cose che nessuno può sapere cosa sono». Il parlamento di Strasburgo non serve a nulla: non decide niente. La politica finisce sotto scacco e gli industriali gongolano. Il premier-imprenditore tira bordate e la platea si scalda. «Siamo in una fase di deformazione della Costituzione - commenta con amarezza Pier Luigi Bersani - Sarebbe molto importante che questa percezione ce l'avesse la classe dirigente riunita in parte oggi qui all'Auditorium. preservare la Costituzione non è solo compito dell'opposizione ma anche della classe dirigente e purtroppo i riferendosi agli applausi della platea l'impressione non è tranquillizzante».

Giudici

Con i magistrati sul caso Mills è un vero corpo a corpo, quasi fisico. «Ho detto che è una sentenza scandalosa - dichiara - perché la realtà è l’esatto contrario di quanto scritto dai giudici». Poi si consente una spiegazione dei fatti, ovviamente opposta a quella ricostruita dai giudici milanesi. Il problema è che c’è un magistrato dichiaratamente di sinistra. «Credo che nessuno - spiega - accetterebbe Mourinho arbitro designato per la partita Milan-Inter, con tutto il rispetto per Mourinho». Per questo il centrodestra farà la sua riforma: con i pm «costretti a recarsi dal giudice con il cappello in mano e dando del lei». Anche in questo caso (come in quello del Parlamento) il suo governo è pronto a cambiare le cose, a fare le riforme rivoluzionarie che il popoloc hiede. «C'è tutto il mio impegno a riformare la giustizia penale e separare le funzioni». Il tempo stringe, quello che doveva essere un saluto breve («non voglio dire nulla - aveva esordito - perché sono d’accordo su tutto») è diventato un comizio travolgente. Da uomo di spettacolo, si capisce che il premier cerca l’applauso finale. Così, attaccando i giudici sul caso Mills, si fa portavoce di tutti gli italiani incappati nella giustizia ingiusta. «Fin quando attaccano me, che ho le spalle larghe, va bene - dice - Ma pensate a un semplice cittadino». E qui scatta l’applauso, lungo e sentito. È fatta: il suo popolo è con lui.

il manifesto

Ci siamo dentro

di Gabriele Polo

«L'Italia è una Repubblica aziendale, fondata sui Consigli d'amministrazione. La sovranità appartiene al governo, che la esercita nelle forme stabilite dal premier». L'articolo uno è già pronto, poi non c'è più nulla: la Costituzione sognata dal Cavaliere potrebbe finire lì, tutto il resto viene di conseguenza. Anche una bella botta alla magistratura, che - almeno stando all'applausometro confindustriale - risulta molto gradita alle imprese: chissà quanti inquisiti, oltre al premier, riempivano ieri la sala del plenum padronale.

Riforme radicali e definitive, magari piacerebbero anche alla brava Marcegaglia, che per il momento si accontenta di chiedere meno: meno vincoli, meno stato, meno spesa pubblica. Berlusconi, invece, non si accontenta mai. Non si limita a elencare tutto ciò che il suo governo ha fatto per le aziende, a ribadire il mito del mercato, a sentenziare che il capitale è tutto mentre il lavoro è niente, con quel che ne consegue e ne seguirà in leggi, decreti, risorse. Non si contiene, non ci riesce proprio. E, allora, basta con un Parlamento affollato di «capponi» e con giudici «d'estrema sinistra». Per non parlare di «certa stampa»; ma su quella aveva già detto e fatto tutto il giorno prima, con insulti e nomine Rai.

Certo, il premier è un po' nervoso: che alcuni maschi non lo amino, passi. Ma che ci siano delle donne - mogli, giornaliste, giudici - che rifiutino le sue seduzioni, gli risulta insopportabile. Certo, la campagna elettorale si presta ai toni alti, soprattutto quando l'obiettivo è il plebiscito. Però l'escalation di violenza con cui la destra («il papi» in testa) è passata all'attacco è davvero impressionante e fa pensare a un piano più che a un accadimento. Nel giro di poche settimane i dipendenti pubblici sono stati bollati di fannullonaggine, il Presidente della Repubblica trattato da vecchio arnese, l'Onu declassata a ente inutile, gli studenti elevati a pericolosi sovversivi. Su «certi» giornalisti, magistrati «rossi», sindacalisti non proni, un continuo tormentone d'insulti e minacce. L'attacco al Parlamento «pletorico e dannoso» non è altro che un tirar le fila per chiudere il cerchio di un disegno politico che le elezioni europee di giugno - ridotte a sondaggio Mediaset - sono chiamate a ratificare. Nella sottovalutazione di buona parte dei media e nell'assenza di qualunque risposta politica.

Qualche settimana fa un'autorevole giornalista vicina al Pd ci apostrofò dicendo che «solo il manifesto può pensare che ci sia un regime alle porte». Aveva ragione. Non è alle porte, ci siamo già dentro.

il manifesto

Emergenza democratica

di Gaetano Azzariti

La cultura costituzionale del nostro paese è sotto attacco. Ormai non possiamo più far finta di non vedere che si tratta di un aggressione che mira direttamente alle fondamenta del nostro vivere civile. Non è solo la «naturale» tendenza dei potenti a sfuggire alle regole del diritto e ai limiti che la divisione dei poteri gli impone; si tratta di qualcosa di diverso e più sottilmente distruttivo. E' una visione del mondo che tenta di affermarsi in Italia e per far questo deve sconfiggere il sistema istituzionale definito in Costituzione.

Chiarissimi sono anche i modelli a confronto: da un lato - sotto assedio - quello proprio delle democrazie costituzionali occidentali. Dall'altro - promosso, idealizzato e immedesimato organicamente dal nostro Presidente del Consiglio - quello industriale. La cultura «del fare» che di democratico non può avere nulla, poiché non pensa che a produrre risultati, non certo a governare il demos.

Ieri lo scontro tra culture si è materializzato nel modo più plastico ed evidente. In nessun paese democratico si sarebbe potuto immaginare di potere udire un esponente politico pronunciare la seguente frase: «Avete un governo che per la prima volta è retto da un imprenditore e da una squadra di ministri che sembrano membri di un Cda per la loro efficienza. Dobbiamo però fare i conti con una legislazione da ammodernare perché il premier non ha praticamente nessun potere e dovremo arrivare a un disegno di legge d'iniziativa popolare perché non si può chiedere ai capponi e ai tacchini di anticipare il Natale». C'è tutto il conflitto in atto in questa frase che esprime il vanto per un governo che anziché rispondere al Parlamento si arroga il diritto di fare, perseguendo interessi di natura imprenditoriale, rivendicando una legittimazione esclusivamente di natura populista. Ma ciò che appare terribilmente inquietante è l'indicazione del nemico: l'organo della rappresentanza popolare, da abbattere poiché ostacola l'affermarsi del nuovo «sovrano-imprenditore». Il nemico è dunque la democrazia per come c'è stata tramandata dal costituzionalismo moderno.

Troppo spesso si sono sottovalutate le affermazioni allegre e poco meditate del Cavaliere, le cui «battute» sono diventate una sua personale strategia politica e della «smentita» ha fatto un'arte di governo. In questo caso non è così. L'attacco alla democrazia costituzionale esprime il più profondo senso del berlusconismo. Lo dimostra la conseguenza che egli stesso trae dall'analisi di un Parlamento da «accapponare». Berlusconi rivendica a se tutti i poteri che la costituzione affida al Parlamento. Per far vincere la cultura dell'impresa e definitivamente sconfiggere la democrazia costituzionale. Credo sia venuto il tempo di dichiarare l'emergenza. Ci fu un tempo in cui di fronte alle pretese eversive del sovrano un Parlamento seppe reagire, scelse un nuovo governante e affermò la democrazia costituzionale: correva l'anno 1689. Quella rivoluzione fu «gloriosa». A noi che rimane?

la Repubblica

E l´imprenditore applaude

di Massimo Giannini

Il microfono di un´associazione economica trasfigurato nel megafono di un comizio politico. Un importante appuntamento istituzionale svilito a «pronunciamento» sommario. Contro i giudici, «estremisti di sinistra» e «vera patologia della nostra democrazia». Contro il Parlamento, organo «pletorico, inutile e controproducente». Anche a questa torsione "rivoluzionaria" ci è toccato assistere, nei giorni più cupi e livorosi della deriva vagamente caudillista di Silvio Berlusconi.

Il presidente del Consiglio si è presentato agli imprenditori non per spiegare quello che lui può fare per risolvere i loro problemi: contrastare la recessione, rilanciare la domanda, finanziare gli investimenti. Ma per annunciare quello che magistrati e parlamentari dovrebbero fare per risolvere i suoi problemi: obbedire, tacere, sparire.

«Non ci fermeremo fino a quando non avremo diviso l´ordine dei giudicanti dall´ordine degli accusatori», annuncia il Cavaliere. «Alla Camera si sta tutto il giorno senza far niente, con le mani nella scatola del voto, a obbedire agli ordini del capogruppo», aggiunge. Ed è deprimente, oltre al fatto in sé, che di fronte a queste iraconde tirate populiste sia costretto a intervenire il Quirinale, per ricordare che sul Lodo Alfano l´unico "dominus" è la Consulta, e si trovino a protestare solo il sindacato delle toghe e il presidente della Camera Fini. La platea degli industriali, viceversa, non reagisce, non obietta. Non prende le distanze da un "collega" che, in base a una sentenza di primo grado, è stato giudicato colpevole per aver corrotto un teste in processi per falso in bilancio, fondi neri, evasione fiscale. Comportamenti che chiunque viva in azienda non può non biasimare, perché negano il mercato e alterano la concorrenza.

Anzi, di fronte a tutto questo accade l´impensabile: invece di mostrare insofferenza verso un primo ministro che urla la sua violenta requisitoria in un Auditorium invece di riferire in Parlamento come la Costituzione gli imporrebbe, proprio quella platea si scioglie in applausi. Metà complici, metà quiescenti. Così, in quell´abbraccio finale solo lievemente imbarazzato con Emma Marcegaglia, il premier vede realizzata la più estrema e innaturale delle metamorfosi: anche la Confindustria è trasformata in una "provincia" dell´Impero delle Libertà. E anche la sua leader, in base alla collaudata e malintesa idea di "galanteria" dell´Imperatore, può essere annoverata scherzosamente (ma scandalosamente) nella già folta schiera delle "veline".

Ed è poi questo, al fondo, l´altro "scandalo" di questa assemblea annuale. L´"Anschluss" berlusconiano della Confindustria, che la dice lunga sull´etica della responsabilità dell´establishment e il civismo della cosiddetta "borghesia produttiva", avviene malgrado una relazione della Marcegaglia non proprio tenera nei confronti del governo. Nella fotografia nitida e niente affatto edulcorata della crisi economica vissuta dall´Italia, che nessuna pennellata di vacuo ottimismo di regime può offuscare. Nell´indicazione dei tanti punti di debolezza del Sistema-Paese, che i piani faraonici annunciati e riannunciati da questo o quel ministro non possono eliminare. Nella denuncia delle tante liberalizzazioni scomparse dall´agenda, che nessuna promessa pre-elettorale può far ricomparire. Nel riconoscimento della "coesione sociale" e del ruolo della Cgil, che troppi fermenti ideologici tardo-craxiani hanno disconosciuto attraverso la pratica dissennata degli accordi separati.

Persino nell´esaltazione della "società multietnica come valore", che nessun vaneggiamento xenofobo neo-leghista può cancellare, per chi facendo impresa al Nord si trova ogni giorno fianco a fianco, in fabbrica, con i lavoratori extra-comunitari.

Certo, la Marcegaglia è troppo generosa sulla strumentazione di sussidio ai disoccupati messa in campo dall´esecutivo, e non dice che 2 lavoratori su 5, nel nostro sistema di ammortizzatori sociali, resta tuttora senza garanzie. E troppo clemente sullo stato dei conti pubblici, riconoscendo a Tremonti una «barra del timone dritta» proprio mentre il Paese sta gravemente perdendo la rotta sul deficit, il debito pubblico e l´avanzo primario.

E fin troppo entusiasta del "coraggio" di Brunetta, di cui per ora c´è più traccia sulla carta intestata del dicastero che non nell´efficienza della Pubblica Amministrazione. Ma in quell´appello finale, rivolto direttamente al presidente del Consiglio, ci sarebbe anche una teorica sfida: «Lei che ha un mandato forte e un consenso straordinario, li usi per fare le vere riforme di cui questo Paese ha urgente bisogno». Non li usi invece per sfasciare le istituzioni, per scardinare i poteri dello Stato, per blindare la sua avventura politica in una dimensione neanche più "post", ma ormai, temiamo, quasi "extra" democratica. Sarebbe stato bello se la sfida della Marcegaglia avesse abbracciato anche questa seconda parte di ragionamento. Purtroppo si è fermata alla prima parte. E anche questo, purtroppo, è un prezzo pagato all´"annessione" berlusconiana.

Silvio Berlusconi ha scelto il momento più favorevole alla sua politica spregiudicata per attaccare la stampa italiana: tutti i giornali italiani, nessuno escluso, stanno facendo la fila a Palazzo Chigi per ottenere aiuti di stato e il premier, nella sua infinita scaltrezza, farà pesare non poco il suo potere di selezione dei buoni e dei cattivi. Gli unici che non protestano per i continui attacchi del premier, a differenza dei magistrati, sono i giornalisti, ormai assuefatti all'arroganza del primo ministro. Si è sentita una debole protesta della Fnsi ma ancora nessun editorialista o direttore ha speso una parola per protestare contro la pretesa del capo del governo di ottenere un'impunità permanente.

D'altronde i quotidiani vivono in questo momento una situazione di fortissima debolezza e non si possono permettere di alzare più di tanto la voce. Se infatti si da uno sguardo ai grandi quotidiani la situazione è davvero drammatica, soprattutto per il fatto che la fonte di introiti pubblicitari, quella che ha da sempre consentito di evitare gli aiuti di stato, è tragicamente ridotta. Basta guardare qualche cifra sul fatturato pubblicitario pubblicata da primaonline, l'edizione internet di Prima Comunicazione, riferita al mese di marzo 2009. Il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale ha registrato nel mese di marzo 2009 un andamento in flessione rispetto allo stesso mese del 2008 (-26%). Questo dato è la conseguenza di andamenti diversi all’interno dei mezzi stampa rilevati. I quotidiani in generale hanno registrato una diminuzione di fatturato del -23% ed una diminuzione degli spazi del -10%. La tipologia commerciale nazionale ha registrato un -29% a fatturato ed un -5% a spazio. La tipologia di Servizio ha visto un -24% a fatturato e un -10% a spazio. La tipologia rubricata ha segnato un calo del -11% a fatturato e del -13% a spazio. La pubblicità commerciale locale ha ottenuto un -17% a fatturato ed un -11% a spazio. I quotidiani a pagamento hanno registrato un andamento simile a quello dei quotidiani in generale. I quotidiani Free Press hanno segnato andamenti in calo per fatturato (-30%) e spazio (-15%). Diminuisce del 34% il fatturato della commerciale nazionale e del 19% quello della locale, mentre gli spazi registrano un arretramento rispettivamente del 20 e del 12%. I periodici in generale hanno registrato un fatturato in diminuzione rispetto allo stesso mese del 2008 (-31%) ed un calo degli spazi (-26%). I settimanali hanno ottenuto delle variazioni negative sia per fatturato (-35%) sia per spazio (-29%. Per i mensili si registra una diminuzione di fatturato del -28% e un calo degli spazi del 23%. Se questo è il quadro del mercato pubblicitario dal fronte delle vendite non arrivano notizie rassicuranti. I grandi quotidiani perdono in media 100.000 copie. E' di pochi giorni fa il dato pubblicato dal Sole 24 ore: il quotidiano confindustriale è sceso a 290.000 copie contro le 340 mila copie di qualche mese fa. Ancora più drammatiche le notizie che arrivano da Repubblica e il Corriere della Sera, dove i cdr lavorano ormai a tempo pieno per gestire gli stati di crisi strisciante che toccano soprattutto i precari e i collaboratori. Il taglio delle pagine è ormai un fenomeno generalizzato ma nonostante il risparmio sui costi e la richiesta di Cig non si intravede ancora un'inversione di tendenza.

Con il voto di fiducia sul pacchetto sicurezza il Parlamento è stato espropriato della libertà di coscienza su un tema molto delicato che riguarda la vita di uomini, donne e bambini.

Il disegno di legge sulla sicurezza approvato dalla Camera con il voto di fiducia (evidentemente nella maggioranza c’è qualche "mal di pancia"), si intreccia con i respingimenti dei clandestini verso la Libia, ignorando i più elementari diritti d’asilo di chi fugge da guerra, tortura e, spesso, da una condanna a morte. Che ne sarà di questa gente una volta fatta sbarcare sul suolo libico, in un Paese che non riconosce le convenzioni internazionali sui rifugiati?

Perché l’Italia, da sempre considerata la culla del diritto e della civiltà giuridica, Paese di profonde radici cristiane, antepone qualsiasi esigenza di sicurezza (vera o fittizia) ai diritti inalienabili dell’uomo? Sarebbe stata molto più efficace una seria politica di programmazione dei flussi e di sanatorie per regolarizzare quegli stranieri già inseriti nella società, come le badanti, che svolgono un ruolo prezioso e, molto spesso, insostituibile.

L’auspicio è che i senatori, nell’esaminare il testo che ora approda a Palazzo Madama, siano più lungimiranti dei loro colleghi di Montecitorio, e tengano presenti le osservazioni dell’Onu, togliendo il sigillo xenofobo che una minoranza politica ha imposto al Paese. Il disegno di legge ha già suscitato le reazioni negative della comunità ecclesiale, dell’associazionismo cattolico, dalle Acli alla Caritas a Sant’Egidio. Padre Gianromano Gnesotto, direttore dell’Ufficio per la pastorale degli immigrati della Cei, ha detto che con l’introduzione del reato di clandestinità il disegno di legge non favorisce l’integrazione e l’inserimento degli stranieri. Anche monsignor Marchetto, presidente del Pontificio consiglio dei migranti, ha sottolineato il "peccato originale" del reato di clandestinità. La criminalizzazione dello straniero darà vita alla creazione di cittadini di serie B, compromettendo gravemente i loro diritti alla salute, all’istruzione e a molti altri diritti fondamentali, lasciandoli preda di una possibile denuncia da parte di chi riveste un ruolo di pubblico ufficiale: infermieri, medici, insegnanti... Coniugare accoglienza e rispetto della legalità è la raccomandazione che, da mesi, fa l’episcopato italiano, per bocca dei suoi massimi esponenti.

Grandi preoccupazioni sorgono per le difficoltà al riconoscimento dei figli nati in Italia da madri clandestine senza passaporto, i cosiddetti "bambini invisibili", liquidate frettolosamente come "panzane" o "stupidaggini" da esponenti del Governo. In realtà è un problema reale che rischia di farci scivolare nella barbarie.

Problema sollevato anche dall’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza e dalla Caritas. Monsignor Domenico Sigalini, segretario della Commissione per le migrazioni della Cei, ha ribadito che «l’accoglienza non è né di destra né di sinistra, è di tutti» e che «la famiglia va sempre salvaguardata così come il diritto alla salute».

Lo "stigma" del reato di clandestinità crea le condizioni perché i migranti vengano messi fuori dal consorzio umano. Si continua ad attizzare il fuoco della paura, tutto per una manciata di voti in più. Abbiamo trasformato il migrante in "diverso", in nemico. La deriva xenofoba che sta prendendo piede in Italia dovrebbe preoccupare tutti, i cattolici in particolare.

Come ha sottolineato don Giancarlo Quadri, responsabile della pastorale dei migranti della diocesi di Milano, l’indifferenza e il gelo della chiusura soffiano anche nelle parrocchie. Possibile che i cattolici facciano prevalere la paura e un "pacchetto propaganda" sui princìpi evangelici?

È giusto ricordare che, se Silvio Berlusconi non si fosse fabbricato l’immunità con la "legge Alfano", sarebbe stato condannato come corruttore di un testimone che ha protetto dinanzi ai giudici le illegalità del patron della Fininvest. Condizione non nuova per Berlusconi, salvato in altre occasioni da norme che egli stesso si è fatto approvare da un parlamento gregario.

Le leggi ad personam, è vero, sono un lacerto dell’anomalia italiana che trova il suo perno nel conflitto di interessi, ma la legislazione immunitaria del premier è soltanto un segmento della questione che oggi l’Italia e l’Europa hanno davanti agli occhi. Le ragioni della condanna di David Mills (il testimone corrotto dal capo del governo) chiamano in causa anche altro, come ha sempre avuto chiaro anche il presidente del consiglio. Nel corso del tempo, il premier ha affrontato il caso "All Iberian/Mills" con parole definitive, con impegni che, se fosse coerente, oggi appaiono temerari: «Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l’esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario» (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15,17).

Nove anni dopo, Berlusconi è a Bruxelles, al vertice europeo dei capi di Stato e di governo. Ripete: «Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l’Italia» (Il sole24ore.com; Ansa, 20 giugno 2008, ore 15,47). È stato lo stesso Berlusconi a intrecciare consapevolmente in un unico destino il suo futuro di leader politico, «responsabile di fronte agli elettori», e il suo passato di imprenditore di successo. Quindi, ancora una volta, creando un confine indefinibile tra pubblico e privato. Se ne comprende il motivo perché, nell’ideologia del premier, il suo successo personale è insieme la promessa di sviluppo del Paese. I suoi soldi sono la garanzia della sua politica; sono il canone ineliminabile della «società dell’incanto» che lo beatifica; quasi la condizione necessaria della continua performance spettacolare che sovrappone ricchezza e infallibilità.

Otto anni fa questo giornale, dando conto di un documento di una società internazionale di revisione contabile (Kpmg) che svelava l’esistenza di un «comparto estero riservato della Fininvest», chiedeva al premier di rispondere a qualche domanda «non giudiziaria, tanto meno penale, neppure contabile: soltanto di buon senso. Perché questi segreti, e questi misteri? Perché questo traffico riservato e nascosto? Perché questo muoversi nell’ombra? Il vero nucleo politico, ma prima ancora culturale, della questione sta qui perché l’imprenditorialità, l’efficienza, l’homo faber, la costruzione dell’impero ? in una parola, i soldi ? sono il corpo mistico dell’ideologia berlusconiana» (Repubblica, 11 aprile 2001). Berlusconi se la cavò come sempre dandosi alla fuga. Andò a farsi intervistare senza contraddittorio a Porta a porta per dire: «All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità».

La scena oggi è mutata in modo radicale. Se il processo "All Iberian" (condanna e poi prescrizione) aveva concluso in Cassazione che «non emerge negli atti processuali l’estraneità dell’imputato», le motivazioni della sentenza che ha condannato David Mills ci raccontano il coinvolgimento «diretto e personale» di Silvio Berlusconi nella creazione e nella gestione di «64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest». Le creò David Mills per conto e nell’interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mentì in aula per tener lontano Berlusconi dai guai, da quella galassia di cui l’avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio «enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali», come si legge nella sentenza.

È la conclusione che ha reso necessaria l’immunità. Berlusconi temeva questo esito perché, una volta dimostrato il suo governo personale sulle 64 società off-shore, si può oggi dare risposta alle domande di otto anni fa, luce a quasi tutti i misteri della sua avventura imprenditoriale. Si può comprendere come è nato l’impero del Biscione e con quali pratiche. Lungo i sentieri del «group B very discreet della Fininvest» sono transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come «i politici costano molto? ed è in discussione la legge Mammì»). E ancora, il finanziamento estero su estero a favore di Giulio Malgara, presidente dell’Upa (l’associazione che raccoglie gli inserzionisti pubblicitari) e dell’Auditel (la società che rileva gli ascolti televisivi); la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. Sono le connessioni e la memoria che sbriciolano il «corpo mistico» dell’ideologia berlusconiana: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c’è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

Questo è il quadro che dovrebbe convincere Berlusconi ad affrontare con coraggio, in pubblico e in parlamento, la sua crisi di credibilità, la decadenza anche internazionale della sua reputazione. Magari con un colpo d’ala rinunciando all’impunità e accettando un processo rapido. Non accadrà. Il premier non sembra comprendere una necessità che interpella il suo privato e il suo ufficio pubblico, l’immagine stessa del Paese dinanzi al mondo. Prigioniero di un ostinato narcisismo e convinto della sua invincibilità, pensa che un bluff o qualche favola o una nuova nebbia mediatica possano salvarlo ancora una volta. Dice che non si farà processare da questi giudici e sa che non saranno «questi giudici» a processarlo. Sa che non ci sarà, per lui, alcun processo perché l’immunità lo protegge. Come sa che, se la Corte Costituzionale dovesse cancellare per incostituzionalità lo scudo immunitario, le norme sulla prescrizione che si è approvato uccideranno nella culla il processo. Promette che in parlamento «dirà finalmente quel che pensa di certa magistratura», come se non conoscessimo la litania da quindici anni. Finge di non sapere che ci si attende da lui non uno "spettacolo", ma una risposta per le sue manovre corruttive, i metodi delle sue imprese, i sistemi del suo governo autoreferenziale e privatistico. S’aggrappa al solito refrain, «gli italiani sono con me», come se il consenso lo liberasse da ogni vincolo, da ogni dovere, da ogni onere. Soltanto un potere che si ritiene "irresponsabile" può continuare a tacere. Quel che si scorge in Italia oggi? e non soltanto in Italia ? E’ un leader in fuga dalla sua storia, dal suo presente, dalle sue responsabilità. Un leader che non vuole rispondere perché, semplicemente, non può farlo.

«Terra-cielo» nel gergo immobiliare significa villetta unifamiliare, ma è molto più di un sinonimo. È un desiderio di status, è la sintesi kantiana dell´individualismo proprietario: la solida casa attorno a me, il cielo stellato sopra di me. Lo spazio tra mansardina e tavernetta ha plasmato l´immaginario collettivo di una generazione, almeno in una certa fetta del nord peri-metropolitano, almeno in una certa fascia sociale, quella dei ceti affluenti, della classe media in ascesa. Ma in fondo al vialetto di palladiana, dietro il videocitofono, dove t´aspetteresti la serenità del consumismo realizzato, scopri le angosce insensate, il dolore vuoto.

I mali palesi delle periferie degradate sono ogni giorno sulle cronache. Il male oscuro dell´hinterland del benessere, serve l´occhio di un urbanista dell´interiorità per raccontarlo. Ce l´ha fatta Giorgio Falco, scrittore vigevanese quarantenne al suo secondo libro: L´ubicazione del bene (Einaudi, euro 16). Già il titolo, rubato al frasario catastale, è un piccolo capolavoro. Il bene è quello immobiliare ma anche quello morale, entrambi hanno un luogo raggiungibile, acquistabile, una superficie abitabile, tripliservizi, verandina, venti metriquadri di giardino, doppio box; il bene nella vita è dunque ubicato da qualche parte, basta un rogito e la felicità sarà raggiunta, i figli cresceranno «in un contesto migliore», in un «centro abitato a misura d´uomo» a «soli quindici minuti dal centro».

Ma a Cortesforza, paradiso di villette dove s´intrecciano le disperate storie che racconta Falco, il «bene» non c´è. Non c´è neanche il suo contrario, se immaginiamo il male solo come ferocia, dramma, cattiveria. Ci sono invece la dissoluzione lenta e inspiegabile dei legami familiari, lo svanimento degli affetti, la frana senza spiegazione delle speranze, l´insoddisfazione a bassa intensità, l´«infelicità senza desideri» che evocò Peter Handke. Coppie che non hanno il coraggio di lasciarsi, azzardi imprenditoriali finiti male, lampi di follia, weekend annoiati, cinismo quotidiano. Giovanna, borderline, metterà il cane nel forno, Graziella fa cremare il suo, «lui» e «lei» senza nome litigano sulle pulci del loro. Il signor Moriero da 46 anni prende a pugni in testa la moglie. Perché? Non c´è un perché.

Non c´è neanche Cortesforza, ovviamente, è un paese letterario, però è «ubicato» sulla statale 494 tra Abbiategrasso e Vermezzo, e non poteva essere molto lontano da lì. La suburbitudine diagnosticata con fredda pietà da Falco non poteva manifestarsi a Centocelle, a Secondigliano o allo Zen, dove i mali hanno un nome e in fondo anche uno scopo ben concreto. È invece una malattia del nord, è la sua depressione clinica, è la fase terminale di una storia che aveva nomi entusiasti quando esplose (yuppismo, "Milano da bere") e che ora che è nei guai chiamiamo "questione settentrionale". Ma qui la recessione mondiale c´entra poco, la crisi di Malpensa e i pasticci dell´Expo sono solo la schiuma. È sotto, molto sotto la tavernetta, che i pilastri di cemento della società nordista sembrano corrosi da una ruggine morale di svogliatezza e perdita di senso.

Non è storia inedita. Dell´emarginazione benestante s´erano già accorti scrittori come Carver, registi come Altman, fotografi come Owens. Negli Usa la civiltà della villetta conta un secolo di vita, è tutt´uno con l´american way, con la cultura dell´automobile, col mito ultrafamilista della middle-class; affonda le sue radici nel profondo e paradossale anti-urbanesimo di quel paese, e conosce solo due alternative, entrambe radicali: i loft dei ricchissimi, gli slum dei poverissimi. In Italia, paese di civiltà urbana secolare, la scelta periurbana è recente, timida, stimolata dalla speculazione edilizia. L´auto-deportazione dei ceti emergenti negli anni Ottanta è stata un fenomeno indotto, largamente artificiale, avviato prima che una cultura della socialità da hinterland si potesse consolidare. Al suo posto, la precaria compensazione degli oggetti: le auto monovolume e station wagon, la finta rusticità degli arredi da giardino e dei prati in rotolo, la superficiale confidenza da cancello scolastico tra le mamme, gli animali da compagnia (quanti animali, vittime o crudele specchio dei loro padroni, negli interstizi delle storie di questo libro).

Ma più che darci una versione all´italiana delle atmosfere americane, Falco, forse inconsapevolmente, ha aggiornato una letteratura a volte dimenticata e tutta nostra. Quella che un secolo fa, per la penna di autori maggiori e minori, da Tozzi a Svevo, raccontò la nascita e la precoce crisi morale di un altro ceto medio: i travet, le mezzemaniche, gli impiegati. Anche il loro «bene» era «ubicato» sulla mappa della città: nei quartieri di mezzo, nelle palazzine che si sforzavano disperatamente di distinguersi con qualche "dignitoso" orpello di stucco dai casermoni di ringhiera del proletariato industriale. Anche a loro mancò un piano regolatore dell´anima.

I regimi liberi non danno la certezza di buone decisioni, ma solo quella di poterle cambiare senza distruggere tutto. E, nonostante resista il diritto di voto, senza il controllo dei giornali, essi sono gravemente in pericolo Nella strategia di autodifesa è fondamentale la protezione di quel potere informale e insensibile che è il giudizio pubblico

La democrazia non ha un altrove nel senso che i suoi fondamenti non stanno fuori o al di sopra di essa e nel senso che in nessun altro sistema come in questo è cruciale che mezzi e fini non siano in disaccordo. È questo il senso della massima che Alexis de Tocqueville ricavò dal suo viaggio in America: la democrazia non ci dà la certezza di ottime o anche buone decisioni (spesso anzi le sue decisioni sono pessime); ciò che ci dà è la certezza di poter emendare e cambiare quelle decisioni senza il rischio o il bisogno di revocare l´ordine politico. In questo senso quello democratico è un sistema che ha dentro di sé il suo punto archimedeo, che non ha un altrove. Tuttavia, solo la democrazia rappresentativa è riuscita a realizzare la massima di Tocqueville e a vanificare i suoi nemici. Il demos ateniese non è mai riuscito a incorporare gli oligarchi e l´anti-democrazia ha condizionato la sua identità ideologica e istituzionale. (...)

La democrazia dichiarava la propria autorità oltre l´imperium; dichiarava che fuori di essa non c´era ordine legittimo e che la sua legittimità era etica non solo istituzionale. Questo scopo, le democrazie moderne lo hanno raggiunto scrivendo costituzioni, costruendo le loro istituzioni su premesse che tutti nella condizione ipotetica dell´atto fondativo possono comprendere e accettare: come scrisse Hannah Arendt in On Revolution, i Padri fondatori americani pensarono al loro ordine in termini di eternità non di una temporalità definita. Seguendo questo stesso criterio, John Rawls ha congetturato la posizione originaria sub specie aeternitatis. (...)

La collocazione dei pochi è il problema. Lo aveva ben compreso Niccoló Machiavelli, quando nei Discorsi ricordava ai nemici del governo della multitudine che non sono i molti ad avere il desiderio di esercitare il potere e prendere parte attiva alla politica, ma i pochi. Ai molti è bastante sapere di essere sicuri nella libertà personale, nei possessi e nella tranquillità domestica e del lavoro. Essere non dominati è per i molti sufficiente. Ma non lo è per i pochi o i grandi. Questi devono poter soddisfare la loro passione per il potere; e i buoni ordini, ammoniva Machiavelli, sono quelli che sanno contenere l´hybris dei pochi attraverso un sistema di controllo e di partecipazione che coinvolga i molti; o, per ripetere James Madison, attraverso i checks and balances e la rappresentanza.

Se, come ha con chiarezza analitica dimostrato Robert Dahl, i pochi, non i molti sono il problema, allora sembra legittimo pensare che i moderni siano riusciti a vincere la loro battaglia contro i nemici politici della democrazia meglio degli antichi. La loro strategia vincente è stata, più ancora che la costituzione scritta (che, come ben sappiamo, può essere ignorata e violata), la rappresentanza. Perché, come ben compresero i federalisti americani, essa soddisfa l´interesse dei molti a controllare e quello dei pochi a non vedersi fatalmente in minoranza.

Il potere deterrente delle elezioni sta nel fatto che esse hanno la capacità di stimolare attivismo decisionale in coloro che possono essere resi responsabili (accountable): nei rappresentanti cioè, non nei cittadini. I politici eletti sono sufficientemente controllati, dice la teoria elettoralistica della democrazia, dalla preoccupazione dei sondaggi e dal desiderio di essere rieletti. Ecco perché, come ha osservato Giovanni Sartori, «una volta che ammettiamo il bisogno di elezioni, minimizziamo la democrazia per la semplice ragione che riconosciamo che il demos non riesce da se stesso a far funzionare il sistema politico». Il meccanismo elettorale rende la partecipazione diretta inessenziale per il funzionamento e la sicurezza delle istituzioni. Tuttavia, la politica democratica non è solo partecipazione diretta.

Dunque, con la rappresentanza, i pochi hanno trovato la loro collocazione e ciò ha contribuito a stabilizzare la democrazia. La differenza tra antichi e moderni è qui notevole. Perché le nostre costituzioni sono riuscite a preodinare, regolandole, tutte le forme di dissenso e a rendere la lotta per il potere una strategia stabilizzante. (...) Sembra dunque di poter dire che la democrazia moderna non ha più nemici perché è riuscita a renderli parte del giuoco politico. Vista da questa angolatura, la rappresentanza non è una violazione della democrazia, ma invece il mezzo che l´ha rafforzata liberandola da quell´antitesi radicale che per secoli l´ha tenuta sotto scacco ? moderando non solo o tanto il potere dei molti ma in modo particolare quello dei pochi. (...)

Alcune costituzioni sono più attrezzate di altre. L´articolo 5 della Costituzione della Repubblica federale tedesca dichiara che «ognuno ha diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni con parole, scritti e immagini, e di informarsi senza impedimento attraverso fonti accessibili a tutti». La nostra Costituzione non è altrettanto esplicita nel proclamare la libertà dei cittadini di essere informati, benché l´evoluzione della nostra giurisprudenza (anche grazie allo stimolo di quella comunitaria) è andata nella direzione dell´affermazione della libertà di informazione, sia come libertà di esprimere opinioni che come diritto a essere informati (una libertà che leggi improvvide hanno vanificato permettendo la formazione di fatto di un sistema di monopolio privato dell´informazione e non liberando il servizio radiotelevisivo pubblico dal dominio del parlamento e quindi della maggioranza).

L´informazione mette in atto due forme di libertà: quella civile o dell´individuo e quella politica o del cittadino. Essa sta insieme al processo di formazione dell´opinione: come cittadini democratici abbiamo bisogno di sapere per poterci formare un´opinione e decidere; e abbiamo bisogno di sapere per controllare chi decide. Diceva Thomas Jefferson che è preferibile una società senza governo ma con molti giornali a una con un governo ma senza giornali.

L´informazione è un bene pubblico come la libertà e il diritto (e come libertà e diritto non è a discrezione della maggioranza); un bene del cittadino, non soltanto dell´individuo. È soprattutto un bene che ci consente di avere altri beni: di monitorare il potere costituito, di svelare ciò che esso tende a voler tener segreto. L´informazione fa parte perciò dell´onorata tradizione dei poteri negativi o di controllo, anche se il suo è un potere indiretto e informale.

Senza questo controllo le democrazie moderne sono a rischio, anche qualora il diritto di voto non sia violato; anche qualora non ci sia più, nemmeno nell´immaginario, l´idea di un altrove rispetto alla democrazia; anche qualora la democrazia non abbia più nemici politici.

il manifesto

Spettri al castello

di Marco Bascetta

Sono in molti, dagli esponenti del Pdl e della Lega a sindacalisti di polizia, a gettare benzina sul focherello di Torino, dopo che le forze dell'ordine hanno risposto con cariche e fermi a una contestazione studentesca a base di gavettoni e uova. E sono pochi, a sinistra, a opporsi a questo clima di intimidazione e istigazione alla repressione contro i manifestanti. C'è da augurarsi che il Pd trovi almeno il coraggio di respingere quella sorta di richiamo all'unità nazionale contro gli studenti dell'Onda che proviene dalla destra. Un insignificante esponente del Pdl, dopo aver agitato a vanvera lo spettro delle banlieues, mette in guardia istituzioni, partiti e sindacati dai «professionisti del conflitto». È l'espressione illuminante di una distanza siderale tra mondi diversi, tra logiche incompatibili. I professionisti di una politica che ha bandito il conflitto e ridotto all'osso i contenuti stessi della dialettica democratica (le cui vuote finzioni continuano invece a prosperare sul piccolo schermo) si specchiano in questi colleghi antagonisti immaginari.

Ciò che nella realtà si va producendo è di segno diametralmente opposto. Il confronto con queste accademie simboliche dei poteri globali, come il G8 sull'università (nei fatti più inconcludenti della più caotica assemblea studentesca) è agito in prima persona da soggettività politiche in movimento, in questo caso gli studenti dell'Onda, scavalcando la mediazione di partiti, sindacati, associazioni, nonché del notabilato altermondialista. Si tratta qui di mettere le retoriche dello sviluppo sostenibile (soprattutto in Europa, che negli Usa qualche elemento di concretezza si lascia vedere) a confronto con lo smantellamento sistematico dell'istruzione pubblica, con la chiusura di interi comparti della ricerca, con lo sfruttamento selvaggio del lavoro precario, con la grettezza di un mondo delle imprese che sul futuro non scommette una lira. Per non parlare di un ceto politico alla ricerca del consenso più immediato e irriflesso, costi quel che costi. A imporlo, questo confronto, sono i soggetti che ne vengono quotidianamente travolti e che hanno sperimentato quanto aspro sia il «conflitto d'interessi» che si svolge nel mondo della formazione e del sapere, che rompono il gioco dell'interesse privato camuffato da bene comune.

Nelle dichiarazioni degli esponenti del governo, nell'infastidita indifferenza del centrosinistra e nel conseguente comportamento delle forze di polizia c'è tutto l'odio delle rappresentanze politiche per quelle forze sociali, politicamente avvertite, che non intendono lasciarsi rappresentare, ma neanche farsi mettere da parte. Contro costoro si agitano irresponsabilmente spettri (anni '70, terrorismo, banlieues in rivolta), si fomentano divisioni, si diffondono paure, si sfoderano i manganelli, come è avvenuto ieri a Torino. Nonostante questo migliaia di studenti arriveranno oggi nel capolugo piemontese, ben più concreti e indipendenti dei tecnocrati accademici asserragliati nel castello del Valentino, chiamati a recitare i mantra della razionalità globale di cui i poteri politici ed economici, una volta esaurita la rappresentazione, allegramente si infischieranno.

la Repubblica

Il deserto delle speranze

di Adriano Prosperi

Si chiama G8 dell'Università . Si svolge in una Torino dove è ancora fresca la memoria della contestazione operaia al Lingotto. Ci saranno anche qui episodi di quel genere? Qualcuno tenterà di gettare giù dalla cattedra un Magnifico Rettore? Un fatto è certo: operai e studenti non sono più uniti come nel '68. Ma li unisce tuttavia un disagio profondo, una difficoltà di vedere la luce oltre il buio della crisi. E la crisi degli studenti ha in comune con quella degli operai questa sensazione di vivere un presente senza futuro.

Verrà qualche risposta da Torino? I segni che vengono da questa città sono importanti per tutta l'Italia. Qui il Primo Maggio 2009 è caduto tra il processo per i sette operai morti nel rogo della Thyssen-Krupp e le notizie dell'avanzata nel mondo della Fiat di Marchionne: una tragedia e una speranza. All'università non ci sono tragedie. O meglio, ce n'è una così grande che non riusciamo quasi a vederla: in questo mondo di giovani non ci sono speranze. C'è la sensazione diffusa di una delusione storica: un gran vento di delusione che frena le nuove leve, fa calare gli iscritti, inaridisce la generosità dei giovani e la loro naturale voglia di cambiare il mondo in un cinismo precocemente senile.

"Se rinasco non mi laureo": parole come queste si leggono spesso nelle confessioni dei giovani sul web: tanti i pentimenti e le frustrazioni per una laurea che non è servita a dare un lavoro soddisfacente. La crisi che morde sul vivo del tessuto sociale fa saltare le illusioni di una promozione sociale legata al titolo di studio. Qui si vive alla giornata sotto la grandine di statistiche tutte deprimenti: calo degli iscritti, calo dei finanziamenti, riduzione dei corsi. A disagio è lo stesso ministro Gelmini che ha dovuto ammettere che i dati Eurostat sulla situazione dell'università italiana e sul numero di giovani laureati nel nostro paese 'non sono particolarmente brillanti e destano forte preoccupazione'. L'Italia, maglia nera nelle statistiche degli investimenti per la scuola e per la ricerca, lo è anche in quelle della percentuale dei laureati.

Naturalmente tutto può essere consentito ad un ministro fuorché la meraviglia davanti agli esiti prevedibili di scelte deliberate. Quello che la finanziaria lampo del ministro Tremonti ha voluto si sta realizzando passo dopo passo. E l'impoverimento delle nostre istituzioni di ricerca e di studio ne è la concreta risultanza. Ma la delusione sociale che circonda la scuola e l'università è un fenomeno che va al di là del contributo di questo governo. È un sintomo importante di un momento critico di passaggio tra l'Italia contadina e analfabeta di ieri e il paese che sconta le sue deficienze profonde nella gara internazionale in atto proprio sul terreno della crescita culturale collettiva. Non c'è giorno in cui il livello di povertà estrema di idee e di valori portati dalle forze dominanti nel paese non si renda evidente al mondo intero. La retorica xenofoba scatenatasi tra i contendenti interni al governo di destra per la conquista dei voti e per l'ormai aperta guerra di successione all'attuale leadership berlusconiana sta creando ogni giorno situazioni grottesche per l'immagine dell'Italia e degli italiani nel mondo intero. Il legame tra forze eterogenee unite oggi dall'obbedienza all'unico leader ma in lotta per la ormai imminente successione è fatto di poche e poverissime parole d'ordine. Spetta oggi a chi si oppone al paese incolto, depresso e corrotto che questo governo rappresenta e alimenta, cominciare a ipotecare il futuro. C'è un'immagine che ha colpito i commentatori americani del rinnovamento della Fiat sotto la direzione di Marchionne: è stato detto che sotto di lui sono stati allontanati tutti quei settori dirigenziali che erano cresciuti a dismisura come un colesterolo a ingombrare le vene dove circola il sangue del lavoro operaio. Qualcosa del genere sarebbe necessario all'università: qui il colesterolo che incrosta la circolazione del sapere e rallenta la crescita intellettuale delle giovani generazioni è costituito dalla crescita di una serie di concrezioni burocratiche alla cui ombra si sono formati centri di potere e di corruzione.

Nella piccola borghesia italiana non si è ancora cancellata l'idea del titolo di studio come carta di accesso al club del privilegio. Mantenere i privilegi in una società formalmente democratica è possibile ad un solo patto: lo svuotamento e la falsificazione delle regole fondamentali del gioco. E se questo accade nella politica e nell'economia del paese, non si vede perché dovrebbe restare indenne la divisione sociale del sapere. Così per garantire al figlio del potente barone della medicina gli stessi privilegi del padre è necessario svuotare di serietà i concorsi, trasformarli nel falso attestato di una gara intellettuale che non c'è stata. La denunzia di questo stato di cose ha riempito le cronache, ma non ha portato a nessun serio cambiamento. Si è parlato molto di riforma delle regole ma questa riforma non è venuta. I segni che se ne conoscono si muovono lungo l'antico tracciato della dominante burocratica che ha soffocato sempre la dinamica creativa degli studi e della ricerca. La riforma che si prepara registra solo qualche aggiustamento destinato a mascherare l'assetto creatosi negli anni in Italia senza modificarlo. E l'assetto è tale da allontanare decisamente l'Italia dal quadro della competizione intellettuale per attirare i migliori e emarginare i pesi morti.

Una volta Giorgio Pasquali si augurò che l'università abbandonasse " l'ipocrisia, che è insieme gioco di bussolotti, dei concorsi". Quel gioco oggi è più pesante e squalificato che mai, almeno da noi. Ma è l'intero mondo universitario italiano a soffrire di un discredito sociale diffuso che lo accomuna nella mentalità corrente agli altri luoghi di potere e di ricchezza - luoghi dove la corruzione è ammessa come un dato incancellabile, una condizione essenziale dello stesso funzionamento normale delle cose. C'è chi dice che la corruzione in Italia è un fenomeno incancellabile, che fa parte del costume o addirittura del Dna degli italiani, che si lega a una storia diversa. A queste valutazioni, frutto del clima depresso e confuso in cui viviamo, bisogna reagire. A chi guarda al futuro della società italiana deve stare sommamente a cuore la funzione viva e vitale dell'università come luogo fino a oggi unico in Italia di trasmissione del sapere e di avvio alla ricerca. E' qui che si gioca una partita decisiva per il paese.

Dalla sessione del G8 dell'università ci aspettiamo uno sguardo severo sulla realtà attuale per tanti aspetti poco rosea della condizione degli studi ma anche la capacità di guardare alle cose con la prospettiva lunga del tempo dei giovani. Anche in Italia l'università è oggi finalmente una realtà di massa. Questo vuol dire che a tutti i livelli sociali e in tutte le regioni del paese l'università è entrata nell'orizzonte del futuro di ogni giovane come una possibilità, come una speranza. Non è più il passaggio obbligato di una minoranza che si trasmette col diploma di laurea un appannaggio di famiglia: o almeno non è più solo questo. Nella scala dei valori sociali quel modo di pensare appartiene al passato.

Saranno state poche decine ad assalire il palco su cui parlava il segretario della Fiom Gianni Rinaldini. Forse non erano nemmeno particolarmente rappresentativi, perché non erano Cobas, confederazione diffusa, ma Slai Cobas. Una formazione nata anni fa da una delle infinite scissioni che affliggono la sinistra sindacale non meno di quella politica. Ed è anche vero che i media hanno ingigantito l´episodio, perché alla fine nessuno si è fatto male, Rinaldini ha potuto riprendere il suo intervento, né vi sono stati altri scontri.

Resta nondimeno la circostanza che chi ha ideato e attuato la contestazione ha commesso alcuni tragici errori. Il primo, e il più intollerabile: è gravissimo che, in una piazza di lavoratori, si impedisca di parlare ad un dirigente della Cgil, il sindacato confederale più grande e più importante del Paese. E´ accaduto solo negli anni più bui della storia italiana, ed è un fatto che non si può e non si deve ripetere oggi. Non solo. Chi ha messo in pratica quella violenza ha fatto sì che i media, a cominciare da quelli di destra, la sera e il giorno dopo parlassero soprattutto del brutto episodio, anziché della importante manifestazione dei lavoratori Fiat preoccupati per il futuro. Ha risvegliato in un´ampia fascia di opinione pubblica, già condizionata dall´attacco che la destra al governo porta al sindacato ormai da un quindicennio, lo spettro degli anni in cui etichettare come traditore un sindacalista poteva essere il preludio di azioni ben più violente. E proprio mentre voleva porla ancor più in primo piano ha balordamente distolto l´attenzione generale dalla serissima questione Fiat.

D´altra parte i nostri governanti e i loro portavoce che puntano il dito contro il comportamento dissennato di alcune decine di persone hanno sempre più l´aria dei personaggi di quella poesia di Brecht in cui, dopo aver compatito i compagni piombati nell´abisso per avere segato il ramo sul quale stavano seduti, gli astanti hanno proseguito compunti a segare il ramo su cui erano seduti. Come i dati appena il giorno dopo ci hanno ricordato ? sono maligni, i dati ? i salari netti dei lavoratori italiani si collocano ai gradini più bassi dei trenta paesi dell´Ocse: poco più di 21.000 dollari l´anno per un singolo, tenendo conto del potere di acquisto, 25.500 per una coppia con due figli. In fondo si sapeva, ma la conferma è raggelante. Perché in termini reali, depurati dall´inflazione, i salari italiani sono quasi fermi da una decina d´anni. Mentre quelli di molti altri paesi hanno compiuto notevoli passi avanti. Il risultato è che la coppia italiana con due figli guadagna oggi quasi 14.000 dollari meno di una coppia tedesca, 5.000 meno di una svedese, quasi 4.000 meno di una francese, 1.500 meno di una spagnola.

Presi insieme, la vicenda Fiat e i dati Ocse dicono che i bassi salari di milioni di lavoratori configurano ormai un´emergenza nazionale. La quale si potrebbe aggravare per ampiezza e profondità se la questione Fiat non volgesse al meglio, o se altri gruppi di imprese piccole, medie e grandi dovessero ancor più provare nei prossimi mesi il morso della crisi; della quale i dati, ad esempio quelli di aprile del Fmi, dicono che abbiamo appena visto l´inizio. Di fronte a simile emergenza, che potrebbe richiedere interventi epici, aventi dimensioni da New Deal roosesveltiano, il governo, al di là delle dichiarazioncine in Tv, non si sa bene dove sia. Ma nemmeno la Confindustria può cavarsela puntando il dito contro il governo. Perché anch´essa ha continuato a segare il ramo su cui stava seduta, mediante le delocalizzazioni, la moltiplicazione di forme infinite di lavoro sottopagato e di contratti con data di scadenza che danneggiano in ultimo le imprese non meno dei lavoratori, la sostanziale riduzione delle attività di ricerca e sviluppo. Un´altra classifica che da lungo tempo vede l´Italia in posizioni di coda. Smettere di fare quel che si sta facendo, e magari inventarsi qualcosa di realmente nuovo in tema di politiche economiche, è difficile; ma se l´alternativa è cadere nell´abisso, varrebbe la pena di provarci.

Nel dichiarare guerra agli immigrati clandestini e alla tratta di esseri umani, il governo è sicuro di una cosa: dalla sua parte ha un gran numero di italiani, almeno due su tre. Ne è sicura la Lega, assai presente nel territorio. Ne è sicuro Berlusconi, che scruta in quotidiani sondaggi l’umore degli elettori. Non ci sono solo i sondaggi, d’altronde: indagini e libri (per esempio quello di Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Mulino 2008) confermano che la paura - in particolare la paura della crescente criminalità tra gli immigrati - è oggi un sentimento diffuso, che il politico non può ignorare. A questo sentimento possente tuttavia i governanti non solo si adeguano: lo dilatano, l’infiammano con informazioni monche, infine lo usano. È quello che Ilvo Diamanti chiama la metamorfosi della realtà in iperrealtà.

Negli ultimi vent'anni l’iperrealismo ha caratterizzato tre guerre, fondate tutte sulla paura: la guerra al terrorismo mondiale, alla droga e alla tratta di esseri umani. Le ultime due son condotte contro mafie internazionali e italiane (la tratta di migranti procura ormai più guadagni del commercio d’armi) i cui rapporti col terrorismo non sono da escludere. Sono lotte necessarie, ma non sempre il modo è adeguato: contro il terrorismo e i cartelli della droga, la guerra non ha avuto i risultati promessi.

George Lakoff, professore di linguistica, disse nel 2004 che la parola guerra - contro il terrore - era «usata non per ridurre la paura ma per crearla». La guerra alla tratta di uomini rischia insuccessi simili. Le tre guerre in corso sono spesso usate dal potere politico, che nutrendosene le rinfocola.

Roberto Saviano lo spiega da anni, con inchieste circostanziate: ci sono forme di lotta alla clandestinità votate alla sconfitta, perché trascurano la malavita italiana che di tale traffico vive. Ed è il silenzio di politici e dei giornali sulle nostre mafie a trasformare l’immigrato in falso bersaglio, oltre che in capro espiatorio. Lo scrittore lo ha ripetuto in occasione dei respingimenti in mare di fuggitivi. Le paure hanno motivo d’esistere, ma per combatterle occorrerebbe andare alle radici del male, denunciare i rapporti tra mafie straniere e italiane: le prime non esisterebbero senza le seconde, e comunque la malavita viaggia poco sui barconi. Saviano dice un’altra verità: se ci mettessimo a osservare le condotte dei migranti, la paura si complicherebbe, verrebbe controbilanciata da analisi e sentimenti diversi. Una paura che si complica è già meno infiammabile, strumentalizzabile.

Saviano elenca precise azioni di immigrati nel Sud Italia. Negli ultimi anni, alcune insurrezioni contro camorra e ’ndrangheta sono venute non dagli italiani, ormai rassegnati, ma da loro. È successo a Castelvolturno il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei immigrati africani da parte della camorra. È successo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo l’uccisione di lavoratori ivoriani uccisi perché ribelli alla ’ndrangheta, il 12 dicembre 2008. Ma esistono altri casi, memorabili. Il 28 agosto 2006, all’Argentario, una ragazza dell’Honduras, Iris Palacios Cruz, annega nel salvare una bambina italiana che custodiva. L’11 agosto 2007 un muratore bosniaco, Dragan Cigan, annega nel mare di Cortellazzo dopo aver salvato due bambini (i genitori dei bambini lasciano la spiaggia senza aspettare che il suo corpo sia ritrovato). Il 10 marzo 2008 una clandestina moldava, Victoria Gojan, salva la vita a un’anziana cui badava. Lunedì scorso, due anziani coniugi sono massacrati a martellate alla stazione di Palermo, nessun passante reagisce tranne due nigeriani, Kennedy Anetor e John Paul, che acciuffano il colpevole: erano giunti poche settimane fa con un barcone a Lampedusa. Può accadere che l’immigrato inoculi nella nostra cultura un’umanità e un senso di rivolta che negli italiani sono al momento attutiti (Saviano, la Repubblica 13 maggio 2009).

Questo significa che in ogni immigrato ci sono più anime: la peggiore e la migliore. Proprio come negli italiani: siamo ospitali e xenofobi, aperti al diverso e al tempo stesso ancestralmente chiusi. Sono anni che gli italiani ammirano simultaneamente persone diverse come Berlusconi e Ciampi. Oggi ammirano Napolitano; anche quando critica il «diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Son rari i popoli che hanno di se stessi un’opinione così beffarda come gli italiani, ma son rari anche i popoli che raccontano, su di sé, favole così imbellite e ignare della propria storia. L’uso che viene fatto della loro paura consolida queste favole. Nel nostro Dna c’è la cultura dell’inclusione, dicono i giornali; non c’è xenofobia né razzismo. Gli italiani non si credono capaci dei vizi che possiedono: il nemico è sempre fuori. Non vivono propriamente nella menzogna ma in una specie di bolla: in un’illusione che consola, tranquillizza, e non per forza nasce da mala fede. Nasce per celare insicurezze, debolezze. Nasce soprattutto perché il cittadino è molto male informato, e la mala informazione è una delle principali sciagure italiane. È vero, la criminalità tra gli immigrati cresce, ma cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti, di degrado urbano. Un clima che esisteva prima che l’immigrazione s’estendesse, spiega Barbagli. Se la malavita italiana svanisse, quella dei clandestini diminuirebbe.

La menzogna viene piuttosto dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea. Tutti hanno contribuito alla bolla d’illusioni, al sentire della gente di cui parla Bossi. Tutti son responsabili di una realtà davanti alla quale ora ci si inchina: che vien considerata irrefutabile, immutabile, come se essa non fosse fatta delle idee soggettive che vi abbiamo messo dentro, oltre che di oggettività. I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela. La realtà dei fatti è che ogni mafia, le nostre e le straniere, si ciba di morte, di illegalità, di clandestinità. La realtà è un’Italia multietnica da anni. Il pericolo non è solo l’iperrealtà: è la manipolazione e la mala informazione.

Per questo è un po’ incongruo accusare di snobismo o elitismo chi denuncia le attuali politiche anti-immigrazione. Quando si vive in una realtà manipolata, chi si oppone non dice semplicemente no: si esercita ed esercita a vedere i fatti da più lati, non solo da uno. Rifiuta di considerare, hegelianamente, che «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Che ciò che è popolare è giusto, e ciò che è impopolare ingiusto o cervellotico. Bucare la bolla vuol dire fare emergere il reale, cercare le verità cui gli italiani aspirano anche quando s’impaurano rintanandosi. Accettare le loro illusioni aiuta poco: esalta la loro parte rinunciataria, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge a interrogarsi e interrogare.

Lo sguardo straniero sull’Italia è prezioso, in tempi di bolle: ogni articolo che viene da fuori erode la mala informazione. Non che gli altri europei siano migliori: nelle periferie francesi e inglesi l’esclusione è semmai più feroce. Ma ci sono parole che lo straniero dice con meno rassegnazione, meno cinismo. Ci sono domande e moniti che tengono svegli. Per esempio quando Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci chiede come mai accettiamo tante cose, dette da Berlusconi, manifestamente false. O quando Perry Anderson chiede come mai l’auto-ironia italiana non abbia prodotto una discussione sul passato vasta come in Germania (London Review of Books, 12-3-09). O quando l’Onu ci rammenta le leggi internazionali che stiamo violando.

L’Unità

Fiat, crisi e G8 prima che sia troppo tardi

di Rinaldo Gianola

Marchionne presenta libri ma non parla con i sindacati

il governo sottovaluta la crisi e pensa che al G8 filerà tutto

liscio. Quello che è successo ieri a Torino è un vero allarme

Sergio Marchionne, lo diciamo col massimo rispetto, sta diventando un po’ berlusconiano. Invita all’ottimismo sull’imminente superamento della crisi, salta come un grillo dall’America all’Europa assicurando che la Grande Fiat sarà un successo, fa una comparsata alla Fiera del libro per presentare il volume di un suo direttore.

In tutto questo attivismo, però, non ha ancora trovato un momento per parlare con i sindacati italiani. Non ha offerto finora alcuna credibile garanzia che gli stabilimenti nazionali resteranno aperti e manterranno gli attuali livelli occupazionali. Tutto è liquidato con poche battute, con l’evidente senso di superiorità di chi si sente investito della responsabilità di una missione storica. «Lasciatemi lavorare e poi vi farò sapere». Una posizione che potrebbe essere comprensibile e andar bene in un’altra congiuntura economica e sociale. Ma oggi no. E la prova è arrivata ieri. L’aggressione patita da Gianni Rinaldini al termine della pacifica manifestazione dei lavoratori Fiat è il segno di una tensione crescente nel mondo del lavoro. C’è un gioco pericoloso che i silenzi di Marchionne rischiano di alimentare, certo inconsapevolmente. Se si lasciano correre, senza smentirle, le voci di un ridimensionamento o della chiusura di alcuni impianti, i soliti Termini Imerese e Pomigliano, se si pongono in concorrenza certe fabbriche modello (Melfi) con altre meno efficienti, allora le tensioni e i pericoli sono destinati ad aumentare. È una vecchia strategia quella di cercare di dividere i lavoratori mettendo in competizione gli stabilimenti, una linea già seguita in passato da altri manager del Lingotto assai meno moderni di Marchionne.

Oggi la crisi economica pervade i luoghi di lavoro, a partire proprio dalla Fiat, e non si può pensare di limitare i rapporti con i sindacati alla comunicazione mensile della cassa integrazione. Un chiarimento delle strategie Fiat in Italia è indispensabile: lo chiedono i lavoratori e le istituzioni. Perchè, al netto dell’entusiasmo e della propaganda per il possibile successo epocale di un’azienda italiana, quello che si è capito della Grande Fiat è che i miliardi per ora li mette Obama, i lavoratori di ogni latitudine devono comunque fare sacrifici, gli Agnelli sono destinati a separarsi dall’auto.

Certo sarebbe di grande utilità se il governo facesse un po’ di pressing su Marchionne e se prendesse più seriamente le tensioni e gli allarmi che stanno salendo dal mondo del lavoro. Finora la forza e credibilità dei sindacati italiani hanno tenuto sotto controllo le spinte più pericolose, ma il caso di ieri a Torino è un campanello di allarme per i prossimi mesi, quando la crisi, dentro e fuori le fabbriche, morderà ancora di più nonostante i rassicuranti sorrisi di Berlusconi.

È bene stare attenti, per non ripetere brutti episodi del passato. La contestazione a Rinaldini era possibile individuarla su alcuni siti Internet. Tra poche settimane il nostro Paese ospiterà il G8, evento che richiama sempre contestazioni di varia natura. E probabilmente non basterà la scelta dell’Aquila per garantire un vertice senza proteste. Dalla Fiat al G8, sembra strano ma tutto si tiene. Meglio muoversi, prima che sia troppo tardi.

il manifesto

Resistenza operaia al Lingotto

di Loris Campetti

«Gli applausi a Marchionne, il miracoloso, dovrebbero essere girati a questi 15 mila lavoratori. Sono loro che hanno salvato la Fiat, resistendo alle intemperie quando nessuno credeva che si potesse salvare». 15 mila operai e operaie che non hanno abbassato la testa, «La gente come noi non molla mai», cantano senza pausa quelli di Pomigliano, sbarcati alla stazione di Lingotto alle 7 del mattino da un treno davvero speciale. C'erano i pullman ad attenderli, ma loro nisba, la strada fino a Mirafiori se la sono voluta fare in corteo perché sono gente che non molla mai. Come quelli arrivati da Termini Imerese in Sicilia, da Atessa in Abruzzo, da Melfi e da Avellino, da Milano e da Brescia, da Bari e da Lecce, da tutta la cintura e la provincia di Torino e dal Piemonte. Tanti ma anche soli, la politica - quella che dovrebbe contare ma non conta, quella extraparlamentare era rappresentata invece al massimo livello in tutte le sue fratture e sfaccettature - è impegnata a festeggiare le favolose performances globali di San Sergio Marchionne che conquista l'America e preme alle porte di Berlino per abbattere muri e resistenze. CONTINUA | PAGINA 4

Se con i muri bisognerà abbattere qualche stabilimento e cancellare migliaia di posti di lavoro, pazienza. Pazienza? Questi 15mila di pazienza non ne hanno più. Qualcuno in realtà c'è con gli operai: sono i loro amministratori che devono gestire nei territori devastati dalla crisi l'emergenza sociale. Il sindaco della ex capitale dell'auto, Chiamparino, accanto al primo cittadino di Pomigliano e ai loro colleghi di mezza Campania, compreso il presidente della regione Bassolino e della Puglia Vendola.

Lo striscione più bello viene verniciato davanti alla porta 5 di Mirafiori da un giovane barbuto rossovestito. C'è scritto un concetto semplice semplice: «No alla guerra tra poveri». Perché la crisi è un'arma nelle mani dei padroni e dei governi amici (dei padroni) per dividere chi lavora, chi sta sotto e paga il conto per tutti. Se c'è chi, quasi tutti, grida come trenta o quaranta anni fa «Da Torino al meridione un solo grido, occupazione», in 85, contati e targati Slai Cobas decidono, alla fine di una manifestazione straordinaria, di aiutare la crisi e i padroni, assaltano il camioncino montato di fronte al Lingotto dal quale intervengono i dirigenti sindacali, buttano giù dal palco il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, si impossessando del microfono per gridare il loro odio non contro quel che hanno alle spalle - il simbolo del potere Fiat - ma contro il più vicino a sinistra, segnando così la loro estraneità dalla sinistra, da quel poco di sinistra che resta. Di questo episodio non parleremo più, salvo esprimere a parte il nostro punto di vista, per evitare di cadere nella trappola di cancellare uno straordinario fatto sociale per ridurre la giornata di ieri a un problema di ordine pubblico. Che è quello che gli 85 eroi cercavano, insieme a un quarto d'ora di visibilità mediatica.

La mappa della crisi

Il corteo dell'universo italiano dell'auto è una carta geografica della crisi industriale. Segnala un finto paradosso: la Fiat aumenta le sue quote in Italia e in Europa, conquista l'America e combatte alle porte di Russelshaim ma i suoi lavoratori ballano in mezzo al mare della crisi. Hanno ormai finito la cassa integrazione che il sistema di ammortizzatori sociali mette a disposizione e ora temono i licenziamenti e la chiusura degli stabilimenti. Temono le «sinergie» prodotte da un eventuale accordo con Opel, sanno che in Europa si producono più macchine di quelle che si vendono e che si venderanno anche quando il peggio della crisi sarà passato. Sanno che gli altri governi difendono le loro fabbriche e annessi lavoratori mentre il nostro «se ne fotte». Per questo s'incazzano, viaggiano per 12-15 ore in treno e in pullman per venire a gridare la loro rabbia sotto i palazzi di chi decide da solo e non accetta interferenze. Al secondo corteo della mattinata, uno degli inossidabili operai di Pomigliano sbotta: «'A ro' sta sto cazz'e Lingotto?».

Davanti alla mitica porta 5 di Mirafiori, a due metri dal giovanotto rossovestito c'è un un compassato piccolo uomo, piccolo ma grande per la storia che racconta e di cui è protagonista. Di nome fa Liberato - nomen omen - e di cognome Norcia. Scuola Fim, meglio dire Flm, politica Lotta continua quando c'era. Mi ricorda che quarant'anni fa esatti, era il 2 maggio del '69, lì dentro partivano i primi scioperi per un aumento di 50 lire della paga oraria. E fu subito autunno caldo. Lui è quello che nell'ottobre '80 aveva chiesto a Enrico Berlinguer: «Che fa il Pci se questi operai decidono di occupare la fabbrica?». La risposta (giusta) di Berlinguer fu lungamente rimproverata al segretario del Pci.

La lunga storia

Il corteo parte, si evita corso Traiano (non si da mai che si torni indietro di quarant'anni), si imbocca corso Unione sovietica (si chiama ancora così) e all'altezza della V lega Fiom (che c'è ancora) si gira su via passo Buole. Nel portone d'angolo c'era la gloriosa sezione del Pci di Mirafiori (non ci sono più né l'una né l'altro, ora l'insegna dice «Mercatino dell'oro usato»). Su questa strada, dove ora ci sono birrerie e garage, c'erano le sedi di Lotta continua e Avanguardia operaia. Solo loro ci sono sempre, gli operai, quelli indigeni e quelli arrivati da tutt'Italia per riprendersi in mano un futuro troppo rapidamente consegnato a un capitano coraggioso. C'è ancora la Torino proletaria ai balconi, quella che quarant'anni fa nascondeva chi scappava dalle cariche delle celere in corso Traiano oggi applaude e fotografa quelli di Pomigliano che non mollano, aprono il giubbetto Fiat e mostrano più che il petto la scritta, perché si sappia chi sono. Sono quelli che bucano il video, prendono le botte dalla polizia e non mollano. In fondo al corteo c'è la solidarietà del movimento Glbt, con un furgone colorato e lo striscione «resistenza lesbica». Poco più avanti un operaio rosso nella felpa e nella bandiera Fiom agita la bandierina rosa del gay-pride.

Gli operai delle Meccaniche che hanno rifiutato di fare gli straordinari al sabato per rispetto verso chi è in cassa e verso se stessi sfilano in corteo vicino ai loro compagni delle carrozzerie che lo sciopero contro gli straordinari cominceranno a farlo sabato prossimo. Sembra una cosetta da niente: provate a pensare a chi vive con un salario ridotto a 650 euro al mese, a cui viene chiesto di riprendere il lavoro, e va bene, ma anche di lavorare di più per guadagnare di più. Provate a pensare che solidarietà esprime chi dice di no, e che forza mette in campo quando pretende di leggere, prima di trattare sugli straordinari, il piano industriale della Fiat per conoscere il futuro che lo aspetta. La Fiom svolge la parte del leone, ma finalmente ci sono quasi tutti in corteo. Fim, Uil, c'è anche il Fismic (ex Sida, già sindacato giallo) e nessuno si strappa i capelli per l'assenza della Ugl. L'unità è la difesa migliore, con l'unità si può costruire un futuro migliore. Ma l'unità non la fanno le sigle. Alla Fiat, la fa solo la lotta operaia.

Così è capitato tante volte nella storia, una storia che a Mirafiori è lunga settant'anni e non può finire. Come quella di Melfi e Cassino, di Pomigliano e Termini Imerese, di tutto l'indotto dell'auto, della Iveco, della Cnh. Un milione di lavoratori, un milione di famiglie italiane.

Tra i fisici più rinomati dell’India, attivista politica e ambientalista, Vandana Shiva è sicuramente una "resistente", una donna, cioè, che ha scelto, come missione della sua vita, di resistere allo strapotere delle multinazionali, agli errori e ai crimini della politica globale, alla devastazione dell’ambiente (che significa rischio per la nostra stessa esistenza). Alla Fiera del Libro di Torino è venuta a lanciare un appello per il "salvataggio del mondo". "Siamo ancora in tempo", ammonisce, "ma solo se ci muoviamo subito". Occorre, in altre parole, che le politiche di contenimento del danno ambientale diventino presto, anzi "subito" (come ripete più volte nel corso della nostra conversazione), qualcosa di reale, di concreto, e non soltanto un pio desiderio. L’occasione è il lancio del suo ultimo libro, Ritorno alla Terra. La fine dell’ecoimperialismo (Fazi Editore), che segue gli altri importanti titoli della sua ricca bibliografia (ricordiamo Monocolture della mente, Bollati Boringhieri 1995; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi 2001; Il bene comune della Terra, Feltrinelli 2006). Nel 1993 Vandana Shiva ha vinto il Right Livelihood Award, premio Nobel alternativo per la pace. Insieme con Ralph Nader e Jeremy Rifkin, presiede l’International Forum on Globalization.

Signora Shiva, uno dei temi che affronta nel suo nuovo libro è quello della crisi economica mondiale. Secondo lei, essa è in via di soluzione, come affermano i più ottimisti, oppure dobbiamo aspettarci che i suoi effetti negativi perdureranno anche nel prossimo futuro?

"Temo che questa crisi non passerà tanto facilmente, perché affonda le sue radici nella struttura economica mondiale, di cui è, in qualche modo, parte integrante. È un po’ come l’influenza suina: una volta che il contagio ha inizio, si può cercare di contenerlo, ma è difficile fermarlo. Abbiamo dimenticato alcune regole fondamentali, nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento, come in quello dell’economia. In tutti questi settori negli ultimi decenni si è imposta la cultura della ‘deregulation’; si è fatto del liberalismo, del libero mercato, della libera iniziativa una sorta di feticcio. Ora, però, si vedono le dannose conseguenze della mancanza di controllo da parte degli stati, dei governi, ma forse, soprattutto, dell’assenza di autodisciplina da parte degli operatori interessati".

Si discute molto di energia nucleare. Qualche mese fa si è creato un asse Berlusconi-Sarkozy per l’implementazione di questo settore. Cosa ne pensa?

"Negli ultimi anni l’energia nucleare ha cominciato a essere presentata come ‘energia pulita’, per l’assenza di emissioni inquinanti, a fronte, ad esempio, dell’energia termoelettrica, come quella che deriva dalla combustione di carbone o petrolio, che invece inquina l’atmosfera. Rimane però il problema delle scorie, che sono inquinanti e, soprattutto, nel lungo periodo. Nel 2006 il governo indiano ha raggiunto un accordo bilaterale con il presidente degli Usa, Bush, per la cooperazione nella produzione di energia nucleare. Ebbene, in questo modo l’India produrrà, con il nucleare, il 6% della sua energia, una percentuale decisamente bassa, per la quale avrebbe potuto puntare sull’energia solare, eolica o sull’energia da biomasse".

Perché allora i governi insistono tanto sul nucleare?

"Lei ha detto bene: i governi. Perché non c’è un Paese al mondo in cui si sia arrivati alla scelta del nucleare in maniera autenticamente democratica. Quasi sempre le popolazioni e gli stessi Parlamenti sono contrari. In India su quell’accordo con Bush si è rischiata una crisi di governo, perché il Parlamento si era decisamente opposto. Ma la sua domanda è come altre domande che la gente si pone: perché noi vogliamo migliori trasporti pubblici e i governi continuano a incentivare le industrie che producono auto? In quest’ultimo caso, come in quello del nucleare, a spingere in una certa direzione è il potere delle grandi lobby, alle cui richieste purtroppo molto spesso la politica tende a piegarsi".

Si dice che, dopo il petrolio, la risorsa del futuro, che tutti cercheranno di accaparrarsi, sarà l’acqua. Lei crede che, per il controllo dell’acqua si combatteranno guerre, come è avvenuto (e come avviene) per il possesso dell’‘oro nero’, oppure che essa sarà comunque sempre disponibile in quantità sufficiente per tutti?

"Guerre per l’acqua già si stanno combattendo oggi. Potrei farle un elenco di fiumi asiatici per il cui controllo, da parte degli stati e delle regioni, abbiamo già avuto decine se non centinaia di morti. Tanto che potremmo dire che oggi nei fiumi scorre meno acqua, ma scorre più sangue".

Lei ora ha toccato il tema della siccità, legata ai cambiamenti climatici. Siamo ancora in tempo per fare qualcosa?

"Siamo ancora in tempo per evitare le catastrofi climatiche future, ma solo se ci muoviamo subito. E forse siamo ancora in tempo per arrestare i cambiamenti in atto, ma certo non per tornare indietro. Ma dobbiamo ridurre, da subito, le emissioni di gas inquinanti almeno del 40%".

Ma i politici che continuano a non prendere i necessari provvedimenti non sono consapevoli della gravità della situazione o fingono di non sapere?

"Credo che non ne siano del tutto consapevoli. Non girano i villaggi dove la siccità ha devastato le colture o dove, al contrario, la pioggia ha compromesso l’ecosistema dei deserti. Loro vivono nelle capitali, nelle loro ovattate stanze, da dove effettivamente non hanno una conoscenza della realtà. Anche la campagna elettorale ormai si fa via televisione, senza un contatto diretto con i problemi della gente. Poi ci sono politici che, in malafede, si rifiutano di assumere le decisioni richieste dai rapporti scientifici sulla situazione del Pianeta".

Che cosa possono fare i cittadini per ottenere dai loro politici decisioni efficaci?

"Io dico sempre che ciascuno di noi deve partire dal luogo dove si trova, sollecitando gli amministratori del suo quartiere, della sua città, della sua regione. E poi dobbiamo tutti, in prima persona, compiere scelte etiche ed ecologiche nei nostri comportamenti quotidiani".

Ad esempio?

"Ad esempio favorire un’agricoltura in armonia con la natura, contro l’agricoltura industriale che la devasta. Comprare cibo prodotto localmente, in maniera biologica, ed evitare i cibi industriali".

Qualcuno però potrebbe accusarla di una certa nostalgia passatista, dicendo che non si può tornare indietro e che, così facendo, si metterebbe a repentaglio un intero sistema industriale, con conseguenze negative anche per l’occupazione.

"In realtà, su quest’ultimo punto le cose stanno esattamente al contrario. È l’agricoltura industriale che ha prodotto disoccupazione, sostituendo al lavoro dell’uomo le macchine e i fertilizzanti chimici. E ha prodotto un miliardo di persone che non hanno cibo a sufficienza".

Ma la Terra è in grado di sfamare tutti i suoi abitanti?

"Sì, certo, se solo ci si decidesse a tornare ai ritmi della Terra e della natura. Bisogna ricostruire un’autentica democrazia della Terra, come alternativa all’ecoimperialismo. Si tratta di riconoscere che la natura e la popolazione, insieme e in armonia tra loro, sono la forza più grande del pianeta. Dobbiamo cambiare mentalità. Possiamo farlo tutti, senza aspettare che i politici lo facciano per noi".

L’allarme del presidente della Repubblica è di quelli che non ammette interpretazioni. Anche in Italia come in altri Paesi «si va diffondendo una retorica pubblica che non esita ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia» ha detto il Capo dello Stato nel “cuore” del suo intervento alla Conferenza annuale delle Fondazioni europee. È un argomento ricorrente nei discorsi di Napolitano l’allarme per una deriva disumana che emargina i più deboli. Anche nei giorni scorsi, nel messaggio per l’anniversario della fondazione della Polizia di Stato, aveva parlato del rischio di «ingenerare una diffusa percezione di insicurezza e preoccupanti fenomeni di intolleranza»

Una società migliore

I presenti hanno applaudito in modo convinto e partecipe le parole di Giorgio Napolitano che ha lanciato il suo monito proprio mentre in altri Palazzi si prendevano decisioni di altro tenore. Ma non è la prima volta che dal Colle arriva l’indicazione a lavorare per una società migliore, che garantisca tutti, e non faccia sentire nessuno espulso. Sia esso nato in Italia, sia arrivato nel nostro Paese alla ricerca di una vita migliore contribuendo «a differenze in termini di origini etniche, religiose e culturali» ormai «aumentate» e che debbono essere considerate una ricchezza e non tradursi «in un fattore di esclusione».

Gli applausi

E gli applausi non sono mancati anche quando il Presidente ha parlato della necessità di «dare un nuovo impulso al contrasto delle vecchie e delle nuove povertà all’interno dei nostri Paesi che, non possiamo permetterci di dimenticarlo, sono la parte ricca di questo pianeta». Per fare fronte «alle sfide che provengono dalla povertà vecchia e nuova, dalle diseguaglianze inaccettabili fra e all’interno delle nazioni non possiamo certo rispondere con la mera conservazione e la difesa degli interessi nazionali» ha detto il presidente che ha fatto, dunque, un discorso in difesa di coloro che rischiano di essere esclusi e per ricordare i propri doveri a chi deve far sì che nessuno lo sia.

Gli aiuti

A coloro che governano i fenomeni globali, sia economici che politici, a coloro che approvano le leggi, ma anche alle Fondazioni quanto mai utili per elaborare strategie innovative, Napolitano ha voluto ricordare la necessità «di un flusso costante di aiuti, ma ancor più di idee nuove e nuovi stili di intervento, nuovi strumenti di governo a livello globale, una reale volontà di cooperare su un piano di parità». La necessità di innescare «un nuovo ciclo di sviluppo che non intacchi i livelli di equità e di coesione sociale raggiunti ma, anzi, li migliori»

La crisi economica che attanaglia il mondo intero è un ulteriore handicap per chi ha meno possibilità e meno potere. «Nella attuale situazione non solo non potremmo riuscire a recuperare coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà ma rischiamo di vedere tanti altri cadere oltre tale soglia». E allora è necessario riportare in primo piano «la povertà e l’impoverimento» che poco spazio hanno avuto nell’agenda politica degli ultimi dieci anni.

Nei paesi dove «le differenze di origini etniche, religiose e culturali sono aumentate» c’è il rischio «del diffondersi di una retorica pubblica xenofoba». Giorgio Napolitano scende in campo in difesa degli «esclusi».

Ci sono tre buone ragioni per concordare con Luigi Spaventa quando registra e analizza, con comprensibile prudenza, i segnali di ottimismo che appaiono all´orizzonte dell´economia. Il primo è il più frivolo, ma secondo me essenziale. Iniettare un pizzico di buonumore è un buon contributo alla distensione, se non si esagera strumentalmente a fini politici. Gli allarmisti che si esaltano ad ogni picchiata della borsa scorgendovi l´annuncio della fine del capitalismo si espongono, oltre che alla smentita, alla pubblica antipatia. Il secondo è che l´ottimismo, prendo a prestito il titolo di un libro "liberista", è di sinistra. Le più amare esperienze insegnano che le catastrofi economiche si risolvono assai spesso in catastrofi autoritarie. Il terzo è decisivo. E´ che i sintomi che Spaventa registra sono veri. La verità, e non l´aspirazione politica, è il criterio fondamentale dell´analisi economica.

Ciò detto Spaventa, che ha scritto un saggio importante sulla genesi della crisi, sa bene che non si può restringere il discorso alla domanda pressante : quando finirà. Per le sue dimensioni e per la sua profondità essa ha fatto emergere problemi che non possono essere trascurati. Anche se, come è auspicabile, ci sarà una schiarita, ma i problemi di fondo che la crisi ha evidenziato non saranno affrontati, si sarà persa un´occasione sgradita ma provvidenziale per raddrizzare il legno storto.

A me pare che questi "grandi problemi" che la crisi ha fatto emergere siano, tanto per ipersemplificare. essenzialmente tre:1) la funzione della finanza nell´economia; 2) la questione delle diseguaglianze nella distribuzione e degli squilibri nell´allocazione del reddito;3) la questione del rapporto tra crescita economica ed equilibrio ambientale.

Al primo di questi problemi dedica un libro Luciano Gallino: "Con i soldi degli altri" (Einaudi). Egli spiega con rigore scientifico e semplicità comunicativa - due virtù difficili da coniugare - l´emergere di quel capitalismo per procura che, in estrema sintesi, trae origine da due fenomeni cruciali. Il primo è la deregolazione dei movimenti di capitale, che ha trasferito il governo supremo dell´economia dalla politica macroeconomica ai mercati finanziari. Il secondo è l´enorme dimensione che questi hanno assunto. Alla fine del 2007 il Pil mondiale risultava pari a 54 trilioni di dollari, e la capitalizzazione delle borse mondiali a 61 trilioni. Questa enorme massa di risparmio sta nelle mani di un gruppo ristretto di grandi banche e di intermediari finanziari che lo gestiscono in condizioni di grande complessità e di scarsa visibilità. Il criterio supremo che regola la sua destinazione è il massimo rendimento nel minimo tempo, il che esclude gli investimenti "lungimiranti" dai quali dipende tanta parte della produttività economica e del benessere sociale; mentre incoraggia le scommesse speculative, dalle quali è dipesa tanta parte dell´attuale marasma.

Il secondo problema riguarda il trionfo della diseguaglianza all´interno dei vari paesi, quelli capitalistici avanzati e quelli emergenti la cui crescita, rappresentata da un Pil bugiardo che somma beni e mali, ha beneficiato quasi soltanto le classi di reddito più elevato, e ha determinato un drammatico squilibrio tra beni sociali e beni privati.

Il terzo è il problema di una crescita indifferenziata, invocata oggi quale che sia il costo ambientale, ignorando le condizioni della sua sostenibilità.

Il discorso politico corrente sta ancora molto al di sotto di queste tematiche. Ci si limita ad affermare, come diceva Keynes, che dopo la pioggia verrà il bel tempo. Il che è di buon augurio, ma non ci offre un ombrello.

Il parlamento italiano sta votando per trasformare i migranti irregolari in criminali. Il successo della maggioranza governativa agli ordini del suo seducente, ricchissimo sultano è scontato. Il ministro degli interni Roberto Maroni, che dell'idea è il grande ispiratore, spicca per il suo egocentrismo xenofobo e per il suo cinismo intellettualmente misero oltre che moralmente deplorevole. E trionfa ancora una volta l'ottusità giuridica e la ferocia sociale dell'idea di sicurezza e di identità etnica che è propria del presidente del consiglio. Berlusconi, si sa, ama il prossimo suo come se stesso, soprattutto se si tratta di giovani donne. Nulla ormai ci può sorprendere nel contesto della deriva razzista e dell'indigenza intellettuale che sta travolgendo l'Italia.

Il tema da approfondire è però un altro: che senso ha proclamare a tutti i venti - come hanno fatto, fra i molti altri, il presidente della camera Fini e il pontefice romano - che l'Italia ha il dovere di rispettare il diritto di asilo politico dei migranti invece di respingerli tout court e di consegnarli alla Libia? Che senso ha chiedere all'Italia di attenersi alle Convenzioni di Ginevra se è vero che da tempo nessuno le rispetta, a cominciare dalle grandi potenze occidentali e dallo Stato di Israele? E che senso ha richiamarsi all'art. 10 della Costituzione italiana sul diritto di asilo se è una normativa, anche questa, che il governo può ignorare senza problemi, esattamente come ignora l'articolo 11 che imporrebbe all'Italia di non essere complice degli Stati uniti nella guerra di aggressione contro l'Afghanistan?

Anche l'autorevole giurista internazionalista, Antonio Cassese, in un suo intervento su Repubblica (12 maggio), non ha saputo fare altro che ripetere il refrain del diritto di asilo politico, per di più dopo aver sostenuto, erroneamente, che l'immigrazione clandestina sta aumentando a ritmi vertiginosi e che i flussi migratori incidono seriamente sul nostro mercato del lavoro. Come è noto, la spinta migratoria verso i paesi euromediterranei è in decrescita. Ed è altrettanto noto che circa il 10% della ricchezza prodotta nel nostro paese è frutto dell'attività di imprenditori e di lavoratori provenienti da paesi extracomunitari, con in testa nazioni come il Marocco, l'Albania, il Senegal, la Tunisia.

La questione cruciale è dunque molto diversa, se è vero che il diritto alla vita è il diritto fondamentale proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948. È una verità difficile da negare, dopo i fiumi di retorica che ci hanno investito per la ricorrenza dei sessant'anni della Dichiarazione. Ma allora perché il diritto alla vita è ignorato dalle norme nazionali e internazionali che attribuiscono agli stranieri il diritto all'asilo politico? Ci sono aree del pianeta da dove centinaia di migliaia di persone partono abbandonando le loro famiglie, i loro affetti, le loro tradizioni, i loro universi simbolici, le loro credenze religiose, i loro canti. Non lo fanno, salvo rare eccezioni, perché sono alla ricerca delle «libertà democratiche» garantite dall'asilo politico dei paesi occidentali. Lo fanno perché muoiono di fame. Si calcola, ad esempio, che sono ormai quasi due milioni i migranti che da sud a nord attraversano i deserti africani, entrano in Libia superando i confini del Sudan e del Niger e convergono verso le coste del Mediterraneo. I deserti africani, inclusi quelli libici, sono ormai cosparsi di cadaveri, come lo è il fondo del Mediterraneo.

L'ampiezza del fenomeno migratorio non è semplicemente la conseguenza del carattere dispotico di molti regimi politici non occidentali, di sanguinose guerre civili o di condizioni generali di arretratezza civile, come si vuol far credere con la retorica dell'asilo politico. Le migrazioni sono strettamente legate alla crescente discriminazione «globale» fra i paesi ricchi e potenti, da una parte, e i paesi deboli e poverissimi dall'altra.

Al 20% più ricco della popolazione mondiale è destinata una quota di ricchezza almeno 160 volte superiore a quella del 20% più povero. E la differenza aumenta sempre più grazie alle decisioni arbitrarie e incontrollabili di soggetti internazionali dotati di grande potere economico-finanziario, politico e militare. Le cause della discriminazione globale sono, oltre alla povertà, le malattie epidemiche, l'assenza di acqua potabile, la devastazione dell'ambiente, le turbolenze ecologiche, il debito estero. Il fenomeno è particolarmente grave nei paesi «in via di sviluppo», come ha segnalato Luciano Gallino: in India, dal 1996 al 2007, si sono suicidati 250 mila contadini, perché oppressi dalla fame e dai debiti. Per loro nessun «diritto di asilo» ha operato e nessun pattugliamento del Mediterraneo è stato necessario.

Che cosa è possibile fare? Quali strategie, in particolare la sinistra europea, può adottare per far convivere i valori della cittadinanza democratica con l'apertura verso le altre culture e civiltà? Come fare del Mediterraneo uno spazio di cooperazione economica fra l'Europa e i paesi arabo-islamici? Come accogliere e ospitare i migranti senza sfruttarli, discriminarli e perseguitarli? Come controllare i flussi migratori in presenza di un'abissale, crescente differenza fra il mondo dei ricchi e il mondo dei poveri? Questi sono i problemi da affrontare se il diritto alla vita non è una ignobile impostura globale.

Chi racconta che l´arrivo dei migranti sui barconi porta valanghe di criminali, chi racconta che incrementa violenza e degrado, sta dimenticando forse due episodi recentissimi ed estremamente significativi, che sono entrati nella storia della nostra Repubblica. Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull´onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. . Manifestazioni spontanee. E sono stati africani a farle

A Castelvolturno, il 19 settembre 2008, dopo la strage a opera della camorra in cui vengono uccisi sei immigrati africani. Le vittime sono tutte giovanissime, il più anziano tra loro ha poco più di trent´anni, sale la rabbia e scoppia una rivolta davanti al luogo del massacro. La rivolta fa arrivare telecamere da ogni parte del mondo e le immagini che vengono trasmesse sono quelle di un intero popolo che ferma tutto per chiedere attenzione e giustizia. Nei sei mesi precedenti, la camorra aveva ucciso un numero impressionante di innocenti italiani. Ma nulla. Nessuna protesta. Nessuna rimostranza. Nessun italiano scende in strada. I pochi indignati, e tutti confinati sul piano locale, si sentono sempre più soli e senza forze. Ma questa solitudine finalmente si rompe quando, la mattina del 19, centinaia e centinaia di donne e uomini africani occupano le strade e gridano in faccia agli italiani la loro indignazione. Succedono incidenti. Il giorno dopo, gli africani, si faranno carico loro stessi di riparare ai danni provocati. L´obiettivo era attirare attenzione e dire: "Non osate mai più". Contro poche persone si può ogni tipo di violenza, ma contro un intera popolazione schierata, no.

E poi a Rosarno. In provincia di Reggio Calabria, uno dei tanti paesini del Sud Italia a economia prevalentemente agricola che sembrano marchiati da un sottosviluppo cronico e le cui cosche, in questo caso le ´ndrine, fatturano cifre paragonabili al Pil del paese. La cosca Pesce-Bellocco di Rosarno aveva deciso di riciclare il danaro della coca nell´edilizia in Belgio, a Bruxelles, dove per la presenza delle attività del Parlamento Europeo le case stavano vertiginosamente aumentando di prezzo. L´egemonia sul territorio è totale, ma il 12 dicembre 2008, due lavoratori ivoriani vengono feriti, uno dei due è in gravissime condizioni. La sera stessa, centinaia di stranieri – anche loro, come i ragazzi feriti, impiegati e sfruttati nei campi – si radunano per protestare. I politici intervengono, fanno promesse, ma da allora poco è cambiato. Inaspettatamente, però, il 14 di dicembre, ovvero a due soli giorni dall´aggressione, il colpevole viene arrestato e il movente risulta essere violenza a scopo estorsivo nei riguardi della comunità degli africani. La popolazione in piazza a Rosarno, contro la presenza della ´ndrangheta che domina come per diritto naturale, non era mai accaduto negli anni precedenti. Eppure, proprio in quel paese, una parte della società, storicamente, aveva sempre avuto il coraggio di resistere. Ne fu esempio Peppe Valarioti, che in piazza disse: «Non ci piegheremo», riferendosi al caso in cui avesse vinto le elezioni comunali. E quando accadde fu ucciso. Dopo di allora il silenzio è calato nelle strade calabresi. Nessuno si ribella. Solo gli africani lo fanno. E facendolo difendono la cittadinanza per tutti i calabresi, per tutti gli italiani.

Per il pubblico internazionale risulta davvero difficile spiegarsi questo generale senso di criminalizzazione verso i migranti. Fatto poi da un paese, l´Italia, che ha esportato mafia in ogni angolo della terra. Che hanno fatto sviluppare il commercio della coca in Sudamerica con i loro investimenti, che hanno messo a punto, con le cinque famiglie mafiose italiane newyorkesi, una sorta di educazione mafiosa all´estero. Oggi, come le indagini dell´Fbi e della Dea dimostrano, chiunque voglia fare attività economico-criminali a New York che siano kosovari o giamaicani, georgiani o indiani devono necessariamente mediare con le famiglie italiane, che hanno perso prestigio ma non rispetto. Le mafie straniere in Italia ci sono e sono fortissime ma sono alleate di quelle italiane. Non esiste loro potere senza il consenso e la speculazione dei gruppi italiani. Basta leggere le inchieste per capire come arrivano i boss stranieri in Italia. Arrivano in aereo da Lagos o da Leopoli. Dalla Nigeria, dall´Ucraina dalla Bielorussia. Le inchieste più importanti come quella denominata Linus e fatta dai pm Giovanni Conzo e Paolo Itri della Procura di Napoli sulla mafia nigeriana dimostrano che i narcos nigeriani non arrivano sui barconi ma per aereo. Persino i disperati che per pagarsi un viaggio e avere liquidità appena atterrano trasportano in pancia ovuli di coca. Anche loro non arrivano sui barconi. Mai.

Quando si generalizza, si fa il favore delle mafie. Loro vivono di questa generalizzazione. Vogliono essere gli unici partner. Se tutti gli immigrati diventano criminali, le bande criminali riusciranno a sentirsi come i loro rappresentanti e non ci sarà documento o arrivo che non sia gestito da loro. La mafia ucraina monopolizza il mercato delle badanti e degli operai edili, i nigeriani della prostituzione e della distribuzione della coca, i bulgari dell´eroina, i furti di auto di romeni e moldavi. Ma questi sono una parte minuscola delle loro comunità e sono allevate dalla criminalità italiana.

Avere un atteggiamento di chiusura e criminalizzazione aiuta le organizzazioni mafiose perché si costringe ogni migrante a relazionarsi alle mafie se da loro soltanto dipendono i documenti, le abitazioni, persino gli annunci sui giornali e l´assistenza legale. E non si tratta di interpretare il ruolo delle "anime belle", come direbbe qualcuno, ma di analizzare come le mafie italiane sfruttino ogni debolezza delle comunità migranti. Meno queste vengono protette dallo Stato, più divengono a loro disposizione. Il paese in cui è bello riconoscersi – insegna Altiero Spinelli padre del pensiero europeo – è quello fatto di comportamenti non di monumenti. Io so che quella parte d´Italia che si è in questi anni comportata capendo e accogliendo, è quella parte che vede nei migranti nuove speranze e nuove forze per cambiare ciò che qui non siamo riusciti a mutare. L´Italia in cui è bello riconoscersi e che porta in sé la memoria delle persecuzioni dei propri migranti e non permetterà che questo riaccada sulla propria terra.

2009 by Roberto Saviano

Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

L'anniversario dell'uccisione di Aldo Moro è diventata da qualche anno "Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi", ma solo quest'anno, con l'impostazione che a essa ha voluto dare Giorgio Napolitano, è riuscita a divenire qualcosa di più che momento di retorica celebrativa, sia pure doverosa e sofferta.

La presenza contemporanea delle vedove di Calabresi e di Pinelli era di per sé gesto simbolico in direzione di un superamento di rancori e contrapposizioni, e in questo senso spingeva anche la lettera dei figli di Walter Tobagi. Ma è stata l'assunzione a pieno titolo della memoria di Pinelli tra le vittime del terrorismo che ha segnato una svolta, storica e storiografica, nell'interpretazione di quella fase drammatica della nostra storia.

"Innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine", Pinelli era sempre rimasto presente nella coscienza dell'Italia civile, ma era il silenzio istituzionale che colpiva e pesava di fronte alla sua vicenda. Quella ferita è stata rimarginata dal presidente della Repubblica, che nel suo discorso ha sottolineato, in tono commosso, la necessità di "ridare e riaffermare l'onore di Pinelli", e di "rompere il silenzio" sulla sua figura. "Qui non si riapre o si rimette in questione un processo, ma si compie un gesto politico e istituzionale. Si rompe il silenzio su una ferita non separabile da quella dei 17 che persero la vita a piazza Fontana".

Quel silenzio ha pesato, e ha impedito finora che Pinelli e Calabresi venissero ricordati come vittime entrambi di una scia di sangue innescata dall'attentato di Piazza Fontana, che inaugurò un decennio torbido e sanguinoso, su cui si attende invano chiarezza completa e piena comprensione storica.

Il capo dello Stato ha sottolineato come "ricordare la strage di Piazza Fontana e con essa l'avvio di una oscura strategia della tensione significa ricordare una lunga e tormentatissima vicenda da cui non si è riusciti a far scaturire un'esauriente verità giudiziaria". "È parte dolorosa della storia italiana delle seconda metà del '900 - ha ricordato Napolitano - anche quanto è rimasto incompiuto nel cammino della verità e delle giustizia. Il nostro Stato democratico porta su di sé questo peso".

È un peso tuttora molto grave, sul piano giudiziario come su quello della memoria e della storia, e il piccolo ma importante gesto istituzionale di oggi può contribuire a riportare all'attenzione degli italiani la parte più oscura della loro storia recente, ancora avvolta dalla nebbia dell'oblio e non rischiarata da certezze tanto proclamate con clamore quanto inconsistenti sul piano dell'intelligenza degli avvenimenti.

Delle molte questioni su cui voteremo a giugno ce n’è una, continuamente citata, di cui non si parla praticamente mai: l’Europa e il suo Parlamento. Al massimo si dice che le urne non vanno disertate, che certi candidati sono incompetenti. Ma cosa significhi il voto che avverrà in 27 Paesi dell’Unione, cosa sia l’Europa in questo momento di crisi e mutazione: nulla se ne sa e quel che regna è silenzio o nascondimento, escamotage. L’italiano sa qualcosa sulle amministrative, qualcosa sul referendum, ma dell’Europa visto che non se ne parla non sa che idea farsene. Per il singolo resta una realtà un po’ astratta, che non gli appartiene veramente. Se l’affluenza sarà bassa sentiremo dire che l’Unione "è lontana dai cittadini", di nuovo.

Invece l’Europa ci è enormemente vicina, è la metà almeno della nostra esistenza. Già da decenni ha trasformato la nostra cittadinanza, che non è più una soltanto. Ogni italiano è al contempo cittadino europeo, e se ancora non pensa europeo già vive come tale.

Abbiamo una sola moneta, son cadute le frontiere interne all’Unione, e anche il diritto è comune in tante cose: più della metà delle decisioni che determinano la nostra vita quotidiana non sono prese nello spazio nazionale, ma in quello europeo.

Lo studioso Ulrich Beck scrive: "Nelle società etichettate come "nazionali" non c’è più un solo angolo libero dall’Europa" (Lo sguardo cosmopolita, Carocci 2005). Di fatto siamo già cittadini con varie identità, non per ideologia ma perché ci muoviamo in una doppia o tripla realtà (nazionale e cosmopolitica-europea).

Viviamo europeo schivando il pensare europeo, tuttavia. Di questa grande menzogna (che Beck chiama nazionalismo metodologico) sono responsabili le classi dirigenti di ogni Paese membro. La realtà che viviamo la eludono non solo i governi ma sindacati, imprenditori, intellettuali, giornalisti. Tutti costoro distinguono l’interesse nazionale dall’europeo, come se l’Europa non fosse, oggi, il luogo dove viene massimizzato sia l’interesse vero delle nazioni, sia quello del singolo cittadino che ha bisogno d'esser tutelato in ambedue le sfere pubbliche. Che in ambedue i casi ha bisogno di interlocutori forti, dunque di avere anche in Europa un governo funzionante: imputabile, censurabile come in patria.

Le sfere pubbliche cui apparteniamo sono ormai multiple: comunali, nazionali, europee, mondiali. Si può ignorarlo - proprio in questi giorni il governo l’ha ignorato, respingendo 227 migranti in mare senza dar loro la possibilità (prescritta dalla Convenzione di Ginevra) di chiedere asilo, ma l’ignoranza è scusa debole e spesso pretestuosa.

La menzogna nazionalista non cade dal cielo: nasce accampando ragioni poco nobili che pretendono d’esser realistiche pur non essendolo affatto. Qui è l’escamotage, la realtà fatta sparire cambiando le carte in tavola: il trucco serve a fingere una sovranità nazionale assoluta, a nascondere il fatto che essa è parzialmente delegata ormai a una nuova res publica, parallela alla nazione. La menzogna sabota il pensare europeo ma non sventa la costante, cocciuta ribellione della realtà. I cittadini lo sanno: le situazioni cambiano a seconda dei Paesi, e gli Stati-nazione mantengono ampia egemonia legislativa in settori chiave. Ma gran parte della legislazione nazionale è oggi di origine europea (consumatori, ambiente, mercato interno ecc).

L’Europa non è un organo internazionale che alcuni utopisticamente vorrebbero federale, dotato di costituzione. I più grandi studiosi sostengono che è un’istituzione da tempo costituzionalizzata, visto che soggetti del suo ordinamento non sono solo gli Stati (come nei trattati inter-nazionali) ma anche i cittadini. E i cittadini lo sono molto concretamente: a partire dai primi Anni 60, il diritto europeo ha il primato sulla legislazione nazionale e si applica immediatamente. L’Unione è incompiuta, non ha gli attributi basilari del costituzionalismo, ma questo non le vieta d’essere fin d’ora costituzionalizzata, sostiene il giurista Joseph Weiler (La Costituzione dell'Europa, Mulino 2003).

Certo l’Unione è gracile, spesso afona: abbarbicati al diritto di veto, gli Stati le impediscono di governare. Certo il suo Parlamento dovrebbe avere più poteri, nonostante ne abbia già parecchi (l’accettazione o rifiuto della Commissione, ad esempio). Alcuni dubitano che sappia fronteggiare l’odierna crisi economica, il che è giusto, e aggiungono che le regole di Maastricht son datate, intralciando un rilancio simile a quello di Obama perché troppo severe sui deficit pubblici. Quest’ultima critica non tiene conto d’un fatto: se l’America avesse rispettato regole come le nostre, vigilando sull’indebitamento eccessivo pur di salvaguardare lo Stato sociale, una catastrofe così vasta non l’avrebbe conosciuta.

L’europeizzazione del nostro quotidiano è un’evidenza, che intacca profondamente gli Stati-nazione e le loro sovranità presunte. Ma anche la menzogna intacca, la crisi ne ha dato la prova: limitandosi al coordinamento, i ministri dell’Unione hanno evitato azioni comuni che avrebbero salvaguardato assai meglio gli interessi nazionali e delle persone. Non hanno pensato europeo. Il coordinamento è fra Stati, non è un agire comune, e quel che Jean Monnet disse nel ‘40 vale tuttora: "Il coordinamento è un metodo che favorisce la discussione, ma non sfocia in decisione. È espressione del potere nazionale, non creerà mai l’unità". La menzogna nazionalista delle élite è questa, secondo Beck: "Esse deplorano la burocrazia europea senza volto, ovvero il congedo dalla democrazia, e quindi partono dall’assunto totalmente irreale secondo cui ci sarebbe un ritorno all’idillio nazional-statale". Un ritorno irrealistico, anche se travestito da Realpolitik. Prendiamo Andrea Ronchi, ministro delle politiche europee: ogni volta che parla, è per dire che "ci sono eurocrati" rovinosi per l’Europa. È falso: rovinosi sono gli Stati-nazione. Numerosissime decisioni eurocratiche lamentate dai governi son prese da loro stessi, nei Consigli dei ministri. Ronchi non dice il vero, con l’aggravante che forse neppure lo sa. L’immaginario nazionale resta ficcato nelle menti perfino quando la realtà lo smentisce: "Diventa uno spettro sentimentale, un’abitudine retorica in cui gli impauriti e i confusi cercano un rifugio e un futuro" (Lo sguardo cosmopolita, p. 225).

La svolta non può che venire dal cittadino, se comincia a ragionare cosmopoliticamente. Se vota partiti e uomini che vogliono più Unione, non meno. Il disastro climatico è tema essenziale in Italia, perché ha confermato quanto la destra sia allergica all’Europa. Lo dimostra la mozione sul clima che il Senato ha approvato il 18 marzo, criticata da Marzio Galeotto sul sito La Voce e da Mario Tozzi su La Stampa. Una mozione che il ministro Prestigiacomo definisce legittima anche se non vincolante, ma che pur sempre chiede al governo di non accettare gli ideologici piani dell’Unione (emissioni gas serra ridotte del 20 per cento, utilizzazione di energie alternative pari al 20 per cento del fabbisogno, riduzione del 20 per cento della richiesta di energia entro il 2020).

Oggi il pensare europeo è debole ovunque, soprattutto a destra ma anche a sinistra. Non stupisce, perché il salto è impervio. Si tratta nientemeno di consentire a una seconda conquista della laicità, nella storia d’Europa. Prima venne la separazione della politica dalla religione. Adesso s’impone l’atto laico numero 2: la separazione fra Stato e nazione. Senza demolire lo Stato, ma facendo combaciare la nazione con le sue sfere pubbliche molteplici. Sarà un atto non meno decisivo della caduta del Muro, e anche qui varrà quel che Gorbaciov disse al cieco regime comunista tedesco, nell’ottobre ‘89: "Chi arriva in ritardo, la vita lo punirà".

Ormai è impossibile affrontare il tema della "sicurezza" nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento. se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un’altra volta. Eppure è difficile non tornare sull’argomento. Perché l’argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla "sicurezza" (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove "leggi razziali". Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini. Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo. Anche l’imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come "annuncio". Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell’Interni e della Lega, di respingere l’invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.

Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l’argomento della paura dell’altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice "no all’Italia multietnica". In aperta polemica con la "sinistra, che ha aperto le porte a tutti". (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all’integrazione. Senza, tuttavia, spiegare "come" realizzarla. Si appella all’indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la "sicurezza" sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.

Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La "fabbrica della sicurezza" (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d’altronde, si scontra con il "mercato della paura". Il quale non limita la sua offerta all’ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).

a) La paura, insieme all’in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di "vita vera e vissuta", nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un’aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle "scene del crimine". 24 ore su 24 dedicate alla "paura".

E’ significativa l’evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent’anni fa, fino al "ministro della paura" (accanto al "sottosegretario all’angoscia") esibito ai nostri giorni.

b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All’esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.

c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d’ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.

d) Intorno alla paura e all’insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.

e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l’offerta.

Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L’insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del "bene comune". Ispirati da una fede o almeno da un’ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.

Che l’angoscia sia con noi.

Leggi razziali” non è una frase eccessiva. È una descrizione letterale e corretta che Franceschini, segretario del Pd, ha detto con tragica esattezza per descrivere il “pacchetto sicurezza” della Lega. La stella gialla che i Radicali indossano in questi giorni di una campagna elettorale dalla quale saranno esclusi con rigoroso rito mediatico, non è una trovata frivola o offensiva, come è stato detto. È la rappresentazione di un fatto. L’elenco delle illegalità, negazioni e sopraffazioni contro libertà fondamentali italiane, secondo i Radicali, è lungo e comincia subito, quando è ancora fresca la firma di Terracini in calce alla nostra Costituzione, nel 1948.

Si può convenire o no. Fin dalla rinascita, questo giornale ha detto e ripetuto ogni giorno che Berlusconi, con il peso immenso della ricchezza usata per comperare la politica, ha portato un peggioramento pauroso nella già oscura vita pubblica italiana, un peggioramento che a momenti pare irreversibile.

In un caso o nell’altro l’Italia è una sola. L’Italia che decide quali voci sono stonate e quali voci non si devono sentire, un anno dopo l’altro, un decennio dopo l’altro. L’Italia che perseguita senza tregua e senza vergogna gli immigrati proprio come al tempo delle leggi razziali. Fatti così profondamente illegali, e pure accettati, devono essere cominciati presto. Se questo è il peggio, c’è stato un prima.

Per esempio, la settimana è stata segnata da una notizia grave e squallida: il deputato Salvini della Lega esige che nei metrò di Milano i posti a sedere siano riservati ai lombardi. Come si riconosceranno i lombardi? Dagli insulti agli immigrati che hanno osato sedersi? Dalla violenza per farli alzare? Si fanno avanti squadre razziste come gli americani bianchi prima di Rosa Parks, di Martin Luther King e di Robert Kennedy. In un mondo normale una simile regola dovrebbe essere respinta con sdegno, come la peggiore offesa.

Ma questa è l’Italia in cui centinaia di naufraghi disperati, metà donne e bambini, e una di loro morta e putrefatta, sono stati lasciati in mare per giorni e notti al largo delle coste italiane. E’ la storia della nave turca “Pinar” , colpevole di averli salvati, tenuta ferma in mare dalla corvetta militare italiana “Lavinia”. Probabilmente è la prima volta, nella Repubblica italiana nata dalla Resistenza, che ai marinai italiani viene ordinato di non soccorrere i superstiti disperati del mare. Viene ordinato di tenerli fermi e lontani benché stremati.

Atti indegni di questo tipo, come le aggressioni e i linciaggi, tendono a ripetersi in questa Italia. Nuovi immigrati alla deriva, al largo delle coste libiche sono stati avvistati da un mercantile italiano che si è guardato bene dal prestare soccorso dopo ciò che era toccato alla nave turca. Si trattava - ci ha detto il giornalista Viviano di Repubblica (7 maggio) - di 227 disperati tra cui 40 donne. Sono subito arrivate sul posto unità della Marina militare italiana con un ordine barbaro e disumano del ministro dell’Interno della Padania insediato a Roma: le centinaia di profughi disperati raccolti in mare sono stati riportati in Libia. Vuol dire condannati a morte, per esecuzione, per inedia nei campi profughi del deserto, per schiavitù (lavoro forzato senza paga), per l’abbandono in aree prive di tutto, in violazione della Costituzione italiana e della Carta dei Diritti dell’Uomo, come ha scritto con sdegno L’Osservatore Romano.

Ogni possibile richiesta di diritto d’asilo, per quanto urgente e legittima, viene in questo modo vietata da marinai italiani usati come poliziotti crudeli di una dittatura senza scrupoli.

Adesso scopriamo che, prima ancora che il Parlamento italiano affronti l’odioso “pacchetto sicurezza” della Lega e lo voti con l’espediente della “fiducia” in modo da bloccare ogni discussione, adesso scopriamo che le “leggi razziali” sono già in funzione, oggi, in questa Italia, mentre tanti, in politica o nella vita di tutti i giorni, fanno finta di non sapere, non vedere, di non essere disturbati. Proprio come nel 1938. Ma nel 1938 quelle schiene piegate di un popolo erano state preparate da quasi due decenni di fascismo.

Dicono i Radicali: anche oggi una simile rinuncia alla libertà, alla opposizione, alla critica non arriva tutta in una volta come una valanga. Ci vuole una lunga preparazione per cedere senza resistenza i propri diritti. Di fronte al diffuso silenzio per la paurosa epoca italiana che stiamo vivendo è inevitabile chiedersi: e se i Radicali, indossando la loro maleducata e impropria stella gialla, avessero ragione?

© 2024 Eddyburg