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Gli elettori hanno gli occhi più aperti di noi, dice Anna Finocchiaro che ha passato due ore ieri qui in redazione a discorrere di politica. Gli elettori, i cittadini, gli italiani sono più avanti rispetto tanto alle discussioni da retroscena quanto dai trabocchetti descritti dai giornali: sicuramente sono altrove, sono nelle cose e non “nella playstation” della guerra fra leader, gioco virtuale di sempre minor successo di pubblico. Gli italiani difatti scrivono e chiamano i giornali per dire che non ne possono più, che per favore chi fa opposizione provi a smettere di mandare pizzini, di reclutare gente interessata che poi si inchioda alle poltrone, di parlare al telefono con il boss locale e di negoziare affari con chi fa gli affari suoi, non i nostri.

Da giorni su questo e su altri quotidiani si affaccia il tema – esplicito – della “questione morale” anche a sinistra. Veltroni ieri ne ha parlato apertamente in un’intervista. Chi rema contro di noi si faccia avanti o sparisca, ha detto. Ha convocato a Roma Bassolino per discutere di Napoli. Aveva parlato con Cioni, giorni fa, uno dei candidati alle primarie fiorentine coinvolto nell’inchiesta su Castello. Anna Finocchiaro dice che spetterebbe «prima di tutto alla sensibilità di ciascuno fare un passo indietro quando è il momento». Un tipo di sensibilità non così diffusa. Le ragioni sono molte, i casi diversi. Questo ci preme intanto dire qui: l’Abruzzo, la Calabria, Genova, Napoli, Firenze, persino la Sardegna degli interessi immobiliari che sottotraccia segnano le vicende politiche dell’isola sono storie davvero molto diverse. In qualche caso sono lotte di potere. In qualche altro ipotesi di reato. Non si può fare di ogni erba un fascio dice Leonardo Domenici ed ha ragione. Non si deve. Bisogna usare la residua energia per esercitare la ragione e distinguere, applicarsi a conoscere e capire. È vero però che l’ultimo decennio di gestione della cosa pubblica ha favorito e “sdoganato” come minimo una promiscuità di linguaggio e d’azione, una disinvoltura nel superare il confine del moralmente lecito che farebbe impallidire i nostri padri.

Oggi che si scatena la più incredibile guerra fra Procure mai vista – Catanzaro contro Salerno, il presidente Napolitano che per la prima volta chiede gli atti delle inchieste in qualità di presidente del Consiglio superiore – proprio oggi che una vicenda dai contorni opachi mette gli uni contro gli altri i magistrati coinvolgendo i massimi nomi degli uffici giudiziari d’Italia e facendo temere davvero per l’integrità di un Potere indipendente e supremo, oggi, dunque, anche e proprio per tutto questo abbiamo deciso di dedicare la prima pagina alla memoria delle parole di un uomo che ha segnato per sempre questo paese e le nostre coscienze. Erano gli anni della P2. Il Partito comunista (oltre al Psiup e al Partito radicale) era il solo a non essere coinvolto. Berlinguer non c’è più, Licio Gelli è in piena attività. Leggete le nostre interviste ad Anna Finocchiaro e a Leonardo Domenici. Provate a pensare se siamo capaci di ritrovare quell’orgoglio, nonostante tutto. «Serve una generazione nuova», dice la senatrice. Intanto abbiamo questa. Mettiamo all’opera gli anticorpi, alternativa non c’è. Scriveteci, pubblicheremo le vostre parole.

Leggete soprattutto le parole di Ennrico Berlinguer, anche qui

Ho abitato per vent’anni davanti alle Alpi e per altri dieci davanti al Delle Alpi. Dalla mia finestra, là dove poi fu costruito lo stadio di Italia 90, vedevo il vasto orizzonte alpino, dal Rocciamelone al Gran Paradiso, lasciato libero dai campi sperimentali dell’Istituto Agrario Bonafous.

Chi si ricorda più di quella benemerita scuola agraria? Venne fondata nel 1871, con l’obiettivo di promuovere una radicale riforma delle tecniche agricole tramite la formazione dei giovani agricoltori. I campi sperimentali di quella succursale extraurbana erano terreno ottimo, lavorato e concimato alla perfezione. Soffrii molto quando, verso la fine degli anni Ottanta, venni a sapere che sarebbero stati sacrificati al calcio dei mondiali per costruirvi il nuovo stadio. Cominciarono le discussioni sui progetti, gli sguardi chini sui plastici, le dichiarazioni dei politici, il conto salato da pagare, giustificato però dal prestigio che sarebbe piovuto su un’area periferica e degradata di Torino: Madonna di Campagna-Vallette.

Vedrete, tutto sarà riqualificato, pulizia, ordine, modernità, questo quartiere diventerà il centro del mondo. Io sentivo che erano menzogne, ma le ruspe arrivarono e abbatterono il Bonafous, conservandone solo la modesta palazzina uffici all’ingresso dell’attuale complesso sportivo. Chissà dove finì la buona terra, sostituita da tonnellate di calcestruzzo e da una selva di cavi metallici, anche belli, a loro modo, non c’è che dire. Ma ormai non vedevo più le Alpi, bensì il Delle Alpi. Pazienza.

Arrivarono i mondiali, e l’unica cosa che cambiò era che non si trovava parcheggio in tutto il circondario, nemmeno per i residenti. Poi tutto finì in fretta. I cartelli indicatori con il pallone tricolore arrugginirono, la sporcizia aumentò per la maggior frequentazione dei tifosi, Madonna di Campagna-Vallette non diventò il centro del mondo, non fu dotata di maggiori servizi, anzi, oggi è uno dei tristi poli della prostituzione stradale cittadina, che almeno, allora, non c’era.

Vent’anni fa mi indignavo perché tanto denaro pubblico veniva trovato in un batter d’occhio per uno stadio e non per un ospedale o per le tante altre cose di cui sempre si sente urgenza in questo paese. Oggi veder demolire cento milioni di euro durati solo diciott’anni mi lascia sconfortato. Non solo gli annunci comuni a tutta la trionfale retorica delle grandi opere erano menzogneri, ma in questo caso pure paradossali: tocca ora spendere addirittura altri denari per distruggere e ricostruire. Dove andranno tutte quelle macerie? Da dove verranno le nuove materie prime? Troverei un senso alla demolizione se al posto del nuovo stadio, già vecchio a diciott’anni, nascesse un bosco, tornasse una campagna. Invece mi appare come simbolo della decadenza culturale, del fallimento del progetto urbanistico, del trionfo delle chiacchiere sui fatti e degli errori mai pagati, di nuovi proclami che ricoprono quelli vecchi in una spirale autoreferenziale di promesse e di nuova fiammante retorica.

Con gli ultimi resti di ricchezza di una nazione alla canna del gas, costruiremo dunque un nuovissimo e indispensabilissimo stadio. Forse lo smonteremo di nuovo, e non tra molto, per ricavarne aratri e coltelli.

3 dicembre 2008

«Corruzione a sinistra, cacicchi scatenati»: se ne sentono di tutti i colori.

La colpa? Il Pd centrale è debolissimo

Zagrebelsky intervistato da Maria Antonietta Calabrò

ROMA — «Questa è qualcosa di più di un'intervista, è uno sfogo». A parlare così è Gustavo Zagrebelsky, uno dei più importanti costituzionalisti italiani, ex presidente della Corte Costituzionale, opinionista influente, capofila della scuola piemontese cui hanno fatto riferimento personaggi come Giancarlo Caselli e Luciano Violante, e un'intera generazione di magistrati «democratici».

Fumo negli occhi per il centrodestra che lo ha sempre temuto come il padre nobile di Mani Pulite e, negli anni, come la punta di diamante giuridica contro le cosiddette leggi ad personam e i provvedimenti sulla giustizia dei governi Berlusconi succedutisi dal 1994.

Ebbene,con il suo consueto rigore more geometrico Zagrebelsky prende oggi pubblicamente atto che un'enorme «questione morale sta corrodendo il centrosinistra». E che quello che Gerhard Ritter aveva definito «il volto demoniaco del potere» ormai è diventa l'altra faccia della politica del Partito democratico. Secondo l'analisi di Zagrebelsky il Pd «a livello centrale è debolissimo e quindi a livello locale i cacicchi si sono scatenati». Dalla Campania all'Abruzzo, da Firenze a Genova.

Oggi la questione morale si è spostata a sinistra?

«Sì. Per un motivo antropologico e per uno politico».

Prima l'antropologia...

«E' una questione di antropologia, ma pur sempre antropologia politica. Le leggi della politica sono ineluttabili: la politica corrompe. Ha un effetto progressivamente corrosivo, permea il tessuto connettivo e stabilisce delle relazioni basate sul potere. Nel caso meno peggiore si tratta di relazioni non trasparenti, di dipendenze, di clientele. Siamo un popolo di clienti delle persone che contano. Nel peggiore dei casi, invece, si tratta di vere e proprie relazioni criminali e di malavita».

Anche nel Pd?

«Sì. Nella sinistra, il neonato Pd è la causa della questione morale che constatiamo. Per due motivi».

Il primo?

«Il mancato ricambio generazionale che era la speranza e la scommessa dei democratici. Non che a sinistra ci siano necessariamente gli uomini migliori, ma si poteva sperare in un rinnovamento che avrebbe invertito l'inesorabile avanzata degli effetti della legge della corruzione».

Il secondo?

«La debolezza del partito, dell'organizzazione del partito, la mancanza di comuni linee di condotta... ».

Rina Gagliardi su «Liberazione « ieri sottolineava che l'esplosione della questione morale comporta il rischio di implosione per il Pd. Manca il centralismo democratico?

«Certamente non bisogna invocare il centralismo democratico che era anch'esso una degenerazione, ma al centro del Pd oggi come oggi non c'è nulla e così a livello locale i cacicchi si sono scatenati ».

Anche D'Alema aveva definito questa tipologia di politici locali il «partito dei cacicchi». Lei quando parla di caciccato pensa alla Campania del presidente Antonio Bassolino?

«Non conosco direttamente le varie situazioni: certo è che se ne sentono dire di tutti i colori».

Proprio ieri il capo dello Stato, parlando a Napoli, ha fatto un forte appello all'autocritica delle forze politiche in particolare del Mezzogiorno. Condivide le parole di Napolitano?

«Completamente. Anche perché si stanno avvicinando le elezioni amministrative e quello che si vede e si sente ha effetti devastanti sulla tenuta democratica del Paese».

Ci spieghi...

«La gente si sente strumentalizzata, usata per giochi di potere. C'è un drammatico bisogno di ricambio degli amministratori. Molti cittadini hanno veramente creduto nella possibilità di un cambiamento con il governo della sinistra.

E invece, le ferree regole descritte da Ritter ne Il volto demoniaco del potere hanno avuto il sopravvento e si è instaurato il caciccato ».

E nel centrodestra ci sono i cacicchi?

«Il centrodestra ha un leader, Berlusconi, che ha dimostrato di avere le capacità e le possibilità, anche materiali, di tenere insieme i suoi. Noi constatiamo che a destra il sistema di potere funziona meglio e quindi è meno visibile. Non che questo sia un vantaggio, ma gli effetti degenerativi non sono sotto gli occhi di tutti in maniera così eclatante».

4 dicembre 2008

«Chi sbaglia lasci. Senza aspettare i giudici»

Oscar L. Scalfaro intervistato da Marzio Breda

Presidente Scalfaro, in questi giorni si riparla molto di questione morale. Il problema è stato posto da Giorgio Napolitano, ma anche dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. Il quale ha detto al «Corriere» che la questione è aperta pure per il centrosinistra. È catastrofismo?

«Quello della legge morale nella cosa pubblica è tema che esiste da sempre, anche se nella realtà si manifesta a intermittenza. Oggi riaffiora con forza perché c'è la sensazione di una grave crisi di valori, di un cedimento generalizzato. Credo che chiunque voglia intervenire su uno scenario di questo tipo dovrebbe avere anzitutto una grande severità con se stesso. E magari porre alla base dei propri convincimenti qualche esempio del passato.

Tanto per capirci: se non si è mai parlato di questione morale a proposito di De Gasperi, Einaudi, Lussu, Saragat e di tanti altri politici dei diversi partiti che rifondarono la nostra democrazia dopo la Liberazione, non lo si deve forse a come interpretavano la responsabilità di fare politica? ».

È una riflessione che la associa all'allarme — di vago sapore retrospettivo — lanciato dal capo dello Stato sull' «impoverimento culturale e morale della politica». Un allarme cui ha aggiunto l'urgenza di una «seria capacità di autocritica».

«Condivido il suo giudizio. E lo allargo perché mi pare che, nell'attuale sottolineatura di questa emergenza, ci sia un eccessivo gusto dello scandalo e del baccano, esasperato magari da eclatanti denunce in sede penale. Vorrei che la politica oggi non si qualificasse soltanto attraverso i processi o le campagne di stampa, ma per un'intima capacità di autorigenerarsi su una salda base etica e di pensiero che contempli anche l'autocritica. Riconoscere gli errori, infatti, è sempre un atto di dignità».

Dovrebbe compierlo pure il centrosinistra, questo pubblico «atto di dolore »? Dunque nessuno ha più titolo per rivendicare la «diversità morale» che proclamava Enrico Berlinguer?

«Quando il segretario comunista diceva certe cose, il Pci aveva forse qualche ragione per definirsi differente: una certa disciplina interna e un particolare stile di vita della classe dirigente ispiravano comportamenti rigorosi. Ma questa non era un'esclusiva della sinistra. Ricordo che De Gasperi ci ripeteva sempre di vivere anche la vita privata in modo che fosse coerente con i principi che affermavamo nella vita politica. Quelle "norme" non sono state mai revocate: sono state disattese se non abbandonate, purtroppo, ma non sono morte. E la gente, anche la gente più semplice, ha la capacità di giudicare».

Il professor Zagrebelsky sostiene che una certa debolezza del Pd a livello centrale consente giochi di potere e qualche degenerazione in periferia. E parla di una «scommessa perduta» a proposito del ricambio generazionale.

«Il ricambio oggi non mi pare facile, anche se come principio sarebbe in moltissimi casi necessario e vivificante. Mi piace ricordare che all'assemblea costituente le questioni più interessanti venivano dibattute soprattutto tra giovani parlamentari comunisti, democristiani, socialisti, liberali, con la presenza di qualche anziano saggio e punto di riferimento per tutti. Energie nuove sono indispensabili, quindi, specie nelle fasi di transizione».

Lei è molto vicino al Pd e ne segue attentamente l'evoluzione. Ora, dopo lo choc provocato da quanto accade in città come Napoli o Firenze, cosa dovrebbe fare il vertice del partito? In che modo si possono sanare certe ferite?

«È rispetto del patto elettorale. Quando qualcuno sbaglia o non è corretto nell'amministrazione della cosa pubblica, deve lasciare per sempre la responsabilità politica. Se è accusato ingiustamente, va difeso. Ma se è colpevole non lo si può difendere a oltranza per interesse di partito. Servono serietà e severità, senza le quali i cittadini perdono la fiducia.

Non si dovrebbe pertanto temere di usare il pugno duro, a costo di pretendere le dimissioni di nomi importanti?

«Insomma: sono contro gli scandali e le rivendicazioni di giustizia sommaria, ma se si vuole fare in modo che etica e politica procedano assieme non ci si deve limitare ai soli cerotti. Non se c'è di mezzo la comunità, la res publica. Quando si ha la certezza di abusi e scorrettezze, non resta altra scelta che far uscire di scena i responsabili. E questo, indipendentemente dalle certezze giuridiche. Un partito sa quando un suo dirigente opera bene o male, e non si deve muovere soltanto in applicazione di sentenze dei magistrati. Non deve affidare ai giudici il compito di fare pulizia».

Il fatto è che una manina si è portata via dagli uffici della Direzione investigativa antimafia di Napoli una copia delle intercettazioni dell’indagine che, nel suo avvio e senza alcuna ironia, gli investigatori chiamavano Magnanapoli. Dicono fonti vicine all’inchiesta che ora il boccino ce l’hanno in mano un paio di "barbe finte" - di spioni - che distillano veleni con almeno tre obiettivi ormai espliciti. 1. Azzoppare un’inchiesta che, presto svelerà come sinistra e destra, governo cittadino e opposizione consiliare vivono, a Napoli, d’amorosi sensi quando si discute e si decide di appalti e affari. 2. Regolare qualche conto in sospeso tra le burocrazie della sicurezza. 3. Soffiare «per input politici e gerarchici» il nome di innocenti, incappati nelle intercettazioni telefoniche, per farne colpevoli da sbattere sui giornali. Bisogna allora cominciare da qui - dalla disinformazione - per diradare qualche nebbia. L’operazione consente di vedere all’opera le manine galeotte, gli utilizzatori en plein air, i virtuali beneficiari, gli sventurati target.

Uno sventurato target è Antonio Di Pietro. Suo figlio Cristiano, 34 anni, al tempo consigliere provinciale di Campobasso, si mette in contatto con Mario Mautone, provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise. Mal gliene incolse. I comportamenti di Mautone sono già al centro dell’inchiesta di Napoli. Iperattivo, interlocutore favorito di amministratori, politici, imprenditori, amico giovialissimo di questori, generali e magistrati. E’ settembre dello scorso anno. Una manina consegna al senatore Sergio De Gregorio (partito delle libertà) la notizia che Cristiano Di Pietro è «indagato dalla procura di Napoli in un’inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto in Molise». La notizia farlocca viene rilanciata dal Giornale, che ancora ieri ostinatamente la ripubblica. Raccontano che, di quelle intercettazioni, venga a conoscenza anche Silvio Berlusconi; che venga sollecitato a utilizzarle come una mazzuola sulla testa del suo «nemico» storico (Di Pietro) e contro il partito democratico (governa Napoli e la Campania da quindici anni). Il premier non ne fa nulla. L’uomo ha un felice intuito perché la storia, come gliela raccontano, è bugiarda. E’ vero, il giovane Di Pietro - intercettato - discute con Mautone della sorte di un paio di caserme dei carabinieri in Molise. «Più che correttamente», dicono oggi fonti vicino all’inchiesta. Il padre, Di Pietro il vecchio, Antonio, in quei mesi ministro delle Infrastrutture, ha il cattivo carattere che ha - si sa - e al primo stormir di foglie dell’indagine rimuove Mautone sottraendogli l’autonomia di provveditore per consegnarlo a un incarico non operativo al ministero. «Mi sono sempre comportato così - dice ora Di Pietro - Se sapevo che la magistratura stava valutando la correttezza dei comportamenti di un alto dirigente lo destinavo a un incarico non operativo - è accaduto in cinque, sei occasioni - nell’interesse del ministero, della giustizia, del dirigente indagato o soltanto coinvolto nell’indagine». Fonti vicino all’inchiesta confermano che Di Pietro si è comportato in questa storia con «esemplare correttezza».

Il venticello calunnioso soffiato contro il leader dell’Italia dei Valori è analogo all’aria venefica che le "barbe finte" sbuffano contro il colonnello Gaetano Maruccia (comandante provinciale dei carabinieri) e il generale Vito Bardi (comandante regionale della Guardia di Finanza in Campania). Li dicono, con il questore Oscar Fiorolli, indagati, compromessi dall’amicizia e rovinati dagli interessi opachi del provveditore. In realtà, i nomi dei militari saltano fuori nelle conversazioni telefoniche, ma in maniera neutra. Bardi e Maruccia prendono subito il largo da quel tipo, Mautone. Fiorolli, più amichevole e frivolo, si attarda a frequentarlo, ma non fino al punto di lasciarsene coinvolgere, a quanto pare.

E’ tra questi miasmi e veleni che precipita Giorgio Nugnes. Nelle ultime ore, prima del suicidio si aggira tra le redazioni dei giornali. Determinato a scrollarsi di dosso ogni accusa, chiede ai cronisti che apprezza: «Ma perché anche i servizi segreti indagano su di me?». Ipotizzano gli investigatori che Nugnes, nella notte tra venerdì e sabato 29 novembre, possa essere stato avvicinato dalle "barbe finte", pressato, minacciato con false notizie fino al punto che l’uomo ha ceduto di schianto la mattina dopo, impiccandosi. Se queste supposizioni dovessero trovare conferma, più che di un «nuovo Enzo Tortora», come suggerisce Francesco Cossiga, Giorgio Nugnes sarebbe la vittima di una stagione di veleni che era sconosciuta a Napoli, città più facile al melodramma e al buffo che alla tragedia.

Sgombrato il campo dal loglio, resta il grano ed è grano molto guasto. Comunque vada, quando le conversazioni telefoniche diventeranno pubbliche, della giunta di Rosa Iervolino resterà soltanto polvere per le prassi di governo, l’etica che le ispira, gli interessi personali protetti, la rete di potere non trasparente e trasversale che quei colloqui portano alla luce.

L’inchiesta giudiziaria trova il suo focus in un triangolo. Il provveditore alle opere pubbliche; cinque assessori; l’imprenditore Alfredo Romeo. Sullo sfondo, a Roma, i rapporti «tutti ancora da chiarire» con politici nazionali, tra cui Renzo Lusetti (Pd), Nello Formisano (IdV), Italo Bocchino (PdL). Il "triangolo" di interessi è alle prese con un global service, un progetto di gestione integrata delle proprietà della pubblica amministrazione. Rosa Iervolino lo presentò pubblicamente nella primavera del 2007 come «un regalo per Giorgio Napolitano che trascorre qui la Pasqua». Il piano, «in una visione unitaria», avrebbe dovuto «valorizzare il patrimonio pubblico, dagli immobili alle strade, dai palazzi monumentali a quelli di edilizia residenziale». E’ un appalto che i protagonisti istituzionali e amministrativi - Mario Mautone, il provveditore; Enrico Cardillo, l’assessore al bilancio (ora dimissionario); Giorgio Nugnes, dimissionario dall’assessorato alla protezione civile - cuciono come una giacca ben tagliata sulle spalle di Alfredo Romeo. A quanto pare, le indagini non svelano «cavalli di ritorno», mazzette che premiano la corruzione - se non pallide tracce, tutte ancora indagare - ma le fonti di prova raccolte, per la procura, sono adeguate a dimostrare la fraudolenza della gara e, quindi, la richiesta di misure cautelari - in soldoni, di arresti - inviata al giudice per indagini preliminari che, se fa in fretta (ha l’incarto da luglio), potrebbe decidere anche prima di Natale. Turbativa d’asta, dunque. Il reato non è esplosivo. Esplosive sono le conversazioni che dimostrano quanto il parolaio guerresco del confronto pubblico tra destra e sinistra sia, a Napoli, soltanto una mascherata. In realtà, ogni rivolo della spesa pubblica si decide in un compromesso utile a proteggere gli interessi personali, la rendita politica, le quote di consenso di ciascun partito. Una realtà politico e amministrativa che trova la sua conferma nel sostegno di Forza Italia alla giunta Iervolino in occasione del bilancio, nella protezione che alla Regione Silvio Berlusconi offre al pericolante Bassolino.

L’equilibrio amministrativo e istituzionale non è costruito per l’interesse pubblico, con l’urgenza di lavorare insieme per far fronte alle gravi criticità della Campania, alla crisi profonda della città, ma intorno alla corruzione, al clientelismo, per usare le formule del capo dello Stato. Forse informato per rispetto istituzionale (il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore smentisce), Giorgio Napolitano ha anticipato (se si hanno orecchie per ascoltare) le ragioni della prossima crisi politica che travolgerà, con l’inchiesta giudiziaria, l’amministrazione e il ceto politico cittadino. Lo ha fatto così: «E’ assolutamente indispensabile che cambino i comportamenti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso della risorse disponibili con il peso delle intermediazioni improprie che possono ricondursi a forma di corruzione e clientelismo, interferenza e manipolazione. (Bisogna) mettere in discussione la qualità della politica, l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e l’impegno a elevare il grado complessivo di coscienza civica». A buon intenditore, poche parole.

L’ex Garante della Privacy è impegnato per una “carta dei diritti” della Rete: «Ma si devono garantire le libertà, non limitarle».

Della dichiarazione di intenti fatta dal premier Berlusconi Stefano Rodotà non è al corrente: si trova in India proprio per partecipare all’”Internet Governance Forum” promosso nell’ambito delle Nazioni Unite. L’ex Garante della Privacy, giurista e docente universitario, è uno dei “padri” della proposta di dotare la Rete di una “carta dei diritti” a garanzia della stessa comunità internettiana. Nel 2006 l’iniziativa è stata presentata al Parlamento Europeo con la partecipazione del ministro della Cultura brasiliano Gilberto Gil.

Professore, il tema di regolamentare Internet esiste?

«Esiste da anni il tema di una Costituzione per Internet. Una sorta di bill of rights, come lanciato nel 2005 dalla Conferenza di Tunisi. Ma lo spirito deve essere quello di garantire le libertà fondamentali e non di introdurre forme di controllo».

Non sembra la stessa forma mentale che anima il premier.

«Infatti si tratta di due visioni profondamente diverse. Noi discutiamo da tempo per rafforzare le “coalizioni dinamiche” che si creano in modo spontaneo in Rete a garanzia di tutti e perché il bill of rights passi attraverso una discussione della comunità internettiana».

Quindi, le regole devono provenire dal basso?

«Esattamente. Anche se io non parlerei di regole che fanno pensare all’”ingabbiare”. Due sono i punti fermi. Il primo è che si deve intervenire non per restringere bensì per garantire le libertà. Il secondo è di non imporre regole dall’alto ma conformemente alla natura della Rete attraverso un processo aperto e condiviso».

E una legge del Parlamento servirebbe allo scopo?

«Ora non ci sono le condizioni. Oggi vedo molti tentativi di ridurre le libertà online per motivi economici, commerciali, di sicurezza...»

O, come in Cina, per motivi repressivi.

«Infatti. Ed è tanto più necessario tutelare la libertà di espressione. La dichiarazione dei cyber-diritti deve rafforzarsi con un processo a partecipazione allargata».

Quale deve essere dunque l’impostazione corretta per stabilizzare il mondo virtuale?

«Ritengo che la via corretta sia quella che stiamo seguendo. Un’impostazione che pensi Internet come un luogo pericoloso sarebbe da un lato un errore e dall’altro provocherebbe fortissime reazioni del popolo di Internet».

Ci sono già. Siti autoscurati, blog in fibrillazione.

«Nel momento in cui c’è un movimento che si va consolidando e sta acquistando riconoscibilità da parte dell’Onu e della Ue, non dobbiamo andare in direzione opposta. È importantissimo convincere la comunità di Internet che servono regole positive».

A cosa porterebbe una legislazione globale sulla Rete?

«La dimensione in cui ci muoviamo è uno spazio globale dove la legislazione nazionale non basta. L’attitudine tipica di tutti i regimi autoritari è frenare le manifestazioni di libertà su Internet. Da Pechino a Singapore, gli stati che cercano di mettere le mani su Internet lo fanno perché offre al dissenso possibilità inedite. Non dimentichiamo che dalla Birmania, nei giorni della repressione, filtravano online notizie superando la rigida censura. Andare in senso opposto sarebbe assolutamente inaccettabile».

L’Italia non è la Cina. Quali sono i rischi di regolamentare Internet per un paese democratico?

«Certo che non lo è. Ma proprio perché l’Italia è in primissima linea nel rafforzare le garanzie per chi naviga, dico che va benissimo se il governo vuole unirsi a questo fronte. Andare in senso opposto invece sarebbe assolutamente inaccettabile».

La cronaca

di L.Ci.

ROMA - Un iter velocissimo, al riparo anche dagli intoppi giudiziari, per le opere pubbliche «prioritarie per lo sviluppo economico del territorio nonché per le implicazioni occupazionali». È questo l'obiettivo dichiarato dell'articolo 20 del decreto anticrisi in vigore da sabato dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. La nuova procedura, che dovrebbe anche permettere di evitare, insieme alla sospensione dei lavori, la perdita dei relativi fondi europei, prevede essenzialmente due novità: la nomina per queste opere di un commissario che potrà sostituirsi alle amministrazioni interessate e l'impossibilità per il Tar di fermare i favorì in caso di ricorso contro gli atti del commissario stesso.

In realtà la presenza di un commissario che vigili sulla realizzazione di infrastrutture non è una novità assoluta. Solo che finora era possibile di l'atto solo come extrema ratio per riavviare opere bloccate. Ora invece nelle intenzioni del governo dovrebbe diventare uno strumento quasi normale.

Dunque con lo stesso decreto la presidenza del Consiglio dei ministri individuerà le opere strategiche e i relativi commissari, indicando i tempi di realizzazione e il relativo quadro finanziario. Al commissario toccherà vigilare su tutto ciò, in particolare sulle autorizzazioni e sulla stipula dei contratti, con l'obiettivo di garantire il rispetto dei tempi. Ma non si tratta di semplice vigilanza: avrà anche poteri sostitutivi e quindi potrà adottare gli atti che toccherebbero alle amministrazioni interessate, qualora queste non lo abbiano fatto. Se poi si renderà conto che le opere non possono essere realizzate, il commissario proporrà al ministro competente o al presidente della Regione la revoca dei finanziamenti.

L'operato del commissario godrà poi di una corsia assolutamente preferenziale in sede giudiziaria. 1 tempi per presentare ricorso al Tar contro i suoi atti (che erano già brevi in base alle preesistenti norme in materia) vengono drasticamente accorciati. Le relative sentenze potranno essere redatte in forma semplificata (quindi senza bisogno di troppe motivazioni). Ma soprattutto, le m isure cautelari adottate dal tribunale c l'eventuale annullamento dei provvedimenti non potranno sospendere i contratti già firmati e quindi l'esecuzione delle opere. Il caso principale a cui il governo si è ispirato è quello dell'impresa che esclusa dall'appalto fa ricorso: non potrà più ottenere il blocco dell'opera, per poter rientrare in caso di sentenza favorevole: se il tribunale gli darà poi ragione avrà diritto solo ad uri risarcimento del danno, non superiore all'utile effettivo che avrebbe conseguito, in base all'offerta presentata, se fosse risultato aggiudicatario. (L. Ci.)

Il “modello Bertolaso” e la cultura del fare

di Mario Ajello

Sbloccare l'Italia si deve. Forse si può. Come? Nei, venti articoli e dieci commi del pacchetto anti-crisi di Trernonti, spunta l'istituzione d. una figura fondamentale per la ri-partenza dell'Italia sulla base della cultura del decidere e del fare, troppo a lungo latitante in queste contrade. Ovvero, il Comissario per le opere pubbliche Viene da considerarlo, a colpo d'occhio, una sorta di Bertolaso che invece di occuparsi di rifiuti - nel caso napoletano con successo, compreso quello di aver fatto cooperare per il meglio il governo centrale con quello regionale e cori quello comunale - si concentra si il controllo delle infrastrutture. Svolgendo il ruolo di decisore, di. facilitatore, di nemico "armato" - la sua arma è l'autorità dello Stato contro i veti e i contro-veti e i conflitti di competenze e i ricorsi e i ritardi burocratici che bloccano la costruzione di autostrade, Tav, impianti energetici... L'economista Fiorella Kostoris Padoa-Schioppa sta studiando il documento tremontiano e quando arriva ai commi due e tre, in cui si parla del Commissario per le opere pubbliche, si. esalta: «Questa è una grande svolta. Anche di tipo culturale. .Nell'idea di istituire questo tipo di figura, c'è l'etica dei risultati: C'è la cultura del fare da. opporre alla cultura delle buone intenzioni».

Poi, ovviamente, si tratterà di vedere chi verrà scelto per questo incarico delicatissimo. «Uno con le doti di Bertolaso sarebbe perfetto», dice l'economista e senatore del Pd, Nicola Rossi. Aggiunge. «Mi sembra, inoltre, positivo ciò che il governo sta facendo sui fondi comunitari per le grandi opere. Cioè concentrarli su pochi obiettivi strategici, invece di parcellizzarli in mille rivoli». Stando al testo tremontiano, il nuovo Commissario dovrò rispondere direttamente al ministro e gli deve spiegare perché quella tale opera e in ri tardo e chi e come la sta bloccando. Ciò significa che il Commissario a un obbligo di risultato In più, egli deve chiedere al ministro di revocare l'assegnazione delle risor se, per un'infrastruttura che non procede, a chi le dovrebbe utilizzare. Decisionismo «Speriamo di sl», osserva la Kostoris Padoa-Schioppa: «E’ questo che ci vuole: il ritorno dell'autorità dello Stato. E in più, una condivisione politica del valore che può avere questa figura. Perchè la modernizzazione italiana ha bisogno di una fiducia larga». Giuseppe Roma, del Censis, è meno entusiasta- «Temo che questo Comissario possa rappresentare un potere in più, in un campo ciel quale i poteri sono già tantissimi». Complica invece di facilitare? Non credo», obietta l'economista Antonio Pedone: «Anzi, il Commissario si potrebbe rivelare utile nella mediazione, che poi però deve partorire per forza e in. tempi brevi urla decisione, con le comunità locali»Che spesso sono in preda alla sindrome del Nimby (not in my backyard: ovvero costruite lontano dal mio cortile)- Contro questa malattia parzializzante in Inghilterra, è stata varata la «legge anti-proteste». Una sorta di pugno di ferro contro chi blocca la. costruzione di tutto. Ma da noi, il nuovo Commissario non sarà uno sceriffo. Può rappresentare invece l'antidoto a quella che Nicola Rossi. chiama «l'eterna immobilità italiana»- «II nostro Paese-.spiega il senatore democrat - è fondato .sull'immobilità delle persone, dei beni., dei mezzi. La sfida., trasversale., è quella di rimettterlo in moto».

Il giuslavorista Michele Tiraboschi è ancora più netto: «Il nuovo Commissario è un'ottima idea. Va riportato ordine in una situazione nella quale, a causa. ;della riforma del Titolo V della Costituzione, le competenze sulle opere pubbliche sono sparpagliate fra troppa soggetti. Risultato: la deresponsabilizzazione e la paralisi. Serve, invece, una persona che dia le linee strategiche, faccia da regista.. operi la sintesi sul territorio. Uno Stato autorevole, che prende decisioni, trasmette nei cittadini il valore della fiducia». La .fiducia, quella nel futuro, ha il diritto si sfrecciare sottoterra, sopra ai ponti, sulle autostrade, sulle, ferrovie. Basta che si facciano. E ad alta velocità.

Dopo l’annuncio al G20 di Berlusconi del pacchetto anticrisi di 80 miliardi, il ministro Matteoli è stato categorico: “Entro sei mesi la partenza dei lavori per il completamento del corridoio autostradale tirrenico insieme al finanziamento di interventi per rilanciare l’economia per un valore di 16,6 miliardi”.

L’elenco delle opere non è una novità, sono da anni nella lunga lista della delibera CIPE del 21 dicembre 2001 con la quale è stato definito il piano decennale della “legge obbiettivo”. Il costo complessivo del piano è stimato in 174 miliardi di euro. Le risorse che ad oggi sono state stanziate ammontano a 60 miliardi di euro pari quindi ad appena il 34% del costo complessivo, mentre le opere che sono state “cantierate” sono solo il 9%. Non c’è male per un piano decennale al settimo anno di attuazione e la promessa del punto 5 del contratto con gli italiani che impegnava il Premier al cantieramento del 40% del piano al quinto anno.

Con l’ultimo Dpef, luglio 2008, il Ministro ha però promesso una forte accelerazione del piano e indicato le opere prioritarie per le quali vi è l’impegno alla apertura rapida dei cantieri.


Elenco delle opere prioritarie della legge obbiettivo secondo il Dpef 2009-2011: “Impegno ad aprire i cantieri per:”
La realizzazione dell’asse ferroviario Torino-Lione
La realizzazione del Terzo Valico dei Giovi sul collegamento ferroviario AV Milano-Genova
La realizzazione dell’asse ferroviario AV Milano-Verona
La realizzazione dell’asse ferroviario AV Verona-Padova
La realizzazione dell’asse autostradale Brescia-Bergamo-Milano (BreBeMi) e della Tangenziale Est di Milano (TEM)
La realizzazione dell’asse autostradale Cecina-Civitavecchia
La realizzazione dell’asse autostradale Roma-Formia
La realizzazione del Ponte sullo Stretto
Dare continuità alle opere del Mose
Dare continuità alle opere del Brennero

Per il momento l’impegno solenne per il corridoio tirrenico, con la Cecina-Civitavecchia particolarmente a cuore, pare essere disatteso. Fra le opere candidate all’apertura dei cantieri, quelle finanziate con il pacchetto anticrisi sono la BreBeMi, il Ponte sullo Stretto ed il Mose, alle quali si aggiungono 4 assi Autostradali, una Superstrada ed una tratta della Ferrovia Messina-Catania.


Opere candidate al finanziamento all’interno del pacchetto anticrisi da 80 miliardi annunciato al G20 da Berlusconi Finanziamenti ipotizzati
Autostrada Pedemontana Lombarda 4.115
Autostrada Brescia-Bergamo-Milano 1.580
Autostrada Brescia- Padova 1.650
Mose 900
Autostrada Parma-La Spezia 1.800
Autostrada Salerno-Reggio Calabria 2.700
Superstrada Ionica 265
Ponte sullo Stretto 700
Ferrovia Messina-Catania 1.970
Altre opere 987
Totale 16.667

Volendo prescindere dalla utilità delle opere candidate al finanziamento, ovviamente tutta da dimostrare, tutt’altro che comprensibile appare il riferimento al valore anticrisi che ne ha motivato la scelta e la stessa provenienza delle risorse.

Ben 7,367 miliardi provengono dal FAS (Fondo per le aree sottoutilizzate), grazie alla riprogrammazione del fondo imposta alle regioni con l’articolo 6-quinques della legge n.133/2008 (manovra finanziaria di agosto). Sono dunque risorse, come hanno detto alcune Regioni, “scippate” a programmi strategici in alcuni casi già in corso. Vengono infatti azzerati o spolpati, per citare solo alcuni titoli, Programmi strategici per l’Istruzione, per le Risorse Umane, per la Società dell’informazione nella Pubblica Amministrazione, per l’Ambiente, la Sicurezza, le Risorse naturali e culturali, le Reti e servizi per la mobilità, l’internazionalizzazione, il Progetto straordinario della protezione civile per le aree a rischio, il Progetto salute, sicurezza e sviluppo nel Mezzogiorno del Ministero del Lavoro.

Le altre risorse del pacchetto anticrisi, 9,300 miliardi , sono in realtà l’ammontare del valore delle concessioni autostradali già assentite e sulle quali il Cipe, nell’ambito delle procedure speciali della legge obbiettivo, ha già approvato i progetti preliminari, con la copertura delle risorse pubbliche necessarie, che sono meno di un terzo. Ad esempio per la Pedemontana lombarda, 4,115 miliardi, il finanziamento pubblico è di 1, 245 miliardi mentre i restanti sono investimenti cosiddetti privati che vengono recuperati con la concessione ultratentennale già attribuita a Pedemontana lombarda spa.

Ancora più incomprensibile è la scelta delle opere finanziate proPrio in relazione alla efficacia anticiclica. Dei nove interventi del cosiddetto pacchetto anticrisi, nessuno produrrà l’apertura di cantieri a breve, essendo, per tutti gli interventi, previsto l’affidamento a “contraente generale”. Per le 19 grandi opere della legge obbiettivo affidate con questo istituto contrattuale, il tempo trascorso tra la pubblicazione del bando di gara e l’avvio dei lavori registra una media di ben 4,2 anni. Solo due interventi del pacchetto anticrisi hanno già visto l’espletamento e l’aggiudicazione della gara: la Pedemontana, che prevede l’apertura del primo cantiere nel marzo 2010 ed il Ponte sullo stretto ma, in questo caso, siamo addirittura al solo finanziamento degli espropri. Dunque, il valore anticiclico di questo pacchetto è praticamente inesistente.

Ai tempi richiamati per l’avvio dei lavori, vanno però aggiunte le facili previsioni sui tempi di esecuzione e sui costi finali delle opere. Se per le 19 grandi opere affidate dopo il varo della legge obbiettivo non abbiamo dati a consuntivo, è però noto che la definizione del “contraente generale”, data dalla legge obbiettivo, è esattamente quella che si è attuata per la realizzazione delle infrastrutture per l’Alta Velocità, sulle quali invece, i dati sono ormai consolidati.

La Corte dei conti ha segnalato ripetutamente, nelle sue relazioni annuali, i limiti di questo istituto contrattuale. Recentemente è intervenuta anche l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici che, per la tratta di Alta Velocità Firenze-Bologna, ha segnalato la crescita abnorme da un valore iniziale di 1.053 milioni di euro a 4.189 milioni di euro alla data del 31 luglio 2007, evidenziando altresì per la chiusura dei cantieri, prevista nel 2009, varianti non ancora contrattualizzate per un importo di ulteriori 750 milioni di euro.

Non è dunque un caso che la prima grande impresa italiana non si trovi nemmeno fra le prime 50 imprese europee mentre pochissime grandi imprese italiane a malapena entrano fra le prime 200 europee. Proprio l’istituto contrattuale del contraente generale infatti, consentendo di sub-affidare liberamente a terzi tutte le attività sia di progettazione che di esecuzione dell’opera, ha prodotto una straordinaria accelerazione del fenomeno delle cosiddette scatole vuote, con lo svuotamento tecnico e tecnologico della grande impresa italiana. Nella più grande impresa italiana, secondo i propri dati di bilancio, il costo del lavoro dipendente ha un peso di solo il 3% sul totale dei costi aziendali. Nelle prime dieci imprese italiane si registra una media del costo del lavoro dell’8%, mentre nelle prime 10 imprese europee questo stesso dato va da un minimo del 14% ad un massimo del 25%.

Se si pensa di contrastare la crisi con queste opere, affidate a queste pseudo imprese, non è solo incomprensibile, ma semplicemente demenziale. Ma sono dementi o bugiardi?

"Meritocrazia" è la parola magica che pare ai più capaci di liberare la società italiana dalle sue croniche aberrazioni. Se il merito venisse davvero riconosciuto, si dice, la nostra società si emanciperebbe dai lacci del nepotismo e del clientelismo.

Come recita il sottotitolo del libro di Roger Abravanel sulla meritocrazia, questa è la ricetta per valorizzare il talento e rendere il paese più ricco e più giusto. Wikipedia definisce la meritocrazia come un sistema di governo o un´organizzazione dell´azione collettiva basato "sull´abilità dimostrata" e sul "talento" piuttosto che su "ricchezza ereditata, relazioni familiari e clientelari, nepotismo, privilegi di classe, proprietà o altri determinanti storici di potere politico e posizione sociale". John Rawls avrebbe sottoscritto questa definizione. Tuttavia resta difficile da spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto perché è impossibile stabilire con rigore e certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra di capire che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale ovvero dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi riceve i frutti o è influenzato dall´operato.

Il giudizio rispetto al merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all´utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico, ovvero al riconoscimento pubblico. Nel merito entrano in giuoco non soltanto le qualità intrinseche e morali della persona, ma anche quella che per Adam Smith era una simpatetica corrispondenza tra i partner sociali. Per questo i teorici moderni della giustizia hanno sempre diffidato di questo criterio se usato per distribuire risorse. Non perché non pensano che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché mettono in guardia dallo scambiare l´effetto con la causa: è l´eguaglianza di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un´eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.

Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere quanto necessari fossero i programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali parte con dei lacci alle caviglie. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell´altro competitore. Ecco perché a meno che non si azzerino le relazioni sociali e non si rifondi daccapo la società civile non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi dell´ingiustizia senza preoccuparsi di vedere con quali mezzi i concorrenti si apprestano a competere.

Parlare di merito senza intaccare i residui storici e naturali che condizionano le prestazioni individuali è a dir poco capzioso. Nella condizione in cui la nostra società si trova attualmente è davvero difficile che il riconoscimento del merito sia un fattore di imparzialità o giustizia. Ne parlava su questo giornale alcune settimane fa Adriano Sofri. L´appartenenza di classe, sempre più determinante nell´accesso a buone scuole e quindi a una buona occupazione (a un lavoro che piace non semplicemente a un lavoro necessario) rende il discorso sulla meritocrazia non proprio cristallino e la gara una gara chiusa, avvantaggiata già alla partenza o truccata.

Perché questo lungo discorso sul merito? Perché in questi giorni di sacrosanta denuncia delle aberrazioni che si annidano in molte università italiane potrebbe venir spontaneo pensare che l´unica soluzione per curare il malato di corruzione sia sottoporlo al salasso delle risorse. Per curare una università che non seleziona per merito occorre togliere i finanziamenti: questo è quanto da più parti si dice con più frequenza, portando acqua al mulino governativo in maniera più o meno diretta. Nell´età premoderna si pensava che il modo migliore per guarire un malato fosse quello di salassarlo per togliergli il sangue cattivo e si finiva per far morire il malcapitato proprio con l´intento di salvarlo. Il corpo non rinvigorisce togliendogli il cibo, ma dandogli cibo buono. Non si tratta di una terapia veloce, ma è l´unica terapia ragionevole. Non esiste una giustizia rapida, come i sognatori della meritocrazia sembrano credere. E quindi non è tagliando i finanziamenti che si può pensare di risanare l´università, il luogo dove i talenti cercano alimento. Anche perché la politica dei "meno soldi" non si traduce necessariamente in "più onestà". Occorre invece far sì che i soldi siano meglio spesi e che siano messi in atto sistemi di controllo che controllino davvero (con anche l´uso del codice penale se necessario) e sistemi di reclutamento efficaci e non corrotti.

Ma non ci si faccia illusioni sulla celerità della cura. Perché è evidente che la questione del merito non è né neutra né di semplice procedura. Essa è prima di tutto una questione di etica ? di chi valuta e di chi è valutato, dei sistemi di valutazione e, in primo luogo, di chi li escogita e chi li fa funzionare. Non basta enunciare che occorre seguire il criterio del merito (e quale altro se no?), occorre davvero seguirlo sempre. Per esperienza devo dire che spesso anche chi esalta il merito non è poi sempre pronto a onorarlo perché la logica del sistema ha più forza di quella del merito e dell´onestà. Non è questa la ragione per la quale è così difficile che un esterno vinca una competizione nell´accademia italiana? Se la questione del merito è una questione di eguali opportunità e di etica pubblica o di responsabilità, allora, per sconfortante che la cosa possa apparire, non consente soluzioni veloci e facili. Anche se è comprensibile che di fronte alla notizia scandalistica (ma per nulla nuova) di cattedre destinate a parenti e amanti (o ad allievi fedeli, una categoria altrettanto aberrante, eppure molto in uso) e ai finanziamenti statali elargiti a università private di ogni tipo e luogo (uno sperpero del denaro pubblico di cui si parla troppo poco), viene sacrosanta la reazione di volere azzerare tutto togliendo le risorse. Ma si può voler creare indigenza per sconfiggere il furto?

Il Forum, un mare di connessioni. Il movimento per l'acqua monta come una di quelle lunghissime onde oceaniche che, dopo la raccolta di 400 mila firme e un corteo di 40 mila persone, sta ancora accumulando forza. Non c'è nessun riflusso in vista, pur dopo tanti anni. Fra Roma ed Aprilia dal 21 al 23 novembre centinaia di attivisti discuteranno progetti e campagne per il 2009. E un'onda non può che essere felice in mezzo ad altre onde, come quella del movimento per la scuola e l'Università pubblica. Sarà proprio una studentessa ad intervenire in apertura del secondo Forum italiano dei movimenti per l'acqua, incarnandone lo spirito, rappresentando la connessione dei tanti tasselli del mosaico: la connessione con l'esperienza di studenti, genitori, insegnanti, ricercatori e precari che ridisegnano un'idea di sapere come bene comune, ma anche con i movimenti che si occupano d'energia o rifiuti, di trasporti, casa o sanità. Molti di noi, cresciuti negli spazi del Forum Europeo e del Forum Mondiale, da tempo sono in cammino verso un'alleanza sociale: onda su onda, inizia a prendere forma il mare dei beni comuni.

Spa & Fondazioni: la commercializzazione della cittadinanza. La riforma di scuola e Università è sia un insieme di tagli pesantissimo, per cui si stenta a definirla una riforma, sia l' attuazione di un processo di privatizzazione, per cui è effettivamente un autentico disegno di riforma. Il progetto delle Fondazioni universitarie è il corrispettivo strutturale delle Spa per la gestione dei servizi pubblici, contro cui si battono da anni i nostri movimenti. Fondazioni di cui s'è innamorata tanto la destra quanto la sinistra, proprio come fu corale l'amore per le Spa. E' il progetto di commercializzazione assoluta di beni e servizi. Poteri privati e poteri politici ("ex pubblici", per così dire) costruiscono oggi un'ampia area di sovrapposizione reciproca, posta al di là della democrazia e di ogni possibile controllo da parte dei cittadini. Si tratta infatti di processi di commercializzazione in cui le corporazioni politiche mantengono una salda presenza. Certo è che sfera pubblica e democrazia vengono così triturate e annientate, e la partecipazione dei cittadini diviene impossibile.

Ogni fase di privatizzazione è preceduta da forti tagli al finanziamento dei servizi pubblici, che ne peggiorano la qualità e preparano il consenso sociale all'ingresso dei privati. Naturalmente adesso è il turno di scuola e Università, in attesa di mettere la mani sulla sanità. Tremano da anni i beni comuni naturali (come l'acqua) e sociali (come la conoscenza), materiali o immateriali, squassati da un terremoto fattosi più potente con la globalizzazione privatista. E' un progetto eversivo, che fa implodere l'idea di cittadinanza, commercializzando e privatizzando il suo stesso contenuto: non siamo più cittadini con eguale accesso a beni comuni e servizi pubblici essenziali, non più cittadini con effettivi ed eguali diritti sociali, ma semplici consumatori o clienti, atomi solitari in competizione fra loro.

La crisi economica ed il loro progetto di modernità. A maggior ragione in epoca di recessione, di tempeste borsistiche e di riduzione del potere d'acquisto dei salari, i privati sono alla ricerca di settori "protetti" in cui valorizzare il capitale. E non c'è niente di più sicuro che entrare nella gestione di beni e servizi di cui le persone non possono fare a meno: rinuncerò ad un nuovo modello di cellulare, non ad aprire il rubinetto dell'acqua. Insomma, servizi in cui la domanda è garantita e relativamente rigida. Ha scritto Marco Vitale, con un certo ottimismo, su Il Sole 24 Ore: "avevano detto che bisognava privatizzare ogni cosa, unica via per salvarci dalla inefficienza dello Stato. Ora che i governi americano e inglese devono ripetutamente intervenire per salvare privatissime banche in fallimento e l'intero mercato, sappiamo che non è vero. (...) Come sempre, dunque, quando si verificano grossi sconquassi economici, stiamo assistendo al tramonto di un'intera concezione, di un sistema di pensiero." Ma purtroppo, oggi, gli stessi autori del disastro ci vogliono invece ammannire un audace "socialismo rovesciato", trasferendo nuovi e generosi flussi di denaro pubblico ai privati attraverso il sostegno alle banche, attraverso i tagli e la messa sul mercato dei servizi pubblici. Per anni ci è stato ripetuto che nulla poteva essere investito in scuola o ospedali, in ricerca o acquedotti: il debito pubblico incombeva. Ora che un giganteso debito privato travolge tutto e tutti, lo si vuol impunemente trasformare in ulteriore debito pubblico, che i cittadini dovranno pagare con nuovi tagli ai servizi e con privatizzazioni selvagge.

Ma è pur vero che il re è nudo e che tutti conoscono l'enorme indebitamento -delle famiglie, delle banche e ovviamente dello Stato stesso- che è base e risultato del tanto magnificato modello Usa: un'economia di crescita per la crescita basata sul debito, sulla depredazione degli altri paesi (risorse, merci, capitali, energia) e su strumenti finanziari criminali. Oltreoceano tutti credevano di essere ricchi, invece erano ladri e pure indebitati. Coloro che poi hanno guadagnato cifre inimmaginabili grazie a bolle finanziarie o immobiliari e - a lor giudizio- grazie a straordinarie doti e talenti individuali, adesso chiedono che i cittadini meno talentuosi paghino le loro perdite. Infatti, come hanno ben riassunto gli studenti nel loro slogan, il punto è semplice: chi pagherà oggi tutto questo? Un simile mostruoso sistema economico-finanziario è stato dipinto fino a ieri come il non plus ultra della modernità, proprio come sono moderne le Spa per gestire i servizi pubblici e ancor più moderne le Fondazioni universitarie: modelli di efficienza, efficacia ed economicità, sempre secondo i nostri talenti dell'economia. Insomma, non è esagerato dire che l'Italia, con gli Stati Uniti di Bush (di Obama chissà), è uno zoccolo duro a livello planetario, un paese che sembra ostinarsi ad inseguire questa decrepita modernità, fin oltre l'orlo del baratro. Limitiamoci a qualche esempio sull'acqua: mezza America Latina scaccia le multinazionali a furor di popolo e costituzionalizza il diritto all'acqua come diritto umano; la città di Parigi estromette le multinazionali dalla gestione del servizio idrico e lo ripubblicizza (per inciso: la "rossa" Toscana è pronta ad accogliere a braccia aperte le esiliate in patria Suez-Veolia, assieme ad Acea Spa di Alemanno & Caltagirone); al prossimo Forum Mondiale Alternativo dell'Acqua di Istanbul, nel marzo 2009, il Presidente dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite compirà uno storico gesto, uscendo dal Forum ufficiale per venire a sostenere le posizioni del nostro contro-Forum, per affermare l'acqua come diritto e non come merce.

Un maremoto contro la legge 133. E in Italia cosa accade, per l'appunto? Qui ci servono la legge 133, con il suo articolo 23 bis che impone la sostanziale privatizzazione del servizio idrico integrato, da definirsi "servizio di rilevanza economica" e non più servizio di interesse generale. Gli enti locali non potranno decidere, perchè il mercato - per mezzo del Gran CDA che governa il nostro paese- ha deciso per tutti: l'acqua deve produrre profitti e i cittadini devono farsi clienti. Ma oggi il mare è pieno di onde. Studenti, attivisti dell'acqua e dei beni comuni possono scatenare un maremoto contro la legge 133: un progetto fatto di tagli alla scuola, di corporatizzazione dell'Università per mezzo di Fondazioni, di moltiplicazione di Spa e Multiutilities per la gestione dei servizi pubblici. Una legge che il governo dovrà rimangiarsi molto prima di quanto possa immaginare. In tanti spazi e luoghi del paese è in costruzione il nuovo orizzonte dei beni comuni, da sottrarre al mercato, e che tiene assieme elementi necessari per la vita biologica, come l'acqua, ed elementi fondamentali per una vita umana dignitosa, come la conoscenza e i saperi. C'è vita sotto la cenere e c'è un'uscita a sinistra rispetto al disastro economico e finanziario del privatismo. Insomma, questa crisi di sistema può essere un' occasione di rinascita o forse di semplice nascita. Vi aspettiamo al Forum.

Il congresso del Partito socialista francese, che sancisce la spaccatura a metà fra Ségolène Royal e Martine Aubry, è significativo. La stampa ha strillato che si trattava soltanto di una contesa fra persone, è stata invece una battaglia feroce fra due concezioni del partito, delle sue priorità e del suo funzionamento che non hanno più nulla in comune.

Martine Aubry, che è figlia di Jacques Delors e da sempre socialdemocratica, ha tentato di tenerlo ancorato alla questione sociale, che brucia in Francia sotto Sarkozy e più brucerà nei prossimi mesi. E su questo ha raccolto voti anche eterogenei, come quelli di Bertrand Delanoe, sindaco di Parigi e fino al congresso fra i candidati alla segreteria del partito, di Benoit Hamon della sinistra di Fabius, e qualche seguace di Dominique Strauss Kahn.

Ségolène Royal ha puntato a modificarne la natura: reclama un partito di simpatizzanti più che di militanti, raccolti attorno alla sua leadership e mirato a conquistare le presidenziali del 2012, e perciò aperto verso il centro. Bisogna riconoscerle una tenacia fuori del comune. Quando ha perduto le presidenziali (col 47%) è stata attaccata da tutti, ma non ha mollato, ha scritto un libro, s'è detta vittima degli «elefanti» del partito, ha battuto il territorio e le tv, s'è prodotta in uno one woman show in un teatro di Parigi, ha cercato aderenti specie fra i giovani e ne ha ottenuto qualche migliaio (ancora ieri si poteva votare per il segretario semplicemente regolando le quote). Io sono l'avvenire, loro, Aubry e gli altri, il passato, ha tempestato in uno sfolgorare di sorrisi, io sono il nuovo, loro il vecchio. Non ha vinto per 42 voti. L'immagine del Ps è in pezzi.

Difficile che Ségolène (già i suoi seguaci chiedono un terzo voto) faccia la seconda di Martine Aubry. La quale - segretaria di un partito dimidiato - dovrà trattare non solo con la sinistra interna, Fabius e Hamon, ma anche con quella fuori, dove si agitano diverse formazioni o ridotte al lumicino, come il Pcf, o in cerca di crescita come la Ligue communiste di Besancenot che propone anch'essa un partito nuovo, anticapitalista.

Le riflessioni che si impongono sono due. La prima è che la ex sinistra appare in Europa sempre più erosa, la società civile, per duri che siano i colpi che riceve, non produce nessun effetto Obama, dando invece spazio alla destra e al centro: in Francia Sarkozy (che ha divorato di fatto l'area del Fronte nazionale di Le Pen) e Bayrou; in Italia Berlusconi, (che ha divorato anche formalmente An) e Casini. La seconda è che la nostra critica dei partiti e della politica in genere non è riuscita a convogliare nulla di durevole e consistente e il malcontento finisce con il buttarsi a centro-destra. Le soggettività di una sinistra progressista e di classe si dibattono nella difficoltà di trovare una qualche sintesi, ma in attesa che si decidano lo spostamento dei rapporti di forze è univoco e brutale. Neanche la crisi più forte del capitalismo dopo il 1929 riesce a intaccarne l'egemonia.

SONO passati un anno, dodici mesi appena, ma l’Italia sembra un’altra. Meno impaurita e meno insicura. Infatti, l’inverno è vicino, ma il clima d’opinione registra un disgelo emotivo evidente. Come testimonia il 2° rapporto - curato da Demos e dall’Osservatorio di Pavia per Unipolis sulla rappresentazione della sicurezza - nella percezione sociale e nei media. Pochi dati, al proposito (d’altronde, ieri Repubblica gli ha dedicato molto spazio).

Nell’ultimo anno, si è ridotta sensibilmente la percezione della minaccia prodotta dalla criminalità a livello nazionale e soprattutto nel contesto locale. E’ calato in modo rilevante anche il timore dei cittadini di cadere vittima di reati. Da un recentissimo sondaggio di Demos (concluso venerdì scorso) emerge, inoltre, che il problema più urgente per il 31% degli italiani (se ne potevano scegliere due) è la criminalità comune. Un anno fa era il 40%. Mentre il 21% indica l’immigrazione: 5 punti meno di un anno fa. Gli immigrati, peraltro, sono considerati "un pericolo per la sicurezza" dal 36% degli italiani: quasi 15 punti percentuali meno di un anno fa e 8 rispetto allo scorso maggio. Il legame fra criminalità comune, sicurezza e immigrazione che, negli ultimi anni, è apparso inscindibile, agli occhi dei cittadini, oggi sembra essersi allentato. Cosa è successo in quest’ultimo anno, in questi ultimi mesi di così importante, significativo e profondo da aver scongelato il clima d’opinione? L’andamento dei reati, in effetti, rileva un declino che, peraltro, era cominciato a metà del 2007. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, si è sviluppato senza variazioni tali da giustificare mutamenti di umore tanto violenti. Invece, l’immigrazione è cresciuta in misura molto rilevante, come segnalano le principali fonti, dal Ministero dell’interno alla Caritas. Gli sbarchi di clandestini sono anch’essi aumentati. Quasi raddoppiati.

Non sono i fatti ad aver cambiato le opinioni. Al contrario: le opinioni si sono separate dai fatti. Per effetto di un complesso di fattori. D’altronde, il clima d’opinione riflette una pluralità di motivi, spesso non prevedibili e, comunque, non controllabili. In questa fase, in particolare, la crisi economica e finanziaria ha spostato il centro delle paure e delle preoccupazioni dei cittadini. Non solo in Italia: anche negli Usa, prima del collasso delle borse, la campagna delle presidenziali era concentrata sull’immigrazione. Poi tutto è cambiato, con grande beneficio per Obama. Tuttavia, la preoccupazione economica, in Italia, è da tempo molto alta. Destinata a deteriorarsi ancora. Nell’ultimo anno, però, non è peggiorata. Era già pessima.

Il profilo delle "persone spaventate" presenta alcuni tratti particolari, utili a chiarire l’origine di questo collasso emotivo. Due fra gli altri: guardano la tivù per oltre 4 ore al giorno e sono vicine al centrodestra; nel Nord, alla Lega. L’analisi dell’Osservatorio di Pavia sulla programmazione dei tg di prima serata, peraltro, rileva una forte crescita di notizie sulla criminalità comune nell’autunno di un anno fa e un successivo declino - particolarmente rapido dopo maggio. Peraltro, il peso delle notizie "ansiogene" è nettamente più elevato sulle reti Mediaset, ma soprattutto su Studio Aperto e Canale 5. Seguiti, per trascinamento, dal Tg 1, il più popolare e autorevole presso il pubblico. Il sondaggio di Demos osserva come l’insicurezza sia molto più alta fra le persone che frequentano prevalentemente le reti e i notiziari Mediaset. Ciò suggerisce che i cicli dell’insicurezza siano favoriti e scoraggiati, in qualche misura, dal circuito fra media e politica. D’altra parte, la sicurezza, l’immigrazione e la criminalità comune sono temi "sensibili" negli orientamenti degli elettori. "Spostano" i voti degli incerti. Rendono incerti molti cittadini certi. Peraltro, come abbiamo già visto, il tema della sicurezza non è politicamente "neutrale". La maggioranza degli elettori (anche a centrosinistra) ritiene la destra più adatta ad affrontare questi problemi - trasformati in emergenze (Indagine Demos, luglio 2007).

Così, per creare un clima d’opinione favorevole, al centrodestra basta sollevare il tema della sicurezza. Cogliere e rilanciare episodi e argomenti che alimentano l’insicurezza sociale. Farli rimbalzare sui media. Il che avviene senza troppe difficoltà. Non solo perché il suo Cavaliere ha una notevole conoscenza del settore, sul quale esercita un certo grado di influenza. Ma perché la paura è attraente. Fa spettacolo e audience. E perché, inoltre, in campagna elettorale, la tivù costituisce la principale arena di lotta politica, su cui si concentrano l’attenzione dei partiti e la presenza dei leader.

Così, l’insicurezza cresce insieme ai consensi per il centrodestra. Senza che il centrosinistra riesca a opporre una resistenza adeguata. Frenato da divisioni interne, particolarismi e personalismi che non gli permettono di proporre e imporre un solo tema capace di spostare a proprio favore il consenso. Il lavoro, i prezzi, le tasse, l’etica: nel centrosinistra c’è la gara a distinguersi e a smarcarsi. Tutti contro tutti.

La recente campagna elettorale di Veltroni, irenica, tutta protesa a marcare la distanza dal passato (Prodi), non ha scalfito l’insicurezza del presente.

La morsa della sfiducia e dell’insicurezza si è allentata solo dopo le elezioni politiche e le amministrative di Roma. Non a caso. Il risultato, senza equivoci, non lascia scampo alle speranze dell’opposizione: resterà opposizione a lungo. Così, la campagna elettorale, dopo anni e anni, finisce. E il centrodestra si dedica a controllare, in fretta, il clima di insicurezza che aveva contribuito ad alimentare negli anni precedenti. Propone e approva provvedimenti ad alto valore simbolico: l’impiego dei militari contro la criminalità, l’aumento di vincoli e controlli all’immigrazione. La liberalizzazione delle polizie e delle milizie locali, padane, private. Gli stessi episodi di razzismo hanno prodotto la condanna "pubblica" dell’intolleranza, con l’effetto di inibirne, in qualche misura, il sentimento. In quanto gli stranieri, percepiti perlopiù come "colpevoli" di reati e violenze, ne diventano "vittime".

Così gli immigrati continuano a fluire, i clandestini a sbarcare e il numero dei reati non cambia, ma l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media nei loro confronti si ridimensiona. La paura declina. Un po’ come avvenne nel periodo fra il 1999 e il 2001. Anche allora criminalità e immigrazione divennero priorità nell’agenda delle emergenze degli italiani. Spaventati da aggressioni e rapine a orefici e tabaccai; dall’invasione degli stranieri. Che conquistavano i titoli dei quotidiani e dei tg. Poi, l’inquietudine si chetò. Sopita dall’attacco alle Torri Gemelle e dalla vittoria elettorale di Berlusconi. Capace, come nessun altro, di navigare sulle acque dell’Opinione Pubblica. E di domare le tempeste che la turbano dopo averle evocate.

Nella nebbia di emergenze e di paure che gravano sul futuro una notizia ha portato un barlume di luce. La notizia è questa: martedì scorso un giudice federale ha ordinato l’immediato rilascio di cinque prigionieri del carcere cubano di Guantanamo. Certo, come ha detto un avvocato dei detenuti, «la giustizia arriva troppo tardi per questi cinque uomini»(così riferisce Bernie Becker sul New York Times). È vero. I cinque algerini liberati erano stati arrestati in Bosnia nel 2001 sotto l’accusa di legami con Al Quaeda. E sette anni di galera sono tanti: anche in un carcere "normale", sempre che si possa considerare normale la vita di un carcerato. Quello di Guantanamo notoriamente non lo è. Tre parole lo definiscono: il segreto dei servizi che lo gestiscono, la sicurezza della nazione che lo giustifica, la terra di nessuno che lo ospita e da cui ci arrivano immagini di prigionieri senza volto. Che si cominci a dare un volto a quegli esseri e a sottoporli a processi regolari è un segno importante. Ritorna in vigore l’aurea antica norma dell’"habeas corpus", vanto della tradizione inglese, tra i capisaldi della cultura europea. Torna il rispetto dei diritti delle persone, comincia ad allontanarsi la sindrome di paura che ha gravato sul mondo occidentale negli ultimi anni portando a continue sospensioni dei diritti umani. Sotto i nostri occhi ci sono state persone prelevate in pieno giorno da agenti segreti, si è diffuso il sospetto su tutti gli appartenenti alla cultura musulmana, il linguaggio dei politicanti di successo ha sposato parole d’ordine come "scontro di civiltà", "tolleranza zero", "difesa della (nostra) identità". Abbiamo vissuto questi anni in un mondo che aveva accettato di ridurre o cancellare i diritti delle persone in nome della sicurezza.

L’esperienza non è nuova nella storia. Come ci ricorda Carlo Ginzburg in un penetrante saggio sul pensiero di Thomas Hobbes (Paura reverenza terrore. Rileggere Hobbes oggi, edizioni dell´Università di Parma) è da una condizione di anomia e dall’insicurezza che ne deriva che sarebbero nati, secondo Hobbes, la rinunzia originaria alla libertà e l’assoggettamento degli uomini a un potere comune capace di tenerli tutti «in uno stato di soggezione, di reverenza»(Awe): un potere sacrale, un Leviatano creato artificialmente ma capace di ergersi davanti agli uomini che l’avevano creato e di incutere un sentimento di venerazione, di religioso terrore. Il saggio di Carlo Ginzburg ci allontana dal presente solo per tornarci alla fine: un presente fatto di poteri politici che minacciano il terrore, lo usano, lo dichiarano (il nome in codice del bombardamento di Baghdad del marzo 2003 fu "Shock and Awe", colpire e terrorizzare); di poteri che cercano di impadronirsi della forza "venerabile", della religione. Lo storico ha come tutti lo sguardo bendato davanti al futuro; ma l’indagine sul passato suggerisce ipotesi di futuri possibili su cui riflettere. Non è forse lontano il giorno in cui, scrive Ginzburg, davanti alla drammatica scarsità non solo di lavoro, danaro, cibo, ma perfino di aria e di acqua, un genere umano impaurito potrebbe rinunciare alla libertà consegnandosi nelle mani di «un super-Stato oppressivo, un Leviatano infinitamente più potente di quelli passati».

Da questo scenario di un mondo possibile ci distrae oggi, almeno per un attimo, la notizia della libertà di quei cinque uomini per effetto del ritorno alla tutela dei diritti. L’imprevedibile futuro può nascere anche da qui: dalla sospensione della paura, da un ritorno all’azione politica come scommessa in nome della libertà. La decisione del giudice è giunta dopo l’elezione di Barack Obama. Dopo, ma anche a causa di quella elezione. È noto che il neo-presidente ha intenzione di chiudere quel luogo di vergogna. E gli elettori hanno dato il loro consenso e la forza dei loro voti alla volontà politica di voltare pagina.

La cosa ci riguarda. Viviamo - anche in Italia - immersi in un orizzonte di attese negative. Siamo una maggioranza di vecchi in una società governata solo da vecchi. Le prospettive economiche parlano di recessione. Le misure che il governo prende sono dettate da un’emergenza finanziaria che porta a tagliare le spese alla cieca mentre si occhieggia a possibili cespiti di entrata dai beni culturali. Quello sarebbe il "nostro petrolio", secondo una sciagurata definizione carica di sottintesi pesanti (perché il petrolio si estrae, né più né meno dei reperti archeologici o dei quadri custoditi nei depositi dei musei: si estrae e poi si vende). C’è voluto l’intervento competente e severo di Salvatore Settis su questo giornale per segnare il limite non superabile nel governo dei beni culturali. Ma la solidarietà tra le misure del governo in materia di scuola e di ricerca e quelle destinate allo sfruttamento dei beni culturali è sostanziale, profonda, non scalfibile. Non ci inganni la confusa diatriba sulle alchimie dei concorsi universitari in cui si stanno perdendo le intelligenze di tanti professori. Quel che non deve essere tollerato è la cancellazione della speranza iscritta nel disegno di tagli sistematici e progressivi che promette solo la morte della scuola pubblica e dell´università. La speranza è affidata oggi a quei giovani che si sono mossi in difesa della scuola e dell´università, in nome del loro diritto a contare nelle scelte politiche. Sulle mura della mia università un giovane ha scritto: «Giù le mani dal nostro futuro». Il loro futuro, ma anche il nostro passato: in modi diversi ma nello stesso momento e dalle stesse forze è posto a rischio oggi il nesso tra passato e futuro, tra il patrimonio indisponibile della cultura millenaria del paese Italia e l’ancor più indisponibile patrimonio delle nuove generazioni. È nel loro nome che la politica deve oggi affrontare i problemi della scuola e della società civile: per combattere la paura.

Come promesso vi teniamo aggiornati sull’avvincente caso-Villari, tema numero uno dell’agenda politica nazionale. Il celebre senatore napoletano non schioda, scusate il linguaggioma ormai anche nelle sedi istituzionali per via del crollo di nervi si dice così. Sta lì che arreda l’ufficio, dà disposizioni alle segretarie. Non essendoci uno strumento proprio per eliminarlo dalla presidenza della Vigilanza Rai si sta pensando, nel Pd, di eliminare la Vigilanza stessa: tanto a che serve, aboliamola. Giuro, non è uno scherzo. Leggete i pezzi di Andrea Carugati, andate a vedere sul sito se non ci credete. L’unico modo per fargli mollare la poltrona risulta essere questo: abbattere il palazzo e le sue insegne. Con una legge, certo, non a picconate. Almeno questo.

Nel mondo, nel frattempo, accadono cose di secondaria importanza: Hillary Clinton sarà il prossimo segretario di Stato americano. Era la scelta più logica, tuttavia per qualche ragione nessuno degli analisti politici italiani l’aveva neppure presa in considerazione. La trovavano “irrealistica”, per dire il senso di realtà di cui in media dispongono. Furio Colombo parla di questo e d’altro con Ted Kennedy, Villari intanto fa cambiare le tende del suo studio.

Due donne si sono contese la guida del partito socialista francese, Gianni Marsilli racconta in cosa si distinguano i programmi di Segolene Royal e Martine Aubry. Villari nello stesso momento prende un caffè alla buvette perché, dice, gli ha sempre portato fortuna.

Il mondo intero manifesta contro la violenza quotidiana e domestica sulle donne, oggi il corteo a Roma. I delitti avvengono quasi tutti in famiglia e in segreto. Segreto fino a che non arriva la polizia a fare i rilievi sui cadaveri, a Verona ieri un commercialista di 43 anni ha eliminato i tre figli bambini la moglie e se stesso, “era una famiglia modello” dicono naturalmente i vicini. Nessuno si accorge mai di niente. Le cifre indicano come ne uccida più la famiglia della mafia e pazienza per gli stornelli dei neocatecumenali ai Family day. Villari comunque ha anche incontrato Pannella.

Suggerisco la lettura delle due pagine dedicate ai giovani che hanno votato per le primarie junior del Pd incrociata all’intervista ad Irene Tinagli, giovane in polemica col Pd, e al resoconto di Bruno Miserendino sulle turbolenze interne al partito senior. È importante tenersi al corrente mentre Villari prepara il ricorso contro l’espulsione.

Due parole private vorrei rivolgere infine alle centinaia di persone che hanno scritto per manifestare solidarietà a proposito della frase minacciosa comparsa a firma Forza Nuova sotto casa mia. Persone comuni eministri, presidenti e lettori. Ha chiamato anche Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova, cosa che dà la misura definitiva della chiarezza delle acque in cui nuotiamo. Dice che lui non c’entra: non c’entra mai nessuno. Vorrei ringraziare e tranquillizzare tutti: non c’è problema, stiamo qui e non ci muoviamo, figurarsi. Grazie a tutti. Saluto pure Villari anche se ieri non ci siamo sentiti, è stata una giornata molto impegnativa per lui, per i nuovi dettagli dal suo diario ci aggiorniamo a domani.

L´annuncio di una serie di immediati provvedimenti di Barack Obama, per segnare già nelle prime dichiarazioni un radicale distacco dalla cultura dell´era Bush, induce (obbliga?) ad una discussione sul senso e le prospettive che assumono oggi le politiche dei diritti. So bene che, affrettandosi ad etichettare le mosse del nuovo Presidente degli Stati Uniti, si corre il rischio di cadere in quel chiacchiericcio provinciale che ha già prodotto le impagabili interpretazioni di chi ha indicato in Berlusconi e Bossi i precursori dell´innovazione prodotta dalle elezioni americane. Ma i segnali provenienti dagli Stati Uniti rimbalzano in tutto il mondo sì che, con la giusta misura, bisogna sempre prenderli sul serio.

Cellule staminali, aborto, Guantanamo sono parole familiari, che ci hanno abituato a vedere in esse addirittura il discrimine tra due mondi. Vengono pronunciate oggi per rendere subito evidente dove si vuole produrre una discontinuità. Chiudere il carcere di Guantanamo significa allontanarsi da una logica che, con l´argomento della difesa della democrazia, ha finito con il travolgere proprio i principi democratici, appannando l´immagine di un paese che ha sempre voluto identificarsi con le ragioni della libertà. Se questo annuncio significativo diverrà concreto, possiamo aspettarci anche un abbandono delle aggressive politiche di sicurezza che si sono volute imporre agli altri Stati, facendo divenire planetarie le leggi americane? Su questo punto l´Unione europea avrà qualcosa da dire se si libererà da una soggezione che l´ha indotta non solo ad accogliere eccessive pretese americane, ma anche a mimarne in maniera ingiustificata i modelli, incurante pure degli appelli ad una coerente difesa dei principi di libertà che arrivavano proprio da organizzazioni americane importanti come l´American Civil Rights Union.

Nettissima sarebbe la discontinuità legata all´abbandono delle politiche "ideologicamente offensive" di Bush che hanno vietato il finanziamento federale delle ricerche sulle cellule staminali embrionali e delle organizzazioni internazionali che aiutano le donne ad abortire legalmente. Qui, infatti, hanno pesato in modo determinante i confessionalismi religiosi e, una volta che Obama avesse ripristinato i finanziamenti pubblici, la distanza con la politica ufficiale del Vaticano diverrebbe clamorosa (e assumerebbe ben diverso significato la stessa versione della religiosità di Obama, sulla quale si sono esercitati con grande disinvoltura diversi commentatori). Su questi temi, peraltro, il sostegno dell´opinione pubblica è ben visibile, testimoniato dalla sconfitta in tre Stati dei referendum contro l´aborto e dal successo in un altro di un referendum sul suicidio assistito. E´ lecito sperare che anche in Italia sia possibile tornare con pacatezza sul tema della ricerca sulle staminali, liberandosi anche qui delle pesantezze ideologiche e mettendo magari a frutto contributi come quello recentissimo di Armando Massarenti (Staminalia, Guanda, Parma 2008)?

Le discontinuità non si esauriscono con i casi appena ricordati, ma riguardano altre importanti materie, dalla tutela dell´ambiente alla sanità, dall´istruzione ai diritti dei minori (vi fu un veto di Bush su una legge che li riguardava). Ed è importante sottolineare che la rottura con il passato può essere rapida e immediata perché la maggior parte dei provvedimenti da cambiare ha la sua fonte in "executive orders" di Bush, atti presidenziali che non hanno bisogno dell´approvazione del Congresso. Usando la stessa tecnica, Obama potrebbe effettuare in pochissimo tempo una spettacolare ripulitura del sistema giuridico americano.

Ma, al di là delle pur importantissime questioni specifiche, è significativo il modo in cui viene concepita l´intera strategia d´avvio della nuova presidenza. L´economia presenta il suo conto, pesantissimo. E tuttavia questa indubbia priorità non ha indotto nella classica tentazione della politica dei due tempi: prima i provvedimenti economici e poi i diritti civili. "Erst kommt das Fresse, dann kommt die Moral", prima la pancia e poi la morale, si canta alla fine del primo atto dell´Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Una politica che vuol essere moderna non si risolve tutta nell´uso delle nuove tecnologie, pur così importanti nel successo di Obama. Ha il suo baricentro nella capacità di tenere insieme economia e diritti, individuo e società. I diritti non sono un lusso o un´appendice, di cui ci si può occupare solo a pancia piena, una volta soddisfatti i bisogni economici e di sicurezza, anche perché è proprio la logica dei diritti e delle libertà a definire, in un sistema democratico, le caratteristiche delle politiche economiche e d´ordine pubblico. Ai molti americani, giovani e non, disimpegnati e lontani dalla politica Obama non ha offerto solo il fascino di You Tube, ma una prospettiva diversa, dove appunto la democrazia e i diritti tornano ad essere protagonisti e hanno bisogno di persone che diano loro voce. Una prospettiva non lontana da quella aperta in Europa soprattutto da Zapatero; che attraverso la vicenda americana si conferma, si consolida, ci dice che le politiche dei diritti hanno bisogno di radicalità; e che dovrebbe indurre qualcuno, anche dalle nostre parti, ad abbandonare schematismi e pigrizie.

Non sarà una passeggiata, quella del nuovo Presidente degli Stati Uniti, anche se la sua elezione offre una importantissima garanzia: la Corte Suprema, strumento essenziale per le politiche dei diritti, non subirà un ulteriore "impacchettamento" conservatore. Ma soprattutto il risultato del referendum californiano contro i matrimoni gay apre un delicatissimo fronte politico e giuridico. Quale sarà la linea di Obama, che pure ha esplicitamente ricordato gli omosessuali nel suo discorso di ringraziamento? Come hanno sottolineato i giuristi più attenti, quel referendum incide in forme improprie sul principio di eguaglianza e mette in discussione i diritti già acquisiti dalle diciottomila coppie che hanno utilizzato il nuovo istituto. Tempi impegnativi si sono aperti, e in essi la lotta per i diritti giocherà un ruolo essenziale.

Partire da sé per cambiare il mondo. L'Onda, rispetto ai più recenti movimenti studenteschi, è anomala anche per questo. Leggendo i documenti finali approvati domenica dall'assemblea plenaria degli atenei in lotta dopo due giorni di dibattiti alla Sapienza di Roma, una cosa appare chiara: il filo rosso che tiene insieme l'attacco alla legge 133 con la critica all'attuale modello di società, che lega welfare e diritto allo studio, non ha nulla di ideologico. È il portato di un vissuto personale, di un'esperienza corporea prima ancora che intellettuale.

Un movimento che non ama lo status quo e mette in chiaro fin dalle prime righe del documento che «gli unici alleati del governo all'interno del mondo della formazione sono in realtà quei baroni che a parole si dice di voler combattere». L'analisi delle facoltà in mobilitazione comunque non può che partire dalla critica ai «processi di aziendalizzazione e privatizzazione dell'università» e ai «tagli dei finanziamenti alla ricerca e alla formazione» impartiti dall'attuale governo che, «dopo quindici anni di pessime riforme», sono il colpo definitivo al sistema pubblico dell'istruzione. Vanno perciò abolite subito le lauree del 3+2, il numero chiuso e la frequenza obbligatoria. Ma «non vanno dimenticate le responsabilità di chi l'università ha gestito con meccanismi corporativi e clientelari», di chi «soffoca la ricerca con la gerarchizzazione» e fonda il suo potere sullo «sfruttamento generalizzato del lavoro precario». Difendere «l'istruzione pubblica, gratuita, senza blocchi di accesso e con una didattica più qualificata» significa innanzitutto reddito garantito diretto e indiretto e accesso ai consumi intellettuali. E significa anche difendere l'indipendenza e l'autonomia della ricerca che non può essere subordinata alle logiche di mercato. Per questo occorre ripensare «un nuovo concetto di valutazione»: non più «legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni», deve invece calarsi «nei contesti territoriali in cui le università sono inserite». Ai finanziamenti, che devono raggiungere almeno i livelli indicati dal Trattato di Lisbona (3% del Pil contro l'attuale 1%), deve essere permesso l'accesso incondizionato anche ai ricercatori non strutturati e ai dottorandi. Che sono proprio le figure più "fragili" di tutto il sistema universitario: sfruttati per lavori non pagati, per attività che non competono loro e al servizio dei baroni, chiedono di entrare a pieno titolo negli organi decisionali, a cominciare dalle commissioni di valutazione. «Al lavoro di ricerca deve corrispondere un salario adeguato e diritti stabiliti nello statuto dei lavoratori», scrivono. Vanno aboliti i «dottorati senza borsa» e va istituito un «contratto unico di lavoro subordinato una volta terminato il dottorato, di durata non inferiore ai due anni: esso deve sostituire l'attuale giungla di contratti precari». A questo proposito, si apprestano a preparare «una grande inchiesta sul lavoro precario nell'università», che fa il paio con il censimento dei precari negli enti pubblici di ricerca indetto dagli studiosi della cognizione del Cnr (http://laral.istc.cnr.it). E poiché «il lavoro di ricerca prevede la mobilità come elemento irrinunciabile, ma continuamente ostacolato dalle differenze dei diversi sistemi nazionali», propongono la convocazione di una riunione europea che metta in circolo le diverse vertenze sviluppate dai movimenti di studenti e ricercatori precari nel resto del continente». Last but not least, la questione di genere: «Da una parte - scrivono nel report del workshop organizzato dalla facoltà di Fisica - la progressione della carriera delle donne è fortemente filtrata ai livelli più bassi, dall'altra le donne subiscono il perenne ricatto biologico, aggravato dalla precarietà, per cui la maternità diventa la via di espulsione dal mondo della ricerca».

Un movimento che si vuole «irrappresentabile» e che sa che «il cambiamento non è delegabile», e «va agito anche nel conflitto», si pone fin da subito l'obiettivo di «superare qualsiasi forma di rappresentanza interna». Anche l'autoriforma dell'università - sottolineano - «non è un tentativo di burocratizzazione» ma «è invece l'apertura di un processo che già vive nelle pratiche del movimento». Da verificare, semmai, la capacità di tradurla «da subito in concreti elementi di programma e di agenda politica». Una scelta di metodo nel rispetto dell'anomalia. Non a caso l'Onda «si sente vicina ai movimenti territoriali, quelli a difesa dei beni comuni, dell'ambiente, contro le guerre e le grandi opere - spiega Giorgio Sestili, del collettivo di Fisica - perché sono gli unici, dal 2004 ad oggi, ad aver saputo costruire una reale opposizione ai governi, anche di centrosinistra». Autonomi e indipendenti da sigle sindacali e partitiche. E come loro capaci di interrogarsi sulle cause e le possibili vie d'uscita dell'attuale crisi economica per fronteggiare la quale si giustificano tagli indiscriminati e privatizzazioni. Ma l'Onda guarda anche alle lotte dei lavoratori: «Da subito abbiamo guardato alla Francia e ci siamo posti l'obiettivo di creare forti alleanze con lavoratori, immigrati, donne: da soli gli studenti non possono inceppare il meccanismo della produzione».

Finita la festa - per chi ha festeggiato - , il caso Obama è rapidamente sparito dal dibattito pubblico della sinistra e del centrosinistra italiani. Le «tesi» di Bertinotti gli dedicano solo un rapido cenno, il movimento degli studenti non ne sembra toccato, in casa Ds se ne parla per pezzi (l'uso della Rete nella campagna elettorale che fu, la politica estera che sarà), gli intellettuali della sinistra radicale si dividono fra gli entusiastici e gli scettici, gli opinion makers ne traggono materia solo per lamentare che il sistema politico italiano non consente il ricambio della leadership come quello americano e per dedurne le relative ricette (più primarie, meno oligarchie, più periferia, meno centralismo).

Eppure, nell'attesa di misurare dalle prime mosse del nuovo presidente il grado di soddisfazione o di delusione per le varie anime della sinistra planetaria, per quella italiana di materia per discutere ce ne sarebbe non poca. In fondo, la diagnosi della «americanizzazione» ha avuto largo corso negli anni passati per spiegare tutte le derive di degenerazione della politica italiana: dalla crisi della partecipazione e della rappresentanza allo svuotamento della democrazia costituzionale, dalla personalizzazione della leadership alla manipolazione mediatica del consenso, dalla trasformazione del cittadino in consumatore al peso più o meno palese delle lobby, dalla fine dei partiti di massa all'indebolimento dei sindacati, dalla strutturazione bipolare del sistema politico all'obbligo di giocare la partita elettorale solo al centro, dall'abbandono delle grandi tradizioni della sinistra novecentesca alla fortuna delle ideologie neo cons e teo cons, dalla fine dell'idea di pubblico al trionfo della religione del mercato. E dunque, sia pure senza cedere alla retorica onnipresente della «vitalità» della democrazia e del sogno americano, meriterebbe un'analisi accurata il fatto, non poco spiazzante, che sia dall'altra parte dell'Oceano e non da questa che vengono, con la campagna elettorale e l'elezione di Obama, esplosivi segnali di controtendenza: una partecipazione al voto altissima per i livelli americani; una mobilitazione dal basso che ha saputo avvalersi assieme dei nuovi media e delle vecchie forme di sensibilizzazione «porta a porta», e ha saputo dare spinta politica alla disaffezione antipolitica; un protagonismo dei movimenti radicali che necessariamente vincolerà Obama a non chiudersi in un palazzo autoreferenziale; una radicalizzazione dello scontro politico che non si è preoccupato solo di conquistare voti centristi; una personalità carismatica, che è altra cosa dalla personalizzazione plastificata dei leader mediatici; un sentimento popolare della necessità di politica e di cambiamento, che è altra cosa dall'uso manipolatorio del populismo; l'evocazione dei miti fondativi della democrazia americana, che è il contrario del sistematico processo di delegittimazione della Costituzione in atto da decenni in Italia; la riabilitazione della funzione del pubblico contro l'arbitrio assoluto del mercato; l'abolizione, promessa e speriamo presto mantenuta, dello «stato d'eccezione» inaugurato da Bush a Guantanamo non senza ricadute sulla fortuna dei «campi» anti-immigrati in Europa. E, prima di tutto questo, la legittimazione di massa di un leader meticcio che rappresenta e legittima a sua volta il meticciato della popolazione globale.

Al di là, o meglio al di qua, della questione che non smette e non smetterà di agitare e di dividere la sinistra critica europea, se cioè tutto questo non si risolva che in una cura ricostituente della più grande potenza mondiale contro il suo declino, è evidente che siamo di fronte a una rotazione d'asse del discorso e delle forme della politica, che è frutto di una sinergia di fattori materiali e simbolici, che si spera produca frutti materiali consistenti e che ha già prodotto uno spostamento simbolico di prima grandezza. E' cattivo economicismo, a mio avviso, attribuire come molti vanno facendo al precipitare della crisi la vittoria di Obama: questa ha contato, ma non stava scritto che lavorasse per lui, e non sarebbe stata decisiva senza il concorso di altri fattori, meno «contabili» ma altrettanto determinanti. Così come sarebbe cattivo romanticismo attribuire tutto il peso della vittoria a un ribaltamento sentimentale del fattore razziale: se l'elemento simbolico e (anti)identitario del meticciato ha potuto affermarsi è perché il laboratorio sociale e culturale americano e globale aveva già preparato il terreno. Dunque, è proprio sulla sinergia di materiale e simbolico, quella sinergia che la sinistra europea sembra aver perduto da troppo tempo, che il caso Obama dovrebbe aprire gli occhi anche al di qua dell'Oceano.

Lo spostamento simbolico, come sempre, è quello più impegnativo da analizzare, tanto più che non parla solo di Obama ma anche, anzi soprattutto, di noi, coinvolge dimensioni tutt'altro che evidenti e si presta a piegature diverse d'interpretazione anche fra osservatori solitamente vicini. Prendiamo il sentimento di entusiasmo che è esploso su scala planetaria la notte del 4 novembre: come leggerlo, e che farne? Curiosamente, l'entusiasmo è al centro dell'analisi «del giorno dopo» di due intellettuali radicali usi a uno scambio intenso fra loro come Judith Butler e Slavoj Zizek, che ne danno due letture differenti. Butler, sul manifesto del 9 novembre, pur sottolineando l'enorme spostamento che l'elezione di Obama comporta, ha messo in guardia da un entusiasmo acritico, carico di aspettative messianiche e perciò soggetto a inevitabili delusioni, invitando la sinistra radicale americana (e non solo) a non abbassare la guardia di fronte agli appelli all'unità nazionale del nuovo presidente, a non sottovalutare gli elementi facistoidi sempre presenti nelle dinamiche di identificazione di massa con un leader, a non dismettere le armi della critica e del dissenso, a continuare la mobilitazione politica per vincolare Obama al rispetto delle sue promesse: l'entusiasmo, sostiene, è carico di elementi fantasmatici che possono facilmente ribaltarsi in disillusione. Viceversa Zizek, su Internazionale di questa settimana, prende l'entusiasmo come il segno di un eccesso, di un surplus simbolico, che fa dell'elezione di Obama qualcosa di più di una vittoria politica tradizionalmente intesa. Rileggendo il famoso scritto di Kant sulla rivoluzione francese, che proprio nell'entusiasmo degli spettatori vedeva il motore rivoluzionario di quell'evento al di là dei suoi successi o dei suoi fallimenti, Zizek legge nell'entusiasmo di noi spettatori del 4 novembre il segno dello spostamento simbolico già verificatosi: l'evento è già avvenuto, non consiste in un'investitura messianica su Obama ma nel fatto che la sua elezione dimostra che il cambiamento è possibile, che la storia non è fatta solo di ripetizione ma anche di imprevisto, che le parole di una campagna elettorale possono modificare il regime del dicibile e dell'indicibile e dunque allargare i confini della nostra libertà. Anche Zizek conclude che la vera battaglia comincia «ora che la vittoria è arrivata». La politica infatti è sempre nelle nostre mani, non in quelle di un leader. Certamente, come dice Butler, occorre tenere gli occhi aperti e le armi della critica in mano. Ma fidandoci di quell'entusiasmo che ha riaperto il presente al possibile e all'imprevisto

È difficile entusiasmarsi per Leoluca Orlando o per Riccardo Villari, scegliere tra un democristiano resuscitato e una mummia democristiana, e magari pensare che la sinistra sia incarnata dall’uno o dall’altro o da tutti e due. Di sicuro Villari, che è stato eletto dai troiani a capo degli achei ma non si vuole dimettere, è un altro capolavoro berlusconiano, un capolavoro di mediocrità italiana. Tutti capiscono infatti che Villari non si dimette perché è un topo che da tutta la vita aspetta il suo pezzo di formaggio. E dunque, adesso, non gli importa nulla che a dargli il formaggio sia stato il gatto, che del topo è l’antagonista.

Eppure, diciamo la verità, non solo Villari non è antipatico, ma non riesce neppure a indisporre e a irritare. Non è in grado di suscitare sentimenti di alcun genere, tanto è fradiciamente democristiana, anche nella metodologia, tutta la vicenda dell’elezione del presidente della commissione di Vigilanza della Rai. C’è infatti Di Pietro che zompa sulla debolezza di Veltroni e ci sguazza. C’è Berlusconi che ha i ‘mezzi’ per governare ben altri trasformismi senza pudori astuti e senza finti candori. E c’è l’intero centrosinistra che, ancora un volta, non riesce a dare segnali di vero rinnovamento, non sa neppure indicare un uomo, una figura per la quale valga la pena di battersi, per la quale sia un po’ più facile mobilitarsi, vuoi per i titoli specifici su Rai informazione e giornalismo, come nel caso per esempio di Sergio Zavoli, Furio Colombo o Giuseppe Giulietti; o vuoi per virtù di garanzia di vigilanza giuridica o culturale: dal costituzionalista Salvatore Vassallo all’ex magistrato Gerardo D’Ambrosio, dal demografo Massimo Livi Bacci allo scrittore Gianrico Carofiglio?.

Sono tanti i nomi altrettanto antiberlusconiani di Orlando ma per i quali potrebbe avere senso accendersi e dinanzi ai quali potrebbero sentirsi inadeguati anche gli Arlecchino servitori di due padroni, com’è il carneade Villari.

Per il resto, l’epatologo Villari non fa neppure sorridere quando si appella al senso dello Stato e vuole essere ricevuto dal presidente della Repubblica e da quelli delle Camere. Non gli pare vero di sentirsi parte dell’Accademia Italiana dei Saggi e degli Equilibrati. E’ anche lui un garante, un arbitro, un’authority e diceva il saggio Senofane: «Occorre un saggio per riconoscere un saggio».

E in fondo Villari non ha ancora tradito e nessuno può accusarlo fino a quando non sarà consumato l’evento. Mastella diceva: «Mando Villari che è un politico avvolgente». E a Mastella Villari diceva: «Manda me che sono sinuoso». Ebbene, anche in questa ambiguità Villari incarna un’eterna maschera italiana, quella del colpevole al quale non si può rimproverare nulla.

Il caso Villari è più vecchio della stessa Dc meridionale, e Villari non riuscirebbe a sorprenderci neppure se volesse. Democristiano di buona famiglia è ovviamente orgoglioso di inscenare, sia pure nel suo piccolo, la commedia dei due forni e delle convergenze parallele. La sua utopia politica è la moglie ubriaca e la botte piena. Lo fa impazzire di gioia l’idea di diventare l’ago della bilancia, il Centro per eccellenza.

Comunque vada a finire, sa che in futuro, tranquillo e rispettabile borghese, ispirerà una certa soggezione quando, nella sua Capri, attraverserà la strada senza ostacolo per scomparire presto dalla vista: «Quello lì un giorno è stato presidente?».

Anche fisicamente Villari rimanda a una politica fatta in casa, autentica e ruspante, che facilmente risveglia i vecchi pregiudizi dei Vicerè: «Piccoli uomini che si sentono più astuti che prudenti, litigiosi, adulatori, timidi quando trattano i propri affari ma d’incredibile temererarietà quando maneggiano la cosa pubblica e allora agiscono in tutt’altro modo: diventano avidissimi mangiatori?.». E ribaltano da sempre, prima ancora che l’Italia inventasse il trasformismo. Nel mondo dei Villari i cristiani passavano all’Islam in cambio di un lavoro nelle navi pirata e gli ebrei diventavano cattolici solo per il piacere di inquisire gli ex compagni di fede. Insomma nella terra dei convertiti e dei pentiti la mediocrissima spregiudicatezza di questo vanitoso allievo di Mastella e di De Mita non scandalizza davvero nessuno. E il finale è ancora apertissimo. Villari può esercitarsi nel finto tradimento, nel bitradimento e nel tradimento del tradimento. La presidenza della commissione di Vigilanza non sarà granché ma pur sempre di potere si tratta, ed è terribile doverlo abbandonare in questo modo: è come morire di sete accanto alla fontana.

Povero Villari e più povera ancora la sinistra. Chi avrebbe mai immaginato che oltre Amendola e Pajetta, Ingrao e Berlinguer, si sarebbe divisa tra villariani e orlandiani? E meno male che Villari ha dichiarato di confortarsi con il suo consigliere spirituale. Proprio come donna Lola che, lasciato compare Alfio (Veltroni) per compare Turiddu (Berlusconi), annuncia: «Domenica voglio andare a confessarmi perché ho sognato dell’uva nera».

Oggi, a Genova

Aspettiamo con ansia e con speranza la sentenza. Molto dellq soprqvvivenza della democrazia in Italia dipende dalla risposta dei giudici. Il manifesto, 13 novembre 2008

Quelle immagini sono già un giudizio, ciò che manca ora è una sentenza. L'ultimo fotogramma, rimandatoci dalla Bbc, immortala un poliziotto mentre introduce - la notte del 21 luglio 2001 - nella scuola Diaz le due famose molotov poi esibite per giustificare un massacro di ragazzi inermi. E, aggiungendosi ad altre sequenze, chiarisce tutto. Se ce ne fosse stato ancora bisogno.

Scopre il velo di una mattanza messa in atto contro una generazione, per convincerla a starsene a casa per sempre, a lasciar perdere l'impegno pubblico e le passioni comuni - cioè la politica nel senso più alto del termine. Spiega un modo d'intendere il potere e le istituzioni come delega definitiva a una casta di «eletti» indisponibile a ogni messa in discussione e persino a ogni critica. Illumina sulla falsità della polizia e dei suoi vertici che nel corso degli anni si sono sempre più concepiti come apparato indipendente da ogni controllo, braccio armato e giudiziario allo stesso momento. E ci racconta - quell'immagine -, secondo i canoni della banalità del male, cosa abbia significato davvero la messa in mora dello stato di diritto di quelle giornate genovesi. Annuncio estremo di un processo che arriva fino ai nostri giorni.

Oggi, su quei fatti criminosi, si pronuncia un tribunale della Repubblica. Una sentenza impegnativa e difficile, perché sul banco degli imputati ci sono anche alcune figure di vertice della polizia di stato - da Luperi a Gratteri a Calderozzi - accusate di falso, proprio per aver avallato (se non diretto) il tragitto di quelle molotov. E, fuori dall'aula, alle loro spalle la sentenza chiamerà in causa l'operato dell'ex capo della polizia, Giovanni De Gennaro, oggi assurto all'altissimo rango di surpercapo dei servizi segreti. Logica vorrebbe - quell'immagine vorrebbe - che gli imputati fossero condannati e con quella sentenza «condannato» anche il loro ex capo. Non per spirito di vendetta, ma per dovere di razionalità. Per non ridurre il tutto ai soliti capri espiatori da trovare nella «manovalanza» (seppur in divisa). Perché così vorrebbero giustizia e verità. Per rovesciare il parere dell'avvocatura dello stato (cioè di questo governo, che era poi lo stesso di allora) che nonostante tutto li vorrebbe innocenti. Ma soprattutto perché le istituzioni della Repubblica acquisirebbero un minimo di credibilità, sanando - almeno in parte - gli abusi commessi contro persone inermi e, attraverso esse, contro la stessa Costituzione.

In gioco non c'è «solo» il giudizio sui crimini commessi: per quello basterebbero i fatti. Ma c'è anche il futuro di questo paese, se qui da noi sia o meno possibile prendere la parola, essere protagonisti del proprio futuro, agire pubblicamente senza che tutto questo sia sottoposto a un'autorità assoluta e incontrollabile. Insomma la libertà e i suoi diritti, quella democrazia di cui tutti parlano e che in troppi violentano ogni giorno.

Siccome non tutti possono espatriare all'Eliseo come Carla Bruni per sentirsi fieri di non essere italiani, speriamo almeno che qualcuno si vergogni di vivere in un paese che si accalora per il colorito di Obama e per le battute razziste di Berlusconi e poi lascia passare sotto silenzio un disegno di legge sulla «sicurezza» che sembra pensato apposta per far rimpiangere la legge Bossi-Fini.

Lo scandalo delle norme che verranno discusse oggi in Senato, infatti, è inferiore solo all'indifferenza che le circonda. Forse ci siamo distratti, eppure non abbiamo ancora registrato reazioni indignate da parte delle «forze» di opposizione, nessuno che abbia espresso l'intenzione di sdraiarsi sui binari, o magari solo sui banchi di Palazzo Madama. Eppure la nuova disciplina di stampo fascio/leghista che a colpi di emendamenti renderà impossibile la vita agli immigrati richiederebbe una capacità di mobilitazione (o indignazione) straordinaria, perché si tratta di un concentrato di perfidia applicato alla vita quotidiana di milioni di persone che vivono tra noi.

Cominciamo da quello che viene spacciato come un miglioramento, l'aspetto più «soft» e un po' straccione del nuovo razzismo all'italiana. I «clandestini», vivaddio, non verranno più arrestati in massa come voleva il ministro Maroni in un primo momento (anche se l'internamento nei cpt per identificarli viene prolungato fino a un anno e mezzo) ma saranno costretti a pagare «solo» una multa da 5 a 10 mila euro: circa un anno di stipendio in nero di una badante che contribuisce a non far crollare il nostro welfare, o di un muratore rumeno non stupratore che ogni giorno rischia la vita nei nostri cantieri. Per restare ai furti legalizzati, oggi i senatori della Repubblica italiana discuteranno anche dell'introduzione di una nuova tassa: 200 euro per il rilascio o rinnovo di permesso di soggiorno. Non sarà odioso come lo ius primae noctis, ma da domani gli stranieri potrebbero non essere più uguali nemmeno davanti all'altare: sarà vietato sposarsi a chi non ha il permesso di soggiorno. E poteva anche andare peggio. Solo per l'opposizione dell'Ordine dei medici, infatti, non è passata una norma che obbligava i medici a trasformarsi in spioni e denunciare i malati «clandestini». Sulle ronde legalizzate - si discuterà anche di questo - ormai la partita la diamo per persa, se non per una questione di sfumature: come la sicurezza, si sa che non sono né di destra né di sinistra, piaccono a Tosi come a Cofferati. E per finire, hanno anche inventato la pagella del «negro buono», una sorta di patente a punti: penalizza chi passa col rosso o non paga le tasse (roba da italiani veri) e premia chi dà prova di italianità verace, «superando un corso atto a verificare il livello di integrazione sociale e culturale». In un rigurgito di democrazia, oggi il Senato si pronuncerà anche sull'istituto referendario: i rom potranno sostare in un Comune solo dopo l'indizione di un referendum cittadino. Cioè mai, e se non la capiranno, Opera e Ponticelli hanno già fatto scuola.

Sarà battaglia in aula? Forse, anche questa volta, non ci resta che sperare nei cristiani più caritatevoli, gli unici che hanno il coraggio di scrivere che mai i rom hanno rapito bambini in Italia. Un fatto da secoli incontrovertibile, né di destra né di sinistra.

Quest’anno cade il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, a cui ho dedicato il mio discorso all’assemblea annuale del World Political Forum. Nel pieno di una crisi che colpisce tutto il mondo è una data che di per sé ci costringe a ricordare questo punto di riferimento dello sviluppo dell’umanità. Ma ricordare non basta. Oggi dobbiamo discutere di come avvicinarci agli obiettivi esposti in quel documento, nel contesto delle sfide del nuovo millennio e degli elementi che hanno prodotto la crisi in cui versa la politica mondiale.

Credo che gli autori della Dichiarazione Universale si rendessero ben conto che grande è la distanza tra i principi enunciati e la loro realizzazione. Un forte contributo è stato dato dai movimenti che si sono battuti per i diritti civili, contro la discriminazione razziale e i regimi totalitari. E dai loro leader morali, Martin Luther King, Nelson Mandela, Andrej Sakharov.

Ma nel mondo diviso dagli scontri ideologici e dalla guerra fredda gli ideali dei diritti umani venivano sempre messi in secondo piano e travisati. I cambiamenti avvenuti nel nostro Paese, in Europa e nel mondo nella seconda metà degli anni Ottanta ci hanno dato una chance irripetibile: quella di mettere in archivio la guerra fredda e lo scontro, anche in materia di diritti umani. Abbiamo avuto una reale possibilità di farlo, di ridurre tutti i tipi di armi e spostare le risorse per la soluzione di problemi come la povertà, il ritardo, il degrado ecologico.

Uscendo dalla guerra fredda si comprese che non esistono diritti umani in un mondo dove miliardi di persone vivono con un dollaro al giorno, senza accesso all’acqua pulita, all’istruzione e all’assistenza medica. Che essi non possono farsi spazio in un mondo condannato a infiniti conflitti e alla corsa agli armamenti. In certo senso, siamo tornati a Franklin Roosevelt, che dichiarò fondamentali non solo la libertà di parola e di professione religiosa, ma anche la libertà dal bisogno e dalla paura.

Noi abbiamo avuto la possibilità di procedere insieme in questa direzione. Ma bisognava davvero passare dallo scontro alla cooperazione, cancellare le vecchie linee di separazione senza crearne di nuove. Insomma, passare a una nuova politica mondiale. Sappiamo che così non è stato.

La globalizzazione, che avrebbe potuto avvicinare miliardi di persone, ha seguito un altro scenario. I politici non sono stati all’altezza. Così cresce il divario tra ricchi e poveri, la crisi ecologica, il terrorismo e il fallimento della politica, fino alle guerre.

È giunto il momento di parlare anche del rischio di militarizzazione della politica e del pensiero, incompatibile con i diritti dell’uomo. Intanto perché il primo diritto è quello alla vita, e militarizzazione vuol dire morte. Ma anche perché l’uso della forza come soluzione universale dei problemi, come mezzo di democratizzazione e stimolo alla crescita è un’assurdità contro il buon senso e contro l’intera esperienza dell’umanità.

Credo che il vicolo cieco in cui si trova la politica si farà ancor più sentire con la crisi, iniziata come crisi finanziaria, ma che diventerà politica nei vari Paesi e nel mondo. Essa conferma l’interdipendenza dei processi mondiali, in questo caso un’«interdipendenza col segno meno». E le cause vanno ricercate soprattutto nella politica, intimamente legata negli ultimi quindici-vent’anni al modello dell’ultraliberismo, di cui ora capiamo tutta l’inconsistenza e l’amoralità. Un modello che ignora gli imperativi della solidarietà umana, ma anche gli interessi e le necessità della società. Parte indissolubile di quel modello è l’antidemocraticità del sistema economico globale, visto che le decisioni prese in un centro di potere hanno conseguenze fatali per tutti

Si può già prevedere che la crisi colpirà duramente i diritti di centinaia di milioni di persone, soprattutto se, nel tentativo di uscirne, si continuerà a salvare prima i pilastri del sistema finanziario e poi la gente, capitalismo spietato per la maggioranza e "socialismo", aiuto dello Stato, per i ricchi.

Siamo alla nascita di un nuovo sistema economico finanziario sostenuto da un grande gruppo di Stati, non solo quelli del «miliardo d’oro», ma anche altri (Cina, India, Brasile, Sudafrica e Messico). Quali principi verranno messi alla base di questo sistema è un fatto fondamentale, anche dal punto di vista dei diritti umani. Credo che l’esito finale dipenderà da quanto democratica sarà la fase iniziale, se saprà tener conto degli interessi della comunità internazionale. Se avrà, o meno, un fulcro etico, morale.

A suo tempo io posi il problema del rapporto tra politica e morale. Durante la perestrojka cercai di agire partendo dall’assunto che esse sono compatibili e una buona politica non può prescindere dall’etica. Per questo, nonostante tutti gli errori, siamo riusciti a tirare fuori il nostro Paese da un sistema totalitario, per la prima volta nella storia della Russia senza enormi spargimenti di sangue, portando avanti quel processo fino al punto in cui non era più possibile rigettarlo indietro. Ora è il momento di affrontare il nodo del rapporto tra economia e morale. Sappiamo che l’attività economica deve produrre profitto, altrimenti scompare. Ma il motto «l’unico dovere di un uomo d’affari è produrre profitto» confina con un altro motto: «profitto a qualsiasi prezzo». E allora non c’è più spazio per nessun diritto, per l’etica più elementare.

Questo ci porta a riflettere su una nuova architettura politica mondiale. È la grande sfida che abbiamo davanti: inserire il fattore umano e della morale per garantire all’umanità un’esistenza degna nel prossimo futuro. È questa la sfida che per la nuova generazione dei politici.

Amici, chi fra noi non è senza parole? Le lacrime scorrono. Lacrime di gioia. Lacrime di sollievo. Una sbalorditiva, colossale alluvione di speranza in un periodo di profonda disperazione. In una nazione che è stata fondata sul genocidio e poi costruita sulle spalle degli schiavi, questo è stato un momento inatteso, scioccante nella sua semplicità: Barack Obama, un brav´uomo, un uomo nero, ha detto che avrebbe portato il cambiamento a Washington, e la maggioranza del paese ha apprezzato questo concetto. I razzisti sono stati presenti per tutta la campagna elettorale e anche nella cabina di voto. Ma non sono più la maggioranza e vivremo abbastanza da vedere la loro fiamma di odio sfrigolare e spegnersi.

Mai prima d´ora, nella nostra storia, un candidato dichiaratamente contrario alla guerra era stato eletto presidente in tempo di guerra. Io spero che il presidente eletto Obama si ricordi di questo quando ipotizza l´idea di allargare la guerra in Afghanistan. La fede che oggi abbiamo in lui andrà perduta se si dimenticherà del tema che più di ogni altro gli ha consentito di sconfiggere i suoi compagni di partito nelle primarie e poi di sconfiggere un grande eroe di guerra nelle elezioni generali: il popolo americano è stufo di guerre. Stufo marcio. E ieri ha fatto sentire la sua voce in modo forte e chiaro.

Sono passati, imperdonabilmente, 44 anni da quando un democratico in corsa per la presidenza conquistò anche soltanto il 51 per cento del voto popolare. Questo si spiega col fatto che alla maggior parte degli americani i democratici in realtà non piacciono. Li vedono come gente che raramente ha il coraggio di portare a termine un lavoro o di difendere i lavoratori che dicono di sostenere. Beh, ecco la loro occasione. Gli viene offerta, via pubblico votante, nella forma di un uomo che non è un uomo d´apparato, non è un burocrate di Washington nato ricco. Diventerà uno di loro o costringerà loro a essere più simili a lui? Noi preghiamo per questa seconda ipotesi.

Ma oggi celebriamo il trionfo della civiltà contro gli attacchi personali, della pace contro la guerra, dell´intelligenza contro la convinzione che Adamo ed Eva appena 6.000 anni fa se ne andavano a spasso a cavallo dei dinosauri. Che esperienza sarà avere un presidente intelligente? La scienza, bandita per otto anni, farà ritorno. Immaginate, il governo che sostiene le più grandi menti del paese nei loro sforzi per curare malattie, scoprire nuove forme di energia e lavorare per salvare il pianeta. Datemi un pizzicotto, sto sognando.

Potremmo assistere, chissà, anche a un´epoca ristoratrice di apertura, illuminismo e creatività. Le arti e gli artisti non saranno visti come il nemico. Forse l´arte verrà esplorata per scoprire le verità più importanti. Quando Franklin Delano Roosevelt arrivò alla Casa Bianca sull´onda della travolgente vittoria elettorale del 1932, seguirono Frank Capra e Preston Sturgis, Woody Guthrie e John Steinbeck, Dorothea Lange e Orson Welles. Per tutta la settimana sono stato assediato da giornalisti che mi chiedevano «Ehi, Mike, che cosa farai ora che Bush non c´è più?». Ma scherzate? Come sarà lavorare e creare in un ambiente che alimenta e sostiene il cinema e le arti, la scienza e le invenzioni e la libertà di essere qualsiasi cosa tu voglia essere? Guardate mille fiori sbocciare! Siamo entrati in una nuova era, e se potessi riassumere il nostro primo pensiero collettivo di questa nuova era, suonerebbe così: tutto è possibile.

Un afroamericano è stato eletto presidente degli Stati Uniti! Tutto è possibile! Possiamo strappare l´economia dalle mani dei ricchi irresponsabili e restituirla al popolo. Tutto è possibile! Ogni cittadino può avere la garanzia di ricevere cure mediche. Tutto è possibile! Possiamo smetterla di sciogliere le calotte polari. Tutto è possibile! Chi ha commesso crimini di guerra sarà portato di fronte alla giustizia. Tutto è possibile!

Ma che inizio spettacolare! Barack Hussein Obama, 44° presidente degli Stati Uniti. Accidenti. Dico sul serio, accidenti.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

La marea post-televisiva

che rifiuta la fabbrica del consenso

di Benedetto Vecchi

L'onda anomala segue percorsi non prevedibili e può cambiare direzione e produrre esiti inattesi anche dagli stessi partecipanti. È imprevedibile perché miltiforme, talvolta contradditoria perché chi vi partecipa esprime modi d'essere, visioni della realtà che spesso le lenti offuscate dell'interpretazione continua a leggerli con categorie e griglie analitiche appesantite dal tempo. Questa prima e parziale lettura del movimento che sta scuotendo l'università i media l'hanno registrata poco, per metterla subito in archivio. E l'onda risponde anche in questo caso in maniera anomala. Gli studenti e le studentesse non si sentono, né vogliono essere rappresentati da nessuno se non da loro stessi. Diffidano dei partiti (tutti, nessuno escluso), ma anche dei media, che a dare una rappresentazione della realtà sono pur sempre deputati. E qualche dubbio sulle scienze sociali non è è da meno, visto che l'inchiesta sull'«onda anomala» presentata ieri a Roma è stata definita dagli studenti intervenuti a commentarla «un sondaggio».

Un'inchiesta certo parziale, anche per ammissione degli stessi ricercatori e docenti che l'hanno condotta, ma sul rapporto tra questi studenti e studentesse e il sistema dei media alcuni dati li offre per segnalare come i «produttori di opinione pubblica» sono screditati ai loro occhi. Se un qualche azzardo interpretativo è concesso, si potrebbe dire che l'onda anomala è una «generazione post-televisiva», nel senso che preferisce informarsi attraverso canali multipli, anche se Internet è di gran lunga il medium preferito. Quasi il cinquanta per cento dei settecento intervistati dichiara che si informa attraverso la rete, navigando indifferentemente tra siti mainstream e alternativi. Ma come ha tenuto a precisare un giovane del Dams intervenuto, la forma privilegiata della rete sono i blog messi in piedi da studenti e studentesse e «linkati» ad altri blog dello stesso tipo.

Dunque la rete non come il mondo della controinformazione a portata di click, ma come un contesto dove acquisire informazioni, rielaborarle in una presa di parola che, come un tam-tam, ha stabilito un fitto reticolo di blog, siti augogestiti che funzionano come un media «in divenire». Chissà cosa potrebbero dire i fondatori di Indymedia. Il loro slogan - «Non odiare i media, diventa tu stesso un media» - sembra essere diventato il normale accesso all'informazione di questo movimento, ma in una forma sicuramente non prevista, anomala appunto. Non progetti per siti di «movimento», ma blog, racconti in prima persona, il rinvio a altri siti, un «taglia e cuci» in una caotica costruzione di «un punto di vista» che diffida e «decostruisce» tanto le versioni governative che quelle dell'opposizione parlamentare. Solo così si spiega il rapporto episodico con la carta stampata (solo il sei per cento) e quello più frequente, ma tuttavia minoritario, con la televisione (poco più del ventotto per cento usa anche la televisione per acquisire informazioni). Per di più è una lettura e una visione «infedele», nel senso che il tempo passato a leggere giornali o a guardare la tv è poco. Molti sono, infatti, i giovani che leggono il giornale dalle due alle quattro volte a settimana. E se i telegiornali sono visti tutti i giorni, per la televisione la scelta principale va ai film, i telefilm, mentre i programmi di intrattenimento sono «filtrati» attentamente.

Disincanto dunque verso la «fabbrica del consenso». Gli animi, ieri a Roma, si sono scaldati solo nella denuncia della disinformazione fatta dai media su alcuni fatti recenti (Piazza Navona). Ma poi preferiscono sottolineare che la presa di parola di questi giovani uomini e donne post-televisivi è un fatto che ha stabilito un prima e un dopo. Il prima plumbeo del movimento, il dopo della condivisione di una condizione dove il diritto di accesso a un'università pubblica, di massa e qualificata (qui la critica del funzionamento attuale dell'università è radicale) è considerato oramai un diritto sociale di cittadinanza non mediabile.

E sono gentili e cortesi quando ricordano che non vivono sulla luna. Il rifiuto della precarietà è radicale, perché lavorano già precariamente e il futuro non promette un cambiamento di condizione. Una forte consapevolezza della drammaticità della crisi economica, che impedisce di sperimentare una socialità piena al di fuori della famiglia. L'onda anomala vuol continuare a crescere. Sa che le prossime settimane la vedranno di nuovo in azione, ma nessuno prefigura cosa accadrà. C'è stato, appunto, un prima, dove molto era prevedibile, ma c'è stato un dopo considerato il contesto dove, per costruire un futuro, occorre cambiare il presente. Per questo occorre socializzare le esperienze, il proprio sentire.

E già ieri pomeriggio, in rete, il tam-tam dei blog ha detto che l'inchiesta era un sondaggio, più affidabile di altri, ma pur sempre un sondaggio. In fondo, hanno imparato la lezione e si comportano proprio come un media che non delega a nessuno la rappresentazione della propria realtà.

Radiografia dell'Onda

di Stefano Milani

È possibile studiare l'Onda? Prenderne l'essenza, metterla in una provetta ed analizzarla in laboratorio? Se è «anomala» poi, diventa tutto più complicato scomporla, decodificarla, definirla. Ci ha provato Edoardo Novelli, docente di comunicazione politica, insieme agli studenti del Dams di Roma Tre con un'interessante ricerca-sondaggio effettuata su un campione di 700 studenti a cui è stato chiesto di compilare un questionario. Chi sei, cosa fai, come vivi, per chi voti, quali sono i tuoi punti di riferimento, a cosa aspiri e via dicendo. Tutto materiale raccolto durante un'affollatissima assemblea di fine ottobre, mentre gli studenti organizzavano le mobilitazioni fuori dai loro atenei. Una fotografia di quello sterminato esercito del surf che quell'Onda sta cavalcando da settimane contro il decreto Gelmini, ora diventata legge dello Stato.

Il risultato che ne viene fuori è sorprendente, anomalo se vogliamo. Ti aspetti dei «facinorosi», ti ritrovi dei «bamboccioni». Il 75% vive ancora a casa con mamma e papà, «me li dai tu 700 euro per prendere quaranta metri quadri in affitto in periferia», ci dice Luca studente di Lettere. Bamboccioni per necessità, come dargli torto. Ma le sorprese sono altre. Politica? No, grazie. E nemmeno l'ideologia. «Noi ragioniamo sul merito e non per spirito di bandiera», dicono. I valori degli anti-Gelmini sono altri, i sessantottini non crederanno ai loro occhi: famiglia, amore, amicizia. L'impegno politico è solo al settimo posto. Lo dimostra il fatto che la stragrande maggioranza di loro (83,6%) non è iscritto nè a partiti nè a organizzazioni politico-sindacali. Certo, la connotazione vira decisamente più a sinistra, o meglio al centro sinistra. Nelle ultime elezioni uno su due ha messo la croce sul Partito democratico, nel senso che l'ha votato. Segue Sinistra arcobaleno (16,8%), Italia dei Valori (10,1%), Sinistra critica (3%) e poi il "partito" del non voto (9,5%) che tiene insieme astenuti, voti nulli e schede bianche.

E Veltroni è pure il politico più apprezzato, anche se decisamente più in basso (ottavo) nella top ten dei personaggi pubblici a cui i ragazzi «si sentono più vicini e in sintonia» (così recita la domanda). Sul podio c'è chi non ti aspetti: oro a Roberto Benigni, argento a Roberto Saviano (ci può stare), bronzo a Marco Travaglio. Due su tre sono personaggi pubblici, molto popolari e televisivi, in mezzo la figura che più incarna in questo momento l'impegno civico e civile. Seguono Gino Strada e Beppe Grillo, più staccata la strana coppia Jovanotti-Papa Wojtyla, chiudono il terzetto Veltroni, Di Pietro e il presidente della repubblica Napolitano.

Politica in zona retrocessione dunque, ma guai anteporre il prefisso "anti". «Meglio una voglia di una nuova politica, come rifondazione di una politica rappresentativa dei ragazzi che risponde alle loro idee e ai loro valori», come crede Francesca Cantù, preside della facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tre. E come confermano molti studenti. «A noi non interessa il gioco destra-sinistra, a noi interessa che la scuola e l'università restino pubbliche, che il precariato sparisca, che i tagli all'istruzione e alla ricerca vengano abbattuti. Non è politica questa?».

E la buona politica è anche quella che combatte la corruzione, che risulta (34,2%) l'urgenza maggiormente percepita dagli studenti, più del lavoro (29,7%) e del costo della vita (24,5%), comunque temi caldi. Decisamente più lontane le urgenze di chi invece li governa, come la sicurezza, la criminalità e l'immigrazione. Dalla ricerca, ha commentato Novelli «sono emersi aspetti conflittuali assimilabili ai valori degli anni '70, '80 e '90, vale a dire l'impegno, la sfera personale e l'antipolitica, che costituiscono un unico soggetto inclassificabile che forma insieme agli altri un'onda anomala». Un mix forse troppo riduttivo per fotografare un movimento la cui forza sta proprio nella «non appartenenza» e «l'imprevedibilità» come ci tiene a sottolineare Anna, studentessa del Dams. Sennò che Onda anomala sarebbe.

Questa crisi non sarà la fine del liberalismo, ma certo di quel che chiamiamo neoliberismo, teoria e pratica «criminale» lanciata da Milton Friedman e i suoi Chicago boys, basata sullo sganciamento del mercato del lavoro da ogni diritto, della finanza da qualsiasi «economia reale», intendendo per questa la produzione d'una merce non fittizia, e prima ancora, nel 1971, dalla fine dello scambio fisso del dollaro che era ancora la moneta di riferimento. Dalla deregulation del lavoro è venuta una crescente fragilità del lavoro dipendente, con il risultato che salari e pensioni rappresentano ora dieci punti di meno nel reddito nazionale, con conseguente indebitamento prima e ormai calo della domanda interna, corsa affannosa e inconcludente dei paesi occidentali a raggiungere la crescita dei famosi Trenta Gloriosi. Su questa base traballante è caduto il vero e proprio furto, praticato dalle banche, avallando e mettendo in circolo una quantità di «derivati», titoli tossici privi di qualsiasi valore, fondati sulla mera credibilità, l'avidità degli azionisti, la miopia degli hedge fund, il livello pazzesco del mercato e del credito immobiliare, la crescita esponenziale del prezzo del petrolio. Tutte scelte «politiche», per nulla oggettive, pura ideologia. Veri e propri furti che per la loro dimensione costituiscono un «crimine contro l'umanità».

Non misura le parole il socialista Michel Rocard su Le Monde di qualche giorno fa, che negli anni Settanta aveva fondato e diretto il Psu, qualcosa di mezzo fra i nostri Psiup e Pdup, ma poi era diventato primo ministro di Mitterrand. Non aggiunge che egli stesso e Mitterrand si arresero al neoliberismo almeno per quanto permetteva la tradizione gaullista. Ma questa resa non la riconosce da noi nessuno fra i socialisti e le varie anime dei Ds. Dunque pace. Rocard dice di avere scritto a Barroso alcuni mesi fa assieme a Jacques Delors e altri, suggerendo di guardare in faccia questa realtà, ma di non aver avuto risposta: «Nessun grande economista ha fatto fino a ora l'analisi della crisi». E propone agli stati di non limitarsi a evitare il fallimento a domino di tutte le banche e assicurazioni, di non regalare nulla, di sottoporne a controllo alcune pratiche, interdicendo i «derivati» e ponendo limiti precisi agli hedge fund. Non solo, ma occorre che si reintroduca la regolamentazione del mercato del lavoro (il contrario di quel che vogliono Marcegaglia, Bonanni, Angeletti e il Pd), di immettere in Europa da tre a quattro milioni di immigrati per riprendere un equilibrio e, per quanto riguarda il petrolio, puramente e semplicemente ridurne il consumo spostando la spesa sulle energie alternative. Insomma, che le iniezioni di liquidità degli stati non siano fatte gratis, che la politica riprenda in mano una qualche direzione dell'economia liberandosi dalla velenosa tesi friedmanniana che più gli scambi sono illimitati più il mercato trova il suo equilibrio.

Questa è socialdemocrazia bella e buona. La quale presuppone uno stato - finora se ne sono occupati solo i governi, sempre più monarchici - che cambi alquanto, a cominciare dalla Commissione della Ue. E non sembra facile. Dove sono le sinistre, chiedo scusa, i liberalsocialisti o democratici, che lo chiedono? Questa politica porrebbe mano non più che a un «salvataggio» del capitalismo, tenendo presente che niente altro in questa fase ne minaccia l'esistenza, perché la crisi rovina i senza mezzi di produzione prima che quelli che li possiedono e i redditieri. (Alcuni di questi, per fortuna, sono in difficoltà ma non poi tanto. Considerata la dismisura del furto subito, si poteva attendersi che l'ultimo dei banchieri fosse impiccato con le budella dell'ultimo degli assicuratori, per usare un'espressione sanguinaria. Ma nulla di simile sta avvenendo. Il tizio che fa fatto fallire la banca Fortis è stato, diciamo così, licenziato in questi giorni con una indennità di 4 milioni di euro e resta «consigliere speciale» della Fortis medesima).

Basta, non ci resta che sperare in Obama, sulle cui intenzioni in merito nulla sappiamo. Ma almeno usciamo dalla spensieratezza dominante. Poche ore fa il Tg1 economia ha osservato che, se è vera la prognosi di Almunia d'una crescita zero, cominceranno problemi per l'occupazione. Cominceranno!

Nadia Urbinati, docente di teoria politica alla Columbia University di New York, è avvilita per quanto sta accadendo in Italia. La prossima settimana la ministra Gelmini presenterà la legge di riforma dell'università e già circolano le prime indiscrezioni, che parlano ancora una volta di tagli e blocco dei concorsi.

È un progetto enorme e orrendo. È esplicita l'intenzione di privatizzare il sistema pubblico universitario. Il governo non sta semplicemente facendo tagli al bilancio, ma siamo di fronte a un evidente processo di privatizzazione. L'università italiana è stata edificata con i soldi pubblici degli italiani ed è un bene di tutti i cittadini, l'esito del lavoro di diverse generazioni. Il governo sta stravolgendo un bene collettivo.

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A mio modo di vedere essa si inserisce in un progetto ben più vasto. L'attuale governo Berlusconi, rispetto al precedente, ha un'identità ideologica più decisamente di destra. La riforma della scuola e i tagli all'università si collocano all'interno di un progetto volto a trasformare l'identità sociale del paese. Le conseguenze della legge Gelmini si possono riassumere in tre punti: toglie il diritto a un eguale livello di istruzione (tra l'altro creando scuole ghetto per i figli degli immigrati), apre la strada alla diseguaglianza sociale-educativa e usa lo Stato (decurtando risorse per la scuola pubblica) per creare artificialmente un mercato privato della scuola. Questa riforma si colloca all'interno di un'ideologia gerarchica e inegualitaria. Nessun governo aveva finora usato così pesantemente la logica dei costi-benefici per governare la scuola. Il messaggio pare chiaro: la scuola non è un bene importante per i cittadini italiani. Al contrario, essa è l'elemento fondamentale di qualsiasi riforma, sia essa antiegualitaria o progressista. Nel primo caso, come sta ora accadendo in Italia, l'obiettivo è quello di ridurre l'eguale distribuzione del bene scuola con l'esito (a mio parere voluto) di rafforzare un'oligarchia (che si avvarrà di ottime scuole private) e rendere la grande maggioranza a malapena capace di giudicare.

Il governo dice di ispirarsi al modello americano e usa l'argomento della meritocrazia contro la «casta» universitaria.

Il modello americano si regge su un'etica che in Italia è un bene scarso. Negli Usa un caso come quello del figlio di Bossi (bocciato all'esame di maturità e poi riammesso dal Tar, ndr) oppure come quello della stessa Gelmini che, per avere l'abilitazione da avvocato, da Brescia è scesa a Reggio Calabria, finirebbero sotto inchiesta e a entrambi verrebbe chiesto di dimettersi. Sono episodi che denotano tutto fuorché il valore del merito, ma in Italia non destano nemmeno scandalo. Senza controllo censorio non c'è meritocrazia possibile. L'università italiana non ha bisogno di nessuna riforma, ne sono già state fatte troppe. C'è invece bisogno di etica. Si deve scardinare il sistema clientelare e nepotista che ancora resiste in larghi settori dell'università e della ricerca. Occorrerebbe far lavorare insieme un sistema di penalizzazioni e uno di incentivi. Non mi fido di chi in Italia si riempie la bocca con la meritocrazia e poi ignora o finge di ignorare che siamo, con la Russia e la Nigeria, tra gli stati più corrotti al mondo e per molti scienziati politici un modello di «democrazia clientelare». Chi parla di meritocrazia è quindi, se in buonafede, quantomeno superficiale. Inoltre, pensare che la privatizzazione porti meritocrazia è quanto meno superficiale. Chi lo afferma o è impreparato oppure in malafede. L'esempio più mastodontico di corruzione dilagante viene oggi proprio dal privato, come dimostra la crisi di istituti di credito bancari e assicurativi.

Io cerco di tornare, faccio di tutto ma non ci riesco. È molto più facile arrivare alla Columbia University dall'Italia che dalla Columbia tornare in Italia. Si dovrebbero davvero introdurre degli incentivi e degli strumenti di valutazione del merito dei docenti e dei ricercatori. Per esempio si potrebbero diversificare gli stipendi: su una base uguale per tutti coloro che sono allo stesso livello di impiego, si potrebbero ipotizzare maggiorazioni per chi è più produttivo, non in termini di quantità ma di qualità. In Inghilterra è stato introdotto un sistema simile, che distribuisce le risorse in base al merito. Ma non sono certa che in Italia possa funzionare senza essere contaminato da forme di corruzione. Insomma, senza un senso etico del servizio non c'è possibilità di ottenere un sistema meritocratico. Ecco perché diffido di chi pensa che si possa introdurre il merito con una riforma. E poi, sarebbe opportuno smettere di riformare e invece pensare a preservare.

Molto positivamente. Non ha nulla a che fare con il '68, perché vede fianco a fianco studenti, insegnanti, docenti e ricercatori con un obiettivo mirato e specifico, ovvero la preservazione della scuola pubblica. Questo movimento esprime un'esigenza vera, perché la legge Gelmini incide sulla vita reale delle persone. È quindi giustissimo che i cittadini protestino. Il Pd non è stato capace di anticiparlo perché non ha compreso la gravità della politica del governo in materia scolastica. Così i cittadini hanno anticipato l'opposizione. Si è dimostrato ancora una volta che si tratta di un partito statico: un partito di opposizione che segue anziché anticipare l'insoddisfazione dei cittadini dimostra di non essere in sintonia con la società. Ma vorrei concludere facendo io una domanda al nostro governo. I beni pubblici sono continuamente decurtati, ma le tasse restano invariate se non aumentano. Cosa fa il governo con i nostri soldi? In una logica di privatizzazione, che senso ha dover pagare per dei servizi che o non arrivano, o sono scadenti o sono in procinto di essere privatizzati?

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