Non è facile essere donne in questo tempo di stravolgimento dei valori e dei costumi, di smarrimento del senso comune. Non è facile trascendere ciò che ci sta intorno e ci offende: vicende di giovani donne che si lasciano abbagliare da vecchi e meno vecchi uomini potenti; che accettano di farsi rimpicciolire fingendosi "bimbe" di un "papi". Non c’è glamour in questa società dei diminutivi. Le ragazze che sono vel-ine, meteor-ine e ricevono farfall-ine e targarugh-ine: un linguaggio che le rimpicciolisce trasformando il serraglio in un parco ludico infantile. Nelle Lettere persiane di Montesquieu si trovano immagini rassomiglianti, rappresentazioni attualissime della vita servile di corte, più sordida perfino di quella dell’harem dove, se non altro, a fare da intermediari tra le donne e il sultano c’erano eunuchi. È questo l’esito delle fatiche che donne e uomini di più generazioni hanno sopportato per poter vivere come eguali nella vita pubblica e in quella privata?
Mary Wollstonecraft, la coraggiosa e giovane iniziatrice del femminismo moderno, aveva parole durissime contro una società che preparava le ragazze ad un futuro che era perfettamente funzionale alla società patriarcale: educate a essere cocotte appetibili mentre erano giovani per poi finire a procreare figli e servire mariti. Pensava, lei illuminista, che tutto cominciasse con l’educazione, che la ragione dell’assoggettamento delle donne fosse da cercare nell’ignoranza e nell’esclusione dalla vita della città. In una società dove tutto il vivere civile era strutturato e pensato come una succursale allargata della casa, quello che appariva agli occhi delle sue coetanee come un’occasione da sfruttare non era che una dorata prigione. Mary era durissima e severa con le donne del suo tempo perché remissive e docili; concentrate a sviluppare quelle competenze salottiere che potevano, questa la loro speranza, spianare la strada verso un buon matrimonio; per questo, si facevano complici del serraglio nel quale vivevano, «oggetto di attenzioni triviali da parte di uomini che considerano tali attenzioni un tributo virile da pagare al gentil sesso, quando in realtà essi lo insultano affermando la propria superiorità».
La bella Mary si rivoltò contro quel mondo goldoniano di serve furbette e padroni protervi e rivendicò l’inclusione delle donne nelle scuole e nella vita pubblica; donne protagoniste senza intermediari ma per loro capacità e con i loro sforzi, non attive da dietro le quinte. Il pubblico invece che l’esilio forzato nel privato; la sfera della politica per via di consenso aperto tra cittadini eguali invece che per via di intrigo di cortigiani; l’arma dei diritti invece e contro quella della forza: questa è stata dal Settecento la strada percorsa da chi ha difeso la dignità di uomini e donne; anche degli uomini, perché la condizione della donna è sicuramente lo specchio nella quale si riflette lo stato di tutta la società.
Da qui le donne sono partite nei decenni a noi più vicini per rivendicare un’altra fetta di diritto e di potere, quella che avrebbe dovuto sollevare finalmente il velo del privato per mostrare le nicchie di violenza e sopruso che ancora resistevano, non viste, non dette, non considerate: la violenza domestica in primo luogo, ma anche l’abitudine inveterata a leggere come naturalità ciò che invece era ed è sempre stato frutto di cultura e società, dominio e dipendenza. La stagione dei diritti ha rovesciato un modo di leggere i rapporti umani e tra i generi, nel privato e nel pubblico; ha svelato e decostruito l’interpretazione consolidata di ciò che è sociale e di ciò che è naturale, ridefinendo il genere e il ruolo dei e tra i sessi. Questa è stata la grande lezione delle battaglie per i diritti civili combattute dietro lo slogan "il privato è politico", "il privato è pubblico".
Decine di anni dopo quelle battaglie per i diritti, le società moderne, quella italiana in maniera abnorme, si trovano nella condizione paradossale di veder rovesciata quella logica, per cui tutto il pubblico è ora privato e il privato ha occupato il pubblico con le conseguenze aberranti per cui da un lato vi è una legge che mette la privacy sull’altare della religione secolare e dall’altro vi è una vita politica che è il palcoscenico sul quale si recita soltanto una parte, quella privata. E se questa parte si mescola (come può essere diversamente?) con questioni politiche o di Stato e i cittadini vogliono sapere e i giornali cercano di svelare, allora si evoca la sacralità della privacy, sulla quale si pretende di inchiodare l’informazione, facendola passare come un’intrusione invece che come un bene pubblico. Il paradosso è che chi per primo ha cancellato ogni distinzione tra pubblico e privato si fa ora rivendicatore di quella separazione. È evidente il giuoco delle parti che si cela dietro questa che è come la magia della stanza degli specchi: confondere tutti i piani per potere usare a piacere l’uno e l’altro a seconda dell’interesse. Allora, le ragioni di Stato sono l’arma per nascondere questioni che con lo Stato nulla hanno a che fare; e le ragioni del privato servono a nascondere ciò che è di interesse pubblico e di cui i cittadini hanno diritto di sapere.
In giuoco, è stata l’unanime e giusta diagnosi, c’è la legittimità e la credibilità delle nostre istituzioni, non solo di fronte a noi cittadini italiani, ma anche presso i paesi stranieri. L’Italia è una miniatura di se stessa, lo specchio di quel linguaggio di diminutivi che le giovani ragazze si lasciano appioppare con sorprendente indifferenza da profittatori di ogni età. La loro presenza sulla scena sociale è tutta privatissima, proprio come vogliono che sia da tempi immemorabili gli uomini "a mal più ch’a ben usi". Le donne sono sempre lo specchio della società, il segno più eloquente della condizione nella quale versa il loro paese: quando muoiono per le violenze perpetrate da un potere tirannico o quando viaggiano con voli prepagati per ritirare un cotillon a forma di farfalla. Nelle loro storie è riflessa la storia tragica o patetica delle loro case e delle loro città. E come nel caso delle donne vittima di violenza del tiranno, anche nell’altro è urgente che si levino voci di critica, di sconcerto, di denuncia; voci di donne. Questo silenzio ammorba l’aria.
Nell'icona un ritratto di Mary Wollstonecraft
Ci sono abitudini simili a bende sugli occhi, che impediscono di vedere. O simili a guinzagli, che accorciano il pensiero annodandolo al conformismo. Il nostro sguardo sull’Iran è prigioniero di queste bende e questi guinzagli, fin dai tempi dello Scià e poi anche dopo la rivoluzione di Khomeini. L’Iran lo identifichiamo ormai da trent’anni con il turbante, con il Corano, con la violenza in nome di Dio, con la religione che s’intreccia alla politica e l’inghiotte. Quando i suoi dirigenti si ergono contro il mondo esterno o contro il proprio popolo, subito tendiamo a scorgere la mano e la mente d’un clero retrogrado. Il suo establishment usiamo chiamarlo religioso, nell’élite sacerdotale ci ostiniamo a non vedere altro che integralismo.
È dagli Anni 50 che le amministrazioni americane sbagliano politica in Persia, suscitando sistematicamente le soluzioni peggiori e trascinando negli errori anche l’Europa. Tanto più urgente è congedarsi da bende e guinzagli, e cominciare a guardare quel che veramente sta succedendo in Iran.
Da quando si sono svolte le elezioni, il 12 giugno, sui tetti delle case si aggirano giovani assetati di libertà che gridano nella notte «Allah Akbar», Dio è grande, aggiungendo immediatamente dopo: «A morte il dittatore», proprio come nel 1979. Sono cittadini che di giorno hanno sfilato per strada contro i brogli elettorali: che hanno smesso la paura, e rischiano la vita parlando con frequenza di sacrificio di sé. Anche Mir Hossein Mousavi, il loro leader, annuncia che resisterà «fino al martirio».
A Qom, che è una delle città sacre dell’Islam sciita - di qui partì la rivoluzione khomeinista - vive una classe sacerdotale che nella stragrande maggioranza avversa il presidente. Non più di tre, quattro ayatollah lo sostengono, anche se i loro uomini occupano i principali centri di potere (Pasdaran, servizi, giustizia). I massimi teologi del Seminario di Qom hanno scritto una lettera aperta, dopo il voto, in cui dichiarano i risultati «nulli e non avvenuti». Viene da Qom ed è figlio di un ayatollah il presidente del Parlamento Larjiani, ostile a Ahmadinejad. Si è rinchiuso a Qom il numero due dello Stato, l’ayatollah Rafsanjani, per verificare se sia possibile mettere in piedi una maggioranza di religiosi, nel Consiglio degli esperti che presiede, capace di destabilizzare e forse spodestare la Guida suprema, l’ayatollah Khamenei che ancora difende la legittimità di Ahmadinejad. Il Consiglio degli esperti nomina la Guida suprema a vita, ma può destituirla se essa non mostra saggezza. Sembra che Rafsanjani abbia già convinto 40 capi religiosi, sugli 86 che compongono il Consiglio. Nella città religiosa di Mashhad, molti sacerdoti musulmani hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime. Non trascurabile è infine il simbolo della resistenza: verde è il colore dell’Islam. Questo significa che non siamo di fronte a una sollevazione contro lo Stato religioso. Per il momento, siamo di fronte a un’insurrezione fatta in nome dell’Islam contro un gruppo dirigente considerato blasfemo e nemico del clero.
Ahmadinejad ha questo vizio blasfemo, agli occhi della maggioranza dei sacerdoti tradizionali e di grandissima parte della popolazione. In lui non si percepisce un leader integralista, ma un dittatore che ha motivazioni tutt’altro che religiose. Il suo potere è innanzitutto militare, e nel frattempo è anche divenuto economico. Le sue parole d’ordine sono improntate a un nazionalismo radicale, estraneo alla spiritualità. Il corrispondente della Frankfurter Allgemeine, Rainer Hermann, è un fine conoscitore del paese e parla di «svolta pakistana»: sotto la presidenza Ahmadinejad, negli ultimi quattro anni, avrebbe preso il potere un’élite che nella sostanza è laica, e che usa la religione non solo per abbattere ogni forma di democrazia ma per distruggere il clero tradizionale.
L’uso della religione è sin da principio politico, in Ahmadinejad.
Fedele alle dottrine apocalittiche dell’ayatollah Mesbah Yazdi, il presidente si dice convinto che l’era dell’ultimo Imam - il dodicesimo Imam messianico, il Mahdi occultato da Dio per oltre 1100 anni - stia per riaprirsi, con il ritorno del Mahdi. Tutte le apocalissi, anche quelle ebraiche e cristiane, sono rivelazioni che presuppongono tempi torbidi, in cui il male s’intensifica. Anche per la scuola Hakkani, che Yazdi dirige e cui appartengono gli Hezbollah iraniani, il male va massimizzato per produrre il Bene finale. L’ayatollah ha insegnato a Ahmadinejad l’uso del messianesimo a fini politici, non teologici. I politici messianici in genere parlano di Apocalisse non perché credono nella Rivelazione, ma perché nell’Apocalisse il dialogo con Dio è diretto (nell’Apocalisse di Giovanni scompaiono i templi) e il capopopolo non ha più bisogno del clero come intermediario. L’apocalisse serve a escludere il clero dalla politica e forse anche la religione.
Il segno più evidente della svolta laico-pakistana di Ahmadinejad è la militarizzazione del regime. I guardiani della rivoluzione, i Pasdaran, dipendono da lui oltre che da Khamenei. E i picchiatori delle milizie Basiji non sono nati nel fervore religioso ma nel fervore della guerra di otto anni tra Iran e Iraq. I Basiji erano i bambini o i giovanissimi che in quella terribile guerra, tra il 1980 e il 1988, venivano gettati, inermi, nei campi minati dal nemico: perirono in migliaia. Secondo alcuni storici (tra cui lo specialista Hussein Hassan) Ahmadinejad fu il giovane istruttore di quei martiri forzati. Il suo disegno: rompere il singolare equilibrio di poteri tra sovranità popolare-democratica, sovranità religiosa e sovranità militarizzata che caratterizza l’Iran. Un equilibrio ripetutamente violato ma che rispecchia la storia del paese, sempre oscillante fra il costituzionalismo democratico affermatosi nel 1906 e la brama mai spenta di Stato assoluto. Il potere di Ahmadinejad e dei Guardiani è ormai più forte anche presso i più poveri del paese di quello dei Mullah, i sacerdoti che fecero la rivoluzione.
Quel che è avvenuto sotto Ahmadinejad è una sorta di colpo di Stato modernista, che ha intronizzato l’élite formatasi nella guerra contro l’Iraq. È il potere di quest’élite che Ahmadinejad protegge, e esso non coincide con il potere religioso. Tra molti esempi si può citare la decisione di togliere al clero la gestione dei pellegrinaggi e di affidarla al ministero del Turismo: una misura che ha profondamente umiliato i religiosi. L’apocalisse è strumento di lotta molto terreno: nella conferenza stampa dopo le elezioni, Ahmadinejad ha ripetuto la formula d’obbligo che impone di parlare «in nome di Allah il Misericordioso», ma subito dopo ha rotto la tradizione invocando il dodicesimo Imam. Le milizie Basiji da qualche tempo si son tagliate la barba: è un altro segno di ribellione ai Mullah. Nella campagna elettorale, Mousavi si è presentato con il verde dell’Islam e del movimento riformatore. Ahmadinejad con la bandiera nazionale.
È dunque il nazionalismo militarizzato, il regime che oggi vacilla e sta riducendo al silenzio i riformatori. È il nazionalismo che si è abbarbicato all’atomica, e fatica a negoziare su di essa. Ma l’atomica è al tempo stesso la risposta dell’Iran intero ai tanti errori di valutazione dell’Occidente e alla cecità delle amministrazioni Usa, che mai hanno capito le riforme di cui questo paese aveva bisogno (non lo capirono con il Premier Mossadeq, che spodestarono nel 1953 per tutelare lo Scià e le vie del petrolio; non lo capirono quando minacciarono Teheran nonostante al governo ci fossero riformatori come Rafsanjani o Khatami). La sfida atomica iraniana non verrà meno, il giorno in cui vincessero i riformatori. Ma almeno non sarà al servizio del più tremendo dei nazionalismi: quello che sceglie comemaschera l’Apocalisse.
Concluso il turno elettorale di giugno, il Pd si è tuffato in una nuova sfida. Questa volta interna. Il congresso d’autunno per eleggere il segretario. Per mettere fine alla "supplenza" di Franceschini (non necessariamente alla sua carriera di leader). Nulla da eccepire sulle scelte autonome del principale partito di opposizione. Salvo che questo sarebbe, anzitutto, il momento di fare, appunto, l’opposizione. Non solo all’interno, come avviene da anni, segnati da conflitti e agguati (fatto un segretario, altri leader appaiono pronti a rimpiazzarlo). Dovrebbe invece fare opposizione al governo, ma soprattutto al premier e al suo partito. Che per la prima volta, dopo il voto del 2008, appaiono in difficoltà.
A modo suo, lo ha ammesso anche Silvio Berlusconi, quando, accennando alle vicende che gli stanno creando disagio, ha concluso: «Agli italiani piaccio così». Aggiungendo: «Il 61% degli italiani ha fiducia in me». Senza ulteriori chiarimenti circa la titolarità e la responsabilità dei sondaggi, il campione, il quesito impiegato, ecc…. Il premier, d’altronde, non si è mai preoccupato delle regole e dei vincoli circa l’uso e le fonti dei dati che distribuisce con tanta generosità. Nessun garante e nessuna authority, d’altronde, gliene hai mai chiesto conto, a quanto ci risulta. Tuttavia, il 61% significa, comunque, 15 punti in meno del grado di fiducia che Berlusconi si attribuiva un paio di mesi fa. Quando, peraltro, affermava che il Pdl avrebbe sfondato il muro del 40% dei voti. Anzi: si sarebbe avvicinato al 45%. Anche in questo caso: 10 punti più di quelli effettivamente ottenuti alle elezioni europee. D’altra parte, al di là della misura effettiva (al Cavaliere piace molto apparire più alto di quel che è), dalla fine di aprile gli indici di fiducia nei suoi riguardi hanno cominciato effettivamente a scendere. Molto più di quelli nei confronti del governo. Al tempo stesso, hanno iniziato a flettere, nei sondaggi, anche le intenzioni di voto per il Pdl. Senza che, peraltro, ne beneficiasse l’opposizione. Salvo l’Idv di Antonio Di Pietro. Insieme alla Lega: opposizione "nella" maggioranza. Principale dato effettivamente in aumento: l’incertezza.
Come abbiamo rilevato in diverse occasioni, la quota di elettori indecisi (cfr. fra gli altri, i sondaggi di Ipsos) in poche settimane si è allargata: dal 20% a un terzo degli elettori. Spinta, soprattutto, da coloro che nel 2008 avevano votato per il Pdl. Senza che, nel frattempo, nulla fosse cambiato sostanzialmente: nell’economia, nei consumi, nella sicurezza. D’altronde, un solo argomento, da due mesi, occupa le prime pagine dei giornali (ma non dei telegiornali): Berlusconi e le donne (per dirla in modo generico e allusivo). Non si è parlato d’altro in campagna elettorale. E ciò ha indebolito non tanto l’immagine del governo, ma direttamente quella del premier. Tuttavia, l’immagine personale del premier, assai più di quella del governo, coincide con l’identità della maggioranza. O meglio: del partito di maggioranza. Da ciò il fastidio e il disamore di molti elettori del Pdl che si è tradotto nel voto e, in particolare, nel non-voto. Incoraggiati - o scoraggiati - dallo specifico tipo di competizione, le europee. Usate, spesso, per lanciare messaggi ai partiti e soprattutto al governo. In questo caso: al premier. Da ciò l’astensione, che è cresciuta pesantemente rispetto all’anno scorso, ma anche rispetto alle precedenti europee del 2004. Ai danni soprattutto del Pdl. Come conferma l’analisi statistica dei flussi elettorali condotta dall’Istituto Cattaneo di Bologna (con il modello di Goodman) partendo dai risultati delle sezioni elettorali nelle principali città.
Tra coloro che avevano votato per il Pdl alle politiche del 2008, alle recenti europee si è astenuto: l’8,4% (sul totale degli elettori) a Torino, il 9% a Milano, circa il 7% a Brescia e a Verona. E ancora: intorno al 5-6% a Padova, Reggio Emilia e Firenze; ma l’11% a Napoli, il 14% a Roma e addirittura il 18% a Reggio Calabria e il 22% a Catania. L’astensione ha colpito di nuovo e in modo pesante il centrodestra anche ai ballottaggi delle amministrative. Soprattutto i candidati del Pdl: a Milano, Torino, Firenze, Bari, Padova. Il profilo di coloro che hanno abbandonato il Pdl in questa occasione (sondaggio LaPolis, Università di Urbino, 15-20 giugno, campione nazionale, 1400 casi) segnala che si tratta dell’elettorato "moderato", che nello spazio politico si posiziona intorno al "centro". Dal punto di vista sociale, la figura "tipica" dell’astensionismo nel Pdl è costituita dalla casalinga che risiede nel Sud. L’astensione massiccia che ha investito il Pdl, tuttavia, non segnala solo il disagio della base elettorale di centrodestra verso il partito di riferimento e il suo leader. Sottolinea, al tempo stesso, la debolezza del principale partito di opposizione.
Il Pd, infatti, si dimostra incapace di sfruttare il disagio degli elettori moderati di centrodestra. Non solo, ma, a sua volta, ha perso voti un po’ in tutte le direzioni. Dovunque. A Nord, nel Centro e nel Mezzogiorno. Verso l’astensione (anche se in misura molto più ridotta del Pdl). Ma soprattutto: verso l’Idv e l’Udc. Poi: verso i partiti di sinistra. E ancora, nelle città "rosse": verso la Lega. In alcuni casi, per quanto in misura ridotta: anche verso il Pdl. Il Partito democratico non riesce ad attrarre a sé una parte almeno degli elettori delusi ed elusi dal Pdl perché è afasico, abulico e un poco anonimo. Gli mancano un volto e le parole. In tema di sicurezza, immigrazione, ma perfino sui costi della politica e sull’economia: gli elettori ritengono il centrodestra più credibile e attrezzato del centrosinistra (sondaggio LaPolis Università di Urbino, 15-20 giugno 2009). Il Pd: fatica a tenere i piedi per terra. A tenere rapporti solidi con il territorio e con la società. Per cui non riesce a incalzare Berlusconi. A "sfruttarne" il disagio e gli imbarazzi. Come ai tempi della campagna elettorale del 2008. Quando Berlusconi era l’Innominato. Mai nominato per timore di fare antiberlusconismo. Con grande beneficio per l’Innominato.
In effetti, da allora il filo dell’opposizione è stato afferrato dall’Idv e perfino dalla Lega, alleata inquieta ma fedele di Berlusconi. Il problema del Pd, prima e oltre il congresso, è di "fare" opposizione. Non al proprio interno, riaprendo personalismi vecchi (magari in nome del "nuovo"). Ma a Berlusconi e al centrodestra. Dicendo tre-quattro parole chiare e condivise su altrettante questioni: lavoro, sicurezza, economia, Welfare. (Al momento non ne viene in mente nessuna). Senza inseguire la Lega e la Destra sul loro terreno (non c’è partita). E scegliendo un leader capace di sfidare e contrastare apertamente Berlusconi. Senza timore di fare dell’antiberlusconismo. Un modello di valori pubblici e privati e, al tempo stesso, uno stile di vita. A cui Berlusconi dà volto, voce e biografia. Occorre qualcuno in grado di fare altrettanto. In modo evidentemente - ed efficacemente - alternativo. Perché il paese, questo paese, è politicamente contendibile. Lo si è visto in questo turno elettorale. Ma ci vuole qualcuno che lo contenda veramente. Un contendente. Noi soffriamo da sempre di miopia (politica e non solo), ma per ora non ne vediamo.
Il ministro Tremonti, cui ieri si è aggiunto anche il presidente Berlusconi con un attacco durissimo, sembra deciso a delegittimare sistematicamente agli occhi degli italiani chiunque fornisca dati sulla economia che non corrispondono alla sua lettura della realtà, o meglio a quella che desidera comunicare ai cittadini. Ocse, Banca d´Italia, ora anche l´Istat vengono continuamente da lui smentiti come fornitori di dati sbagliati se non fantasiosi. Il dato che non piace viene negato non sulla base di fonti più attendibili, ma delegittimando puramente e semplicemente la fonte, l´istituzione che produce i dati scomodi. Anche (verrebbe da dire soprattutto) se è una fonte ufficiale, tenuta a protocolli di raccolta e produzione dei dati verificabili e certificati, anche a livello internazionale. Così la stima di Draghi di una caduta del 5% del Pil viene accantonata come non credibile solo perché "qualche mese fa", ovvero all´inizio della crisi e quando questa non si era dispiegata in tutte le sue conseguenze, soprattutto sul piano occupazionale, il governatore aveva fatto una stima meno pessimistica. Non conta che, appunto, contrariamente alle rassicurazioni dello stesso Tremonti, le cose siano andate di male in peggio, che l´occupazione sia crollata e così i consumi delle famiglie, e che molti di coloro che hanno perso il lavoro non abbiano nessun tipo di protezione (fatto accertato e accertabile ampiamente, nonostante le smentite di Berlusconi).
Ma la bordata più grossa Tremonti l´ha riservata all´Istat, e proprio sui dati sull´occupazione. Evidentemente gli sono piaciuti così poco, perché sono così in controtendenza con le sue rassicurazioni, che per toglierli dalla attenzione si è spinto a raccontare ad una platea della Confcommercio che le stime dell´Istat sono basate su interviste telefoniche fatte ad un campione di mille persone e con un´unica domanda ("Lei è disoccupato?"). Sembrava lo sketch di un comico. Peccato che un ministro della Repubblica, tanto più se ministro del Tesoro, dovrebbe pensarci due volte non solo a delegittimare le istituzioni che forniscono i dati ufficiali, ma a diffondere informazioni del tutto false. Come è ampiamente spiegato sul sito dell´Istat ed è stato ribadito in una nota dell´Istituto in risposta alla battuta di Tremonti, l´indagine sulle Forze di Lavoro effettuata dall´Istat è basata su un campione di 680.000 individui (140.000 circa ogni trimestre), con un complesso questionario concordato a livello dell´Unione Europea e con l´Ufficio internazionale del lavoro (Ilo), con interviste sia faccia a faccia che telefoniche. Se c´è un problema nelle definizioni di occupato e disoccupato utilizzate, è che la prima è troppo larga: basta aver svolto almeno un´ora di lavoro in una attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura. La seconda è invece troppo stretta. E´ definito disoccupato chi è senza lavoro, lo sta cercando attivamente ed è disponibile a iniziare a lavorare entro due settimane. Ciò esclude una larga fetta di persone che cercano sì un lavoro, ma, ad esempio, non potrebbero iniziare entro due settimane perché prima devono organizzare la cura dei figli.
Viene il sospetto che Tremonti, come il suo presidente del Consiglio, voglia presentarsi ai cittadini italiani come l´unica fonte attendibile, l´unico che può dirci dove stiamo andando e come stiamo. Per questo ha anche chiesto una moratoria, una sorta di silenzio stampa. Le sue uscite pongono anche un´ombra pesante sui criteri con cui sarà scelto il prossimo presidente dell´Istat.
Per Luigi Pintor le vere emergenze morali e economiche dell'Italia erano l'evasione fiscale e i morti sul lavoro. Nel 2008 le morti («grazie» alla crisi) sono diminuite, ma l'evasione imperversa. Lo slogan «pagare meno, pagare tutti» è rimasto scritto sulla sabbia. L'Italia dei poveri assume contorni precisi: non quella dei veri poveri, ma quella dei «ricchi-poveri» che si mischiano nella folla degli 11 milioni di contribuenti che denunciano al fisco meno di 6 mila euro l'anno, che usufruiscono di alloggi in case popolari (sottratte ai veri poveri) e al tempo stesso hanno livelli di vita, e patrimonio elevatissimi. L'ultima scoperta della Guardia di finanza a Padova e dintorni è esemplare: nei parcheggi delle case c'era un autosalone di extra-lusso: Porche, Jaguar, Bmw. C'è chi possedeva barche a vela o ville di ingente valore. Ma uno di loro, negli ultimi 4 anni, aveva denunciato un reddito medio di 2.500 euro. Le Fiamme gialle lo hanno moltiplicato per cento.
Ieri la Corte dei conti ha lanciato un nuovo allarme: ha stimato che il recupero dell'evasione fiscale porterebbe nelle casse dello stato almeno 100 miliardi di euro l'anno. Ma ha aggiunto «è un recupero arduo». Perché? Chi evade ha spesso la certezza dell'impunità e l'ammirazione sociale perché gli evasori vengono giudicati dei furbi da imitare. Infine, la reiterazione dei condoni: Tremonti ne ha fatti a valanga e si appresta a farne altri. E' in arrivo quello sui capitali detenuti clandestinamente all'estero, ma anche quello tributario per gli ultimi tre anni, tanto che i commercialisti invitano i clienti a non pagare le tasse del 2008. Tremonti si vanta di «non mettere le mani nelle tasche degli italiani», ma da sempre allunga una mano per elemosinare quel che gli evasori ritengono di versare per mettersi in regola con la giustizia fiscale e quella penale.
Il governatore di Bankitalia ieri ha sostenuto che per favorire la ripresa, oltre a realizzare riforme, occorre rilanciare i consumi e sostenere l'occupazione. Le risorse non mancherebbero: se emergesse un po' di evasione fiscale sarebbe possibile aumentare le pensioni dei veri poveri e tagliare le tasse dei lavoratori. Ma questo governo non lo farà. Nei documenti pubblici è evidenziato: cifre ridicole come ricavato della lotta all'evasione. Che ha ripreso alla grande (soprattutto per l'Iva) come scrive oggi su il manifesto Alessandro Santoro, uno dei massimi esperti fiscali italiani. E come testimonia una indagine svolta dall'Associazione dei contribuenti italiani (crescita del 9,7% dell'evasione nei primi 5 mesi). Da ultimo, il «Rapporto» pubblicato ieri dal Centro studi Nens che fa le pulci ai conti pubblici italiani.
La Corte dei conti, non bastasse, ha denunciato una nuova emergenza: «una vera e propria tassa immorale» di 50/60 miliardi l'anno, derivante dalla corruzione nelle pubbliche amministrazioni. Chi paga questa tassa? Ovviamente quelli che già versano al fisco fino all'ultima lira. A beneficarne sono i soliti noti che non hanno problemi a pagare profumatamente quelle che la stampa «per bene» definisce «escort»: ogni mezzo è utile per non interrompere la catena della corruzione.
Sesta lettera rutula allo «Stylus». Nel gossip locale tengono banco le feste in casa B., alias Leviathan, svelate da alcune ospiti. I lettori sanno quanto somigli al tiranno che fra´ Girolamo Savonarola descriveva cinque secoli fa, e stavolta l´iroso domenicano era davvero profeta: «vale più un minimo suo polizzino» o la parola d´uno staffiere «che ogni iustizia»; usa «ruffiani e ruffiane»; non esiste «cosa stabile», pendono tutte dalla sua volontà. Ne riparlano i conversanti della quinta lettera. Dove la politica sia cosa seria, svaghi notturni nel gusto del gangster in ghette, padrone d´un night club (quest´ultima immagine viene da «Times»), e conseguenti guaiate menzogne screditano lo statista. In Rutulia sono roba futile. L´assurdo è che sia lì, talmente padrone da riscrivere i codici pro domo sua, fino a proclamarsi immune dalla giustizia penale. Scendeva in campo per difendere un colossale patrimonio accumulato mediante frode, plagio, corruzione: da allora l´ha moltiplicato; tiene i piedi nel piatto pubblico arricchendosi ancora, mentre i sudditi vanno in bolletta. Male che vada, pesca un elettore su due: se li era allevati con trent´anni d´ipnosi televisiva, formidabile inquinatore d´anime; il capolavoro sta nell´avere disinnescato i meccanismi del pensiero; in mano sua il bianco diventa nero.
L´équipe stregonesca stabilisce cosa vada detto, e dei figuranti salmodiano giaculatorie o invettive. È anche vendicativo, perciò l´inviato da «Stylus» indica i quattro interlocutori con aggettivi ordinali. Primus, Secundus, Tertius ritengono ormai assorbito l´affare. Tutto sommato, gli giova: la platea lo vede tombeur de femmes come Maupassant, sotto maschera faceta. Quartus, bibliofilo, aveva letto il ritratto del tiranno da un raro incunabolo. Stavolta porta degl´infolio in pergamena, due tomi: Liber notarum; lo strasburghese Iohannes Burckardus è cerimoniere alla corte papale dal 26 gennaio 1484. Sentiamo cosa racconta sub 31 ottobre 1501, domenica, vigilia d´Ognissanti. Sua Santità Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, non viene al vespro: i cardinali l´aspettavano nella camera del pappagallo; vadano, comunica l´Eminentissimo Ludovico Podocataro. Sta poco bene: il nome clinico del disturbo è "catarro", ma l´aspetta una lunga veglia con «balli et riso»; l´ha combinata suo figlio, duca Valentino, ex cardinale, invitando delle «cantoniere. Burcardo, occhio e udito impassibili, annota i particolari da fonte sicura: le ospiti sono cinquanta prostitute «honestae», ossia munite della patente; dopo il convito ballano «cum servitoribus et aliis», vestite, indi nude; strisciando carponi sul pavimento tra i doppieri, raccolgono le castagne che buttano i commensali (tra cui Lucrezia). Segue una gara orgiastica: sono in palio mantelli fini, calzature, berretti «et alia»; i maschi concorrenti le «[tractant] publice carnaliter», più volte, «arbitrio praesentium»; chiude i giochi la consegna dei premi.
Primus rileva le differenze tra Alessandro VI e Leviathan. Quel papa possiede cospicue doti intellettuali, oltre all´abilità nel condurre l´affare ecclesiastico. È anche good natured: ha dei sentimenti; «Iulia ingrata et perfida», esclama nell´incipit d´una lettera all´amante en titre Giulia Farnese, il cui fratello Alessandro ha nominato cardinale; ama troppo la famiglia; un vorace parentado catalano invade l´Urbe; e incombe la fosca figura del duca Valentino. Leviathan ha poco d´umano: Tertius lo definisce «crocodilus ridens»; sorriso, barzellette, istrionismi d´avanspettacolo mettono freddo nelle midolla; in tanti anni non impara niente; ripete i gesti, animalescamente perfetti, con cui ha imbrogliato mezzo mondo, raccogliendo tanti soldi da scoppiare; nella soperchieria fraudolenta è atout determinante non avere vita morale. Gliene manca l´organo, idem in estetica e logica. Alessandro VI (interloquisce Secundus) riceve delle «cantoniere» ma non le nomina badesse.
Quartus riapre l´infolio. È lunedì 1 novembre 1501, festa «omnium sanctorum»: i cardinali aspettavano nella camera del pappagallo; Nostro Signore manda a dire che scendano nella Basilica, dove Santa Prassede (Antoniotto Pallavicini) canta messa solenne. Burcardo sta sulla graticola: l´occasione richiede un´indulgenza ma «non potui habere accessum ad papam»; come provvedere? Se ne occupa l´Eminentissimo Giovanni Antonio San Giorgio: compili la solita cedola; lui gliela firma. Il motu proprio «in praesentia papae», clausola falsa, concede sette anni e altrettante quaresime. Il predicatore li bandisce dal pulpito. L´affare è allettante: nell´ora o due d´una messa in San Pietro il fedele ne risparmia 68 mila e quaranta nel purgatorio, il cui fuoco non scherza; è lo stesso dell´inferno, avverte san Tommaso. Riappare un vecchio quesito, se tale lunga consuetudine abbia influito sul carattere rutulo. I conversanti formulano rilievi understated: lo stile ecclesiastico non affina lo spirito d´analisi, né sviluppa l´autonomia del giudizio; Mater Ecclesia perdona facilmente o chiude gli occhi lasciando correre; e l´ateo-bigotto Leviathan, allegro edonista, è la controparte ideale nei negoziati intesi al massimo profitto.
Per un soffio Maurizio Valenzi ha mancato l’appuntamento con il centesimo compleanno: sarebbe stato il 16 novembre se la sua tempra indomita avesse ancora retto. Chissà ora quanto Napoli ricorderà e piangerà il suo primo sindaco comunista, quello con la coppola che sorrideva da un manifesto affisso nei primi anni Ottanta, lo stesso a cui molti, da opposte sponde politiche, tributarono il top della popolarità in anni durissimi per la città. Ma se rimpianto sarà, non potrà nascere da commozione convenzionale. Perché ricordare l’esistenza piena di Maurizio Valenzi - così ricca di passioni, avventure, incontri, scelte, amici, compagni, affetti - sarà un esercizio di stile offerto da una vita in cui la parola «politica» teneva unite tutte queste cose insieme. L’ultima lezione di una vita leonina, a fronte di tante esistenze contemporanee da conigli della politica. Maurizio Valenzi ha vissuto vicende difficili come l’arresto, la tortura con l’elettricità, la condanna all’ergastolo e ai lavori forzati da parte del regime fascista di Vichy, l’internamento per un anno a Lambése, Algeria.
È stato - esperienza non meno dura - sindaco di Napoli per otto anni di lacrime e sangue, dal 1975 al 1983 superando il dopo-colera e un sisma non solo tellurico. Ma tutto sempre con piglio deciso, e tenendo a dire che il suo era un bilancio più che attivo: tanto da apporre alla storia della propria vita, pubblicata da Pironti, il titolo Confesso che mi sono divertito, parafrasi dell’autobiografia dell’amico Neruda Confesso che ho vissuto. Soprattutto dopo la morte della moglie Litza, amava sfogliare con amici più giovani il libro di ricordi che si portava in mente, quando lo si andava a trovare nel mitico «palazzo con le colonne» spalancato sul mare in cima a via Manzoni. Ancora raccontava, diceva di sè, confrontava le sue esperienze con quelle in corso. Si allenava, esercitava la sua mente come per scaldarsi, come se fosse sempre sul punto di tornare in campo. Tutto sembrava riguardarlo, per ogni cosa aveva un’opinione, un punto di vista. Era l’inevitabile conseguenza di una vita vissuta sempre prendendo partito, esponendosi, non restando mai alla finestra. E forse in quest’impulso verso la realtà giocava un ruolo anche l’origine ebraica, mischiata con i primi trent’anni di vita vissuti ai margini della geopolitica mondiale, in una Tunisia che nei suoi ricordi era però una fucina di incontri ed esperienze formative.
Maurizio Valenzi era nato a Tunisi il 16 novembre 1909 da una famiglia del gruppo dei «grana», ebrei livornesi. Suo padre Amedeo Valensi faceva il rappresentante, e un errore di trascrizione burocratica ne avrebbe mutato il cognome in «Valenzi». A sentire Maurizio, l’amore per Napoli era un destino scritto nel libro bianco della sua esistenza ancor prima che cominciasse. Solo dopo dieci anni di matrimonio, dopo una terapia prescritta a Napoli da Antonio Cardarelli, Pia rimase incinta di Maurizio, venuto alla luce settimino e dunque già impaziente, con la vita che gli urgeva. Di lì a poco, da rue d’Alger, la famiglia si trasferì in rue de Naples: ancora il destino. Il ragazzo venne su in un ambiente lieto, stimolante, ricostruito di recente dalla figlia Lucia nel libro Italiani e antifascisti in Tunisia alla fine degli anni Trenta (Liguori), con amici di nome Cohen, Barresi Bensasson, e con Loris Gallico, con cui avrebbe poi redatto «L’italiano di Tunisi». Il padre Amedeo lo avrebbe volentieri coinvolto nel suo lavoro, lui invece volle andarsene a Roma, per seguire uno dei suoi grandi amori, la pittura, cui il soggiorno parigino del 1937 avrebbe dato nuova linfa.
Sedotto da Modigliani, Matisse e Picasso, sodale di Moses Levy, Carlo Levi, Mario Mafai, trasferì all’inchiostro di china, al pennello e all’acquerello la sua attitudine a scrutare la realtà. Fondendo politica e pittura nei tanti ritratti di amici come Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Mario Palermo, Renato Caccioppoli. E in verità ben prima, a Tunisi, c’era stata la scoperta dell’altro grande amore, la politica, che nel 1935 lo aveva portato a iscriversi al Partito Comunista Tunisino con un gruppo di amici. Due anni dopo ritroviamo Maurizio Valenzi a Parigi, con l’incarico di collegare il gruppo dei comunisti tunisini al centro estero del Pci, nella redazione de «La Voce degli italiani» diretta da Giuseppe Di Vittorio. Nel 1939 Valenzi è di nuovo a Tunisi, dove incontra Giorgio Amendola e Velio Spano, e alla fine dell’anno sposa Litza Cittanova, con cui condivide passioni di cuore e mente, l’amore per i due figli Marco e Lucia e alla fine anche il carcere, dove la stessa Litza viene reclusa dal luglio al novembre 1942.
Ma il primo incontro pieno e vero di Valenzi con Napoli avviene per decisione del Pci, che lo manda qui a preparare il ritorno di Togliatti dall’Urss. Pagine tra le più belle dei suoi ricordi, raccolti e splendidamente restituiti da Pietro Gargano in C’è Togliatti! (Sellerio). Valenzi vive da protagonista la «svolta di Salerno» e si radica a Napoli, disponibile negli anni a tutta la trafila destinatagli dal partito: è funzionario, consigliere provinciale, poi senatore e infine parlamentare europeo. «Io sono stato tra quelli chiamati a volte riformisti, a volte miglioristi», disse in un’intervista per i novantacinque anni. «E non a caso in un momento in cui eravamo lontani da quelli che siamo ora, io fui eletto sindaco di Napoli». Correva l’anno 1975, sembrò una buccia di banana graziosamente deposta ai piedi della sinistra a due anni dal colera, con la città ancora a pezzi. Anche perché l’elezione avvenne con una maggioranza relativa e le giunte Valenzi, susseguitesi per otto anni, dovettero far conto sull’appoggio esterno della Dc in occasione del voto per il bilancio.
Da qui l’unico vero rimpianto di Valenzi: «Non aver potuto governare la città con una maggioranza stabile». Fu forse il ricordo di quella disparità di condizioni che, sulle prime, indusse Valenzi a guardare con qualche diffidenza all’esperienza di Bassolino all’inizio del primo mandato a sindaco. Allora il vecchio leone non mancò d’indirizzare i suoi strali al secondo sindaco di Napoli venuto dal comunismo: «Al posto suo non mi sarei scapicollato in ascensore con il cardinale per portare i fuori alla statua della Madonna sulla guglia di piazza del Gesù. E nei giorni del G7 non avrei fatto tante moine a Berlusconi», mi disse. Una delle ultime apparizioni in pubblico di Maurizio Valenzi è stata in occasione dei suoi 97 anni, quando a Santa Maria La Nova l’associazione intitolata a un altro sodale, Gaetano Macchiaroli, organizzò una mostra di suoi disegni e dipinti, corredata da un catalogo introdotto da Giorgio Napolitano. Allora lui si fermò a lungo a guardare un suo disegno datato 1979, con una didascalia scritta di suo pugno che diceva così: «Estate a Napoli. Una folla di giovani ascolta al maschio Angioino un concerto di Beethoven interpretato dall’orchestra del San Carlo. Forse vale più di un comizio riuscito».
Per i giudici del Lavoro di Catania Salvatore La Ferlita è un caso che fa scuola: da quattro anni entra ed esce dal Tribunale etneo collezionando sentenze di reintegro al posto di lavoro, ma ogni volta che ritorna in azienda viene licenziato. La sua colpa sta nell’essersi infortunato gravemente al braccio sinistro nel 2004, quando aveva 38 anni e lavorava alla Francesco Ferrara Accardi e Figli, impresa di bitumi e asfalto. Puliva le macchine utilizzate dai suoi colleghi quando un flacone di sostanze chimiche gli si è riversato sul braccio, che non era coperto integralmente dai guanti speciali che si usano per queste mansioni. Risultato: compromessi tendini e tessuti dell’avambraccio; la corsa in ospedale e i ripetuti interventi chirurgici gli costano due mesi in corsia e un danno permanente che gli toglie forza al braccio sinistro.
Il calvario Quanto vale questo infortunio lo stabilisce l’Inail, che valuta l’invalidità lavorativa dell’operaio al 10 per cento. Troppo poco per avere diritto ad un indennizzo, troppo per svolgere gli stessi compiti in azienda. La Ferlita fa ricorso e il giudice stabilisce che l’handicap è del 40 per cento: ha diritto a ricevere dei soldi. Trascorsi sette mesi dall’incidente, l’operaio torna al lavoro e viene accolto con una lettera di licenziamento. Per l’azienda non è idoneo a svolgere l’attività per la quale era stato assunto. Segue fulminea battaglia sindacale corredata dall’intervento della Prefettura e La Ferlita viene riassunto nel giro di una settimana. Stavolta dovrà occuparsi della pulizia dei nastri trasportatori. Incubo finito? Macché, due anni dopo si riparte dal via: l’azienda gli chiede di guidare un mezzo meccanico, ma viste le sue riconosciute difficoltà non può farlo: licenziato. Di nuovo proteste, Prefettura, Tribunale.
Il procedimento d’urgenza, richiesto perché l’operaio mantiene con un solo stipendio moglie e figlio, gli permette di tornare al lavoro dopo otto mesi. L’azienda fa ricorso e lui vince anche l’appello, viene reintegrato ma visto che la sentenza non è coercitiva, viene parcheggiato nella nullafacenza, anche se ha diritto allo stipendio. Diventa così operaio generico. Trascorsi otto mesi l’azienda lo licenzia di nuovo, perché non è adatto neanche a quel lavoro, stavolta a dirlo è anche il medico legale. E allora di nuovo: ricorso, appello e reintegro. Il quarto licenziamento arriva invece con “la soppressione del posto di lavoro”. A nulla sono servite le proteste dei suoi colleghi, due dei quali si sono pure incatenati, e l’appello al gesto di coscienza fatto dalla Prefettura ai datori di lavoro. Oggi le pratiche di Salvatore La Ferlita sono ancora in Tribunale, fanno coppia con i decreti ingiuntivi presentati per ottenere i soldi persi durante i periodi di inattività forzata.
Inail e paradossi Questo è uno dei tanti calvari che ogni anno i lavoratori infortunati affrontano per far valere i loro diritti, lesi dopo un incidente dai datori di lavoro o dalla burocrazia delle Istituzioni. Oggi l’Inail presenta i dati sugli infortuni in Italia, per i quali troppo spesso si perdono il posto o i diritti di riconoscimento e indennizzo dei danni subiti. Anni ad inseguire pratiche e visite mediche, che sovente si traducono in udienze davanti al giudice, con un danno economico anche per l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni. Chiamato, nel caso vinca il lavoratore, a pagare oltre alle indennità le spese legali. Fatto sta che nel 2007 un lavoratore su cinque ha dovuto aprire un contenzioso legale con l’ente per vedere riconosciuti i propri diritti. Lo dice la Cgil, mentre i dati del bilancio sociale dello stesso Inail dicono che nel 2006 su 500mila incidenti più di 100mila sono stati definiti e trattati oltre il termine previsto di trenta giorni. Tempi lunghi anche per le rendite ai superstiti, cioè gli assegni mensili (in attesa degli indennizzi) che spettano ai familiari dei lavoratori morti a seguito di un incidente. Nel 2006 il 29% dei casi (1.186)è stato trattato oltre i tempi previsti (nel 2005 era il 35%).
Ma i paradossi si spiegano meglio con i protagonisti che con i numeri. Prendete Leopoldo Buzzo, napoletano di 42 anni che lavorava all’Italcementi (oggi l’azienda fa parte di un’altra società). A più di dieci anni dall’incidente che lo costringe a fare le pulizie là dove prima era responsabile alle macchine, è in causa con l’Inail. Racconta che l’ultimo giorno disponibile prima di chiudere la sua pratica (cioè dieci anni dopo l’incidente) l’Istituto lo ha chiamato per una visita con la quale gli ha tolto 10 punti di invalidità. Retrocedendo dal 60 al 50% il suo handicap e tagliando da 1.200 euro a 700 il suo indennizzo mensile. Lui però ha le stesse difficoltà di sempre. Certo ha superato le difficoltà psicologiche ma per il resto è uguale. «Perché l’Inail deve risparmiare sulla mia pelle?», domanda.
Aurelio Ciaus, 52 anni romeno, nel 2002 stava lavorando al Mazda Palace (oggi Palasharp) a Milano. Un collega gli ha riversato per errore il materiale ferroso che trasportava col muletto. Gamba rotta e dito amputato, due mesi in ospedale e tre in una comunità. Lavoro perso e indennizzo, dice il lavoratore, “arrivato solo due anni dopo. Settemila euro”.
Mancanza di cultura Volendo fare il punto, Walter Schiavella - segretario degli Edili della Cgil (Fillea), categoria tra le più colpite dagli incidenti anche mortali - individua tre elementi a danno degli infortunati: «I tempi lunghi per gli indennizzi, il riconoscimento delle nuove tipologie di malattie professionali e l’onerosità delle azioni legali, alle quali sono chiamati i lavoratori che non vedono riconosciuti i propri diritti. Cioè quando al danno fisico si aggiunge spesso la beffa». Un problema culturale per il sindacalista, che punta il dito contro la direzione assunta dal governo nei confronti della sicurezza sul lavoro: «Vedi quello che stanno facendo al Testo Unico» e contro le aziende, che «in linea di principio sono d’accordo a rendere i luoghi di lavoro più sicuri, poi però le intenzioni non si traducono in fatti, accordi e misure reali».
Ad di là dei numeri che ci fornirà l’Inail, aggiunge il sindacalista, «è l’assenza di un approccio coerente che rende il fenomeno infortuni ancora più complesso. Penso alla scarsa attenzione che viene data a quegli aspetti che sembrano lontani dal problema, ma di cui in realtà fanno parte. Dall’organizzazione del ciclo produttivo e quindi del lavoro, alle gare d’appalto al massimo ribasso, giocate sui diritti dei lavoratori. Fino ai controlli. Perché è vero che smantellando il sistema di leggi sulla sicurezza smantelliamo diritti. Ma è altrettanto vero che la prevenzione, la formazione, la regolamentazione del mercato e il Testo Unico, sono nulli se non ci sono adeguati controlli ed equilibrate sanzioni”.
Sul tema oggi, contemporaneamente al Rapporto annuale dell’Inail sull’andamento infortunistico, la Fillea-Cgil insieme all’Ires, l’Istituto di ricerca di Corso d’Italia, presenta uno studio sul dopo infortunio. L’obiettivo «è analizzare le conseguenze pratiche e l’impatto psico-fisico sulla vita dei lavoratori infortunati e verificare quale sia il percorso che deve essere affrontato per affermare i diritti e perseguire un efficiente percorso di cura e reinserimento al lavoro».
Il referendum non è morto. Gustavo Zagrebelsky non aggiunge la sua voce al coro funebre che accompagna lo strumento di democrazia diretta. Piuttosto, per il giurista ex presidente della Corte costituzionale, sono gli orientamenti politici e le loro ambiguità a influire sul comportamento degli elettori. C’è stato, è vero, un uso strumentale dell’astensione per far fallire i referendum. Ma, in questo caso, se strumentalizzazioni ci sono state, i referendari hanno dato una mano.
Professore, gli elettori non sono andati a votare. La percentuale di voto alle 19 di ieri era intorno all’11 %.
«Non è certo un risultato che possa fare ben sperare i referendari».
Ed è un disastro per l’istituto del referendum.
«Nella campagna i referendari hanno sostenuto due tesi contraddittorie. Forse anche questo ha confuso i cittadini. Se non vanno a votare, forse si sono accorti dell’ambiguità che esiste nella posizione ch’essi hanno sostenuto».
Quale ambiguità?
«Hanno sostenuto due tesi contraddittorie. La loro prima tesi è che dalla eventuale vittoria dei “sì” ai referendum uscirebbe una legge molto migliore dell’attuale: una legge contro gli arbusti o i cespugli, che dir si voglia. Con l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista più forte, e non alla coalizione, ci avvieremmo al bipartitismo. In questo caso, dunque, secondo i promotori del referendum – sottolineo: secondo loro; idee diverse sono lecite - l’effetto prodotto sarebbe buono in sé, senza nessun bisogno di riforme elettorali future».
E la seconda tesi dei fautori del sì?
«È che il sistema elettorale attuale è pessimo, e che il sistema elettorale che ne deriverebbe sarebbe, se possibile, ancora peggiore. Quindi – questa la loro tesi – bisogna votare e votare sì per creare, attraverso una legge insostenibile, le condizioni che rendono necessaria una riforma legislativa. Il Parlamento, in altri termini, sarebbe a quel punto costretto a riprendere in mano la situazione, in vista di una nuova legge elettorale. È evidente la contraddizione. Non si può chiedere un voto dicendo contemporaneamente che esso determinerà una legge buona, che non avrebbe nessuna ragione per essere poi modificata, e, insieme, che determinerà una legge pessima, che dovrà poi essere cambiata».
Una legge del tutto diversa non si potrebbe fare, dovrebbe essere comunque nella direzione indicata dal voto referendario.
«Non si può ingannare l’elettore».
C’è stata anche convenienza politica a non fare campagna referendaria e questo ha prodotto scarsa informazione. Il risultato, però, è uno svuotamento del referendum.
«Secondo me, l’istituto referendario non è né riempito né svuotato. Sono sicuro che su questioni vitali e con alternative non ambigue gli elettori avrebbero buoni motivi per impegnarsi. Un problema che le ultime consultazioni referendarie hanno proposto è invece quello dell’astensionismo, in relazione al quorum di validità al 50%. Bisognerebbe trovare il modo di impedirne l’uso strumentale per far fallire i referendum».
In questo caso, le pare che ci sia stato questo uso strumentale?
«Se c’è stato, bisogna aggiungere che i referendari con la posizione ambigua che hanno sostenuto, l’hanno giustificato».
Che l’uomo politico non debba essere vizioso è stato a lungo affermato dalla tradizione, tanto da quella pagana quanto da quella cristiana, attraverso una ricca trattatistica.
Si imponeva al principe, proprio perché fosse un buon politico, l’esercizio delle più comuni forme di moralità: la rettitudine, l’onestà, la mansuetudine, la magnanimità. Virtù umana e virtù civile del principe non dovevano divergere: la loro sconnessione era indizio di decadenza pubblica, non solo di privata malvagità.
È in età moderna che si fa strada l’idea che i comportamenti privati dei politici possano essere irrilevanti politicamente, perché l’esistenza collettiva ha un’intrinseca e autonoma moralità, diversa da quella che riguarda i singoli individui. Così, nella tradizione aperta da Machiavelli e proseguita nella Ragion di Stato, i valori politici sono la sicurezza, la potenza e la gloria dello Stato; si tratta di fini e di ideali che consentono al governante, per realizzarli, comportamenti difformi dalla morale tradizionale; e poiché si chiede all’uomo politico solo il successo, con ogni mezzo, della sua azione politica, la sua vita privata non è più importante.
La distinzione fra morale e politica che così si istituisce è controversa, e viene a volte accettata e a volte respinta tanto dalle culture religiose quanto dal pensiero politico laico. La Chiesa cattolica ha di fatto concesso qualcosa alla distinzione, dato che - pur continuando ad affermare che la politica si fonda in ultima istanza sulla morale - ha rifiutato di far dipendere la legittimità di un uomo politico dalla moralità dei suoi comportamenti privati (fino a quando non fanno scandalo pubblico); mentre al contrario nel mondo protestante - meno nel luteranesimo e più nel calvinismo - si è lottato contro la corruzione e la peccaminosità dei principi, e si è preteso da loro, come da tutti i fedeli (ossia da tutti i cittadini), una linearità di comportamento morale che non distinguesse fra pubblico e privato. Certamente, ne sono nati fanatismi e ipocrisie, cacce alle streghe e conformismi; ma ne è nata anche l’attitudine delle pubbliche opinioni a chiedere conto ai potenti della loro integrità personale oltre che della loro capacità politica. Secondo uno stile che si è affermato pienamente negli Usa, un popolo di uomini liberi ha l‘orgoglio di non farsi governare da politici corrotti.
Pare a molte delle culture politiche europee liberali che questo sia moralismo politico, per quanto di orientamento democratico. E quindi la tradizione liberaldemocratica tiene ferma la distinzione fra morale e politica, poiché crede nella separazione fra privato e pubblico; e auspica tanto dall’uomo politico quanto dal semplice cittadino il rispetto della morale (di una delle molte possibili morali) nei comportamenti privati, mentre esige che la conformità alla legge (che incorpora inevitabilmente diffuse credenze morali, ma che con la morale non coincide per nulla) sia la regola dell’agire pubblico di chiunque. Mentre le violazioni della morale sono faccende private (di privacy), rispetto alla legge sono concesse agli uomini politici (non ai semplici cittadini) deroghe e eccezioni, segreti e opacità, ma in misura molto limitata e esclusivamente per il superiore interesse della cosa pubblica.
Tutto chiaro, dunque? La liberaldemocrazia europea ha risolto la millenaria questione del rapporto fra morale e politica privatizzando la morale e giuridificando la politica? Per nulla. Infatti, come è assurdo immaginare una democrazia viva e vitale in una società di persone rispettose della legge ma tutte e sempre moralmente abiette, così è impensabile che un grande governante sia anche radicalmente e sistematicamente immorale nella vita privata. In realtà è evidente che la liberaldemocrazia per essere vitale deve negare tanto la piena sovrapposizione fra politica e morale quanto la loro totale separatezza, tanto il moralismo quanto il cinismo, e deve esigere che fra politica e morale si istituisca una qualche relazione. Questa - non formalizzabile in norme di legge eppure, per una sorta di istinto, chiara alle pubbliche opinioni informate - consiste in una sorta di analogia, ovvero in una vicinanza o almeno in una non radicale contrapposizione, fra il modo in cui un uomo di potere tratta coloro che gli sono vicini (la sua morale) e il modo in cui governa i cittadini, e risponde a loro (la sua politica). La legittimazione dei leader, insomma, non sta solo nell’aver vinto le elezioni, ma nel saper rispettare in ogni circostanza e in ogni momento il fine ultimo - politico e insieme morale - della democrazia, l’ethos democratico: la libertà degli individui, la dignità dei cittadini, l’umanità delle persone. Decadenza c’è quando di questa analogia - civile, e non fanatica - né i politici né i cittadini sentono la necessità.
La notte del 4 novembre scorso, mentre più o meno tutto il mondo faceva la spola fra la tv, internet e Twitter scrutando proiezioni e risultati fino al discorso della vittoria del primo afroamericano eletto presidente degli Stati uniti, Silvio Berlusconi riceveva Patrizia D'Addario a palazzo Grazioli. Nel "letto grande" per la precisione, dopo una bella doccia e avvolto in un accappatoio. Snobismo e menefreghismo, o senso di sconfitta e bisogno di consolazione? Come tutto nella vita di Berlusconi, anche questa coincidenza sta sul confine fra il ridicolo e il tragico. Più tragica che ridicola, se si somma al fatto che quella notte il premier rapito da Eros mancò senza spiegazioni la serata ufficiale organizzata a Roma dalla Fondazione Italia-Usa. Più ridicola che tragica, se tanta strafottenza di allora si paragona alla postura non propriamente eretta in cui le telecamere della Casa bianca lo hanno immortalato pochi giorni fa - senza i trucchi delle tv di regime italiane - nello Studio ovale della Casa bianca, in cerca di un cenno di benedizione del Messia nero che lo tirasse fuori per un giorno dalla melma che lo sommerge.
Imprevedibili rovesciamenti della storia, ai quali uno come Berlusconi, che ancora trova la faccia di raccontare barzellette in cui Dio deve accontentarsi di fare il suo vice, non riesce a rassegnarsi. Un altro imprevedibile rovesciamento vuole, ohibò, che le donne parlino: mogli o escort, madonne o puttane, ragazze madri o ragazze squillo, prima o poi danno fiato alla voce e lo tradiscono, per motivi nobili, come denunciare il sistema di intrattenimento del sultano, o meno nobili, come vendicarsi per non aver ricevuto dal sultano l'aiuto sperato per una speculazione edilizia. Mogli o escort, le donne sono pur sempre, diceva il filosofo, "l'eterna ironia della comunità". Quando meno te l'aspetti strappano il velo. Il re è nudo, questa volta alla lettera.
Berlusconi non è l'unico a fare l'incredulo di fronte al tifone che lo sta travolgendo, al quale replica di puntata in puntata con il suo alquanto ebete "che male c'è?". Sono increduli i suoi, che seguitano a demolire le testimoni dando loro ora della velina ingrata ora della puttana, ripetendo pateticamente l'argomento ormai risibile della privacy violata, farneticando di complotti internazionali e di servizi deviati pur di non ammettere che il castello di carte dell'incantesimo berlusconiano sta crollando su se stesso. Ma sono increduli anche nell'opposizione, che a sua volta immagina trame e disegni imperscrutabili pur di non dare al tifone in corso la dignità di un caso politico di prima grandezza.
Agli uni e agli altri, bisognerebbe ricordare i fiumi di parole impiegati solo pochi anni fa per legittimare la guerra in Afghanistan con l'argomento che "lo stato di salute di una civiltà si misura dal rapporto fra i sessi": quella misura non vale da noi? Vale in guerra e non in pace? Vale a Oriente e non a Occidente? Che cosa dice dello stato della nostra civiltà questo mercimonio sessuale organizzato dal potere, dai servi del potere come i Tarantini e dalle mediatrici del potere come le Ronzulli? Che cosa dice dell'emancipazione e della libertà femminile, ma ancor prima dello stato del mercato del lavoro e dell'economia, la fredda professionalità con cui Barbara Montereale svolge le sue prestazioni e contratta i suoi compensi di "ragazza immagine" e la glaciale prudenza con cui Patrizia D'Addario registra le sue performance da escort? Che cosa ci dice dello stato culturale della nazione l' oscillazione dei giornali di destra fra la monumentalizzazione dell'"organo incostituzionale" (sic, su Libero) del premier e l'alibi del suo intervento alla prostata? O l'imbarazzato silenzio dell'opposizione che per non correre rischi non parla e non giudica, confidando che la giustizia faccia il suo corso senza scomodare la politica?
"Induzione alla prostituzione" è una faccenda seria, tanto seria che i più seri opinion maker vicini a Berlusconi lanciano l'allarme. Checché ne dica l'avvocato Ghedini, il problema non è se il premier sia perseguibile penalmente come "ultimo utilizzatore", ma se sia perseguibile politicamente come primo mandante di un sistema che è parte costitutiva della sua macchina di potere e di consenso. La questione forse è giudiziaria, certamente è politica. La maggioranza può fingere di ignorarlo e continuare a predicare, come un gregge di replicanti, che Berlusconi ha dalla sua il voto popolare e solo questo conta in democrazia. L'opposizione invece non può glissare e aspettare che sia la procura di Bari o un'altra a risolvere il problema. Silvio Berlusconi non cederà il passo a nessuna soluzione d'emergenza istituzionale al ciclone che forse non lo farà arrivare neanche al G8: come nel Caimano, ricorrerà a ogni mezzo lecito e illecito e si appellerà al popolo prima di dichiararsi sconfitto. Se è questa la stretta che si profila, sarà bene prepararsi a combattere, quantomeno con un discorso di verità più forte del suo reality corrotto.
E’ comprensibile che i promotori di un referendum, tra i quali anche Angelo Panebianco, difendano la propria creatura. Premetto che userò le dizioni Porcellum 1 e Porcellum 2 perché i due testi sono molto simili. Il primo è quello di Calderoli e quindi la legge in vigore, il secondo è il testo Guzzetta- Segni. Chi voterà Sì al referendum approva il Porcellum 2; chi voterà No preferisce restare con il Porcellum 1. Ciò premesso vengo all’articolo di Panebianco del 13 Giugno.
Il suo primo rilievo è che il Porcellum 1 non contiene nessun anticorpo contro un futuro eventuale ritorno della frammentazione partitica; ma in verità contiene lo stesso sbarramento del 4% che ritroviamo nel Porcellum 2. E sta di fatto che oggi i partiti che hanno superato questo sbarramento sono soltanto cinque. Se dovessero tornare a salire non sarà perché glielo impedisce il Porcellum 2. E sul punto a Panebianco sfugge che il premio di maggioranza assegnato da entrambi i Porcelli alla più forte minoranza fa sì che per i partiti senza premio il costo in voti di un seggio diventa più alto. Nel 1983 il costo di un seggio ai Comuni è stato per i Laburisti di 40.000 mentre per i liberali è stato di 400.000 voti. Questo è un caso limite, ma illustra il problema. Se, per esempio, Berlusconi conquistasse il premio con il 35% dei voti a lui spetterebbe il 55% dei seggi, mentre il 65% dei non premiati si dovrebbe dividere il 45% dei seggi restanti.
Panebianco riprende poi l’argomento che anche i sistemi uninominali trasformano una minoranza di voti in una maggioranza di seggi. A parte importanti differenze, mi sfugge perché i difetti del sistema inglese dovrebbero giustificare i difetti (aggravati) dei Porcelli. Infine conclude che «è sbagliato giudicare i sistemi elettorali alla luce dì preoccupazioni politiche contingenti». Con questa logica si potrebbe giustificare anche la legge Acerbo del 1923. E il fatto è che da entrambi i Porcelli non risulterà nessun sistema bipartitico, ma invece un sistema a partito predominante nel quale lo stesso partito governa da solo e senza alternanza per decenni (in altri casi anche dai trenta ai cinquant’anni).
Restano due quesiti. Primo, qual è la differenza tra Porcellum 1 e Porcellum 2. Oramai è minima. Nel primo il premio di maggioranza è previsto per una coalizione di liste, mentre nel secondo viene riservato a una sola lista. Quando i referendari proposero questa variazione la differenza era importante. Oggi è pressoché irrilevante. Perché anche se restasse in vigore il Porcellum 1, nulla impedisce a Berlusconi di presentarsi da solo. Secondo quesito: perché mai Franceschini si batte a oltranza per il Sì? Secondo Sergio Romano, siccome la legge Calderoli è pessima «il Sì avrebbe il vantaggio di costringere il parlamento ad approvare una nuove legge elettorale». Ma perché mai? Per Berlusconi il Porcellum 2 va strabene, è già operativo, e lui controllerà la maggioranza assoluta. Nessuno lo potrà costringere a nulla.
Io non ho mai raccomandato di non votare. Ma questa volta siamo chiamati a scegliere tra la padella e la brace. E se il referendum passerà avremo in ogni caso una pessima legge elettorale che ottiene il rinforzo di legittimità della volontà popolare. Se invece fallirà si potrà sostenere che gli italiani hanno dimostrato di non volere né il Porcellum 1 né il Porcellum 2. Il che lascia aperto un barlume di speranza.
Mi accade di frequente di incontrare conoscenti e amici che si mostrano stupiti per il fatto che i dirigenti del Partito democratico nonostante le considerazioni critiche, le perplessità e le obiezioni emerse nel loro stesso partito, continuano a pronunciarsi a favore dell'imminente referendum elettorale del 21 giugno, che in caso di approvazione assegnerà, in future elezioni politiche, il 55 per cento dei seggi in Parlamento alla lista di partito (e non più alla coalizione) che ottenga il primo posto anche con una sia pur limitata maggioranza relativa, inferiore al 50 per cento dei voti.
Lo stupore è comprensibile perché nella situazione attuale è chiaro, alla luce dei risultati sia delle europee come delle amministrative, che a garantirsi quel premio di maggioranza sarebbe il partito di Berlusconi, che anche soltanto ripetendo il 35 per cento delle europee si assicurerebbe la maggioranza assoluta al Senato e alla Camera. Ma c'è un chiaro fondamento dietro questa posizione dei dirigenti democratici: è la scelta della logica del sistema politico bipartitico. Del resto questa scelta fu già compiuta in occasione delle ultime elezioni politiche: quando Walter Veltroni impegnava il Pd a «correre da solo», senza dubbio ottiene di assorbire, sulla base del «voto utile», una parte rilevante dei voti delle minori formazioni di sinistra, ma al prezzo di annullare totalmente la rappresentanza parlamentare della sinistra più radicale e di spalancare la strada a una massiccia vittoria della destra berlusconiana.
Questa scelta di Veltroni viene ribadita oggi dai suoi successori: con la consapevolezza - c'è da ritenere - che la prima volta a cogliere il premio di maggioranza sarà Berlusconi; ma col calcolo (ipotetico) che intanto il Pd potrà rafforzarsi a spese delle altre forze di sinistra e di centro sinistra e che prima o poi, in base alle probabilità dell'alternanza, potrà giungere finalmente ad affermarsi come il primo partito.
Ciò che in ogni caso la logica dell'adozione di un sistema bipartitico non può nascondere è che, intanto, la conseguenza immediata di una vittoria del referendum sarà un netto peggioramento della già brutta legge elettorale oggi vigente (il «porcellum») dando vita ad una legge che sarebbe peggiore anche della tanto criticata legge truffa del 1953 (che richiedeva, per l'assegnazione del premio, il superamento del 50 per cento dei voti): e che sarebbe invece assai simile alla legge Acerbo con la quale il fascismo, dopo la marcia su Roma, si assicura il controllo assoluto anche del Parlamento e quindi i pieni poteri.
È comprensibile che il riferimento a questi precedenti e il richiamo ai propositi di stravolgimento della Costituzione già più volte enunciato dall'attuale premier suscitino non poco imbarazzo anche nel Pd: un imbarazzo che i dirigenti cercano (o si illudono) di dissipare sostenendo che in ogni caso l'approvazione del quesito referendario non significherà l'adozione di una soluzione predeterminata, ma solo l'abrogazione della legge attuale e che poi si potrà discuterne, in Parlamento, una nuova, magari una legge proporzionale con sbarramento sul modello tedesco, o con voto a doppio turno, sull'esempio francese. Questa tesi è del tutto infondata, anzi è di fatto una menzogna. Infatti, come già si dimostrò chiaramente quando agli inizi degli anni novanta si discusse il referendum Segni se la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il nuovo quesito referendario è perché esso, abrogando alcune norme della legge vigente, indica però con chiarezza le linee essenziali della normativa da adottare: non crea, cioè, un vuoto legislativo che sarebbe, tanto più in una materia estremamente delicata come quella elettorale, del tutto inammissibile. Se invece si pretendesse di dare alle indicazioni del referendum un valore non vincolante circa la soluzione legislativa da adottare, si ripeterebbe in modo farsesco la discussione che già si svolse quando nel 1992 il Pds, di cui era segretario Achille Occhetto decise di sostenere il referendum Segni per l'introduzione del sistema maggioritario, pretendendo però che il Parlamento potesse poi varare una legge diversa da quella che risultava dal quesito referendario approvato.
A quel tempo l'autore di questa nota era membro di diritto, a doppio titolo, degli organi dirigenti (direzione e segreteria) del Pds: sia perché presidente del Consiglio nazionale di garanzia istituito dal congresso, sia perché eletto, successivamente, anche presidente del gruppo parlamentare del Senato. Ritengo perciò doveroso dare testimonianza della discussione che in quell'occasione si svolse, sostanzialmente analoga a quella di oggi nel Pd. Anche allora infatti di fronte alle critiche alle insidie per la democrazia presenti nel sistema maggioritario quale sarebbe emerso dal referendum Segni, i maggiori dirigenti del partito, a cominciare da Occhetto, sostenenero che con l'approvazione del quesito referendario si apriva solo la strada dell'approvazione di una nuova legge elettorale, ma che le linee e i contenuti di questa legge sarebbero stati decisi nel dibattito parlamentare.
Ricordo che, insieme al comitato per il «no al referendum», mi affannai per cercare di chiarire nelle riunioni della segreteria e della direzione, che quella libertà di scelta non ci sarebbe affatto stata, perché il quesito referendario disegnava un ben preciso sistema maggioritario, quello che derivava dall'abrogazione di alcune norme della legge allora vigente per il Senato: e questa indicazione sarebbe stata vincolante, come diceva la giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche per la definizione da parte del Parlamento delle norme elettorali sostitutive di quelle in vigore abrogate dal referendum. Tutte le nostre argomentazioni furono però respinte benché sostenute da tanti costituzionalisti. Il referendum Segni fu così approvato col voto determinante degli elettori del Pds: ma quando si giunse alla discussione in Parlamento per varare una nuova legge elettorale secondo le indicazioni del referendum, tutti i tentativi di proporre una nuova legge ispirata al modello francese o a quello tedesco furono vani, perché giudicati in contrasto con le indicazioni del quesito referendario. Si giunse così al «mattarellum», che è all'origine anche della legge ora vigente e che in questi anni ha avuto tanto peso nel favorire quel degrado politico e istituzionale in senso populistico-plebiscitario che ha portato all'affermazione del berlusconismo.
Ho voluto richiamare questi precedenti per evitare che si ripeta un analogo errore; e perché soprattutto ne tengano conto quegli elettori (compresi certamente molti simpatizzanti del Pd) che non vogliono una legge elettorale che costituirebbe una porta spalancata per un pieno successo di Berlusconi e che favorirebbe una ulteriore degenerazione di fatto del nostro sistema costituzionale nel senso di una crescente preminenza del potere esecutivo sulle assemblee rappresentative, preminenza eventualmente rafforzata anche con modifiche costituzionali in senso presidenzialista, o con l'istituzione del cosiddetto «premierato forte», che fra l'altro darebbe al presidente del Consiglio il potere effettivo di provocare lo scioglimento delle Camere.
C'è una sola strada per evitare che, col referendum, si aggravi una situazione che, in Italia, è già carica di incognite e di pericoli: è appunto la strada, prevista dalla Costituzione, della bocciatura del referendum (possibile anche qualora ci si rechi a votare per un ballottaggio, dichiarando al seggio di non voler partecipare alla consultazione referendaria e non ritirando perciò le relative schede) attraverso la non partecipazione al voto, in modo che non si raggiunga il 50 per cento dei votanti.
Una vita disordinata spinge sempre di più e sempre più in basso la leadership di Silvio Berlusconi. In un tunnel da cui il premier non riesce a venir fuori con decoro. Nel caleidoscopio delle verità rovesciate le ugole obbedienti accennano al consueto e oggi inefficace gioco mimetico. Creano "in vitro" un nuovo "caso" nella speranza che possa oscurare la realtà. S’inventano così artificialmente un "affare D’Alema" per alzare il polverone che confonda la vista. Complice il telegiornale più visto della Rai che, con la nuova direzione di un dipendente di Berlusconi, ha sostituito alle pulsioni gregarie di sempre una funzione più schiettamente servile. Dicono i corifei e il Tg1: è stato lui, D’Alema, a parlare di possibili «scosse» in arrivo per il governo, come sapeva dell’inchiesta di Bari? Il ragionamento di D’Alema era con tutta evidenza soltanto politico. Chiunque peraltro avrebbe potuto cogliere lo stato di incertezza e vulnerabilità in cui è precipitata la leadership di Berlusconi che vede diminuire la fiducia che lo circonda a petto del maggiore consenso che raccoglie non lui personalmente – come ci ha abituato da quindici anni a questa parte – ma l’offerta politica della destra. Legittimo attendersi che quel nuovo equilibrio – inatteso fino a sette settimane fa, fino alla sua visita a Casoria – avrebbe prodotto ai vertici di quel campo un disordine, quindi un riassestamento. In una formula, sussulti, tensioni, una nuova stabilità che avrebbe ridimensionato il gusto del plebiscito, un cesarismo amorfo che, come è stato scritto qui, ha creduto di sostituire «lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico». Era questa idea di politica, questa fenomenologia del potere che, suggeriva D’Alema, riceverà presto delle «scosse» e gli esiti potrebbero essere drammatici.
Vediamo come questa storia trasmuta nella propaganda che manipola e distrae, ora che salta fuori come a Palazzo Grazioli, dove garrisce al vento il tricolore degli edifici di Stato, siano invitate per le cene e le feste di Berlusconi donne a pagamento, prostitute. Le maschere salmodiano la solita litania: l’opposizione, e il suo leader, più le immarcescibili toghe rosse di Magistratura democratica aggrediscono ancora il presidente del Consiglio. Ma è così? I fatti fluttuano soltanto se la memoria deperisce. Se si ha a mente che è stato il ministro Raffaele Fitto, per primo, a suggerire che Berlusconi poteva essere coinvolto a Bari in un’inchiesta giudiziaria, si può concludere che non D’Alema, ma il governo sapeva del pericolo che incombeva sul premier e oggi lo rovescia in arma contro l’opposizione e, quel che conta di più, in nebbia per abbuiare quel che tutti hanno dinanzi agli occhi: Berlusconi è pericolosamente – per il Paese, per il governo, per le istituzioni, per i nostri alleati – vulnerabile. Le sue abitudini di vita e ossessioni personali (qual è il suo stato di salute?) lo espongono a pressioni e tensioni. A ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un’eterna impunità.
È soltanto malinconico il tentativo del presidente del Consiglio e degli obbedienti corifei di liquidare questo affare come «spazzatura», come violazione della privacy presidenziale. Se il presidente riceve prostitute nelle sue residenze private diventate sedi del governo (è così per Villa Certosa e Palazzo Grazioli), la faccenda è pubblica, il "caso" è politico. Non lo si può più nascondere sotto il tappeto come fosse trascurabile polvere fino a quando ci sarà un giornalismo in grado di informare con decenza il Paese. Di raccontare che la vulnerabilità di Berlusconi è ormai una questione che interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale. Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente il capo del governo? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni – e magari le registrazioni e le immagini – in loro possesso? Da sette settimane (e a tre dal G8) non accade altro che un lento e progressivo disvelamento della vita disordinata del premier e della sua fragilità privata che si fa debolezza e indegnità della sfera pubblica.
La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne che lo costringono a mentire in tv; i book fotografici che gli vengono consegnati per scegliere i "volti angelici"; la cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita. E ora, svelata dal Corriere della Sera, anche la confessione di una donna che è stata pagata per una cena e per una notte con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale.
La storia può essere liquidata, come fa l’avvocato Ghedini, dicendo Berlusconi comunque non colpevole e in ogni caso soltanto «utilizzatore finale» come se una donna fosse sempre e soltanto un corpo e mai una persona? Che cosa deve ancora accadere perché la politica, a cominciare da chi ha sempre sostenuto la leadership di Berlusconi, prenda atto che il capo del governo è vittima soltanto di se stesso? Che il suo silenzio non potrà durare in eterno? Che presto il capo del governo, trasformatosi in una sola notte da cigno in anatra zoppa, non è più la soluzione della crisi italiana, ma un problema in più per il Paese. Forse, il dilemma più grave e più drammatico se non si riuscirà a evitare che la crisi personale di una leadership divenga la tragedia di una nazione.
“Demonizzazioni”. Come sta distruggendo la libertà di stampa
Due articoli di Massimo Giannini su la Repubblica e Marco Bucciantini su l’Unità, 15 settembre 2009
la Repubblica
Il premier e i consigli per gli acquisti
diMassimo Giannini
«Non date pubblicità ai media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo». Questa, dunque, è la «dottrina Berlusconi» sul libero mercato. Questi sono i «consigli per gli acquisti» che l’Imprenditore d’Italia impartisce ai suoi «colleghi».
L’uomo che sognava di essere la Thatcher, che si celebrava come «l’unico alfiere dell’economia liberale» nel ‘94 e come «il vero missionario della tv commerciale in Europa» nel ‘96, oggi concepisce così i rapporti tra produttori, clienti ed utenti. Non un contratto. Neanche un baratto. Piuttosto un ricatto.
Le parole pronunciate dal presidente del Consiglio dal palco confindustriale di Santa Margherita Ligure sono un ulteriore, drammatico esempio dei tanti «virus letali» che si stanno inoculando nelle vene di questo Paese. è un problema gigantesco, che chiama in causa sia chi produce quei virus (il presidente del Consiglio) sia chi li subisce (l’establishment politico-economico).
L’infezione promana direttamente dal capo del governo, dalla sua visione del potere, dalla concezione tecnicamente «totalitaria» delle sue funzioni. Proprio lui, che dovrebbe essere il primo a conoscere e difendere le ragioni del mercato, le umilia e le distrugge in nome di un interesse politico superiore: il suo. Il ragionamento fatto ai giovani industriali è agghiacciante: «Bisognerebbe non avere ogni giorno una sinistra e dei media che cantano la canzone del pessimismo. Anche voi dovreste fare di più: non dovreste dare pubblicità a chi adotta questi comportamenti». Nell’ottica distorta del Cavaliere, la pubblicità non è più uno strumento da impiegare liberamente nella competizione economica: non si distribuisce più in base all’utilità del mezzo, all’efficacia del messaggio e alla profittabilità dell’investimento. Diventa invece un’arma da usare selettivamente nella battaglia politica: si distribuisce, a prescindere dall’efficacia del messaggio e dalla profittabilità dell’investimento, solo in base alla «fedeltà» del mezzo. Il presidente del Consiglio chiede agli imprenditori una sostanziale alterazione delle regole del mercato, con l’unico scopo di punire chi non è d’accordo con la politica del suo governo.
Il paradosso è che a sostenere questa tesi sia il capo del governo, che è al tempo stesso proprietario di Mediaset (e dunque di una delle maggiori concessionarie italiane) e azionista (attraverso il Tesoro) delle principali aziende pubbliche o semi-pubbliche del Paese. Come si regoleranno i dirigenti di Publitalia, nel distribuire le campagne pubblicitarie sulle radio e le televisioni? E come si regoleranno i manager di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, nel distribuire le loro campagne pubblicitarie sui quotidiani e i settimanali? Sarà interessante verificarlo, di qui ai prossimi mesi.
L’infezione inquina progressivamente il corpo della società italiana, delle classi dirigenti, delle istituzioni di garanzia. Una parola sugli imprenditori, innanzi tutto. Ancora una volta, bisogna constatare con rammarico che quando il Cavaliere ha lanciato il suo ennesimo anatema, dai giovani e dagli «anziani» di Confindustria non solo non si sono levate proteste, ma viceversa sono arrivati addirittura gli applausi. Eppure, per chi fa impresa e combatte ogni giorno sui fronti più esposti della concorrenza, le aberrazioni berlusconiane non dovrebbero trovare diritto di cittadinanza, in un convegno della più importante associazione della cosiddetta «borghesia produttiva». Se esistesse davvero, una classe dirigente responsabile e consapevole del suo ruolo dovrebbe reagire, cacciando il mercante dal tempio. Invece tace, o addirittura condivide. E non solo nei saloni di Santa Margherita Ligure. Poche ore più tardi, nella notte di Portofino, il Cavaliere ha cenato con due alti esponenti del gotha confindustriale. Marco Tronchetti Provera (presidente di Pirelli ed ex azionista di riferimento di Telecom) e Roberto Poli (presidente dell’Eni) erano al suo fianco, mentre il premier smentiva la smentita dei suoi uffici di Palazzo Chigi, e confermava che con quell’intemerata sulla pubblicità ce l’aveva proprio con i giornali «nemici», e in particolare con «Repubblica». Ebbene, anche in quella occasione nessun distinguo, nessuna presa di distanza da parte di chi dovrebbe preferire le leggi mercatiste di Schumpeter a quelle caudilliste di Berlusconi.
Ma una parola va spesa anche sulle cosiddette Autorità amministrative indipendenti, chiamate a tutelare la concorrenza, e sulla cosiddetta libera stampa, chiamata a difendere il diritto all’informazione. Solo in un Paese in cui si stanno pericolosamente snaturando i meccanismi di «check and balance» può accadere che di fronte a certe nefandezze ideologiche non ci siano organi di vigilanza capaci di fare semplicemente il proprio dovere. L’Antitrust non ha nulla da dire, sulla pretesa berlusconiana di riscrivere le regole del mercato pubblicitario con criteri di pura convenienza politica? E il giornale edito dalla Confindustria non ha nulla da dire, sul tentativo berlusconiano di condizionare le scelte commerciali dei suoi azionisti?
Domina il silenzio-assenso, nell’Italia berlusconizzata. Tutto si accetta, tutto si tollera. Anche un mercato schiaffeggiato dalla mano pesante del Cavaliere, invece che regolato dalla mano invisibile di Adam Smith.
l’Unità
Lo ha già fatto: i quotidiani nemici sono senza pubblicità
di Marco Bucciantini
In questo paese si è più realisti del Re. Berlusconi chiede agli imprenditori di evitare gli spot sui quotidiani per lui scomodi, ma è cosa già fatta. L’Italia è il paese occidentale con la percentuale più bassa di investimenti pubblicitari sulla carta stampata. Crisi generale, d’accordo. E servilismo al padrone, come Berlusconi sa, perché in questo restringimento di introiti la sua Mediaset, tramite la concessionaria Publitalia, non sente crisi. Il suo gruppo è riuscito perfino ad aumentare la raccolta, che nel 2008 è stata sui 3 miliardi di euro. Mediaset ingrassa, mentre gli altri media boccheggiano. Una posizione di forza e di privilegio coltivata negli anni, blindata dalla legge Gasparri che ha alimentato il duopolio e adesso monetizzata. Per due ragioni: la sudditanza psicologica, l’intervento diretto.
Servilismo
Ai potenti i favori si fanno, non devono nemmeno chiedere. È la sudditanza psicologica: così, negli ultimi dodici mesi - dati Nielsen Media - i maggiori 15 inserzionisti del nostro mercato hanno aumentato i loro investimenti su Mediaset per 30 milioni. La Rai è rimasta pressoché ferma. In questo scorcio di 2009 i quotidiani stanno assorbendo un calo drammatico del 15% sull’anno precedente, che è stato il peggiore di sempre. Va ricordato che il mercato pubblicitario in Italia è perverso: se in Germania le tv assorbono un quarto delle risorse, in Francia il 30%, in Spagna poco più, qui il rapporto è contrario. Le televisioni si mangiano il 65% della torta. Il resto è per la stampa, che già fronteggia il calo dei lettori (91 copie ogni mille abitanti - quando in Giappone sono 624, nel Regno Unito 300, nei paesi scandinavi fra i 450 e i 600). L’annus orribilis, lo hanno definito gli editori, sul quale soffia il presidente del consiglio, sordo all’articolo 21 della Costituzione, che promuove e tutela il pluralismo nell’informazione.
E spinte
I dati Nielsen illustrano una situazione curiosa: davanti alla contrazione degli investimenti in pubblicità commerciale (da 8 miliardi e 172 milioni a 7 miliardi e 978 milioni), il gruppo di Berlusconi divora il 38% del gruzzolo. Mediaset ha il vento in poppa, gli altri annaspano controvento. La carta stampata - tutta insieme - è al 33,4%. Quello che Berlusconi auspica lo ha già praticato, strangolando i quotidiani. Giovando anche della mano che aiuta: le grandi aziende legate al Tesoro, quindi alla politica - Enel, Eni, Poste Spa - hanno foraggiato Mediaset. Eni ha versato 17,8 milioni a Publitalia, 5 milioni in più rispetto al 2007, in un quadro di risparmi aziendali. L’Enel è passata da 10 milioni a 13.
Le Poste Spa negli ultimi due anni hanno moltiplicato per sei la quota per il Biscione. Clamorosa la paghetta degli investitori istituzionali: quando i ministeri e la presidenza del consiglio informano i cittadini con le campagne sui temi sociali (ma anche sull’anniversario della nascita di Garibaldi) la Rai non riscuote (per legge), Mediaset sì: è passata da 4,5 milioni a quasi 9. Con il risvolto grottesco dei 35 spot per i 60 anni della Costituzione con cui s’infarcì la programmazione di Rete4, canale sentenziato come incostituzionale.
Bulimia
Ma la crisi è dura, checché ne dica Berlusconi (che intanto - si è visto - mette al riparo le sue aziende). Così l’ordine è di spremere ancora, e il ministro Bondi non si sottrae, quando c’è da dimostrare zelo. La sua proposta di rinsecchire la Rai, togliendo gli spot a una rete pubblica, sarebbe costata alla concessionaria Sipra circa 400 milioni di euro. Dove sarebbe finito il bottino è inutile ricordarlo. L’idea inorridì l’ex direttore generale della Rai, Claudio Cappon. Ma adesso su quella poltrona c’è Mauro Masi, grand commis dello Stato, ganglo per anni di Palazzo Chigi, gradito a Berlusconi. Che vede complotti, e davanti agli attacchi del Times paventò l’acredine di Murdoch, senza però mai - mai - nominarlo pubblicamente, restando allusivo (cosa che invece non si risparmia con Repubblica e l’Unità). Forse perché Sky non è così nemica: negli ultimi due anni ha offerto i suoi bouquet su Mediaset per 34,5 milioni. Réclame che sulla Rai sono “passate” assai meno frequentemente, per un conto di 4 milioni scarsi. Pecunia non olet, si diceva un tempo.
Berlusconi chiede agli imprenditori di evitare di fare pubblicità sui quotidiani disfattisti, ma la realtà è già questa. Grazie al suo potere, Mediaset si divora i soldi degli inserzionisti, uccidendo il pluralismo.
Anche le destre - forse soprattutto le destre - guardano d’un tratto a Karl Marx in altro modo: l’odierna crisi economica somiglia non poco al «continuo stravolgimento dei rapporti consolidati», alla «continua evaporazione di quel che è solido», descritti dal filosofo nel 1848. Il padre del comunismo fantasticò il riscatto di una sola classe, e fu funesto, ma la descrizione era realista, tutt’altro che fantasiosa. È vero che la borghesia tende a rispondere alle crisi «provocando crisi sempre più generalizzate, più distruttive, e riducendo i mezzi necessari a prevenirle». È vero che «la moderna società borghese è come l’apprendista stregone, incapace di controllare le potenze sotterranee da lui stesso evocate». È vero che essa «ha spietatamente strappato tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia piccolo-borghese. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli». È vero infine che il capitalismo sormonta spesso i mali coi veleni che li scatenano: tra essi, «l’epidemia della sovrapproduzione». Il Capitale è di moda da qualche tempo.
A prima vista può apparire stupefacente quel che è accaduto alle elezioni europee. Marx e Keynes tornano in auge, ma per le sinistre socialiste o radicali è catastrofe: sono crollate in 16 paesi su 27, con punte massime in Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Spagna. Al momento sono come istupidite, e non sapendo spiegare a se stesse il disastro si rifugiano nella denegazione. Il capo dei socialdemocratici tedeschi Müntefering fa finta di nulla e giudica assurdo l’esito, «visto che abbiamo spiegato così bene l’Europa sociale». I compagni francesi balbettano. Franceschini, in Italia, emette il verdetto, consolatorio e falso: «Abbiamo perso perché il vento della destra soffia così forte in Europa».
In realtà non ha vinto un vento di destra ma un vento ben contraddittorio: il vento di una destra pragmatica, spregiudicata, non più ideologica, che pur di mantenere il potere agguanta ogni utensile a disposizione. Soprattutto gli utensili della socialdemocrazia: lo Stato che protegge i deboli, e se necessario governa estesamente l’economia. Quel che la destra ha fatto in pochi mesi è impressionante: è stata lei a chiudere l’era Thatcher, sorpassando una sinistra paralizzata dai complessi di colpa, allergica a una conflittualità di cui si vergogna, ammaliata per 13 anni dal Nuovo Labour di Blair e dal suo mimetismo thatcheriano. Senza patemi la destra europea ha smesso l’antistatalismo, la lotta alla spesa pubblica, il dogma delle privatizzazioni. Con sotterfugi linguistici esalta perfino il Welfare: dice «stabilizzatori automatici» per non dire Stato Provvidenza. Uomini come Tremonti scoprono l’anticapitalismo, chiamandolo anti-mercatismo. Qualche tempo fa, in una manifestazione della sinistra estrema a Parigi, ho incontrato un militante che mi ha detto: «Beati voi che avete Tremonti!».
Niente vento di destra dunque, ma un’usurpazione più o meno cinica di idee socialdemocratiche e anche marxiste che devasta le sinistre classiche. Se in Europa si riapre la questione sociale saranno Sarkozy, Tremonti, Angela Merkel a gestirla, nazionalizzando o stampando moneta. Essenziale è traversare il torrente con ogni mezzo, e sperare che si torni allo status quo ante senza mutare il modo di sviluppo produttivistico. Marx e Keynes sono usati non per cambiare modello, ma per perpetuarlo con l’ambulanza del Welfare. È un modello che socialisti e sindacati condividono, quando accusano la destra di ultraliberismo o si limitano a chiedere aumenti salariali e tutela dei posti fissi. Per questo sono oggi ombre di se stessi.
Le elezioni europee non dicono tuttavia solo questo. Le sinistre defraudate sono aggrappate allo status quo ma nuove forze emergono, che pensano la crisi con sguardo più profondo e lungo. Che seguono con estrema attenzione Obama e presentono, in quel che annuncia, la possibilità di una trasformazione, di un ricominciamento. È il caso dei Verdi in Francia, Germania, Inghilterra, Svezia, Belgio, Grecia, Finlandia. È il caso dei liberali-legalitari di Di Pietro, e perfino di forze inedite come i Pirati in Svezia. Quattro consapevolezze accomunano questi gruppi. Primo, la crisi presente è tettonica, e non si esaurisce nella questione sociale. Secondo: il capitalismo di Stato che ovunque risorge accresce i poteri dello Stato censore sulle libertà cittadine. Terzo: la corruzione che ha accompagnato la crisi può perdurare, perché le urgenze governative sono altre. Quarto: il ricominciamento dovrà accadere in Europa, non negli Stati-nazione.
Daniel Cohn-Bendit è precursore in questo campo, e il suo successo è significativo. La questione sociale non è negata, ma egli la vede in connessione stretta con il clima: dunque con una crescita alternativa, e come ha detto Obama al vertice dei G-20, con un «mercato dei consumi meno vorace». A suo avviso sia la destra che la sinistra difendono lo status quo: la crescita dei consumi e di vecchie produzioni, la lotta sul clima rinviata al dopo-crisi, come nei desideri di governanti e imprenditori italiani. «È come se le sinistre avessero nel computer un software inadatto», dice: un «software produttivistico» sorpassato e nocivo. Il carisma del leader verde non è senza legami con quello di Di Pietro, De Magistris, Arlacchi. Anche i francesi di Europa-Ecologia hanno schierato giudici: Eva Joly, numero due nella lista, ha indagato sulla corruzione dei potenti (incriminando il faccendiere Tapie o - nell’affare Elf - l’ex ministro degli Esteri Roland Dumas) ed è esperta in delinquenza finanziaria internazionale. Anche lei è cittadina d’Europa: come Cohn-Bendit è franco-tedesco, lei è franco-norvegese.
Infine c’è il Partito dei Pirati: una formazione che ha raccolto il 7 per cento ed è il terzo partito svedese per numero di iscritti. La sua battaglia per il libero e completo accesso a internet è emblematico segno dei tempi: con il dissesto dei giornali e l’estendersi del capitalismo di Stato, si è visto negli ultimi giorni quanto sia prezioso lo spazio internet e dei blog. È prezioso in Francia, dove la Corte costituzionale ha appena invalidato una legge che vieta lo scaricamento di programmi, affermando che solo il giudice può emettere sanzioni e non l’autorità amministrativa. È prezioso in Italia, dove la libertà internet è minacciata dalla nuova legge sulle intercettazioni: lo spiega molto bene Giuseppe Giulietti sul quotidiano online per la libertà d’espressione (Articolo21.info).
L’impotenza dello Stato-nazione accelera le cose. Sono cresciuti i partiti concentrati sull’Europa, per respingerla o approvarla. I Verdi sono i soli, nel voto di giugno, ad aver appreso la dimensione sovranazionale delle politiche europee. Cohn-Bendit è l’unico ad aver parlato in nome d’un partito non nazionale: il che vuol dire che non siamo giunti, con la crisi delle sinistre tradizionali e del modello produttivistico, alla fine del progetto europeo pensato dai fondatori. Sono sfibrate le forze dimentiche dell’Europa, non quelle che investono su essa e reinventano. L’analisi di Cohn-Bendit è giusta: «Una forza politica moderna deve avere oggi dimensioni europee. E la crisi della socialdemocrazia la si risolverà solo formulando, contro le alternative nazionali, alternative europee. È qui che il socialismo ha fallito: aveva davanti a sé un boulevard in Europa, e ha dato risposte solo sul piano nazionale».
Dice Berlusconi a Santa Margherita Ligure: «Su quattro calunnie messe in fila – veline, minorenni, Mills e voli di Stato – è stata fatta una campagna che è stata molto negativa per l´immagine all´estero dell´Italia». Il significato di calunnia è «diceria o imputazione, coscientemente falsa e diretta ad offendere l´integrità o la reputazione altrui» (Devoto e Oli). Per comprendere meglio quali siano, per il premier, le «dicerie o imputazioni coscientemente false» raccolte contro la sua reputazione bisogna leggere il Corriere della sera di ieri. Nel colloquio il Cavaliere spiega quali sono le quattro menzogne, strumenti del fantasioso «progetto eversivo». Qui si vuole verificare, con qualche fatto utile e ostinato, se la lamentazione del Cavaliere ha fondamento e chi alla fine mente, se Berlusconi o chi oppone dei rilievi alla "verità" del capo del governo.
1 «Hanno iniziato scrivendo che c´erano "veline" nelle liste del Pdl alle Europee. Non erano "veline" e sono state tutte elette». (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9)
I ricordi del Cavaliere truccano quel che è accaduto e banalizzano una questione che, fin dall´inizio, è stata esclusivamente politica, per di più sollevata nel suo campo. Sono i quotidiani della destra, e quindi da lui controllati direttamente o indirettamente influenzati, a dar conto dell´affollamento delle "veline" nelle liste europee del Popolo della Libertà. Comincia il Giornale della famiglia Berlusconi, il 31 marzo. Ma è il 22 aprile, con il titolo «Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore» - sommario, «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl» - che Libero rivela i nomi del cast in partenza per Strasburgo: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e «una misteriosa signorina» lituana, Giada Martirosianaite.
Contro queste candidature muove la fondazione Farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini. Il pensatoio, diretto dal professor Alessandro Campi, denuncia l´«impoverimento della qualità democratica del paese» e, con un´analisi della politologa Silvia Ventura, avverte che «l´uso strumentale del corpo femminile (…) denota uno scarso rispetto (…) per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima» ( www. ffwebmagazine. it).
Queste scelte sono censurate, infine, anche da Veronica Lario che le definisce «ciarpame senza pudore del potere» ( Ansa, 29 aprile). Il "fuoco amico" consiglierà Berlusconi a gettare la spugna, nella notte del 29 aprile. In una telefonata da Varsavia alle 22,30 in viva voce con i tre coordinatori del Pdl, La Russa, Bondi e Verdini, il premier dice: «E va bene, bloccate tutto. Togliete quei nomi. Sostituitele». Molte "veline", in interviste pubbliche, diranno della loro amarezza per l´esclusione.
2 «Poi hanno tirato in ballo Noemi Letizia, come se fossi una persona che va con le minorenni. In realtà sono solo andato a una festa di compleanno, e per me - che vivo tra la gente - è una cosa normale». (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9).
Non c´è un grano di "normalità" nei rapporti tra il Cavaliere e i Letizia. Dopo 31 giorni, è ancora oscuro (e senza risposta) come sia nato il legame tra Berlusconi e la famiglia di Noemi. L´ultima versione ascoltata è contraddittoria come le precedenti. Elio Letizia sostiene di aver presentato la figlia al capo del governo in un luogo privato, nel suo studio a Palazzo Grazioli, alla vigilia del Natale del 2001. Berlusconi, nello stesso giorno, ha ricordato di averla conosciuta in un luogo pubblico, «a una sfilata». Ma la "diceria" che il capo del governo denuncia è di «andare con minorenni». E´ stata Veronica Lario per prima a svelare che il marito «frequenta minorenni» ( Repubblica, 3 maggio). La circostanza è stata confermata dall´ex-fidanzato di Noemi (Gino Flaminio) che colloca il primo contatto telefonico tra il capo del governo e la ragazza nell´autunno del 2008. Le parole di Gino costringono Berlusconi - contrariamente a quanto fino a quel momento aveva detto («Ho visto sempre Noemi alla presenza dei genitori») - ad ammettere di aver avuto Noemi ospite a Villa Certosa per dieci giorni a cavallo del Capodanno 2009, accompagnata da un´amica (Roberta O.) e senza i genitori. Nel gennaio del 2009, Noemi come Roberta, era minorenne. Dunque, è corretto sostenere che Berlusconi frequenti minorenni.
3 «Nel frattempo si sono scatenati sul "caso Mills", un avvocato che non conosco di persona» (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9)
Negli atti del processo contro David Mills (teste corrotto, condannato a 4 anni e 6 mesi di carcere) e Silvio Berlusconi (corruttore, ma immune per legge ad personam), sono dimostrati con documenti autografi, per ammissione dell´imputato, con le parole di testimoni indipendenti, gli incontri del Cavaliere con l´avvocato inglese che gli ha progettato e amministrato l´arcipelago delle società off-shore All Iberian, il «gruppo B di Fininvest very secret». Un documento scovato a Londra dà conto di un incontro al Garrick Club di Garrick Street (discutono delle società estere e Berlusconi autorizza Mills a trattenere 2 milioni e mezzo di sterline parcheggiati sul conto dell´Horizon Limited). Un altro documento sequestrato a Mills fa riferimento a una «telefonata dell´altra notte con Berlusconi». Mills, interrogato, ammette di aver parlato con il Cavaliere la notte del 23 novembre 1995. Ancora Mills, il 13 aprile 2007, conferma di aver incontrato Berlusconi ad Arcore. L´avvocato «descrive anche la villa» (dalla sentenza del tribunale di Milano).
Due soci di Mills nello studio Withers, ascoltati da una corte inglese, così rispondono alla domanda: «C´è stata mai una riunione tra Mills e Berlusconi?». Jeremy LeM. Scott dice: «So che c´è stato un incontro per mettersi d´accordo sul dividendo». A Virginia Rylatt «torna in mente che lui [Mills] era ritornato dal signor Berlusconi». E´ una menzogna, forse la più spudorata, che il capo del governo non abbia mai conosciuto David Mills.
4 «Infine hanno montato un caso sui voli di Stato che uso solo per esigenze di servizio» (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9).
In una fotografia scattata dal fotografo Antonello Zappadu si vede lo stornellatore del Cavaliere, Mariano Apicella, scendere da un aereo di Stato. Dietro di lui, una ballerina di flamenco. Il fotoreporter sostiene che l´immagine è stata scattata il 24 maggio 2008. In quel giorno era ancora in vigore un decreto del governo Prodi che limitava l´uso degli aerei di Stato «esclusivamente alle personalità e ai componenti della delegazione della missione istituzionale». Si può sostenere che Apicella e la ballerina facevano parte di una «missione istituzionale»? E´ quanto dovrà accertare il Tribunale dei ministri sollecitato dalla Procura di Roma a verificare, per il capo del governo, l´ipotesi di abuso d´ufficio. Infatti soltanto due mesi dopo, il 25 luglio 2008, il presidente del consiglio ha cambiato le regole per i "voli di Stato" prevedendo «l´imbarco di personale estraneo alla delegazione», ma «accreditato su indicazione dell´Autorità in relazione alla natura del viaggio, al rango rivestito dalle personalità trasportate, alle esigenze protocollari e alla consuetudini anche di carattere internazionale». Il caso sui "voli di Stato", che è poi un´inchiesta giudiziaria dovrà accertare se musici, ballerine, giovani ospiti del presidente viaggiano in sua compagnia (con quale rango?) o addirittura in autonomia, nel qual caso l´abuso d´ufficio può essere evidente.
Quindi, quattro «calunnie» o quattro menzogne presidenziali? Si può concludere che Berlusconi, a Santa Margherita Ligure, ancora una volta ha precipitato coscientemente la vita pubblica nella menzogna nella presunzione di abolire l´idea stessa di verità.
Questa volta è il Censis, il Centro studi investimenti sociali presieduto da Giuseppe De Rita, a dirlo con la forza delle cifre: durante l´ultima campagna per le europee e le amministrative, il 69,3 per cento degli elettori s´è formato la propria opinione attraverso i notiziari dei telegiornali. E il dato, già impressionante di per sé, sale ulteriormente fra i meno istruiti (76%), i pensionati (78,7) e le casalinghe (74,1). Al secondo posto, troviamo i programmi di approfondimento giornalistico della stessa televisione (30,6). Segue la carta stampata che è stata determinante per il 25,4 per cento degli elettori e quindi Internet con appena il 2,3.
Altro che "calunnie", "congiura dei giornali di sinistra", "complotto internazionale" e via discorrendo, come proclamano il presidente del Consiglio e i suoi seguaci. Qui, ancora una volta, è la tv che condiziona pesantemente il voto degli italiani. Come accade ormai da quindici anni a questa parte: dalla fatidica discesa in campo del Cavaliere sulle onde dell´etere, un bene pubblico che appartiene allo Stato e quindi a tutti noi, anche a quelli che non votano per il centrodestra.
È l´effetto di un´occupazione selvaggia – non ci stancheremo mai di ripeterlo – iniziata a metà degli anni Ottanta e proseguita fino ai giorni nostri, con l´acquiescenza o la complicità di un´opposizione remissiva, buonista o addirittura compromissoria. A cui poi s´è aggiunto, dal ‘94, un conflitto d´interessi senza uguali al mondo, con lo strapotere mediatico di un capo di governo che controlla direttamente tre reti private e indirettamente tre reti pubbliche.
E pensare che c´è ancora chi si ostina a dissimulare l´anomalia televisiva italiana, come fanno l´ex senatore del centrosinistra Franco Debenedetti e l´ex componente dell´Autorità sulle comunicazioni Antonio Pilati, trasferito poi all´Antitrust per meriti acquisiti sul campo, in un libro pubblicato dalla stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi e che recentemente ha rifiutato un saggio del premio Nobel, José Saramago, perché conteneva accuse e giudizi critici sul Cavaliere. È vero che il marchio storico dell´Einaudi è lo struzzo. Ma i due co-autori fanno peggio che nascondere la testa sotto la sabbia, quando confondono la concentrazione televisiva e pubblicitaria con il conflitto d´interessi, trascurando lo status di concessionario pubblico del nostro premier-tycoon; oppure estrapolano la tv dal contesto del sistema dell´informazione, ignorando gli effetti su tutti gli altri media e in particolare sulla carta stampata; o ancora, invocano la privatizzazione della Rai come l´unica soluzione per affrancarla dalla sudditanza alla partitocrazia, quasi che in Gran Bretagna non esistesse la Bbc o un servizio pubblico più che decente in altri Paesi europei.
Ai cultori della materia, si può consigliare piuttosto il saggio rigoroso e ben documentato di Manlio Cammarata, citato all´inizio di questa rubrica. Dal caso di Rete 4 a quello di Europa 7, l´autore ricostruisce puntualmente "il monopolio del potere da Mussolini al digitale terrestre", sulla base degli atti parlamentari e delle sentenze, italiane ed europee. La provocatoria conclusione propone di modificare così l´articolo 1 della Costituzione: "L´Italia è una Repubblica democratica fondata sulla televisione. La sovranità appartiene a chi possiede la televisione, e la esercita come gli pare". Ma forse quell´aggettivo "democratica" ormai è di troppo.
Aspettiamo adesso le prossime nomine alla guida dei telegiornali Rai, dopo quella di Augusto Minzolini al Tg Uno. E vedremo fino a che punto si avvererà la "profezia di palazzo Grazioli", per verificare l´autonomia e l´indipendenza del nuovo Cda di viale Mazzini. Ma la verità è che al fondo resta da risolvere un problema di "governance", cioè di assetto e struttura dell´azienda, per sottrarre finalmente la tv di Stato al dominio dell´esecutivo, quale che sia.
Se settanta o più cittadini su cento vanno alle urne sotto l´effetto ipnotico della televisione, secondo l´indagine del Censis, non c´è poi da meravigliarsi più di tanto che il voto venga "dopo il tiggì" - come cantava ai suoi tempi Renzo Arbore - né tantomeno che il governo si preoccupi di insediare direttori di sua completa fiducia. Il potere si fonda sul controllo della tv. E quando uno prova ad avvertire nello studio di Porta a porta che il centrodestra governa con il "consenso esplicito" di appena il 35 per cento degli elettori, segnalando una questione fondamentale di rappresentanza e di democrazia che non mette in discussione la legittimità dell´esecutivo in carica, il ringhioso sottosegretario Castelli insorge e brandisce come una clava il suo 10,2 per cento per imporre le ragioni della Lega Nord a quelle del Sud e di tutto il resto del Paese.
Certo, anche in America il presidente Obama è stato eletto con un 34 per cento di astensioni. Ma, a parte le diverse tradizioni al di qua e al di là dell´Atlantico, il fatto è che nelle nostre ultime politiche, ai 10 milioni 892 mila di astenuti più 1 milione 629 mila di schede bianche o nulle, si sono aggiunti 3 milioni 692 mila voti validi ma "inutili", cioè dispersi, per effetto di quella "porcata" della legge elettorale che porta il nome del leghista Calderoli: un totale di non rappresentati pari a 16 milioni 215 mila persone. E ha ragione il segretario del Pd, Dario Franceschini, a consolarsi oggi per il fatto che il centrodestra esce in minoranza dalle europee, con il 45,3 per cento dei voti contro il 49,5 delle opposizioni più gli "altri" minori, sebbene questo fosse vero già da prima.
Sono sicuri, allora, i signori del governo di poter governare davvero un Paese così complesso, in un momento tanto delicato e difficile, con un "consenso esplicito" che equivale a un terzo della popolazione? E il dissenso implicito, quello di tutti coloro che non votano per il centrodestra, dove lo mettiamo e che cosa ne facciamo? Ma, soprattutto, i leader del centrodestra sono proprio sicuri di avere un tale consenso anche senza l´appoggio determinante della televisione e dei telegiornali? Basterebbe magari risolvere il conflitto d´interessi in capo a Berlusconi e togliere le mani dalla Rai, per avere infine una controprova.
Finisce nel caos, con cartelli e grida «vergogna» che spuntano fuori dai banchi dell’Italia dei Valori. Finisce politicamente male per le opposizioni visto che, con il voto segreto da loro stesse sollecitato, la maggioranza ha avuto tra i 18 e i 21 voti in più, dipende dai calcoli. Finisce malissimo per tutto il resto che non è qui, in quest’aula di Montecitorio: per la sicurezza dei cittadini; per chi fa le indagini e butta mesi e anni in attesa di una frase intercettata che sia la conferma definitiva per un’ipotesi di reato; per la libertà di stampa ma soprattutto per i diritto dei cittadini ad essere informati. Finisce benissimo, invece, per tutti quei gruppi criminali che, una volta studiata la legge, troveranno un facile modo per aggirarla e potranno fare affari e organizzare misfatti senza più il timore, l’incubo, di essere intercettati al telefono, nelle macchine o nelle case e ovunque si riuniscono per decidere i loro piani criminali.
Bagarre e insulti
Il ddl 1415, primo firmatario il ministro Guardasigilli Angelino Alfano, la legge che nei fatti annulla lo strumento di indagine delle intercettazioni e ne vieta la pubblicazione, ottiene il primo via libera parlamentare alle 16 e 15 minuti dopo un’ora e un quarto di bagarre, allusioni e mezzi insulti. Dopo, soprattutto, undici mesi di trattative, stop and go all’interno della maggioranza che ha faticato moltissimo prima di trovare l’accordo lasciando in terra feriti e scontenti. Eppure ieri politicamente la maggioranza ha tenuto, fedele, al di là delle singole convinzioni,, alle disposizioni del Capo-premier. Mentre hanno combinato un altro pasticcio le opposizioni. Il voto segreto era stato chiesto dal Pd forte del nuovo asse post voto europeo - due giorni fa Pd, Idv e Udc hanno scritto al presidente Napolitano denunciando, la fiducia, i baratti, «l’ennesimo strappo delle regole e degli equilibri della Costituzione» - e del fatto che ben due volte su tre la maggioranza è andata sotto,nelle votazioni a scrutinio segreto. Un modo quindi per mettere in difficoltà Lega e Pdl. Il Carroccio, soprattutto, che fa della sicurezza la sua bandiera ma con questa legge mette in secondo piano proprio la sicurezza.
Il risultato è stato l’opposto di quello previsto. Perché a sfasciarsi è stato il nuovo asse delle opposizioni. Difficile trovare il traditore. L’analisi dei numeri dice che il provvedimento è passato con 318 voti a favore, 224 contrari e un solo astenuto (Svp). Al momento del voto in aula c’erano 188 deputati del Pd, 27 dell’Udc e 25 dell’Idv per un totale di 240 parlamentari che avrebbero dovuto, compatti, votare no. La maggioranza poteva garantire un totale di 297 voti, 244 del Pdl, 48 della Lega e cinque del gruppo misto. Tirando la riga, il risultato fa 21 franchi tiratori.
Qualcosa di più può suggerire l’osservazione dell’aula. Mentre il voto era ancora in corso, di sicuro Fini non aveva ancora comunicato il risultato,, Casini, Vietti e lo stato maggiore dell’Udc sono schizzati su dai banchi e hanno lasciato lesti l’aula. «Per non essere confusi con la sceneggiata organizzata dall’Idv» è stata la spiegazione. È da escludere che lo sgambetto sia arrivato dall’Idv. E anche dal Pd che contro le nuove regole sulle intercettazioni ha combattuto giorno dopo giorno. Qualche ex Margherita che manda messaggi al centro? L’Udc che strizza l’occhio alla maggioranza? Tra dieci giorni ci sono i ballottaggi. E il partito di Casini a livello locale può spostare ancora molti voti. Verso destra o verso sinistra? Le grandi manovre per le alleanze sono appena cominciate.
«un pezzo dell’opposizione... »
Come che sia, il governo, al gran completo in aula a cominciare dal Presidente del Consiglio, può alla fine del voto camminare mezzo metro da terra. «Come fanno a dire che non è una buona legge se poi l’ha votata anche un pezzo dell’opposizione?» ironizza Berlusconi con il suo stato maggiore, Cicchitto, Ghedini e Bocchino che sfoggia il tabulato dei voti. «A quanto pare le nostre tesi sono condivise anche da settori delle opposizioni» sottolinea il ministro Alfano un po’ preoccupato prima del voto. Arriva l’Umberto cofirmatario lunedì sera del Patto di Arcore, il no al referendum richiesto dalla Lega in cambio del via libera alle intercettazioni, alla riforma del Csm e della riforma del processo penale. «Questi venti voti in più dimostrano che per la gente è più importante non essere ascoltato e intercettata. Ancora una volta Berlusconi, ha avuto fiuto. Alla sicurezza e a come fare le indagini, ci penseremo. Poi». Pesa l’assenza del ministro Maroni, colui che più di tutti è stato scavalcato dal Patto di Arcore visto che aveva promesso al procuratore antimafia Piero Grasso che avrebbe modificato la legge per tutelare le indagini di mafia.
Le opposizioni possono solo andare via con la coda tra le gambe. Resta poca cosa della protesta dell’Idv. I nervi si erano scaldati durante le dichiarazioni di voto quando il capogruppo Donadi alza il dito contro Alfano per dire che «avrà sulla coscienza ogni ladro che resta libero, ogni stupro impunito». La Lega, più tardi, lo definisce «testa vuota». E mentre molti deputati hanno ancora il dito sul display per votare, dai banchi dell’Idv escono cartelli e striscioni. C’è scritto «vergogna», «PDL, Proteggiamo Delinquenti e Ladri», «La libertà di informazione è morta, uccisa dall’arroganza del potere». Di Pietro non è in aula, qualche giorno di riposo obbligato dopo lo stress della campagna elettorale. Ma arma il suo blog di una vera propria dichiarazione di guerra: «Ora basta, andiamo in piazza». La misura è colma, scrive l’ex pm: «Siamo arrivati al punto che la maggioranza strumentalizza le parole del Presidente della Repubblica che, almeno ora, dovrebbe indignarsi non avendo raccolto l’appello per fermare questa scellerata votazione». Ma in serata Napolitano fa sapere «di esaminare il testo una volta che sarà approvato».
Il testo di legge che vieta le intercettazioni ora passa al Senato per l’ok definitivo. Berlusconi: «È una buona legge, la vota anche l’opposizione». Bossi: «Il premier ha fiuto. La sicurezza? Poi ci penseremo
Anche a qualche giorno dal voto, a mente fredda, queste elezioni europee sono state un vero disastro. E un disastro gravido di pericoli, soprattutto in Italia. Astensione, avanzata delle destre, dissoluzione delle sinistre: i comunisti e le destre socialdemocratiche sono state mandate al diavolo. E in più, aggiungo io, una situazione di diffusa ingovernabilità. C'è l'eccezione, forse, della Francia, ma altrove è difficile prevedere governi, anche di destra, ma governanti.
In Italia, lo ripeto, la situazione è di pericolosa ingovernabilità. L'ipotesi cara a Berlusconi, ma anche a buona parte del Pd, di un bipolarismo, cioè della prevalenza di due partiti, alternativamente di governo, è saltata, tanto che anche Berlusconi ha dovuto rinunciare a impegnarsi nel referendum prossimo, che invece il Pd continua a sostenere. L'affermazione, rilevante, della Lega e dell'Italia dei Valori ha tagliato le ali a ogni speranza di bipolarismo. Berlusconi non avrà vita facile neppure lui, anche se la sinistra è a pezzi. E se la situazione è questa - lo sappiamo per esperienza storica - l'ingovernabilità spinge all'autoritarismo: debbo governare, debbo salvare il paese, si dice e si dirà Berlusconi, ragione per cui le forzature autoritarie saranno necessarie e in una stagione di populismo dilagante troveranno sostenitori anche tra quelli che al voto si sono astenuti.
La sinistra è allo sbando. Nemmeno la sconfitta placa le coltellate al suo interno e in questa demenza suicida si finisce con l'utilizzare anche Gheddafi. Un parlamentare vicino a D'Alema aveva accettato che Gheddafi entrasse nella grande aula del Senato, e subito (soprattutto nel Pd) è scattato il rifiuto per dare uno schiaffo a Massimo D'Alema. Con questa sinistra ci si può aspettare di tutto: anche un favore a Berlusconi per far dispetto a uno dei propri leaders. E tutto questo - non va dimenticato - nel quadro di una gravissima crisi. Le crisi nei tanto disprezzati Usa hanno portato a Roosevelt e Obama, mentre in Europa, nel passato, a Mussolini e Hitler. E ora c'è l'ondata di destra.
In Italia la sinistra è al disastro. Anche la buona volontà di Fausto Bertinotti, che propone l'unità di tutte le forze che non siano di Berlusconi o di Bossi e che siano pronte e decise a buttare a mare tutto il passato del comunismo, del socialismo e di quant'altro non mi persuade proprio. Buona volontà, certo, ma quanto realizzabile? Come non pensare che aggraverà confusione e conflitti interni. L'esperienza dell'Arcobaleno? Discutiamone.
Sia chiaro, noi del manifesto siamo tutti per l'unità delle varie sinistre e lo avevamo proposto (inascoltati) prima del voto. Ma in quest'Europa e in quest'Italia come si può lavorare a un rinnovamento e a una unità della sinistra? Durante il fascismo in prigione o in esilio i comunisti e i socialisti e anche Don Sturzo lavorarono a capire le ragioni della sconfitta, i cambiamenti della società. Cerchiamo di ricordarcelo e cerchiamo di difendere e rivitalizzare quel che resta di democratico nel nostro paese. I pericoli autoritari incombono e ricordiamo che per sconfiggerli ci volle anche una guerra mondiale.
Un Parlamento mortificato, ridotto una volta di più a luogo di silenziosa ratifica della volontà del Governo. Una magistratura resa impotente di fronte a fenomeni gravi di illegalità. Un sistema della comunicazione espropriato della sua funzione di "ombudsman diffuso", della possibilità di riferire fatti di indubbia rilevanza pubblica. Una società civile resa opaca e silenziosa dal divieto di assicurarle informazioni essenziali. Questo è il cambiamento del sistema istituzionale e sociale che ci consegna la nuova legge sulle intercettazioni telefoniche.
Siamo di fronte ad una nuova manifestazione di una linea ben nota, ad una accelerazione della irresistibile volontà di liberarsi proprio di quei contrappesi, di quegli strumenti di garanzia che, in un sistema democratico, possono impedire la degenerazione del potere, il suo esercizio incontrollato, la creazione di sacche di impunità. Per realizzare questo risultato si è insistito molto sulla necessità di tutelare la privacy delle persone, troppe volte violata. Ma questo argomento, in sé legittimo, è stato trasformato in pretesto per una disciplina punitiva, che con la tutela della privacy non ha niente a che vedere. Negli anni passati, infatti, proposte di legge presentate dalle più diverse parti politiche avevano individuato i soli punti sui quali era necessario intervenire: divieto di pubblicare brani di intercettazioni ancora coperti dal segreto, irrilevanti per le indagini, riferiti a persone diverse dagli indagati. Obiettivi che possono essere raggiunti senza restringere, o addirittura cancellare, le possibilità investigative da parte della magistratura e senza negare il diritto costituzionale all´informazione che, ricordiamolo, non è privilegio del giornalista, ma elemento storicamente essenziale per il passaggio da suddito a cittadino.
Perché, allora, un mutamento così radicale dei contenuti della legge e la fretta nell´approvarla, ricorrendo al voto di fiducia? Una ragione, la più immediata, riguardava il rischio che, pure in una maggioranza che si proclama ad ogni passo compatta, si manifestassero quei dissensi e quelle proposte di emendamento già affiorati nelle dichiarazioni di alcuni parlamentari. Il voto di fiducia non solo accorcia i tempi, ma soprattutto obbliga al silenzio. Una finalità di normalizzazione, dunque, una conferma ulteriore della considerazione del Parlamento come puro intralcio da rimuovere con qualsiasi mezzo, ignorando l´imperativo democratico che, soprattutto per le leggi incidenti su diritti fondamentali delle persone, imporrebbe la discussione più libera e aperta.
Ma la fretta, questa volta, ha una ragione più profonda. Proprio in occasione delle ultime elezioni si è visto che i mezzi d´informazione possono contribuire a modificare l´agenda politica, che la voce dei cittadini informati può sopraffare una comunicazione addomesticata. Una situazione che deve essere apparsa intollerabile, che non deve consolidarsi. Ecco, allora, che si prende al volo l´occasione offerta dalla tutela della privacy per piegare la legge ad un´altra finalità, per interrompere fin dall´origine il circuito informativo. Per questo era necessario ridurre le informazioni che la magistratura può raccogliere. Per questo erano necessarie nuove barriere, per impedire che le informazioni potessero poi giungere ai cittadini, se non dopo essere state sterilizzate dal passare del tempo. All´intento originario di punire magistratura e stampa si è aggiunta questa ulteriore urgenza. Non si può tollerare che i cittadini dispongano di informazioni che consentano loro di non essere soltanto spettatori delle vicende politiche, ma di divenire opinione pubblica consapevole e reattiva.
Di questa strategia, tanto rozza quanto efficace, si possono subito misurare le conseguenze. È stato ricordato che i risultati appena raggiunti dalla Procura di Venezia nella lotta al traffico degli immigrati, proprio un tema sul quale insiste fino a un pericoloso parossismo repressivo l´attuale maggioranza, sono il frutto di intercettazioni durate due anni. Con le nuove norme questo non sarebbe stato possibile. Queste, infatti, prevedono che le intercettazioni possano durare due mesi al massimo, ed è assai dubbio che nel caso veneziano potessero addirittura cominciare, viste le condizioni restrittive alle quali sono ormai subordinate. Le preoccupazioni espresse da magistrati e poliziotti, dunque, hanno un ben solido fondamento, e la contraddizione tra proclamazioni e strumenti dimostra quale sia il vero intento delle nuove norme.
Da molti anni, peraltro, disprezzo per la legalità e ostilità per l´informazione vanno di pari passo, e la restrizione delle possibilità investigative esigeva altrettante limitazioni della libertà d´informazione. Il punto rivelatore è rappresentato dal divieto di rendere pubbliche anche le intercettazioni non più coperte dal segreto. E il meccanismo delle sanzioni è particolarmente grave, soprattutto perché, accanto a intimidatorie sanzioni penali per i giornalisti, introduce una "censura economica" più pesante di qualsiasi altro meccanismo di controllo. Poiché si prevede che gli editori possano essere obbligati a pagare forti multe, è ovvio che pretenderanno di minimizzare questo rischio, interferendo nel libero lavoro d´informazione. Così, “Il Padrone in redazione” non sarà più solo il titolo di un bel libro di Giorgio Bocca, ma il destino promesso al sistema italiano della comunicazione.
Peraltro, proprio perché non più coperte dal segreto, le intercettazioni saranno nelle mani di molti, a cominciare dalle schiere di avvocati e loro collaboratori che accompagnano ogni indagine di qualche peso. Così, il divieto di renderle pubbliche creerà un grumo oscuro, disponibile per manovre oblique, manipolazioni, persino ricatti (che cosa sarebbe accaduto con la segretezza coatta delle indagini sui "furbetti del quartierino" e dintorni?). Corretto corso della giustizia e diritti delle persone (privacy inclusa) saranno assai più a rischio di oggi, in assenza di quei benefici contrappesi democratici che si chiamo trasparenza e controllo diffuso.
Il Presidente del Consiglio si accinge a partire per gli Stati Uniti. Chi sa se qualcuno dei suoi collaboratori, preparando i necessari dossier, penserà di inserirvi la citazione di quel che scrisse un grande giudice costituzionale americano, Louis Brandeis: "La luce del sole è il miglior disinfettante".
Un messaggio interessante e promettente è venuto dalle elezioni (da quelle europee soprattutto, che sono anche quelle più squisitamente politiche): la fase espansiva del partito di governo è finita per la ragione non proprio banale che il Pdl non può sperare di pescare voti da coloro che non hanno votato per il Pd e preferito astenersi o votare per liste perdenti. Il Pd ha perso a sinistra, un territorio dal quale il Pdl non può sperare di mietere consensi. Questo è un messaggio confortante. Anche se lo è solo per metà. Perché la condizione sia compiutamente confortante è necessario che i leader del Pd siano disposti a ben interpretare il messaggio, ovvero a voler guardare a sinistra, dove, è bene metterlo in evidenza, non ci stanno rivoluzionari o estremisti ma invece cittadini che vorrebbero poter contare su una politica di governo che rispetti la Costituzione sia nei diritti che nelle promesse. Che vorrebbero che il Pd cominci a preparare fin da ora le condizioni per poter portare il paese fuori da questa fase terribile e vergognosa. Il messaggio verte essenzialmente sulle carenze ideali e propositive di un partito che, per ripetere le parole di Ezio Mauro sulla Repubblica di qualche giorno fa, «dopo un anno disastroso» ha «salvato la pelle». Salvata la pelle, si tratta di metter su carne e acquistare in corposità.
La carenza del Pd è, dicevamo, ideale o programmatica. Chi non lo ha votato ha lanciato un messaggio che è a ben vedere abbastanza chiaro e che ardentemente spera che venga ascoltato: non si può ingessare il maggior partito d´opposizione a fare da controcanto al governo, alle boutade pubblicitarie del suo a dir poco stravagante capo (se, per esempio, dice che vuole fare un Parlamento di cento rappresentanti non gli si può rispondere: "Beh cento forse no, ma cinquecento sì"!). Avere una politica autonoma, sapere fare opposizione opponendo una visione alternativa di come il paese dovrebbe essere rispetto a questioni drammaticamente importanti. Insomma la richiesta rivolta al Pd è che imbastisca proposte politiche concrete e coerenti con valori e ideali che sono propri di un vero patriottismo costituzionale e che possono essere rappresentati solo da un Partito che si chiama democratico. Vediamo di riassumere in breve questi valori.
Il primo valore fondamentale è quello dell´eguaglianza democratica, un valore che viene messo a durissima prova non soltanto dalla crisi economica (per la quale il nostro governo non ha fatto pressoché nulla, se non cercare di convincere i telespettatori che non esiste) ma anche da scelte, determinate e precise, fortemente inclinate verso oligarchie economiche e finanziarie molto più che verso le classi medie. Tra queste scelte va menzionata in primo luogo la penalizzazione scientemente perpetrata della scuola pubblica: la ministra Gelmini sbandiera di voler riqualificare la scuola e poi ci regala il taglio di 3 ore di italiano nelle scuola media, toglie soldi alle università al punto che molte devono cancellare programmi di dottorato o smettere di acquistare libri. Penalizzare la scuola pubblica ha come esito quello di impoverire i molti rendendoli meno attrezzati a fare scelte competenti e, soprattutto, a ragionare criticamente. In secondo luogo, questo governo è colpevole di penalizzare più di una generazione di lavoratori e lavoratrici che sono condannati alla precarietà a vita con la conseguenza che il rischio e l´incertezza diventano la loro condizione permanente, un esito che vanifica le stesse ragioni che avevano spinto alla liberalizzazione del mercato del lavoro come la dinamicità, l´innovazione e migliori opportunità di carriera. I partiti populisti di destra rispondono alla nuova povertà dei cittadini italiani con proclami e misure che sono razziste e xenofobe, addossando a quelle poche migliaia di disperati che cercano di raggiungere l´Europa le colpe delle loro scelte ingiuste. Il Pd deve con molta più forza e limpidezza di quanto non abbia fatto finora denunciare queste politiche e farsi promotore di una rinascita riformista di giustizia sociale e nuova solidarietà.
Il secondo valore del patriottismo democratico è quello della libertà individuale, civile e di coscienza. Tre sono i rischi che questo governo ha reso altissimi alle nostre libertà: quello che viene dall´aver sistematicamente trasformato le politiche di giustizia sociale in politiche di sicurezza, con l´esito prevedibile che le nostre città sono più violente e meno sicure di prima senza essere più libere e giuste; quello che viene da una violazione pericolosa del principio di libertà di coscienza su questioni personalissime come la decisione di farsi curare e di vigilare sulla propria dignità, quando si è malati non meno di quando si è sani; quello infine che viene dalla tirannia del monopolio dell´informazione e mediatico che genera distorsione delle opinioni, censura e limita fortemente il pluralismo e la libertà di pensiero.
Su questa costellazione di valori costituzionali e democratici il Pd deve essere unito e soprattutto non balbuziente. Lo deve essere se vuol attirare a sé quegli elettori che preferiscono o astenersi o anche rischiare che il loro voto vada sprecato pur di non darlo a un partito che non ha mostrato sufficientemente il coraggio della chiarezza ideale. Questi, val la pena ricordarlo, non sono elettori incerti, ma invece certissimi: non voterebbero mai per chi non sa distinguersi da un avversario che tra l´altro è, esso sì, radicale in tutto e per nulla moderato nel linguaggio e nelle politiche.
Il vero problema per le intercettazioni telefoniche era quello della loro pubblicazione e, quindi, del rispetto della privacy di persone che, seppur non implicate nelle indagini, venivano sbattute in prima pagina, spesso a causa della loro notorietà. Il governo però ha preso al volo l'occasione per regolare i conti con il sistema stesso delle intercettazioni, con i magistrati e con la stampa, uniti in una specie di «grumo eversivo» che in questi ultimi anni tanto danno ha fatto agli affari berlusconiani, pubblici e privati.
In un Paese afflitto da una cronica elusione delle leggi, la maggioranza di centrodestra sta rendendo ulteriormente complicato i controlli di legalità e, procedendo a colpi di voti di fiducia, oggi frena le indagini e imbavaglia la stampa come antipasto al già depositato progetto di riforma del processo penale che lo allungherà in ossequio alla certezza non della pena, ma della prescrizione.
Le modifiche alle intercettazioni prescindono, innanzitutto, dal necessario carattere d'urgenza e tempestività richiesto dalle circostanze. La richiesta del pm infatti deve essere vistata dal procuratore capo e inviata non più al gip del tribunale competente, ma al gip del tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello nel cui ambito ha sede il gip competente che, poi, dovrà decidere in composizione collegiale. Cioè se, per esempio, il gip competente è quello di Agrigento, la richiesta va inviata al gip del tribunale di Palermo che, appunto, è il tribunale del capoluogo del distretto. Alla sicura perdita di qualche settimana di tempo, si deve aggiungere che l'intercettazione può essere disposta solo se vi sono «gravi indizi di colpevolezza» ed è «assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»: ma ciò attiene già ad una fase di acquisizione di prove abbastanza tranquillizzante per l'accusa e, pertanto, l'intercettazione sarebbe assolutamente superflua.
Le intercettazioni non possono durare più di trenta giorni, prorogabili per altri trenta giorni in due volte, ma per una serie di reati gravi i termini possono essere prorogati per tutta la durata delle indagini preliminari e basta che ci siano sufficienti indizi di reato. E' abbastanza chiaro che queste modifiche restrittive comporteranno gravi intralci alle indagini, specie per i reati dei «colletti bianchi» che, a questo punto, saranno pressoché impossibili per il combinato disposto dei gravi indizi di colpevolezza e della tagliola temporale.
Seppur intralciate, di esse comunque non se ne potrà avere notizia «anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari». Fatte salve le persone non implicate nelle indagini, perché ci deve essere un così pesante vulnus per il diritto all'informazione afferente, per giunta, anche a fatti sui quali non c'è nemmeno il segreto istruttorio?
I tempi delle indagini preliminari sono a volte lunghi - soprattutto quelli che riguardano la criminalità organizzata - e sulle grandi inchieste calerà un silenzio tombale, rafforzato da pesanti sanzioni sia per i giornalisti (per i quali è addirittura previsto il carcere) che per i magistrati.
E' proprio a partire dall'inizio delle indagini che il diritto all'informazione deve dispiegarsi nella sua interezza se si vuole un vero «controllo sociale» sulla effettività e completezza delle stesse specie ora che si profila all'orizzonte una notizia di reato sottratta ai pm e affidata interamente alla polizia e, cioè, all'esecutivo.
Avremo un paese imbavagliato a maggior gloria dei criminali che truffano lo Stato, corrompono, devastano l'ambiente e attentano alla salute o alla vita dei cittadini o degli operai nei cantieri, tanto per fare qualche esempio esemplificatorio e non esaustivo. A chi giova tutto ciò se non ad una maggioranza di governo che nell'illegalità diffusa trova un grande bacino di consenso sociale ed elettorale?
C'è però, ed è necessario che monti e si rafforzi, una altrettanto grande area di opposizione sociale ed istituzionale a queste norme liberticide, a partire dai magistrati, dalle forze di polizia e dalla stampa, fino ai «semplici» cittadini, tutti espropriati dal diritto-dovere di contrastare l'illegalità e di essere informati sulle malefatte del potere: la sinistra, dovunque essa sia, ha una ulteriore occasione di ritrovare compattezza intorno ai valori di legalità così palesemente calpestati.
L’agenda delle priorità di Silvio Berlusconi continua ad essere ad personam. Quindi, che la ricreazione continui, con buona pace di Emma Marcegaglia. Sostegno alle imprese e a chi perde il lavoro? Possono attendere. Per la bisogna sono sufficienti, al premier, un paio di bubbole nel tempio di cartapesta di Porta a porta (4 giugno): «Oggi non c’è nessuno che perdendo il lavoro non venga aiutato dallo Stato. C’è la cassa integrazione per i precari, così come per i lavoratori a progetto».
Il Cavaliere diventa meno fantasioso quando si muove nel suo interesse. Teme le intercettazioni (non si sa mai, con quel che combina al telefono) e paventa le cronache come il diavolo l’acqua santa. Si muove con molta concretezza, in questi casi. Prima notizia post-elettorale, dunque: il governo impone la fiducia alla Camera e oggi sarà legge il disegno che diminuisce l’efficacia delle investigazioni, cancella il dovere della cronaca, distrugge il diritto del cittadino di essere informato. Con buona pace (anche qui) della sicurezza dei cittadini di un Paese che forma il 10 per cento del prodotto interno lordo nelle pieghe del crimine, le investigazioni ne usciranno assottigliate, impoverite. L’ascolto telefonico, ambientale, telematico da mezzo di ricerca della prova si trasforma in strumento di completamento e rafforzamento di una prova già acquisita. Un optional, per capirci. Un rosario di adempimenti, motivazioni, decisioni collegiali e nuovi carichi di lavoro diventeranno sabbia in un motore già arrugginito avvicinando la machina iustitiae al limite di saturazione che decreta l’impossibilità di celebrare il processo, un processo (appare sempre di più questo il cinico obiettivo "riformatore" del governo). Ancora. Soffocare in sessanta giorni il limite temporale degli ascolti (un’ulteriore stretta: si era parlato di tre mesi) «vanifica gli sforzi investigativi delle forze dell’ordine e degli uffici di procura», come inutilmente ha avvertito il Consiglio superiore della magistratura,
Sistemata in questo modo l’attività d’indagine, il lavoro non poteva dirsi finito se anche l’informazione, il diritto/dovere di cronaca, non avesse pagato il suo prezzo. Con un tratto di penna la nuova legge estende il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto anche agli atti non più coperti dal segreto «fino alla conclusioni delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare». Prima di questo limite «sarà vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione e degli atti delle conversazioni telefoniche anche se non più coperti dal segreto».
Si potrà dire che si indaga su una clinica privata abitata da medici ossessionati dal denaro che operano i pazienti anche se non è necessario. Non si potrà dire qual è quell’inferno dei vivi e quanti e quali pasticci hanno organizzato accordandosi al telefono. Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali della giustizia italiana dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.
Addio al giornalismo come servizio al lettore e all’opinione pubblica. Addio alle cronache che consentono di osservare da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. È vero, in alcuni casi l’ostinazione a raccontare le opacità del potere ha convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, in fondo, perché la libertà di stampa è nata nell’interesse dei governati e non dei governanti e quindi non c´è nessuna ragione decorosa per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - ricordate un governatore della Banca d´Italia? - come un´autorità di vigilanza protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.
Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. I cronisti che violeranno la consegna del silenzio saranno sospesi per tre mesi dall’Ordine dei giornalisti (sarà questa la vera punizione) e subiranno una condanna penale da sei mesi a tre anni di carcere (che potrà trasformarsi in sanzione pecuniaria, però). Ma non è questo che conta davvero, mi pare. Che volete che sia una multa, se si è fatto un lavoro decente?
La trovata del governo che cambia radicalmente le regole del gioco è un’altra. È la punizione economica inflitta all’editore che, per ogni «omesso controllo», potrà subire una sanzione pecuniaria (incarognita nell’ultimo testo) da 64.500 a 465mila euro. Come dire che a chi non tiene la bocca cucita su quel che sa - e che i lettori dovrebbero sapere - costerà milioni di euro all’anno la violazione della "consegna del silenzio", cifre ragguardevoli e, in molti casi, insostenibili per un settore che non è in buona salute. L’innovazione legislativa – l’abbiamo già scritto - sposta in modo subdolo e decisivo la linea del conflitto. Era esterna e impegnava alla luce del sole la redazione, l’autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, le redazioni e le proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L’editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si portano così le proprietà a intervenire direttamente nei contenuti del lavoro redazionale. Le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi della materia informativa vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo, nel progetto inviato al Parlamento, pretende addirittura che l’editore debba adottare «misure idonee a favorire lo svolgimento dell’attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio». È evidente che solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell’attività giornalistica è possibile «scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Di fatto, l’editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela.
Ecco dunque i frutti intossicati della legge che oggi sarà approvata, senza alcuna discussione, a Montecitorio: la magistratura avrà meno strumenti per proteggere il Paese dal crimine e gli individui dall’insicurezza quotidiana; si castigano i giornalisti che non tengono il becco chiuso anche se sanno come vanno le cose; si punisce l’editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi - cari lettori - non conoscerete più (se non a babbo morto) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che decidono delle vostre stesse vite. Sono le nuove regole di una "ricreazione" che non finisce mai.