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L'offesa di Vicenza

Marco Revelli

Non necessariamente i governi si giudicano dai grandi gesti di coraggio. Ma dai piccoli atti di viltà sì. E quello di Vicenza è un mediocre, umiliante - e anche gratuito - atto di viltà.

Assistiamo ormai quotidianamente allo spettacolo grottesco che un presidente americano allo sbando, abbandonato dai suoi stessi elettori, infligge al mondo intero. Ai sacrifici umani di Baghdad. Alle mattanze somale, se possibile ancor più scandalose nel loro mettere in scena, sul palcoscenico globale, l'immagine della potenza dei primi - dei più ricchi, dei più forti - scaricata ad annientare gli ultimi, i più poveri della terra, i più invisibili, quelli delle capanne tra le paludi. Tutto il mondo può vedere ormai, ad occhio nudo, il disastro morale, umano, politico di quella pratica. E non è questione di anti-americanismo o di filo-americanismo. Si tratta qui dell'aver conservato o meno un brandello di capacità di giudizio. O anche semplicemente un residuo d'istinto di conservazione.

Abbiamo, dall'altra parte, un territorio - come quello vicentino - che si difende. Che da mesi si mobilita e resiste. Non per ostilità politica. Per tutelare la propria quotidianità. Non c'era nessuna necessità di ruere in servitium, alla velocità del fulmine. E di prostrarsi in ginocchio dal potente alleato col dono in mano, solo perché dall'altra parte dello schieramento politico qualcuno ha pronunciato la parola magica e tanto temuta - «anti-americanismo» -, e ha richiamato agli impegni (da lui, dal «suo» governo) assunti. «I patti vanno rispettati», sussurra il cavaliere disarcionato. Ma quali patti? Quelli assunti dal vecchio governo con l'amico George? O quelli stipulati dall'Unione con i propri elettori, quando servivano per vincere? O, ancora, quelli che dovrebbero legare un governo ai propri cittadini in un rapporto di responsabilità e di fiducia? Perché mai il «patto» con Washington dovrebbe valere di più di quello con gli elettori di Vicenza, abbandonati da Prodi alla loro «questione urbanistica»? In nome di quale «Ragion politica», umiliarli e frustrarli, ostentando questa incapacità e indisponibilità all'ascolto?

C'è, in questo paese, un tessuto civile che ancora, nonostante tutto, resiste, vuole crederci, si indigna e vorrebbe partecipare. E' ciò che resta delle grandi mobilitazioni di quattro anni fa. Il residuo solido della «seconda potenza mondiale» che aveva tentato di inceppare la macchina bellica globale. E' l'Italia che gli oligarchi di Caserta, chiusi nella propria reggia, si ostinano a non vedere. Né ascoltare. Sarebbe una risorsa non solo per una sinistra che volesse degnarla di uno sguardo, ma per la comatosa democrazia post-contemporanea. Ma sta al limite. Sente crescere dentro di sé frustrazione e disprezzo, di fronte all'impenetrabilità del «politico».

Ancora poco e ogni comunicazione verrà interrotta. Ci si guarderà, esplicitamente, come «nemici» tra chi sta dentro la reggia e i suoi codici lobbistici e chi sta nella vita, senza mezzi per difenderla. Perché aggiungere alla distanza abissale costruita con ostinata sicumera, anche la derisione?

Ci si conquisterà, forse, una critica in meno sul Corriere della sera. Ma si perderà, con certezza, un bel pezzo di futuro. Prodi benedice la base Usa

Via libera del premier alla cessione dell'aeroporto civile Dal Molin

Matteo Bartocci

«Sto per comunicare all'ambasciatore americano che il governo italiano non si oppone alla decisione presa dal governo precedente e dal comune di Vicenza a che venga ampliata la base militare americana». Romano Prodi, incredibilmente, derubrica a questione «urbanistica» la scelta tutta politica sulla mega-base dei marines di Vicenza (600mila metri cubi di cemento a un km dal centro cittadino): «Come sapete il mio governo si era impegnato a seguire il parere della comunità locale - dice il premier ai giornalisti che lo seguono a Bucarest - e quindi non abbiamo ragione di opporci visto che il problema non è di natura politica ma urbanistica e amministrativa».

L'accelerazione del Professore sconcerta le sinistre pacifiste e gela i Ds, che soltanto ieri sera con Piero Fassino a Porta a porta si erano espressi a favore del referendum con la popolazione. Non è un caso che per la Quercia sia solo Luciano Violante a difendere pubblicamente il Professore.

Il sì di Romano Prodi ovviamente fa compiacere gli Stati uniti. L'ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli commenta a caldo i flash di agenzia con le parole del premier: «Oggi le relazioni tra Italia e Usa registrano un passo avanti». Gli americani non hanno accettato soluzioni diverse da quella di Vicenza. Nonostante lo stesso Prodi riveli che il governo aveva proposto «soluzioni alternative». «Una vasta area vicino ad Aviano», precisa Massimo D'Alema a Ballarò. In quanto al suo primo incontro alla Casa bianca con il presidente Bush Prodi spiega che, al momento, «non è previsto», che «avverrà al momento opportuno» e che comunque con gli Usa «non c'è nessun problema».

Oliviero Diliberto, segretario Pdci, è tra i primi a dirsi «deluso» dalla scelta prodiana. E poco dopo anche Prc e Verdi reagiscono compatti: «Tanto più se è materia locale allora bisogna ascoltare i cittadini con il referendum», dice Giovanni Russo Spena. Anche Franco Giordano, segretario Prc, non nasconde il suo disaccordo con Prodi: «Si apra il confronto. Il Prc sta con il popolo di Vicenza e con quello della pace». Oggi alle 11 i parlamentari veneti dell'Unione incontreranno a palazzo Chigi Enrico Letta. «Non finisce qui - giura Titti Valpiana del Prc - vedremo come faranno a portare avanti i cantieri».

Il senso del blitz del Professore, a quanto pare annunciato telefonicamente ai segretari dei vari partiti, è però ancora un mistero. Di buon mattino a Bucarest infatti il Professore era parso ben più attendista: «Non è il caso che la decisione venga annunciata qui. Lo faremo in Italia». Detto e subito contraddetto con un'apposita conferenza stampa convocata a sorpresa poche ore dopo. Secondo il premier il governo italiano non avrebbe avuto nessun fondamento giuridico per dire no agli Stati Uniti dopo che il comune di Vicenza ha dato il suo via libera al progetto. Ipotesi come minimo balzana, come se io sindaci potessero decidere a piacimento sulle basi militari di paesi stranieri.

Il pressing Usa e gli auspici alla collaborazione transatlantica che il presidente della Repubblica gli ha espresso personalmente l'altroieri evidentemente hanno convinto il premier a rompere gli indugi. Qualcuno però avanza speculazioni più «politiche» dietro il decisionismo del Professore. L'ennesimo intervento di Giuliano Amato, che si muove ormai quasi come il premier ombra garante di un certo equilibrio centrista e filoatlantico, ha innervosito Prodi, che si sente assediato da tutte le parti. L'occasione di dare un altolà al presunto «ticket» Fassino-Giordano e al protagonismo internazionale di D'Alema forse ha fatto il resto. Motivi poco limpidi sia nel merito che nel metodo.

«Prodi attento, rischi un'altra Val di Susa»

Oscar Mancini

«Noi non ci arrendiamo. Prodi stia attento: potrebbe esplodere un'altra val di Susa. Se si mette contro la volontà popolare, il governo avrà una caduta verticale di credibilità». Non fa sconti il segretario della Cgil vicentina, Oscar Mancini. Chiaramente deluso, come del resto la città.

Che fare adesso che c'è il via libera?

La Cgil chiede un incontro immediato al presidente del consiglio, unitamente ai comitati dei cittadini. Vicenza si aspettava una bocciatura netta di questo scellerato progetto. Il governo ha invece deluso le aspettative della stragrande maggioranza dei vicentini che hanno detto no al Dal Molin. Si tratta di un atto gravissimo: ma in Italia comanda ancora Berlusconi? E poi non è coerente con la nuova e apprezzata politica estera di questo governo.

In che senso?

Il governo ha fatto scelte molto apprezzate e condivise. E ora non può contraddirle subendo il diktat americano. La questione Dal Molin è complessa e va analizzata nel suo contesto. C'è un contesto ambientale su cui perfino i sostenitori del sì ormai sono d'accordo: il Dal Molin è il luogo meno adatto per la nuova base. C'è poi un contesto sociale, perché questa è una città già pesantemente militarizzata. E non è vero che i militari statunitensi sono integrati nel tessuto cittadino. I fatti di cronaca nera sono purtroppo all'ordine del giorno; si tratta di soldati che rientrano da teatri di guerra, stressati, spossati non solo nel fisico. E poi ci sono le scelte di questo governo in materia di politica estera. Non possiamo ritirare le nostre truppe dall'Iraq e poi permettere che dalle basi italiane partano missioni militari dirette verso quegli stessi teatri di guerra che la nostra politica estera ormai non appoggia più. Infine, come sostiene l'ex ambasciatore Sergio Romano, c'è una questione di sovranità nazionale: bisogna porsi il problema della presenza delle basi Usa alla luce del nuovo ordine mondiale.

Quello della base è stato presentato anche un problema sociale, perché se gli americani se ne vanno si perderanno centinaia di posti di lavoro. Facciamo un po' di chiarezza?

I numeri sono un mistero, come tutte le cose americane. Si va da 340 fino a 8000 posti di lavoro a rischio. I numeri sono gonfiati e gli imprenditori vicentini che non hanno mai aperto bocca sui licenziamenti - 1500 solo alla Marzotto, Folco, Nutti - ora si ergono a paladini della difesa dell'occupazione. A nostro avviso bisogna aumentare gli stanziamenti per finanziare leggi già esistenti. A chi ci chiede dove si prendono i soldi rispondiamo dicendo che il 34% delle spese di stazionamento delle truppe Usa nel nostro paese sono a carico del contribuente italiano. Basterebbe quindi mettersi attorno a un tavolo a trattare. E francamente è assai singolare che la Cgil che normalmente viene accusata di essere conservatrice nella difesa intransigente dei lavoratori, oggi che propone e parla di riconversione del militare per usi civili venga accusata di non difendere il lavoro. La riconversione offre nuove possibilità di occupazione.

In parlamento rivolta pacifista

Matteo Bartocci

L'accelerazione del presidente del consiglio sulla mega-base dei marines a Vicenza è una legnata per la sinistra pacifista, una doccia fredda per chi sperava nel ritrovato feeling dell'Unione con la propria base di riferimento. Fuor di metafora, il «non ci opporremo» del Professore rischia di azzerare l'unico punto di moderata sintonia all'interno del centrosinistra: la tanto ostentata «discontinuità» con le scelte di politica estera del governo Berlusconi. Come se non bastasse il raddoppio degli investimenti in armi deciso dalla finanziaria (1,7 miliardi di euro) incombe infatti la discussione sul finanziamento delle missioni all'estero. Una cosa è certa: se si votasse oggi il governo in senato non avrebbe più la sua maggioranza. E non è questione di «dissidenti» o meno.

La scelta di portare Vicenza in prima linea nella «guerra globale al terrorismo» sconcerta non poco tantissimi parlamentari pacifisti, da Cesare Salvi e Silvana Pisa della sinistra Ds ad Armando Cossutta dei comunisti italiani. «Personalmente credo che con il sì alla base si sia definitivamente rotto il patto tra gentiluomini che avevamo siglato a luglio sull'Afghanistan», avverte il Verde Mauro Bulgarelli, battagliero da sempre e oggi più che mai sulla lotta contro le servitù militari.

Dentro il Prc è burrasca. In tutto il partito non solo nelle minoranze sono in tanti a chiedere un cambio di rotta. Claudio Grassi, senatore di «Essere comunisti», la minoranza più consistente, avverte il governo: «Se il decreto sulle missioni è identico a quello di luglio per me ma non credo solo per me è invotabile. Chiedo al mio partito di essere coerente. Giordano e Russo Spena si sono sempre spesi per una strategia di uscita dall'Afghanistan. Dobbiamo votare solo il finanziamento necessario al ritiro delle truppe». Su Isaf, tranne nel luglio scorso, sinistra Ds, Verdi, Prc e Pdci hanno sempre votato no. Anche per questo dopo il caso Vicenza Salvatore Cannavò e Franco Turigliatto della «Sinistra critica» del Prc, si dicono ormai «svincolati» dagli obblighi di maggioranza in politica estera. Gli animi si scaldano. Pacifiste storiche come Lidia Menapace, Silvana Pisa e Titti Valpiana non misurano le parole, per usare un eufemismo si dicono «sconcertate» dalle parole del presidente del consiglio. «Stiamo tradendo il programma dell'Unione - sbotta Valpiana - per quanto vago rimandava ogni scelta sulle servitù militari a un'apposita conferenza nazionale» L'Italia è già una portaerei a stelle strisce: «Negli ultimi anni sono state ampliate Camp Darby, Sigonella e Aviano, se ci aggiungiamo Vicenza e la Sardegna siamo ormai ridotti a un paese coloniale».

Anche Armando Cossutta, storico leader del Pdci, non è persuaso dalla scelta di Prodi: «Ma il Cermis ce lo siamo dimenticato? Non ci ha insegnato niente? Prodi sbaglia completamente, il governo Berlusconi ha deciso tante cose ma noi siamo stati eletti proprio per cambiarle. Non solo - dice Cossutta - sono contro l'ampliamento della base Usa ma penso che anche quella che c'è oggi, la Ederle 1, debba andare via. Le basi americane non devono esistere». E sull'Afghanistan? «Da soli non ce ne possiamo andare - avverte - ma l'Italia deve predisporsi subito al ritiro negli organismi internazionali».

Maretta anche alla camera. Paolo Cacciari, deputato dimessosi a luglio proprio contro il sì all'Afghanistan vede «il disastro sociale»: «Alla popolazione non interessano gli accordi internazionali o l'alta politica. Lì non è come la Val Susa, nelle istituzioni locali non c'è un «Ferrentino» (il sindaco dell'alta Valle, ndr) capace di guidare la tanta rabbia che c'è per la decisione del governo. Si rischia un distacco dalla politica a tutto tondo». Anche Elettra Deiana, altra deputata bertinottiana doc, è delusa dal sì prodiano: «Il governo ha fatto malissimo. Ma a sinistra sulla politica estera dobbiamo tornare a discutere pubblicamente, perché non è che possiamo andare avanti facendo finta di nulla».

La decisione di palazzo Chigi insomma complica non poco il cammino della maggioranza. E scava fossati anche dove non ci sarebbero: «Contro alcune questioni - la guerra globale dell'amministrazione Bush, le basi militari, il disarmo - a sinistra siamo tutti d'accordo - giura Silvana Pisa - a questo punto dobbiamo mettere da parte le differenze e agire tutti insieme».

ROMA - "Il governo non si opporrà all'allargamento della base militare Usa" di Vicenza. La risposta di Romano Prodi è arrivata, dopo le pressioni, da destra e da sinistra, a prendere presto una posizione sulla vicenda dell'ampliamento della Base Ederle, che ospita il comando della US Army per l'Europa del Sud. Se dall'Italia fosse giunto un "no", la base sarebbe stata chiusa e trasferita in Germania. Invece da Bucarest, dove si trova in visita ufficiale, il presidente del Consiglio ha anticipato: "Sto per comunicare all'ambasciatore americano che il governo italiano non si oppone alla decisione, presa dal governo precedente e dal Comune di Vicenza con un voto del Consiglio comunale".

Qualche minuto prima dell'annuncio di Prodi, un monito al rispetto dei "patti" era giunto anche dall'ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, secondo il quale sarebbe stato "gravissimo mostrarsi inaffidabili nei confronti degli Stati Uniti e dell'Alleanza Atlantica". E in mattinata all'idea del referendum, proposta dal segretario Ds Piero Fassino, avevano aderito tutta anche la sinistra radicale e i comitati cittadini per il "no".

In quanto al referendum, "a tutt'oggi non è attuato", osserva Prodi, è "una mera ipotesi" e "non è un problema che riguarda l'attività di governo" poiché si tratta di "decisioni locali" e il governo non è chiamato "a nessun atto amministrativo". Il modo con cui il Consiglio comunale di Vicenza intenderà fare esprimere la popolazione locale, conclude il presidente del Consiglio, "sarà sua responsabilità".

Prodi sottolinea che la vicenda non rappresenta "un problema di natura politica", bensì "una questione di carattere urbanistico-territoriale". E ricorda: il suo governo "si era impegnato a seguire il parere della comunità locale". "Non abbiamo ragione di opporci", precisa, rivelando che il governo italiano aveva anche "offerto soluzioni che sembravano più equilibrate", ma che alla fine "non è stato possibile accettare". In quanto a un incontro con il presidente americano George W. Bush, Prodi spiega che, al momento, "non è previsto", che "avverrà al momento opportuno" e che comunque "non c'è nessun problema" nelle relazioni italo-americane.

Nell'immagine, le mani di Ponzio Pilato nel film di Mel Gibson. Ricordiamo ai lettori che si tratta di una base di guerra USA, non NATO, insediata in Italia a spese dell'Italia (analogamente in Giappone e in Germania) per punizione ai paesi dell'Asse dopo la sconfitta del 1945. Dopo sessant'anni, ancora paghiamo i danni di guerra.

Se il governo Prodi-Amato è supporter di George W. Bush il suo leader abbia il coraggio di ammetterlo: il "buffone" Berlusconi lo aveva

E a Vicenza si prepara una settimana in piazza

Orsola Casagrande

Vicenza. E’ la settimana decisiva per il futuro del Dal Molin. Dal conclave della maggioranza a Caserta non è uscita una presa di posizione a favore o contro l’allargamento della base militare americana a Vicenza, ed è proprio questa vaghezza a preoccupare i cittadini che da mesi si mobilitano contro il progetto statunitense. Il timore è che si proceda con un colpo di mano, così come è stato per il Mose, il sistema di paratie mobili pensato per la laguna di Venezia, che dopo tanti tentennamenti è stato approvato dal governo dopo un vero e proprio blitz del ministro delle infrastrutture Antonio Di Pietro. Ed è ancora una volta Di Pietro a cercare di accelerare i tempi, buttando qua e là frasi e commenti che lasciano intendere che una decisione sia imminente se non già presa. Nei fatti la maggioranza è divisa sul Dal Molin così come lo era sul Mose e sul progetto della Tav in val Susa. In questo caso la spaccatura è quasi a metà. Una circostanza che rende evidentemente assai più complicate le cose. Anche perché l’ambasciatore statunitense Spogli l’ha detto senza mezzi termini: il governo italiano deve decidere e in tempi molto brevi. Anzi brevissimi, addirittura entro venerdì prossimo 19 gennaio.

Mentre il governo continua a lacerarsi e a discutere se dire sì o dire no agli americani, i cittadini di Vicenza non mollano e proseguono con le iniziative. Che questa settimana saranno quasi quotidiane. Si è cominciato domenica con il corteo fino alla fiera dell’oro di Vicenza. Un corteo molto partecipato anche se blindatissimo, visto che (almeno questa è stata la motivazione delle forze dell’ordine) il comitato per il sì al Dal Molin (costituito nei fatti da una parte dei lavoratori della caserma Ederle) aveva chiesto di poter fare un presidio proprio nel punto d’arrivo del corteo dei comitati per il no. Per evitare «contatti» la polizia ha così deciso una presenza massiccia. Questa sera invece alle 20.30 è prevista la fiaccolata che partirà da piazza Castello. L’idea dei comitati è quella di montare, davanti al Dal Molin, un tendone che diventerà un presidio permanente, così come hanno fatto i valsusini a Venaus. Giovedì mattina invece scenderanno in sciopero gli studenti medi. E anche se non ci sarà lo sciopero dei lavoratori, gli studenti diranno qualcosa anche in merito al lavoro, visto che l’ultima arma usata dal fronte del sì (e da Cisl e Uil) è quella dei 700 posti di lavoro che andrebbero persi se la Ederle dovesse essere trasferita in Germania. Gli americani infatti hanno detto che se non verrà approvato il loro progetto di allargamento al Dal Molin, sposteranno anche la caserma Ederle. Sui numeri dei dipendenti è iniziato un balletto che arriva fino a 1200. In realtà all’interno della Ederle lavorano poco più di 300 persone, alle quali si aggiungono gli esterni, arrivando così a circa 700. I cittadini contrari alla nuova base ricordano che in caso di dismissione di una base militare ci sono protezioni e garanzie ben definite per legge per i lavoratori che rimangono a casa.

Da Vicenza a Roma, dove invece infuria una polemica e uno scambio di battute, tutto interno alla maggioranza. Contro Di Pietro che ha definito «cani e gatti della coalizione» tutti quelli che sono contrari alla seconda base Usa a Vicenza, si scagliano le senatrici di Rifondazione comunista Tiziana Valpiana e Lidia Menapace che ricordano a Di Pietro che «come ha sottolineato il ministro degli esteri Massimo D’Alema, il 70% della popolazione locale non vuole la base». Tra l’altro l’Italia dei valori a Vicenza si è schierata pubblicamente con i comitati per il no al Dal Molin, aderendo e partecipando anche alla grande manifestazione contro la base del 2 dicembre scorso.

A Di Pietro risponde anche il senatore dei Verdi-Pdci, Mauro Bulgarelli che chiede di finirla con le «accuse di antiamericanismo a tutti coloro che si oppongono alla base. E’ infantile, oltre che scorretto». Intanto da parte dei Ds arriva il commento della deputata veneta Lalla Trupia che ribadisce che «stiamo lavorando perché il governo si pronunci per il no. L’antiamericanismo non c’entra nulla».

«Via crucis» a stelle e strisce

Matteo Bartocci

Romano Prodi ha 72 ore di tempo per sciogliere il nodo gordiano della base Usa di Vicenza. Il raddoppio delle caserme per la 173ma divisione dei marines (3mila soldati di prima linea da alloggiare a un chilometro dal centro della città palladiana) sarà sul tavolo del consiglio dei ministri di venerdì prossimo.

Washington non può attendere. Il progetto a stelle e strisce è il più consistente impegno finanziario americano in una base di oltremare. Il «National Defense Authorization Act», la finanziaria 2007 del Pentagono attualmente in discussione al Congresso (HR 5122), stanzia ben 223 milioni di dollari solo per l’esproprio e la costruzione della nuova base più altri 47 milioni per la costruzione e l’ampliamento di due nuove scuole (elementare e media) e 52 milioni di dollari per lo sviluppo del sistema sanitario «Tricare» che garantisce la salute ai soldati in servizio.

Gli appalti per la costruzione delle scuole, precisa il budget della Difesa, devono essere siglati entro gennaio in modo da iniziare i lavori entro marzo e completarli entro l’agosto del 2009. Si tratta di quasi trecento milioni di dollari che fanno gola a molti imprenditori della zona ma che rischiano di compromettere i rapporti già delicati tra Roma e i «neocon» di Washington.

La decisione sulla mega-base Usa in effetti è solo la prima stazione di una via crucis sulla politica estera che rischia di far impallidire il braccio di ferro in atto su liberalizzazioni e previdenza. Entro il 31 gennaio, cioè nel consiglio dei ministri del 26, il governo infatti dovrà sciogliere le sue riserve anche sul finanziamento delle missioni militari all’estero tra cui quella in Afghanistan. Le due questioni, assai complesse, appaiono più intrecciate di quanto si creda. Incurante delle divisioni locali (a Vicenza, per dire, solo i Ds hanno 4 posizioni diverse sulla base Dal Molin) a Roma i partiti si schierano in formazione perfetta.

Al centro Radicali, Udeur, Italia dei Valori e il ministro degli Interni Giuliano Amato si spendono nettamente per il sì alla concessione della base. A sinistra Verdi, Pdci, Prc (in sintonia con la stragrande maggioranza della popolazione) si battono da mesi contro un progetto politicamente strategico per la guerra internazionale al terrorismo (la base di Vicenza già oggi è una retrovia per i marines impegnati in Iraq e in futuro sarà il fulcro operativo del «fronte Sud» per gli Stati uniti) e nefasto dal punto di vista ambientale e sociale.

Il governo una patata così bollente non la vorrebbe, anche perché il viaggo a Washington di Prodi è ancora di là da venire. Non a caso, Piero Fassino si schiera apertamente per il referendum consultivo. Una strada che possa dimostrare agli Usa al di là di ogni ragionevole dubbio che i cittadini italiani quel progetto proprio non lo digeriscono e un modo per prendere tempo e dare al governo una forte leva «democratica» su cui motivare un eventuale altro dissenso (dopo l’Iraq, Abu Omar, Calipari e la Somalia) che disturba non poco gli americani e i loro corifei.

Dal ministero della Difesa ricordano lo «storico» ritiro Usa dalla Maddalena e dicono che per ora sono da escludere solo le ipotesi alternative in altre città come Rovigo: la decisione finale su Vicenza sarà un sì (magari condizionato) oppure un no. Non è un mistero che anche il ministro Arturo Parisi tifi per il referendum.

«Il dossier preparato da D’Alema e Parisi è sul tavolo del presidente del consiglio», precisano da palazzo Chigi, piuttosto infastiditi per la canea scatenata tra gli altri dal recidivo Antonio Di Pietro. Gli uomini del Professore non rincorrono il Cavaliere nelle sue polemiche: «Siamo filoitaliani, se ci sono dissensi con gli Usa si esprimono con serietà e a tempo debito, da parte italiana non c’è nessun antiamericanismo». Anche D’Alema, che da giorni inanella una dopo l’altra dichiarazioni critiche con il governo Bush in sintonia con l’opposizione democratica al Congresso, parla di «dissenso circoscritto» con gli Usa.

La questione però si complica ancora di più sull’Afghanistan. Il decreto stavolta sarà annuale e non più semestrale e i dissensi di luglio non sono certamente ricomposti. Secondo la Difesa in Afghanistan non aumenterà né «il numero di soldati né il loro armamento». Da palazzo Baracchini chiedono «più tranquillità» alla maggioranza, nella consapevolezza comune a tutto il governo che «la soluzione militare da sola è insufficiente». Di ritiro però non se ne parla: «E’ una missione internazionale perfettamente multilaterale».

Entro il 2007 anzi l’Italia dovrebbe assumere perfino il comando della missione Isaf a Kabul, che dal 4 febbraio prossimo passerà dalla Gran Bretagna agli Stati uniti.

L’attacco statunitense contro i presunti terroristi in Somalia è assai grave. E ciò non solo perché, come ha osservato il ministro D’Alema, costituisce una misura unilaterale politicamente deprecabile e destinata ad accrescere l’instabilità di quella zona del mondo. E’ grave anche perché contrario alle regole del diritto internazionale. Le autorità di Washington si difendono affermando di aver previamente ottenuto il consenso del presidente somalo Yusuf. Ma, a parte l’esilissima rappresentatività di Yusuf, il consenso ad Usare la forza non può mai giustificare l’uccisione di persone, di cui peraltro solo l’intelligence americana ci dice trattarsi di terroristi: altrimenti ogni Stato potrebbe permettere ad un altro Stato di massacrare i propri cittadini (perché, ad esempio, oppositori politici). Il consenso del presidente Yusuf poteva al più autorizzare gli Usa ad usare la forza per catturare i presunti terroristi e consegnarli alle autorità somale o ad organi internazionali, perché venissero processati.

L’azione statunitense dei giorni scorsi costituisce in realtà il punto di approdo di una svolta preoccupante nell’azione degli Usa contro il terrorismo. Negli anni 80 Washington correttamente seguiva la via maestra della "risposta penale", nel lottare contro terroristi stranieri: chiedeva allo Stato che li ospitava di arrestarli e poi estradarli, perché fossero sottoposti a processo negli Usa. Se quello Stato si rifiutava di consegnare i presunti terroristi, gli Usa agivano in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu per adottare sanzioni contro lo Stato recalcitrante. E’ ciò che avvenne con i libici autori dell’attentato di Lockerbie, che alla fine Gheddafi, per far cessare le sanzioni, consegnò, perché venissero processati. Non che gli Usa si attenessero in tutto e per tutto alle regole internazionali. Ad esempio, in qualche caso usarono illegittimamente la forza sull’alto mare per arrestare un presunto terrorista arabo (Yunis); ma il fine era quello, poi conseguito, di sottoporlo a processo negli Usa. Insomma, all’epoca non venivano praticate le extraordinary renditions di oggi (usate per catturare illegittimamente stranieri perché forniscano informazioni, anche sotto tortura). Le violazioni del diritto internazionale erano limitate e comunque dirette a permettere che i presunti terroristi venissero processati in America. Inoltre, in vari casi Washington ricorse a missili e bombe in risposta ad attentati terroristici: ma quegli attacchi furono rivolti contro Stati, colpevoli secondo Washington di ospitare nel proprio territorio organizzazioni terroristiche: nel 1986 gli Usa bombardarono la Libia per l’attentato alla discoteca di Berlino; nel 1993 Clinton fece inviare missili contro Bagdad per punire l’Iraq di aver preparato un attentato contro Bush padre. Si era già in notevole misura al di fuori del diritto internazionale, ma almeno l’azione era interstatuale, cioè rivolta contro Stati come tali, e non volta a soppiantare completamente la "risposta penale".

La svolta si ebbe nel 1998, quando, a seguito degli attentati contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, Clinton autorizzò l’invio di missili contro terroristi in Sudan e in Afghanistan. Gli Usa si trasformarono così in gendarmi planetari, che ritengono di intervenire dovunque nel mondo, uccidendo terroristi o distruggendone le basi. In Sudan venne colpita una fabbrica che secondo Washington produceva armi chimiche (e invece sembra producesse solo farmaci); in Afghanistan si sperava di uccidere Bin Laden (che invece la fece franca). A partire da allora l’azione violenta, volta sic et simpliciter all’uccisione, in qualsiasi parte del mondo, di coloro che Washington considera pericolosi terroristi, si sostituisce del tutto alla "risposta penale". La debolissima protesta degli Stati contro gli attacchi americani del 1998, e poi gli attentati dell’11 settembre 2001, spiegano in certa misura come gli Usa oggi si ritengano legittimati ad agire contro i terroristi all’estero, al di fuori dei canali della giustizia e del diritto internazionale.

L’unico modo per cercare di indurre Washington a rientrare nei canali della "risposta penale" è quello di protestare con forza – come ha fatto D’Alema – contro questa pericolosa deriva, nella speranza che si torni al multilateralismo, il mezzo migliore per cercare anche soluzioni politiche al grave problema del terrorismo.

«I potenti odiano i proletari e l'odio deve essere ricambiato». Perciò, sostiene Edoardo Sanguineti, bisogna «restaurare l'odio di classe», per contrastare l'oblìo di sé in cui la classe operaia, «inibita da una cultura dominata dalla tv», è immersa. Pronunciate venerdì sera a Genova, alla conferenza stampa di presentazione del programma della lista «Unione a sinistra» che sostiene la candidatura di Sanguineti a sindaco della città, le parole del grande intellettuale colpiscono gli astanti e le agenzie, e dalle agenzie rimbalzano sui giornali in una serata avara di notizie. Scandalo: che c'entra l'odio di classe, o anche solo la lotta di classe, mentre si montano pagine e pagine sulla separazione di Nicola Rossi e si celebrano funerali su funerali dei «D'Alema boys» orfani del loro leader? Che c'entra quel richiamo ortodosso di Sanguineti alla forza-lavoro, «la merce uomo, che oggi è la più svenduta», mentre la pietra filosofale della politica sociale sono diventati i tagli alle pensioni? Che c'entra quell'abbozzo di analisi del postfordismo, per cui «oggi i proletari sono anche gli ingegneri, i laureati, i lavoratori precari», mentre si parla di categorie sociali solo nella lingua asettica e fiscale della finanziaria? Il poeta dell'avanguardia, il protagonista del «Gruppo 63», il materialista storico non pentito ha colpito ancora, e ha colpito giusto: fanno stridore solo le parole che l'ordine del discorso decide a un certo punto di rendere impronunciabili, indicibile e indecenti. Lotta di classe e odio di classe fanno parte di questo serbatoio di indicibili oscenità: sono letteralmente fuori scena nel teatrino politico corrente, e perbenisticamente censurate dal discorso corrente della sinistra. E non foss'altro per questo è bene che qualcuno torni a pronunciarle.

Sanguineti in verità non aveva aspettato di essere candidato a sindaco di Genova dal correntone Ds, dal Prc e dai Comunisti italiani per tirarle fuori. Meno di un anno fa le aveva pronunciate con la stessa convinzione a Roma, nella solenne Sala del Refettorio della Camera, durante la sua Lectio Magistralis (oggi pubblicata da Ediesse) in onore dei 91 anni di Pietro Ingrao organizzata dal Centro studi per la riforma dello Stato. Allora aggiunse anche «rivoluzione», e spiegò come qualmente «oggi è doveroso essere sgarbati per rendere evidente a tutti che viviamo in un mondo disumano, in cui il 98% delle persone vive una condizione di precarietà o di vera e propria miseria». Sgarbati, ecco. Che non vuol dire violenti, aggiunse allora e ripete oggi il poeta.Significa semplicemente non stare a danzare quel garbatissimo minuetto di parole che vorrebbe convincerci che tutto va bene e che quello in cui viviamo è l'unico nonché il migliore dei mondi possibili. Significa tenere aperta non la speranza per le prossime generazioni - di quella si riempiono la bocca tutti, tanto non ci tocca - ma la responsabilità che lega le generazioni adulte di oggi a quelle che le hanno precedute e a quelle che seguiranno. Senguineti pensa a Walter Benjamin e lo dice: il compito della sinistra non è quello di accodarsi all'idea del progresso e alla promessa della felicità futura, ma di rivendicare e vendicare le ingiustizie passate e presenti perpetrate sugli oppressi. E' la «debole forza messianica» di cui Benjamin scriveva nelle Tesi sul concetto di storia. La sinistra senza alcuna forza messianica di oggi, divisa in tre tronconi e tre candidati a Genova come ovunque ci sia un posto in palio, potrebbe provare a rileggersele.

Scomparsi dalla scena sociale e mediatica? Magari proprio no, ma gli Anni 70 sono lontani. Niente più mega-fabbriche e grandi scioperi di massa, niente più operai-modello o piazze stracolme che urlano «E’ ora, è ora di cambiare: la classe operaia deve governare». Via dai tg e dall’immaginario collettivo almeno fino a poche settimane fa, quando i fischi di Mirafiori contro i leader sindacali (e le successive dichiarazioni del presidente della CameraBertinotti) hanno confermato a tutti che il nostro Cipputi sarà anche malridotto, a causa di salari in caduta libera e condizioni di lavoro sempre più difficili, ma è vivo. E non si da per vinto.

«Non è un caso che alla Fiat ci sia stata quella protesta - spiega oggi il segretario Fiom Rinaldini -. La gente è proprio incazzata: le condizioni di lavoro sono peggiori e dal punto di vista retributivo c’è una perdita netta del potere d’acquisto». Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo discorso di fine anno, ha puntato il dito contro le «condizioni pesanti» e i «salari inadeguati» degli operai dell’industria e contro i troppi incidenti sul lavoro suscitando commenti positivi dai sindacati e da tutta la sinistra: «Il capo dello Stato ha colto nel segno».



Salari al palo

In media un operaio dell’industria guadagna all’incirca 1.000-1.100 euro al mese. E per arrivare a quota 1300, come ricorda spesso il ministro del Lavoro Cesare Damiano, deve farsi 35 anni di turni alla catena di montaggio. Del resto, come conferma una un’indagine Ires-Cgil, la media dei salari netti dei lavoratori dipendenti in Italia è pari a 1.109 euro, che scendono però a 960 nel Mezzogiorno e addirittura a 788 per i giovani sotto i 24 anni. Ben il 68,6% degli intervistati guadagna meno di 1300 euro al mese ed il 35% sta sotto quota mille (il 49% tra le donne).

I lavoratori dell’industria, 6,9 milioni (5,4 uomini) su 22,5 milioni di occupati, non si discostano molto da queste medie. «Dagli Anni 80 ad oggi - ricorda il segretario Fiom - l’incidenza sul Pil delle risorse destinate al lavoro è calata del 10%, cosa che non ha eguali nei Paesi simili al nostro». E di pari passo è aumentata anche la forbice tra operai e dirigenti. I primi bloccati sotto il tetto dell’inflazione programmata, i secondi premiati con ricchissime stock options.

Sulla condizione operaia l’economista Giuseppe Berta invita però a non generalizzare: «Un conto è parlare di grandi imprese, o ancora meglio, di medie imprese dinamiche e di distretti, ed un altro discorso è parlare di piccole imprese: la situazione in Italia è molto disomogenea». E quindi, citando un recente saggio di Mauro Magatti e Mario de Benedittiis («I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?») pubblicato da Feltrinelli, spiega che l’operaio medio italiano non è scomparso, ma negli anni è progressivamente rifluito verso gli strati bassi della società, dove oltre reddito scarseggia anche il livello di istruzione. Colpa della flessibilità e della terziarizzazione, sostengono in molti.



La nuova geografia

«Gli operai sono ancora tanti, ma distribuiti in modo diverso spiega Rinaldini. A guidare la classifica degli occupati c’è sempre la Lombardia (1.618.000), mentre il Piemonte in affanno ha dovuto cedere il passo a Veneto ed Emilia Romagna. E’ cambiata la geografia dell’industria e l’articolazione di tanti settori: molte attività, come la logistica, sono emigrate verso il terziario e dopo la chimica sono scomparse anche elettronica e telecomunicazioni.

«Un tempo la classe operaia era vista come un momento quasi messianico, in grado di cambiare la società - spiega Salvatore Buglio ex operaio poi deputato -. Io ricordo di essere partito dalla Sicilia per essere assunto dalla Fiat e quando arrivai a Torino mi si aprirono quasi le porte del Paradiso». Oggi non è più così: «E’ venuta meno la missione. La mitica classe operaia è stata messa in disparte, si è seduta in panchina, ed ha perso potere contrattuale. E’ sparita la fabbrica-comunità e il lavoro si è polverizzato». E anche Cipputi ha finito per perdere la bussola.

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