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Il Tevere è sempre stato considerato, fin dall'antichità, un fiume pazzo e scatenato. Se infatti il Danubio, dalla magra alla piena, raddoppia le portate, se il Po le incrementa di quattro volte, il Tevere può passare dalla miseria di 40 metri cubi al secondo anche a più di 3.000 metri cubi, cioè aumentare di 70-80 volte, in un numero limitato di ore. Ce ne accorgemmo in una discesa in gommone del Tevere, il 17 giugno 1986 (eravamo in quattro e avremmo raccontato l'avventura sul Messaggero): la mattina dovemmo spingere quasi l'imbarcazione dalla Villa di Plinio, curator alvei et riparum, presso Anghiari, per un bel tratto, poi ci colse un fortissimo temporale che rese così repentinamente alte e veloci le acque, divenute «bionde» per lo scioglimento delle argille, da farci attraccare con gran fatica ad una riva.

La piena tiberina di tre anni fa ha raggiunto nel tratto urbano i 12 metri. Quest'ultima l'ha superata di oltre un metro. Nel 1937 era salita a 17 provocando seri danni. Molto minori però di quella del novembre 1870, dopo la breccia di Porta Pia, veramente disastrosa (subito definita dai clericali «il castigo di Dio» per i Savoia), perché nel frattempo erano stati alzati fra fine '800 e primi anni del '900 i muraglioni. Non belli a vedersi, molto nordici e però utili. Hanno salvato la città dalle acque alluvionali con l'eccezione di qualche zona più bassa: Prima Porta, Magliana, Tordivalle (dove il nuovo Ippodromo del trotto, trasferito da Villa Glori, andè sott'acqua proprio il giorno dell'inaugurazione). Giuseppe Garibaldi si era battuto per un progetto più ambizioso: quello - che era stato, in sostanza, sponsorizzato da Giulio Cesare - di un canale scolmatore a ovest, da attivare nelle fasi di piena per salvare dalle alluvioni la città disposta allora per la maggior parte sulla riva sinistra. Ma non ebbe successo.

Tuttavia i veri problemi del «fiume scatenato» nascono a monte di Roma, soprattutto quando il Tevere riceve gli affluenti Paglia, in particolare, e Nera e successivamente l'Aniene. Il bacino del Paglia infatti è soggetto a piogge particolarmente intense, a forti temporali che aumentano di colpo le portate del corso principale, non essendovi in zona serbatoi idrici di «laminazione». Come del resto l'Aniene, le cui piene coincidono sovente con quelle del Tevere che ad un certo punto non riceve più le acque dell'affluente e le respinge, con un devastante effetto-rigurgito.

In Italia abbiamo, forse per disperazione, cementificato anche l'alveo di taluni torrenti e canali di rilevante pendenza, le cui acque raggiungono così velocità prima impossibili: accade (leggo dal Rapporto dell'Autorità di bacino del Tevere) «nelle formazioni impermeabili sede dei bacini Licenza e Fiumicino, corsi d'acqua che tanta parte hanno nella genesi delle piene del fiume Aniene ». E quindi del Tevere. Follie. Ma non meno pesanti, e pazzeschi, sono i danni provocati dall'abusivismo edilizio che i Comuni hanno tollerato nel tratto Roma-Orte. O che hanno addirittura cercato di legalizzare e di far avanzare in zone alluvionali - per esempio a Monterotondo - contro le prescrizioni dell' Autorità di bacino protestando ufficialmente contro di esse.

I fiumi infatti, da che mondo è mondo, devono poter sfogare la forza idraulica, devono poter disporre di vaste aree golenali ai lati dove esondare senza ostacoli. Tranne che in Italia, tranne che nel Lazio. Qui si sono consentite in tratti strategici costruzioni di ogni tipo e dimensione (come lungo l'asta mediana del Po o dell'Arno, del resto), che, durante le piene, vanno regolarmente sott'acqua.

Ma sono loro la causa primadi alluvioni che diventano in tal modo disastrose anche per zone e abitanti che non dovrebbero esserne colpiti. Se le golene rimanessero golene e non diventassero pioppeti o aree fabbricabili. Fenomeno colposo che si ripete alla foce del Tevere dove si è costruito in aree assolutamente vietate, nelle quali la trasgressione è da tempo la norma. Salvo versare poi amare lacrime. Su che cosa? Sulla propria superficialità e insipienza.

Dopo la grande alluvione del 1937 si pensò di rendere più veloce la discesa delle acque di piena verso il mare con una tipica Grande Opera (anche Benito Mussolini le amava in sommo grado): il "drizzagno" destinato a tagliare l'ampia ansa naturale della Magliana. Con un effetto grave a monte però- ha spiegato uno dei maestri dell' idraulica del Tevere, il professor Gianmarco Margaritora, per anni cattedratico alla Sapienza - nel senso che il Tevere, non potendo più sfogare la forza idraulica nel disegnare l'ansa della Magliana, la sfogò scavando all'indietro, su sufino a Ponte Milvio. In tal modo, ridottesi a causa delle dighe, i trasferimenti a valle di inerti, cioè di sabbia e ghiaia, il letto tiberino nei periodi di magra si abbassò che la corrente andava a battere pericolosamente sotto le fondamenta dei muraglioni stessi. Col rischio di infiltrazioni e di «fontanazzi» (nella zona del Flaminio). Per cui si dovettero adottare, grazie agli studi di Margaritora e di altri, delle «soglie» capaci di trattenere la sabbia ed alzare quindi il livello estivo delle acque. A conferma che le Grandi Opere fanno più male che bene e che bisogna «rinaturalizzare» i fiumi o lasciarli fare.

Certo, senza le dighe, l'onda di piena sarebbe a Roma assai più forte, e quindi pericolosa (con portate di 3.000-3.500 metri cubi al secondo). La più grande è quella dell'Enel a Corbara, in Umbria, sotto Baschi. La quale però, per alcune «fessurazioni» createsi ai lati, non può venire utilizzata in tutta la sua capacità riducendo così i benefici per il contenimento delle alluvioni tiberine. L'Autorità di Bacino ha elaborato in questi anni svariati piani per interventi di prevenzione e di difesa. Il CNR ha pure presentato nel 2006 ai Lincei i risultati di uno studio teorico sulle possibili alluvioni a Roma. Tutti i tecnici concordano sulla necessità di mettere in sicurezza il fiume fra Prima Porta e Ponte Milvio. Ma non si trovano i soldi necessari per interventi mirati, graduali, precisi. Per il bacino tiberino fra Roma e Orte il piano 2006 dell'Autorità fluviale prevede 1,6 miliardi di euro di spesa in più annualità. Queste sono le vere Grandi Opere,ma fanno poco rumore, poca audience, danno poca visibilità televisiva. E quindi non vengono finanziate. Fino al giorno del disastro? Una volta, almeno, lo attribuivano all' ira di qualche dio.

La buona politica fa acqua mentre il paese annega

Il Tevere sorvegliato speciale ma non è l’unico fiume a fare paura in questi giorni. Il problema non è come contenere l’allarme ma in che modo realizzare una strategia duratura per evitare l’emergenza. Interventi decisi e meno spreco di denaro pubblico tra mega appalti miliardari e supercommissari inutili

Il Tevere continua amettere paura, allaga, fa danni. Altri ne provocano fiumi, fiumare e torrenti nel Sud. Tutto per mancanza di investimenti ordinari, continui, incessanti. Ma vedrete che nella prossima riunione del Cipe il governo, per mano del ministro Altero Matteoli, caverà dal cilindro una somma cospicua (oltre 16 miliardi di euro)per alcuni maxi-progetti destinati ad essere varati chissà quando, magari per quella Autostrada della Maremma tanto cara al deputato di Cecina e al sindaco di Orbetello (che è poi sempre Matteoli), per la quale non esistono né un vero tracciato né un finanziamento reale. Opera che due trasportisti seri come i docenti milanesi Andrea Boitani e Marco Ponti hanno classificato al penultimo posto per rapporto costi/benefici, con la scritta «da non fare», fra quelle del governo Berlusconi 2001.

La politica dovrebbe fare uno e anche due passi indietro e darsi in questo campo strategico delle priorità vere sulla base di studi fondati sul rapporto fra costi (per i quali bisogna avere tutte le risorse e non inventarle)e benefici (di carattere diffuso, sociali ed economici). Allora ricominceremmo ad essere un Paese serio e a risalire dal pantano in cui populismo, clientelismo e videocrazia ci hanno precipitato. Buona politica sarebbe dunque:

1)applicarsi a completare le grandi opere in atto e mai finite (come la Salerno-Reggio Calabria ed altre di cui l'Unità si è occupata nelle scorse settimane con una approfondita inchiesta);

2) finanziare (ma completamente) opere medie e piccole che danno in breve tempo benefici al territorio e lavoro, occupazione, anche alle imprese minori invece escluse dai maxi-appalti. Le opere pubbliche dal costo superiore ai 50 milioni impegnano quasi undici anni per essere completate, 4,3 dei quali per la sola progettazione, mentre quelle di piccola o media entità ne impegnano molti di meno;

3)non nominare, per via politica, Supercommissari dai lauti stipendi destinati a travolgere norme, vincoli, trasparenze (lo rimarcano il Wwf e altre associazioni), ma lasciar fare, nel caso, alle Autorità di Bacino: le abbiamo create ad imitazione della Authority del Tamigi, con la differenza che questa ha riunito in sé i poteri di decine e decine di soggetti pubblici, mentre da noi Comuni, Province e Regioni hanno rinunciato a poco o a nulla. Coi risultati che vediamo. Secondo l'ultimo Rapporto del Cresme, la «gelata » in atto sui lavori pubblici non riguarda affatto le cosiddette «grandi opere» tanto reclamizzate dal presidente Berlusconi,ma le gare di importo inferiore ai 5 milioni di euro, che fanno poi la manutenzione di un Paese consumato, sfasciato, con tante frane, diffusamente sismico.

Lo stesso presidente dei costruttori, Paolo Buzzetti, propone un elenco di opere di manutenzione. La politica economica esige e propone infatti - come farà Obama negli Usa - una strategia di interventi fondati su progetti pronti, interamente finanziati o finanziabili, e quindi presto cantierabili, con tanta utile occupazione. Ma la politica, la cattiva politica vuole i mega-appalti (temiamo di sapere perché)e i Supercommissari.

In Abruzzo vince l’inquisito Chiodi”. “Colpa della questione morale nel Pd”. “Il Pd perde 10 punti, l’Udc ne perde 1, Di Pietro raddoppia, la Sinistra avanza”. “Bisogna scaricare Di Pietro e la Sinistra e allearsi con l’Udc”. “Sei mesi fa votò l’80%, ora solo il 53: un elettore su due è rimasto a casa, soprattutto in casa Pd, dopo l’arresto di Del Turco”. “Colpa di Di Pietro,bisogna andare con Casini, Cesa e Cuffaro,così gli elettori ritrovano l’entusiasmo e si precipitano alle urne”. “Costantini ha preso meno voti della coalizione: nel Pd qualcuno ha fatto votare Chiodi”. “Colpa di Di Pietro, bisogna escluderlo non solo dalla Vigilanza e dal Cda Rai, ma da tutti gli incarichi: in fondo ha solo il terzo partito d’Italia”. “Hanno arrestato per tangenti il segretario abruzzese del Pd, sindaco di Pescara”. “I giudici fanno politica”. “Ma hanno atteso che si chiudessero le urne”. “L’han fatto apposta per infierire sugli sconfitti”. “Ma han pure inquisito Carlo Toto, quello di Air One, che ha il nipote deputato Pdl e s’è visto salvare la compagnia dal governo, ma aveva ottimi rapporti anche col Pd”. “E’ la prova che i giudici fanno politica, contro la destra e contro la sinistra”. “A Potenza chiedono l’arresto del deputato Pd Francesco Margiotta”. “Anche a Potenza i giudici fanno politica”. “Ma l’inchiesta è di Woodcock, quello che ha indagato lo staff di Fini e Pecoraro Scanio”. “Anche lui fa politica contro destra e sinistra”. “Ma Margiotta era indagato da un anno in un’altra inchiesta, e il Pd l’ha ricandidato e riportato alla Camera lo stesso”. “Ha ragione Berlusconi: bisogna riformare la giustizia”.

Il caso. Due distinte operazioni per far decollare l'Alta velocità a distanza di dieci anni l'una dall'altra. Ma entrambe miseramente fallite per la mancanza di una gestione imperniata sui principi di efficacia, efficienza ed economicità. A pagare lo Stato e le generazioni future in alcuni casi addirittura fino al 2060

La sezione di controllo della Corte dei Conti non fa sconti nella relazione sulla gestione dei debiti accollati al bilancio dello Stato contratti da Fs, Rfi, Tav e Ispa per le infrastrutture ferroviarie necessarie alla realizzazione del sistema dell'Alta Velocità. Nel mirino della suprema magistratura contabile due ipotesi di accollo dei debiti - una nel 1996 e l'altra nel 2006 - che hanno in comune "la scelta normativa di accollare debiti, insostenibili per il gestore del servizio pubblico, allo Stato". E la gravosità delle operazioni di prestito e la scarsa trasparenza amministrativa e contabile nella gestione del debito.

Nel primo caso, quello che risale più indietro nel tempo, l'operazione si è inserita nel "solco tradizionale dei prestiti di scopo, il cui ammortamento viene rimborsato dall'Erario, anziché con i proventi del servizio"; nel secondo ha assunto le forme del project finance atipico "con rischi interamente gravanti sulla parte pubblica" che, osserva la magistratura contabile, garantivano il finanziamento delle linee ferroviarie "con debito pubblico futuro, nemmeno acquisito alle migliori condizioni di mercato".

La Corte dei Conti è implacabile non soltanto nei confronti dei manager pubblici accusati di "gravi carenze e manchevolezze che hanno favorito il nascere delle passività successivamente assunte dallo Stato. Nella fattispecie in esame - scrive in un altro passaggio la Corte -, gli interessi dello Stato-proprietario dovrebbero essere tutelati anche attraverso la vigilanza su determinate scelte, separando la discrezionalità manageriale, assolutamente insindacabile, da eventuali decisioni irrazionali o immotivate che abbiano inciso direttamente o indirettamente sul patrimonio pubblico". Ma spietato è il giudizio su operazioni come quella dell'Ispa (ex Infrastrutture spa) in cui si "caricava meccanicamente sull'erario lo sbilanciamento tra ricavi e servizio del debito".

A finire sul banco degli imputati è soprattutto la gestione del progetto finanziario che si basava su stime "molto ottimistiche di flusso passeggeri e di utilizzazione della rete. "La scissione tra questa previsione, l'andamento dei lavori e le stime della utilizzazione della rete ferroviaria da parte dei soggetti interessati, nonché la stessa individuazione generica di questi ultimi senza riscontri di carattere programmatico e contrattuale - scrive la Corte dei Conti - hanno reso l'ipotesi dell'autofinanziamento meramente virtuale, inducendo il graduale abbandono del progetto iniziale, sancito con la incorporazione di Ispa in Cassa Depositi e prestiti, con contestuale accollo del debito correlato al patrimonio separato a carico dell'Erario".

Insomma, per la Corte dei Conti l'Ispa ha costituito un "diaframma operativo" sul quale non sarebbe comunque dovuto venir meno un dovere di vigilanza-ingerenza che consentisse una attendibile ricostruzione dei costi industriali, finanziari, di ammodernamento delle linee, progettazione e acquisto di nuovo materiale rotabile. "Il totale di dette previsioni, geometricamente superiore alla entità dell'indebitamento previsto, pari a 25 miliardi di euro, fortunatamente dimezzato nel suo concreto sviluppo, doveva essere confrontato con le ipotesi di copertura, costituite, secondo gli indirizzi più volte esplicitati in sede parlamentare, dai ricavi delle nuove infrastrutture", annota la suprema magistratura contabile che aggiunge: "La nascita di Ispa era giustificata dall'esigenza di reperire sul mercato di capitali le soluzioni finanziarie ottimali, sulla base di criteri di trasparenza e di economicità. È evidente come tali intenti siano stati smentiti".

Ma come è nata la decisione di creare Ispa? "La decisione di caricare sul bilancio statale gli oneri della fallita operazione di project finance è, probabilmente, anche conseguenza del fatto che fin dal 2005 Eurostat ha espresso perplessità sulla esternalizzazione delle poste di finanziamento Tav rispetto al bilancio pubblico, chiedendo la riclassificazione settoriale dei finanziamenti di Ispa a Tav. Nella buona sostanza, la posizione di Eurostat avrebbe abbattuto l'ultimo diaframma di questo project finance virtuale. Per chiarire, si può affermare che, mentre di regola il cattivo esito di un project ricade sugli investitori privati, nel caso di specie detto onere è gravato interamente sullo Stato" - scrive la Corte dei Conti che nelle conclusioni sottolinea: "Contratti di servizio e finanziamenti vincolati dovrebbero essere sufficienti per porre rimedio ad un simile pregiudizievole andamento ciclico di scarico degli oneri sui conti pubblici: la loro realistica e corretta gestione, unita ad un severo monitoraggio e vigilanza sul permanere delle condizioni ipotizzate, appaiono snodi ineludibili per prevenire le esperienze non positive venute alla luce a seguito della presente indagine. (...) In definitiva, la scelta delle modalità degli investimenti dovrebbe tenere conto dei fondamentali principi-guida dell'efficacia, secondo cui la fonte di finanziamento dovrebbe tendenzialmente generare le risorse necessarie per farvi totalmente o parzialmente fronte e dell'efficienza, che dovrebbe indurre a scegliere la migliore soluzione che ottimizza al massimo grado, a parità di risultati, il costo delle risorse; ciò nella fondamentale prospettiva dell'equità intergenerazionale, in base alla quale i soggetti che beneficiano dell'investimento dovrebbero essere anche quelli chiamati a ripagarne i correlati debiti".

LA POLITICA degli annunci è ormai diventata non soltanto una tattica ma la strategia di tutto l’Occidente, dagli Stati Uniti all’Europa. L’Italia ha fatto da apripista e ne conserva il primato. Da questo punto di vista è corretto riconoscerne il merito a Silvio Berlusconi.

La giornata di venerdì è indicativa di questo stato di cose. Dopo il rifiuto del Senato americano di soccorrere le compagnie automobilistiche di Detroit con nuove erogazioni di denaro federale, il presidente eletto ma non ancora insediato, Barack Obama, ha esortato Bush ad intervenire scavalcando il voto del Congresso e il presidente scaduto ma ancora governante ha annunciato che troverà il modo di stornare 15 miliardi di dollari dai fondi destinati al sostegno delle banche indirizzando quella cifra verso l’industria dell’auto.

Le Borse che avevano lasciato sul terreno fino a quel momento cifre da capogiro, in pochi minuti hanno invertito la tendenza chiudendo tutte al rialzo. Se e quando all’annuncio seguiranno i fatti si vedrà nei prossimi giorni ma intanto il crollo è stato per ora scongiurato.

Nella stessa giornata di venerdì il vertice europeo guidato da Sarkozy e dal presidente della commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso, ha approvato all’unanimità due documenti definiti storici: quello sul clima e quello sulle misure economiche che dovrebbero arginare la recessione e rimettere in moto la crescita.

Definiti storici, quei due documenti che in realtà sono puri e semplici annunci, generici nella formulazione e privi di ogni sia pur minimo accenno a procedure esecutive, tempistica, sanzioni per eventuali inadempienze dei Paesi membri.

Il documento antirecessione prevede la mobilitazione di un punto e mezzo del Pil europeo pari a 200 miliardi di euro, ma si affretta a chiarire che si tratta di una previsione e lascia liberi i governi dei Paesi membri di agire ciascuno secondo le proprie strategie e le proprie disponibilità. Il documento sul clima si muove sulla stessa linea: l’Europa abbasserà le emissioni di gas inquinanti del 20 per cento entro il 2020, ma i Paesi membri ottengono importanti flessibilità nella vendita dei diritti di emissione nonché sostegno europeo per le imprese manifatturiere in difficoltà congiunturale. L’Europa a sua volta sosterrà questi oneri aggiuntivi utilizzando risorse stanziate per altri obiettivi che perdono in tal modo priorità. Si sveste un altare per vestirne un altro.

L’importante è che Sarkozy, Barroso e l’intera compagnia convitata per l’occasione possano annunciare che i due storici documenti sono stati approvati dai 27 governi i quali a loro volta rivendicano d’aver ottenuto importanti concessioni senza le quali molti di loro avrebbero posto il veto paralizzando sia la lotta all’inquinamento sia quella alla recessione. Per quanto riguarda il clima se ne riparlerà tra dodici anni, ma una tappa intermedia è prevista nel 2010 e farà il punto della situazione. Se le imprese stenteranno a procedere verranno chieste nuove concessioni e nuovi aiuti all’Europa. Per quanto riguarda invece la recessione, sarà l’andamento dell’economia a dirci fino a che punto i singoli governi avranno operato per arginare la catastrofe oppure avranno giocato con le parole anziché realizzare i fatti necessari. Nel qual caso saremo al collasso con conseguenze imprevedibili.

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Ho già detto che nella strategia degli annunci l’Italia berlusconiana detiene un primato di cui il suo inventore va giustamente fiero. Ha annunciato un programma economico anti-recessione di 4 miliardi e mezzo di euro, poi l’hanno aumentato a 6 miliardi; adesso stanno giostrando per trovare ancora qualche spicciolo in più, magari prelevandone una parte dagli stanziamenti per infrastrutture. Si tratta di cifre evidentemente insufficienti; tutte le stime attendibili sostengono la necessità di un intervento non inferiore ad un punto e mezzo di Pil e cioè qualche cosa come 25 miliardi da mobilitare e spendere entro il 2009.

Interventi di quest’ordine di grandezza produrrebbero un aumento del debito pubblico e del deficit, visto che il governo sperperò fin dal suo insediamento sei mesi fa ben 7 miliardi di euro tra Ici e Alitalia e ne perse poi un’altra dozzina a causa d’una preoccupante flessione del gettito tributario. In queste condizioni Tremonti non ha spazio per operare se non sfondando le colonne d’Ercole dei parametri di Maastricht sia per quanto riguarda il deficit e sia per il debito pubblico. Oppure spostando risorse da altri usi come del resto sta già facendo. Sottrarrà altri fondi alle aree sottosviluppate e chiederà all’Ue di autorizzarlo ad usare le risorse europee destinate a infrastrutture per rafforzare gli ammortizzatori sociali destinati a fronteggiare l’onda dei licenziamenti in arrivo tra febbraio e marzo. Anche qui si sveste un altare per vestirne un altro. Così fece il nostro ministro dell’Economia con la finanza creativa, gli swap, i condoni, le cartolarizzazioni, nella legislatura 2001-2005. Lasciò i conti pubblici nel baratro ed ora ripete la stessa manovra con segno invertito. Ne vedremo i risultati al più tardi tra due mesi.

Nessuno più di noi spera di essere smentito dai fatti, ma certo non si combatte questa durissima battaglia invitando i consumatori a largheggiare nei regali natalizi e i risparmiatori a investire i propri denari comprando titoli del Tesoro e azioni Enel e Eni. Questi non sono neppure annunci, ma buffonate.

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Altri annunci roboanti che faranno «flop» e che in buona parte lo hanno già fatto riguardano la riforma delle pensioni e quella delle scuole elementari e secondarie. Sulla prima, il ministro Brunetta si avventura in un’altra crociata inutile, chiedendo un innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile delle donne sul quale dissente palesemente mezzo governo. Sulla seconda, la Gelmini ha concordato con Cisl e Uil il rinvio di un anno delle riforme previste per la scuola superiore e ha rimesso alla libera scelta delle famiglie l’orario delle lezioni nelle scuole dell’infanzia nonché la scelta del maestro unico o quella di un «team» di insegnanti. Con tali modifiche la cosiddetta riforma Gelmini si riduce al minimo. Personalmente credo sia un bene. Si trattava infatti, e ancora si tratta per la parte residuale rimasta in piedi, di provvedimenti destinati più alla funzione di spot televisivi e mediatici che a riformare strutturalmente gli istituti scolastici. Secondo me la Gelmini va lodata per essersi resa conto che il suo approccio era praticamente insostenibile. Ha dimostrato saggezza anche se ora si ostina a sostenere che nulla è cambiato. Allora i sindacati hanno firmato una pagina bianca? Una delle due parti mente. Nei prossimi giorni sapremo quale, ma intanto i rinvii al 2010 sono già stati effettuati e il ministro si è impegnato ad aprire subito un tavolo di concertazione con i lavoratori precari della scuola. Non sono cambiamenti importanti? Che c’è di male, signora ministro, a riconoscere d’avere sbagliato?

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Il federalismo fiscale è nato come annuncio e tale resterà per un bel pezzo. Per ora è stata approvata una legge-quadro dove ricorre molte volte la parola federalismo ma non è indicata alcuna cifra, alcuna procedura, alcuna organizzazione concreta delle future istituzioni. La Lega vorrebbe che la legge-delega fosse approvata entro dicembre costi quel che costi. Forse si contenterebbe di gennaio ma non un mese di più altrimenti minaccia sfracelli.

Sta di fatto che il Parlamento è intasato e il presidente Fini non sembra nel «mood» di strozzarne i dibattiti. Bisogna approvare i decreti sulle banche e quello in arrivo anti-recessione, poi il decreto Alfano sulla giustizia, altre decretazioni del ministero dell’Interno e di quello della Difesa, le leggi sulla scuola, la legge elettorale per le elezioni europee. Sicché il federalismo, per essere infilato in mezzo a questa super- produzione legislativa, dovrà limitarsi ad un’altra genericità rinviando la sostanza ai regolamenti attuativi dove però entra in gioco la conferenza Stato-Regioni con poteri rilevanti.

In sostanza: la politica degli annunci sta facendo «flop». Se continuerà così diventerà assai poco credibile. Lo pensa anche Galli Della Loggia.

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Si dice: la Cgil ha fatto uno sciopero inutile. In una fase che richiede compattezza ha mandato in scena un vetusto rituale antagonista, perciò zero in condotta ad Epifani e ai lavoratori che l’hanno seguito rimettendoci anche una giornata di salario. Va detto che quei lavoratori erano parecchi. Hanno fatto uno sciopero politico senza alcun obiettivo pratico: così affermano i loro critici.

Secondo me questo modo di ragionare è sbagliato per le seguenti ragioni.

1. Lo sciopero generale è politico per definizione. Non ha come obiettivo la firma di un contratto di lavoro ma il rovesciamento di una politica economica che sfavorisce (secondo l’opinione del sindacato) i lavoratori.

2. Nel caso specifico la Cgil si schiera contro una politica che a suo avviso non tutela i lavoratori dagli effetti devastanti della crisi economica.

3. Lo sciopero generale ha un duplice obiettivo: premere sul governo e dare voce ad una protesta sociale che va al di là dei lavoratori rappresentati dal quel sindacato.

Se la Cisl e la Uil sono riuscite a realizzare alcuni risultati importanti per quanto riguarda la scuola ciò è in parte dovuto alla spinta del movimento degli studenti, alla protesta sociale mobilitata dalla Cgil e alla costante pressione dell’opposizione politica e parlamentare. Sta insomma prendendo forma una controffensiva molto articolata dove convergono con modalità e intenti diversi tutti i settori penalizzati, feriti, delusi e offesi della società sotto la spinta d’una tempesta economica che ha già sradicato gli equilibri esistenti fino a pochi mesi fa. A questa convergenza partecipano anche i sindacati «trattativisti» che riescono dal canto loro a tradurre in aggiustamenti parziali ma significativi gli effetti della protesta generale. La massima «marciare separati e colpire uniti» sembrerebbe esser stata fatta propria in questi ultimi giorni dai tre sindacati confederali.

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L’annuncio al quale invece seguiranno i fatti è quello sulla riforma costituzionale della giustizia. Alcuni osservatori sostengono che anch’esso alla fine si rivelerà uno spot tra i tanti e finirà dimenticato in un cassetto, come accadde alla Lega per la sua campagna di tolleranza zero contro i «rom» e contro l’immigrazione clandestina, cadute entrambe nel dimenticatoio dopo i rilievi e le censure formulate dalla Ue.

La riforma costituzionale della giustizia non è dunque uno dei tanti spot dei quali è lastricato il percorso berlusconiano allo scopo di tenere alti i sondaggi con i fuochi d’artificio degli annunci che si susseguono uno all’altro. Berlusconi vuole costruire una Costituzione della maggioranza. In Parlamento i numeri li ha, nella società spera di averli. La Costituzione della maggioranza infatti ha bisogno di un referendum confermativo che Berlusconi non teme ed anzi desidera pensando di trasformarlo in un referendum su se stesso, sul suo decisionismo, sul suo carisma, sul suo costante appello ai fantasmi d’una destra e regoli una volta per tutte i conti con la sinistra «comunista», con la giustizia «corporativa», con il Parlamento «parolaio» e con la «casta» identificata con i partiti di opposizione.

Questo è il suo progetto e questo il suo futuro. Di fronte ci sono tutte le forze che non vogliono il cesarismo plebiscitario, la monarchia che coopta i successori, la fine dello Stato di diritto, il Capo illuminato e populista cui delegare i poteri con una cambiale firmata una volta per tutte.

La contesa è aperta, la prognosi è riservata. Ma al centro del campo c’è il Presidente della Repubblica, l’elemento di massima garanzia che si batterà fino all’ultimo per impedire che possa esistere una Costituzione di maggioranza che abrogherebbe di fatto la Costituzione democratica, lo Stato di diritto, la politica dell’inclusione e non quella dell’esclusione e della prevaricazione.

Si batterà fino all’ultimo, di questo possiamo esser certi, non per spirito di parte ma per preservare i principi fondamentali della Carta costituzionale dai quali discendono quei diritti e doveri di cittadinanza che sono il tessuto civile dell’Europa e del mondo intero.

Stando alle veline del «glorioso Minculpop», ieri in Italia non ha scioperato nessuno. Fabbriche e uffici pieni, piazze vuote con la pioggia torrenziale a farla da padrona. Se avete incontrato nei vostri percorsi cittadini migliaia di lavoratori in corteo vi siete sbagliati: non avete incontrato nessuno. Se avete aspettato inutilmente il tram, avete sbagliato fermata. I Brunetta e Sacconi, scimmiottando il loro leader maximo, promettono che tireranno dritto. Anche secondo i padroni del vapore, dalla metalmeccanica Marcegaglia al suo collega confcommerciante Rivolta, fingono di esultare per il finto fallimento dello sciopero della Cgil. Le aziende tirano sui numeri delle adesioni nei loro capannoni, come fanno i ministri in guerra contro i pubblici dipendenti negli ospedali. Cisl e Uil corrono a ruota, nella sostanza si rammaricano per la loro solitudine e sperano in un ravvedimento di Epifani.

Poi c'è un paese reale, in cui un sindacato si sente solo quando perde il contatto con la sua gente, e non se ha contro i padroni e il governo sostenuti da due sindacati complici dello strazio che si sta facendo della quantità e della qualità del lavoro. Contro, la Cgil, ha anche la stragrande maggioranza dei media. Non ha contro i lavoratori, però, sballottati tra la cassa integrazione e i licenziamenti. Che lo sciopero di ieri sia riuscito nelle fabbriche e negli uffici vuol invece dire che gli operai dell'industria e gli impiegati del pubblico impiego, i cui salari a rischio sono ridotti all'osso - e con l'osso non si mangia - ci dice che c'è un consenso diffuso alla critica che la Cgil rivolge alle scelte economiche e sociali disastrose e classiste di Berlusconi e soci.

Bisognerà abituarsi ad avere contro tutti i poteri, senza neanche poter contare su una forte opposizione: vuoi perché non è forte, vuoi perché si appassiona più alle elezioni in Abruzzo oggi e a Strasburgo domani che alle condizioni di chi dovrebbe votare per loro, e in molti da tempo ha smesso di farlo. Certo, è difficile in un mondo mediatizzato trovarsi senza microfono. Forse bisogna passare più tempo a parlare con le persone in carne e ossa nelle fabbriche e nei territori, passando meno tempo nei talk show dove i cittadini sono ridotti alla condizione di telespettatori e i presunti oppositori a complici.

Formalmente lo sciopero di ieri, che a un operaio di Mirafiori nell'unica settimana di lavoro nell'arco di un mese costa tra i 50 e i 60 euro, era contro il governo, nella sostanza però era anche contro la Confindustria che detta le sue leggi ai burattini di palazzo Chigi. Sarebbe meglio se anche la Cgil, che ha subito una valanga di accordi separati, lo dicesse con maggiore chiarezza. Questo sciopero è riuscito, tenuto conto delle drammatiche condizioni economiche, sociali e politiche e ci insegna tante cose. Per esempio che i precari non possono scioperare, salvo essere rispediti a casa con un mese di anticipo sulla scadenza del contratto. A questo è ridotto il mondo del lavoro. Lo sciopero di ieri va inteso come l'inizio di un lungo cammino, fatto più di conflitto che di concertazione perché gli interlocutori con cui concertare hanno dichiarato guerra ai lavoratori e a chi cerca di rappresentarli. Gli scioperi non sono né una ginnastica muscolare né una scelta estetizzante, per chi lavora sono un grande sacrificio. Agli scioperi si aderisce quando se ne condividono le ragioni, se si è liberi di scegliere e sempre meno lavoratori lo sono, se servono a strappare dei risultati.

Non è per mostrare i muscoli o per fare il gioco del più uno che ieri, da Napoli e da Brescia, i segretari generali della Fiom e della Funzione pubblica hanno ricordato (anche alla Cgil) che con l'anno nuovo torneranno a scioperare per otto ore e si ritroveranno, magari insieme, a manifestare a Roma. Per strappare risultati, per difendersi dalla crisi. Per riunificare le lotte.

Sono solo tredici i paesi che fanno peggio del nostro e mandano più gas serra e inquinamento in atmosfera dell'Italia. Lo attesta un rapporto internazionale del German Watch che ci colloca al 44 posto nella classifica delle emissioni su 57 stati esaminati. Non poteva che essere così visto che questo paese non ha rispettato gli obiettivi del protocollo di Kyoto che lo vincolavano entro il 2012 a ridurre le proprie emissioni climalteranti del 6,5% rispetto a quelle del 1990 e che invece le ha notevolmente aumentate (13%).

Forse dalle belle piazze dello sciopero generale di oggi dovrebbe partire con forza un messaggio a questo governo perché la faccia finita con la devastante posizione assunta contro la direttiva europea sui cambiamenti climatici, che non può che aggravare l'isolamento del paese e la sua drammatica crisi sociale. Non che il tema non sia fra i motivi della mobilitazione, ma è solo aggiunto al lungo elenco dei problemi sociali irrisolti. Manca la consapevolezza dell'intreccio che lega la crisi economica finanziaria con quella ambientale, di cui il cambio di clima è l' espressione più inquietante. Non c'è soprattutto la convinzione che da politiche economiche e industriali in grado di risolvere i problemi ambientali, può venire anche la soluzione dei drammatici problemi sociali che la crisi economica sta producendo. Sarebbe una risposta molto forte a questo governo e alla sua macelleria sociale. Tanto più che in questi giorni i ministri della Repubblica stanno cercando, con minacce e ultimatum, di convincere il resto d'Europa a fare per il clima come loro, cioè nulla. Sanno già che non convinceranno nessuno, se non la parte più arretrata d'Europa, i paesi dell'ex blocco sovietico e quindi finiranno per mendicare ogni genere di sconto e rinvio sugli impegni, che poi a reti unificate spacceranno come la grande vittoria del governo italiano sul tentativo europeo di fregarci. Il raggiro dell'opinione pubblica è ormai metodo di governo. Si dimentica infatti che questo paese ha già ottenuto dalla commissione europea uno sconto non indifferente quando fu definita la direttiva sulle «tre 20». Non solo il 20% in più di fonti rinnovabili per noi, paese del sole, è solo il 17%, ma soprattutto quel 20% in meno di gas serra che dovremo realizzare non sarà più calcolato sulla base delle emissioni del 1990, ma su quelle del 2005, condonando così tutta la Co2 emessa dal '90 al 2005, quasi 90 milioni di tonnellate in più rispetto a Kyoto da multare e che invece sono state condonate. Ma l'obiettivo del nostro governo è più ambizioso: fare saltare l'intero pacchetto clima. Si vuole cioè rendere inefficace la principale arma politica, che si è data l'Europa, per coinvolgere il resto del mondo nella lotta ai cambiamenti climatici: prendere decisioni unilaterali.

Che stupefacente spettacolo di ipocrisia quello, offerto ieri a Poznam dalla peggior ministra dell'ambiente che questa Repubblica abbia mai avuto, la Prestigiacomo, quando, dimenticandosi di rappresentare uno dei paesi meno virtuosi nella lotta ai cambiamenti climatici, annunciava che il problema del clima sono i paesi in via di sviluppo, che inquinano e non fanno nulla e che vanno convinti a disinquinare, non con vincoli e regole, ma offrendo loro tecnologie pulite come il solare e l'eolico. Il continuo rimbalzo di responsabilità dà la misura della tempra morale di questa disastrosa classe dirigente. Siamo veramente alla beffa. Perché in questa offerta di tecnologia ai cosiddetti paesi in via di sviluppo non c'è nessuna idea di solidarietà e cooperazione, ma solo la fetenzia di un governo che, pur di non sviluppare qui il solare, l'eolico e le energie rinnovabili, preferisce farlo in Albania e in Cina, chiedendo però che quei pannelli fotovoltaici e quelle pale eoliche vengano conteggiate in quel 20% di fonti rinnovabili in più che la direttiva sul clima ci vincola a fare nei prossimi 12 anni, come se fossero stati installati sui tetti di Palermo e sui crinali appenninici. Enorme sarà la soddisfazione dei difensori del paesaggio come il noto critico d'arte Sgarbi, e il Ripa di Meana.

Fra poche ore ci sarà l'entrata in scena di Berlusconi che ancora ieri, non so da quale balcone, annunciava che il veto italiano spezzerà le reni all'Europa.

Il prezzo di isolamento politico e di aggravamento della crisi che gli italiani pagheranno per queste scelte è elevatissimo. Ieri il parlamento italiano è stato presidiato da manifestanti che chiedevano di ripristinare gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni energetiche degli edifici. Bisogna fare molto di più. Dallo sciopero generale di oggi può partire l'idea di unire l'opposizione sociale e politica al governo su un new green deal cercando di farlo crescere nel paese con conflitti e vertenze. Sarebbe un segnale forte all'Europa, che ieri con Barroso ha dichiarato gli obiettivi sul clima non negoziabili, che anche qui c'è un'opposizione che vuole far

6 dicembre 2008

Il giornale unico

Corriere della sera: “Guerra tra pm”. Repubblica: “Guerra tra pm”. Stampa: “Guerra dei pm”. Giornale: “Guerra tra giudici”. Mattino: “Guerra tra procure”. Unità: “Guerra totale tra procure”. Riformista: “Toga contro toga”. Europa: “Guerra civile fra magistrati”. In attesa del Partito Unico, abbiamo il Giornale Unico. Tutti a sostenere che Salerno uguale Catanzaro, anche se Salerno indaga su Catanzaro per un obbligo di legge,mentre Catanzaro indaga su Salerno contro la legge (su Salerno competente Napoli). Insomma avrebbero torto tutti: De Magistris, i suoi persecutori e chi li ha scovati. Come scrive su Repubblica il superprocuratore coi baffi, “nessuno si salva”. Anche perché “le inchieste di De Magistris sono state valutate da gip, Riesame e Cassazione: sempre De Magistris ha avuto torto”.Ma non è vero:delle tre inchieste che han suscitato il putiferio, due – Poseidone eWhy Not - sono state scippate al pm dai suoi capi in corso d’opera; la terza – Toghe lucane – è dinanzi al gip con una raffica di richieste di giudizio. Se poi De Magistris fosse un pm incapace sempre bocciato dai giudici, nonsi vede perché levargli le indagini anziché lasciarle bocciare dai giudici. Ma la manovra è chiara: De Magistris “deve” avere torto, e così chi ha le prove che ha ragione. Nessuno – salvo noi e il Carlo Federico Grosso sulla Stampa - denuncia l’abominio dei pm di Catanzaro che indagano i pmdi Salerno che indagano su di loro. Vien da rimpiangere il Minculpop: allora i titoli dei giornali li dettava direttamente il regime.Ora non ce n’è bisogno: si obbedisce agli ordini ancor prima di riceverli.

7 dicembre 2008

Separare le corriere

Dopo tre giorni di dibattito, prende finalmente corpo la soluzione all’inesistente“scontro fra Procure”: una bella “riforma della giustizia” da approvare con maggioranza “bipartisan” (e quale, se no?) e alla svelta, magari per decreto. Angelino Jolie invita il Pd a unirsi alla compagnia e il solito D’Alema abbocca all’istante. La riforma si annuncia avvincente. Si dice che impedirà il ripetersi di casi come questo. Siccome questo nasce da una procura che scopre reati commessi da un’altra, la riforma dovrà anzitutto vietare a una procura di indagare su un’altra. Echi deve indagare sui magistrati che commettono reati? L’Arcicaccia? La Forestale? Slow Food? L’unica soluzione è stabilire che le toghe non sono più soggette alla legge. Dopodichè i soliti cretini diranno che “il magistrato che sbaglia non paga”: in verità lo dicono già oggi,salvo gridare alla “guerra tra procure” quando un pm indaga su qualche collega fuorilegge. Insigni commentatori spiegano poi che i pm di Salerno non dovevano sequestrare gli atti di WhyNot,ma chiederli (in realtà li chiedevano da febbraio, ma Catanzaro rifiutava di consegnarli). Non dovevano presentarsi con le volanti della polizia a Catanzaro (la prossima volta prendano la corriera). E soprattutto non dovevano scrivere un decreto di perquisizione di 1700 pagine. Ergo la riforma dovrà stabilire pure l’esatto numero di pagine. Suggerirei non più di una pagina emezza, scritta in corpo 32, così gli imputati potranno sostenere che la perquisizione non è ben motivata, dunque è nulla. E ora sotto con la riforma. Vieni avanti, decretino.

9 dicembre 2008

Morale a terra

Il dibattito sulla «questione morale a sinistra» si fa ogni giorno più elevato. I pregiudicati De Michelis, Di Donato e Pomicino si consolano perché il più pulito ha la rogna, nella speranza che le manisporche altrui puliscano le loro.AlTappone, presentando il suo candidato in Abruzzo Gianni Chiodi, ovviamente inquisito, punta il dito contro le porcherie degli altri. I quali, nonostante gli sforzi, non ce l’hanno ancora fatta a eguagliare le sue. Infatti gli rispondono che lui ha portato in Parlamento un bel po’ di condannati e inquisiti. Vero, peccato che ne abbian portati anche loro. Maun po’ di meno. Sono come quella signora citata da Enzo Biagi, la cui figlia era «incinta,ma solo un po’». Quando Beppe Grillo, al V-Day dell’anno scorso, raccolse unmare di firme per una legge di minima decenza che espella almeno i condannati dalle liste elettorali,mancòpoco che lo impiccassero: la legge di iniziativa popolare langue in commissione Affari costituzionali, presieduta dall’ottimo Carlo Vizzini, salvato dalla prescrizione per la maxitangente Enimont.Violante ha finalmente individuato il nemico da battere: i magistrati, che «hanno troppo potere», dunque bisogna levargliene un po’, d’intesa con Al Tappone che non vede l’ora. Piercasinando, dopo un vertice con Cuffaro e col commissario Udc di Legnano appena arrestato per spaccio di droga, invita il Pd a liberarsi di Di Pietro, pericolosamente incensurato. Intanto Capezzone intima alla sinistra di scusarsi con Craxi. Poi -comeha scritto unragazzo sulmio blog - chiederà a Olindo di scusarsi con la Franzoni. 10 dicembre 2008

Easy handcuffs

Arrestato per corruzione e frode il governatore democratico dell’Illinois, Rod Blagojevich: dopo mesi di intercettazioni, è accusato di aver tentato di vendere la poltrona senatoriale liberata da Obama. L’Fbi – rivela il Chicago Tribune - indagava su di lui da tre anni per tangenti in cambio di assunzioni. «Le accuse sono sconvolgenti», dichiara il procuratore Fitzgerald: «Blagojevich ha preso tangenti e usato il suo incarico per frenare la libertà di critica della stampa». Immediate le reazioni. George Neapolitan è «allarmato per l’ennesima guerra fra politica e magistratura» e chiede gli atti alla procura. IlCsmsiprepara a trasferire Fitzgerald in Alaska. Silvio Swarf è solidale con Blagojevich, «vittima del giustizialismo delle toghe rosse che calpestano la privacy». Sull’Evening Courier, Angel Whitebread domanda: «Era proprio necessario questo arresto-spettacolo?». Casparr, Chikkitt, Bondy e Little Sheep denunciano in una nota «l’abuso di intercettazioni e il circuito mediatico-giudiziario, impensabili nelle vere democrazie come gli Usa». Little Angel Alphanous invia gli ispettori a Springfield e invita i democratici a «votare le mie riforme della giustizia e delle intercettazioni».MaxLittle Moustache e Anne Fennel aprono al dialogo. Per Lucian Violator «i giudici han troppo potere sui politici, dobbiamo riscrivere la Costituzione con Blagojevich, non appena sarà scarcerato». Daniel Big Nipple sfida i democratici: «Ora chiedano scusa ad Al Capone ». In un pizzino rinvenuto per caso, Nicholas The Tower scrive: «Io non posso dirlo, ma queste intercettazioni cominciano a starmi sul cazzo». 11 dicembre 2008

Csm: Ciechi, Sordi, Muti

L’altro giorno stavo leggevo le famose 1700 pagine del decreto di sequestro della Procura di Salerno sugli atti negati da quella di Catanzaro, quando mi ha telefonato una gentile collega del Corriere. Voleva un commento sulle parentele di un magistrato legato a questo caso. Finalmente – mi son detto - un giornale che ha letto il decreto e vuol parlare dei fatti. Cioè del letamaio in cui sguazza la giustizia calabrese. C’è solo l’imbarazzo della scelta: il procuratore Lombardi che toglie a De Magistris l’inchiesta Why Not quando viene indagato il forzista Pittelli, suo avvocato e socio del figlio della sua seconda moglie; l’aggiunto Murone, descritto da Salerno come legato a molti politici indagati da De Magistris (Saladino, Pittelli, Galati, Mastella, Chiaravalloti). Una sfilza di toghe con parenti assunti da Saladino: la presidente del Riesame di Catanzaro, l’ex presidente del Tribunale di Lamezia, il presidente di quello di Cosenza. E l’ex presidente dell’Anm, Luerti, che in una casa di Saladino addirittura abitava, essendo affiliato ai Memores Domini, la confraternita di Cl, e ora piagnucola perché il suo voto di castità è finito nel decreto. Pensavo che lo scandalo fossero questi intrecci, che un Csm serio avrebbe reciso fin da subito, ringraziando i pm di Salerno che li hanno scoperti. Invece, dopo De Magistris, si vuol cacciare pure loro. Coerentemente, il Corriere voleva un parere su una gip di Salerno che è cognata di Michele Santoro. Una giudice imparentata a un incensurato? Ma questa è incompatibilità ambientale. Che aspettano a trasferirla?

12 dicembre 2008

Regime? Magari

Il presidente del Consiglio comunica alla Nazione che riscrive la Costituzione a colpi di maggioranza e a propria immagine e somiglianza per metter la Giustizia alle dipendenze del governo, cioè sue. Ma nessuno dei presenti ha nulla da obiettare. Anche perché l’annuncio eversivo non lo dà in Parlamento o in Consiglio dei ministri, ma al Tempio di Adriano, dove presenta l’ultimo libro di Bruno Vespa pubblicato da Mondadori, cioè da lui. Il libro, rapidamente entrato e ancor più rapidamente uscito dalle classifiche dei più venduti, è definito dal premier editore (che non l’ha letto) «un poema dantesco, dall’Inferno della sinistra al Paradiso del mio governo: regalàtelo a Natale, così fate contenti gli editori». Cioè lui. L’insetto se la ride di gusto e ne ha ben donde: il premier lo mantiene da anni con tutta la famiglia. Pur pensionato, Vespa va in onda su Rai1 quattro sere a settimana per 1,2 milioni l’anno grazie a Del Noce, cioè a Berlusconi. Il quale gli pubblica i libri e paga lautamente una rubrica su Panorama. Qui lavora pure il fratello, Stefano Vespa, mentre la signora Augusta Iannini in Vespa dirige l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia del governo Berlusconi: la paghiamo per scrivere le controriforme di Angelino Jolie. Il vernissage si chiude con sapide battute sugli sport preferiti dal satrapo («le donne e la caccia, ovviamente alle donne»): entusiasmo incontenibile. Nelle stesse ore il Csm anticipa la riforma e diventa il plotone di esecuzione della politica: via tutti i pm di Salerno che osano indagare sul verminaio di Catanzaro, allarmando tanti bravi ladri. È vero, questo non è un regime. È peggio.

Marco Travaglio racconta qui, in un lungo colloquio registrato, la vicenda che ha coinvolto le procure di Caatanzaro e Salerno, il CSM, il Presidente della Repubblica, il ministro della Giustizie e decine di altri membri delle istituzioni repubblicane e dei poteri reali. Ma che cosa c’è dietro l’apparente “rissa” tra le due procure? Capirlo sembrerebbe importante

l’Unità

«Cambiare la Costituzione? Così è pirateria istituzionale Vuole pm sottomessi»

di Franco Cordero

Giurista, autore di pamphlet polemici e docente di procedura penale, Franco Cordero commenta con disincanto l’intenzione del premier di modificare la Costituzione da solo, salvo referendum confermativo: «Sul piano tecnico c’è poco da dire: rispettando l’articolo 138 la maggioranza può fare ciò che vuole. Ma è pirateria politica. Un gesto di eversione mascherato legalisticamente osservando i requisiti costituzionali».

Un atto fuori dalla normalità istituzionale?

«Prima che emergesse Berlusconi non era concepibile che la Carta fosse modificata o solo emendata senza il consenso di tutte le parti. Ma siamo nel campo dell’onestà, della moralità, della fisiologia politica».

Per i costituzionalisti è una scelta legittima però inopportuna.

«Un gesto simile sarebbe autentica soperchieria. Equivale a dire: ho i numeri grazie ai quali faccio quello che voglio. Nessun giurista con la testa sul collo e sufficiente cultura può dire che una riforma così nasce invalida. Nasce vergognosamente combinata».

Fini, alleato di Berlusconi, ha evocato il cesarismo.

«È una formula debole rispetto a ciò che il premier ha in mente. Cesare e Ottaviano non agivano così. Ottaviano era rispettoso dell’autorità del Senato, non si arrogava poteri abnormi. Gli veniva riconosciuta auctoritas: prestigio politico, autorità morale, carisma. Ben lontano dalla fenomenologia che abbiamo sotto gli occhi».

Berlusconi non vuole ostacoli alla sua riforma della giustizia. La separazione delle carriere è utile o dannosa?

«È una formula eufemistica sotto cui vuole costruire il pm come ufficio investigativo che riferisce al Guardasigilli. Quindi le procure lunga mano del governo. È chiaro che salta il concetto di obbligatorietà dell’azione penale».

È un obiettivo realizzabile?

«Se anche si togliesse di mezzo questo aspetto, e l’articolo 112 fosse amputato, non si avrebbe un pm manovrato dall’esecutivo. La Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni. Dunque la questione si invelenirebbe».

Fino a che punto?

«Nel delirio di onnipotenza Berlusconi punterebbe a una revisione radicale per fondare la signoria che di fatto già esercita. Il presidente eletto, investito di consenso carismatico che rende irrilevante il conflitto di interessi perché il popolo sovrano lo ha assolto. Discorsi da ignorante di logica costituzionale moderna».

Quali sono i pericoli?

«Quest’ottica implica una regressione di 7 secoli, al regime di signoria selvaggia. Un terrificante passo indietro fatto in una logica stralunata».

Sono proclami o si arriverà davvero a questo scenario?

«Politicamente il referendum è un grosso rischio. Se fallisse Berlusconi ne uscirebbe colto in flagrante debolezza. Credo che cercherà di acquisire, con metodi in cui lo sappiamo esercitatissimo, i consensi parlamentari che gli servono. Ma resta lontano dalla maggioranza dei due terzi che gli serve».

In questa legislatura il Parlamento non lavora a vantaggio del consiglio dei ministri. Un’altra anomalia?

«Decide lui con i suoi. Ha un concetto piratesco pure dei decreti legge. È una forma condizionata a presupposti di necessità e urgenza: in più casi il governo ne ha fatto un uso visibilmente abusivo».

Berlusconi usa la questione morale contro il centrosinistra. Ha qualche fondamento?

«Le regole morali valgono per tutti e l’affare Unipol non è stato edificante. Ma la sua logica è: tra noi e voi non esiste differenza antropologica, siamo tutti uguali in un paese dove i giudici non applicano equamente le leggi e i cittadini non hanno la moralità nel sangue, quindi non seccatemi. Ovviamente non è così».

Cosa dovrebbe fare l’opposizione ora che il dialogo è defunto?

«L’alternativa di una collusione non sarebbe stata molto più virtuosa. Se i contenuti della riforma restano lontani dall’ortodossia costituzionale, meglio che il premier vada da solo piuttosto che condividere un gesto soperchiatorio».

la Repubblica

"La Carta non è strumento di potere così Berlusconi torna a Cromwell"

di Gustavo Zagrebelsky

A Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente emerito della Corte costituzionale, Repubblica chiede di riflettere ad alta voce sul significato e il valore dell’annuncio di Silvio Berlusconi: il premier vuole riformare, con la sua sola maggioranza, il Consiglio superiore della magistratura; separare in due diversi ordini la magistratura giudicante dalla requirente (i pubblici ministeri); un referendum popolare dovrebbe poi confermare entro tre mesi il disegno.

«Prima di discutere il merito - dice Zagrebelsky - qualcosa va detto sulle riforme mancate, sulle colpe, le responsabilità dei riformatori finora mancati. Mi definisco un conservatore costituzionale. Penso che il lavoro compiuto all’inizio di un ciclo politico sia sempre più apprezzabile, migliore, di un’attività in corso d’opera. E tuttavia non è che non veda come un grave deficit non aver adeguato i meccanismi di garanzia della Costituzione alle trasformazioni del sistema politico. Ne è un esempio proprio l’articolo 138?».

L’art. 138 della Costituzione regola le leggi di revisione della Costituzione.

«Appunto, l’art. 138 prevede che le riforme costituzionali debbano essere approvate con un ampio consenso raccogliendo il voto della maggioranza e di una parte dell’opposizione».

Qual era il significato di questo consenso qualificato?

«Che la Costituzione, la sua manutenzione, le sue modifiche non dovessero essere appannaggio della pura maggioranza. Poi però le leggi elettorali hanno cambiato il sistema politico, polarizzandolo su due sponde e ora chi ha il sopravvento nella competizione elettorale e conquista la maggioranza si fa da sé le riforme costituzionali».

Salvo poi sottoporle a referendum popolare, come ha ricordato Berlusconi.

«Berlusconi ha fatto un discorso piano. Prende atto della disciplina costituzionale, si fa votare la sua riforma con la maggioranza che il sistema elettorale attuale gli ha dato, chiede al referendum l’approvazione definitiva. Anche se ineccepibile, però, questo metodo cambia profondamente l’essenza stessa della Costituzione».

Perché, se quel metodo è previsto dalla stessa Costituzione?

«Perché ci sono due nozioni di Costituzione. La prima considera la Costituzione come strumento di chi governa. Per Cromwell, la Costituzione, è appunto Instrument of Government. Siamo qui alla presenza di Platone, Aristotele, Hobbes, Schmitt. Per venire al presente o al passato prossimo, non c’è in Sud America vincitore di elezioni, capo-popolo o colonnello, che non abbia e annunci un suo progetto costituzionale: è lo strumento di cui intende servirsi per esercitare il potere».

Qual è la seconda nozione?

«E’ la nostra. Qui il riferimento è John Locke. La Costituzione è inclusiva. Non è scritta da chi vince contro gli sconfitti. La Costituzione non si occupa di chi sia il vincitore. Scrive principi per tutti, garantisce i diritti di tutti. Noi siamo figli di questo costituzionalismo. La nostra Carta fondamentale è nata con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950. La Costituzione italiana si colloca in questa tradizione. E’ nata per essere inclusiva, per valere per tutti. Non è uno strumento di potere ma di garanzia contro gli abusi del potere. Berlusconi invece vuole fare il Cromwell. Può essere ancora più chiaro se ritorniamo al 138. Quell’articolo prevede che anche un accordo politico ampio possa essere bocciato da una minoranza del corpo elettorale. Come si sa, il referendum costituzionale non ha il quorum e, se vanno a votare il 20 per cento degli italiani, l’11 per cento può bocciare la nuova legge. Il progetto di Berlusconi capovolge questa logica. Non riconosce al referendum un potere distruttivo, ma pretende che sia confermativo della riforma votata soltanto dalla coalizione di governo. Diciamo che la manovra, di tipo demagogico, manomette la Costituzione, annullando lo spirito di convivenza che la sostiene, e la trasforma in strumento di governo, in strumento di potere».

Si può dire che la riforma annunciata non fa che accentuare quella «china costituzionale» di cui lei spesso ha scritto: indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per la dialettica parlamentare, per la legalità.

«Sì. Un regime liberale-democratico adotta come principio ciò che dice l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: "Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione". Una Costituzione che diventa strumento di potere contraddice la separazione dei poteri. E’ quel che sta accadendo. Abbiamo già un Parlamento impotente dinanzi a un governo che impone le sue scelte con il voto di fiducia. Ora è il turno della magistratura».

Lei condivide la previsione che la separazione del pubblico ministero dal giudice anticipa la sottomissione della magistratura requirente all’esecutivo?

«Ci sono molti aspetti discutibili nella divisione del Consiglio superiore della magistratura in due, ma uno è chiaro fin d’ora. Se un pubblico ministero non è un magistrato a pieno titolo, che cos’è se non un funzionario dell’esecutivo? E evidente allora che, secondo logica, quel funzionario dovrà dipendere da un’autorità di governo, così pregiudicando l’indipendenza della funzione giudiziaria e cancellando la separazione dei poteri. Mi chiedo: che bisogno c’è?».

E’ inutile nascondersi che è lo spettacolo offerto dalla magistratura, con il conflitto tra due procure, ad aprire spazi a questi progetti di riforma.

«Lo spettacolo è sgradevole e la situazione in cui versa la magistratura italiana è certamente insoddisfacente. Ma mi chiedo: le proposte che si avanzano eliminano le difficoltà e i difetti o li aggravano?».

Qual è la sua opinione?

«Per quel che ho letto, dalle inchieste di Catanzaro sono emersi collegamenti della magistratura con ambienti politici, finanziari, malavitosi. La soluzione che propone il governo - l’attrazione del pubblico ministero nell’area della politica governativa - rafforza quei legami e non elimina quindi le cause delle disfunzioni, mentre bisognerebbe lavorare per rendere effettiva l’autonomia della magistratura dai poteri economici, amministrativi, politici e, naturalmente, criminali. Il disegno di riforma, codificando una dipendenza, avrà un solo effetto: eliminerà la notizia di quei legami, non la loro esistenza. Continueranno a esserci, ma non si vedranno».

Quali sono le responsabilità della magistratura in questa crisi?

«Il sistema costituzionale assegna alla magistratura il massimo dell’indipendenza e non sempre questa posizione è stata usata con la responsabilità necessaria. Se le cose funzionano, il merito è della magistratura. Se non funzionano, bisogna dirlo, è della magistratura il demerito».

Quali sono le ragioni o le prassi o le convinzioni che inceppano l’autogoverno della magistratura?

«Non c’è dubbio che la formazione di correnti, che all’inizio è stata favorita da un confronto culturale (culturale era il dibattito su come si dovesse interpretare la Costituzione), ha finito per diventare strumento di promozione e di carriera. E’ una degenerazione. Se non hai una corrente alla spalle non assurgi a un incarico direttivo. Solo una corrente può proteggerti quando verrai giudicato per i tuoi errori. Mi sembra che l’autonomia non sia stata gestita nel senso per il quale è stata prevista».

Forse anche per questo è largo il consenso per una riforma.

«Ci sono le istituzioni e gli uomini. La migliore Costituzione può essere corrotta da uomini mediocri. Una mediocre Costituzione può funzionare bene con uomini capaci. Credo che la magistratura debba fare un severo esame su se stessa. Se il sistema non funziona, non ne porta anch’essa la responsabilità?».

Lei crede che questa riforma costituzionale alla fine si farà davvero?

«Si può sperare che nella maggioranza ci sia qualcuno che si renda conto della delicatezza delle questioni. Sono in gioco le garanzie, i diritti, i principi e l’eguaglianza del cittadino di fronte alle legge. Perché se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica. Mi appare incredibile che si vada avanti su una strada così pericolosa e non ci siano voci responsabili che denuncino il pericolo, anche all’interno della maggioranza».

Se il governo, come dice Berlusconi, tirasse diritto?

«Siamo in una situazione tristissima. Penso che occorrafar breccia nelle convinzioni collettive, spiegare all’opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all’altro secoli di storia e di v

IL PAESE A MANUTENZIONE ZERO

di Ettore Livini

L´Italia che sogna il Ponte sullo Stretto e infioretta ogni finanziaria (ultima compresa) di faraoniche incompiute infrastrutturali si trova oggi - svegliata dalla cronaca di tutti i giorni - di fronte a una realtà molto più amara: l´emergenza delle piccole opere. Le abnormi conseguenze del maltempo di ieri a Roma così come il drammatico crollo del controsoffitto del Liceo Darwin di Rivoli delle scorse settimane sono solo la punta dell´iceberg. Dalle scuole ai ponti, dalle strade fino agli argini dei fiumi e agli ospedali, il Belpaese si sta avvicinando pericolosamente al punto di non ritorno della "manutenzione zero".

«Abbiamo perso la cultura di occuparci delle piccole cose quotidiane, quelle necessarie per mandare avanti la nazione come fosse un condominio» ammette Fabio Melilli, presidente dell´Unione di quelle province italiane che gestiscono gli edifici scolastici e buona parte della rete viaria nazionale. Tagliamo tanti nastri tricolori (costano poco), ci ripromettiamo massicci interventi dopo ogni tragedia. Ma poi, spenti i riflettori, tutto torna come prima: la coperta è corta, i soldi non ci sono, il Ponte sullo stretto torna in prima pagina e la sistemazione di buchi nell´asfalto, edifici pubblici che cadono a pezzi e corsie d´ospedale in condizioni da terzo mondo ? "investimenti invisibili" che danno poco ritorno d´immagine ? scivolano inesorabilmente in coda alla lista delle priorità.

La cura delle nostre infrastrutture, in questo senso, è un po´ come la ricerca. Se c´è da tagliare qualche costo, zitti zitti, si finisce per sforbiciare lì. Tanto nessuno se ne accorge.

Mancano i soldi per il taglio dell´Ici? Nessun problema: basta ridurre del 30% i fondi del Piano nazionale per la sicurezza stradale, come ha fatto il governo nei mesi scorsi. Un risparmio un po´ miope visto che gli incidenti automobilistici costano al paese 35 miliardi l´anno. Calano i trasferimenti agli enti locali? Poco male, le Regioni (ci sono naturalmente molte lodevoli eccezioni) risparmiano sugli investimenti per tenere in sesto gli ospedali: si lima sulle spese di pulizia, si rinviano le ristrutturazioni dei padiglioni.

Morale: quando lo Stato manda i Nas a controllare le strutture che dovrebbero garantire la salute dei cittadini, scopre (è successo nel 2007) che tra impianti fatiscenti e attrezzature inadeguate quasi il 50% è fuori norma.

Il buco nell´asfalto

La fotografia più drammatica dei costi della mancata manutenzione tricolore - come dimostra a sufficienza la cronaca di ieri - è lo stato di salute delle strade italiane. A livello ufficiale sembriamo il Bengodi. «Noi investiamo a questo scopo cifre sempre crescenti - assicura Pietro Ciucci, presidente dell´Anas - . Quest´anno 700 milioni, l´anno prossimo 730». «Le nostre spese per tenere in ordine la rete viaria sono cresciute in modo vertiginoso fino ai 2,9 miliardi del 2006», conferma l´Unione delle Province italiane cui il decentramento varato nel 2000 con la Legge Bassanini ha affidato l´80% dell´asfalto di casa nostra.

I numeri raccontano però un´altra storia. L´Italia assieme al Belgio è di gran lunga il paese con più incidenti mortali d´Europa, 96 l´anno per milione d´abitanti, e soprattutto è quello che dal 1991 ad oggi ha fatto i minori progressi, riducendo il numero di vittime solo del 32%, la metà di quanto hanno fatto Germania, Francia e Spagna. E la mancata manutenzione è una delle cause principali di questo inglorioso record. «Siamo il paese che spende di meno in Europa - spiegano all´associazione nazionale bitume e asfalto - . Oggi si interviene sul 6% della viabilità ogni anno quando il "minimo sindacale" per un intervento adeguato sarebbe l´8% e gli investimenti sono calati del 10% in due anni».

«Il decentramento in molti casi ha finito per creare confusione - conferma Melilli - e il futuro è difficile visto che con i nuovi tetti alle spese varati dal governo, nel 2011 potremo spendere solo un terzo di quello che investiamo oggi. Un peccato perché in un momento di crisi come questo le piccole opere potrebbero essere un volano per le economie locali molto più efficiente delle grandi». Tra l´altro non sarebbero certo soldi buttati. Dove si fa manutenzione vera i risultati si vedono: l´impegno di Autostrade per il rinnovo del network con interventi come l´asfalto drenante ha ridotto la mortalità sulla rete del 20,7% solo nel 2007, consentendo di centrare in anticipo l´obiettivo Ue di ridurla del 50% entro il 2010. «Servirebbe un intervento di sistema», dice Umberto Guidoni, segretario generale di Fondazione. Peccato che a remare contro sia proprio la testa del sistema: l´Italia spende solo 53 milioni l´anno per il Piano nazionale della sicurezza stradale, venti volte meno del resto d´Europa, una cifra da cui il governo Berlusconi ha appena stornato 17,5 milioni per finanziare l´addio all´Ici...

Gli argini dei fiumi

La tragica contabilità delle vittime e dei danni delle piogge di questi giorni ha portato allo scoperto un altro tallone d´Achille delle infrastrutture italiane: la mancata manutenzione degli argini e delle briglie dei fiumi. Le statistiche di Protezione civile e Legambiente fotografano una situazione quasi da terzo mondo: il 70% dei comuni del nostro paese è a rischio idrogeologico. Con un doppio problema: il 77% degli enti locali (dati 2008) ha consentito di costruire case e interi quartieri in aree pericolose per incassare gli oneri d´urbanizzazione (più del 50% ha dato l´ok persino a insediamenti industriali!). Ma nel 42% dei casi non si provvede ad alcun intervento - pur solo di conservazione - delle sponde dei corsi d´acqua. Non si consolidano gli argini, si dimentica di puntellare le briglie di contenimento. E le conseguenze, basta leggere la cronaca di quanto è successo tra Sardegna e Lazio nelle ultime settimane, sono sotto gli occhi di tutti: tracimazioni, allagamenti, l´indignazione di un giorno o due per poi tornare al solito tran-tran. «Servirebbero meno sagre e più prevenzione», sintetizza il numero uno della Protezione civile Guido Bertolaso.

Il fronte della scuola

La morte di Vito Scafidi, travolto dal controsoffitto della sua scuola di Rivoli non è frutto di «un caso isolato», ha detto Bertolaso dopo la tragedia in Piemonte. I numeri gli danno ragione. Un censimento globale della Cgil ha stabilito che un istituto su tre ha bisogno di interventi urgenti per la sicurezza strutturale. Un´indagine a campione della Protezione civile su 3mila scuole (un decimo circa del patrimonio nazionale) ha stabilito che quelle che rispettano i parametri normativi sono appena il 30-40%. Quanti soldi servirebbero per arrivare a standard europei: «Tredici miliardi - ha snocciolato Bertolaso in audizione alla Camera poche settimane fa - . Quattro solo per mettere a norma gli edifici in aree sismiche». Il problema non sono però solo i fondi a disposizione. Anche quando c´è qualche spicciolo, infatti, la burocrazia ci mette lo zampino, trasformando il suo utilizzo in una sorta di via crucis. Per riuscire a trasformare in interventi reali i 500 milioni stanziati nel 2003 dopo il crollo della scuola di San Giuliano (27 bimbi e una maestra morti) ci sono voluti cinque anni, necessari per districarsi tra Cipe, competenze ministeriali e autorizzazioni degli enti locali.

Emergenza in corsia

Anche per gli ospedali, come per le strade, generalizzare è impossibile. Dati nazionali sullo stato della loro manutenzione non ne esistono. Sono nascosti nelle pieghe dei conti delle singole strutture e nei labirinti dei conti regionali. La realtà però è che le spese per la loro gestione - stimano alla Società italiana per l´ingegneria e architettura della sanità (Sias) - sono ferme al 3% contro una media europea del 10% circa. «La situazione è a macchia di leopardo - spiega il presidente della Sias Daniela Pedrini, - con centri nuovi che sono oasi d´eccellenza e vecchie realtà degli anni ?60 dove non ci sono stati interventi e i nodi stanno venendo al pettine».

La fotografia più allarmante dello stato di conservazione dell´edilizia sanitaria nazionale è quella scattata nel 2007 dai Nas dei Carabinieri, spediti dal ministero della salute a ispezionare 854 nosocomi dopo un´inchiesta denuncia de "L´espresso" sull´Umberto I di Roma. In quel caso ben 417 ospedali sono stati sanzionati e 778 persone segnalate all´autorità giudiziaria. «Sono dati che vanno letti in controluce - spiega l´allora ministro Livia Turco - . La situazione in alcune regioni è difficile, ma in diversi casi le multe riguardavano peccati veniali come il mancato rispetto del divieto di fumo. Certo, l´ammodernamento dei nostri ospedali è un problema vero. Ma per quanto riguarda sicurezza e qualità delle cure mi sento di dire che i cittadini possono stare sereni». Parole tranquillizzanti, anche se la casistica delle infrazioni censite dai nuclei anti-sofisticazione è imbarazzante: sporcizia in decine di strutture, muri scrostati e piastrelle rotte in altre, impianti antincendio fuori suo, pannelli divelti, macchine arrugginite, cavi elettrici non protetti, insetti in reparto, aziende prive persino dell´attrezzatura per lavare e sterilizzare le padelle. La maggior parte delle contestazioni, scrivono i Nas, è legata «all´omesso adeguamento strutturale dei reparti». Alcuni dei quali - a seguito dell´ispezione - sono stati chiusi. Dietro la lavagna sono finiti Calabria (36 strutture irregolari su 39) e Sicilia (67 su 81). Ma anche in Toscana e in Emilia hanno avuto qualche problema rispettivamente metà e un terzo degli ospedali. L´Italia dell e piccole opere ha ancora molta strada da fare.

COSÌ LA CITTÀ DIVENTA TRAPPOLA

di Gabriele Romagnoli

In una capitale d´Occidente una donna è morta ammazzata dalla pioggia. C´è qualcosa di inaccettabilmente surreale nella fine di Bruna Carrara, anni 54. Intrappolata nell´auto-intrappolata nel sottopassaggio-intrappolato nell´acqua che intrappolava la città di Roma. Non si può pretendere che la morte abbia un senso, ma almeno, se accidentale, che rispetti delle coordinate geografiche. Fa vittime uno smottamento a Kigali, o un proiettile vagante a Conakry, ma un temporale in Europa non dovrebbe comportare il fatidico «tragico bilancio» con danni alle persone e alle strutture, paralisi degli spostamenti e valzer delle responsabilità.

Eppure è accaduto. Le foto scattate sul luogo della sciagura rafforzano l´impressione dell´assurdo. Mostrano sommozzatori che riemergono da uno stradello trasformato in un fiume profondo oltre tre metri. Alle loro spalle, oltre le bombole, il sottopassaggio dove è affondata la vettura. Erano, sostiene la ricostruzione ufficiale, le 5 del mattino. La donna era uscita di casa per recarsi al lavoro presso un´impresa di pulizie. La pioggia batteva da ore. Nella notte ne era caduta quanto nell´ultimo mese, che non l´aveva risparmiata. Non era stato ancora diramato alcun allarme, ma non c´era da fronteggiare uno tsunami. Davanti a Bruna Carrara non c´era un oceano con l´incognita nascosta dell´onda anomala, ma un paio d´incroci di Monterotondo.

La giungla, quand´anche d´asfalto, non abitava lì. Neppure il più prudente dei conducenti può pensare di annegare in auto mentre affronta il percorso quotidiano... E´ tale la convinzione che non dovrebbe accadere da far escludere che possa. E´ un salto logico sul vuoto e in quel vuoto entrano quintalate d´acqua e trasformano l´inverosimile in cronaca. Come è possibile? E come può accadere tutto il resto che ha fatto di Roma una città bloccata e furibonda, costretta a sfollamenti da tempo di guerra e interventi disperati dei pompieri in gommone? L´acqua alta può portare a una letteraria «morte a Venezia», ma a Roma? Intendiamoci: il punto non è «piove, governo assassino». Fu a suo tempo ridicolo accusare: «C´è stata una vittima nella metropolitana e Veltroni pensa alle feste». Lo sarebbe dire: «Una donna è annegata in galleria e Alemanno pensa alla Badescu».

L´effetto della pioggia, perfino di quella ordinaria, su Roma è sproporzionato da una quantità di anni che inghiotte sindaci di ogni colore e capacità. E´ la nenia dei tassisti: «Due gocce e la città si ferma», ma è anche una verità, accettata come troppe con rassegnazione, come se fosse immutabile. Se le strade di Roma diventano impraticabili a ogni temporale, è evidente che hanno un difetto. Magari appena torna il sole si potrebbe risolverlo, anziché dimenticarsene. Occorre rifarle a dorso d´asino? E´ utile?

Costoso (quanto valeva la vita della signora Carrara)? Si può nominare una commissione che lo stabilisca, anche se non avrà l´effetto mediatico di una bipartisan con dentro Giuliano Amato? «Non uscite in macchina, prendete i mezzi», è stata invece la reazione del sindaco, questa sì inadeguata. Di fronte alla tragedia il potere politico risponde rivelando sempre più apertamente la mistura di cinismo e improvvisazione che lo connota. L´esempio massimo (in scala 1000 a 1 rispetto a quanto accaduto ieri) rimane George W. Bush quando, all´indomani dell´uragano Katrina, continuò a giocare a golf: «Ehi you a New Orleans, non prendete la macchina». Quello più paradossale fu il governatore della Campania, Antonio Bassolino, quando dopo anni trascorsi ad aggravare la situazione collettiva e migliorare quella personale, suggerì di risolvere il problema «dando ai napoletani il senso della sfida».

Certo, esiste un confine sottile tra la fatalità e la tragedia evitabile e stabilire a quale delle due categorie un fatto appartenga è spesso una questione più filosofica che scientifica. Tuttavia si ha l´impressione che la politica tenda a liquidarla con criteri assolutamente soggettivi: quando non conviene è un evento imponderabile, quando si può affibbiare la responsabilità ad altri è stata una «disgrazia annunciata». A Roma in particolare il balletto delle responsabilità degenera in sgangherata caciara radiofonica e produce l´inquinamento visivo dei manifesti lampo che, con prontezza degna di miglior causa, le parti avverse affiggono per accusarsi e replicare con linguaggio da alterco di scuola elementare («Visto? E tu dov´eri?», «Zitto! Ancora parli?»). Costelleranno anche stavolta le strade appena ridiventeranno transitabili, in attesa che il prossimo acquazzone li infradici, poi blocchi la città e infine fatalmente intrappoli qualche temerario, per senso della sfida uscito in auto, deciso ad attraversare addirittura il sottopassaggio di una capitale d´Occidente.

Siamo dunque giunti al punto. Ieri Berlusconi ha annunciato l´intenzione di cambiare la Costituzione, a colpi di maggioranza, per "riformare" la giustizia. Poiché per la semplice separazione delle carriere non è necessario toccare la carta costituzionale, diventa chiaro che l´obiettivo del premier è più ambizioso.

O la modifica del principio previsto in Costituzione dell´obbligatorietà dell´azione penale, o la creazione di due Csm separati, uno per i magistrati giudicanti e uno per i pubblici ministeri, creando così un ordine autonomo che ha in mano la potestà della pubblica accusa, il comando della polizia giudiziaria e il potere di autocontrollo: e che sarà guidato nella sua iniziativa penale selettiva dai "consigli" e dagli indirizzi del governo o della maggioranza parlamentare, cioè sarà di fatto uno strumento della politica dominante.

Viene così a compiersi un disegno che non è solo di potere, ma è in qualche modo di sistema, e a cui fin dall´origine il berlusconismo trasformato in politica tendeva per sua stessa natura. Il passaggio, per dirlo in una formula chiara, da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico. Un potere incarnato da un uomo che già ha sciolto se stesso dalla regola secondo cui la legge era uguale per tutti con il lodo Alfano, vero primo atto della riforma della giustizia, digerito passivamente dall´Italia con il plauso compiacente della stampa "liberale" ormai acquisita al pensiero unico e alla logica del più forte.

Oggi quel prologo vede il suo sviluppo logico e conseguente. Ovviamente la Costituzione si può cambiare, come la stessa carta fondamentale prevede. Ma cambiarla a maggioranza, annunciando questa intenzione come un trofeo anticipato di guerra, significa puntare sulla divisione del Paese, mentre il Capo dello Stato, il presidente della Camera e persino questo presidente del Senato ancora ieri invitavano al dialogo per riformare la giustizia. Con ogni evidenza, a Berlusconi non interessa riformare la giustizia. Gli preme invece riformare i giudici, come ha cercato di fare dall´inizio della sua avventura politica, e come può fare più agevolmente oggi che l´establishment vola compatto insieme con lui, due procure danno spettacolo indecoroso, il Pd si lascia incredibilmente affibbiare la titolarità di una "questione morale" da chi ha svillaneggiato la morale repubblicana e costituzionale, con la tessera della P2 ancora in tasca.

Tutto ciò consente oggi a Berlusconi qualcosa di più, che va oltre il regolamento personale dei conti con la magistratura. È l´attacco ad un potere di controllo - il controllo della legalità - che la Costituzione ha finora garantito alla magistratura, disegnandola nella sua architettura istituzionale come un ordine autonomo e indipendente, soggetto solo alla legge, dunque sottratto ad ogni rapporto di dipendenza da soggetti esterni, in particolare la politica. Il governo che lascia formalmente intatta l´obbligatorietà dell´azione penale, ma interviene sul suo "funzionamento" - come ha annunciato ieri il Guardasigilli Alfano - attraverso criteri suoi di "selezione" dei reati e "canoni di priorità" nell´esercizio dell´accusa, attacca proprio questa garanzia e questa autonomia, subordinando di fatto a sé i pubblici ministeri.

Siamo quindi davanti non a una riforma, ma a una modifica nell´equilibrio dei poteri, che va ancora una volta nella direzione di sovraordinare il potere politico supremo dell´eletto dal popolo, facendo infine prevalere la legittimità dell´investitura del moderno Sovrano alla legalità. Eppure, è il caso di ricordarlo, la funzione giurisdizionale è esercitata "in nome del popolo" perché nel nostro ordinamento è il popolo l´organo sovrano, non il capo del governo. Altrimenti, si torna allo Statuto, secondo cui "la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome".

Questa e non altra è la posta in gioco. Vale la pena discuterla davanti al Paese, spiegando la strategia della destra di ridisegnare il potere repubblicano dopo averlo conquistato. Ma la sinistra sembra prigioniera di una di quelle palle di vetro natalizie con la finta neve che cade, cercando di aprire (invano) la porta della Rai, come se lì si giocasse la partita. Fuori invece c´è il Paese reale, con il problema concreto di una crisi che ridisegna il mondo. A questo Paese abbandonato, Berlusconi propone oggi di fatto di costituzionalizzare la sua anomalia, sanandola infine dopo un quindicennio: e restandone così deformato

Fino a qualche mese fa, chi gettava l’ombra di una critica sul «boom» edilizio al galoppo dal 2000, veniva trattato da corvaccio del malaugurio. Oggi in tanti si strappano i capelli reclamando, al solito, «aiuti» dal governo nazionale e da quelli regionali per salvare un comparto che rappresenta – ed è vero – il 10,5 per cento del Pil. Eppure la crisi era prevedibile man mano che procedeva la «grande abbuffata» di cemento in tutto il Belpaese, nelle aree metropolitane come nelle zone interne più intatte. Tre dati di questa mega-contraddizione: 1) l’indice dell’industria delle costruzioni è balzato da 100 a 135 in soli sette anni, si è badato esclusivamente a speculare sulle prime e sulle seconde, o terze, abitazioni, e quindi incendiando il caro-case tenuto su dai mutui «facili» delle banche; 2) nello stesso periodo la popolazione, in Italia, è cresciuta relativamente poco (+ 3 per cento); 3) quel poco però risulta costituito, per lo più, da giovani coppie, da immigrati, da coppie di extra-comunitari oppure miste, che reclamano, case e/o affitti a prezzo contenuto o addirittura basso, senza trovare nulla, senza che ci sia stata una qualche politica in tal senso (il piano casa del governo Prodi, per 550 milioni, è di un paio di anni fa).

Esito scontato: alla prima crisi internazionale, dopo gli Stati Uniti, dopo la Spagna (che aveva più «febbre» di noi), è la volta dell’Italia a bloccarsi e lo fa frenando di colpo. I titoli del gigante Pirelli Real Estate – protagonista nelle vendite del patrimonio degli enti previdenziali e in altro ancora - sono precipitati, da aprile ad oggi, da 60 a 3,68 euro (quotazione di mercoledì 3). Non sta molto meglio la Ipi di Danilo Coppola. La Gabetti va chiudendo filiali su filiali e prevede 500 licenziamenti. Il mercato, fortemente speculativo, da solo ha fatto flop, com’era prevedibile.

I modi di reagire sono i più diversi. La Spagna – che sta peggio di noi e che ci aveva affiancato in testa alla classifica dei grandi produttori di cemento (altri posti a rischio, dopo aver saccheggiato, con le cave, intere montagne e colline) - ha provato a darsi una legge urbanistica più severa. In Italia, al contrario, si reclamano norme urbanistiche ancora più permissive, quelle del modello-Milano dove ormai la pianificazione urbanistica si basa sulla contrattazione diretta fra il Comune e i grandi detentori di aree. Non basta, il sindaco Letizia Moratti ha chiesto il raddoppio delle cubature edificabili entro i confini ristretti del suo Comune (appena 17.000 ettari) per riportarvi dentro, udite udite, i 700.000 cittadini che se ne sono andati nell’ultimo trentennio. «Una cosa campata in aria», ha dichiarato più di un urbanista serio.

«Non si vende quasi più niente», afferma da Roma il presidente di Federlazio, Antonio D’Onofrio. In un semestre le compravendite di case sono calate, in Italia, del 14 per cento e le previsioni per il 2009 sono ancor più negative. Con tutto ciò, l’Expo di Milano sembra venire largamente giocata sul terreno di nuovi grattacieli e grattacielini. Per chi? Non si sa. Nei mesi scorsi, a Vigevano c’erano mille cantieri aperti per ospitare altri milanesi in fuga dalla metropoli. Lo stesso a Pavia e a Voghera. Ma la Regione Lombardia dove sta? Cosa fa? Cosa programma? Abolisce gli standard urbanistici ed è propensa a lasciar costruire nel Parco Sud di Milano.

Sappiamo cosa programma il governo Berlusconi. Secondo il «Sole 24 Ore» (29 novembre), «il Piano casa procede con meno fondi del previsto (l’ultima cifra è 150 milioni di euro), mentre all’estero l’ultimo annuncio viene dal governo inglese, disposto a varare un piano da 1 miliardo di sterline»(cioè circa 850 milioni di euro, una bella differenza). A Roma i costruttori, che fin qui hanno tirato su una marea di nuovi quartieri (fra i più mediocri, da ogni punto di vista, dell’ultimo mezzo secolo) guardando al solo mercato senza preoccuparsi, incoraggiati dalle banche, di una domanda di alloggi a costi e a canoni medio-bassi, minacciano crisi nera e licenziamenti per un terzo dei 150.000 addetti. Al solito.

In Italia si sono dati, nell’ultimo trentennio (qualunque fosse il governo in carica), questi tre fenomeni concomitanti: 1) è proseguita la corsa senza freni alla proprietà dell’alloggio (siamo all’80 per cento ormai) col risultato di “impiccare” per decenni, alle rate dei mutui milioni di giovani e di giovani adulti; 2) si è grandemente rattrappita l’area dell’affitto per il quale figuriamo fra gli ultimi nell’Europa avanzata col 19 per cento, contro il 31 della Gran Bretagna, il 38 della Francia, su su, fino al 55 per cento della Germania; 3) si è abbandonata, di fatto, quella politica per la casa che aveva portato l’edilizia economica e sociale verso la media europea del 20-25 per cento e che ora ci vede ultimi con un investimento pubblico risibile (1 per cento). Del resto, i promotori di nuove iniziative immobiliari sono diventati principalmente gli stessi costruttori, sono loro a fare il bello e il cattivo tempo. Mentre una volta, al primo posto, c’erano i privati, le cooperative contavano e il settore pubblico era tutt’altro che irrilevante.

La progressiva contrazione dell’affitto (o dell’affitto conveniente, una volta sepolto l’equo canone) in una società divenuta, per contro, più “mobile” provoca tragedie sociali di massa. Secondo il Sunia, la causa principale degli sfratti non è più la fine della locazione, bensì la morosità cronica di inquilini che non ce la fanno più a pagare: venticinque anni fa essa costituiva meno del 13 per cento delle cause di sfratto, oggi sfiora il 78 per cento. Impressionante. Discorso analogo per l’edilizia economica e popolare, una volta utilissimo volano in tempi di crisi. Lasciata quasi a secco, essa costruisce ancora qualcosa soltanto col ricavato dalle vendite di alloggi di proprietà pubblica. Che sono meno di 800.000, mentre ne occorrerebbero più del doppio. Certo, c’è chi in passato ha concorso a dissestare i bilanci dei vari Istituti Case Popolari, non pagando i canoni, pur bassi o bassissimi. Per non parlare del flagello delle occupazioni abusive. Ma una politica moderna di “social housing” era possibile, anzi indispensabile. Secondo Nomisma, la domanda potenziale di questi alloggi a fitto convenzionato, cioè per giovani coppie, immigrati, universitari fuorisede, pendolari forzosi, è molto elevata. Su 3 milioni e mezzo di immigrati regolari, più di 1 milione abita in locali precari a prezzi da levar la pelle. Seicentomila persone sarebbero a caccia di un alloggio a fitto sopportabile.

Infine: abbiamo un patrimonio abitativo enorme che già nel 2005 superava i 130 milioni di stanze. Un 20-25 per cento sono seconde e terze case. Sottratte le quali, restano pur sempre circa 94 milioni di stanze per neppure 60 milioni di residenti. Dunque c’è una vastissimo patrimonio di alloggi vuoti, sfitti, precariamente occupati, da recuperare, risanare, restaurare. A cominciare dai centri storici dove lo spopolamento ha raggiunto vette inimmaginabili. Nella metropoli, Roma, dove se ne è andato quasi il 78 per cento degli abitanti del dopoguerra, come nella piccola città, Urbino, dove è uscito dalle mura oltre l’85 per cento. Per non parlare di Taranto o di altre città antiche del Sud ormai desertificate.

Ma i costruttori dicono no ad investimenti massicci nel recupero di appartamenti, di interi palazzi e quartieri semiabbandonati. “Si risparmia a costruirli ex novo su aree pubbliche”, spiega il neopresidente dei costruttori romani, Eugenio Batelli. Difatti a Roma – dove ci si è accorti, improvvisamente, che mancano 30-40.000 alloggi per immigrati e giovani coppie – ci si prepara ad una nuova divorante abbuffata di ettari nell’intatto Agro Romano, anche là dove ci sono vincoli. Un altro “sacco”, l’ennesimo, forse il peggiore. Mentre, per contro, il centro storico, nuovamente invaso da auto e Suv, senza vigili urbani (chi li ha più visti?), da una costellazione insensata di pizzerie, piazze-a-taglio, bar, gelaterie, pub, abusivi o effimeri, spesso frutto di riciclaggio, si svuota di residenti e diventa città degli uffici e dello shopping di giorno e “divertimentificio” di notte, con problemi angosciosi di spaccio e di criminalità. Mentre i giovani e gli immigrati vanno fuori, il più possibile. Magari senza mezzi pubblici. Così si comprano l’auto “impiccandosi” ad altri debiti.

«Lottizzazione abusiva». Dovevano essere, al più, borghi rurali. Per la pioggia di ville a Riano, periferia romana, costruttori e acquirenti sotto inchiesta.

«Vivevamo a Roma ma volevamo una villetta con giardino per la pensione», dice Anna, pensionata, casalinga lei, noleggiatore con conducente lui. «Marta, Argo», chiama i cani corsi fuori dal cancello verso la valle davanti casa, dove di giorno pascolano le pecore. Via di Valle Braccia, Riano, alle porte della capitale, eldorado dei romani in cerca di quello che a Roma non si possono permettere: di qua la campagna, i lecci, di là, in fila sul costone le villette a schiera. Due piani, il giardino. Da ieri mattina su ogni cancello accanto al cartello «attenti al cane» campeggiano anche i sigilli della Forestale: «Area sottoposta a sequestro giudiziario» per lottizzazione abusiva. Sotto accusa le licenze rilasciate per costruire villette in piena zona agricola. Centodiciassette villini sequestrati, 193 avvisi di garanzia per costruttori, titolari delle concessioni edilizie, direttori dei lavori, funzionari dell’ufficio tecnico del Comune e inquilini dei villini. Un’ecatombe giudiziaria in un paese che conta ottomila anime e da sempre è governato dalla democrazia cristiana, anche se ora si chiama Udc e governa dal 1997 alternando giunte con An e Fi (1997-2001), con i Ds (2001-2006) e dal 2006 di nuovo con il Pdl, alla faccia delle alterne vicende nazionali. Le concessioni edilizie sotto accusa sono state rilasciate tutte dal 2000 al 2001, quando era sindaco Gianluca Cardarelli, riletto nel 2001 e ancora oggi in consiglio comunale tra i banchi della nuova maggioranza.

Sulla carta dovevano essere «borghi agricoli», secondo il piano regolatore del 2000. Due righette non troppo stringenti, aggirate per fare spazio alle villette in pieno agro. In fondo a via di Valle Braccia, proprio sul costone, c’è già lo scheletro di un nuovo abuso edilizio, di fronte a un gruppo di villette abitate dal 2004, poco più in là, il primo nucleo di una lottizzazione che risale al 2001. Sedici borghi rurali, che, con qualche firma e passaggio burocratico, si sono tradotti in villette vendute dai 300 agli 800mila euro. «Abbiamo fatto tutto in regola dal notaio», dice un inquilino. «Noi abbiamo piantato olivi e alberi da frutta», si schermisce un altro, che in giacca e cravatta giura: «Stavamo pensando di darci all’apicoltura».

Apri «Il Riformista» di ieri a pagina 23 e ci trovi la storica intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer, 28 luglio 1981, in cui l'allora segretario del Pci metteva la «questione morale» al centro della già montante crisi della politica e rivendicava la «diversità» del Pci rispetto ai partiti di governo - Dc e Psi craxiano - che avevano «occupato lo stato». Apri tutti i giornali e ci trovi Bettino Craxi in tutte le versioni, maledetto (da Achille Occhetto: è perché si è messo sulla strada di Craxi invece che di Berlinguer che il Pds-Ds-Pd si è perduto), rivalutato (dai più: in fondo è stato un pioniere della a-moralità della politica, e l'unico a pagare), santificato (dal Pdl: «ora il Pd chieda scusa a Craxi). Siamo a fine 2008, ed è come se il tempo si fosse inchiodato. Dal 1981 sono passati la bellezza di ventisette anni, un rapido sondaggio in redazione mi fa realizzare che la maggior parte dei presenti di Berlinguer e Craxi ha una memoria sì e no indiretta ma della politica italiana ha conosciuto solo questa lunga scia quasi trentennale fatta di questione morale, conflitto fra politica e giustizia, giornalismo al seguito: questo e ancora questo, né un prima né un poi. Prima domanda: chi può stupirsi se in queste condizioni non c'è all'orizzonte della politica nessun ricambio generazionale?

Seconda domanda. Rileggendo l'intervista di Berlinguer, balza agli occhi - lo nota infatti, a commento, Antonio Polito - che fra «questione morale» e «soluzione giudiziaria» non c'era (e non c'è) affatto un nesso immediato. Dice Berlinguer: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oogi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». Tradotto: la «questione morale» riguarda l'etica politica, il modo di intendere la politica e di farla, la funzione dei partiti, la concezione della sfera pubblica e del bene pubblico; è una questione più larga della corruzione, che è una questione criminale, e mentre a risolvere la questione criminale ci devono pensare i giudici, a risolvere la questione morale ci deve pensare la politica. Ecco la domanda: perché questa basilare distinzione è andata perduta nel dibattito politico e mediatico? E a chi è giovato lasciarla cadere? Il «moralismo» di Berlinguer non era giustizialismo; non era un appello ai magistrati, era un appello ai politici. Schiacciare progressivamente la questione morale (se vogliamo chiamarla ancora così) sulla questione criminale e sulla azione giudiziaria è servito solo a esentare la politica dal dovere di autoripulirsi e autoriformarsi. Da non confondersi, per cortesia, con il presunto diritto della politica di fare quello che vuole, esentandosi dal controllo di legalità.

Dall'epoca di quell'intervista - ben prima di Tangentopoli, a ben guardare - il rapporto fra politica e giustizia attende di essere rimesso su questi binari. Che dunque passano per una riforma - a questo punto: una rivoluzione - della politica, prima che per una riforma - o una controriforma - della giustizia. Terza domanda: che cosa è intervenuto di nuovo, in questi giorni, perché si riapra l'agognato «dialogo» fra Pd e Pdl sulla riforma della giustizia? Che il caso De Magistris rivelasse pesanti linee di scontro interne alla giurisdizione era chiaro dall'inizio, non ci volevano i sequestri incrociati fra Salerno e Catanzaro per capirlo e non è questo - ha ragione Carlo Federico Grosso sulla "Stampa" di ieri - che può legittimare l'affondo politico finale contro l'indipendenza del sistema giudiziario, che dovrebbe trovare al suo interno gli anticorpi necessari. Nemmeno ci sono segni di cambiamento da parte del Pdl nell'impostazione revanchista del problema: e allora perché riaprire il dialogo da posizioni che si sanno incompatibili?

Quarta domanda. Sempre in quella intervista, Berlinguer dice che cosa i partiti dovrebbero fare - «concorrere alla volontà politica della nazione, interpretare grandi correnti d'opinione, controllare democraticamente l'operato delle istituzioni» - e che cosa non dovrebbero essere: «macchine di potere e di clientela», con «scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società; idee, ideali programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile zero». Ora, lungi dalla sottoscritta voler fare di quell'intervista la bibbia; ma i molti eredi di Berlinguer, da Occhetto in poi calamitati dalle riforme elettorali, istituzionali e costituzionali, non potrebbero recuperarne almeno questa salutare distinzione di piani fra partiti, governo, istituzioni?

La Dichiarazione universale dei diritti umani viene celebrata in questi giorni come un documento internazionale di eccezionale rilievo. Si è trattato d'un importante tentativo di fondare e rendere universali i diritti umani. Il 10 dicembre del 1948 l'Assemblea Generale dell'Onu ha proclamato solennemente che i diritti sono prerogativa assoluta di tutti gli individui, a qualsiasi nazione, cultura o civiltà appartengano. Il primo articolo della Dichiarazione si spinge sino a dichiarare che tutti gli esseri umani «nascono liberi», che sin dalla nascita sono «eguali in dignità e diritti» e che «devono agire verso gli altri in spirito di fratellanza». Si tratta di una assunzione filosofica ispirata all'idealismo etico che si è affermato nel secondo dopoguerra in Europa.

La filosofia universalistica del «diritto naturale», tipica del protestantesimo e del cattolicesimo, è prevalsa enfaticamente su ogni altra dottrina. Il risultato è stato che la Dichiarazione universale non è per nulla universale. Essa impone come doverosa una particolare visione del mondo, impregnata dell'individualismo, del liberalismo e del formalismo giuridico occidentali.

Non è un caso che su questo aspetto si siano scatenate negli anni violente polemiche internazionali. In particolare nella seconda Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani, del 1993, si sono fronteggiate due concezioni del tutto incompatibili fra loro. Da una parte c'erano le tesi della Dichiarazione universale, con la sua rivendicazione dei diritti individuali, della libertà e della privacy. Dall'altra c'era la posizione di gran parte dei paesi dell'America latina e dei paesi asiatici, con Cuba e la Cina in prima fila. Questi paesi ponevano al centro i «diritti collettivi», ignorati dalla Dichiarazione universale, e in particolare la lotta dei popoli contro la povertà e contro il dominio economico, finanziario e militare dei paesi industriali.

In realtà la Dichiarazione del 1948 ha esercitato e tutt'ora esercita un'influenza minima sulle relazioni internazionali. Essa è stata emanata da un organismo come l'Assemblea Generale che è privo di un effettivo potere normativo. Non a caso il testo della Dichiarazione è strutturato come una proclamazione etico-filosofica priva di sanzioni e di strumenti esecutivi in grado di realizzarla. Per provarne la drammatica inefficacia è sufficiente consultare i rapporti di Amnesty International: oltre due miliardi di persone oggi soffrono per la violazione sistematica dei loro diritti. Il fenomeno è di proporzioni crescenti e interessa un numero elevatissimo di Stati: oltre 150 su circa 200, inclusi tutti gli Stati occidentali. Le violazioni includono una lunga serie di atrocità e di violenze: fra le altre il genocidio, la tortura, la pena di morte, le esecuzioni sommarie, le sparizioni, gli omicidi politici, le violenze sulle donne, la schiavitù, le violenze sui bambini, le esecuzioni capitali di minorenni e di disabili, il trattamento disumano e degradante dei detenuti.

Ma le tragedie del mondo sono soprattutto le guerre di aggressione, la fame e la povertà assoluta, di cui si sono responsabili soprattutto i paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti e dalla Nato. Basti pensare a Guantánamo, ad Abu Ghraib, a Bagram, alle stragi in Iraq e in Afghanistan. E basti pensare, come ha recentemente ricordato Luciano Gallino, che in India, dal 1996 al 2007, si sono suicidati 250 mila contadini, perché oppressi dalla fame e dai debiti. La ragione della loro condizione miserabile è dovuta alle monoculture imposte dalle corporations europee e statunitensi. Ma non nascono uguali tutti gli uomini?

Berlusconi non ha alcuna voglia di riformare subito la giustizia. Perché dovrebbe averne? Si è personalmente protetto con l’immunità (la "legge Alfano") e non teme più i giudici.

Può essere paziente, può non avere fretta, può attendere. C’è il tempo di una legislatura per preparare e realizzare il colpo finale (dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo). Con sapienza, è sufficiente al premier tenere alto il fuoco sotto la pentola e cuocere magistratura, riformisti democratici, opinione pubblica con sfide, provocazioni, affondi incrociati. Sempre inconciliabili. Tipo: «Nella sinistra c’è una questione morale», dice. Che ovviamente suggerito da un piduista, con un avvocato corruttore di giudici (Previti) e un braccio destro amico di mafiosi (Dell’Utri), fuori pericolo per amnistie e prescrizioni, scampato per un conflitto di interessi che gli ha permesso di approvarsi leggi ad personam, irrita gli animi e provoca un irrigidimento politico. Che subito dopo Berlusconi massaggia da "statista" con un invito a discutere insieme la riforma della giustizia. Un’offerta politica che, presa in considerazione per qualche ora, provoca all’istante nell’opposizione divisioni e malanimo che l’egoarca aggrava lasciando dire, un attimo dopo, che «in ogni caso, il governo la riforma la farà per conto suo» alla pattuglia di sherpa più partisan che ha a disposizione ? Alfano (suo segretario personale e ora ministro virtuale), Ghedini (suo avvocato personale e ministro di fatto), Cicchitto (fratello di loggia).

Bisogna mettersi nei panni di Berlusconi. L’unica forza che teme davvero è la Lega Nord e Bossi non vuole sentir parlare di giustizia prima di avere in tasca il federalismo e, se il premier s’azzarda a capovolgere l’ordine delle priorità, gli toccherà subire gran brutti scherzi in aula. E poi perché procurarsi delle rogne quando i suoi avversari si fabbricano guai da soli?

I magistrati si mangiano vivi come scorpioni in una bottiglia screditando irresponsabilmente la stessa funzione giudiziaria. Il Consiglio superiore della magistratura, costretto ad affrontare la crisi calabro-campana per la mossa inconsueta di Napolitano, è pronto già da oggi a ritornare ai tempi lunghi, al gioco di squadra correntizio, alla protezione corporativa incapace di trovare risposta al perché magistrati così palesemente inadeguati debbano ottenere un incarico direttivo. È questa la qualità della magistratura italiana o è questo il mediocre merito che piace ai "kingmaker" delle correnti? D’altronde, è anche vero che, per le toghe più spregiudicate, una buona visibilità mediatica rimedia a qualsiasi abbaglio professionale se si posa a vittima, se si strepita contro l’arroganza del potere e i baratti politici sotto banco: quel che non si è stati capaci di mettere insieme rispettando le regole del processo penale, lo si ottiene come condanna morale pubblica da uno’pinione pubblica, disinformata con maestria, che attende l’Angelo vendicatore e l’inchiesta catartica.

Il quadro sarebbe però incompleto se si trascurasse quel che più conta, la moderna originalità del Berlusconi IV (novità che la miopia autoreferenziale di opposizione e magistratura neppure sembra scorgere). Oggi il bersaglio del signore di Arcore (impunito per legge) non concerne più la magistratura (avversario secondario), ma lo stesso sistema di legalità (obiettivo primario). Non l’ordine o il potere giudiziario, ma le leggi, quella «formulazione generale e astratta che distingue le leggi da ogni altra manifestazione di volontà dello Stato». Berlusconi rivendica la legittimità del suo comando e non vuole che esso sia determinato dalle norme, ma lo esige orientato dalla necessità concreta, dallo stato delle cose, dalla forza della situazione. Vuole dare un taglio netto alle «dispute avvocatesche» che accompagnano lo Stato dove i giudici interpretano la legge. Vuole liquidare «le discussioni senza fine» dello Stato legislativo-parlamentare. Vuole e pretende una decisione eseguita con prontezza senza che né i giudici né il Parlamento ci mettano il becco.

Questa è la "partita" che vede la magistratura e il riformismo democratico confusi nel difendere forme, identità e routine che le mosse di Berlusconi spingono costantemente in fuori gioco. Converrà allora abbandonare l’idea di discutere e dividersi per una riforma della giustizia che non ci sarà per il momento (ci saranno soltanto maligne e pericolose modifiche di procedure e codici). È più utile rendersi presto "presentabili" per difendere con qualche prestigio dinanzi all’opinione pubblica un’architettura dello Stato dove «"legittimo" e "autorità" valgono solo come espressione della legalità».

Il riformismo democratico ha molto lavoro, e doloroso, davanti a sé. È ferito, in qualche caso sfigurato, dalle collusioni con il malaffare, dal clientelismo, dall’avidità, da "sistemi di potere" chiusi e inaccessibili. Non riesce a prendere atto, anche nei sindaci più integri come Domenici e Iervolino, che la sconfitta dell’etica pubblica nelle loro amministrazioni è un fallimento politico e quindi una loro diretta, esclusiva responsabilità di cui devono dar conto. Prima che affare dei giudici, quella caduta è uno sfregio alla fiducia ottenuta dagli elettori. Le proteste per la propria, personale correttezza non gliela restituirà e non la restituirà al centro-sinistra. La discussione severa nel campo dei riformisti dovrà ricordare allora che non può esserci autorità al di fuori di legalità. Soltanto il rispetto della legalità può rendere legittimo e autorevole il comando a meno di non volersi incamminare lungo la strada aperta da Berlusconi.

La magistratura si muove nello stesso angolo stretto. Così ubriaca di se stessa da non accorgersi di ballare su un Titanic prossimo alla catastrofe, in alcune agguerrite falangi, inalbera le prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza come se fossero un lasciapassare per l’irresponsabilità. La magistratura deve mostrare di essere in grado di rimuovere, con i propri poteri amministrativi, le toghe sporche, le toghe immature, le toghe oziose, le toghe incapaci, gli inetti volenterosi, i vanitosi cacciatori di titoli. «La ricreazione è finita», è stato detto sabato scorso al Csm durante le audizioni dei capi degli uffici di Salerno e Catanzaro. «La ricreazione» deve finire davvero, se la giustizia vuole essere ancora custode e garante del diritto in uno Stato giurisdizionale. Soltanto questo doppio esame critico consentirà di affrontare, quando sarà, una riforma della giustizia che abbia non soltanto un uomo al comando, con i numeri insuperabili delle sue truppe, ma almeno un protagonista politico (il Pd) e un attore istituzionale (la magistratura) che possono far pesare nel Paese la loro credibilità, un indiscusso credito. Non è molto, ma è la sola moneta che si può spendere oggi.

Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, guarda da lontano, e con un certo dispiacere, le vicende che attanagliano il Partito Democratico. Partito in cui non è mai entrato: «Io pensavo a un superamento del comunismo da sinistra, con una visione alternativa al sistema e soprattutto mettendo al centro della propria cultura politica la questione morale».

Invece che cosa è successo ?

«Prima voglio dire che non possiamo mettere sullo stesso piano la questione morale che riguarda il centrodestra con questa di cui parliamo in questi giorni. La prima è strutturale, tanto che la incarna Berlusconi. La seconda io la definisco una deviazione, seria e preoccupante, ma comunque una deviazione. Che rivela però un’errata concezione della politica e della funzione dei partiti».

Sarà anche una deviazione, però dura ormai da parecchio tempo: non è mica la prima volta che la sinistra si trova in queste situazioni.

«Ricordo perfettamente che nei primi anni Novanta, quando un nostro dirigente milanese venne inquisito per tangenti, io tornai alla Bolognina e chiesi scusa al partito. Non solo: misi in discussione radicalmente il modo di essere dei partiti, il modo di fare politica, dissi che dovevamo fare un passo indietro rispetto alla gestione dell’economia, uscire dai Consigli di amministrazione, dalle stesse Cooperative...».

E non le diedero retta?

«Manco per sogno, ci fu una rivolta della Toscana e dell’Emilia. Rivolta che fu immediatamente utilizzata anche al centro, a Roma, per farmi la guerra».

Indovino: D’Alema?

«Indovinato».

Quindi che strada presero il Pds, poi i Ds e oggi il Partito democratico?

«La strada indicata e seguita da Craxi. Ho visto in questi anni autorevoli dirigenti spiegare che tra Berlinguer e Craxi aveva ragione l’ex leader socialista».

Si riferisce a Piero Fassino?

«Anche ma non solo, è stato un vezzo generale che ha riguardato quasi tutto il gruppo dirigente. Come diceva il vecchio Napoleone Colajanni, il repubblicano e garibaldino dell’Ottocento, "il pesce puzza dalla testa"».

Sta dicendo che anche Veltroni e gli altri sono coinvolti?

«Ma neanche per sogno, non lo dico perché non lo penso. Vedo che per ora il problema è in periferia, mele marce, cacicchi o come si chiamano adesso, che comunque per me fino a sentenza definitiva sono tutti innocenti. Io parlo di una questione culturale, di una visione della politica»

Cosa intende dire?

«L’aver capovolto le idee di Berlinguer sulle mani pulite, l’aver scelto di stare sul mercato anche come partiti, l’aver cercato di comprare una banca, l’aver tifato per questa o quella cordata di finanzieri... tutto questo ha cambiato la natura del centrosintra. Poi è evidente che, scendendo "pe li rami", in provincia troviamo il familismo, le commistioni, le cene tra compagni di merendine fatte tra amministratori e costruttori».

Ma perché è stata scelta questa linea, perché Craxi e non Berlinguer?

«Perché si sono lasciati trasportare dall’ansia di legittimazione, il bisogno insopprimibile di entrare nel salotto buono. Che poi, come si vede, tanto buono non è. Ci sarebbe stato bisogno di un codice morale come ha fatto Zapatero, in cui si riafferma che la politica deve stare su un altro piano rispetto agli affari, a prescindere dalla magistratura. Un Codice di autoregoamentazione insomma».

Se la sente a questo punto di dare un consiglio al segretario Veltroni?

«Certo, ricominciare da quel riformismo colto di Gobetti e Salvemini: la riforma della politica come questione morale. Passando ovviamente per una severa e profonda autocritica. Un processo che andrebbe fatto pubblicamente, coinvolgendo più gente possibile, con un atto nobile, una Convenzione, forse anche un Congresso». Occhetto è stato l'ultimo segretario del Partito Comunista Italiano (dal 1988) e il primo segretario del Partito Democratico della Sinistra (fino al 1994); è stato co-fondatore e vicepresidente del Partito del Socialismo Europeo nel 1990, deputato e presidente della Commissione Affari esteri della Camera (dal 1996 al 2001); membro del Consiglio d'Europa dal 2002 al 2006. Alle elezioni politiche del 1994 venne indicato come leader della coalizione di sinistra, ma la vittoria del centrodestra guidato da Berlusconi lo spinse a lasciare la segreteria del partito.

Ventisette anni fa, il mondo capovolto, ma in Italia non è ancora finita. E tutto comincia con quella famosa intervista di Berlinguer a Scalfari su Repubblica, il 28 luglio 1981: «I partiti hanno occupato lo stato...tutte le operazioni che le diverse istituzioni e i loro dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste in fuzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan...». Era il manifesto della «Questione morale», innovazione rivoluzionaria fin dal lessico, visto che le «questioni» erano state altre: operaia, sociale, femminile, meridionale, etc. Bene, quanto di giusto vi era in quella denuncia? Da dove nasceva? E quanto s’attaglia al nostro presente e all’«allarme rosso» (su Pd e dintorni) da più parti evocato? Facciamocelo raccontare dalla vecchia guardia Pci. Dagli uomini che stavano attorno a Berlinguer, magari dissentendo.

Adalberto Minucci, ad esempio, ex direttore de l’Unità, allora membro della segreteria. «Era un momento cruciale - dice - c’era stato il terremoto dell’Irpinia, la polemica di Pertini sullo sfascio dei soccorsi. E sullo sfondo, la polemica col Psi di Craxi che virava verso la Dc contro di noi, e poi la P2...». Berlinguer aveva decretato la «svolta di Salerno», e Minucci era stato il più duro avversario del nuovo corso craxiano («Ucci Ucci- scriveva Craxi sull’Avanti! - sento odore di Minucci...»).

Minucci, Dalla, Craxi

La «questione morale» per Minucci era un modo per «spezzare l’assedio, dopo la crisi dell’unità nazionale e il delitto Moro. E contro la modernità degenerata di Craxi. Già alleato con Berlusconi, e con Forlani e Andreotti». In sintesi, valenza politica e morale della denuncia, in anticipo sulla politica lobbistica di oggi. Sul berlusconismo, e sulla commistione politica-affari. Linea che Minucci difende. «Una volta - racconta - mi chiamò Lucio Dalla, che il 9 settembre 1981 mi organizzò nel suo camper, al concerto di Castel S. Angelo, un incontro con Craxi. Lui mi disse: “lasciatemi sgomitare contro la Dc e contro di voi, poi verrà anche il vostro turno al governo”. Gli dissi di no e non mi pento».

Macaluso: giusto, ma a metà

Parla Emanuele Macaluso, anche lui in segreteria, responsabile del Mezzogiorno. La sua idea era un’altra: condizionare Craxi, favorendo la sua ascesa a premier. Oggi dice: «La denuncia di Enrico era giusta, coglieva nel segno ma solo a metà. V’era anche un lato positivo nei ceti emergenti che si ribellavano alla Dc. E il limite della questione morale stava nella sua mancanza di sbocchi. L’alternativa democratica non chiariva con chi ci si alleava: con la Dc, col Psi o con entrambi?».

Quindi? «Era un tentativo di rigenerazione per rompere l’isolamento, e mostrare che senza il Pci non si governava». E qui il ragionamento di Macaluso plana sul presente. «Cambiava la società italiana, entravano in crisi i partiti e i blocchi sociali. C’era una spinta anche degenerata al consumismo e al particolarismo. Ci voleva una proposta istituzionale e di alternativa riformista a sinistra. Che superasse l’identità comunista senza buttare a mare i legami di massa ma rinnovando il nostro blocco. E sconfiggendo lo stallo del predominio Dc».

La casta diffusa

E oggi? «Situazione aggravata, non abbiamo saputo rinnovare i partiti. Né la sinistra, in senso socialista e riformista. Così, sulle ceneri della prima repubblica hanno vinto il populismo e l’aziendalismo di Berlusconi. Mentre il Pd è un post-partito, formato da una sommatoria di interessi e culture in conflitto». Ovvio - questa la conclusione di Macaluso - «che all’ombra del Pd proliferino fenomeni di trasformismo e corrutela locale. Una casta diffusa, che occupa i rami bassi di enti locali e sotto enti. Una mezza borghesi parassitaria, che amministra e spartisce risorse coi potentanti economici».

Che deve fare il Pd? «Confido in una crisi virtuosa, non nello sfascio. Devono chiarire la loro identità, il loro tipo di opposizione, la collocazione in Europa. Ripristinare un’idea di partito. E un baricentro degli interessi di riferimento da privilegiare. Dal lavoro alle imprese». Altrimenti? «Prevarrà lo spappolamento. La questione morale è politica».

Tortorella: era una sfida

Aldo Tortorella invece, ex cordinatore della segreteria, non ci sta - come Minucci - a criticare la scelta politico-morale del Berlinguer di allora: «La “rigenerazione” di Enrico - spiega - era una sfida rivolta a tutto il sistema politico. Scelta espansiva, per costringere tutti a mutare, a partire dal ruolo delle donne, dalle emergenze del pianeta, dai movimenti. Craxi? Aveva chiuso i giochi a destra, impossibile dialogarci». E la svolta Pci-Pds? «Andava fatta, ma non liquidando ogni legame di massa verso un partito radicale indefinito, come quello di Occhetto».

Aggiunge Tortorella: «Siamo stati subalterni a un’idea populistica di maggioritario, in vista di partiti plebiscitari e d’opinione: Berlusconi da una parte, e il “post-partito” Pd dall’altra». Per Tortorella il «mito del maggioritario a tutti i costi» ha aggravato i problemi denunciati da Berlinguer. Fino a quella «partitocrazia senza partiti che ne ha fatto una confederazione di notabilati e di gruppi, in periferia e al centro. Notabilati che coincidono col potere locale e l’intermediazione di risorse. E realtà che verrebbe aggravata da un partito del Nord, del Centro e del Sud».

Reichlin: ora ricominciamo

Anche Alfredo Reichlin, dirigente storico Pci e anima pensante del Pd, è d’accordo sull’attualità di quel Berlinguer: «Era tutta altra epoca, ma lui capì in tempo che l’economia e la finanza espropriavano la politica». Oggi però, dice Reichlin, la battaglia «deve ricominciare dal contrasto al potere finanziario, una questione a scala mondiale. Ma rimettendo al centro la grande politica, il potere democratico oggi svuotato. E reinnestando la cittadinanza sul lavoro, sulla produzione della ricchezza reale. Questi sono i veri problemi per il Pd, pressato dal lobbismo in alto e dal localismo in basso. In tal senso la questione morale è politica».

Ingrao: dove va il Pd?

Infine, sentiamo un vecchio leone: Pietro Ingrao. Voce un po’ fuori registro. Ci confida al telefono che non s’è mai scaldato troppo per la «questione morale», abitutato com’è a vedere i processi sociali, dietro l’etica e il costume. Sì, anche per lui «la questione morale resta politica. E oggi riguarda prima di tutto la direzione di marcia del Pd». Ci chiede Ingrao e si chiede: «Dove vuole andare il Pd? Quali i suoi veri contrasti interni? Vuole ancora un’intesa con Berlusconi o ci ha rinunciato del tutto?». E chiude il vecchio leone ultranovantenne, con due considerazioni in una. Eccola: «D’accordo, la questione morale. E però mi supisco che mentre si torna a parlare di una crisi epocale del capitalismo come quella del 1929, il Pd su questo non abbia granché da dire. Così come non ho sentito nulla sull’India, sulla Cina, e sull’ordine mondiale da rifare. Mentre in Asia si riaccendono questioni esplosive...».

Una nevicata tra dieci e trenta centimetri su gran parte della pianura Padana alla fine di novembre non è consueta. Ma nemmeno eccezionale, è già capitato in passato. Piogge abbondanti tra Toscana e Lazio in novembre sono ricorrenti, la grandinata su Roma un po’ meno, ma certo non è un evento nuovo. Vento forte, mare grosso, d’autunno sono di casa. La differenza rispetto al passato è semmai che le previsioni meteo oggi funzionano. Tutto era stato annunciato con un anticipo di un buon paio di giorni. E anche le modalità di comunicazione sono più capillari ed efficaci di un tempo: internet, telefonini, sistemi di navigazione gps, webcam. Perché allora tutto si blocca? Perché il traffico collassa, la gente impazzisce e qualcuno ci lascia pure la pelle?

Credo che i motivi siano tre.

Il primo è che viviamo in un paese sovraffollato e sovrasfruttato: quasi sessanta milioni di persone, circa trentacinque milioni di automobili, edilizia selvaggia, decine di migliaia di chilometri di strade, autostrade e ferrovie, antenne per cellulari, tralicci elettrici e pali telefonici, acquedotti, gasdotti, oleodotti, industrie, centri commerciali, poli logistici, impianti sportivi, villette e capannoni. Non c’è un francobollo di territorio che non abbia qualcosa che si può rompere, che può essere danneggiato dagli eventi meteorologici, sia pure ordinari. È tutto in equilibrio precario già quando c’è il sole, inevitabile che appena si supera una soglia minima di complicazione, il sistema ceda come un castello di carte.

Il secondo motivo è psicologico. Crediamo di essere onnipotenti. La pubblicità "no limits" continua a dirci che possiamo sfidare ogni rischio, ci istiga a trasgredire ogni regola, basta comprare quell’auto, indossare quell’abito, bere quel liquore. Quindi che sarà mai una nevicata annunciata dal telegiornale? Via, a capofitto dentro la tempesta, senza catene, senza precauzioni, senza cervello. Tanto tutto il mondo ruota intorno a me, sarà la neve a togliersi di torno, la pioggia e il vento si faranno di certo da parte quando vedranno la mia auto da duecento cavalli, dodici valvole, quattroperquattro, triplo airbag, abiesse, gipiesse. C’è poi chi ha visto queste cose solo nei film e su una macchina normale si getta di notte a guadare un fiume in piena come Indiana Jones. Non possiamo considerarle vittime del maltempo ma solo della loro imprudenza.

Terzo motivo: siamo sempre meno esercitati a rapportarci con l’ambiente esterno. Come scrivo nel mio saggio Filosofia delle nuvole uscito di recente per Rizzoli, viviamo ormai in un bozzolo a clima controllato che comincia in camera da letto e termina in ufficio, passando per garage, auto, ascensore, bar, ristorante, galleria commerciale. Sempre uguale, estate e inverno, regolato da un termostato e da un bel flusso di costosa energia. Così anche gli abiti sono sempre più omogenei, pochi aggiustamenti stagionali, scarpe con i tacchi che piova o faccia sole, ombelico scoperto a gennaio come a luglio. Il clima ideale lo si sogna sul salvaschermo che mostra le Maldive, ma non si vivono più sulla pelle quelle stagioni nostrane che, anche in città, il Marcovaldo di Calvino osservava con sguardo attento e curioso più di quarant’anni fa:

«Marcovaldo, a naso in su, assaporava l’odore della pioggia... Lo sguardo con cui egli ora scrutava in cielo l’addensarsi delle nuvole, non era più quello del cittadino che si domanda se deve prendere l’ombrello, ma quello dell’agricoltore che di giorno in giorno aspetta la fine della siccità».

La parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: più che una parola, è albero dai rami incessanti. In greco antico significa un gran numero di cose tra cui: separazione, scelta, giudizio. Il verbo, krino, vuol dire anche decidere. In medicina si parla di giorno critico o di giorni critici: per Ippocrate (e per Galeno nel secondo secolo d.C.) è l’ora in cui la malattia si decide: o precipita nella morte o s’affaccia alla ripresa. È il punto di passaggio, di svolta. Il termine riapparve nei sommovimenti enormi del ’700: nella rivoluzione francese, in quella industriale. La vera crisi, per Burckhardt, non cambia solo i regimi: scompone i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni germaniche. Quel che la caratterizza è la straordinaria accelerazione del tempo: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità: sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e settimane come fantasmi in fuga» (Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale).

Il concetto di crisi fu evocato con affanno sempre più frequente dopo il primo conflitto mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiama «cataratta degli eventi» e sottolinea il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la raffigura come temibile: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Nella versione greca, andare incontro al giudizio è letteralmente «entrare nella krisis», nel processo. Al tempo stesso crisi è intelletto all’opera, che redime: «L’uomo che non ha alcuna krisis non è in grado di giudicare nulla», scrive Johann Heinrich Zedler nell’Universal-Lexikon del 1737.

Anche la crisi che traversiamo oggi è «vera crisi»: momento di decisione, climax d’un male, e se ne abbiamo coscienza, occasione. Uscirne è possibile, purché non manchi la diagnosi: secondo Galeno, i giorni critici sono valutabili solo se l’inizio del male è definito con precisione.

Gli economisti non bastano a tale scopo, e ancor meno i politici. Spesso vedono le cose più da vicino i letterati, i filosofi, gli storici, i teologi, i medici. Se la società è un corpo - dagli esordi è la tesi dei filosofi - questi sono i suoi giorni critici: può morire o guarire, mutando forma e maniere d’esistere.

Pietro Citati individua la radice del male nella passione dei consumi: frenesia che descrive con parole deliziose, ironiche, sgomente, evocando la telecamera americana che nel 1952 riprese una massaia che s’aggirava nel supermercato (Repubblica, 3 dicembre 2008). La camera registra i movimenti delle sue palpebre ed ecco d’un tratto i battiti crollano davanti agli scaffali, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto, da trentadue che erano: «Una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli». Sono decenni che nuotiamo come pesci, gli occhi sbarrati, consumando senza fiutare la crisi: scriteriati. Questo ci ha cambiati profondamente. In America ha distrutto il risparmio.

Ovunque, politici e responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto spezzato (alla bolla scoppiata). Vorrebbero che la stoffa di cui è fatto - l’illusione - non si strappasse mai: perché le campagne elettorali son cucite con quei fili, vivono della chimera d’un progresso ineluttabile, senza costi. L’America dopo il Vietnam respingeva le guerre: le voleva «a zero morti». Poi ricominciò a volerle, ma «a zero tasse». Importante nell’ipnosi è accaparrare sempre più, anche se mancano i mezzi: l’ipnosi, restringendo la coscienza, è il contrario della crisi. In America finanza e politica estera sono «entrate nella crisi» simultaneamente. Il 7 agosto inizia la guerra georgiana, e pure i ciechi scoprono che Washington non può alcunché: ha aizzato Saakashvili, ma senza mezzi per sostenerlo. Esattamente un mese dopo, fra il 7 e il 16 settembre, scoppia la bolla finanziaria (salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, poi bancarotta di Lehman Brothers, poi salvataggio di Aig). Per decenni si è sentito dire: ci sono compagnie troppo grosse per fallire. Era menzogna: non erano troppo grandi né Lehman, né l’impero Usa. Le bolle esistono nella finanza, in politica, nelle teste. Sono i giorni critici della nostra mente.

La trance ipnoide ha stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia. Lo storico Andrew Bacevich lega tutte queste esperienze, e racconta come dall’impero della produzione l’America sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi (The Limits of Power, Metropolitan Books 2008). Nel tragitto si son perse (specie in America) nozioni fondanti: la nozione del debito, che nella nostra cultura non è senza colpa ed è divenuto un fine positivo in sé, incondizionato. La nozione della fiducia, senza cui ogni debito degrada. La nozione del limite. Il Padre nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito sono un’unica parola. La poetessa Margaret Atwood ricorda come il concetto di debito - essenziale nel romanzo dell’800: Emma Bovary si suicida perché un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio - sia oggi vanificato (Payback: Debt and the Shadow Side of Wealth, Toronto 2008). Soprattutto in America, le banche spingono all’indebitamento, più che a prudenza e risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che vuol restituire puntualmente (che «pensa al dopo») è sospetto: è «l’incubo dei prestatori». Non è «di alcuna utilità», perché il debito riciclato è fonte prima del loro profitto costante.

Ma il debito sconnesso da fiducia non è pungolato solo da banche o Wall Street. È un ottundersi generale dei cervelli, è l’ebete pensare positivo che il governante invoca con linguaggio sempre più pubblicitario, sempre meno politico. Main Street - che poi siamo noi, cittadini e consumatori - è vittima tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel Grande Crollo del ’29 descritto da John K. Galbraith, siamo affetti da una follia seminale (seminal lunacy) che accomuna potenti e milioni d’impotenti. Per questo è così vacuo il politico che incita a ricominciare i consumi come se niente fosse. Il suo dichiarare, i linguisti lo definiscono performativo: basta dire «la crisi non c’è», e la crisi smette di essere (le dichiarazioni performative sono predilette da Berlusconi). I politici sono responsabili, avendo ceduto a un mercato senza regole. Ora intervengono, ma senza curare la fonte del male. La crisi, cioè la svolta trasformatrice, è rinviata.

Naturalmente hanno le loro ragioni: il crollo dei consumi farà male. Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia, ricorda che comporterà disoccupazione dilatata, ulteriori cadute dei redditi e del valore delle case, aumento dei debiti, credito scarso. Ma qualcosa di non negativo può nascerne: un rapporto col debito più realistico e leale, una fiducia riscoperta, un consumo adattato alle possibilità (New York Times, 28 novembre).

Crisi vuol dire decidere, a occhi non sbarrati come la massaia del ’52 ma aperti: sul peggio sempre possibile, sulle bugie del pensare positivo, sulla duplice responsabilità verso la Terra che roviniamo, e verso i figli cui addossiamo i nostri debiti. Terra e figli sono i nostri discendenti: ignorarli perché i loro tempi son più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro mondo (un mondo con meno petrolio, meno automobili) è senza dignità e chiude speranze altrui. Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il processo cominci.

Cancellare di fatto gli incentivi per l'adeguamento tecnologico e energetico delle abitazioni non è solo un atto scellerato che condanna l'Italia a aumentare il divario con gli altri paesi industrializzati. E' anche la chiusura a ogni speranza che le nostre città potessero diventare oggetto di un'organica politica pubblica finalizzata al rinnovo urbano.

La solita formuletta magica

Vantiamo le periferie peggiori di ogni altro paese europeo, frutto dell'abusivismo e della speculazione immobiliare. Abbiamo sistemi di trasporto collettivo antiquati tecnologicamente proprio ora che sarebbero indispensabili a sostenere la domanda di spostamento dovuta alla gigantesca espulsione dalle grandi città a causa dell'aumento dei prezzi delle abitazioni. Le famiglie si trasferiscono sempre più lontano dai grandi centri e per andarci a lavorare non resta che l'automobile.

Ancora. Abbiamo scuole fatiscenti e servizi pubblici cadenti, localizzati in edifici pensati decenni fa, privi dei sistemi tecnologici che troviamo in ogni altro paese del mondo. Sono dunque le città e l'intero territorio a dover essere investiste da una moderna politica di intervento pubblico. Lo diceva con la consueta efficacia Galapagos su queste pagine: è soltanto con una generalizzata politica di investimenti sulla città e sul territorio che si può ragionevolmente pensare di uscire dalla crisi. Ma il governo - nel silenzio dell'inesistente opposizione parlamentare - continua a diffondere la formuletta magica: non ci sono i soldi.

Lo ha detto di recente anche Giudo Bertolaso, che alla Camera ha stimato in 13 (tredici) miliardi di euro l'ammontare delle esigenze necessarie per rendere le scuole almeno dignitose e decenti. Ha aggiunto infatti - immaginiamo con la migliore faccia di circostanza - che purtroppo i soldi non ci sono. Nello stesso giorno in cui veniva ripetuta la giaculatoria, la Corte dei Conti ha reso noto che l'alta velocità ferroviaria tra Torino e Napoli è costata 51 miliardi di euro, sette volte di più del previsto. Lo aveva detto in ogni modo Ivan Cicconi, ma nessuno lo ha ascoltato. In sedici anni di lavori sono stati spesi oltre 3 miliardi di euro all'anno. In soli quattro anni si poteva dunque raggiungere la cifra necessaria a non far spegnere in quel modo una giovane vita.

L'ubriacatura neoliberista

I soldi ci sono dunque. Ci sono per le imprese, per i cinici giochi sull'Alitalia, per il cartello di imprese che si è arricchito a dismisura con l'alta velocità ferroviaria. Ma siccome siamo ancora nel pieno dell'ubriacatura neoliberista, l'opposizione parlamentare non riesce neppure a porre la questione di un uso differente delle immense risorse che ogni anno lo stato spende in mille improduttivi rivoli. L'investimenti pubblico destinato al rinnovo urbano e all'adeguamento energetico degli edifici non riveste un carattere di assistenzialità. Può al contrario avere la capacità di aprire una nuova strada all'economia. Gli effetti più importanti si avrebbero nel comparto della ricerca avanzata dove c'è da superare un ritardo decennale sulla Germania e gli altri paesi avanzati. Un modo efficace per invertire la fuga dei cervelli che anche in questo settore colpisce il mondo della ricerca. Il secondo effetto sarebbe quello di favorire l'apertura di imprese legate alla produzione delle attrezzature tecnologiche. Da questo punto di vista è incalcolabile l'effetto sull'occupazione.

Poi c'è la riqualificazione del comparto delle costruzioni edilizie. Nel nord Europa il ciclo edilizio avviene ormai attraverso una serie di interventi tecnologicamente innovativi condotti sotto la regia dell'operatore edilizio. Da noi c'è ancora il capolaralato: possiamo sperare di invertire la crisi in questo modo? E c'è infine la conseguenza più straordinaria. Un intervento sistematico nella città migliorerà le condizioni di vita e favorirà l'integrazione, perché la paura nasce da città anonime e squallide in cui si avverte un deserto sociale devastante. Nasce dalla desertificazione prodotta dalla sciagurata apertura di un'infinità di giganteschi centri commerciali in campagna che stanno facendo chiudere migliaia di botteghe localizzate all'interno dei tessuti urbani.

Basta con le favole

Pochi giorni fa, Stefano Ricucci uno di coloro che si sono arricchiti in misura inaudita giocando sulle nostre città ha concordato la chiusura del contenzioso fiscale per soli due anni (2003 e 2004) restituendo 45 milioni di euro sottratti alla collettività. Con l'indecente carità di 40 euro a favore delle famiglie indigenti, pari a 1,30 euro al giorno, il governo spenderà 450 milioni di euro. Un decimo della somma la fornisce dunque Stefano Ricucci, ammesso che la restituzione effettuata corrisponda - ma chi può crederci? - a quanto guadagnato in quegli anni. Forse, infatti, uno dei tanti pensionati poveri che riceveranno la carità dal governo sarà stato sfrattato dalla sua abitazione da Stefano Ricucci o altri come lui che hanno beneficiato della cancellazione di ogni regola di governo urbano. Nei quindici anni del liberismo selvaggio sono stati trasferite montagne di ricchezza dalla collettività a pochi spregiudicati speculatori immobiliari. Basta, allora con la favola che «non ci sono risorse». E' una sfida che la sinistra non può mancare. Una risposta a chi dice «noi la crisi non la paghiamo» può avvenire solo se siamo in grado di imporre il nostro punto di vista. E quello delle città assume un carattere davvero simbolico.

E' venuto il momento di invertire le gerarchie dei valori. La ricchezza di tutti, delle città e dei beni comuni deve prevalere sul blocco sociale berlusconiano della speculazione fondiaria e della privatizzazione persino dell'acqua. Altrimenti la crisi la pagheremo noi.

La questione morale...». Giovanni Berlinguer tiene tra le mani l’Unità di ieri, fissa la prima pagina, quegli occhi del fratello Enrico e quella frase: «I partiti hanno occupato lo Stato». «Era validissima nell’81 e oggi la situazione è profondamente peggiorata». Se ne parla anche a sinistra, negli ultimi giorni, di questione morale. «Il riferimento è all’insieme dei partiti. Rispetto all’inizio degli anni Ottanta si è prodotto un cambiamento in negativo». Qual è? Le ultime tre righe di quella risposta che il segretario del Pci diede a Eugenio Scalfari parlando di degenerazione dei partiti e crisi italiana sono state sottolineate con la biro nera. Giovanni Berlinguer le legge a voce alta mentre le scorre col dito, e poi commenta: «Allora si parlava di “interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica”, oggi si parla invece di dirigenti singoli, che giocano in proprio e che calpestano ogni relazione sociale. L’impegno che mettono nel consolidare ed estendere le loro magagne travolge amministrazioni politiche, progetti ambientali, sviluppi culturali. In questa maniera si deprime profondamente la possibilità di far valere gli interessi dei cittadini».

Alle spalle, appeso al muro della stanza che occupa nella sede dell’associazione Aprile, di cui è presidente, c’è una bella quanto curiosa stampa francese del 700: il soggetto è una pulce vista al microscopio. «Pulex irritans», precisa lui, che di questi insetti è un esperto. Però non ci pensa proprio a fare le pulci al Pd - «partito di cui non faccio parte ma al cui lavoro guardo con simpatia» - e agli indagati di Abruzzo, Napoli, Firenze. «Non sono in grado di valutare il peso delle malefatte», dice sbarrando la strada al discorso. Però aggiunge: «Mi fa piacere che Veltroni voglia estirpare tutto ciò che può offuscare un’idea politica e una volontà di rappresentare la parte libera e democratica della politica». Che sta attraversando un «impoverimento», ha detto Napolitano richiamando anche l’attenzione sul Sud. «Certamente il livello di deviazione dentro alcune amministrazioni del Sud è più profondo. Però ci sono anche molti pessimi esempi nel Centro e nel Nord».

Il discorso, dice Berlinguer mostrando recenti sondaggi, investe l’intero sistema: «Nelle graduatorie di gradimento delle varie istituzioni, al primo posto c’è il Presidente della Repubblica, all’ultimo ci sono i partiti. E finora nessuno di loro dimostra di saper dare le risposte necessarie per portare a dei cambiamenti rapidi e profondi». E visto che tra le le principali «distorsioni» che hanno fatto aumentare negli ultimi anni le distanze tra cittadini e partiti Berlinguer mette il sistema di voto, aggiunge: «Il primo cambiamento è consentire ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti. Sono dieci anni, tra legislatura passata e quella attuale, che sono i segretari dei partiti a decidere chi rappresenta i cittadini. E poi bisogna ridurre profondamente il livello di supponenza e di alterigia che caratterizza l’atteggiamento di gran parte dei dirigenti politici».

Ma non è soltanto di questo che bisogna parlare, per Berlinguer, se si vuole riflettere su quel che è oggi «questione morale». Perché «tra le grandi questioni morali che oggi vanno affrontate c’è quella dell’equità». E spiega: «Equità dei diritti e anche delle retribuzioni, perché oggi si è creato un divario profondo tra le forze sociali. Basti pensare al fatto che il salario dei lavoratori è stato compresso, mentre è stato esaltato il premio ai manager delle aziende, compresi quelli che le hanno portate al fallimento». Il quadro è fin troppo a tinte fosche. E il temporale che si abbatte sui vetri e allaga Piazza Colonna non aiuta a risollevare gli animi. Berlinguer ci prova, da «incallito ottimista», a indicare qualche spiraglio: «Vedo che c’è una mobilitazione crescente dei lavoratori, e anche una nuova generazione che si è presentata in modo notevolmente originale, rispetto a quelle precedenti». E il 68? «Si proponeva di cambiare radicalmente la politica e lo Stato. I giovani di adesso si presentano con molto maggior realismo e con idee precise su quello che devono essere le scuole, la ricerca, quali sono i loro diritti. E da qui si può anche sperare che ci sia un’influenza sulle decisioni del governo e sulle prospettive che mancano per un’intera generazione».

Un’ultima domanda: si può ancora parlare di diversità della sinistra rispetto alla destra, come una trentina d’anni fa il Pci parlava di diversità rispetto agli altri partiti? «C’è una diversità sostanziale», risponde deciso Berlinguer. Che però poi ricorre al condizionale: «La sinistra dovrebbe privilegiare l’equità, dovrebbe porre al centro del suo lavoro le prospettive dei giovani e la situazione ambientale». Argomenti su cui si è battuto nel suo mandato di europarlamentare, che scade a giugno. Si ricandida? Finalmente un sorriso disteso: «L’estate prossima compio 85 anni, sarei un folle se lo facessi».

La crisi è globale e epocale e nessuno, tantomeno un paese economicamente provato e politicamente impazzito come l'Italia, ne uscirà com'era, dice il pessimismo della ragione internazionale. La crisi passerà e noi ne usciremo più forti che pria, dice l'ottimismo della malafede nazionale, mantra quotidiano della premiata ditta Berlusconi & Tremonti. In questa schizofrenia di messaggi si infila il Rapporto del Censis, quello che ogni anno, fra un colpo al cerchio e uno alla botte, fotografa la situazione sociale e sentimentale del paese.

La crisi c'è, dice dunque il Censis, e l'Italia può sperare di uscirne in piedi solo disponendosi non a un riadattamento ma a una metamorfosi: cambiare è obbligatorio. Il lessico biologico, che l'anno scorso fissava nella metafora della «mucillagine» l'avanzato processo di decomposizione gelatinosa della società italiana, fornisce anche quest'anno la chiave per segnalare il bivio a cui la mucillagine si ritrova inchiodata. Alla crisi si può reagire in due modi: con una processo di ad-aptation, che significa adattarsi mimeticamente allo stato delle cose restando più o meno quello che si è, o invece di ex-aptation, che significa trasformarsi facendo leva su un fattore esogeno, su un «reagente chimico» esterno. Tradotto: in preda a una vera e propria «regressione antropologica» - ingredienti di base l'individualismo sfrenato, le emozioni di superficie e una «intima insicurezza» aumentata, non lenita, dalla rincorsa politica (i militari per strada, la social card) del panico mediatico (sulla microcriminalità, l'immigrazione, l'impoverimento) - la società italiana rischia di reagire al «salutare allarme collettivo» suonato dalla crisi nel modo sbagliato. Come? Rimuovendo, derubricando, pensando che la crisi non è altro che un'ennesima bolla che si sgonfierà da sé. E autorassicurandosi sulla «solidità di fondo del sistema». Convincendosi insomma che ce la farà come ce l'ha sempre fatta: scaricando sulla famiglia la disoccupazione e il tracollo del welfare, smussando sulla piccola dimensione territoriale la durezza delle dinamiche globali, temperando un po' la «western way of life» fatta di consumi e capricci. Quegli stessi vizi antropologico-politici che il Censis stesso non ha mancato negli anni scorsi di esaltare come virtù, e da cui oggi deve invece prendere distanza: fidandosi di com'è e di com'è sempre stata, l'Italia rischia «un silenzioso collasso per implosione».

Non sfugge al Censis, cioè a Giuseppe De Rita, la dimensione storica della sfida. La crisi che chiude il trentennio liberista domanda un cambiamento all'altezza di quello che aprì, nel secondo dopoguerra, il trentennio della ricostruzione, dello sviluppo, del welfare. Allora c'erano la democratizzazione e l'intervento pubblico in economia a fare da stimolo per superare il trauma della guerra e della dittatura. Oggi invece la mucillagine rischia di rimanere imprigionata su se stessa, contenta della sua vischiosità. La spinta non può venirle da dentro ma solo da fuori. O meglio, da un fuori che già le vive dentro, non visto e non riconosciuto: gli immigrati che contaminano il tessuto demografico, le «minoranze vitali» e il protagonismo femminile che cambiano le pratiche sociali, le nuove oligarchie che smuovono l'economia. «Fattori che vengono dal fondo del mare, spinte vitali primordiali» che il linguaggio forbito di De Rita contrappone alla «siderale razionalità della cultura internazionale», senza vedere che è proprio con l'internazionalizzazione degli scambi e della cultura che ciascuno di essi ha a che fare. Un'altra cosa invece la vede, e cioè che questa promessa di metamorfosi, «forse già silenziosamente in marcia», ha bisogno di «respirare a pieni polmoni» e di prendere il largo, mentre la politica pensa corto, decide senza immaginazione, si fa forte di un potere senza relazioni. Chiude l'aria invece di aprirla. La crisi è globale, ma niente come la mucillagine italiana rischia di implodere non solo di impoverimento ma anche di soffocamento.

Giulio Tremonti era noto fino ad oggi come il più rigoroso, persino spietato ministro dell’Economia, tanto da essere soprannominato "signor no". Qualcuno, non solo dell’opposizione ma anche della maggioranza, gli chiedeva di allargare i cordoni della borsa a vantaggio dei pensionati, o dei licenziati, o dei precari? No, non si possono purtroppo sforare le cifre del bilancio, rispondeva il nostro ministro. La riposta fino a ieri era sempre la stessa: no. «Tagliare, tagliare le spese» era il suo mantra. Crolla il soffitto di una scuola a Rivoli e si scopre che molte altre scuole sono a rischio? Occorrono fondi per mettere le nostre scuole a norma? No, la risposta è sempre no. Il bilancio dello Stato non lo consente.

Eppure ieri, finalmente il ministro Tremonti ha detto sì. Nel giro di un paio d’ore ha trovato i soldi per soddisfare la richiesta che gli è venuta dal Vaticano di aumentare lo stanziamento già fissato in bilancio per le scuole cattoliche. Contro il taglio originario di circa 130 milioni di euro aveva tuonato monsignor Stenco, direttore dell’Ufficio Nazionale della Cei per l’educazione, minacciando una mobilitazione nazionale delle scuole cattoliche contro il governo Berlusconi e il suo ministro delle Finanze.

La minaccia ha avuto ragione delle preoccupazioni del ministro. Nel giro di poche ore il sottosegretario all’economia Giuseppe Vegas, a margine dei lavori della Commissione Bilancio del Senato sulla Finanziaria, rassicurava il rappresentante delle scuole cattoliche. «Abbiamo presentato un emendamento che ripristina il livello originario di finanziamento. Potete stare tranquilli. Dormire non su due ma su quattro cuscini?» .

Dunque il taglio previsto in finanziaria non ci sarà. E non ci sarà la minacciata mobilitazione delle scuole cattoliche contro Berlusconi e Tremonti. Soddisfatti, ma solo per ora, i vescovi italiani. Soddisfatto, per ora, il Pontefice che però alza il prezzo e chiede nuove misure «a favore dei genitori per aiutarli nel loro diritto inalienabile di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose». In parole più semplici, c’è qui la richiesta rivolta allo Stato italiano di smantellare il nostro sistema scolastico a favore della adozione del principio del "bonus" da assegnare ad ogni famiglia, da spendere, a seconda delle preferenze, nella scuola pubblica o nella scuola privata.

Naturalmente nessuno contesta il diritto «inalienabile» delle famiglie di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose. E non ci risulta che nella nostra scuola pubblica si faccia professione di ateismo. E l’insegnamento della religione non è affidato a docenti scelti dai rispettivi Vescovi? Cosa si vuole dunque di più?

Anche a costo di essere indicati come "laicisti" vale la pena di ricordare che l’articolo 33 della nostra Costituzione, ancora in vigore, afferma che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato». E che nel lontano 1964 un governo presieduto da Aldo Moro, venne battuto alla Camera e messo in crisi proprio per aver proposto un modesto finanziamento alle scuole materne private. Bisognerà dunque aspettare quasi quarant’anni perché un governo e una maggioranza parlamentare prendano in esame la questione delle scuole private e della loro possibile regolamentazione e finanziamento. E saranno il governo D’Alema e il suo ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer a volere, e far approvare, una legge sulla parità scolastica che prevede, ma a precise condizioni, un finanziamento non a tutte le scuole private ma a quelle che verranno riconosciute come «paritarie». Tutta la materia in realtà, nonostante alcuni provvedimenti presi nel frattempo, è ancora da regolare (non tutte le scuole private, ad esempio, possono essere riconosciute come «paritarie»).

Anche per questo, per una certa incertezza della materia, ho trovato per lo meno singolare l’intervento di due autorevoli esponenti del Partito Democratico, a sostegno della richiesta delle gerarchie. Maria Pia Garavaglia, ministro dell’istruzione del governo ombra del Pd, e Antonio Rusconi, capogruppo del Pd in Commissione Istruzione al Senato hanno subito e con calore dichiarato di apprezzare le rassicurazioni fornite, a nome di Tremonti, dal sottosegretario Vegas. Ma non ne sono ancora soddisfatti. Chiedono di più. Sempre per le private. Chiedono cioè che vengano garantiti «pari diritti agli studenti e alle famiglie» È, quasi con le stesse parole, la rivendicazione già avanzata dalle gerarchie.

Ma è davvero questa, in materia scolastica, la posizione alla quale è giunto il Pd? E se sì, in quale sede è stata presa questa decisione? È giusto chiederselo, è indispensabile saperlo. Anche perché ha ragione chi, come don Macrì, presidente della Federazione che riunisce la scuole cattoliche, lamenta che la strada che porta al bonus trova un ostacolo «nell’articolo 33 della Costituzione che sancisce che le scuole private possono esistere senza oneri per lo Stato».

E allora, che facciamo? Per rispondere alle esigenze delle scuole cattoliche butteremo alle ortiche l’articolo 33 della Costituzione?

L’operazione è chiara e spudorata: intimidire la Procura di Salerno che sembra aver trovato le prove del complotto contro De Magistris e gabellare l’indagine sulle toghe calabro-lucane come una“lotta fra procure”, una guerra per bande che qualcuno deve fermare per il bene di tutti. E stabilire una volta per tutte che sui politici e i loro protettori non si indaga. Non c’è alcuna guerra per bande, almeno non da tutte le parti. I pm salernitani, competenti per legge sulle vicende giudiziarie di Catanzaro, sono stati investiti da denunce di e contro De Magistris. Hanno indagato per un anno, e alla fine non han trovato prove sulle denunce contro De Magistris, mentre le han trovate sui gravissimi fatti denunciati dal pm. Come la legge li obbliga a fare, hanno archiviato le prime e approfondito i secondi, indagando i magistrati calabresi sospettati e perquisendone gli uffici. Fin qui, tutto normale. Le anomalie sono accadute ieri: l’atto di insubordinazione del Pg di Catanzaro, che definisce “atto eversivo” un’indagine doverosa nei suoi uffici; gli avvisi di garanzia partiti da Catanzaro contro i pm di Salerno (Catanzaro non è competente su Salerno: lo è Napoli, le competenze incrociate sono abolite da 10 anni) e il contro-sequestro degli atti acquisiti dai salernitani; l’ispezione a piedi giunti del cosiddetto ministro Alfano, gravissima interferenza politica in un’inchiesta in corso. Insolita è anche la richiesta degli atti dal capo dello Stato. Si spera almeno che quelle carte inducano il Csm a mettere finalmente il naso nel vero scandalo: Salerno è il dito che indica la luna, ma la luna sta a Catanzaro.

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