Perché i partiti socialdemocratici crollano in tutta Europa proprio in un periodo di recessione? La risposta è nei 26 milioni di immigrati nell'Unione Europea negli ultimi anni. I cittadini sono preoccupati per la sostenibilità del welfare state europeo. E se la soluzione sembra essere in più rigide politiche sull'immigrazione e nelle limitazioni all'accesso allo stato sociale, le coalizioni di destra sono decisamente più credibili. Ma sono politiche inattuabili nel lungo periodo. Esistono alternative ben più efficaci. Senza rinunciare alla redistribuzione.
Le recessioni di norma favoriscono i partiti di sinistra. Il loro appoggio a politiche redistributive è percepito dagli elettori come una forma di assicurazione: durante la crisi si perde il lavoro o si diventa più poveri, ci sarà qualcuno “lassù, al governo” che si preoccuperà di garantire una forma di aiuto di carattere sociale. “Nessuno sarà lasciato indietro” è il motto dei socialdemocratici e il contenuto dell’universalismo nelle prestazioni sociali da loro sostenute. L’età dell’oro dei socialdemocratici nel Parlamento europeo è stata a metà anni Novanta, quando l’Unione Europea aveva tassi di disoccupazione a due cifre e usciva da una pesante recessione. La supremazia del gruppo socialista a Strasburgo è finita quando la disoccupazione ha iniziato a convergere verso i livelli degli Stati Uniti e il tasso di occupazione ad avvicinarsi agli obiettivi di Lisbona. E invece, questa recessione, la più grave del Dopoguerra, è andata di pari passo con l’affermazione elettorale di movimenti di destra e xenofobi in tutto il Vecchio Continente e con la disfatta proprio di quei partiti che storicamente hanno contribuito di più alla costruzione del welfare state europeo.
Un'arma di esclusione sociale di massa
Com’è potuto accadere? La risposta è l’immigrazione. Negli ultimi venti anni più di 26 milioni di persone sono arrivate nell’Unione Europea a 15 contro i poco più di 20 milioni di emigrati negli Stati Uniti, di 1,6 milioni in Australia e meno di un milione in Giappone. Dal 2000, paesi come l’Irlanda e la Spagna, ora particolarmente colpiti dalla crisi, hanno visto raddoppiare il rapporto tra popolazione straniera e indigena. Certo questi flussi sono precedenti alla recessione e, anzi, durante la crisi l’immigrazione tende a diminuire: approssimativamente del 2 per cento per ogni punto percentuale di caduta del prodotto nel paese di destinazione. Ma a preoccupare gli europei è la combinazione di una forte e recente immigrazione, della recessione e del welfare state. I dati dell’European Social Survey rivelano un marcato deterioramento della percezione dei migranti da parte degli europei a partire dal 2002. Questo deterioramento è dovuto alla preoccupazione che gli immigrati siano un peso fiscale in quanto beneficiari dei generosi trasferimenti di carattere sociale garantiti dall’Europa, “la terra della redistribuzione”. Paradossalmente, le politiche redistributive introdotte con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale sono diventate un’arma di esclusione sociale di massa. Ora che i deficit pubblici salgono alle stelle e la disoccupazione torna su livelli a due cifre, gli autoctoni hanno la legittima preoccupazione che anche i più strenui difensori delle politiche redistributive saranno costretti a tagliare le prestazioni sociali, a meno che non riescano a limitare l’immigrazione o almeno l’accesso degli immigrati al welfare. Ma per motivi ideologici, i partiti di sinistra non possono perseguire politiche che introducono barriere o un accesso asimmetrico al welfare per gli immigrati. Le coalizioni di destra e i movimenti xenofobi sono più credibili dei socialdemocratici nel perseguire politiche di questo tipo. L’Italia di destra e la Spagna di sinistra ne sono un buon esempio. In Italia, dai trasferimenti sociali ai poveri sono esclusi a priori coloro che non hanno un passaporto italiano, indipendentemente dal fatto che siano immigrati legali o clandestini e che abbiano pagato le tasse. Intanto, le barche dei disperati vengono respinte verso la Libia e nessuno sa dove da saranno portate queste persone. In Spagna i trasferimenti sociali sono estesi ai cittadini stranieri e di recente il governo ha pubblicato un rapporto che documenta il contributo decisivo dato dall’immigrazione nel boom economico degli ultimi dieci anni. Il Ministero del Lavoro è stato ribattezzato Ministero del Lavoro e dell’Immigrazione. Non è il Ministero degli Interni, come da noi, ad avere la titolarità di queste politiche.
Le alternative possibili
La faccia rassicurante dei socialdemocratici si sta trasformando in un incubo proprio per quei cittadini europei che rappresentano il loro elettorato tradizionale: operai, persone con reddito basso o che vanno avanti grazie ai sussidi del welfare. Devono quindi i socialdemocratici rinunciare ai loro ideali opure rassegnarsi a scomparire? Non necessariamente. In primo luogo, non è affatto detto che le misure volte a rendere più rigide le politiche sull’immigrazione e a limitare l’accesso al welfare per gli immigrati rappresentino la risposta migliore alle preoccupazioni dell’opinione pubblica al di là del brevissimo periodo. La recessione è destinata a durare a lungo, e non è semplice mettere in pratica le restrizioni all’immigrazione, come dimostra l’alto numero di immigrati illegali che vivono nell’Unione Europea. E’ difficile anche limitare l’accesso al welfare da parte degli immigrati: l’esperienza degli Stati Uniti ci dice che queste restrizioni possono essere ribaltate dai pronunciamenti dei tribunali, in particolare in quei paesi dove l’immigrazione è già forte e consolidata.
Così anche le politiche oggi premiate dagli elettori possono non dare quei risultati rassicuranti che promettono. Invece di imitare i loro avversari, i socialdemocratici dovrebbero cercare di riformare i loro programmi di welfare rendendoli maggiormente proattivi e rafforzandone le basi assicurative. Questo significa che la possibilità di ricevere i sussidi deve essere subordinata al pagamento dei contributi (gli immigrati sono ovunque contribuenti netti) e che gli abusi debbono essere sanzionati sia sotto il profilo sociale che amministrativo. La Danimarca e la Svezia sono i paesi che hanno fatto i passi più importanti nella riforma delle politiche sociali in questa direzione: è solo un caso che i partiti di centrosinistra di questi due paesi siano le uniche formazioni politiche pro-welfare a non essere state sconfitte in queste elezioni europee?
Assieme all'astensione, che ha punito tutti i cantori dell'Europa quale che sia, le elezioni del 7 giugno hanno somministrato in Italia diverse sberle severe. La prima è quella dei due rissosi spezzoni di Rifondazione, nessuno dei quali ha raggiunto il 4 per cento, disperdendo oltre il 6 per cento dei voti espressi. Non ci riprovino, perché non beccherebbero più neanche quelli. La seconda è quella del Pd, il quale ha incassato lo schiaffone infertogli dallo sceriffo dell'Italia dei valori e col suo pasticciato programma ha subìto lo stesso colpo degli altri socialismi europei, privi di qualsiasi idea in proprio. La terza sberla l'ha presa Berlusconi, il cui sogno di oltrepassare il 40% per governare da solo con il sostegno della Lega si è dimostrato irrealizzabile. Il Pdl non ha superato il 35% e la Lega non è la costola di nessuno, è l'espressione nazionale di una destra europea particolarmente brutta, che mette radici da tutte le parti e condiziona il Pdl invece che farsi condizionare. Quanto ai cattolici o ex Dc, ormai seguiranno Casini, ci si può scommettere. Per ultimo, è certo che gli uomini di Fini non si sono dati troppo da fare per il Cavaliere: se lavorano, lavorano per il loro capo che si sta volonterosamente fabbricando un'immagine di destra presentabile, cosa che a Berlusconi e Bossi è impossibile.
Né il Pdl né il Pd né la sinistra radicale sono riusciti a motivare l'elettorato, anche se l'astensione deve aver giocato piuttosto a sinistra, sempre nell'idea dura a morire che le sinistre rifletteranno sicuramente su chi gli ha rifiutato per sdegno il voto. L'astensione non le ha mai corrette. Ancora più derisorio appare che alcuni dei loro esponenti, già sicuri contro qualsiasi verosimiglianza storica, della vocazione bipartitica degli italiani - che dal 7 giugno è, per i politicisti, la vittima principale - dichiarino che i risultati sono abbastanza buoni. Fa impressione sentire dal Pd che esso «sta tenendo bene il campo». Il Pd deve riconoscere al più presto che la miscela di cui è fatto è indigeribile per chiunque vorrebbe un riformismo dotato di qualche senso. Non si può andare con l'Opus Dei e negare i diritti civili a un elettorato laico e anche cattolico adulto. Non si può, con la scusa di non demonizzare Berlusconi, infliggere a un elettorato semplicemente democratico le leggi fatte ad personam, le insolenze alla magistratura, le porcherie fiscali e quelle personali del cavaliere. Voglio ammettere che un terzo degli italiani s'è abituato ad ammirare l'improntitudine e l'impunità, ma per gli altri due terzi è difficile ingoiarle. Infine, la mancanza nel Pd di qualunque sensibilità sociale, sia pur moderata, la voglia non nascosta di mettersi al seguito di Emma Marcegaglia, e nello stesso tempo la mancanza di qualsiasi altra credibile sinistra sociale - credibile nel senso di dare ai lavoratori dipendenti più importanza che alle proprie velleità di protagonismo - ha probabilmente regalato all'astensione o al protezionismo di Tremonti una parte dei voti di quegli operai, i quali hanno poche scelte davanti al perdere il lavoro e con esso la sussistenza. Leggere oggi che Massimo D'Alema ha raccolto i suoi non per proporre una correzione di linea ma per confermare la sua promessa di fare segretario del partito Bersani, liberalizzatore dei taxi, fa cadere le braccia.
Per ultimo, due parole sulla scomparsa della sinistra radicale, quella che ha disperso fra gli altri anche il mio voto. Sbaglia Asor Rosa dicendo al Corriere che nessuno ha tentato di evitarle la sbandata che ha preso. Molti di noi hanno tentato e senza volere per noi proprio nulla. Solo per timore che accadesse quel che era molto probabile e che infatti è accaduto. E non proponevamo partiti pasticciati, solo di dare una certa rappresentanza a una lista unitaria, quindi anche di sensibilità parzialmente diverse, ma di sicura onestà, fedeltà di sinistra e competenza. Non hanno voluto. Anzi, mi si corregga se sbaglio, in particolare Ferrero e Diliberto non hanno voluto. Non è che con ciò abbiano salvato il comunismo. A Pd, Rifondazione e Sinistra e Libertà suggeriamo di mandare i loro dirigenti in congedo al più presto. E se in mezzo a loro ci sono - e sappiamo che ci sono - persone serie e ragionevoli, chiediamo che riflettano al più presto su come leggere senza troppi svarioni i problemi che il 2009 sbandiera alle sinistre. È vero che ce ne sono almeno due, ma tutte e due hanno a che fare con i disastri prodotti dal capitalismo, più o meno selvaggio, o dalle illibertà politiche e civili. Tutto è scritto, basta saper leggere.
Risultato comunque grave e da non edulcorare. La destra sfiora il 50% e il Pd deve puntare su se stesso per sbarrarle la strada». Giudizio preoccupato quello di Giovanni De Luna, storico a Torino. Che insiste su due concetti: debolezza identitaria del Pd e crisi dell’idea di Europa. E aggiunge: «Il Pd deve calare i suoi valori sul territorio e sceglierli con chiarezza, prima ancora di pensare alle alleanze».
Professor De Luna: forte vento di destra in Europa. Liberali, conservatori ed euroscettici trionfano in Francia, Austria, Inghilterra, Olanda e Gran Bretagna. E poi c’è il dato massiccio dell’astensione. Che significa?
«Il calo del voto in Europa dal 1979 indica una perdita di fiducia nell’europeismo. Prima c’era una spinta dal basso, oggi atrofizzata. E il vento xenofobo ed euroscettico esprime lo svuotamento delle sovranità nazionali, con incremento dei localismi. Lo stato nazionale post-novecentesco si impoverisce sotto una duplice spinta: territoriale e sovranazionale. E l’astensione è una spia di tutto questo. Insomma, l’Europa è diventata una specie di bancomat, oppure un vincolo economicistico. Certo l’Euro e la banca centrale sono stati fattori utili e risolutivi. Ma è mancata la politica, la memoria, la religione civile degli europei. Quello che gli stati nazionali avevano fatto caso per caso. È stupefacente che sia stato Obama a dover rivitalizzare i luoghi chiave dell’identità europea democratica: il D-Day, Buchenwald. Mentre Brandt aveva fatto qualcosa di simile col suo viaggio a Varsavia. Dieci anni fa quasi tutta l’Europa era socialista e poteva fare molto in questo senso... ».
Dieci anni di arcigne politiche «mercatiste» e monetariste
«Totalmente burocratiche. Indifferenti a ogni questione di futuro e di identità civile. La reazione all’immigrazione si nutre di questo disincanto. L’unico squacio identitario è stato quello sulle radici cristiane, usato però in chiave etnocentrica. Ripeto, c’è voluto Obama al Cairo per sentire un discorso europeista e inclusivo sull’Islam! Su questo la sinistra, anche italiana, si sarebbe dovuta legittimare fortemente. Invece si è fatta dettare l’agenda da Repubblica. Per carità: l’etica, il basso impero di Berlusconi. Cose sacrosante. Ma la carta da giocare doveva essere l’Europeismo, non l’indignazione per le veline».
L’astensione italiana segnala anche un disinteresse per la politica nazionale oltre che per l’Europa, non crede?
«Sì, ma la disaffezione verso l’Europa mi pare prevalente, come altrove. Quanto alla politica interna, c’è qualcosa di simile in Europa: la cannibalizzazione interna al Labour. Esempio di sfilacciamento della sinistra in questo momento di passaggio, che alimenta l’astensionismo. Un fenomeno da leggere inoltre in relazione al diffuso degrado della politica: nani e ballerine in tutte le liste. Irruzione del gossip e del privato. Fattori che caricano e insieme scaricano di valori la politica».
E ora il dato italiano. Le prime proiezioni segnalano una tenuta del Pd sopra il 27%, e il Pdl attorno al 36. Con la Lega verso il 10%, Di Pietro all’8% e le due sinistre radicali che probabilmente non passano il quorum. Che ne dice?
«Inutile minimizzare. Anche se la coalizione di governo resta sotto il 50%. Il pericolo rimane, per l’arroganza e lo strapotere di questa destra. Perciò lo ripeto. Il Pd non può più farsi dettare l’agenda da Repubblica - che pure fa il suo mestiere - in termini di costume. Il suo gruppo dirigente deve recuperare a pieno la sua autonomia politica. Bisognava parlare di Europa e di programmi, non di scandali».
E domani? Quali priorità immediate per il Pd, interne e all’esterno? E ancora: è giusto appoggiare il referendum maggioritario?
«Un errore cominciare a parlare subito di alleanze, con Di Pietro o con Casini. O con ciò che resta della sinistra radicale, incapace di gestire un’area potenziale tra il 10 e il 12%. Il Pd deve puntare a ritrovare sè stesso. Trovare un baricentro chiaro, sul piano dei principi e dei valori. Sulla laicità ad esempio, anche pagando dei prezzi. Quanto al referendum, sarebbe una follia votare per il maggioritario in questo frangente. Occorre ritrovare le radici parlamentari e proporzionali della democrazia contro il populismo. Nel solco della nostra Costituzione».
Non disponiamo ancora dei dati definitivi, tuttavia i nostri orari ci impongono di scrivere, e il primo giudizio è nettamente negativo. Berlusconi ha subito una botta, non è riuscito a superare quel 40% , che aveva annunciato, ma nonostante il discredito del quale si è ricoperto in patria e all’estero è riuscito a conservare la maggioranza. Altro dato negativo è la crescita dell’astensione, nella quale questa volta converge la rabbia di tanti elettori di sinistra.
Berlusconi non ha stravinto, ma non ha affatto perso e, con gli accresciuti voti della Lega, può affermare di toccare il 50% dei consensi, anche se la Lega (ricordiamo il passato) non è un suddito fedele. Però ci sono avvisaglie di un logorio del cavaliere con i suoi insuccessi di fronte alla crisi e anche al terremoto dell’Aquila. Di Pietro con la sua demagogia e l’aiuto (immeritato) di alcuni candidati eccellenti, registra una buona affermazione: l’8%, che potrà avere un peso contro, ma difficilmente a favore di qualcosa di buono. Il problema grave e difficile è quello della sinistra italiana. I dati ci dicono che il Pd ha perduto voti, ma ha evitato il tracollo, e che Rifondazione e Sinistra e Libertà non sono riusciti a superare il quorum del 4%.
Queste europee hanno confermato e aggravato il nefasto insuccesso dell’Arcobaleno nelle passate politiche. Non dimentichiamo che la sinistra non è andata bene neppure in Europa, e che nella situazione data e con la crisi che continuerà ancora a pesare sulla vita dei ceti più deboli, la tendenza sarà al peggio. Siccome non sono tempi di rivoluzione la crisi (anche con gli interventi keynesiani dello stato, li fece anche Mussolini) rafforzerà le spinte di destra.
Di fronte a questo stato di cose (e delle persone) per noi e per tutti i democratici, viene in primo piano e piuttosto drammaticamente il che fare con tutto quel che resta della sinistra e delle sinistre ancora acidamente polemiche tra loro. Il problema - credo io - sia anche per (e con) il Pd, che non può consolarsi con il recupero elettorale, di fronte a una forza crescente della destra. Dentro il Pd ci sono anche (e credo in maggioranza) donne e uomini di sinistra.
All’inizio di questa infausta campagna elettorale il manifesto aveva proposto a Rifondazione e Sinistra e Libertà di candidare unitariamente una rosa di personalità di sinistra al di fuori delle liti interpartitiche. Oggi queste due forze di sinistra sconfitte (salvo un miracolo dell’ultimora), ma non arrese (di questo siamo ben convinti) dovrebbero avviare una serie di incontri, al centro e in tutti i luoghi di forte presenza (questa presenza c’è) per avviare e definire insieme un percorso, non solo politico ma anche culturale, per battere la minaccia del berlusconismo (non si tratta solo di Berlusconi, ma di una subcultura diffusa) alla democrazia italiana. Oggi questo che fare è possibile. Noi del manifesto, nella modestia della nostra forza e delle nostre capacità, siamo in edicola (è il nostro campo) per questo. Compito arduo, ma necessario, indilazionabile.
Ultime ore per votare alle europee. Se c’è un paese dell’Unione dove è insensato non andare a votare, questo è proprio il nostro. Per due buone ragioni nazionali.
La prima ragione è che l’Italia - dove è più profonda la recessione e più alto il rischio di crisi sociale - ha più bisogno di un’Unione europea "attiva". Nel cui "insieme" possa trovare sostegno e spinta per la ripresa. Un Parlamento europeo legittimato da una buona partecipazione elettorale è un fattore decisivo per avere appunto una Europa "attiva".
Non è vero che sia un Parlamento senza "governo" di riferimento. Non è vero, formalmente, perché il suo voto è determinante nella scelta del presidente della Commissione europea e dei Commissari e nella loro vita successiva. Ma non è vero, sostanzialmente, perché il suo ruolo conta nella governance dell’Unione. Sia nelle scelte concrete di legislazione (almeno il 75 per cento delle leggi che ci regolano la vita quotidiana sono di origine comunitaria). Sia negli orientamenti del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo (che non possono ignorare, negli equilibri istituzionali dell’Unione, la forza elettorale del suo Parlamento).
È profondamente sbagliato, d’altra parte, pretendere di trovare in un ordinamento sovranazionale le stesse caratteristiche del rapporto fiduciario Parlamento-governo proprie di un tradizionale ordine statuale nazionale.
Se dietro i nostri 72 deputati ci sarà un’alta partecipazione elettorale, avremo fatto perciò una buona cosa. E non perché non conosciamo tutto il male sui parlamenti e sui parlamentari. Ma perché è una cosa che è nel nostro interesse: aumentare, per la nostra parte, la legittimazione elettorale del Parlamento europeo può aiutarci nei prossimi difficili anni. Più conterà il Parlamento, più saranno possibili politiche comuni economiche e sociali. L’ondata di neo-nazionalismo, alla fine, non conviene a nessuno in Europa. Ma certo i più forti possono difendersi meglio da soli.
Poi, naturalmente, c’è la scelta di chi mandare a Bruxelles – Strasburgo. È assai probabile che, dopo queste elezioni, le tradizionali linee di confine, centrodestra-centrosinistra, scoloriranno per far posto nel nuovo Parlamento ad una inquietante frontiera di opposizione tra "unionisti" e "anti-unionisti".
Il rifiuto dei conservatori inglesi di continuare a far parte, dopo vent’anni, del gruppo del Partito popolare, "troppo" europeista, è stato il segnale più grave di una faglia che si allarga. A destra il fronte "anti-unionista", che è qualcosa di più dell’euroscetticismo, si è enormemente esteso. Vi è uno schieramento, con punte xenofobe e neonaziste, intenzionato a sabotare il Parlamento europeo dal di dentro. Più che per il numero, la sua pericolosità è nel rischio di contagio-ricatto verso territori politici contigui, con catastrofiche rincorse demagogiche (l’esempio italiano dei "condizionamenti" leghisti per la legge anti-immigrazione più repressiva d’Europa, è sotto gli occhi di tutti). A sinistra, il fronte "anti-unionista" può contare oltre che sulle tradizionali frange di sinistra radicale spagnole e italiane (se riusciranno a superare lo sbarramento) sul ben più consistente apporto dei trotzkisti francesi di Besancenot e della tedesca Nuova Sinistra, gli uni e l’altra accreditati del 10 per cento del loro elettorato. È una situazione nuova: che potrà dar vita ad inedite alleanze tra i gruppi parlamentari storicamente "unionisti" (popolari, socialisti, liberali). Ma anche a diaspore assembleari ingovernabili.
È curioso che da noi ci si è accalorati, con molto anacronismo e con un certo "cretinismo parlamentare", sulla collocazione futura dei deputati del Partito democratico. Dentro o fuori il Partito socialista europeo (ma sempre e comunque nel campo "unionista"). E nessuno parla, invece, della diversa collocazione degli eletti del Popolo della libertà e di quelli della Lega: che saranno separati da questa nuova – e drammatica – linea di frattura europea.
La seconda ragione nazionale per andare a votare è data dall’intensità dei riflettori che oggi sono puntati implacabilmente su di noi. Il particolare squilibrio di condizioni dell’opposizione nel sistema della comunicazione politica. I propositi annunciati e insistiti di cesarismo antiparlamentare e antigarantista. Lo straordinario passaparola popolare europeo, determinato dalla nostra "storiaccia" di variety istituzionale. Ognuna di queste cose ha acceso tutte le luci della ribalta per un pubblico che non è solo "di casa".
Certo, come tanti hanno detto, le elezioni europee possono, alla fine, valere solo come un "sondaggio in grande". Ma, a differenza di Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e di altri ancora, per noi non sarà un sondaggio ad uso interno. Sarà un sondaggio ad uso europeo. Per accertare quale sia, dopo tanto clamore, la vera condizione del sistema politico in un paese fondatore e, spesso, "federatore". Per verificare quale sia la estensione reale del consenso di cui gode un potere di governo per molti versi atipico rispetto alla normalità europea. Per misurare quale sia la consistenza del contro-potere elettorale di opposizione: dopo il collasso di quasi tutte le garanzie comuni al costituzionalismo dell’Unione. Curiosità legittime in un ordinamento sovranazionale che nel "rispetto dello Stato di diritto" trova la sua chiave unificante.
Ecco, sono queste le due buone ragioni italiane per cogliere le ultime ore per andare a votare, per non tirarsi indietro: un po’ nell’interesse nazionale e un po’ per vedere a che punto è la notte.
Miracolo al Cairo
di Valentino Parlato
Non mi pare esagerato definire storico il discorso di Barack Obama all'Università del Cairo. Un discorso storico con piena coscienza della globalizzazione e dei grandi pericoli che comporta l'attuale crisi, che non è solo economica.
E' innanzitutto il taglio netto con la teoria e pratica dell'esportazione della democrazia di G.W. Bush e dei suoi accoliti in Europa e nel mondo: «l'America - ha detto - non presume di sapere quello che è il bene per tutti» e tanto meno di avere la tentazione di imporlo. La tolleranza - vale ricordarlo - era un alto valore per gli Illuministi. Fine della pratica dell'esportazione della democrazia e massima attenzione a quella parte del mondo dove massimi sono i pericoli di un'improvvisa deflagrazione di violenza: il Medio Oriente, l'Islam, la Palestina.
Sull'Islam - va ricordato - era emerso lo «scontro di civiltà». Obama ha detto che bisogna apprezzare i valori propri anche dell'Islam, ha ricordato Gerusalemme come patria delle tre religioni monoteiste e il dovere di «combattere contro gli stereotipi sull'Islam ovunque appaiono». Dopo i furiosi attacchi all'Iran, il presidente ha detto che «l'Iran dovrebbe avere accesso al nucleare pacifico, ma deve aderire al Trattato di non proliferazione».
Razionale e appassionato, da indurre commozione in chi legge e ha memoria di un pogrom sanguinoso. Il riconoscimento delle tragedie del popolo ebraico è il massimo, e massimo è l'impegno del suo governo a difenderlo e difendere lo stato di Israele, ma proprio con la forza di questa posizione afferma il diritto dei palestinesi, perseguitati e offesi, ad avere uno stato. «I legami degli Stati uniti con Israele sono inattaccabili, ma la situazione dei palestinesi è intollerabile, soffrono da 60 anni». E Israele deve fermare gli insediamenti.
E' la proposta di un nuovo inizio al mondo musulmano; fine dell'esportazione della democrazia; libertà religiosa; libertà delle donne («una donna che sceglie il velo non è meno uguale ma è negata l'eguaglianza a una donna alla quale si nega l'istruzione»).
I nodi più difficili da sciogliere sono l'Afghanistan e la Palestina: l'Afghanistan non ha storicamente portato bene a nessuno di quelli che sono intervenuti, con l'attuale governo israeliano, il riconoscimento dello stato palestinese sarà difficile. Vanno notate le reazioni al discorso di Obama: molto fredde da parte di Israele mentre Hamas, pure rimproverata, si è dichiarata disponibile a trattare. Vedremo.
Quello di Obama, lo ripeto, è un discorso storico e coraggioso. Coraggioso perché il successo appare molto difficile e - a parer mio - non tanto per Bin Laden, quanto per le profonde frustrazioni del mondo islamico, la sua confusione e le sue ingiustizie sociali.
Molto difficile anche nei confronti di Israele, il cui attuale governo ha già mandato al diavolo Obama quando Nethanyahu è stato a Washington.
Quel che mi pare certo è che un insuccesso di Obama porterebbe il mondo alla soglia di una catastrofe. L'Europa che ha ancora qualche peso dovrebbe muoversi, e non con le basi di Sarkozy, in Medio Oriente.
Ridisegnare il mondo
di Mariuccia Ciotta
Mente e cuore non risuonano come armi, l'appello di Barack Obama parla a quella zona immateriale della politica che, al contrario dell'opinione di numerosi osservatori, è l'unica «realistica».
Si rimprovera al presidente degli Stati Uniti l'inconsistenza del suo discorso, quel soft-power che, al di là dell'evidente fascino, non sarebbe efficace nel risolvere gli storici e immensi problemi del Medio Oriente e del mondo in generale. Obama, dicono, lavora sulle «percezioni» e non sulla dura realtà. Farà seguire alla parola i fatti? ci si chiede, e non tanto per sfiducia nell'uomo, ma per una valutazione del «metodo» che appare poco adeguato alla potenza degli interessi in campo.
Qualcuno è convinto, sostiene Obama, che civiltà, religioni, paesi «siano destinati a scontrarsi», che il peso del passato è tale da impedire un nuovo inizio. «Ma io penso che si debba ricominciare da zero, che soprattutto i giovani sono chiamati a ri-immaginare il mondo». E qui si sente l'eco di Franklin D. Roosevelt quando nella Grande crisi esortava a «ridisegnare l'America», e quella visionaria di Bob Kennedy nell'ultimo intervento all'Ambassador Hotel di Los Angeles prima di essere assassinato.
Pallottole virtuali si incrociavano nella splendida cornice dell'università egiziana a ogni passaggio dello storico incontro con l'Islam. La forza del discorso del Cairo è di averlo indirizzato agli individui e non al tavolo separato dei trattati, un discorso che ha scartato dal «possibile», ciò che è concretamente fattibile come la creazione di due stati, Israele e Palestina, per dire ciò che è ineludibile. Ciò che è giusto fare, «non in un giorno... e questo discorso non basterà».
È una rivoluzione culturale alla quale invita a partecipare, e, non a caso, si è riferito spesso al «quel che teniamo nel cuore... quel che si dice in privato», piuttosto che al «buon senso» pubblico, alla real-politik.
Chi rimprovera il presidente di percorrere la via catastrofica delle buone intenzioni dovrebbe ricordarsi della sua scelta di preferire i ghetti di Chicago alle sontuose proposte di carriera nei più prestigiosi istituti legali e bancari all'indomani della consacrazione di Harvard - Barack ne uscì come lo studente più dotato. Colleghi e amici profetizzarono allora la sua fine. Quella scelta confliggeva con la logica di un futuro ricco e prestigioso, era controcorrente, assurda e autolesionista. Sappiamo come è andata a finire. E ancora adesso, consapevole che «le parole non bastano, ci vogliono le azioni», il presidente guarda oltre gli ostacoli e sa che «non possiamo imporre la pace». È facile cominciare una guerra, dice, è difficile porle termine. E ancora: «le elezioni da sole non fanno la democrazia». È necessario assaporarla giorno per giorno.
C'è nelle parole di Barack Hussein Obama un «noi» che include occidente e oriente e che si distingue dalla narrazione di un mondo incatenato ai rapporti di forza. Non c'era altro discorso possibile che suonasse come racconto corale, capace di mobilitare gli unici protagonisti del cambiamento, ognuno e tutti.
L'Impero del bene
di Roberto Zanini
We love you, we love you, ti amiamo, quanto ti amiamo. I duemila studenti dell'università del Cairo applaudono, gridano, ridono, proprio come un sacco di telespettatori arabi e non (un miliardo e mezzo, dicono), incollati alla tv dalle promesse dell'uomo nuovo all'attacco del mondo vecchio. Annunciato e riannunciato, limato fino all'ultimo, atteso con speranza e con scetticismo, Barack Hussein Obama è arrivato al Cairo per dire della sua America e dell'Islam, per ricucire l'epico strappo tra la monopotenza e la sola «religione del Libro» rimasta fuori dal mondo ridisegnato dal crollo di Berlino. L'America di Obama contro quella di Bush, quella delle guerre in cui dio e il petrolio combattevano fianco a fianco, dello scontro di civiltà come asse del discorso politico, del regime a paese unico.
Barack Hussein Obama parla da un paese che non esiste più. Prova a disegnare una pax americana basata non più - o non solo - sulla canna del fucile. L'università del Cairo applaude, l'occidente applaude, la sua America applaude. Qualcuno scuote la testa e dice belle parole ma aspettiamo i fatti. Le truppe americane restano in Iraq e aumenteranno in Afghanistan, generose iniezioni di denaro puntellano un sistema economico che ha spogliato i molti per arricchire i pochi, il sistema di alleanze non si discute e non si discuterà ancora a lungo. Per ora, l'America di Obama esiste più che altro sulla carta.
Nelle seimila parole con cui il presidente degli Stati uniti ha acceso la platea egiziana non c'è mai il termine «terrorismo»: mai nemmeno una volta, sistematicamente sostituito da «estremisti violenti» o perifrasi simili. Ha usato cinquantacinque minuti, Barack Obama, per convincere l'islam e il mondo che l'America è cambiata. E cambiata lo è davvero, nelle parole del presidente. Che ha giocato tutte ma proprio tutte le carte possibili: i richiami alla sua pelle nera, il padre immigrato e islamico, la sua iniziale opposizione alla guerra in Iraq, il rooseveltismo implicito nei «sei punti» del suo discorso, così simili alle «quattro libertà» con cui Franklin Delano e signora convinsero il loro paese a occuparsi dei tiranni del mondo, e dei nazisti in particolare, quasi settanta anni fa. Persino il ricordo del più famoso musulmano d'America, Mohammed Alì, scelto per accendere la torcia olimpica nelle olimpiadi di Atlanta, quelle del centenario che la Cocacola e le sue sorelle vollero negli Stati uniti invece che ad Atene. E frequenti citazioni del Corano, pure immediatamente seguite dalla Torah e dalla Bibbia.
Pace accordo e distensione, ha detto Obama all'islam, e parlava dietro quasi invisibili vetri antiproiettile che proteggevano il podio dell'università, già luce laica del mondo arabo, che il lungo regno del «faraone» Mubarak - al potere da quasi trent'anni - ha gradualmente spento e sostituito con fratellanze musulmane più o meno bellicose (mentre le cronache egiziane riferivano di retate ad ampio raggio contro islamisti e integralisti vari, perché niente potesse disturbare il grande giorno della pacificazione tra Washington e il nemico di ieri).
«Cerco un nuovo inizio tra gli Stati uniti e i musulmani di tutto il mondo», ha detto il presidente. E del nuovo c'è, nel tono e nella sostanza. Critiche alla guerra in Iraq («quanto è successo in Iraq è servito all'America per comprendere meglio l'uso delle risorse diplomatiche e l'utilità del consenso internazionale»), la conferma del ritiro da Baghdad («onoreremo la promessa di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall'Iraq entro il 2012»), il riconoscimento della tragedia palestinese («che non ci siano dubbi: la sofferenza dei palestinesi è intollerabile»), qualche monito all'espansione israeliana («gli Stati uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace»), i diritti delle donne («che non riguardano in alcun modo l'islam: in Turchia, Pakistan, Bangladesh e Indonesia abbiamo visto paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna»), persino il riconoscimento che tutti, anche Tehran, possano avere accesso al nucleare («Tutte le nazioni, compreso l'Iran, dovrebbero avere il diritto di accedere all'energia nucleare pacifica se rispettano i propri impegni in seno al trattato di non proliferazione nucleare»).
Dopo il discorso del Cairo, il tempo di un salto alle Piramidi e oggi Barack Obama sarà a Buchenwald, a certificare che la sutura della ferita musulmana non ne apre un'altra con Israele e con gli ebrei. Lo chiamano Hussein, gli estremisti sionisti e la loro stampa, per mettere l'accento sulla pericolosità intrinseca dell'uomo che ha sostituito il «cristiano rinato» Bush alla Casa Bianca. Il discorso sull'islam è già stato definito storico e sono stati immediatamente scomodati paralleli con Kennedy, Eisenhower, Truman e predecessori. Per ora sono parole. Per vedere il ritratto di Obama intagliato nella roccia di Mount Rushmore ci vorrà del tempo.
Con e senza velo. Come si archivia un lessico politico
dii Ida Dominijanni
Tre citazioni dal Corano, dal Talmud e dalla Bibbia chiudono il discorso di Obama al Cairo e archiviano l'epoca senza grazia dello «scontro di civiltà», che altro non è mai stato che uno scontro interno ai tre monoteismi. «A new beginning», un nuovo inizio, può cominciare, e comincia, nello stesso stile del discorso di insediamento del Presidente a Washington, col richiamo a tenere a mente il cuore vivo della tradizione. Lì sta la fonte sorgiva del futuro anteriore, che è il tempo della rivoluzione. Nel tempo di adesso, che ancora una volta per Obama è quello della responsabilità, c'è il compito di liberarsi del passato prossimo e del suo vocabolario politico devastato e devastante. Storico per l'apertura politica e geopolitica, il discorso di Obama non lo è di meno per la nitidezza culturale con cui archivia certe parole e altre ne impone.
E' una diversa percezione del mondo globale che irrompe dalla voce del presidente afroamericano cristiano venuto da padre kenyota e famiglia musulmana. Non più «noi» e «loro», il fantasma dell'Occidente e quello dei barbari, ma la realtà postcoloniale di un mescolamento già avvenuto: «l'Islam è parte della storia americana», la abita da decenni e da secoli nutre la cultura occidentale. Nella «new age» globale, «interdipendenza» è la parola chiave, la stessa che l'America ferita dall'attacco dell'11 settembre non volle prendere in considerazione. E se interdipendenza è la parola chiave, se la posta in gioco non è questa o quella nazione bensì la «comune umanità», bisogna ripartire dai «principi comuni» - giustizia, progresso, tolleranza, dignità umana - che Islam e America condividono.
Tutto il resto, nell'operazione di archiviazione del vocabolario politico e sentimentale dell'epoca dello scontro di civiltà, consegue da qui. «Sospetto, discordia, paura, scetticismo, diffidenza» devono cessare e lasciare il posto al senso di reciproca obbligazione, al dialogo interreligioso, alla «fiducia nell'altro». Gli stereotipi devono cadere, ma da tutte e due le parti: nella percezione americana dell'Islam, ma anche nella percezione islamica dell'America, giacché «noi americani», l'Impero di oggi, «siamo nati da una rivoluzione contro un impero». La violenza deve finire, da tutte e due le parti, fra America e estremismo islamico e fra Israele e Palestina, perché è la storia dei neri americani, degli immigrati negli Usa dal Sud Africa, dal Sud Asia, dall'Europa dell'Est a dire «una semplice verità: che la violenza è una strada senza uscita».
Ma è quando arriva nel territorio della religione occidentale per eccellenza, quello della democrazia, che l'operazione di ripulitura del vocabolario politico rende al meglio, perché è stato esattamente sul senso della democrazia, sulla sua «esportazione » all'esterno e sulla sua sfigurazione all'interno, che quel vocabolario è impazzito, dopo l'11 settembre, negli Stati uniti nonché in Europa. Qui Obama non si limita a dire che «nessun sistema di governo può o deve essere imposto a una nazione da un'altra», così archiviando le dichiarazioni di guerra fatte in nome di questo nobile scopo. Aggiunge il richiamo allo stato di diritto, rivendica la fine della tortura e la chiusura di Guantanamo.
E fa di più, inoltrandosi nel campo della libertà femminile e dell'uguaglianza fra i sessi, consapevole che in materia «c'è un dibattito sano» e complesso, ma che il punto è ineludibile e cruciale, vera e propria cartina di tornasole della tenuta o del tracollo del discorso democratico di fronte alla sfida della differenza fra i sessi, le culture, le religioni. Non per caso la legittimazione delle guerre in Afghanistan e in Iraq era passata anche e non secondariamente sotto la bandiera della «liberazione» delle donne dal patriarcato islamico, una liberazione che sottintendeva l'equazione - indebita - fra libertà femminile e libertà occidentale; e non per caso il dibattito sulla liceità dell'uso del velo da parte delle immigrate islamiche nelle democrazie occidentali è stato negli ultimi anni il versante «pacifico»di questa ideologia, in Europa più che negli Usa. Anche qui, Obama fa ordine come meglio non si potrebbe. «Non condivido l'opinione di alcuni in Occidente che una donna che sceglie di coprirsi i capelli sia meno uguale delle altre, ma credo che a una donna a cui è negata l'istruzione è negata l'uguaglianza». Ma d'altra parte, «Non credo che le donne debbano fare le stesse scelte degli uomini per essere uguali, ma deve essere loro la scelta». I diritti di uguaglianza sono nelle mani dei governi, ma la libertà femminile è nelle mani delle donne, e non sempre passa per l'uguaglianza, o non solo. A ovest e a est, la credibiluità della democrazia passa anche da qua.
La dottrina di Barack Hussein
Stefano Allievi
L'annuncio della svolta c'era già stato nel discorso di Chicago, al momento della sua elezione, e poi nell'intervista ad Al-Arabiya di gennaio, nel discorso della mano tesa all'Iran, e ancora nell'intervento al parlamento turco in aprile.
Con il discorso del Cairo, il grande discorso da una capitale islamica annunciato entro i primi cento giorni di mandato, e arrivato un po' in ritardo sulla tabella di marcia, ma con un grado di consapevolezza inaspettato, la svolta si è compiuta. La «dottrina Obama», come già oggi è lecito chiamarla, viene declinata in tutti i suoi aspetti, in un'ora di discorso densissimo di riferimenti: che, non è un'esagerazione, segnerà le relazioni tra Stati Uniti e mondo islamico, e più in generale tra islam e occidente, negli anni a venire.
Non si tratta solo di una grande offensiva mediatica, volta a cambiare l'immaginario e la simbolica delle relazioni tra Stati Uniti e mondo islamico: che già sarebbe importante. La svolta, anche di stile, rispetto alla precedente amministrazione Bush e più in generale alla politica estera americana, non potrebbe essere più netta: davvero «a new beginning».
Obama ha capito che non si trattava solo di fare un gesto di buona volontà: una nuova visione dei rapporti con l'islam è anche chiaramente vantaggiosa per gli Usa, tanto quanto la precedente politica è stata controproducente. E Obama non solo lo pensa: ci crede. Di più: questa visione la incarna nel proprio nome e la vive sulla propria pelle, letteralmente. E consapevolmente.
Le linee guida di questa politica non sono cambiate dalla sua elezione: fine dell'unilateralismo e dell'isolazionismo, apertura di credito al mondo islamico (ferma sui principi, ma attenta ai problemi interni e amichevole nello stile), fine del collateralismo compiacente con Israele. Testimoniato dalle parole ferme sugli insediamenti, che non si sentivano da anni da parte della leadership americana; ma senza nulla concedere al pregiudizio antiebraico così fortemente presente nel mondo islamico.
Non è un gesto di debolezza, questo di Obama: al contrario, è una posizione di forza, che non potrà non piacere ad un mondo arabo che culturalmente ha ancora il mito della nobiltà del gesto e della forza d'animo del capo, anche se lo pratica assai poco, e a cui piace farsi sedurre dal carisma politico del leader.
La definizione della «dottrina Obama» nei confronti dell'islam procede quindi senza incertezze.
C'è solo da auspicare che, come in passato per altre «dottrine», si sostanzi di una politica di lungo termine e, quindi, di atti concreti. I segni concreti si sono già visti: la chiusura di Guantanamo è già avviata, il ritiro dall'Iraq pianificato, seppure non così a breve termine come qualcuno si aspettava, l'impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese attivato, e persino un diverso atteggiamento nei confronti dell'Iran ha cominciato a manifestarsi (l'incognita, semmai, è se sarà raccolto).
Le questioni spinose le ha nominate tutte, e questo è un buon punto di partenza. Quelle spinose per gli Stati Uniti: le reticenze maggiori si sono registrate sull'Iraq, che non ha avuto il coraggio di chiamare almeno un errore, come ha fatto prima di essere presidente, se non una tragedia. E quelle spinose per i musulmani: diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele, democrazia, libertà religiosa, diritti della donna. Ma ha avuto l'intelligenza di rivolgersi, con un doppio livello di intervento, sia ai governi che ai popoli: e almeno con i secondi il successo di Obama appare garantito.
Intanto c'è da registrare almeno che il clima è cambiato. Negli Stati Uniti, nei confronti dei paesi islamici e dei musulmani. E, prima ancora, nei confronti delle opinioni divergenti, dato che, dal Dipartimento di Stato alle università, non dominano più i falchi dell'islamofobia guerrafondaia che avevano reso irrespirabile l'aria negli anni di Bush. Ma soprattutto tra i musulmani: l'applauso da popstar che ha concluso il suo discorso, seppure tributato da un pubblico particolare, lo sancisce.
Intanto, c'è da domandarsi se anche l'Europa sarà capace di farsi sentire.
Sull´insegna dell’Osteria della Luna Piena si ricorda che il locale è "memoria manzoniana", per dire che ci passò Renzo Tramaglino. Adesso, davanti al Phone Center a pochi metri dall’osteria, ci sono due sudanesi rifugiati politici. Disoccupati. Senza casa. Da due anni. Dormono dove capita.
Via Lazzaro Palazzi, Porta Venezia, quella che chiamano la "casbah" milanese, miscela di Africa e memorie manzoniane. Due passi più in là c’è la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, una lapide ricorda la carità dei frati cappuccini nell’assistere gli appestati. Dentro al suo ristorante il signor Alberto Lorenzetti è cupo: «Basta, sono stufo. Non vado neanche a votare stavolta, anche se sono di destra». Il signor Lorenzetti è nato in Etiopia, figlio di una donna etiope e di un milanese. Ha la pelle scura, il suo ristorante si chiama Saba, ci si mangia lo zighinì. Vive e lavora anche lui in quella Milano che l’altro giorno Silvio Berlusconi ha definito «una città africana».
Italiano a tutti gli effetti («Tredici mesi di naja, e ho sempre pagato le tasse»), milanese, ristoratore, tassista. «Faccio il tassista da diciassette anni, e adesso anche mio figlio. Fra il taxi e il ristorante lavoro diciotto ore al giorno. Siamo undici fratelli, e tutti lavorano». La pelle scura comincia a pesargli, e non era mai successo. «Le cose stanno peggiorando. Mi fa pena questa Italia, e lo dico da italiano. Io sono italiano, e italiano mi sono sempre sentito. Ma adesso, dopo 33 anni, comincio a sentirmi straniero. Non ho più l’età, altrimenti me ne andavo».
I cattivi umori toccano ora anche Porta Venezia, la cosiddetta "casbah"milanese, un posto dove la parola multietnico non suona allarmante. Porta Venezia è così da quarant’anni almeno. Non è un’idea possibile di convivenza: è una realtà, una tradizione, un’abitudine. Il bar Ethiopia sta di fronte alle cantine di Peppino Strippoli. Il caffè Addis Abeba e la trattoria Lucca in via Panfilo Castaldi. La miscela è antica. Nessun problema, ti ripetono.
Il problema, però, esiste ed è complicato. La città è complicata. Le cifre dicono: a gennaio 2009 c’erano a Milano 188.980 stranieri regolari (14,6 per cento della popolazione), più 38 mila irregolari. Gli africani regolari sono 58mila. Non tutta la Milano africana è antica come Porta Venezia, non tutta è pacificata e stratificata. Se vai verso fuori, oltre piazzale Maciachini, via Imbonati, via Pellegrino Rossi, lì lo stravolgimento ribollente dei vecchi quartieri lo vedi. Il governo della trasformazione abbandonato nelle mani onnipotenti del mercato. Così, dieci phone center in cento metri, minimarket etnici, kebab: senza un criterio, senza un equilibrio. La paura è dei vecchi, che vedono sparire i punti di riferimento, delle donne anziane alle prese con giovani maschi in gruppo. In via Padova, lo spaccio notturno, le bottiglie rotte, quelli che pisciano sui portoni. Gli stranieri appena arrivati sono più poveri, e coi poveri vanno a vivere, gomito a gomito. Agganciano legami dentro le loro comunità, creano reti di sopravvivenza separate, sono intraprendenti. Le differenze sono di colori, non solo quello della pelle, di abitudini, di odori. La Milano che invecchia fatica ad adattarsi, si vede diversa, non si riconosce. Ogni tanto esce una statistica che fa impressione. A Milano il cognome cinese Hu ha superato i Brambilla. In Brianza sono più gli imprenditori Mohammed dei Brambilla.
Qui a Porta Venezia, vecchia Milano multietnica, c’è chi vive tranquillo. Abraham Kibrom è il titolare della Ferramenta Galaxy: «Io sono nato in Etiopia, ma questo adesso sento che è il mio Paese, penso come un italiano, le tasse che pago mantengono i pensionati italiani. Ho diritto ad essere rispettato». E ci dev’essere una vena comune interetnica che attraversa il settore ferramenta, se anche dai concorrenti italiani della "Ferramenta Formenti" di via Panfilo Castaldi la campana è la stessa: «Guardi - dice il signor Licinio - sono trent’anni che lavoro qui, e il quartiere è sempre stato così come lo vede. Multietnico, e senza problemi. E sa cosa le dico? Multietnico per me significa che ho avuto modo di conoscere gente di tante nazionalità diverse. Qui di fianco ha appena aperto una parrucchiera africana: mi ha detto che non si aspettava di stare in mezzo a gente così per bene». Sì, ma se fai cento metri sei in piazza Oberdan, quella dell’Arco di Porta Venezia. Adesso, che è metà pomeriggio, non ne vedi di africani. «Sono in giro per i giardini pubblici», spiega il barbiere Franco che ha la bottega in via Lecco. «Ma venga di notte, o al mattino presto. Sono lì che dormono sulle panchine, o per terra, dentro alle coperte. Non è un bello spettacolo». Sono quelli che stavano in una casa abbandonata in viale Tunisia, li hanno cacciati e da allora quelli rimasti vagano per il quartiere.
La categoria del multietnico è mobile, piena di sfaccettature. Gino Di Clemente, pugliese di Bisceglie, ha da quarant’anni un bar tabacchi che è una sorta di centro del quartiere: «Questa che chiamavano "casbah" una volta era unica. Io ci sto bene, questo miscuglio mi piace. Mia sorella, che ha 79 anni, apre il bar la mattina alle 6, da sempre. E mai, dico mai, che qualcuno le abbia mancato di rispetto. Il punto è un altro: oggi tutta Milano ha zone come questa, non ce n’è una che si salva. Succede da noi, con cinquant’anni di ritardo rispetto a Parigi o Londra. Non è facile».
Certe cose a Porta Venezia, venerabile "casbah", ormai passano via tranquille. Il bar gay che alla sera è una bolgia. Il ristorante mongolo. Il Krishna Bazaar. Ma prendi tutto questo, e impiantalo in un quartiere di periferia, in maniera travolgente e senza regole. Tutt’altra faccenda. La trasformazione si paga, soprattutto se non è governata, spiegata, condivisa. I cinesi di via Paolo Sarpi hanno colonizzato un quartiere, comprando in contanti e pagando bene. Ora il Comune prova a rendergli la vita difficile, per le proteste degli abitanti italiani. Con gli africani è peggio, perché il colore della pelle pesa eccome. I phone center sono il nuovo bersaglio per i controlli di polizia e vigili urbani. Perché sono il primo ritrovo. Vai verso fuori, lungo le strade che portano a Nord, alla Brianza, e la sera i marciapiedi sono tutto un crocchio di stranieri.
In via Pellegrino Rossi ogni gruppo sta per conto suo. Sudamericani da una parte. Poi africani suddivisi per paese. Parlano, scherzano, bevono. Lo stare insieme di questa gente, anche quando è innocuo, dà un’idea di fermento e di energia che spaventa i milanesi meno attrezzati, per età e per abbandono. Il signor Antonio, pensionato e ancora pimpante, ha anche il problema di parlare con i suoi amici: «Io sono sempre stato democristiano, adesso mi danno del comunista. E perché? Perché dico che bisogna farsene una ragione, e non aver paura. Mi dicono che non dovevamo lasciarli entrare, che è colpa di quelli di sinistra. Mi tocca sempre litigare, anche se tante volte anch’io faccio fatica ad adattarmi». Un viaggiatore disincantato e disilluso come Corrado Stajano, nel suo ultimo libro "La città degli untori", passa dalla "casbah" del Lazzaretto, dalla Milano africana, e si chiede: «Che siano loro, uomini di un continente di là dal mare, a rinsanguare la stanca città? Forse è un segno di speranza che abbiano messo radici nella città che li rifiuta, proprio nel posto dove infierì peste e distruzione». Ma non si capisce se ci crede davvero.
La gravità della situazione italiana dal punto di vista della sicurezza sismica sta nei due dati fondamentali: il 75 per cento del territorio è classificato sismico; meno del 20 per cento del patrimonio edilizio si può considerare protetto. È enorme quindi la dimensione della tragedia potenziale e delle inadempienze istituzionali. Dopo ogni evento si sono sprecati gli impegni solenni che mai più sarebbe successo, che la messa in sicurezza del territorio e la sua manutenzione sarebbero diventate la più importante opera pubblica del paese. E invece, ogni volta, passata l'emergenza più acuta, il terremoto e la prevenzione sono stati accantonati.
Non solo, il quadro che emerge dalla tragedia abruzzese fa vedere che è venuta meno la stessa ordinaria gestione della vigente normativa tecnica. Gli edifici in cemento armato, sottoposti a scosse non eccezionali come quelle di questi giorni, non dovrebbero collassare, e gli edifici cosiddetti strategici - ospedali, prefetture, caserme, opere pubbliche di particolare importanza - dovrebbero mantenere la propria funzionalità anche dove la terra trema. E invece all'Aquila sono crollati o sono stati fortemente danneggiati la casa dello studente, l'ospedale, la prefettura, il municipio, molta edilizia costruita negli ultimi anni. È stato detto che questi sono fatti della magistratura, e non c'è dubbio che così debba essere, ma mi pare che quando i comportamenti delittuosi sono così diffusi non si possa non cogliere la natura politica del problema. L'irresponsabile sottovalutazione della sicurezza pubblica dal terremoto e dalle catastrofi è uno dei temi di cui prioritariamente dovrebbero farsi carico il governo e le forze politiche. Altro che rumeni, ronde e sciacalli.
A conferma dell'insensibilità per la sicurezza sta l'indulgenza, o addirittura il favoreggiamento, nei confronti dell'abusivismo, diffuso soprattutto nel Mezzogiorno dove più elevata è la pericolosità sismica. L'edilizia abusiva è a rischio per definizione, perché è evidente che chi costruisce illegalmente non si preoccupa né delle qualità del sedime né delle caratteristiche strutturali del manufatto.
Il condono rappresenta una sorta di «cupo presagio», ha scritto Roberto De Marco, già direttore di quel servizio sismico che si occupava di prevenzione e che poi si è pensato bene di sopprimere. In Italia, in diciotto anni, sono stati approvati ben tre provvedimenti di condono. Ricordiamo chi li ha voluti: 1985, governo Craxi; 1994, governo Berlusconi; 2003, governo Berlusconi.
Né possiamo dimenticare il piano casa e dintorni, che era una specie di condono preventivo e gratuito, e prevedeva addirittura procedure semplificate per le zone sismiche. Secondo Salvatore Settis, il piano casa è stato consegnato «a una sorta di percorso carsico», da cui riemerge ogni giorno in veste diversa. Costante sembra l'intento, sostenuto anche dalle regioni, di annacquare le norme di tutela previste dal codice del paesaggio.
In vista dei problemi della ricostruzione è bene fare tesoro dalle più recenti esperienze: nel bene e nel male. A partire dal rischio delle infiltrazioni malavitose che nel cemento e nelle condizioni di emergenza trovano il migliore campo di coltura, e in Abruzzo la presenza di clan camorristici è già accertata.
Intanto, per fortuna, l'ipotesi delle new town esce a pezzi. Gli esempi di Gibellina e degli altri comuni del Belice (e anche dell'Irpinia) che imboccarono la strada del trasferimento mi sembra che nessuno li condivida, mentre i casi di Venzone e di Gemona in Friuli restano esempi mirabili di ricostruzione com'era e dov'era, accompagnata da grande attenzione al ripristino del tessuto sociale e comunitario. Mi pare molto importante il fatto che la maggioranza dei cittadini e degli amministratori intervistati si siano pronunciati per restare dove stavano. Per «tenere memoria», come ha scritto Roberto Saviano.
Silvio Berlusconi si è divertito un mondo a Sharm-el-Sheik osannato dagli italiani in vacanza sul Mar Rosso. Del resto in patria tutto andava benissimo (secondo lui). Persino nel terremotato Abruzzo sul quale ha snocciolato a “Porta a Porta” cifre del tutto rassicuranti, senza che nessuno potesse contraddirlo. Lui, imperatore, e Bertolaso, suo proconsole delle Emergenze, hanno in mano la situazione degli aiuti e della ricostruzione che sarà (prima sciocchezza demagogica) “molto rapida”. Invece le cose non stanno propriamente così, nonostante gli osanna ammirati di giornali inginocchiati e di televisioni sdraiate ai suoi piedi.
Le tendopoli
Si sta passando, sotto le tende, dal freddo ancora invernale (specie di notte) ad un caldo già estivo. La soluzione dei container è stata giustamente scartata. Ma, grazie alle ubbìe del premier, si è perso tempo a discutere di “new town” o di Aquila 2 (clonata dalla prediletta Milano 2) promessa nel termine di pochi mesi, figuriamoci, e poi seccamente disconosciuta. «La casa è un miraggio, prefabbricati inevitabili» - ha suggerito un ex commissario di lungo corso, Giuseppe Zamberletti. Solide case in legno, ben riscaldabili d’inverno, sperimentate positivamente fra Umbria e Marche. Le stesse offerte, in un centinaio di esemplari, dalla Provincia di Trento. Senza perdere altro tempo in vecchie/nuove fanfaronate. Bisogna fare presto. La convivenza di tanta gente in una stessa tenda non può essere protratta a lungo: è già ora una tortura psicologica. Lo ha più volte fatto notare il sindaco dell’Aquila, attento e presente, Massimo Cialente, il primo a criticare l’idea della “New Aquila” berlusconiana che avrebbe abbandonato la città storica a spettrale maceria senza futuro.
Certo, bisogna che le case in legno, o quelle avveniristiche promesse dal prof. Calvi di Pavia, non sorgano – come invece sta avvenendo per le prime – in ordine sparso in zone del tutto agricole deteriorandole stabilmente. Bisogna pianificarle in forma di villaggi attrezzati, pur considerandole, ovviamente, provvisorie. Il 1° maggio Berlusconi ha affermato che le aree dove montare i prefabbricati per 13.000 persone sono state già individuate. Peccato che i sindaci delle zone interessate non ne sapessero assolutamente niente. A riprova che tutto, in questa emergenza abruzzese, viene fatto calare dall’alto. Funzionalmente un sistema pessimo, oltre che anti-democratico.
I finanziamenti
I soldi previsti dal decreto 39/09 del governo Berlusconi erano in origine decisamente pochi e per giunta dilazionati negli anni. I 150.000 euro a fondo perduto per la ricostruzione della prima casa verranno attivati con una ordinanza a parte, ma “Sono un niente”, ha seccamente commentato l’attiva e coraggiosa presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane, a fronte degli edifici distrutti del centro storico dell’Aquila e di alcuni borghi come Onna. Gli amministratori abruzzesi chiedono di avere coperti al 100 per cento i costi (come accadde in Umbria e nelle Marche) per le prime e anche per le seconde case. Il PD, col suo segretario Dario Franceschini ha battuto e ribattuto sulla richiesta e finalmente, ieri, il governo ha dovuto cambiare il decreto coprendo (ancora non si sa come però) il 100 per cento dei costi di ricostruzione. Una bella vittoria per l’opposizione.
Fintecna
Un ruolo allarmante sta però assumendo la sempre più potente Finanziaria pubblica, totalmente controllata dal Ministero dell’Economia. Nel dicembre 2006 è stata creata Fintecna Immobiliare che ha incorporato le attività di quel tipo. Presieduta da Maurizio Prato, ex Ad di Alitalia, vice-presidenti Corrado Crialese e Vincenzo Dettori (già presidente di Fintecna, poltrone che vanno e che vengono). L’attività di Fintecna è consistita nella gestione e nella vendita del patrimonio immobiliare pubblico. Secondo il decreto 39/09 del governo, la società dovrà occuparsi dei contratti di finanziamento fra lo Stato e i privati per il recupero delle case lesionate o distrutte dal terremoto. Fintecna potrà subentrare ai proprietari indebitati «con la contestuale cessione ad essa dei diritti di proprietà» e del mutuo acceso. Il ministro Tremonti giura che la norma non è stata «pensata per fare acquisizioni di abitazioni nelle zone abruzzesi colpite dal terremoto». Negli aquilani si insinua però il sospetto che si voglia, in un futuro non lontano, acquisire a prezzi stracciati una bella fetta della città antica per poi privatizzarla rivendendola a soggetti decisamente abbienti. Più di un amministratore fa notare che la mega-finanziaria pubblica “diventerà padrona assoluta del centro storico con conseguenze speculative immaginabili”.
Tra il discorso di giovedì all’Università del Cairo e la commemorazione dello sbarco in Normandia che avrà luogo oggi in Francia, Barack Obama ha scelto la sosta a Buchenwald, il campo di morte dove tra il 1937 e il 1945 furono rinchiusi 250 mila esseri umani provenienti da cinquanta Paesi diversi.
Morirono uccisi in 56 mila: 11 mila ebrei, gran parte del gruppo dirigente comunista a partire dal suo capo Ernst Thälmann, centinaia di soldati russi, e omosessuali, Rom, Sinti, uomini malati ritenuti «inabili al lavoro». Il Cairo, Buchenwald, la Normandia: tre luoghi e tre date si intrecciano, compongono insieme una storia e un tempo più vasto. Il passato dà pienezza al presente, il Ventesimo Secolo parla al Ventunesimo conferendogli profondità. In ambedue i secoli c’è sete di liberazione, in ambedue è questione di edificare un dopoguerra. Il 6 giugno 1944 in Normandia l’Europa fu liberata dal nazismo, l’11 febbraio 1945 furono i superstiti di Buchenwald a salvarsi. Oggi tocca uscire da un’altra guerra, prima che precipiti in ennesimi orrori e distruzioni: tocca, come ha detto al Cairo il Presidente, metter fine all’infausta guerra tra civiltà. La criminalizzazione dell’Islam deve finire, perché il rischio è grande di punire la diversità nel diverso, e di considerare la diversità un pericolo. Tutte e tre le tappe - Il Cairo, Buchenwald, la Normandia - narrano la difficile edificazione di un dopoguerra meno buio, fondato sulla memoria viva del passato.
Nel suo discorso a Buchenwald Obama ha sottolineato la centralità della memoria, perché non esiste ricominciamento che possa farne a meno. Soprattutto quando si è messi a cospetto di orrori talmente dolorosi che nello spettatore «subentra il mutismo, l’incapacità di proferire verbo» (accadde allo zio Charlie Payne, soldato che partecipò alla liberazione del campo: «per mesi», tornato in America, si chiuse nel silenzio). Eisenhower ne ebbe coscienza, quando vedendo il drappello di scheletri viventi accanto alle baracche disse a sè stesso e decise: bisogna che tutti vedano in immagine quel che sto guardando (tutti: tedeschi, giornalisti, soldati e deputati americani) altrimenti verrà il giorno in cui l’impensabile diverrà un’opinione.
Anche questa decisione ha voluto rammentare Obama, e anche in questo caso le tre tappe del suo viaggio si incrociano e quasi si fondono. Non si inizia una nuova relazione tra Islam e Occidente negando quel che è accaduto durante il nazismo. Non ci si mette a fabbricare un dopoguerra «raccontando menzogne sulla nostra storia». Obama sarà intransigente con lo Stato israeliano, giovedì ha definito «intollerabile» la vita dei palestinesi che vivono in terre di occupazione e ha chiesto al governo di Gerusalemme di smettere subito gli insediamenti, ma tutto questo ha senso se si riconosce quel che gli ebrei hanno sofferto e come avvenne la distruzione dell’ebraismo in Europa. Se si tocca con mano la verità storica come lui ha fatto ieri con Angela Merkel. A Buchenwald, è una guerra giusta che il Presidente Usa ricorda: l'ultima, forse, che gli americani considerino unanimemente tale. Tutti i conflitti successivi - Corea, Vietnam, Iraq - furono contestati.
Obama ha una propensione, forte, a connettere storie e tempi disparati; a creare mosaici molto ramificati, cosmopoliti. Anche la scelta di Buchenwald e di Dresda è colma di significati. Buchenwald fu innanzitutto massacro del diverso. Elie Wiesel, che ha accompagnato il Presidente assieme a un altro ex detenuto di Buchenwald, Bertrand Herz, ha usato ieri un’immagine tremenda: «Il primo esperimento di globalizzazione è stato fatto a Buchenwald, con il solo scopo di diminuire l’umanità degli esseri umani». Ma il luogo dove Hitler decretò la «distruzione attraverso il lavoro» fu anche qualcos’altro: fu simbolo della resistenza, perché i detenuti alla fine si organizzarono e presero il controllo del Lager. Quando i comandanti del campo si resero conto che le truppe Usa si stavano avvicinando, tentarono un’evacuazione dei detenuti (le «marce della morte») e i prigionieri salvarono centinaia di bambini e detenuti nascondendoli. Poi contattarono via radio i militari statunitensi e facilitarono il loro arrivo, l’11 aprile 1945.
Anche la visita di Dresda è significativa: è un esempio luminoso della politica della memoria in Germania, proprio perché evoca la vendetta atroce che si abbatté su di essa (Dresda subì un bombardamento alleato che fece 35 mila morti). Buchenwald simboleggia infine l’altro totalitarismo del ’900: il campo infatti non fu chiuso nel ’45, trovandosi prima in zona sovietica e poi in Germania comunista. Restò aperto fino al 1950: i morti per sevizie furono 7 mila.
Ricominciare la storia è ricordare dove può condurre l’odio dell’altro, e sapere che sempre può riaccendersi trasformandosi: oggi prende le forme, ha detto Obama, «del razzismo, dell’antisemitismo, dell’omofobia, della xenofobia, del sessismo».
Le parole sono importanti per Obama, il suo viaggio in Medio Oriente ed Europa lo dimostra. E proprio perché sono importanti, non si può stravolgerle con bugie e revisionismi. A Ahmadinejad il Presidente ha offerto giovedì il dialogo, giungendo fino a confessare il coinvolgimento americano nella liquidazione violenta di Mohammed Mossadeq (il primo ministro entrato in conflitto con lo Scià negli Anni 50: «Gli Usa svolsero un ruolo nel rovesciamento di un governo iraniano eletto democraticamente», ha ammesso al Cairo), ma gli ha anche detto: ecco, prima di qualsiasi dialogo è a Buchenwald che devi mentalmente venire, sono queste pietre che devi toccare come le sto toccando io. Altrimenti ogni parola è infangata, e il dono della lingua dato agli umani è insensato. Altrimenti succede come ai nazisti, che fabbricarono un mostro presso Weimar, la città di Goethe e Schiller, e sul cancello del Lager scrissero, a grandi lettere, A OGNUNO IL SUO - JEDEM DAS SEINE, mostrando come uno dei più nobili precetti del diritto romano possa pervertirsi e divenire il più cinico e mortifero segno di odio.
Un anno fa, di questi giorni, Barack Obama e Hillary Clinton si contendevano la candidatura alla Presidenza nel mezzo della più intensa e incerta campagna elettorale che si ricordi. Oggi l’America si presenta con volto, parole, atti, stile di governo, profondamente mutati: legalità costituzionale, risparmio energetico, apertura al mondo islamico, nuove relazioni con Cuba, bando alla tortura, avvio di riforme sociali. Futile arroganza, uso della paura, miopia hanno ceduto il passo a serietà, calma, ascolto, sguardo lungo. È scattato il meccanismo essenziale della democrazia: cambiare in modo pacifico una politica e un governo di cui il popolo è scontento.
Potrebbe accadere in Europa? Potremmo, tra un anno, riconoscere nell’elezione europea del 2009 una svolta nella storia del continente? Non lo impediscono nessuna maledizione divina e nessuna disposizione costituzionale.
Proviamo a immaginare. Appena insediatosi, in una mozione votata da tutti i suoi gruppi, il nuovo Parlamento dichiara che di fronte alla crisi, al disgregamento del mercato unico, al mutare degli equilibri mondiali, alla palese impotenza dei Paesi europei singolarmente presi, allo spreco di risorse insito nella frammentazione della spesa, un mutamento di rotta s’impone.
Il Parlamento decide due mosse. Primo, rivendica a se stesso la scelta del presidente della Commissione (e dei commissari). Poiché anche nell'Unione, come in ogni democrazia parlamentare, mai l'esecutivo potrebbe insediarsi senza un voto di fiducia, sappiano i primi ministri e il Consiglio europeo che — come per qualsiasi capo o re degli Stati membri — un annuncio non concordato con i rappresentanti eletti dal popolo verrà bocciato. Secondo, il Parlamento chiede un’immediata e radicale riforma del bilancio dell’Unione e quindi delle politiche comuni: spesa flessibile e discrezionale, nessuna rigida ripartizione per destinazioni nazionali, vere fonti di entrata europea, nuove risorse per attuare le politiche comuni previste dai Trattati e finora impedite dal Consiglio.
Le due mosse sconvolgono il modus operandi dell’Unione e ne bloccano il funzionamento: cessazione dei pagamenti e delle procedure, proteste dei destinatari della spesa, dimostrazioni di piazza. Il Parlamento non cede. Alla fine, dopo mesi di paralisi i governi, il Consiglio (il cartello dei non-volenti, l’immenso tavolo dove i ministri nazionali recitano le dichiarazioni preparate dai loro funzionari) capiscono che il gioco è cambiato, si rassegnano al costituirsi di un potere nuovo in Europa. Una paralisi totale di alcuni mesi è più intollerabile (ma meno dannosa) dell’emiparesi in cui l'Europa languiva da decenni. Qualche Paese che non ci sta decide di uscire dall’Unione, ottenendo di conservare i diritti acquisiti.
Non ci vorrebbe più di un anno. Non sarebbe una svolta storica più grande dell’unificazione politica dell’Italia o della Germania nel 19˚ secolo, o, nel 20˚, della rivoluzione d’Ottobre, dell’emancipazione coloniale e del crollo dell’impero sovietico. Se non accadrà, sarà solo per la pigrizia e l’indifferenza degli europei stessi.
Pochissimi ritengono che accadrà. Neanche io lo penso. Ma penso che questa eventualità sia auspicabile, che potrebbe accadere e forse un giorno accadrà, che i cittadini europei dovrebbero convincersene. E spero che persone con vocazione alla politica costruiscano le proprie fortune su di essa, così come in passato altri l’hanno costruita sulla conquista dell’unità d’Italia, o del suffragio universale, o dell’abolizione della schiavitù. Yes, we can.
Una delle incognite di queste elezioni è l’astensionismo di sinistra. Lo spettacolo, annoso e dannoso, delle lotte intestine tra dirigenti sempre più anziani e sempre più narcisi; e la presenza nel Pd di una componente clericale (che non è sinonimo di cattolica) che boicotta in partenza ogni riforma laica sembrano, tra i tanti, i due elementi più respingenti. Così respingenti da rischiare di mettere in ombra perfino le evidenti conseguenze che l’astensione avrebbe sulla scena politica: rafforzare ulteriormente il centrodestra.
Nelle discussioni tra amici, nelle lettere ai giornali, impressiona la natura "nuova" di questi aspiranti astensionisti. In larga parte non appartengono all’area da sempre irrequieta del radicalismo ideologico o dell’antipolitica. Si tratta in molti casi di militanti di lungo corso della sinistra storica, profondamente partecipi della vita sociale, gente di sindacato, di partito, di primarie, di assemblee di quartiere, a suo agio nelle faccende pubbliche. Il tono, più che disgustato, è stremato: scusate, ma non ce la faccio più. Oppure si tratta di giovani che si sentono drasticamente esclusi dal discorso pubblico, e ne traggono l’altrettanto drastica conseguenza di rispondere per le rime: voi non vi occupate di me, io non mi occupo di voi.
Alle persone della mia formazione politica e della mia generazione, l’astensionismo è sempre parso una diserzione imperdonabile. Oggi mi sembra soprattutto un disperato gesto politico, nella speranza di staccare la spina a questa sinistra, e soprattutto alla nomenklatura di questa sinistra, per far rinascere finalmente altro, e altri. Ma con altrettanta onestà voglio spiegare, da cittadino, perché ho deciso di andare a votare, mettendo da parte dubbi e perplessità. E perché considero un errore (un errore, non una colpa) non farlo.
Il potere smisurato e quasi senza argini di Berlusconi è una ragione assolutamente ovvia e stradetta, ma non per questo meno evidente, e grave. Una sinistra ulteriormente indebolita (il Pd prima di tutto, ma anche le altre liste di opposizione) confermerebbe lui, e la sua folta claque, nella presunzione di poter fare finalmente e definitivamente da soli. E senza più impicci. Già parla "in nome del popolo" e "in nome degli italiani": come dirgli "ma non in mio nome" senza andare a votare per l’opposizione, e a fare numero?
Ma accanto a questa ragione, urgente ma tutto sommato contingente (Berlusconi è solo una lunga parentesi di una storia molto più lunga e importante di lui), nella decisione di andare comunque a votare pesa una concezione radicata non solo e non tanto della politica, quanto della persona-cittadino. Per dirla in parole molto semplici, autoriferite per comodità, non riesco a immaginarmi non votante senza sentirmi in disaccordo con me stesso. Non dico in colpa: i sensi di colpa non portano mai lontano. Dico in disaccordo con me stesso.
In questo stato d’animo conterà certo qualcosa il "richiamo della foresta": se si passa una vita intera a considerare il voto come un diritto-dovere (così, del resto, lo definisce la Costituzione), non è facile passare davanti a un seggio elettorale voltando la testa dall’altra parte. Ma conta, più di tutto, il fatto che nell’astensione percepisco un elemento di platealità (mi si nota di più se non vado…) che si incastra perfettamente nell’eccesso di emotività nazionale. Votare, almeno per me, è un gesto umile e razionale. Significa, lo dico brutalmente, accettare di far parte di una mediocrità collettiva (la democrazia è anche questo) piuttosto che di un’eccellenza appartata.
Votare significa accettare i limiti non solo di un partito e dei suoi candidati, ma anche i propri. Il non voto è una specie di "voto in purezza", un gesto estetico e sentimentale che antepone l’integrità dell’io alla contaminazione del noi. L’astensionista menefreghista (quello che una volta si chiamava qualunquista) è uno che non si immischia, l’astensionista nobile e deluso di oggi è uno che non si mischia: cerca di salvare se stesso, la propria coscienza, la propria coerenza, levandoli dal tavolo di gioco e portandoseli a casa.
Se è il narcisismo la colpa che, giustamente, si imputa ai dirigenti della sinistra e del centrosinistra, specie i post-comunisti, l’astensionista sappia che rischia di peccare anch’egli di narcisismo. Aiuta e serve solo se stesso, lasciando in mani altrui la precaria, vischiosa materia dell’identità collettiva. Questa sinistra, queste sinistre, sono anche il prodotto delle nostre idee (quelle giuste e quelle sbagliate) e delle nostre vite. I loro pregi e i loro difetti assomigliano molti ai nostri. Aggiungere alla lista dei difetti la rinuncia astensionista, e sottrarre a quella dei pregi l’umiltà dell’impegno pubblico, non aiuta di certo a migliorare il bilancio: della sinistra e delle persone di sinistra.
Giuseppe De Rita denuncia la riduzione localistica della politica, priva di una direzione di marcia
Sara Farolfi
Valentino Parlato
«Iniziare a pensare al dopo», ha scritto concludendo, un mese fa, la serie dei Diari della crisi. Ma quando arriva il dopo, professor De Rita?
Il dopo ci sarà da ottobre in poi. Alcuni dicono che il peggio deve ancora arrivare, io invece ho l'impressione che il grosso lo abbiamo superato perché, come ho sempre sostenuto inascoltato, questa era una bolla, la sesta bolla del secolo. Nel 2000 abbiamo avuto la bolla della new economy, balla spaventosa oltre che bolla, poi è arrivata quella dell'immobiliare, del prezzo del petrolio, poi ancora quella delle materie prime. Finita questa, è stata la finanza internazionale a fare la bolla su se stessa. Ora ci aspetta un periodo di assestamento, che sarà tutto di economia reale.
Ha parlato della prima crisi del processo di terziarizzazione. Come e con quali conseguenze?
Il vero problema di questa crisi, se uno la legge in filigrana, è che è la prima vera crisi del terziario italiano, che per trent'anni ha fatto da sacca di compensazione di tutto il casino che succedeva nell'industria. Oggi questo terziario, con tutte le sue sacche di precariato, soffre più dell'industria e le conseguenze rischiano di essere pesanti. E' lì che ci siamo inventati i formatori dei formatori, e risistemare questo mare indistinto in cui abbiamo messo di tutto, con la spada di Damocle del debito pubblico, è difficile e faticoso, oltre che costoso. In più, manca una cultura di relazioni industriali per cui il precario dello spettacolo, i semigiornalisti, o i semiaddetti stampa, da chi sono rappresentati?
Siamo alla prima crisi post flessibilizzazione del mercato, e i nodi vengono al pettine, non crede?
Certo, tutto quello che noi conosciamo del mercato del lavoro fino a Biagi, è tutto giocato sulle relazioni industriali, cioè su una cultura del rapporto e della contrattazione. Per quanto riguarda il terziario invece manca una cultura della regolazione, sia sul piano economico che su quello della cultura e dei soggetti della contrattazione. La crisi della terziarizzazione è anche la crisi della funzione terziaria, così il terziario perde il suo valore epistemologico, la sua legittimità sociale, senza avere peraltro alcuna legittimità di prassi. Perciò il ceto medio si sente privo di legittimità sociale, e mentre i figli del ceto medio sono entrati o vogliono entrare in questa specie di grande precariato terziario, i genitori sono terrorizzati.
Che cos'è questo ceto medio. E' rappresentabile come figura sociale? E quale riflesso politico ha?
Una volta il ceto medio era una classe. Oggi al massimo ci sono distinzioni professionali, ma sono parti corporative e individualistiche. La cetomedizzazione è stata la rottura delle classi in un grande invaso in cui sono entrati tutti, dall'ex operaio all'insegnante di liceo. La stessa idea, coltivata dalla sinistra radicale, che da questo ceto medio sarebbe uscita, in alto, una borghesia imprenditoriale, e in basso, il nuovo sottoproletariato, non è avvenuto. Come la poltiglia e la mucillaggine di cui parlavo l'anno scorso, sono tutti fermi lì a sobbollire in una specie di mar morto in cui l'acqua non entra più ma non va neppure via e quindi si riscalda, evapora. Ed è un'evaporazione anche intellettuale di questo ceto medio, che non ha più istanze di direzione di marcia e che dunque fa proprio il berlusconismo politico in cui ciò che conta è «che tutti devono avere la libertà di essere se stessi». Berlusconi è l'unico che ha saputo rappresentarlo.
E' per questo che i cittadini hanno sempre meno fiducia nella politica nazionale?
La politica nazionale ha un solo dovere, o meglio lo aveva: orientare. Ma oggi chi è che ha un'idea di dove portare il sistema? Non c'è più una direzione di marcia collettiva in cui fare convergere i diversi interessi, l'interesse locale diventa l'unica politica possibile e i partiti nazionali finiscono per avere il fiato corto. Questa riduzione localistica della politica è stata una tragedia ma purtroppo i grandi partiti hanno tentato di rispondere salendo in alto e non scendendo in basso. E così nessuno, eccetto la Lega, sa fare una politica del territorio.
Un ceto medio siffatto mette in crisi il partito di massa stesso, dunque?
La mucillaggine non è altro che degli insiemi vegetali che stanno l'uno accanto all'altro, non si legano e non legandosi non hanno vita, non diventano un «noi».
Nei Diari parla della «fine dell'imborghesimento». E' questa la seconda metamorfosi?
Un cambiamento di certo ci sarà. Un imborghesimento che finisce a sobbollire - nel motto «sii te stesso» - non è che può andare avanti a lungo. La novità che abbiamo notato in questi mesi è la nuova temperanza nei consumi, un meccanismo di piccolo rigore borghese e non è chiaro se sarà un puro fatto di assestamento oppure un modo per costituire una morale, non di classe ma di ceto.
Il microwelfare di cui si preconizza l'avvento è la fine del welfare state per come l'abbiamo conosciuto?
Il welfare «dalla culla alla tomba» ha due problemi. E' costoso e malamente è in grado di rispondere a bisogni che oggi sono diversi. Lo aveva colto anche la sinistra degli anni '70 quando diceva che il bisogno è desiderio. Se oggi pensi che tuo figlio abbia bisogno di studiare l'inglese lo mandi a lezione privata. Lo stesso discorso vale per il lavoro di cura se si ha un anziano a carico, e questo per certi versi è già microwelfare. Il welfare si è progressivamente destrutturato, a partire dagli anni '70 nel rapporto tra bisogni e desideri, nell'entrare cioè di un meccanismo soggettivistico nella logica del bisogno, che una volta era un bisogno oggettivo e istituzionalizzato. Ma se diventa soggettivo, diventa una domanda a cui lo stato non può rispondere e quindi si deve rispondere con il microwelfare. Lo dimostra anche lo sviluppo del terzo settore e del volontariato, che arrivano là dove il comune non riesce.
Il Candidato oggi è una figura imprendibile. Fino a qualche settimana fa, imboccando i vialoni di accesso a Bologna si scorgevano i cartelloni con i volti di Delbono, Cazzola e Guazzaloca, i tre principali competitor per Palazzo d´Accursio. Sembravano facce sconnesse da partiti e movimenti, figure autonominate, simboli celibi della postpolitica, in cui una personalità dovrebbe supplire a una cultura. Adesso qualche elemento di giudizio in più è venuto fuori, affiliazioni, alleanze, filiere: ma i candidati, non solo quelli bolognesi, rappresentano in modo simbolico e reale la grande trasformazione secolarizzante, laica, "weberiana" della politica.
A lungo il conflitto politico in Italia è stato uno scontro bruciante di culture: si pensi alla stagione che va dal 18 aprile 1948 alla battaglia del 1976, con i "due vincitori" designati da Aldo Moro, la Dc e il Pci, potenzialmente i pilastri di un futuro bipartitismo "meno imperfetto". In quell´arco di tempo la scelta dei candidati costituiva il culmine di un processo di formazione lunghissimo. Sul versante cattolico implicava la mobilitazione del movimento di Azione cattolica e delle sue articolazioni universitarie, ma senza trascurare la proliferante realtà delle parrocchie, dell´associazionismo professionale, della Coldiretti, della Cisl, delle Acli, del corporativismo "bianco", e infine della struttura correntizia, territoriale e clientelare democristiana.
A sua volta, il processo di formazione nel Pci costituiva un servizio al partito attraverso il quale le singole capacità politico-organizzative venivano lentamente affinate, mentre venivano verificati anche una serie di parametri (affidabilità ideologica, compostezza stilistica, razionalità delle scelte immediate, freddezza temperamentale), a cui la scuola interna delle Frattocchie conferiva il sigillo dell´ufficialità, e il gusto del partecipare a un processo di crescita che riuniva anche in modo emotivo le giovani élite del Pci.
In confronto, i processi di selezione del personale politico nel Psi e nei partiti laici minori rappresentavano alchimie caotiche, frutto di itinerari largamente casuali. Gruppi di potere locale interagivano e confliggevano nello spontaneismo socialista, così come nel Pri o nel Pli si incrociavano cattedre universitarie e cda bancari. Fuori dall´arco costituzionale, nell´Msi, circolavano autoimmagini di orgoglio e di esclusione, che si rafforzavano a vicenda, quasi sempre senza sbocchi.
Adesso non c´è regola. Ci si può conquistare la nomination per Strasburgo con venti minuti di discorso fiammeggiante, com´è riuscito a Debora Serracchiani all´assemblea del Pd; ma in linea generale oggi il Candidato riesce a ottimizzare il proprio itinerario attraverso gli strumenti della nuova politica. Vale a dire da un lato le primarie, che rappresentano una formidabile chance di rovesciamento delle strategie ufficiali (vedi il fiorentino Matteo Renzi, tipico esemplare "trasversale" della nuova specie ultracompetitiva), e dall´altro la cessione esplicita di competenze specifiche sul piano amministrativo e organizzativo. Vale a dire che il Candidato moderno, anche nelle realtà locali minori, non si propone generalmente per un ruolo di rappresentanza politica: figurarsi, con quel che conta un consiglio comunale, praticamente nulla rispetto alle deleghe del sindaco e della giunta; ma individua invece aree di interesse politico-economico a cui è vocato, e offre senza mediazioni alla classe politica locale una professionalità per gestirle.
Rimane all´esterno di questo circuito, e proiettato invece verso l´ascesi mediatica, tutto il processo che conduce alla candidatura in quanto espressione di successo comunicativo. Lilli Gruber, Michele Santoro, adesso David Sassoli. Protagonisti del divismo televisivo che trasformano in distillato politico il proprio glamour catodico. E sul lato del centrodestra, a parte le veline, il culto del corpo prestato alla politica: il look di Mara Carfagna e Michela Brambilla esibito come asset pubblico rivendicabile integralmente, perché anche la bellezza è una conquista politica (e proprio per questo non vanno trascurati, ad esempio, i sottolineatissimi vezzi di coloritura maschile offerti dal puntiglio estetico del ministro Roberto Maroni; oppure il calcolo tricologico di Massimo Cacciari; l´understatement torinese di Sergio Chiamparino).
Per vari aspetti il Candidato, nell´era televisiva, è un freak della politica. Deve imporre un´immagine, uno sgarbismo, un tratto differenziale. Ed è probabilmente per questo che fa saltare le possibilità di sintesi fra un progetto e la sua personificazione nell´individuo. Dopo i grandi candidati ideologici, come Ronald Reagan e Margaret Thatcher, l´ultimo uomo politico che si è candidato a sintesi anche visibile di un programma è stato Tony Blair, perfetto interprete anche estetico e generazionale del "New" Labour.
Mentre nell´alternarsi odierno delle competizioni elettorali sembra prevalere "l´uomo senza qualità", il professionista fungibile, il "tecnico dell´universale" con propensioni mediatiche. Sempre in attesa del leader weberiano, naturalmente, carico di carisma, di un Obama capace di reinventare una parola semplicissima come change. Ma a quel punto non dipende più dal Candidato: dipende dalle astuzie della Storia, dalle macchine elettorali, dalla creatività sociale. Dipende insomma dal momento in cui il Candidato non è più una funzione della
Come possiamo rendere il mondo ospitale per gli europei? Pongo questa domanda, perché è evidente che noi, europei, nel mondo attuale non ci sentiamo a nostro agio. Heidegger dice che si comincia a riflettere su un problema quando le cose iniziano improvvisamente a comportarsi in maniera inaspettata. È solo allora che le trasferiamo dalla sfera dell'azione a quella del dibattito. Prima le cose ci vengono fornite nella nostra esperienza quotidiana, e in genere non ne avvertiamo l'esistenza. Quando invece smettono di funzionare le trasferiamo nella sfera delle complicazioni e delle incombenze. Oggi le cose ci tirano brutti scherzi, perché ha smesso di funzionare qualcosa che prima andava benissimo. È quanto è avvenuto con l'accoglienza. L'idea dell'accoglienza è antica, ma ad attirare la mia attenzione è stato un libricino scritto da Kant nel 1784. Riflettendo sulla questione della “Perfetta unione civica del genere umano”, Kant deduceva che l'ospitalità reciproca sia decretata dalla natura, che ci ha posti sulla superficie di una sfera, quale è la Terra. Se ci muoviamo su di essa non possiamo allontanarci l'uno dall'altro - se ci allontaniamo in una direzione ci avviciniamo dall'altra - e dunque esiste un momento nella nostra storia in cui siamo condannati all'ospitalità reciproca. Il librino se ne stava lì ancora intonso a prendere polvere nella mia biblioteca finché all'improvviso è stato riscoperto. Di colpo è venuto fuori che l'ospitalità è un problema da risolvere, che non è una cosa naturale, come poteva sembrare quando lo scrittore svizzero Denis de Rougemont affermava che l'Europa aveva scoperto i continenti, e non i continenti l'Europa, che l'Europa aveva conquistato un continente dopo l'altro, ma nessun continente l'aveva conquistata. E che infine l'Europa, essa sola, aveva inventato un modo di essere che tutti avevano trovato degno d'imitazione. Ma che lei, l'Europa, non aveva mai provato a imitare paesi ad essa estranei.
Ryszard Kapuscinski, il più grande reporter del Ventesimo secolo, capace di penetrare con rara sensibilità le correnti sotterranee del mondo, notò - una decina di anni fa- che l'atteggiamento del mondo nei confronti dell'Europa era cambiato, all'improvviso. Una volta, visitando i paesi fuori dal nostro continente, gli capitava spesso di essere fermato per strada, perché qualcuno, afferrandogli un bottone della giacca, gli chiedeva: "Ci dica cosa succede in Europa". Dieci anni fa invece Kapuscinski cominciava ad accorgersi che nessuno lo fermava più, e che nessuno gli faceva domande. Kapuscinski parlava anche di quello che lui chiamava "un cambiamento nella qualità". Un tempo un europeo qualunque, un individuo che non aveva nella propria società una posizione particolarmente elevata, una volta approdato in Tanzania o in Malesia diventava di colpo “signore”. Anche questo è finito. Oggi tutti i Paesi hanno una propria élite istruita e non si aspettano che gli europei possano apportare qualcosa di nuovo nella risoluzione dei problemi con cui si confrontano. Kapuscinski notò anche che un tempo gli europei trattavano il resto del mondo come un parco giochi; oggi ovunque vedono invece il pericolo. La situazione è simile a quella che avvertiva l'Impero romano alla vigilia della sua fine. Ai confini delle sue carte geografiche indicava: 'Hic sunt leones', ovvero vi sono Paesi selvaggi in cui è meglio non avventurarsi. Siamo dunque condannati a vivere nel cortile di casa? Siamo stati sfrattati per sempre? Quello stadio dell'avventura in cui l'Europa, bene o male, dettava il percorso della storia mondiale è per sempre alle nostre spalle? L'Europa non avrà mai più un'accoglienza ospitale?
Io, quando scrivo dell'Europa, penso a un progetto ininterrotto, non realizzato fino in fondo ma che, nonostante tutto, ha dettato il ritmo dei cambiamenti indicando l'orizzonte di aspettative a cui l'Europa per l'appunto mirava. E mi domando se esista un qualche orizzonte verso cui l'Europa potrebbe mirare oggi. Ricrearne la potenza militare rendendola paragonabile, ad esempio, a quella degli Stati Uniti, è impensabile. Sono pure infime le chance di poter paragonare la dinamica dello sviluppo economico dell'Europa a quello dell'America Latina o della Cina. Il Vecchio Continente non è in grado neanche di dare il tono allo sviluppo della scienza, dell'arte e della cultura. Cosa potremmo dunque consegnare in dote al pianeta? C'è qualcosa che possediamo di cui gli altri hanno bisogno e che potrebbero imparare da noi? Lo scrittore George Steiner sostiene che il compito dell'Europa ha carattere spirituale e intellettuale. Nelle sue opere Steiner si occupa dei contrassegni comuni dei popoli europei, fra cui il lascito culturale del mondo ellenico e di quello ebraico. Sottolinea che Europa significa massima diversità linguistica e culturale, un mosaico insolito di modi di vita differenti. Nel nostro continente spesso neanche 20 chilometri separano fra loro mondi diversi. Hans-Georg Gadamer ritiene che l'abbondanza di diversità sia il tesoro più grande che l'Europa è riuscita a salvare e che possa offrire al mondo. La vita con l'Altro e per l'Altro è uno dei compiti fondamentali dell'essere umano. Forse è da qui che origina la peculiare superiorità dell'Europa, che ha dovuto apprendere l'arte di vivere in questo modo. In Europa l'Altro è sempre vissuto, in modo metaforico ma anche letterale, a portata di vista o di mano, L'Altro è, in Europa, il vicino più prossimo. Nonostante le differenze che ci separano, agli europei spetta negoziare le condizioni di questa vicinanza. Il nostro paesaggio è caratterizzato dalla pluralità di linguaggi, dalla contiguità dell'Altro, ma anzitutto dal fatto che egli, in uno spazio fortemente limitato, sia considerato in modo paritario. L'Europa sarebbe dunque una sorta di laboratorio in cui si elabora un determinato modello dell'arte di vivere di persone che appartengono a diverse confessioni, lingue, che hanno diversi modi di essere felici. Anche la convivenza pacifica, utile per tutti, è possibile non solo nonostante la disuguaglianza, ma grazie ad essa. Questa è la fonte dello sviluppo, del cambiamento di opinioni, delle nuove idee. Qui scaturisce l'ispirazione per la soluzione dei problemi.
Una delle incognite da sottoporre a sperimentazione in questo laboratorio è il modo di uscire dai limiti imposti dalla lunga storia contemporanea dello Stato-nazione. L'integrazione della società, l'integrazione della molteplicità ovvero la costruzione di Stati e popoli moderni hanno costituito due processi paralleli e interdipendenti. Brandeburghesi e bavaresi si sono trovati a essere improvvisamente parte di uno stesso popolo (il popolo tedesco), così come in Francia i savoiardi e i bretoni. È difficile immaginare che sorta di sconvolgimento nel pensiero dei popoli sparsi per l'Europa sia stato allora il passaggio dalle comunità locali a quelle nazionali. Oggi abbiamo di fronte a noi una fase successiva dell'avventura europea: il passaggio da una forma di integrazione, così come ci è nota dal funzionamento dell'Unione europea, alla creazione di un piattaforma stabile, funzionale alla comune risoluzione dei problemi planetari, alla creazione di meccanismi di solidarietà umana universale. Siamo lontani da questa meta. Franz Kafka, uno dei più straordinari sociologi che mi sia mai capitato di leggere, in un contesto differente (non pensava allora all'Europa ma in genere al destino e alle opere degli uomini nel nostro mondo), scrisse: "Se dunque non trovi niente qui nei corridoi, apri le porte, se non trovi nulla lassù, non c'è problema, sali per nuove scale. Fin tanto che non smetti di salire, non finiscono i gradini, crescono verso l'alto sotto i tuoi piedi che salgono" ( Difensori, traduzione di Giulio Raio). Lo storico Reinhart Koselleck, nel descrivere ciò che avvenne in Europa tra il Seicento e il Settecento, usò invece la metafora della scalata di un valico alpino. Nessuno di coloro che si arrampicavano aveva la benché minima idea di cosa ci sarebbe stato dall'altra parte; questa gente non poteva neanche immaginarsi l'Europa futura, perché mancavano loro parole e concetti per descrivere i processi messi in moto. Mi attrae in questa metafora non tanto il fatto che dall'altra parte possa esserci il paradiso terrestre (questo non possiamo saperlo) ma che, fintanto che ci inerpichiamo verso il valico lungo una parete molto scoscesa, una sola cosa è certa: non possiamo fermarci. Bisogna andare avanti, perché se cerchiamo di piantare una tenda su quella parete basterà il primo alito di vento a spazzarla via. Forse sono un visionario, forse sono un ottimista nato: in ogni caso la mia speranza è radicata nella logica. Non tanto nella buona volontà degli europei, quanto nel fatto che semplicemente non c'è altra via d'uscita perché con il livello attuale di reciproca interdipendenza di tutti i popoli che abitano il pianeta il futuro dipende dalla nostra capacità di collaborare. È una questione di vita o di morte.
Ma poi ci sono i conflitti... Mi domando se essi derivino dalla nascita degli Stati-nazione, o se siano altrettanto intensi nell'ambito di una sola nazione. All'interno degli Stati nazionali abbiamo imparato come risolvere i conflitti di questo tipo, ora si tratta di imparare a risolverli a un gradino superiore. È una differenza quantitativa. Ma è anche una differenza qualitativa? Forse sì. Cosa c'è dall'altra parte del valico? Non ne ho idea. Sono certo di una cosa sola: quello che scorgeremo laggiù non sarà simile alle istituzioni che siamo soliti identificare con l'essenza della democrazia, della convivenza pacifica ecc., dimentichi del fatto che esse costituiscono solamente le nostre finora assai effimere scelte. Immagino che se invitassimo Aristotele al Bundestag tedesco o alla Dieta polacca le sedute susciterebbero il suo interesse. Forse addirittura correrebbe a casa per scrivere un ulteriore tomo della sua 'Politica'.
traduzione Laura Quercioli Mincer
Mentre Silvio Berlusconi accompagna l'ennesimo annuncio del "piano casa", sbandierando «un giro di affari da 100 miliardi capace di far ripartire l'economia», eccoci davanti allo solita guastafeste di Milena Gabanelli che ci mette di fronte allo sfascio urbanistico dell'Italia.
Una puntata su il di Report (Raitre, domenica), dedicata all'abuso edilizio, in senso proprio, tecnico: la continua, progressiva, inarrestabile costruzione di palazzi. Con le città che si allargano fino a sfumare i confini l'una nell'altra, con il territorio agricolo che diminuisce ogni anno di 100 mila ettari di terreno. Pur in presenza, questo il dato di partenza che spiega poi tutti gli altri, di otto milioni di appartamenti in più rispetto alle reali necessità abitative.
Già ai tempi dell'inchiesta di Report sulla situazione di Roma, che tanto fece arrabbiare gli amministratori della capitale, avevamo potuto vedere che fine (brutta) aveva fatto il piano regolatore della città, stravolto dagli accordi di programma e dalla nascita della mega-galassia dei centri commerciali. Questa volta la panoramica si stende a tutto il territorio nazionale, ai piani regolatori ridotti a puro paravento, alla devastazione del bene pubblico (il terreno agricolo), che avanza senza freni e senza migliorare, anzi peggiorandola, la condizione di chi non riesce ad avere una casa. Le ricerche del Cresme dicono che negli ultimi anni, per la fascia di persone che guadagna 10 mila euro l'anno, l'incidenza del costo dell'affitto è salita dal 47 per cento del 2005 al 67 per cento del 2007.
Lo scempio del Bene Comune data dagli anni post-fanfaniani della Dc, quando il ministro Fiorentino Sullo fece una proposta contro la speculazione edilizia, pagando poi il prezzo dell'esclusione dal successivo governo Moro. Da allora le cose non sono cambiate, tanto che si potrebbe leggere la storia politica italiana attraverso il suo sviluppo urbano malato. Specialmente se confrontato con le politiche di contenimento e di razionalizzazione di città come Berlino o Parigi. In queste capitali succedono cose davvero singolari: per esempio si costruiscono nuove case dove già esistono strade (il traffico è in diminuzione), esattamente il contrario di quel che accade in Italia dove le amministrazioni pubbliche acquistano da privati i terreni agricoli, regolarmente sprovvisti di infrastrutture (con aumento esponenziale del traffico e dei tempi di percorrenza).
Le inchieste di Report sono firmate da Michele Buono e Piero Riccardi.
Qui potete scaricare il testo o vedere il video della trrasmissione
Libertà Vigilata
di Vittorio Emiliani
Silvio Berlusconi non ha nemmeno bisogno di riformare in senso presidenzialista e decisionista le norme e le regole esistenti. La maggioranza vasta e, per ora, supina di cui dispone gli consente sin da ora una strategia di rapida devitalizzazione della democrazia. Il Parlamento è, nei fatti, annichilito e come commissariato attraverso l’uso a getto continuo dei decreti-legge (accoppiati ai voti di fiducia). L’articolo 77 della Costituzione li consente soltanto per i «casi straordinari di necessità e d’urgenza». Se ne sono presentati in questa legislatura? Sì, quelli proposti dalla crisi economica planetaria e però su di essi Berlusconi ha preferito stare a guardare sperando di salvarsi così. Ha usato la decretazione d’urgenza per misure ordinarie espropriando le Camere.
All’attuale premier poco importa di ciò che preesisteva al suo dominio. Quindi ci cammina sopra. Non ha tempo da perdere, lui. Deve governare, lui. Così le garanzie formali e sostanziali, poste a difesa dell’interesse dei cittadini vengono tranciate di netto, col pretesto di «semplificare», di eliminare passaggi burocratici. Questi, in realtà, spesso sono contrappesi e controlli messi lì al fine di evitare scorciatoie pericolose per la democrazia.
Berlusconi diffida profondamente del Parlamento e delle sue funzioni di controllo dell’esecutivo. Ma diffida degli stessi ministri e Ministeri. Difatti, appena può, nomina commissari e supercommissari, come fece, con risultati pratici assai mediocri, nel periodo 2002-2006. Di un supercommissario si fida in particolare: del sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, che, come lui, coltiva un’idea sbrigativa, monocratica e «militare», del potere.
Per il post-terremoto abruzzese ci ha messo direttamente la faccia straparlando di tempi brevissimi e insieme di «new town» (salvo poi smentire sé stesso), di passaggio diretto dalle tende alle case in pochissimi mesi. Un cumulo di demagogiche sciocchezze che hanno rallentato l’approntamento di misure concrete e ben mirate. Presuntuoso e pasticcione.
Ha, di fatto, «commissariato», grazie alla remissività di Bondi (e non solo), i Beni culturali, le Soprintendenze. Ha tentato lo stesso giochino con gli enti locali, ma gli è andata male. Però ci ha provato. Idem col Piano-casa e le Regioni. Con la Lega che sta lì a guardare. Ora si appresta a varare una raffica di commissari alle grandi opere. Così pagheremo fior di stipendi ai commissari per risolvere poco o nulla. Berlusconi non vuole nessun «mediatore» fra la sua figura di supercommissario e il popolo. Così facendo, ottiene due risultati disastrosi: umilia le istituzioni democratiche e combina molto meno di un efficiente, operante governo democratico.
Primo: asservire il parlamento
di Andrea Carugati
Il boom di decreti Ben 35 quelli varati dal governo e 33 quelli fatti
digerire agli onorevoli. Nonostante gli alt di Napolitano e di Fini
Berlusconi e il Parlamento. Uno dei tanti temi bollenti di queste settimane, dopo che il premier l'ha definito «pletorico» e «inutile». Una battaglia, quella del Cavaliere contro le Camere, che è uno dei leit motiv della sua carriera di politico-impolitico. Non a caso due mesi fa era arrivato a proporre il voto per i soli capigruppo, per rendere ancora più inutili, agli occhi dell’opinione pubblica, gli altri 900 e rotti onorevoli e senatori. Il suo attuale governo è uno di quelli che nella storia repubblicana si è più adoperato per svilire il ruolo del Parlamento, quello di fare leggi, attraverso l’abuso di decreti-legge e voti di fiducia. E non è un caso che l’unica riforma di un certo peso approvata in questa legislatura, il federalismo fiscale, figlio di un serrato lavoro in aula e commissione tra maggioranza (in realtà solo la Lega) e opposizione, sia stata vissuta dal Cavaliere come una cambiale da pagare al Carroccio. E non è un caso che Fini, nel difendere le Camere dal premier, abbia ricordato proprio l’iter del federalismo che «smentisce la tesi dell’inevitabile tramonto del ruolo del Parlamento come legislatore». Ma la tesi di Fini, in questo come in altri campi, non è la linea del Pdl. Lo dicono i numeri: 18 le fiducie in un solo anno di legislatura. A luglio 2008 erano già 4. Tanto da suscitare l’intervento di Napolitano, che sullo stesso tema aveva bacchettato Prodi. Appello inascoltato. Ben 35 i decreti-legge approvati dal Cdm in un anno, di cui 33 approvati dalle Camere, a fronte di sole 7 proposte di legge parlamentari approvate. «Si legifera in pratica solo con i decreti», spiega Guido Melis, deputato Pd e docente di Storia delle istituzioni politiche alla Sapienza: «Berlusconi considera i suoi deputati come ascari: devono obbedire». «Ma questo trend dura dagli anni ‘70 - spiega invece Stefano Ceccanti, docente di Diritto costituzionale alla Sapienza e senatore Pd - . È vero che con questa maggioranza schiacciante si potrebbe evitare l’abuso di voti di fiducia e di decreti, ma i regolamenti parlamentari sono inadeguati».
Bavaglio Class Action
di Bianca Di Giovanni
Doveva essere l’arma dei consumatori, ma con Silvio Berlusconi è diventato un inutile orpello. È la class action, l’azione collettiva, quell’istituto giuridico che negli Stati Uniti consente battaglie leggendarie di semplici cittadini contro le grandi Corporation fin dagli anni ‘60. Il testo voluto dal governo ha così depotenziato la misura che è assai probabile che le cause intentate dai consumatori si affastelleranno sulle scrivanie dei giudici e resteranno lì.
Le associazioni dei consumatori hanno bollato la proposta come «inapplicabile, dannosa per i consumatori, avulsa dal Codice del Consumo e contraria alle indicazioni provenienti dall'Ue». Bocciatura totale. Ma cosa ha fatto esattamente il governo? Prima manovra: no alla retroattività. Si consente di utilizzare il nuovo strumento solo per gli illeciti commessi dopo l’entrata in vigore della legge, e non per tutti quelli ancora non prescritti. In un solo colpo si salvano i responsabili dei crack Cirio e Parmalat e anche quelli che hanno lasciato con un mucchio di carte in mano i piccoli azionisti Alitalia. ma la beffa non finisce qui. Il testo prevede anche pesanti sanzioni per i cittadini che avessero presentato una domanda giudicata poi inammissibile. Insomma, se manca il «luogo a procedere i cittadini pagano. Una vera minaccia contro chi intende ribellarsi per comportamenti fraudeolenti e vessatori. Ancora. la possibilità di ricorrere è limitata a solo una decina di tribunali in tutto il territorio. Napoli dovrà coprire gran parte del mezzogiorno, Roma il Lazio, l’Abruzzo, l’Umbria e le Marche, Venezia anche il Trentino e il Friuli Venezia Giulia. Insomma, solo provare a far causa è un’impresa ardua. D’altronde si capì fin da quando fu approvata la prima stesura, con il governo Prodi, l’aria che tirava. Confindustria parlò di «atto ostile».
Non fu così una trentina d’anni fa in California. La class action più famosa è rimasta quella contro la Pacific Gas and Electric Company, che portò nelle tasche di 360 cittadini 333 milioni di dollari. L’accusa (provata) era pesantissima: inquinamento delle falde acquifere e rischio tumore per gli abitanti. Ci volle una donna coraggiosa, Erin Brockovich, per ottenere giustizia. In Italia non basterà né il coraggio né la voglia di lottare.
Il potere parallelo di Mr. Bertolaso
di Claudia Fusati
Protezione Civile Dai Grandi Eventi alle emergenze: la possibilità
di emanare ordinanze e decreti. E una pronta cassa milionaria
Fa tutto lei, la PC, entità superiore che tutto sovrasta e tutto comprende. Dalle scelte in apparenza più insignificanti, come organizzare cresime, lauree alla memoria e i seggi elettorali per le europee nelle tende blu con scritto sopra Protezione Civile (ma il voto non è competenza del Ministero dell'Interno?). A quelle più istituzionali, per cui sindaco e presidente della Provincia sono diventati esecutori di decisioni prese dalla PC. È lei, la Protezione Civile, anzi lui, super Guido Bertolaso che ne è il n°1, che decide chi può entrare nelle tendopoli; che i 63 mila sfollati devono vivere per mesi in tende e alberghi anzichè in container; che i terreni vanno espropriati per costruirci sopra le venti new town e così via. In mezzo ci sta tutta la vita quotidiana di una comunità appaltata, in nome dell’emergenza, alla Protezione Civile.
Ecco, la gestione del post terremoto in Abruzzo è un esempio eccellente di cosa voglia dire sottrarre potere agli enti locali, specchio di uno stato centralizzatore che via via rosicchia autonomia a chi invece, per dettato costituzionale, dovrebbe averne sempre di più. Il fatto è che negli ultimi anni la Protezione Civile è diventata un governo ombra in grado di sostituirsi da un momento all'altro alla complessa struttura dello Stato. Una relazione della Cgil Funzione Pubblica del 15 aprile spiega bene il passaggio dalla PC «del fare», quella che si dovrebbe occupare dei rischi naturali e calamitosi, alla PC «che prevarica» che esercita «una violenza governamentale» e «una dittatura governativa». Il salto di qualità avviene nel dicembre 2001 (legge 401) che affida alla PC oltre i consueti compiti (con il primo governo Prodi e la gestione di Franco Barberi arrivano a un ottimo livello di responsabilizzazione degli enti locali), i cosiddetti «grandi eventi». Tutto può diventare, ed è diventato, Grande Evento, dalla ristrutturazione della cattedrale di Noto ai funerali di Wojtyla, dai Mondiali di Nuoto ai Giochi del Mediterraneo.
Quella norma del 2001 ha dato alla PC «cinque formidabili strumenti»: la gestione dei Grandi Eventi; decidere cosa è emergenza; denaro pronto cassa (tramite la Cassa Depositi e Prestiti), il potere di ordinanza e i decreti legislativi. Per questo l’emergenza rifiuti a Napoli ha potuto produrre «un regime legislativo diverso e parallelo a quello ordinario». Che adesso è sotto inchiesta. Dal principio di sussidiarietà si è passati a quello della sostituzione. Ogni emergenza sostituisce un pezzetto di potere. «Contro la burocrazia, per fare meglio e prima» è il principio guida di super Guido Bertolaso, l’uomo dell’efficienza. Peccato che lo stato parallelo abbia saputo produrre qualcosa come 10 mila commissari straordinari nominati a guida delle varie emergenze, che ognuno di loro guadagni il 40-60% in più rispetto al nomale compenso di amministratore. Peccato, soprattutto, che queste emergenze non finiscano mai.
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio s’indigna per il trattamento che gli riservano i magistrati che lo processano, o i giornalisti che indagano sulla spregiudicatezza con cui mescola condotte private e pubbliche. S’indigna a tal punto che le due figure - il magistrato, il giornalista - sono equiparate a quella del delinquente: è avvenuto giovedì all’assemblea della Confesercenti. Le tre categorie sono assimilate a loro volta all’opposizione politica. Le accuse che vengono loro rivolte sono essenzialmente due. Primo, l’offesa al popolo sovrano, al consenso che esso ha dato alle urne e che imperturbato rinnova nei sondaggi. Secondo, la natura pretestuosa di tali attacchi antidemocratici: il primato dato alla forma sulla sostanza, ai problemi finti degli italiani su quelli veri, allo show sulla realtà, al gossip sulla politica del leader.
L’accusa va presa sul serio, perché il premier ha costruito il proprio carisma sulla maestria dello show e non ha concorrenti in materia. In particolare sa abbandonarlo, se serve, e presentare l’avversario come vero manipolatore della società dello spettacolo. Come ha scritto Carlo Galli, "il suo vero potere è sul linguaggio e sull’immaginario": qui è l’egemonia che dagli Anni 80 esercita sul senso comune degli italiani, e che l’opposizione non ha imparato a scalfire (la Repubblica 25 maggio).
Ma qualcosa si va scheggiando, in questo perfetto potere d’influenza, come accade agli apprendisti stregoni che non dominano più interamente i golem fabbricati.
Il gossip, lo show, il privato che fagocita il pubblico, i problemi veri semplificati fino a divenire non-problemi, dunque falsi problemi: questi i golem, e tutti provengono dalle officine del berlusconismo. Sono la stoffa della sua ascesa, gli ingredienti della sua egemonia culturale in Italia. Quel che succede oggi è una nemesi: il problema finto divora quello vero, show e gossip colpiscono chi li ha messi sul trono. All’estero la condanna è dura. Non da oggi, certo: l’Economist lo giudicò "inadatto a governare" il 28 aprile 2001, sono passati anni e Berlusconi resta forte. Ma lo sguardo esterno stavolta s’accanisce, perché finzioni e non-verità si accumulano.
Il fatto è che nel frattempo il mondo è cambiato, attorno a lui. Berlusconi è figlio di un’epoca di vacuità della politica: il mercato la scavalcava impunemente, ignorando ogni regola; l’imprenditore-speculatore sembrava più lungimirante e realista del politico di professione. Il liberalismo dogmatico regnò per decenni, e Berlusconi fu una sua escrescenza. Ma questo mondo giace oggi davanti a noi, squassato dalla crisi divampata nel 2008. La regola e la norma tornano a essere importanti, il realismo dei boss della finanza è screditato, la domanda di politica cresce. È quel che Fini presagisce: senza dirlo si esercita in toni presidenziali, conscio del prestigio miracolosamente sopravvissuto del Colle. La crisi del 2007-2008 è sfociata in America nella sconfitta di Bush, ma quel che Pierluigi Bersani ha detto in una recente conferenza è verosimile: "Il capitalismo non finisce, ma finisce una fase ad impronta liberista della globalizzazione. E non finisce perché c’è Obama, ma c’è Obama perché finisce".
Questo spiega come mai Berlusconi - a seguito della sentenza Mills che lo indica come corruttore di testimoni e della vicenda Noemi in cui appare come boss che esibisce private sregolatezze fino a sfidare il tabù della minorenne - irrita più che mai chi ci guarda da fuori. Un’irritazione che si accentua di fronte ai troppi nascondimenti della verità: nel caso Mills la verità di sentenze che non sono tutte di assoluzione ma anche di prescrizione o assenza di prove; nel caso Noemi la verità di incontri poco chiari. Non dimentichiamolo: quando si incolpano le bolle, finanziarie o politiche, è di menzogne e sortilegi che si parla.
Quel che finisce, attorno a noi, è la negligenza dell’imperio della legge, della rule of law. Non tramonta solo il dogma del mercato onnisciente ma la figura del sovrano-boss, eletto per stare sopra le leggi, i magistrati, le costituzioni, le istituzioni. La fusione tra il suo interesse-piacere privato e il suo agire pubblico diventa un male non più minore ma maggiore, perché nelle democrazie c’è sete di regole e istituzioni, dopo lo sfascio, e non di favole ottimiste ma di realtà e verità. C’è bisogno di gesti fattivi e antiburocratici come la presenza in Abruzzo o a Napoli sui rifiuti, ma c’è anche bisogno di cose che durino più di una legislatura e non siano bolle. È utile osservare l’America, oggi: l’immenso sforzo pedagogico che sta compiendo Obama, per convincere i cittadini che il breve termine è letale, che la Costituzione e le norme devono durare più dei politici.
Deve poter durare il sistema di checks and balances innanzitutto: l’equilibrio tra poteri egualmente forti e indipendenti. Il presidente americano sta riconquistando l’egemonia della parola, con linguaggio semplice e vera passione pedagogica. Il suo discorso su Guantanamo e terrorismo, il 21 maggio, lo conferma: "Nel nostro sistema di pesi e contrappesi, ci deve essere sempre qualcuno che controlli il controllore. Tratterò sempre il Congresso e la giustizia come rami del governo di eguale rango". Berlusconi va oggi controcorrente: all’estero non ha altra sponda se non quella di Putin, figura tipica di politico-boss.
Tuttavia la società italiana gli crede ancora, e questo consenso varrà la pena studiarlo, con la stessa umile immedesimazione mostrata da Obama. Varrà la pena studiare perché gli italiani somigliano tanto ai russi, come se anch’essi avessero alle spalle regimi disastrosi. Perché tanta sfiducia verso le regole, lo Stato, la res publica. Non esiste una congenita debolezza morale degli italiani, e dunque occorre capire come mai la politica è così profondamente sprezzata, il conflitto così radicalmente temuto. La tesi esposta più di vent’anni fa dallo studioso Carlo Marletti è tuttora valida: è vero che da noi esiste un "eccesso di pluralismo e complessità che le istituzioni legali non semplificano" adeguatamente. E che al loro posto si sono installate auto-organizzazioni informali, claniche o familiste, che non sono arcaiche ma si sono adattate alla modernità meglio di altre. Marletti spiega come lo sviluppo industriale si sia mescolato alla criminalità organizzata e come si siano creati, in assenza di uno Stato che semplifichi la complessità, meccanismi di semplificazione sostitutivi, solidaristico-clientelari, "di tipo nero o sommerso" (Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984).
Berlusconi prometteva questa fuga nella semplificazione deviante, meno ingarbugliata che ai tempi della Dc. Secondo il filosofo Václav Belohradsky, essa è basata sul prevalere dei fini personali o corporativi sui mezzi che sono le norme prescritte a chi vuol realizzare tali fini. Tra i due elementi è saltata ogni coerenza ed è il motivo per cui l’Italia vive nell’anomia sociale, come fosse fuori-legge.
In Italia accade questo: le mete del singolo sono tutto, le norme nulla. La legalità vale per gli altri (i clandestini), non per noi, scrive Carlo Galli. Per noi le leggi sono d’impedimento: quelle italiane e anche quelle dell’Unione Europea, come ha ripetuto Berlusconi alla Confesercenti. L’opposizione potrebbe ripartire da qui: dalle norme pericolosamente sprezzate, dall’Europa che il governo finge di poter aggirare senza rischi, dalla sovranità nazionale che esso finge di possedere, a cominciare dal clima. La commistione privato-pubblico ha condotto a tutto questo, non è solo la storia di un padre, di una moglie mortificata, dei loro figli. I più preveggenti dicono: dopo la crisi il mondo non sarà più eguale. Berlusconi promette di conservarlo: anche questo è bolla, ed è spinta rivoluzionaria che si sta esaurendo.
Lettini da mare al posto del filo spinato. Castelli di sabbia e non carri armati. Torrette d'avvistamento: per i bagnanti, non per le esercitazioni. Ombrelloni contro il sole, niente contraerea. A rovinare il quadretto c'è il fatto che molti di quegli spazi saranno off-limits: a meno che non decidiate di prendere una stanza in uno degli innumerevoli hotel sulle coste sarde. A quel punto, se la vostra scelta è ricaduta su una struttura a cinque stelle, avrete sino a nove metri quadrati di spiaggia a vostra disposizione. Sette se l'alloggio sarà un "misero" tre stelle. Altrimenti niente, divieto d'ingresso.
Servitù balneari, in due parole: solo che mentre su quelle militari c'è il segreto di stato, su queste la Regione guidata da Ugo Cappellacci sa tutto e di più. Le nuove norme per le concessioni demaniali sono nero su bianco, tutte indicate in una delibera approvata in viale Trento. Farina di quel sacco: decisione autonoma, per una volta. Anche se a Roma avranno approvato di sicuro. Meno in Sardegna: critiche a tutto campo da parte dell'opposizione, con il Pd in testa, ma anche dalle associazioni dei consumatori e da quelle ambientaliste. Con un ricorso già pronto, presentato dal Gruppo di intervento giuridico-Amici della Terra.
La strategia balneare: no Ppr, no tassa di soggiorno. E fuori i sardi dalle spiagge
Il turismo era stato uno dei leitmotiv della campagna elettorale di Silvio Berlusconi e Cappellacci per le regionali dello scorso febbraio. Il premier parlò di centri benessere, campi da golf, strutture per il turismo congressuale: "da costruire", disse. Ci vorrà tempo, ma la Giunta lavora alacremente allo smantellamento del piano paesaggistico approvato durante la legislatura Soru: non è certamente una priorità rispetto ai problemi della chimica o dell'industria sarda in generale, solo per fare un esempio, ma l'obiettivo è la cancellazione totale del nemico politico numero uno.
Sull'immediato, invece, si lavora ai servizi da offrire ai turisti. L'assessore Sannitu lo ha spiegato chiaro e tondo: più servizi uguale più turisti, è il ragionamento della Giunta. Tutto a vantaggio dei vacanzieri che alloggiano negli alberghi a ridosso delle spiagge, e di quelli che usufruiscono dei villaggi-vacanza che si affacciano sul mare. I professionisti della gitarella domenicale dovranno arrangiarsi: significa che se voi prendete l'auto da casa e andate a Chia, per dire, dovrete sperare di trovare spazio sui tratti di litorale liberi. Meglio, lasciati liberi: perché quelle strutture avranno più spazio a disposizione da offrire ai propri clienti.
Certo, la deliberazione indica le linee guida che i Comuni potranno poi applicare. Ma disegnano una strategia ben definita: le spiagge dovranno essere lunghe almeno 250 metri e la concessione non dovrà superare il 50 per cento dell'arenile. Le strutture fra gli 800 e i 1500 metri dalla battigia, avranno 5 metri quadrati di ombra per ciascuna camera. Se sono entro la fascia degli 800 metri, avranno ben 7 metri quadrati per ogni camera, se di categoria fino a tre stelle, o 9 metri quadrati d'ombra, se di categoria superiore alle tre stelle. Il tutto fino ad un tratto di 50 metri lineari lungo la battigia. In più c'è lo spazio per le torrette di avvistamento e altri servizi, insieme a diversi benefit. Da misurare in metri quadri ulteriori, a esempio se l'albergo offre servizi per i bambini: ma, capirari, dovrà disporre di più di 1500 posti letto. La concessione demaniale avrà una durata di sei anni secondo una legge del 1993 anche in assenza del necessario piano di utilizzo dei litorali. Attualmente avrebbe una durata di sei mesi, provvisoria, proprio in attesa che i Comuni si dotino del Pul.
A fare due conti, vengono fuori numeri da capogiro: circa 40mila ettari di spiaggia diventeranno potenzialmente off-limits per i residenti. Servitù balneare, appunto: tutto per i turisti, leviamo pure la "demoniaca" tassa di soggiorno e pazienza per le zone interne. Anche se poi, parole dell'assessore al Bilancio Giorgio La Spisa, "valutiamo l'ipotesi di un fondo perequativo per le aree svantaggiate": avanti un altro, c'è posto. E i sardi sempre dietro: in questo caso, anche un po' più in là.
Dalle proteste al ricorso: ambientalisti in prima linea contro la privatizzazione
Il regalo ad albergatori e imprenditori del turismo non poteva certo passare inosservato. Anche perché completa il quadro delle prime azioni in autonomia da Roma della Giunta regionale. Però offre all'opposizione la sponda per l'attacco frontale: la squadra di Ugo Cappellacci "ha aperto ufficialmente l'assalto alle coste", dicono i consiglieri del Partito democratico. Il provvedimento, sottolineano, "restaura il principio di privatizzazione del demanio pubblico in base al quale sussisterebbe un diritto automatico di posto ombrellone per posto letto alberghiero". C'è dell'altro: "Le disposizioni approvate fra riportano in auge tutta la peggiore discrezionalità degli uffici regionali abilitati al rilascio delle concessioni, dal momento che l'affermazione "sempre che le condizioni delle spiagge lo consentano" non può che essere risolta in capo alla decisione del funzionario di turno. La delibera approvata ignora fra l'altro l'esistenza di direttive gia' approvate con l' intesa degli Enti Locali, e che prevedono fino all'approvazione del Piano di utilizzo dei litorali il rilascio di concessioni solo alle nuove strutture ricettive e comunque per un periodo limitato di sei mesi all'anno. Siamo dunque alle piu' totale restaurazione dei vecchi metodi che in un tempo non molto lontano, consentivano il rilascio di 20 - 30 concessioni in un solo giorno senza la minima valutazione degli impatti ambientali ed antropici di tali atti. Gli Enti locali e le associazioni ambientaliste dovrebbero sapere bene cosa potrà accadere nei prossimi giorni, se l'atto non venisse annullato".
Lo sanno bene sì le associazioni ambientaliste. C'è il Gruppo di intervento giuridico-Amici della Terra che ha presentato, ieri, un ricorso al presidente della Regione, alla Commissione europea e al Ministro dell'ambiente per "ottenere la revoca o l'annullamento della deliberazione". Le motivazioni sono chiare: "Potenzialmente più di 40 mila ettari di spiagge sarde potranno finire in concessione a strutture ricettive. Infatti, la deliberazione ha evidente contenuto programmatico ed effetti diretti e indiretti sugli ambienti costieri isolani, ma non c'è stato alcun preventivo e vincolante procedimento di valutazione ambientale strategica, necessario in tutti i casi simili, né una valutazione di incidenza, visto che interessa potenzialmente numerosi siti di importanza comunitaria Sic. Conseguentemente,alla Commissione Europea è stato richiesto di valutare il provvedimento regionale ai fini della verifica del rispetto della normativa comunitaria in materia di valutazione ambientale strategica e di salvaguardia degli habitat naturali e semi-naturali, della fauna e della flora, ai sensi dell'articolo 226 del Trattato CE".
In caso contrario gli effetti sarebbero devastanti: "Basti pensare", continua il gruppo ambientalista, "a che cosa può accadere in presenza di grandi gruppi immobiliari gestori di complessi turistici: a puro titolo di esempio, il Chia Laguna Resort, recentemente ai fasti della cronaca per le note vicende giudiziarie del suo campo da golf abusivo, è formato dall'Hotel Laguna, dall'Hotel Parco Torre Chia, dal Chia Village, dall'Hotel Baia Chia. Ha ben 582 camere di categoria superiore a tre stelle e 80 di categoria tre stelle. Si ritroverà, quindi, beneficiario di 5.798 metri quadrati di concessione demaniale ai quali si sommeranno gli spazi per servizi ludici, torrette d'avvistamento e altro. In buona sostanza, circa 6mila metri quadri di concessione, più di mezzo ettaro di spiaggia. E gli altri esercizi ricettivi della zona? Li vogliamo lasciare a secco? Ma quando mai. E chi andrà davvero a verificarne la legittimità? Saranno più di 40mila ettari di spiagge sarde date in concessione ai vari esercizi ricettivi. E così, i comuni mortali, in primis quei sardi che dovrebbero beneficiare di quel pubblico uso del demanio marittimo e delle spiagge in particolare, rimarranno confinati negli spazi residui, nelle riserve per gli indigeni sulle spiagge".
La lettura completa la offre la Federconsumatori, con una protesta formale: "Ecco spiegata la premura della giunta Cappellacci di abolire la legge salvacoste: d'ora in poi sarà possibile costruire entro tre chilometri di distanza dalle coste, ma sarà addirittura più fruttuoso farlo entro gli 800 metri. Poco importa se a discapito degli isolani stessi e della salvaguardia costiera e paesaggistica".
Quando comparvero i primi segni della crisi finanziaria, non pochi osservarono, anche nelle nostre file, che si trattava di un fenomeno né inedito né sconvolgente: bastava sfogliare nei punti opportuni Il capitale di Marx per trovare i profili del sistema creditizio nella sua dipendenza dal modo di produzione dominante. L'osservazione mi apparve e mi appare un po' scolastica e pedagogica, quasi che la stessa scena non facesse altro che ripetersi, con attori diversi, e quasi che vi fosse bisogno di ricordare che in Marx giacciono molti tesori oggi finiti nel dimenticatoio.
Ma che cosa ha a che fare il sistema creditizio analizzato da Marx con le manovre di alcuni pescecani che sono in grado di spostare in pochi minuti cifre tali da alterare equilibri economici mondiali? Ogni volta che ricompaiono fenomeni da capitalismo predatorio, i quadri concettuali della razionalità di sinistra vacillano. Le motivazioni sono più che plausibili: la critica del capitalismo predatorio non stonerebbe in bocca ad un fascista di sinistra, può confusamente accompagnarsi a lamentazioni, venate di antisemitismo, contro le plutocrazie, ed un tradizionalismo cattolico da vandea potrebbe ben schierarsi, nonostante l'imbarazzante contromodello dell'Opus dei, contro operatori economici spregiudicati e privi di scrupoli.
Qua e là può affacciarsi anche il ritornello dei mercanti e degli eroi, a distribuire la propensione alla rapina dalla parte dei primi e la titolarità della virtù umanistica dalla parte dei secondi. La distanza dei patrimoni teorici del movimento operaio organizzato dalle categorie del capitalismo predatorio è stata sempre un punto d'orgoglio: di fronte a quel quotidiano attentato alla razionalità che è il capitalismo, sono pensabili e perseguibili, con la lotta politica, livelli superiori di razionalità sociale, di equilibrio e di giustizia, ma il giudizio morale deve interferire il meno possibile. Il discorso fu chiuso in fondo dallo stesso Marx, che tirò fuori una metafiora teatrale: non ce l'ho con il capitalista, è solo una "maschera di carattere", ho ben altro a cui pensare che accanirmi contro questo o quel grassatore di strada, la soggettività dello sfruttatore di turno la lascio ad altri.
Il cammino che porta ai nostri giorni è lastricato di allarmi. Il primo, ignorato, coincise con il famoso pronunciamento di Enrico Berlinguer sulla questione morale e con la diffusa, e malcelata, mancata condivisione dello stesso. Eppure Berlinguer, il quale sarebbe stato il primo a respingere l'idea del potere giudiziario come succedaneo o come supplente a tempo pieno della politica, aveva detto in fondo, a ripensarci, una cosa di luhmanniana, fredda razionalità: se consentiamo alla questione morale di tracimare e di occupare gli spazi della politica, smetteremo di fare politica. Non si può dire che il vaticinio fosse campato in aria.
Le passioni, a cominciare dall'avidità (di soldi o di potere), vengono in genere trattate sub specie aeternitatis: oggi forse qualche neuroscienziato suggerirebbe di andare a caccia di questo o di quell'enzima, tanto per dare un tocco di inaggirabile definitività bio-antropologica. Ma le passioni possono essere storicizzate, come del resto può essere monitorata nel tempo la caduta tendenziale del saggio di ironia e di autoironia disponibile in una comunità civile: quante volte la filmografia di Totò ha spernacchiato ante litteram, direttamente o indirettamente, un personaggio come Brunetta? Ad aggravare la nostra pena c'è la consapevolezza che lo storico del futuro non potrà scrivere della nostra epoca senza sbellicarsi dalle risate.
Se le passioni vengono storicizzate, si può scoprire che anche la rapacità ha un suo diagramma, fatto non di secca presenza e di altrettanto evidente assenza, ma di alti e di bassi, di pudore e di impudenza, di controllo e di smodatezza. È sotto gli occhi di tutti che un'Europa post-bellica, impegnata nello sgombero delle macerie e in un elementare processo di accumulazione capitalistica, aveva imbrigliato in una mappa segnata da schieramenti politici veri le più distruttive escrescenze passionali. Congiurò positivamente la possibilità di ereditare dalla guerra, o addirittura dalla lotta antifascista, aristocrazie politiche dotate, o presto investite, di vocazione costituente. Anche sulle politiche di welfare non gravò l'ombra dell'umiliazione e dell'obolo, perché aveva una sua chiarezza il compromesso di classe sul quale esse erano fondate. Giova ricordare che a quei tempi in Italia si sparava spesso e volentieri sui lavoratori in sciopero, in attesa della più radicale stagione delle stragi di Stato: il clima non era da happening, tuttavia erano meno aggressive, o del tutto inesistenti, quelle corporate identities che assommano schiavitù volontaria e grinta espansionistica, e nelle quali il profilo identitario, pur di rimanere tale, può accumulare potere perfino accettando il rischio dell'estremismo disfunzionale e autolesionistico.
Oggi la scorciatoia delle curve femminili nella selezione della classe dirigente e nella cattura del consenso non inventa la neo-passione del mercimonio sessuale, ma sancisce e quasi formalizza l'assai più vetusta passione della selezione positiva della mediocrità o dell'innocuità, finalizzata a non disturbare il manovratore. I conservatori post-1789 arricciarono il naso di fronte a quella manica di socialmente scapestrati - zero tituli, direbbe Mourinho - che andò a costituire l'Assemblea nazionale francese: la cui bastarda composizione sociale fu tematizzata, però, solo perché si intravvedeva all'orizzonte il fabbisogno crescente di competenze e di saperi organizzativi, tecnici e gestionali che fanno un governo, o forse una governance. Anche un bambino sarebbe stato capace di maramaldeggiare sull'insipienza fiscale dei rivoluzionari.
Il vero conflitto con la cultura di destra non è più sull'uso dei congiuntivi, anche se difficilmente dalle truppe di Bossi verranno scoperte scioccanti di filologia dantesca. Le curve femminili danno il senso della migrazione delle competenze lontano dall'agone politico e preoccupano non in quanto indice di immoralità, ma perché invitano alla dissociazione tra politica e conoscenza, tra classe dirigente e sobrietà, con una sorta di franchigia riservata alle idiozie.
A questo punto il corpo femminile è una protesi che accelera i processi di iniziazione e di acclimatazione nelle stanze del potere, ma perde di specificità e vale quanto un'altra protesi qualsiasi: quanto ad efficacia operativa, quella del portaborsismo zelante e del sacrificium intellectus non scherza e, a occhio, annovera percentuali di praticanti assai più maschili che femminili.
Una volta eravamo preoccupati, con spirito genuinamente weberiano, che la tecnica e la burocrazia potessero scipparci la passionalità della politica, oggi siamo sgomenti di fronte alla possibilità di essere travolti dal dilettantismo. O forse non sappiamo che, scavalcata la scena presidiata dai giullari, i destini del mondo si giocano in altri centri di potere, che trattano i giullari con la stessa puzza al naso che avevano i lords inglesi nei confronti dei presumibilmente malvestititi e maleodoranti citoyens.
Se dovessi scegliere tra un governo senza giornali e giornali senza un governo, non esiterei un istante a scegliere la seconda opzione.
(Thomas Jefferson - 16 gennaio 1787)
Sono passati più di due secoli da quando Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti d’America, scrisse la frase riportata qui sopra in una lettera a Edward Carrington, prima militare e poi rappresentante politico della Virginia. E nel frattempo, s’è avverato ciò che lui stesso auspicava di seguito: "Ma devo dire che ogni uomo dovrebbe essere in grado di ricevere questi giornali ed essere capace di leggerli".
Trasferita nell’Italia contemporanea e messa in bocca al presidente del Consiglio in carica, la citazione di Jefferson andrebbe completamente rovesciata: non c’è alcun dubbio che Silvio Berlusconi preferirebbe invece un governo senza giornali. E con lui, molti dei suoi adepti e cortigiani. Anzi, l’opzione potrebbe riscuotere consensi perfino nelle file della sinistra o del centrosinistra.
La stampa, la libera stampa, disturba i potenti. Per la semplice ragione che, in nome dell’opinione pubblica, esercita bene o male una funzione di controllo nei loro confronti e in questo senso rappresenta un contropotere. Osserva, riferisce e giudica il loro comportamento. Valuta quello che fanno e non fanno. Indaga sulle loro azioni. Li intervista, li contraddice e a volte si permette pure di criticarli.
Lungi da noi la tentazione di una difesa d’ufficio della categoria. Anche i giornalisti - a cominciare ovviamente da chi scrive - possono sbagliare, hanno le loro colpe, i loro difetti e le loro debolezze. A differenza dei politici, però, rendono conto ogni giorno ai propri lettori, oltreché alla propria coscienza, al proprio direttore, al proprio editore ed eventualmente alla giustizia, mentre i politici si rifugiano spesso e volentieri dietro lo scudo dell’immunità parlamentare. Sta di fatto, comunque, che i lettori comprano i giornali e talvolta accade invece che la politica compra gli elettori.
Ora, quando il presidente del Consiglio dichiara che "chi vuol fare del male, fa il delinquente, il pubblico ministero o il giornalista", non si sa bene se – detto da un personaggio come lui - sia un’offesa o un complimento. L’associazione magistrati giustamente protesta e li ritiene "insulti inaccettabili". E il presidente della Federazione nazionale della Stampa, Roberto Natale, li definisce attacchi "indecorosi". Ma, diciamo la verità, non c’è da parte della nostra categoria quella reazione indignata e compatta che una tale aggressione meriterebbe.
Sotto il fuoco delle polemiche suscitate dal "caso Berlusconi", riprese e amplificate da diversi e autorevoli giornali stranieri, il ministro degli Esteri Franco Frattini, artefice di una fondamentale legge sul conflitto di interessi che non impedisce al premier neppure di fare il presidente vacante del Milan, non trova di meglio che prendersela con la "stampa cattiva e disonesta". Ma si può, e può in particolare il capo della diplomazia, liquidare in blocco con una battuta del genere le critiche di testate come il Financial Times, organo della business community internazionale; come i quotidiani inglesi The Guardian e The Indipendent o come lo spagnolo El Paìs? Noi, giornalisti italiani, ormai ci siamo abituati e conosciamo fin troppo bene i nostri governanti. Ma che cosa devono pensare i colleghi stranieri e, soprattutto, che cosa devono pensare i lettori dei rispettivi giornali?
All’estero, non tutti sanno che questa è una classe politica composta da funzionari o impiegati di partito, non di eletti dal popolo. Nominati dall’alto, e non sempre in virtù delle proprie qualità o competenze, ma piuttosto dei servizi che rendono a questo o a quel capo; della loro fedeltà e obbedienza; del loro aspetto fisico o magari della loro "bellezza". Una burocrazia parlamentare, insomma, che non viene scelta dal corpo elettorale, bensì dai vertici dei partiti e imposta di fatto ai cittadini.
L’intolleranza crescente verso i giornali, da parte di un ceto politico dedito innanzitutto alla difesa dei propri interessi e della propria sopravvivenza, rivela in realtà una tara, una debolezza congenita, che deriva appunto dal senso di precarietà e dipendenza. L’informazione viene così demonizzata e criminalizzata. E non resta che attaccare, offendere e insultare i giornali e i giornalisti, italiani o stranieri, in una gara all’insegna della stupidità e volgarità, per guadagnare titoli e meriti agli occhi dei maggiorenti. Siamo ormai al limite dello squadrismo verbale.
La stampa sarà pure "cattiva e disonesta", come sostiene impunemente il ministro Frattini. Ma, allora, che cosa dobbiamo dire tutti noi, cittadini ed elettori, di questa politica? Cattiva e disonesta, non basta. Da parte nostra, come il presidente Jefferson e al contrario di Berlusconi, continuiamo a preferire giornali senza un governo piuttosto che un governo senza giornali.
"Uscire dalla crisi significa faticosa comprensione dell'accaduto", scrive Draghi nelle ultime pagine delle "Considerazioni finali". L'impressione è che Bankitalia abbia "elaborato" poco la crisi, limitandola agli aspetti finanziari, lodando le autorità monetarie mondiali che hanno "evitato un tracollo globale". Ma Bankitalia ha un merito: sgombra il campo dell'ottimismo di Berlusconi che ieri ha commentato la relazione come "berlusconiana". Mentre, al contrario, Draghi afferma: "Non è ancora possibile individuare con certezza una definitiva inversione ciclica". Insomma, nella crisi siamo impantanati e non ci sono cavalieri bianchi pronti al salvataggio.
Le prime vittime della crisi sono i lavoratori. Tutte le imprese industriali sono frenate dal tracollo della domanda mondiale e quelle che avevano deciso di investire sono paralizzate dalla mancanza di liquidità. Peggio di tutte stanno le 500 mila piccole imprese, molte delle quali producono in sub-fornitura. Vengono pagate in ritardo e rischiano di morire.
Draghi ci racconta anche che quest'anno sono in scadenza 2 milioni di contratti a termine e il 40% delle imprese consultate intende ridimensionare. Chi aveva previsto che entro il 2010 la disoccupazione sarebbe aumentata di un altro milione ora ha, purtroppo, una certezza in più. Ma non sono solo i licenziamenti a preoccupare: la Cassa integrazione esplode e si amplia la forbice tra chi ha una copertura, almeno parziale, offerta dagli ammortizzatori sociali e chi non ha nulla. Salvo la burla del provvedimento per gli atipici voluto da Berlusconi, Tremonti e Sacconi. Da un punto di vista macroeconomico la cosa preoccupa il governatore: meno salari significano meno consumi, meno domanda e meno investimenti. Così dalla crisi non si esce. Ma come uscirne allora?
Nelle ultime due righe, Draghi cerca di essere ottimista e fiducioso. Impresa non facile visto che il Pil quest'anno cadrà del 5% e negli ultimi sei mesi è crollato del 7%. Per il governatore la strada è una sola: una grande alleanza per le riforme. Su tutte - ovviamente - quella delle pensioni per dirottare risorse sugli ammortizzatori sociali. Ma c'è anche un problema di evasione fiscale (oltre il 15% del Pil viene dal sommerso). E occorre procedere a una riforma della scuola e della P.A. e a uno snellimento delle procedure amministrative. Sostiene Draghi: "Negli ultimi 20 anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi e tasse alte". Vero, ma di è chi la colpa se gli imprenditori hanno investito solo per comprimere i salari e non per innovare e se l'evasione fiscale è imperante, salvo che per l'Irpef che dipendenti e pensionati pagano fino all'ultimo euro? Draghi poi trova qualche parola anche per criticare la miriade di grandi opere. E' un liberale illuminato, ma la verità è che la crisi dei padroni a pagarla saranno solo gli incolpevoli.
Silvio Berlusconi non è un altro Mussolini, «ma è un pericolo per l'Italia e un maligno esempio». Lo scrive il Financial Times, uno dei giornali europei più autorevoli, commentando la condizione della politica italiana. Senza timori, senza favori, come recita la massima etica di Ft.
Nei paesi dove l'opinione pubblica è un soggetto forte della dialettica politica, con stampa e televisione che agiscono in un mercato delle idee e delle proprietà, è tornato in prima pagina il caso italiano. Ad allarmare gli osservatori stranieri è un capo del governo che scambia il consenso con il potere di annullare ogni forma di critica. Il rifiuto del presidente del consiglio di rispondere alle domande sul caso Noemi, i suoi tentativi di delegittimare le opposizioni, le demagogiche invenzioni sulla riduzione del numero di parlamentari, gli attacchi forsennati alla magistratura, l'operare sul piano mediatico attraverso «lo svuotamento di un serio contenuto politico dei media, rimpiazzandolo con l'intrattenimento» (Ft), sono le ragioni del severo giudizio internazionale, che accomuna ormai tutte le principali testate del mondo, e che si estende all'inadeguatezza delle forze di opposizione.
Una sinistra maldestra che oscilla sull'altalena del segretario Pd, prima convinto che tra moglie e marito è meglio non interferire, ieri salito sulle barricate, a chiedere agli italiani «se farebbero educare i figli da quest'uomo». Suscitando la replica sdegnata dei figli di Berlusconi, comparsi nei tg della sera per esaltare l'esempio paterno. Quella di Franceschini è una domanda secondaria: la questione è da tempo uscita dal recinto dorato di Arcore. Dovrebbe essere chiaro, come nell'Italia della doppia morale non accade, che l'allarmato sguardo europeo si concentra sull'atteggiamento del premier nella vicenda della ragazza napoletana. Sminuirlo, relegarlo al buco della serratura, negarne il connotato politico è convinzione di molte voci della sinistra, che reagiscono o infastidite dal dover impegnare una campagna elettorale su binari frivoli, o addirittura restando silenti e latitanti. Sopraffatte, ci dicono alcune dirigenti del Pd, dal peso schiacciante di un ribaltamento culturale e simbolico. Ben presente alle gerarchie cattoliche che, invece, presidiano la trincea dell'etica ricordando «il guasto culturale se la bellezza diventa elemento decisivo».
Al ministro Bondi, che davanti alle telecamere, rivolgendosi al segretario Pd e al direttore di Repubblica, gridava rosso in viso «vi dovete vergognare», oggi fanno eco il ministro Maroni («alle domande su Noemi si risponde mandandoli a quel paese») e il capo delle feluche, Frattini, che definisce la stampa estera «cattiva e disonesta». Senza nulla togliere al resto del ciarpame politico italiano, Bondi, Maroni e Frattini ne scalano la vetta.
Quel che l'altra sera Marco Pannella, nell'infuocata puntata di Ballarò, definiva il bisogno di Berlusconi di andare oltre perché «il vincere che non gli basta più» è una buona diagnosi del momento politico attuale. Con altre parole, lo aveva già spiegato Veronica Lario («mio marito non sta bene»), riferendosi sia ai comportamenti del drago a cui le vergini si immolano volentieri, sia ai modi di selezionare la classe dirigente attraverso i book fotografici. Se vincere non basta, bisogna armare il consenso elettorale: con il lodo Alfano, con i media piegati all'oleografia del capo attraverso le nomine Rai, con la violenta reazione contro la stampa, con il celodurismo presidenziale, ministeriale e popolare a sorreggere e alimentare il penoso mito senile del leader.
È duplice, oltre che devastante, l'assalto che la democrazia italiana deve respingere in questa precoce estate. A quello premeditato da due anni dal golpismo referendario che il 21 giugno vuole celebrare il suo trionfo, si è aggiunto l'attacco micidiale che Berlusconi ha scatenato in questi giorni per spostare l'attenzione del pubblico dall'affaire Noemi e dalla condanna di Mills a un tema a lui favorevole. Quello che, appagando un vizio congenito del reazionarismo italiota, l'antiparlamentarismo, gli offriva l'ulteriore vantaggio di corrispondere alla sua viscerale insofferenza per la democrazia rappresentativa, l'unica, peraltro, che ci è rimasta.
Le due offensive si congiungono. Berlusconi - lo ha dimostrato cento volte - non tollera limiti giuridici, istituzionali, politici, sociali, morali al potere di cui dispone e a quello che vuole acquisire. Odia più di ogni altra cosa al mondo Montesquieu. Non ammette che si freni il suo potere e la sua pretesa a espanderlo. Il freno, a suo parere, va imposto a chi dovesse giudicarlo, a chi osasse criticarlo, a chi, per remota ipotesi, potesse, sfiduciarlo. A tre istituzioni, dunque, alla Magistratura, al Parlamento, agli apparati che formano l'opinione pubblica.
Se per influire, anzi per determinare quel che pensa il pubblico può bastare, per ora, il sistema delle emittenti di sua proprietà, del controllo assoluto di almeno altre due emittenti del servizio pubblico, delle testate proprie e di famiglia e della influenza su moltissime altre, se alla Magistratura si può provvedere rovesciando il significato della norma costituzionale in modo che possa essere la polizia giudiziaria, quindi il governo, a disporre del pubblico ministero, l'occasione del referendum elettorale, si offre magnificamente a ridimensionare in via definitiva il Parlamento, rendendolo organo servente del governo, del suo capo, Berlusconi.
In che modo? La riduzione del numero dei parlamentari è un pretesto. Su tale riforma c'è consenso unanime. Basterebbero pochi mesi per approvare una delle proposte di legge già presentate. Ma Berlusconi mira ad altro, ad una spoliazione e a una appropriazione. Dopo aver ridotto con la legge elettorale vigente, il porcellum, i deputati e i senatori a figuranti, sottoposti, perché non eletti dal corpo elettorale, ma sostanzialmente nominati dai capi-partito, li vuole delegittimare con una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta appunto alla riduzione del numero dei membri delle due Camere. Scontata l'approvazione della riforma, il merito sarebbe però attribuito ai cittadini proponenti la proposta di riforma e soprattutto a chi li ha sollecitati, quindi a Berlusconi. Perché ha promosso la rivolta degli elettori contro i propri rappresentanti, li ha guidati, li ha portati alla vittoria, spezzando, una volta per tutte, il loro rapporto con l'istituzione nata e destinata a collegarli stabilmente allo stato apparato.
Di quante e quali altre rotture diverrebbe foriera questa procedura modificatrice della composizione del Parlamento? Il risultato sarebbe disastroso. Lo sarebbe per l'istituzione parlamentare, facendola apparire come incapace di riformare e di riformarsi, senza l'impulso di Silvio Berlusconi, che si ergerebbe a interprete e rappresentante autentico e unico di tutto il popolo.
Sarebbe disastroso soprattutto per la rappresentanza politica, l'istituto fondamentale della democrazia moderna, quindi per la democrazia stessa. Liquidata la rappresentanza parlamentare, comunque delegittimata come strumento di trasmissione e di accoglimento delle istanze sociali, chi mai potrà recepire queste istanze e soddisfarle?
Ce lo dice il referendum previsto per il prossimo 21 giugno. Il sì» ai due quesiti principali non lasciano dubbi: sarebbe affidato al governo, quindi al suo capo, il compito di soddisfare le domande sociali. Ma quale tipo di governo? Non è la rappresentanza della società, nella sua conformazione, nella sua complessità, con i suoi divari, le sue contraddizioni, le sue disuguaglianze che interessa i promotori. A essi interessa il potere da sostenere, da tutelare, da rafforzare, da garantire (a chi lo ha).
I quesiti sono chiari, non modificano la pessima legge elettorale che ha espropriato le elettrici e gli elettori del diritto di scegliere i propri rappresentanti, non eliminano il premio di maggioranza e non ne riducono l'entità. Anzi, aggravano la truffa di questo perverso marchingegno che trasforma una minoranza in maggioranza. Permettono che, anche una lista che ottenga il trenta per cento dei voti, o anche meno, purché uno solo in più di ciascuna delle altre, possa ottenere il 54 per cento dei seggi alla Camera dei deputati e analogo effetto al Senato.
Che significa? Significa che Berlusconi potrebbe ottenere la maggioranza alla Camera e al Senato, da solo. Senza condizionamenti. Senza remore, essendo a capo di un partito organizzato e retto secondo un modello ancora più assolutistico delle stesse monarchie assolute. Si può immaginare con quale spirito, con quale sensibilità accoglierebbe le domande sociali. Il senso del referendum Berlusconi lo ha capito perfettamente. Ci punta e ha raddoppiato la posta. Mira a fare il pieno.
Possiamo impedirglielo e lo dobbiamo. Rifiutando di sottoscrivere la sua proposta di legge e, al referendum, astenendoci o ricusando la scheda.