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Ammesso che domani o doman l'altro passi anche al Senato, il governo Prodi bis è già spostato al centro. I dodici punti che il nostro premier ha preteso e che gli sono stati rapidamente concessi, pena il suo ritiro e lo scioglimento delle Camere, questo sono. E di questo è significativo il voto annunciato di Marco Follini. Ma è un equilibrio fragile. E non solo per i numeri, che pur qualcosa significano, ma perché è venuto in luce che quel che lo ha messo e lo tiene insieme è l'urgenza di togliere di mezzo la Casa della Libertà, non una idea condivisa del che fare per l'Italia. La stessa urgenza lo ha ricomposto adesso, a contraddizioni irrisolte.

E' un caso particolare in Europa, una coalizione di centronistra che ha bisogno di tutta la sinistra, incluso il voto dei movimenti radicali, mentre quella del centrodestra non pone limiti a destra fino alle sue forme estreme fasciste e razziste - cosa che non avviene in nessun altro paese dell'occidente europeo, tanto da produrre figure atipiche come Berlusconi o alleanze indigeste a Bruxelles come l'asse Berlusconi-Bossi. Sta di fatto che, come ha detto - non so se con qualche rincrescimento - il presidente Napolitano, non appare possibile una Grosse Koalition fra due blocchi così opposti, nessuno dei due ha voglia di andare alle elezioni (malgrado gli stramazzi, anche il Cavaliere ha i suoi problemi a tener insieme una divisa Casa della Libertà), né è maturo quel centro del quale si sente precursore Marco Follini.

E tuttavia è in fibrillazione l'arruffato bipolarismo italiano. Primo, è ricorrente l'incapacità di quella che chiamavamo la borghesia di darsi una leadership pulita almeno sotto il profilo democratico, ed è permamente la sua tentazione di ricorso a populismi come la Lega e la parte più vecchia di An. La così anomala presenza fin nelle istituzioni di personaggi fascisti viene di qui. E dopo gli anni '80 e la fine della Democrazia cristiana, i cosiddetti poteri forti più moderni occhieggiano alle ex sinistre perché siano loro a fornirgli una figura di sostituzione. Secondo, e derivato, quando le sinistre tutte riescono a unirsi è per la priorità di togliersi di torno destra o centrodestra impresentabili, rimandando il confronto sulle discriminanti non da poco che esistono fra loro. E' un rinvio possibile finché si è all'opposizione o in campagna elettorale, ma diventa impraticabile appena si è al governo, dove le scelte stringono e si è responsabili davanti alla propria base elettorale. E' quel che è successo anche nel corso della prima esperienza Prodi, e tenderà a succedere nella seconda.

I ricorrenti infarti dell'Unione non hanno origini secondarie. Malgrado il mare di personalismi, imprudenze e pochezze di cui si sono circondati per il giubilo della stampa, hanno cause molto serie. Due di esse comuni a tutta l'Europa occidentale - la pressione esercitata dalla globalizzazione liberista sul «modello europeo», o renano, o come lo si voglia chiamare, che ha presieduto dal 1945 alla strutturazione delle nostre società - e la collocazione da assumere nei confronti degli Stati Uniti una volta caduta l'Urss e finita la guerra fredda. Il terzo è del tutto italico, ed è il peso che esercita dopo il 1989 la chiesa cattolica sulla nostra scena politica.

E' su questi problemi che ogni volta affiora una rottura ed è su di essi che Prodi ha dato un giro di vite nel patto prendere-o-lasciare in dodici punti. La prima volta è stato con la finanziaria, dove la priorità data al risanamento del debito pubblico imposto dalla Banca centrale e dalla Commissione - strumenti continentali della deregulation - ha messo limiti cogenti a un riequilibrio nella distribuzione che sarebbe stato necessario alla base delle sinistre e del sindacato. Di fatto, da un lato ha significato bloccare la spesa pubblica e dall'altro non ha toccato in alcun modo le imprese, puntando su un aumento del salassato potere d'acquisto attraverso i risparmi che verrebbero dalle liberalizzazioni di settori secondari (Bersani, taxi, farmacie, eccetera) invece che da un aumento dei salari, e garantendo loro il rifinanziamento attraverso la sottrazione del Tfr ai lavoratori e l'obbligo di versarlo ai fondi pensione - operazione geniale di persuasione dei medesimi che è meglio una gallina (eventuale) domani che un uovo (sicuro) oggi. Ma lo scoglio più difficile da eludere sarà quello delle pensioni.

Paradossale, e determinato più da propensioni e idiosincrasie interne che da un ragionamento sulle tendenze effettive della scena internazionale, la collocazione dell'Italia rispetto all'amministrazione americana. Diversamente da alcuni anni fa, quando l'attacco dell'11 settembre e la risposta di Bush con la guerra all'Afghanistan e poi all'Iraq parevano obbligare il pianeta al «siamo tutti americani», l'impantanamento in Medioriente, l'aggravarsi in Iraq della guerra civile e il degradarsi crescente della questione israelo-palestinese, nonché la scelta iraniana di dotarsi del nucleare civile, hanno gettato la quotazione di Bush al livello più basso mai raggiunto da un presidente Usa. Minoritario nell'opinione e nelle elezioni del Senato e del Congresso, è la sua escalation che è messa radicalmente in causa, e le conseguenze che il Patriot Act ha avuto nella vita interna degli States e nei suoi rapporti con il resto del mondo.

E' sembrato che Massimo D'Alema, come ministro degli esteri, cercasse di disincagliarsene senza una plateale rottura - così si è mantenuto l'impegno dell'Unione sul ritiro dall'Iraq, sono state rinviate al mittente le pressioni dei sei ambasciatori e si sarebbe dovuta articolare una discontinuità dall'Afghanistan, meno facile a causa della copertura che all'impresa aveva dato a cose fatte l'Onu - ma non è chiaro, a chi è fuori dal palazzo, perché Romano Prodi abbia d'improvviso avallato la concessione di Berlusconi di una seconda base americana a Vicenza e messo come condizione al suo restare in scena il rifinanziamento della nostra presenza in Afghanistan. Alla prima non lo obbligava alcun trattato, contava solo la partecipazione a una Nato i cui compiti saranno sicuramente ridiscussi alla scadenza di Bush, e la seconda non tiene in alcun modo dei nuovi sviluppi della situazione in Afghanistan. Perché manifestare disprezzo, egli stesso e Giuliano Amato, ai pacifisti di Vicenza, i cui voti gli erano stati necessarissimi?

Ma qui si sono cumulati gli errori: perché, se il governo si è mosso con arroganza, non risulta che le sinistre in parlamento abbiano avanzato alcuna iniziativa di discussione e aggiornamento sulla situazione internazionale che forse avrebbe portato a uno scontro, ma senza la quale non era possibile neanche una mediazione su un terreno, come si diceva una volta, più avanzato. Il governo è stato per cadere all'ombra d'un Afghanistan mentre - ma pare che nessuno lo abbia notato - Karzai era oggetto dell'attacco non dei talebani ma dei signori della guerra suoi alleati, e come lui assassini di Massud, nonché, come lui, profittatori del papavero.

Con chi stiamo in Afghanistan, per quale fine concreto ci siamo, quali alleanze sosteniamo oltre che essere contro i talebani e fino a ieri - ma non sarà così domani - in zone relativamente difese dalla loro guerriglia? Ne discute mai il parlamento, ne discutono fra loro i gruppi dell'Unione, ne discutono i partiti in qualche sede? Da fuori, l'impressione è che tutto, in Italia, si riduca ai numeri della politica interna e nient'altro.

Ultimo, per quale ragione fra i dodici punti voluti da Prodi sta il ritiro di quei Dico, versione edulcorata dei Pacs, dopo che era stato raggiunto un accordo fra le parti, la cattolica Bindi e la fin troppo mitemente laica Pollastrini? Quando i Pacs sono stati votati in Francia i vescovi non erano contenti né lo era Giovanni Paolo II, ma non sono stati minacciati fulmini e saette su chi li votava, eppure è un paese cattolico - di tiepidi cattolici, tale e quale noi. I soli ferventi di ubbidienza stanno, si direbbe, nel ceto politico, che dopo il 1948 aveva rifiutato di inginocchiarsi di fronte al sacro seggio e dopo il 1989 ha ricominciato a farlo. Più oltre, che idea ha l'Unione della separazione dei poteri fra stato e chiesa, «abc» delle moderne democrazia? Ratzinger può tuonare tutti i giorni contro il governo italiano perché, differentemente da quello francese e da quello spagnolo, questo dà all'oltretevere libertà di pascolo.

E' in atto un raddrizzamento al centro del voto del 2006, cui danno fiato i grandi giornali, in primis La Repubblica e Il Corriere della Sera. Essi premono esplicitamente su Prodi perché sbarchi Rifondazione e i Comunisti italiani, convinti che questo faciliterebbe lo scioglimento del sacro vincolo della Casa della Libertà. La gazzarra che s'è levata contro Turigliatto e Rossi, e il rispettoso silenzio sul voto delle vecchie volpi Andreotti e Cossiga (tipico l'editoriale dell'abitualmente ragionante Ezio Mauro) ha superato i limiti del ridicolo, parevano due inaspettati pugnalatori della Repubblica. Chi sostituirebbe i voti di Rifondazione e Pcdi? I grandi editorialisti non si soffermano su questa piccolezza, come se Berlusconi fosse un ostacolo minore. Né su chi sostituirebbe Prodi, che non è uomo per tutte le stagioni: forse hanno già un candidato. La brusca accelerazione del Partito democratico ne è un ulteriore segnale. Quel che conta è liberarsi di ciò che resta di rappresentanza del conflitto sociale, nelle istituzioni in modo da dare en passant anche un colpo decisivo ai sindacati.

E qui viene al dunque un discorso anche fra quelli di noi, per i quali visibilità e agibilità del conflitto sociale è la sola ragione di essere faticosamente ma ancora in scena. La storia del Novecento dovrebbe averci insegnato che una sinistra classista, sia pur vagamente marxista, in Italia è sempre stata minoritaria. Siamo un paese moderato che non ha mai dato una maggioranza neppure a comunisti, socialisti e socialdemocratici tutti assieme, e che sia stato così perché i comunisti erano troppo forti, è un ragionamento che lasciamo a il Riformista. E' un fatto che, finché c'è stato, il Partito comunista ha condizionato dall'opposizione molti e decisivi sviluppi del paese, e appena si è liquefatto in meno d'una socialdemocrazia siamo precipitati in un'inedita avventura di destra.

Adesso, all'inizio del terzo millennio e in piene declamazioni liberiste, da noi le sinistre radicali arrivano sì e no al 10 per cento del voto. Sono assai più forti nella società, perché, diversamente dalla massa atomizzata, sono fortemente motivate, ma quella storia ci ha insegnato anche che non è augurabile eludere quell'esprimersi indifferenziato che è il momento elettorale, a rischio di degradare al di qua d'una democrazia formale.

Non se ne deve conseguire che la sinistra-sinistra deve operare principalmente sulla società, conoscendola, imparandone e conquistandola e badando in pari tempo che la scena istituzionale non degeneri? Essa infatti non le rappresenterà mai nella loro interezza e potenzialità ma può precluderne ogni spazio ed espressione. Anche a non prevedere facili ritorni al fascismo, a questa chiusura siamo andati molto vicini con Berlusconi.

Ne viene, mi pare, che si tratta di muoversi sui due livelli senza confonderli. Alle camere i gesti eroici del tipo «Muoia Sansone con tutti i filistei» buttano di regola nella morte di Sansone e i filistei più vispi di prima. Sia detto senza offesa per nessuno, il voto dei due ribelli di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, questo è stato. Siamo andati felicemente indietro. Inutile strillare; ma la destra, ma Andreotti, ma Prodi, ma D'Alema - non siamo nati ieri. Ancora più sciocco agitare la propria luminosa coscienza. Chi vuole difendere quella in uno splendido isolamento, non si metta in politica - che è un fare collettivo, o non è. Più seccamente, in Italia una sinistra che conti va ricostruita, e credo anche altrove. La fine del secolo è passata su di noi come uno tsunami. Non ci ha distrutti. Minoranze importanti crescono. Ma minoranze. Vediamo di coltivarle invece che affogarle. Anche il lievito è minoritario rispetto alla farina. Ma se non fa crescere l'impasto che lievito è?

«Non siamo mica come Zapatero!», come tutti sapete, è lo slogan coniato dall'astuta sinistra italiana per dire che di noi ci si può fidare, mica siamo pericolosi estremisti. Basterebbe questa frase per farci guardare con attenzione alla Spagna, e infatti ecco che da laggiù giunge una voce di protesta. L'Istituto Donna (organismo del ministero del lavoro), i Verdi e alcune associazioni di consumatori hanno chiesto il ritiro di una pubblicità di Dolce&Gabbana. Nella foto, un uomo tiene una ragazza immobilizzata a terra per i polsi, e altri bellimbusti seminudi osservano la scena. Tutto un po' ridicolo, se è permessa una notazione artistica. Ma di fatto anche piuttosto offensivo e violento, da cui l'incazzatura delle donne spagnole. Visto da qui sembra peccato veniale, ordinaria amministrazione. E quanto all'immagine mercificata e mortificata della donna, beh, «voi siete qui», cioè in un paese dove si usa un bel paio di tette anche per vendere il gorgonzola (claim: «Mai provato con le pere?»). Dunque diciamo così, che noi non siamo mica come Zapatero (che si va all'inferno), ma una cosa è certa: sull'argomento dignità e diritti in Spagna tengono la guardia più alta.

Del resto l'esperienza insegna che qui parlare liberamente delle opere e della vita dei santi (D&G) è pericoloso assai. Quando un inserto del Sole 24ore ha stroncato le cotolette del loro ristorante, i due sarti hanno ritirato pubblicità per centinaia di migliaia di euro, dato della «stronza» all'autrice dell'articolo in tivù, e poi ampiamente rivendicato il gesto. Qualche mugugno in sottofondo, ma non si sono sentiti né direttori né editori tuonare, dire che si tratta di una vera intimidazione e che così la libertà di scrivere (anche delle cotolette dei sarti) se ne va un pochino a puttane. Anzi. Poco tempo dopo il Sole 24ore ha mandato un altro recensore a mangiare dai due sarti pubblicando un'altra recensione, questa volta favorevole. Ora bisognerà spiegare agli spagnoli che qui non solo non ci indigniamo per una pubblicità volgare e violenta, che siamo abituati, ma abbiamo anche dei problemini di libertà. «E' la stampa bellezza e tu non puoi farci niente», era una bella frase, ma non vale più. E' l'inserzionista, bellezza, e tu non puoi farci niente. Ecco, così va meglio.

Una seria crisi politica è diventata più grave perché c’è sotto anche una crisi istituzionale "all’italiana". Frutto di procedure parlamentari divenute, per lunga incuria, anacronistiche. Prodotta da un sistema elettorale a "perdere". Figlia di un modo di pensare le istituzioni come se fossero cose, tubi, strumenti inerti: e non organismi viventi, da curare ogni giorno, specchi parlanti di una nazione.

Il Paese-nazione dovrebbe, infatti, immediatamente riconoscersi nelle sue istituzioni come immagini della sua identità e della sua storia: la rappresentazione autentica di com’è e come lo vedono gli altri. E, invece, si trova davanti a raffigurazioni estranee, a incomprensibili intrecci, a rompicapi. Come quello che qualche giorno fa spinse la maggioranza a votare contro una mozione che approvava il ministro della difesa del suo governo.

«Voto contro»: solo perché quella approvazione l’avevano proposta per primi gli avversari. «Strumentalmente» certo: ma si può combattere lo «strumentalismo», alterando il valore e il significato del «sì» e del «no» in un parlamento?

Se appena si fa lo sforzo di uscire da questo scenario di finzioni accettate, si scopre, come «Alice nel Paese delle meraviglie», di trovarsi di fronte a non-cose, a non-luoghi. Certamente di fronte a modi di fare che sfuggono alla logica semplice e chiara della Costituzione. Modi che si sono incrostati in certi angoli dove non può o non vuole arrivare l’aspirapolvere della giustizia costituzionale.

Così abbiamo una crisi per effetto di tre paradossi: uno dentro l’altro, come le bambole russe di legno.

Il primo paradosso è che il Senato italiano è l’unica assemblea al mondo in cui il governo può perdere anche quando vince. La crisi è infatti scoppiata perché la mozione della sua maggioranza aveva avuto 158 voti a favore e 136 contro. Una differenza di 22 voti che sarebbe stata una buona vittoria in qualsiasi aula parlamentare planetaria. Compresa, per non andare tanto lontano, la nostra Camera dei deputati. Ma al Senato, no: è una sconfitta. Perché? Perché a quei 136 voti contrari vanno, per prassi, sommati i 24 senatori astenuti (e dunque 160 è più di 158). Ma è giusto che chi si astiene – cioè chi non vuole prendere posizione né da una parte né dall’altra – venga considerato uguale a chi vota contro? E’ un non-senso, una bizzaria che è vecchia come la Repubblica perché il Senato ha sempre rifiutato, per immotivata pigrizia di correggerla e la Corte costituzionale, nel 1984, si dichiarò, pilatescamente, impotente a farlo (per via di una zona che sarebbe off-shore: interna corporis, in latino). Così se la votazione di mercoledì si fosse svolta alla Camera con gli stessi, identici numeri (158 a favore, 136 contro, 24 astenuti) non sarebbe successo nulla. Basta passare da Palazzo Montecitorio a Palazzo Madama perché la «non-crisi» diventi invece «crisi».

È un bell’esempio di politica spiegata al popolo, di "democrazia partecipativa". Ma non solo: questo made in Italy è una specie di manifesto culturale della nostra maniera di fare politica. Una lunga accidia dei ceti politici che hanno sempre considerato come una noiosa occupazione l’ordinaria manutenzione istituzionale. Quanto è ancora sopportabile questa asimmetria nel conteggio parlamentare sulle sorti di un Paese che voglia stare al mondo, quale che sia il colore del suo governo?

Dentro tale paradosso ve ne è un altro che in un certo senso ha innescato il primo. Ed è stato quello di aver ripescato da un’altra epoca storica, e senza le giustificazioni gravissime di allora, la conventio ad excludendum in Parlamento. Cioè, la chiusura della coalizione ad ogni voto parlamentare, sia pure occasionale, non compreso nell’originario patto di sindacato.

In questo modo si dà un assurdo potere di crisi (e, magari, in ultima analisi, di scioglimento) a ciascun senatore. E non alle componenti politiche della coalizione di maggioranza. Eppure in Costituzione la differenza è chiara. C’è l’art. 49 che assegna ai partiti (e, quindi, ai gruppi parlamentari che ne sono proiezione) il potere di «determinare la politica nazionale»: e dunque fiducia e sfiducia ai governi. E c’è l’art. 67 che tutela la libertà del mandato di ciascun parlamentare e quindi anche la libertà di dissenso. Questa libertà è ferita se, come si è fatto in questo accidentato scorcio di legislatura, si caricano su singoli senatori dissidenti responsabilità catastrofiche. Certo, etica e disciplina per i gruppi cui si è liberamente aderito vanno normalmente rispettati: se si vuole evitare l’anarchia assembleare. Ma un sistema come il nostro, anche se, per fortuna, è diventato bipolare, non può permettersi di rinunciare a quella misura di fluidità propria di ogni regime parlamentare (che è ancora il fondamento della Costituzione).

Senonché i primi due paradossi pesano ancora di più sulla vitalità del sistema perché al fondo di tutti ve n’è un terzo e decisivo. Il paradosso di una legge elettorale che non permette di vincere le elezioni al Senato. Lo impedisce perché si prevedono diciassette "premi di maggioranza" regionali. E questi si eliminano a vicenda e la loro somma algebrica non può determinare quel margine in più che garantirebbe al Senato di funzionare. Quindi abbiamo una Camera che assicura la maggioranza e un Senato che la contraddice. E non per scelte imprevedibili del corpo elettorale ma per artificiose malformazioni della legge.

Dunque: un Senato che ha le stesse funzioni della Camera, ma con ben quattromilionitrecentomila elettori in meno (questa è la anacronistica differenza tra il corpo elettorale dei post-diciottenni alla Camera e del corpo elettorale dei post-venticinquenni al Senato), può determinare con le sue decisioni contrarie all’altro ramo del parlamento una non-verità politica, cioè un risultato non corrispondente alla opinione maggioritaria degli italiani. Questo vale oggi e varrà domani. Le tabelle e l’analisi di Roberto D’Alimonte, su Il Sole 24Ore, tolgono ogni illusione che elezioni anticipate, con questa stessa legge, possano cambiare la situazione: quale che sia il vincitore.

Certo, non è più ammissibile la formula «il Senato non fa crisi» che fu la saggia regola del periodo monarchico, quando il Senato non era elettivo. Ma, per misurare lo stato di salute del sistema politico nel suo complesso, è paradossale che un Senato, così artificiosamente reso sottorappresentativo, abbia lo stesso peso della Camera dei deputati.

Domande su domande. Assurdità dentro assurdità. Rispetto ad esse l’apertura formale della crisi ha avuto almeno il senso di una ventata di aria vera e pulita. Un salutare ritorno alla Costituzione. Ma quale sarà la soluzione, è bene sapere che restano annidati e aggrovigliati nel cuore del sistema, insidiosi per tutti, quei paradossi istituzionali. E fino a che restano lì, ci sarà sempre "crisi".

Non è a causa della sinistra radicale che il governo è caduto, ma a causa di un'imboscata centrista, anzi veterodemocristiana, che si è avvalsa della fragilità della coalizione di centrosinistra dovuta anche, ma non solo, alle «intemperanze» della sinistra radicale. Che sui media imperversi invece - con poche eccezioni - il gioco al rialzo dell'imputazione di responsabilità ai dissenzienti nonché agli ortodossi del Prc e del Pdci è solo il segno di quanto sia interessata - anche nella sinistra moderata, e nei suoi organi di stampa ufficiali e non - la costruzione di questo teorema della colpa, che serve con ogni evidenza a spostare verso il centro l'asse del governo e della governabilità.

Obiettivo del resto già raggiunto, sia in chiave politica sia in chiave di sistema, quali che siano gli sviluppi della crisi. Se il governo Prodi sarà rinviato alle camere e ne otterrà la fiducia, si tratterà comunque, con o senza Follini, di un governo diverso da quello precedente, segnato dallo scacco subìto, più condizionato di prima dalla paura di cadere, tenuto insieme dal decisionismo del premier e da un «dodecalogo» che ha già spuntato tutti i propositi di sinistra che doveva spuntare e sacrificato al centro tutto quello che doveva sacrificare, dai Dico alla Val di Susa, dalle pensioni alle pretese pacifiste. Se viceversa Napolitano deciderà di voltare pagina, la svolta moderata sarà ancora più esplicita, sia che si tratti di un allargamento della maggioranza al centro, sia che si tratti di un governo istituzionale o di larghe intese che dovrà decidere le sorti bipolari o neo-proporzionaliste del sistema politico.

Il dato chiaro è che la sinistra radicale è nell'angolo, e non solo quella radicale in senso stretto. Con ogni probabilità, la scossa tellurica di questi giorni porterà i leader ds ad accelerare la nascita del partito democratico, per stabilizzare il quadro politico e per controbilanciare la lesione d'immagine e di credibilità provocata dalla crisi di governo. La gestazione del partito democratico è in fieri e non sarebbe generoso pregiudicarla; ma è largamente prevedibile che la spinta degli ultimi eventi la sbilancerà più verso il centro che verso sinistra, con qualche rischio perfino per il dibattito congressuale ds, come alcuni dirigenti non allineati con la segreteria paventano già.

Che cosa succederà a sinistra del partito democratico, è il vero interrogativo che resta affidato alla palla di vetro. Tutta presa dall'impegno di governo e dai narcisismi di bandiera, l'area che va dalla sinistra ds al Prc tutto ha fatto negli ultimi mesi tranne che gettare le basi della ricostruzione di una sinistra all'altezza del presente. L'esperienza di governo avrebbe potuto essere usata per costruire una base programmatica e per ricostruire un filo di rappresentanza, ma né l'una cosa né l'altra è stata fatta. Sul piano programmatico, le pur giuste rivendicazioni non sono state sostenute da quello sforzo di analisi e di invenzione culturale di cui ormai anche le pietre sentono il bisogno. Quanto alla rappresentanza, l'uso a corrente alternata della piazza e della credibilità di governo non ha fatto che accentuarne la crisi, o meglio l'agonia.

Con il risultato paradossale che oggi è proprio quella base fin qui mobilitata contro le derive moderate del centrosinistra a ribellarsi contro il suo ceto politico, imputandogli - ingiustamente - di non aver presidiato il governo. E i vertici tamponano con improbabili provvedimenti disciplinari uno scacco che a sua volta è troppo facile imputare ai Rossi e ai Turigliatto. Mentre la crisi macina senza che fra i singoli pezzi di questa pur consistente area intercorra, stando alle indiscrezioni, neanche un gran traffico telefonico. Forse dovrebbe suonare qualche sveglia, salvo acquietarsi nella continuità di un governo che fra decaloghi, decisionismi e new entry rischia di trasformarsi da un impegno in un impiglio.

Questa è una crisi di governo assai difficile e anche pericolosa. Cavarsela dicendo che è tutta colpa di Rossi e Turigliatto è, anche numericamente, sbagliato. Se il governo è andato in minoranza è perché, al Senato, c’è una destra che non ha gradito che D’Alema abbia parlato di discontinuità. L’obiettivo principale di questa crisi sono le forze di sinistra, i loro valori. Ma la cosa è aggravata dal fatto che la sinistra è in grande difficoltà, impreparata all’attacco e cerca solo di difendersi, non di contrattaccare. E ciò che emerge dalle prime indiscrezioni sul vertice notturno di maggioranza [vedi l'allegato in calce - ndr] confermano questa debolezza, privando la sinistra di quel potere «contrattuale» che aveva cercato di esercitare finora.

Ma questa crisi è anche pericolosa, perché assai controproducente è la tentazione della maggioranza uscita vincente dalle elezioni di un anno fa di sopravvivere con concessioni di merito o tentando di rafforzare la sua maggioranza con contributi centristi. Già La Stampa di ieri titolava il suo editoriale con «Galleggiare tentazione fatale». Insistere a galleggiare è il modo migliore per affogare. Massimo D’Alema credo che questo pericolo lo abbia tenuto in conto parlando di «discontinuità», che, penso, lui abbia visto anche nell’intervento italiano in Libano.

Questa crisi, per non anticipare esiti peggiori, dovrebbe invece essere una lezione per la nostra sinistra. Dovrebbe indurla a un serio esame autocritico della sua condotta fino a questo momento, dovrebbe farle capire che la massa di sostegno che l’ha portata al governo si è allentata, che delusi e astensionisti sono cresciuti di numero. Che la gestione del programma dell’Unione è stata deludente e scoraggiante. E dovrebbe capire altresì che la grande manifestazione di Vicenza è stata anche espressione di critica e di spinta nei confronti del centrosinistra. Quasi a dire: «Romano, fai una cosa di sinistra».

Invece sembra che non stia andando così: se Romano Prodi riuscirà a tenere insieme la sua maggioranza trasformandosi in una sorta di dominus sulla base dei dodici punti «irrinunciabili» annunciati ieri, forse riuscirà a mantenere il controllo di Palazzo Chigi (salvo nuove imboscate), ma non a ridare fiducia e responsabilità partecipativa a quel vasto popolo che adesso è depresso ed esasperato. Sarà magari un nuovo inizio ma non una buona ripartenza.

Insomma un po’ di fiducia in questo nostro paese bisognerebbe averla e mi pare che nell’attuale crisi della politica il paese, nonostante tutto, sia un po’ meglio della sua rappresentanza. Proprio per questo, se non ci fossero le condizioni per fare chiarezza, meglio il ricorso alle urne - anche correndo il rischio di perdere - piuttosto che soluzioni pasticciate, subordinate agli interessi tutt’altro che limpidi di pezzi residuali di ceto politico democristiano. Gli ibridi improvvisati non hanno mai prodotto risultati positivi per questo paese. E nemmeno le larghe intese.

È sempre un errore lasciarsi trasportare dall'emozione nelle faccende politiche, ma conosco gente, anche bravi compagni, che pur di non vedere di nuovo Gasparri al governo andrebbe a invadere l'Afghanistan a mani nude. È sempre un errore lasciarsi trasportare dall'emozione nelle faccende politiche, quindi la prossima volta che Mr. Genius dice «se andiamo sotto, tutti a casa», siete autorizzati a staccargli la spina. Fatte queste doverose premesse, gli scenari che si aprono sono nuovi e interessanti. Governo di larghe intese. Come ha già detto il compagno Follini serve un nuovo centrosinistra. La presenza di Follini garantirebbe una rappresentanza delle grandi masse lavoratrici. Il ministero della famiglia sarà diviso in due, ci saranno due ministeri della famiglia e andranno tutti e due a Casini (due famiglie, due ministeri). Governo di larghe imprese. Ipotesi caldeggiata da Confindustria, ma inapplicabile finche ci saranno ancora larghe imprese in mano statale. Dopo la privatizzazione di Alitalia il nuovo governo potrà decollare, nel caso, licenziando qualche milione di italiani. Governo per la legge elettorale. Siccome la legge elettorale è stata scritta da Calderoli sotto acido, nemmeno i licheni del pianeta Altair IV andrebbero a votare in quel modo. Si vara dunque un governo di larghe intese che litiga sei mesi. Il risultato sarà una legge elettorale disegnata per far vincere un governo di larghe intese (vedi punto 1). Governo dei saggi. Si cercano freneticamente dei saggi o perlomeno dei normodotati, ma la classe politica della sinistra si trova improvvisamente a corto di nomi. Governo a sorteggio. Una grande lotteria abbinata al festival di Sanremo deciderà il prossimo capo del governo. Febbrili trattative per gli abbinamenti ma anche grossi rischi. Con Rossi e Turigliatto abbinati ad Al Bano si rischierebbe una crisi del Festival. Interim vescovile. Grazie all'astensione di Giulio Andreotti carrozzato Pininfarina, la Cei ha offerto al governo italiano una soluzione veloce e indolore: un governo monocolore formato solo da vescovi. I porporati-ministri saranno tutti sposati ed eterossessuali, per cui la pratica sui diritti delle coppie di fatto verrà automaticamente archiviata.

Bastava salire di poche centinaia di metri sul Monte Berico che domina Vicenza, superare la Rotonda di Palladio e la villa Valmarana affrescata da Tiepolo, raggiungere il Santuario con la sua basilica barocca ed affacciarsi dalla terrazza panoramica di piazza della Vittoria a guardare la città dall'alto, per capire. Al santuario con terrazza di Monte Berico ci si può arrivare salendo per la strada carozzabile ma anche a piedi, seguendo il bel porticato settecentesco che, partendo dalle mura scaligere, si inerpica per settecento metri, raccordando la città «a forma di scorpione» al complesso in cima alla collina: si narra che anche Goethe l'abbia percorso per guardare nella sua interezza la città palladiana e abbia apprezzato il semplice e lunghissimo porticato più dell'imponente basilica barocca.

Basta vedere Vicenza dall'alto per capire, senza bisogno di altre spiegazioni, l'assoluto errore, «senza se e senza ma» come dicono i cittadini vicentini - e hanno ripetuto tutte le donne salite sul palco sabato scorso - del progetto della nuova base militare al Dal Molin.

Il colpo d'occhio è efficace, lascia stupefatti e non concede alcun margine di incertezza: la città è tutta lì sotto, con i suoi monumenti splendidi e famosi, che l'Unesco ha iscritto nella Lista dei beni che fanno parte del Patrimonio dell'Umanità. Monumenti tardo gotici e rinascimentali che, pur dall'alto, sembrano vicinissimi: la basilica palladiana, le belle chiese, il Teatro Olimpico, i palazzi dalle preziose facciate, il municipio, la Torre di Piazza, la Loggia; si intuisce persino il tracciato della città romana ora ridisegnato dai portici di quella medievale e moderna.

In effetti Vicenza è una città piuttosto piccola, conta 150.000 abitanti, meno di quelli che si sono dati appuntamento sabato per difenderla dallo scempio approvato anche da Prodi (forse perché l'80% dei vicentini ha votato a destra e Vicenza è considerata terreno elettorale perduto, come sospettano i cittadini di «sinistra»). Decine di migliaia di persone, forse 200.000, che hanno manifestato pacificamente, camminando tutto attorno al tracciato delle mura scaligere che circondano il centro storico. Già, il centro storico. Guardando dalla balconata si vede, sulla sinistra, giusto al margine dell'abitato, la base che c'è già, quella di Ederle. Dall'altra parte, molto prossima al centro storico, proprio dove sono i monumenti cari a tutto il mondo, si vede invece una grande area verde guarnita da un bosco e confinata da un piccolo fiume, il Bacchiglione, che traversa la città. A ben vedere dall'alto della collina, si tratta dell'unica area non costruita di Vicenza, potrebbe essere, con gran vantaggio per tutti gli abitanti (ad esempio per tutti quei bambini che hanno sfilato in corteo tra passeggini, palloncini e maschere di carnevale), un parco, un giardino.

Invece è il Dal Molin, l'aereoporto che si vorrebbe trasformare nella temuta nuova base militare americana. Proprio lì, dentro all'abitato, nel cuore della città fondata dai romani, a poche centinaia di metri da quel centro storico che per l'Unesco è «patrimonio di tutto il mondo», a un tiro di schioppo dai monumenti di Andrea Palladio, uno dei più importanti architetti del Cinquecento, che è, con i suoi capolavori, il simbolo di Vicenza, a cui è dedicato un importante Centro internazionale di studi e rappresenta uno degli aghi della bilancia della vita culturale cittadina.

Buttare lì una base militare rappresenta, basta guardare per capire, un vero e proprio insulto al patrimonio culturale (vicentino, nazionale e mondiale), un bene comune prezioso e «inalienabile», sul quale si fonda la nostra identità civile. In effetti, a guardar meglio, l'affaire del Dal Molin, oltre ad essere un problema politico, e dei più gravi, è anche un problema culturale, urbanistico e ambientale. Progettare edifici e strutture militari, tra l'altro con funzioni offensive e per un paese straniero, nell'unica area verde di una città storica ricca di monumenti di tale riconosciuto «valore» non dovrebbe essere consentito dalle leggi che proteggono il nostro patrimonio culturale e ambientale. In effetti, la nostra legislazione di tutela, che era la più avanzata, rigorosa e imitata del mondo (prima di essere pasticciata dal precedente governo, interessato a far cassa con i beni culturali), è dotata di norme, dirette e indirette, che impediscono di violentare quel paesaggio culturale che caratterizza tanto peculiarmente il nostro bel paese.

Stesso discorso vale, a maggior ragione, nelle città storiche: esistono, oltre alle norme dei piani regolatori e ai vincoli diretti (che riguardano edifici storici), addirittura vincoli di «rispetto» (ovvero indiretti) che limitano (nell'altezza, nel sedime, nel volume, nella tipologia) o addirittura vietano la costruzione di edifici in prossimità di monumenti o edifici storici.

Ma lo strumento più importante che la legislazione di tutela statale ancora prevede (condividendola con la legislazione regionale concorrente) è la Valutazione dell'impatto ambientale (Via) ai cui dovrebbero essere sottoposti i nuovi progetti, le nuove strutture di pertinenza dello stato, come sono le cosiddette «grandi opere». Il discorso dovrebbe valere anche per le strutture strategiche, militari, direzionali, soprattutto se queste sono progettate all'interno di un nucleo urbano dalle straordinarie caratteristiche storiche, culturali e architettoniche come Vicenza. Per questa ragione il Ministero che si occupa del patrimonio culturale e del paesaggio, attivato dal Ministero dell'ambiente, dovrebbe, ai sensi dell'art. 26 dell'attuale Codice, autorizzare per parte sua, previa istruttoria delle soprintedenze territoriali competenti, tali progetti in base alla Via. Quella della Via è dunque una buona strada da seguire, bene hanno fatto i Verdi a fare interpellanza. Ragionevole sarebbe scatenare un movimento internazionale d'opinione su questo delicato quanto trascurato aspetto.

Vien fatto di chiedersi se Rutelli, che in qualità di vice premier tanto frettolosamente si è espresso sull'ordine pubblico, ha trovato o troverà tempo per affacciarsi, come ministro dei beni culturali, dalla balconata del Monte Berico.

La manifestazione è passata, affollata e festosa. Tranquilla. Oltre ogni previsione e ogni speranza. Più di uno aveva previsto e qualcuno sperava andasse diversamente. Ed è cominciato il gioco delle etichette. Il tentativo di catalogare la manifestazione e i manifestanti.

Spiegando ciò che sono e non sono. Antiamericani, no global, nimby people. Ma anche «romani», come ha suggerito qualche amministratore locale (e qualche politico nazionale), per sottolineare che si trattava di «gente venuta da fuori». Estranea a Vicenza. l gioco delle etichette, per quanto scontato, non è inutile. Suggerisce la difficoltà di applicare «una» sola etichetta a una manifestazione così ampia, variegata e variopinta.

Ma riflette, al tempo stesso, la preoccupazione - trasversale - dei principali attori politici di rivendicarne la paternità. Un segno di disagio politico. Certo: alla manifestazione erano presenti parlamentari e amministratori della Margherita e dei Ds. Ma a titolo personale e locale, in dissenso con il partito nazionale.

La partecipazione di altri leader autorevoli sottolineava l´adesione dei partiti della sinistra cosiddetta «radicale»: i Verdi, i Comunisti italiani, Rifondazione comunista (la più visibile e presente, con i suoi militanti e le sue bandiere).

Inoltre, era particolarmente estesa la partecipazione della Cgil.

Tuttavia, piegare la manifestazione a una lettura politica di parte o di partito sarebbe improprio e riduttivo. Gli slogan più diffusi, tanto per dire, investivano e accomunavano il sindaco e l´amministrazione comunale di Vicenza al governo romano. Prodi, Rutelli e Amato i nomi più gettonati. Berlusconi, per una volta, quasi assente. Sui manifesti e sulle magliette gli slogan alternavano la questione della base e quella politica. I più frequenti: «No Dal Molin» e «Governo luamaro» (l´ha ricordato ieri Fabrizio Ravelli su la Repubblica, precisando, per chi non è veneto o non ha letto Luigi Meneghello, che «non si tratta di un complimento»). La presenza della sinistra radicale aveva un significato «difensivo» e «prudenziale», più che rivendicativo.

Utile a «prendere le distanze» dalle scelte di un governo di cui, tuttavia, fa parte. Per non perdere consensi, più che per allargarli. La verità è che quel corteo ha raccolto una molteplicità di domande e di esperienze che, perlopiù, non hanno rappresentanza politica, soprattutto nel centrosinistra.

Non solo quelle dei centri sociali e dei gruppi della sinistra antagonista, che costituiscono una componente sociale molto limitata e, per definizione, «fuori» dal sistema della rappresentanza (Rc e gli altri partiti della sinistra ne intercettano solo una frazione).

Ci riferiamo, soprattutto, alle domande e alle esperienze che hanno fondamento «locale», come nel caso della nuova base americana a Vicenza.

Sabato, alla manifestazione, hanno sfilato, in grande numero, i comitati della Val di Susa contrari alla Tav.

Insieme ad altri, che evocano altrettante tensioni territoriali: la Sardegna, la Val Brembana, Scanzano. Numerosi i vessilli con il leone di San Marco, a rammentare l´esistenza e la «resistenza» degli autonomisti della Liga Veneta. Quanto alla presenza locale, i vicentini e i veneti erano molti.

Come testimoniavano gli slogan gridati e scritti su cartelli e bandiere. E Vicenza, comunque, c´entra, con il significato e il risultato della manifestazione.

Non solo per la specifica rivendicazione, alla base della manifestazione.

Che pure ha avuto il suo peso (la nuova base americana costituisce, oggettivamente, un punto di congiunzione fra motivazioni di segno diverso: locali, globali e no global; compreso il sentimento antiamericano, che pare cresciuto, negli ultimi anni). Ma perché Vicenza, da vent´anni, costituisce un laboratorio, dove si sperimenta il distacco fra il territorio e lo Stato. A Vicenza (e a Treviso) ha riscosso i suoi primi successi la Liga, quasi venticinque anni fa. E a Vicenza, sabato, ha sfilato anche il fondatore della Liga, Franco Rocchetta (l´ha rammentato ieri Alberto Statera, su questo giornale). Vicenza, la provincia più industrializzata d´Italia, ha costituito il focolaio della protesta delle piccole imprese contro lo Stato, esplosa nel Nordest durante gli anni Novanta. Gianfranco Fini l´ha proclamata «capitale del malcontento, dell´Italia che produce e si rivolta», sul palco della manifestazione organizzata dal centrodestra contro la finanziaria. In Piazza dei Signori, il salotto di Vicenza.

Pochi mesi prima, Berlusconi aveva lanciato l´ultimo assalto contro la sinistra, in campagna elettorale: alla fiera di Vicenza, di fronte agli industriali. La protesta contro la base militare americana può apparire «altra»; quantomeno perché ha maggiore ascolto a sinistra. Tuttavia i comitati e i cittadini che l´hanno promossa e condivisa, più ancora che in passato, si sono trovati ad agire da soli. Contro l´amministrazione comunale, il governo, l´opposizione e gli imprenditori. Senza potersi esprimere, a livello locale.

Senza essere ascoltati dal governo. Senza voce.

Distanti da Roma (e dal Comune di Vicenza). Per questo motivo la manifestazione di Vicenza è significativa, dal punto di vista politico nazionale. Non tanto perché sottolinea la coabitazione difficile di «due sinistre al governo» (come sostiene Sergio Romano, sul Corriere della Sera).

Ma perché raffigura e sanziona la distanza fra la politica e il territorio, fra lo Stato e ampi settori della società. Un problema che investe soprattutto - ma non solo - il centrosinistra. Perché ha radici territoriali profonde; perché i suoi consensi sono alimentati dalla partecipazione, più che dalla comunicazione (e dalla televisione).

Soprattutto, ma non solo, nel Nord, invece, il centrosinistra appare «romano» (senza allusione al premier). Incapace di capire e, prima ancora, di ascoltare le ragioni (e magari i torti) dei cittadini. Così, nel Nordest, a Vicenza, il governo romano è percepito lontano e ostile. Un sentimento reciproco, visto che, a Roma, Vicenza e il Nordest appaiono lontani e incomprensibili. Un posto dove la gente protesta sempre, «a prescindere» (per dirla con Totò). Anche se, alla fine, piega la testa e tace. Brontolona e mansueta. Da qualche anno non è più così. Protesta ancora, ma è meno disposta alla rassegnazione. Non solo il «popolo di destra».

Tutti. La manifestazione di Vicenza pare, dunque, significativa perché riassume e interpreta una domanda di partecipazione insoddisfatta e inespressa. Una relazione frustrante con la politica e con lo Stato. Parente delle molteplici esperienze (e proteste) locali e localiste. Ma anche della mobilitazione che ha decretato il successo delle primarie. E, infine, della Lega, o meglio: della Liga (a Vicenza, in fondo, siamo tutti un po´ leghisti). Non a caso, per definire il senso della manifestazione, alcuni protagonisti hanno parlato di «mobilitazione comunitaria». Lo ha fatto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, intervistato da Gigi Riva sull´Espresso. Gli ha fatto eco l´ex sindaco democristiano di Vicenza (e oggi leader veneto della Margherita) Achille Variati (sul Riformista).

Anche così si spiega la «paura» sollevata da Vicenza. L´allarme preventivo e il disagio successivo, intorno alla manifestazione.

Vanno oltre i legittimi timori provocati dalla rete terrorista, scoperta a Padova nei giorni precedenti. Non è solo «paura» della violenza. È, anche, un segno della frattura fra Vicenza e Roma.

Fra lo Stato centrale e la periferia. Rispecchia la difficoltà della politica (e del centrosinistra) di capire. E di farsi capire. Fino al punto di vedere (e temere) nella mobilitazione di Vicenza una minaccia (come ha rammentato ieri D´Avanzo).

Ma quale democrazia stiamo coltivando, se la partecipazione fa paura? E in quale Stato ci siamo ridotti se Roma ha paura di Vicenza?

Eccola Vicenza, nelle due telecronache dirette di Sky e di La7, una normale città europea che ha una cosa da dire e la dice per le strade perché nessun´altra occasione di ascoltare le ragioni dei cittadini è stata creata. Questo, il presunto dovere di silenzio dei cittadini, è l´unico aspetto non europeo e "anti-americano" della manifestazione di Vicenza. In che senso anti-americano? Ma perché è stata rifiutata l´idea profondamente americana che la politica è sempre locale e che niente si può fare in una città senza il consenso dei cittadini.

Qui si rovesciano e si mordono la coda due luoghi comuni opposti. Il primo dice: la politica estera dell´Italia non può essere decisa dai cittadini di Vicenza. Ma Vicenza non vuole decidere la politica estera, vuole decidere i quattrocentocinquantamila metri quadrati del suo territorio a un chilometro dal suo centro storico palladiano. Qui il primo e il più ragionevole problema non è se dire no o sì alla richiesta americana.

Certo, quella è una competenza del governo. A Vicenza spetta però, proprio nella migliore tradizione americana, stabilita fin dai tempi dei "Federalist Papers" (gli scritti dei padri della Costituzione americana) di partecipare alla discussione e alla decisione su quei quattrocentocinquantamila metri quadrati da occupare con strutture che avranno a che fare, molto prima che con la politica del mondo, con le falde acquifere di Vicenza, con il centro storico di Vicenza, con il traffico di Vicenza, con la famosa "compatibilità" ambientale del nuovo richiesto con il "vecchio" che esiste già. Ovvero: da un lato la vita dei cittadini, dall´altro la qualità storica unica al mondo della città palladiana. Ad essa i padri fondatori degli Stati Uniti si sono ispirati costruendo la loro capitale. Come è noto Washington è tutta disegnata a immagine e somiglianza del Palladio.

Dunque non si tratta di gettare il problema nel mezzo della immensa discussione sulla pace e sulla guerra, benché in modo naturale e inevitabile la folla che ha partecipato sabato a Vicenza alla manifestazione sia stata una folla di pace. Si tratta di una questione in apparenza più piccola ma che in realtà è il cuore della vita democratica. La questione è: contano i cittadini nelle decisioni che li riguardano e li coinvolgono direttamente e che cambieranno la loro vita?

In questo senso non sono d´accordo con il dire che tutto ciò «non è una questione di piano regolatore». Perché quando non si ascoltano i cittadini neppure sul piano regolatore, che vuol dire la vita vicino a casa, è molto difficile che li si ascolti su grandi controversie lontane.

Nessuno può dire a un cittadino o a una cittadina di Vicenza: «Scusi ma lei non sa di che cosa stiamo parlando». Perché lui o lei lo sa meglio di chiunque altro ed è stato un grave errore non dare loro la parola. Infatti l´amicizia, l´alleanza, la continuità dei rapporti e le vicende internazionali non si esprimono dicendo: «O ci date quei quattrocentocinquantamila metri quadrati qui, al Del Molin o si rompe il nostro legame storico». Ci dicono che tra amici è naturale che si intavolino incontri e discorsi per decidere dove, come, con quali conseguenze, con quale impatto delle nuove costruzioni e persino con quali criteri urbanistici e con quali architetti.

* * *

Dunque, come si vede, Vicenza ha fatto da scudo e da pretesto per confondere insieme il rispetto di una città, il diritto dei cittadini, i doveri e le responsabilità del governo, il rapporto con gli Stati Uniti, la presenza italiana in Afghanistan e le tensioni nel mondo. Mentre guardi sfilare le decine di migliaia di persone pacifiche giunte da tutta Italia per dare una mano al diritto dei vicentini di essere ascoltati è inevitabile confrontarsi con alcune riflessioni.

La prima è: mai, forse, si è tanto lavorato, da parte dei volenterosi dipendenti di Berlusconi, travestiti da politici oppure da editorialisti e da politologi, un vero e proprio infaticabile impegno, affinché Vicenza fosse uno scontro.

Li vedevi in televisione aspettare i sassi, le grida brigatiste, magari la stella a cinque punte. Si sarebbero accontentati di un passamontagna o di un grido sguaiato e tenevano pronta l´arma letale: ah, ma ci sono autorevoli sostenitori del governo in quella sfilata e quindi la scena penosa è il governo che marcia contro il governo.

L´argomento è stato liquidato sia dalla pace della manifestazione sia dalla tradizione democratica europea e americana. Forse qualcuno ha dimenticato che Robert Kennedy, leader delle manifestazioni di pace contro la guerra in Vietnam, era l´esponente più autorevole dello stesso partito e dello stesso governo che avevano iniziato e stavano continuando quella guerra? Forse qualcuno gli ha dato dello stupido o del traditore? Forse qualcuno non sa dei soldati e ufficiali reduci dall´Iraq che partecipano alle manifestazioni di pace negli Usa e parteciperanno alla campagna elettorale democratica, che sarà una campagna contro la guerra?

Forse non è passata la notizia, che appare ogni giorno sui giornali americani, che ci avverte che l´intera maggioranza democratica alla Camera e al Senato si oppone all´allargamento della guerra (incluso l´allargamento delle spese e delle basi) voluto con una febbrile accelerazione dal presidente Bush e dai pochi neocom restati intorno a lui?

Insomma si è voluta descrivere Vicenza come una scheggia di rozzo, antico, violento, pericoloso anti-americanismo del passato, possibilmente collegato ad atti di grande violenza e di terrorismo, mentre ogni sguardo pulito rileva: tradizione democratica, dimostrazione civile, diritto di essere ascoltati, partecipazione alla vita politica. Insomma il meglio della tradizione politica italiana e americana.

* * *

La seconda inevitabile riflessione è: se esiste, e appare molto numeroso, un popolo del no (non all´America, non ai rapporti fra i due Paesi, ma alla cementificazione della città del Palladio senza ascoltare i suoi cittadini) non esiste un popolo del sì.

Avete mai sentito di manifestazioni, anche solo di dieci persone, che insieme vengano in strada per dire: noi siamo in favore, vogliamo il cemento, a Vicenza tutto qui subito (e col cemento tutta l´immensa struttura che, come si sa, non sarà ospedaliera)?

Questo argomento sarà molto importante per il Sindaco di F.I. e il consiglio comunale di Vicenza che, per amore di Berlusconi, ansioso di apparire il miglior amico dell´uomo, avevano detto «sì» prima che glielo avessero chiesto e avevano ordinato di dire «sì», qualunque cosa volessero i cittadini.

È evidente che quel sindaco non si ripresenterà più e che, se e quando Berlusconi avrà ancora voce in capitolo, ce lo ritroveremo come beneficiario di qualche posto pubblico conquistato con lo "spoil system" ma mai più alla testa della città che ha tranquillamente abbandonato. Però, se non c´è il popolo del sì (avrebbe dovuto essere il popolo di Berlusconi, ma c´è un limite a tutto) c´è da domandarsi da chi è composto il popolo del no.

Va bene, i nostri più astuti cronisti e i nostri più severi editorialisti si sono sbizzarriti a elencare tutti i possibili centri sociali, tutti i possibili gruppi no global, tutti i possibili Casarini e Caruso, tutti i possibili resti del comunismo con tutti i nomi. Però non bastano. E benché il povero e desolato Cicchitto abbia seriamente provato a gridare alla rivolta e alle barricate anti-americane durante la sua partecipazione alla "diretta" de La7; e benché si sia lavorato a screditare tutto ciò che ha a che fare con il pacifismo facendolo apparire molto più pericoloso delle strade di Baghdad, anche il pacifismo non basta per spiegare questo popolo. C´era anche la speranza di fare un bel cocktail tra l´arresto recente dei "nuovi" brigatisti e la presunta violenza anti-americana che, ci hanno giurato, covava sotto la cenere del finto pacifismo e della finta nonviolenza. È vero che la festa della destra per il ritorno del terrorismo è stata guastata dal fatto che le implacabili indagini sono state condotte dallo stesso giudice, Ilda Boccassini, che aveva implacabilmente indagato e avviato verso la condanna (impedita da gentile prescrizione per legge retroattiva della Casa delle Libertà) Silvio Berlusconi. Ma è anche vero che il cocktail tanto evocato e tanto atteso per poter gridare allo scandalo dell´anti-americanismo pericoloso e magari a qualche collegamento col terrorismo islamico, non ha avuto luogo. Ha lasciato posto a una grande manifestazione di pace nella più tipica e grande tradizione democratrica. Ma se questo è il popolo del no fermo, civile e democratico, se questo popolo rispetta le regole e non sventola le bandiere con la croce celtica della marcia su Roma di Berlusconi (quelle sì, per salda radice storica, antiamericane, perché bandiere dei discendenti di chi agli americani che venivano a liberarci dal fascismo aveva davvero sparato) chi è questo popolo?

La risposta è semplice: questo è il popolo che ha votato per Prodi. È venuto così numeroso e appassionato e festoso per la ragione alta e civile che abbiamo appena ripetuto. Dare più voce alla legittima e inascoltata voce della città di Vicenza. Ma chi è che non ha voluto ascoltare la città di Vicenza? È il governo Prodi. Anche ieri ha voluto ripetere: «La questione è chiusa».

Sappiamo tutti che in ogni democrazia a un certo punto bisogna decidere e che quella decisione (detta eufemisticamente dal ministro della Difesa Parisi «punto di sintesi») spetta al governo. Ma in ogni democrazia prima si discute, prima si ascolta, prima si soppesano le ragioni. Una ragione americana è certo più spazio per la sua base. Che cosa c´entra la dislocazione logistica e topografica con le grandi ragioni della strategia internazionale? Vi immaginate il Paese più potente del mondo che si intestardisce esclusivamente sul Dal Molin, prendere o lasciare? Come lo spiegherebbe agli americani, abituati a discutere tutto?

* * *

È naturale che anche in Italia, nella migliore tradizione americana, si ascoltino i cittadini e le loro ragioni. Ma quando è venuto quel "prima"? Qui c'è un problema che non è possibile ignorare. Quel "prima" non è mai venuto. C'è una via d'uscita a questa domanda che è francamente appare penosa. Si dice: il consiglio comunale ha detto "sì", sia pure con un solo voto. Possibile che quel sì basti a confronto con la rivolta di una città per dire che il processo democratico è stato esperito, che tutte le parti sono state ascoltate e che «siano arrivate al momento di sintesi» e che «non cambieremo idea»?

E' un comportamento che forse regge davanti a un notaio, ma non di fronte al popolo di Prodi, che ha votato per Prodi e poi si è sentito chiuso fuori, abbandonato dai rispettivi partiti, lasciato a darsi aiuto e solidarietà spontanea. Ci hanno detto le televisioni che non solo la città ha aperto le porte alle decine di migliaia di sostenitori venuti da tutta Italia, ma ha offerto centinaia e centinaia di stanze in famiglia per far dormire i pericolosi manifestanti.

Noi che scriviamo queste righe e voi che le leggete siamo lo stesso popolo che non si è dato pace con la illegalità dei cinque anni di Berlusconi, persone che in modi, con voci e con strumenti diversi (ognuno quello che poteva) ce l'hanno messa tutta perché Prodi, nonostante i tentati imbrogli, risultasse vincente e dunque governante. Nessuno sta chiedendo gratitudine. Ma ascoltare una voce che ti dice e ti spiega, magari non attraverso i buoni uffici di Bruno Vespa, sarebbe una risposta meritata per chi, anche ieri, a Vicenza, ha detto sì a un Paese pulito, legale e democratico nel quale la voce dei cittadini conta e la voce di chi governa ci raggiunge e ci spiega.

Vicenza è stata l'occasione felice di manifestare in pace e nonviolenza e di deludere i fervidi commentatori in attesa della rivolta. Ma il silenzio del governo eletto da quel popolo («abbiamo già deciso e basta»), non è una buona compagnia.

Vorrei consigliare di dare un'occhiata al film La regina, sul comportamento della casa regnante inglese dopo la morte della principessa Diana. C'è la voce di Tony Blair che chiama il palazzo reale e intima alla regina: «Maestà, la gente è per le strade e lasciata da sola. Lei è un simbolo. Metta la bandiera sul palazzo reale e faccia sentire la sua voce. Altrimenti diranno che in quel palazzo non c'è nessuno». In quel film la regina, che aveva deciso di tacere, ha parlato. E adesso gli storici inglesi dicono che Tony Blair, con quella telefonata, ha salvato la monarchia.

La Stampa

Barbara Spinelli, La nostra grande coalizione

E’stato un corteo molto volitivo e imponente, contro l’estensione della base di Vicenza, e a dispetto di tante previsioni è stato pacifico. Non hanno avuto peso i terroristi e l’enorme rumore sollevato dal loro arresto, nonostante qualche striscione ne chiedesse la liberazione. La disciplina dei dimostranti non è stata inquinata dai titoli dei quotidiani (giustamente la Jena ha scritto, su La Stampa, che i più preoccupati eravamo noi giornalisti: «Se non succede niente, sai che palle»).

Questa manifestazione contro l’ampliamento della base, si è cercato di caricarla di significati che poco hanno a vedere con le questioni reali legate agli avamposti: con l’utilità delle basi che la Nato installò ai tempi d’una guerra fredda ormai finita, con i rapporti italo-americani che ne disciplinano l’ubicazione.

E con l’uso che in futuro sarà fatto di esse, tenuto conto che gli Usa stanno perdendo una guerra cruciale in Iraq e che la loro forza ha cessato d’esser sinonimo di egemonia globale. Il fastidio provato dalle popolazioni locali e da parte delle sinistre (ma anche da studiosi non estremi come Sergio Romano) non è senza rapporto con queste evoluzioni, cui andrebbe aggiunto il disastro del Cermis nel 1998: 20 morti, e nessun responsabile Usa che pagò. E non è senza rapporto con una sconfitta americana che dall’Iraq rischia d’estendersi all’Afghanistan, dove i talebani hanno ripreso metà del Paese e si preparano a nuove offensive, costringendo gli occidentali a operazioni militari preventive inizialmente non concordate.

Estrapolata da queste realtà, la manifestazione è stata trasformata prima in un referendum tra antiamericani e filoamericani, poi c’è stato chi l’ha accostata all’arresto di nuovi brigatisti, alle difficoltà di un sindacato infiltrato da terroristi, infine al centro sinistra che alberga forze che hanno forti legami con no-Tav e no-global, pacifisti e centri sociali. I toni assai allarmati di Amato o Rutelli hanno contribuito a creare connessioni che per ora esistono solo negli opuscoli neo-brigatisti.

Resta il mistero d’un terrorismo che in Italia non scema, non si chiude come è accaduto in Germania. Un terrorismo che certo non riesce a sedurre come negli Anni 70, ma che del brigatismo coltiva pur sempre l’ambizione a far proseliti. L’ambizione di chi apparteneva alla cosiddetta Seconda Posizione delle Br, e che nel 1984 prese le distanze dalle «derive militariste e soggettiviste» del gruppo Lioce (è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata da Salvini), indica proprio questo: per divenire influente, la setta oggi smascherata aveva bisogno di agire dove si usa coltivare rivendicazionismi (fabbriche, sindacato) e di educare propri iniziati. Quest’ambizione altrove si è spenta. In Germania, Stato e magistratura s’apprestano a sospendere pene o a graziare gli ultimi terroristi. Nel gennaio 2005 fu addirittura allestita a Berlino un’esposizione sull’Autunno della Repubblica. Gli atti di clemenza giudiziaria avvengono indipendentemente dal pentimento pubblico dei terroristi, confermando che lo Stato di diritto funziona quando la giustizia non è determinata solo dalla voce delle vittime ma dalle regole che essa dà a se stessa. Ci fu un giorno in Germania - il 20 aprile 1998 - in cui la Rote Armee Fraktion ufficialmente si sciolse. In un comunicato annunciò: «Oggi finisce il nostro progetto. La guerriglia urbana che s’incarnò nella Raf è ormai storia». Non così in Italia, dove l’auto-scioglimento è mancato e dove tutti ancora son chiamati a vigilare. Anche il sindacato, che contrariamente a quel che dice Epifani può «ricever lezioni» come qualsiasi organismo della società civile.

Ma vi sono altre peculiarità italiane. Altrove, il risentimento anti-sistema si esprime piuttosto nel voto protestatario, a vantaggio di partiti che volutamente vivono ai margini. Le classi popolari colpite dalla crisi del lavoro danno oggi la preferenza a partiti anti-sistema come quello di Le Pen in Francia, o alle sinistre trotzkiste e no-global. In Germania (soprattutto nelle regioni orientali) il favore va a ex comunisti o neonazisti. Unico caso in Europa, l’Italia è il Paese in cui le sinistre che tradizionalmente erano contro il sistema sono entrate - volendo e non volendo - nel governo. Hanno deciso di assumersi responsabilità che nessun partito analogo ha preso su di sé, nel continente. Rifondazione e comunisti di Diliberto stanno ripetendo l’esperienza fatta decenni fa da socialdemocratici, Verdi e Pci in Germania e Italia. Prodi e il suo governo hanno quest’importantissima funzione pilota, in Europa: condurre tali forze, profondamente anticapitaliste, dall’etica della convinzione all’etica della responsabilità. Condurle come fece Brandt agli albori del terrorismo, quando un’inflessibile legalità si combinava con quella che il leader socialdemocratico chiamava, respingendo allarmismi e consigliando l’«ascolto critico e autocritico» degli scontenti, «la calma pacatezza (ruhige Gelassenheit) dello Stato di diritto». Insistendo sulla parola compromesso, nell’intervista a Gigi Riva sull’Espresso, il presidente della Camera Bertinotti conferma un’analoga scommessa.

L’inedita presenza nel governo di queste forze non spiega certo il nuovo terrorismo, formatosi in precedenza, ma potrebbe inasprirlo come in passato la socialdemocrazia governante inasprì la contestazione sino a generare la Rote Armee Fraktion. Al tempo stesso, è una presenza che aiuta a prosciugare l’acqua dentro cui il terrorismo nuota. Proprio perché son capaci di mediare, e sanno come addomesticare, le sinistre radicali che affiancano Prodi sono preziose: nessun analista intelligente, negli Anni 70 in Germania, avrebbe detto che i socialdemocratici dovevano uscire dal governo perché i terroristi erano un danno collaterale della coalizione Brandt-Scheel. Tanto più che non sono marginali, i mali sociali che generano scontento e anche violenza. Paradossalmente sono mali ancor più acuti di quanto lo fossero negli Anni 70.

In Francia la precarietà e la sensazione di esser perdenti radicali (un termine coniato dallo scrittore Enzensberger) spiega l’adesione spettacolare delle classi popolari a Le Pen. Gli studiosi Philippe Guilbert e Alain Mergier parlano di «discensore sociale» - di vasto declassamento delle classi medie e popolari - che ha demolito il vecchio ascensore sociale. In una recente intervista, il socialdemocratico Horst Herold, capo della polizia criminale tedesca durante il terrorismo, si è domandato come mai, «proprio oggi che le condizioni denunciate dalla Raf sembrano attuali» («aumentano i fattori d’insicurezza sociale, si avverano perfino le analisi di Ulrike Meinhof sull’imperialismo americano») non esista in Germania il terrorismo. La domanda è pertinente, e l’esperienza italiana aiuta a rispondere. La Germania ha sviluppato una capacità immunitaria, ma ha partiti estremisti che neppure sognano di andare al governo.

L’uscita dall’anomalia berlusconiana ha dato vita a un’alleanza di forze estremamente disparate, e chi anela a grandi coalizioni per fronteggiare economia e politica estera deve ammetterlo: la Grande Coalizione già c’è, vede Mastella accanto a sinistre radicali. Oggi queste sinistre hanno un’eccezionale opportunità: uomini come il ministro Ferrero o il sottosegretario Cento possono divenire i Cohn-Bendit e gli Joschka Fischer del futuro italiano, appoggiandosi alla calma pacatezza di Prodi. Hanno già tentato molto, in pochi mesi: hanno accettato il rigore economico, consentito a un’operazione militare in Libano, accolto i limiti alla sovranità che l’Europa impone. Hanno accettato che il Brandt della Grande Coalizione non sia un marxista ma un cattolico riformista. Può darsi che la scommessa fallisca. Ma che di una forte scommessa si tratti non c’è dubbio: forse quel che la sinistra radicale concede pesa ancor più di quel che provvisoriamente ottiene. Fin da ora comunque essa dà la propria disponibilità a incanalare le proteste, ascoltandole. Giovanni Russo Spena (Rifondazione) ha detto, polemizzando con l’allarme del ministro dell’Interno: «Non si rendono conto che proprio noi cerchiamo di colmare il distacco che separa una parte dell’elettorato di centrosinistra da questo governo». Bertinotti consiglia l’apprendimento del compromesso. Ma per superare la nuova emergenza, sarà utile che anche i moderati l’apprendano.

Tra le molte cose insensate che ha detto Marx, ce n’è una che gode di singolare popolarità: «La storia si ripete sempre due volte: la prima in tragedia la seconda in farsa». Solo chi crede in una storia chiusa alle sorprese e alla libertà, in ineluttabile ascesa o discesa, può aderire a simile stupidaggine. Per chi la sta vivendo, la storia non è mai farsa: è sempre seria o tragica, mai ridicola o caricaturale. Essa appare farsa alle vecchie generazioni, che credono di essere più intelligenti ed eroicamente tragiche di figli e nipoti. Già capire questo, già scoprire che si può esser prigionieri delle parole violente come anche delle parole stupide, può aiutare a interpretare il tempo che viviamo.

il manifesto

Gabriele Polo, Lezione politica

I fantasmi gettati addosso alla manifestazione di Vicenza si sono dissolti in una giornata festosa e determinata. Era ampiamente prevedibile: il popolo della pace - che le guerre non sono riuscite a cancellare - insieme a migliaia di donne e uomini che in quella città si oppongono a una nuova base militare, hanno dato una lezione politica.

Gli unici che non lo avevano previsto sono proprio quelli - gran parte dei media e dei professionisti della politica - che per mestiere avrebbero dovuto saperlo meglio di chiunque altro. La loro è una miopia preoccupante. Ora dovrebbero riflettere, pensare almeno un secondo prima di rilasciare una dichiarazione televisiva o scrivere una riga di giornale.

L'evocata emergenza ha sortito l'effetto opposto a quello voluto: l'auspicata fuga da una manifestazione descritta come un pericolo si è rovesciata in un grande abbraccio collettivo a Vicenza e ai suoi abitanti. Un affetto che ha voluto premiare la resistenza di una comunità alla violenza commessa nei suoi confronti. Un abbraccio che lancia un messaggio chiaro: la contestata base è un paradigma politico attorno cui si gioca il futuro di questo governo.

In primo luogo perché mette in discussione il decisivo nodo delle relazioni internazionali: la giornata di ieri ha dimostrato una volta di più come l'elettorato che ha permesso lo sfratto di Berlusconi da palazzo Chigi chiede all'attuale governo di sfrattare dalla propria pratica ogni politica di guerra, in tutte le sue forme, dirette e indirette: se per far questo è necessario - come è necessario - mettere in discussione le attuali alleanze, non bisogna temere di farlo.

In secondo luogo, la giornata di ieri mette in discussione il rapporto tra l'Unione e la sua base elettorale. A partire da una «piccola» questione di metodo: l'incapacità di ascolto che l'esecutivo ha dimostrato - fin dalla sordità dimostrata da Prodi con il suo annuncio - se confermata nei prossimi giorni segnerebbe qualcosa di più di un distacco, porterebbe a una grave rottura.

«Solo gli imbecilli non cambiano idea», recitava uno dei tanti striscioni vicentini di ieri.

A sentire le prime reazioni di Prodi («il governo non cambia programma») o di Parisi e Fassino («ridurre al massimo l'impatto ambientale») c'è da temere che la stupidità sia in progressiva crescita: pensare di «ridurre il danno» e «l'impatto sui vicentini» - una base più piccola? fatta un po' più in là? qualche marine in meno? - palesa solo la difficoltà di un governo che controvoglia accenna un piccolo passo indietro, ampiamente insufficiente rispetto alla rilevanza del nodo-Vicenza. Un riformismo minore, un po' ridicolo. Ma anche un'offesa per i tanti che ieri sono scesi in piazza.

la Repubblica

Eugenio Scalfari, Pacifismo pluralista in salsa vicentina

Cinquanta, ottanta, centomila? Qualcuno degli organizzatori, ad un certo punto del corteo, si è lasciato andare ad una stima-record: 200 mila presenze alla manifestazione vicentina. Francamente esagerato, ma certo erano tantissimi. Anche i vicentini erano molti, ma quelli venuti da fuori molti di più. E la sinistra radicale più numerosa di quella riformista.

Violenze nessuna. Qualche cartello (presto rimosso) in favore dei "compagni che sbagliano", cioè degli arrestati in odore di terrorismo.

Insomma un corteo pluralista quanto altri mai, perché in quei sei chilometri della circonvallazione di Vicenza si giocavano contemporaneamente molte partite. Vediamo quali.

Anzitutto la partita dei pacifisti senza se e senza ma, per i quali anche la bandiera dell’Onu non conta un fico secco come giustificazione e motivazione delle missioni militari. Quel tipo di pacifisti c’era a Vicenza; diciamo quelli personificati da Dario Fo e Franca Rame. Ma il pacifismo del 2007 non è più quello che nel 2002 riempì le piazze di tutta Europa, da Madrid e Barcellona a Londra, a Berlino, ad Amsterdam, a Bruxelles, a Stoccolma, a Roma, Milano, Napoli, arrivando a cifre percentuali di oltre il 90 per cento nei sondaggi d’opinione europei.

Quello era un pacifismo mirato e il suo bersaglio era la guerra preventiva di Bush in Iraq che infatti si è rivelata una catastrofe e trasformata in un pantano. Era un pacifismo saggio con una meta realistica e concreta.

Quello di oggi è piuttosto utopico e generico. Non vuole l’allargamento della base americana a Vicenza e forse ha dalla sua buonissime ragioni per non volerlo, ma si è mescolato con un altro tipo di pacifismo che ha colto la base Usa più come un pretesto che come un vero obiettivo.

Si ispira piuttosto al vecchio slogan ideologico "yankees go home", americani fuor dalle balle. Possiamo organizzare cento cortei in altrettante città italiane, ma se quello fosse lo slogan credo che non raccoglierebbe più del 10 per cento dei consensi e forse molto meno.

Da questo punto di vista la manifestazione di ieri sarebbe stata assai più significativa se a farla fossero stati i soli vicentini. La trasferta pacifista ha in qualche modo manipolato Vicenza e messo in seconda fila il dissenso civico sulla questione della base. Certo, il governo dovrà rivedere alcune modalità urbanistiche e negoziarle. Ma non credo che andrà oltre questo.

Un’altra partita era quella tra sinistra radicale e riformisti. Giordano e Diliberto (tra l’altro in competizione tra loro per vedere chi meglio rappresenta la sinistra-doc) escono rafforzati dalla gita vicentina?

Con Giordano personalmente mi trovo d’accordo su molte cose. Apprezzo anche la funzione di filtro e di raccordo che quelle formazioni politiche esercitano nei vari movimenti contestativi ai quali cercano di fornire un "fumus" di rappresentanza parlamentare e addirittura governativa.

Ma onestamente debbo dire che nel corteo vicentino erano più ospiti che padroni di casa. Non c’era nessun padrone di casa in quella manifestazione. Neppure Epifani che pure aveva mobilitato una parte cospicua della sua organizzazione. Ma niente a che vedere con i Trentin e i Lama di piazza San Giovanni e i Cofferati del Circo Massimo e non parlo del numero delle presenze ma della compattezza degli animi e della chiarezza degli obiettivi.

Ieri si dimostrava contro la base americana ma anche contro la presenza militare italiana in Afghanistan. Il vecchio slogan "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei" ieri era inapplicabile. L’ex sindaco democristiano di Vicenza e attuale capogruppo regionale dell’Ulivo, Achille Variati, ha qualche cosa a che fare con Franca Rame e con i centri sociali più scalmanati? E Franca Rame ha a che fare con Di Pietro il cui partito l’ha fatta eleggere al Senato? O con i leghisti "celoduristi" che pure erano presenti nel corteo? Il segretario della Fiom si sentiva a suo agio con Epifani e il segretario della Cgil era in armonia con i Cobas che marciavano alla testa del corteo dei "duri"?

Troppe partite si sono intrecciate ieri a Vicenza, con la conseguenza che non ne è stata portata a termine quasi nessuna. Salvo quella del questore che si era impegnato a tutelare l’ordine pubblico in una situazione di particolare difficoltà e c’è pienamente riuscito.

Il questore di Vicenza, i millecinquecento uomini ai suoi ordini, i vigili urbani del Comune e, a Roma, il ministro dell’Interno hanno vinto la loro difficile partita insieme al servizio d’ordine della Cgil e alla compostezza delle decine di migliaia dei partecipanti.

Quanto a Prodi, ne esce paradossalmente rafforzato. Rifondazione che mobilita la sua gente pacifista e che tra una settimana voterà il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan è la prova che Prodi è inaffondabile, governa e non galleggia. Sembra un paradosso ma non lo è. Da Vicenza questo è tutto ed è parecchio.

* * *

Però la città del Palladio per chi ha la mia età richiama anche un altro genere di ricordi, di nuovo tornati di rilevante attualità. Parlo della grande provincia bianca, feudo negli anni Cinquanta-Settanta della Dc, delle diocesi più potenti, delle cooperative bianche, delle banche popolari, d’un predominio organizzativo e culturale saldissimo.

Di quella lunga fase di egemonia è rimasto assai poco a Vicenza e in tutto il Nordest, salvo un senso di separatezza che ha consentito un forte insediamento della Lega nel triangolo con Verona e Treviso.

Il Veneto rispetto a com’era fino a vent’anni fa si è secolarizzato più rapidamente di qualsiasi altra regione italiana. Se c’è una terra di missione dove l’episcopato dovrebbe cimentare le proprie capacità pastorali è proprio lì, nelle terre venete uscite ormai dalle "dande" di Santa Romana Chiesa alla scoperta del buon vivere, dei piccoli piaceri della provincia italiana e della sua vocazione internazionale.

Qui la Chiesa è ancora massicciamente presente con il suo radicato temporalismo economico ma le coscienze non sono più sotto la sua tutela e la Vandea bianca è scomparsa. Bossi è in declino, il berlusconismo è ancora vigile ma in perdita di velocità. I veneti sono "in ricerca", ma neppure loro sanno dire di che cosa.

Io capisco perché l’episcopato italiano è preoccupato. Lo si comprende bene guardando proprio il Nordest, il miracolo del Nordest con al centro l’impresa, il lavoro, il valore, i segni materiali della ricchezza.

La Chiesa teme che tra ricchezza e laicizzazione del vivere vi sia un rapporto diretto. Per questo pensa di dover aumentare la presa sulle istituzioni pubbliche: non riuscendo più a controllare l’evoluzione del costume, spera di supplire a questa lacuna controllando le leggi.

Quando la Chiesa inclina dalla pastoralità alla temporalità, questo è un segnale di debolezza. L’ala martiniana dell’episcopato italiano ha compreso questo segnale di debolezza e cerca di invertirne il corso che i ruiniani invece spingono avanti con irruenza.

Quando Rosy Bindi dice di amare una Chiesa che parli di Dio coglie il centro della questione. Non è infatti con le norme di leggi che si argina la crisi della famiglia che soffre soprattutto per il fatto d’essersi ridotta ad una coppia o al triangolo di cui il figlio unico rappresenta il punto di riferimento esclusivo.

In società composte da "single" o da famiglie cellulari, la religiosità boccheggia e l’intera Europa diventa per i preti terra di missione. La vera patria della cattolicità si è spostata verso il Sud del mondo, America Latina e Africa. In queste condizioni un Papa tedesco e per di più teologo è stato probabilmente un errore della Chiesa che sembra ormai arroccata in una battaglia di retroguardia guidata dalla parte temporalistica dell’episcopato e da una pattuglia di atei devoti che coltivano obiettivi esclusivamente politici.

Per un laico fa senso assistere ad una fenomenologia così scadente e rivolta all’indietro. Si vorrebbe che la Chiesa parlasse dei valori dello spirito e non fosse dominata da una sorta di ossessione sessuofobica che finisce col discriminare i più deboli: le coppie non abbienti, etero e omosessuali che siano. Le coppie benestanti non hanno bisogno della reversibilità della pensione o dell’assistenza sanitaria o degli alimenti e se ne infischiano dei divieti alla procreazione assistita se necessario vanno all’estero e pagano i medici di tasca propria. C’è un profumo di classismo all’inverso nell’opposizione della Cei ai Dico.

Ma la cosa più singolare l’ha detta appena ieri Benedetto XVI denunciando la pressione di potenti "lobbies" che vorrebbero ridurre al silenzio la voce della Chiesa. Incredibile. La Cei del cardinal Ruini si sta muovendo da anni come la più potente delle "lobbies" e il Papa protesta contro supposti gruppi di pressione che vorrebbero confiscarne il diritto ad esprimersi.

Chi sarebbero questi lobbisti? Oscar Luigi Scalfaro? Il vescovo Plotti? Il cardinal Silvestrini? Il cardinal Tettamanzi? Pietro Scoppola? I giornali di cultura laica?

Infine: si dice Oltretevere che le prescrizioni della Cei ai parlamentari sulle modalità della legislazione non costituiscono ingerenze e quindi non c’è ragione di chiamare in causa il Concordato.

Ebbene, quali sono dunque le ingerenze ipoteticamente definibili come tali? Può qualche cattolicante in servizio permanente effettivo darcene un esempio? Oppure dobbiamo pensare che qualunque cosa faccia e dica la Cei, non esiste mai ingerenza nei confronti dello Stato mentre ovviamente il reciproco non è vero?

Coraggio: a noi basta un solo esempio tanto per poter fissare un limite sia pur piccolo all’attivismo illimitato del Vaticano nei confronti di uno Stato definito sovrano purché si rassegni ad essere etero diretto dal Papa e dai vescovi da lui nominati.

Che cosa hanno in comune le coppie di fatto, l´Afghanistan e Vicenza?

La risposta di molti italiani e di molti lettori di questo giornale sarà, suppongo, la seguente: l´intervento ripetuto e pesante di due grandi potenze mondiali sulla vita interna italiana.

Proverò a dire che non è vero, che si tratta di una percezione rovesciata del fenomeno. Invece di vedere il nostro problema italiano, preferiamo immaginare che stiamo subendo tremende costrizioni, che stiamo piegandoci a obblighi imposti con la forza.

Proverò a dire che i potenti pesano solo se si rendono conto di poterlo fare con efficacia e senza importanti segni di vita autonoma della parte su cui viene scaricato il peso.

Esempio: sia la Chiesa che gli Stati Uniti non mettono in dubbio la cattolicità o la leale amicizia di Paesi come la Spagna e la Francia che se ne vanno per la loro strada, discussa e decisa dentro la vita politica di quei Paesi.

Non si tratta certo di Paesi isolati. Essi, infatti, sono strettamente integrati sia all´Occidente cattolico che all´alleanza atlantica, anzi in entrambi i casi sono orgogliosi protagonisti.

Non vorrei essere frainteso. Anche il governo Prodi intende essere protagonista orgoglioso (nonostante che un ministro della Difesa, temporaneamente disperso, parli di date sconnesse da qualunque strategia nella questione dell´Afghanistan, nonostante l´improvvisa illuminazione di fede del ministro della Giustizia).

Il problema - che è anche la spiegazione del disorientamento che ogni tanto sembra cogliere gli stessi membri del governo ma anche deputati e senatori - è il paesaggio morale e politico nel quale viviamo.

Lo descrivo così: primo, quel paesaggio è intatto, dal giorno in cui Berlusconi è stato costretto (lui dice: con l´inganno e temporaneamente) a lasciare la guida del Paese.

Secondo, quel paesaggio è un cumulo di macerie: un Paese a crescita zero, un´amministrazione disastrata, illegalità diffusa e onorata, provvedimenti che hanno scardinato principi fondamentali come «la legge è uguale per tutti», un´intimidazione dei giornalisti e dei media che dura ancora e che rende molti di essi assai più propensi ad annotare i problemi di Prodi e le minacce di crepe nella sua maggioranza che a scoprire il gioco dell´altra parte.

Per esempio: Berlusconi è capo di chi, parla a nome di cosa, e perché va in onda ogni giorno come uno Chavez di imminente ritorno al potere, benché qualunque conto dimostri che la sua Casa della Libertà non esiste più? Perché ogni giorno Casini e i suoi, ascoltati in silenzio compunto, danno lezioni di moralità politica e alto senso dello Stato pur avendo scrupolosamente votato ogni singola legge ad personam, ogni decreto voluto e imposto da una sola persona per suo diretto, palese e noto beneficio, fino al punto da creare scandalo internazionale?

Se il paesaggio non fosse colmo di detriti e macerie (ma anche di estese e singolari amnesie di gran parte dei commentatori politici) potrebbe un uomo dotato soprattutto di voce grave come l´ex ministro della Difesa Martino presentarsi regolarmente in televisione per annunciare che il governo Prodi ha distrutto anni di prestigio dell´Italia nel mondo, mentre è fresco di stampa il libro del diplomatico inglese Rory Stewart su ciò che è veramente accaduto ai soldati italiani a Nassiriya? Racconta l´ambasciatore inglese che i nostri soldati erano presi fra i due fuochi della guerra vera, che però veniva negata nonostante i soldati morissero, privi com'erano di protezione adeguata, e la guerra mediatica dei superiori frivoli e dei collegamenti Tv all´ora giusta e nel talk show preparato per fare spettacolo intorno a questo o quel generale.

Quello spettacolo, racconta l´ambasciatore Stewart dall´Iraq in cui si trovava, risplendeva solo in Italia. Sul posto «per gli italiani c´era rischio altissimo a inerzia totale», perché l´uomo dalla bella voce che adesso compare solenne in televisione a parlare di prestigio italiano infranto si era limitato a offrire le vite dei soldati italiani in cambio di italianissima bella figura. Era un dono ai comandi di altri Paesi, con altre strategie, altri governi, altri parlamenti a cui rendere conto.

Agli italiani resta questo libro («I rischi del Mestiere, vita di un diplomatico inglese in Iraq ai tempi della guerra». Ponte alle Grazie, euro 22) e le bandiere intorno alle salme.

Macerie sono non solo quelle della strage dei nostri soldati privi di difesa nell´attentato terroristico ormai famoso, ma anche la mancanza di qualunque luce sulla differenza fra ciò è stato raccontato e ciò che è veramente accaduto. Strane vicende come quella del cosiddetto "governatore" Barbara Contini, che è costata vite italiane per farsi vedere in un suo fortino dal quale non faceva e non poteva fare niente tranne che comparire in opportuni collegamenti in televisione, non si è mai detta una parola di spiegazione. Ma c´è chi, nello show, ha lasciato la vita.

E provate a chiamare mercenari i mercenari (la parola viene usata liberamente dai giornali americani per dire personale privato con funzioni paramilitari a pagamento) e subito siete investiti dall´onda di piena di non si sa quale patriottismo. Ma quel patriottismo non ha fatto una piega per la morte di Enzo Baldoni (anzi insulti e sarcasmo), ha chiamato «vispe terese» (cioè stupide e fuori posto, forse perché disarmate) due volontarie scampate a un rapimento. E quando Nicola Calipari è stato ucciso nel modo in cui è stato ucciso, mentre portava in salvo l´ostaggio italiano Giuliana Sgrena, quell´onda di patriottismo si è improvvisamente spenta. Non solo resta aperta la questione giudiziaria in cui qualunque Paese avrebbe preteso di essere ascoltato e di avere risposte proprio perché amico e alleato. Resta aperto, a carico di coloro che si esibiscono in rimpianti della gloria italiana perduta, un dovere di verità: perché, da chi Nicola Calipari è stato lasciato solo a cavarsela nella notte di Baghdad, senza alcun intervento dei famosi e stimati migliori amici dell´alleato americano? Chi si è distratto da quella amicizia, quando, perché? Qualcuno ha spiegato come mai non c´era l´ambasciatore italiano in piena rappresentanza e garanzia del governo amico? Forse Nicola Calipari, che si è gettato col suo corpo sull'ostaggio liberato Giuliana Sgrena e l´ha salvata con la sua vita, non ha fatto vedere «come muore un italiano»?

Ma se volete avere un´idea delle macerie che ingombrano e deformano il nostro paesaggio, confrontate la televisione di Stato in due eventi esemplari. Il primo è il telefilm dedicato alla famiglia Sereni, pionieri del sionismo italiano, ma anche della Resistenza, trasmesso la sera del 27 gennaio, Giorno della Memoria. In quel filmato non c´è traccia del fascismo, non c´è traccia di protagonisti fascisti delle persecuzioni. Gli eventi avvengono da soli, salvo la colorita intromissione di alcuni tedeschi cattivi. Sono personaggi estrosi e amanti della musica che, hanno un po´ guastato in una vicenda che tutto sommato, non era altro che la consueta tragedia della guerra.

Quando invece si tratta del 10 febbraio, giorno di ricordo della tragedia delle foibe, i protagonisti cattivi ci sono, eccome. Recita lo spot ufficiale ripetuto per giorni dalla Tv di Stato: «I massacratori sono stati i partigiani comunisti».

Il problema non è l´improvvisa comparsa in Tv dei comunisti, a cui il berlusconismo ha dato una nuova vitalità che ci viene invidiata nel mondo (nel senso che in nessun altro luogo si può affidare tutto alla manipolazione dei media). Il problema è la scomparsa dei fascisti dal video. Essi però, nella vera vita militano, gagliardetti al vento, anche nella manifestazione romana del 2 dicembre scorso. Militano orgogliosi e intatti, come ai tempi della «difesa della razza» nelle file del cosiddetto "partito dei liberali italiani" di Silvio Berlusconi. E noi zitti.

La sera di sabato 10 febbraio i Gr, i Tg e - con particolare solennità - Radio Parlamento della Rai hanno trasmesso il discorso di Bossi che annuncia la riapertura del parlamento padano. Come se fosse normale, legale, costituzionale. Tema del discorso: «Siamo schiavi dell´ingordigia di Roma che deruba la nostra agricoltura a vantaggio di altre agricolture e vogliamo la libertà dalla oppressione di Roma».

Inevitabile rendersi conto che, al di là da questa barriera di macerie che ricorda l´immortale sequenza del film «Germania anno zero» di Rossellini, è possibile buttare oggetti di tutti i tipi contro la legge finanziaria del governo Prodi, persuadere ogni gruppo a una propria rivolta in base a informazioni false distribuite a cura di chi non vuole farsi notare come nemico del padrone di tutti i media. Oppure discusse come se fossero vere. Spiega le concitate genuflessioni che colgono a mezza strada coloro che non sono mai stati particolarmente religiosi ma non vogliono essere trovati, in questa confusione, senza "santi in paradiso", la famosa condizione essenziale per sopravvivere, così cara all´immaginario italiano quando il Paese ritorna indietro. Il Paese non sta tornando indietro, per fortuna. Ma i nemici di Prodi ce la mettono tutta, anche perché più che mai diventerebbe chiaro, a un Paese correttamente informato, che niente è più vecchio, antico, protezionista, illiberale, codino e reazionario (in modo addirittura farsesco e teatrale) di tutto ciò che rappresenta Berlusconi, così splendidamente descritto dalla moglie Veronica (ma solo dalla moglie Veronica, perché solo lei ha i mezzi per farlo).

Ma tutto ciò che ho detto finora spiega anche le ombre confuse che si addensano a sinistra su ogni tentativo di discutere finalmente con dignità la nostra politica estera.

Le macerie impediscono di vedere e anche di «apprezzare» - nel profondo senso negativo del termine - il disastro che Romano Prodi e l´Unione hanno trovato quando sono giunti al governo. Una delle grandi bravure di Berlusconi, il suo vero successo, è stato quello di farsi sottovalutare e anzi di ottenere continuamente una sorta di onore delle armi da sinistra. Non è stato notato che Berlusconi è autore di due geniali trovate. Per gli amici dell´America lancia il ricatto: chi non sta con me è antiamericano. Per quella che lui chiama la «sinistra radicale» la strategia è diversa. Va in giro a dire (fino al punto di persuadere qualcuno di essi): «Io vi rispetto perché voi sì che siete dei veri comunisti».

Il paradosso è questo. Berlusconi ha inventato le maschere dei suoi avversari. Per esempio le maschere dei comunisti duri e puri che non cedono di fronte ad alcun pericolo del suo ritorno, perché il suo ritorno vale ogni altro ritorno di ogni altro avversario politico di fronte a cui il comunista duro e puro non cede.

Indossando quelle maschere, non si vede il potere immenso di Berlusconi e il fatto che se ritornasse al potere farebbe diventare il peronismo - che era nato povero ed era costretto a rubare - un gioco da bambini. Indossando quelle maschere preparate e dipinte con la faccia feroce dell´antiamericanismo e del comunismo duro e puro da Berlusconi in persona, c´è chi pensa di fare la cosa giusta, e di conquistarsi il suo pezzo di voto in un bel corteo o in una drammatica dichiarazione di fine governo. Di certo lo conquista. Ma solo quello, piccolo e per sempre.

In altre parole, l´uomo che ci ha preparato le maschere da indossare in caso di improvviso invito a un talk show o al corteo di una dimostrazione, e ci ha lasciato un paesaggio ingombro di macerie in modo che non si intraveda neppure ciò che un´Italia diversa sta cercando di fare, ha tolto dignità al Paese. Non possiamo aspettarci che siano altri a ridarci la dignità. Tocca a noi. Ma è impossibile riuscirci se stiamo al loro gioco.

Ecco un appello: rifiutiamoci di indossare le maschere che lui ci ha preparato per Porta a Porta. Ma anche per i cortei. Primo dovere: restituire prontamente le maschere che si fossero inavvertitamente indossate. Mai stare al loro gioco.

L’EDITORIALE di Avvenire di martedì scorso ha il tono di una "nota diplomatica", contenente un memorandum e un ultimatum, il tono cioè di atti di natura ufficiale, nei rapporti tra Stato e Stato e, come tale, deve essere valutato parola per parola, tanto più in quanto la diplomazia vaticana è di solito maestra di cautela e sottigliezze.

L’oggetto è la legge prossima ventura (?) sui diritti e i doveri delle coppie di fatto, una legge che, secondo il quotidiano dei vescovi italiani, realizzerebbe, «sia pure in forma insolita e indiretta, un modello alternativo e spurio di famiglia» che indebolirebbe e mortificherebbe l’istituto coniugale e familiare «nella sua unità irripetibile», un effetto «sgradevole» (!) che sarebbe dimostrato «in modo incontrovertibile» dall’esperienza di altri Paesi. Ciò andrebbe contro il favor per la famiglia fondata sul matrimonio, riconosciuto dalla Costituzione repubblicana, e contro una tradizione culturale e giuridica bimillenaria. Fin qui la critica, discutibile e discussa come tutte le opinioni, ma certo perfettamente legittima. A questo memorandum, segue l’ ultimatum.

«Per questi motivi – si legge - se il testo che in queste ore circola come indiscrezione fosse sostanzialmente confermato, noi per lealtà dobbiamo fin d’ora dire il nostro non possumus. Che non è in alcun modo un gesto di arroganza, piuttosto è consapevolezza di ciò che dobbiamo - per servizio di amore – al nostro Paese» e «indicazione franca e disarmata di uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana».

Lasciamo da parte la retorica: ci mancherebbe altro che si rivendicasse il diritto a un gesto d’arroganza o a un atto di disprezzo verso "il nostro Paese". Vediamo invece le tre espressioni-chiave, quelle sopra indicate in corsivo.

Nella sua storia, la Chiesa ha pronunciato diversi non possumus, nei confronti delle pretese delle autorità politiche. Il che è del tutto naturale (anzi, forse ne ha pronunciati non pochi di meno di quanti ci si sarebbe potuto attendere in nome del Vangelo).

Si incomincia con Pietro e Paolo (Atti 4, 20) che, diffidati dal Sinedrio di non parlare né insegnare in nome di Gesù, risposero: « Non possumus non parlare di ciò che vedemmo e udimmo». Si dice poi che nel nonpossumus si siano trincerati Clemente VII, il papa che negò il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona; Pio IX che si oppose al ritorno a casa di un bimbo ebreo, nel famoso e crudele "caso Mortara"; ancora Pio IX che rifiutò di partecipare alla coalizione anti-austriaca al tempo del Risorgimento e non accolse l’ipotesi di un’occupazione pacifica di Roma da parte dei piemontesi; il cardinale Antonelli, che escluse il riconoscimento papale di Roma capitale d’Italia. Tutto questo è chiaro e riguarda comportamenti, comunque li si voglia valutare storicamente, che rientrano nei loro compiti e nelle responsabilità degli uomini di Chiesa. Ma che cos’è che "non possono" i vescovi italiani, nella circostanza odierna? La risposta la danno loro stessi. Non si tratta solo del diritto al dissenso circa una legge dello Stato, diritto che nessuno contesta. Si tratta di una cosa molto diversa: non possono non prospettare uno spartiacque, che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana.

Bisogna meditare su questa affermazione. Non è una "indicazione" che riguarda i rapporti tra la Chiesa e lo Stato italiano. Se così fosse, si tratterebbe di una questione, per così dire, di politica estera, tra due soggetti sovrani, che pur si riconoscono come tali. Si sarebbe potuto discutere se ciò costituisse una corretta concezione degli "ambiti" rispettivi che l’art. 7 della Costituzione riconosce a ciascuno di loro («Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ambito…»). Poiché, in materia concordataria, manca per definizione, un terzo super partes, in caso di conflitto ognuno dei due soggetti finisce per essere arbitro dell’ampiezza della propria sfera d’azione. La discussione, su questo punto, sarebbe senza costrutto. Ma qui la "indicazione" dei vescovi è del tutto diversa: la Chiesa, attraverso un suo organo ufficiale – non un gruppo di cittadini o deputati cattolici, nella loro autonomia, ciò che farebbe una differenza essenziale - parla del futuro della politica italiana, parla cioè della vita interna dello Stato e delle «inevitabili conseguenze» su di essa. Così, viene, altrettanto inevitabilmente, messo in discussione l’altro caposaldo dell’art. 7, quel riconoscimento di reciproca «indipendenza e sovranità» dello Stato e della Chiesa, da cui discende l’esclusione di ogni ingerenza interna reciproca, esclusione che è conditio sine qua non del regime concordatario. Direi che mai, come in questo caso, nella storia recente, i basamenti del concordato hanno traballato. Non ci si è resi conto dell’implicazione? Se si vuole il concordato, occorre rispettare e difendere le condizioni materiali che lo rendono possibile.

Spesso, per comprendere i caratteri di una situazione, non c’è nulla di meglio che provare a rovesciarne i termini. Allora, che cosa si direbbe se fosse lo Stato che, per assurdo, dicesse: se la Chiesa non assume un tale o un talaltro atteggiamento, ciò rappresenterà uno spartiacque e peserà sul futuro (non dei rapporti reciproci, ma addirittura) dei rapporti interni alla Chiesa, tra le sue diverse componenti, facendo eventualmente intravedere interventi per favorire o contrastare questa o quella posizione che fedeli o sacerdoti potessero prendere, a seconda del gradimento riscosso.

Si dirà: ma qui l’ Avvenire si limita a una semplice, innocente "indicazione" preventiva. Già, ma viene data per lealtà. Che significa questa apparentemente innocua aggiunta? Non altro, mi pare, che un avvertimento: non ci si venga poi a lamentare che non ve l’avevamo detto; state in guardia per quel potrà accadere. La lealtà dell’annuncio significa preannuncio di conseguenze perturbatrici del quadro parlamentare, in definitiva della libertà di esercizio del mandato parlamentare e della libera dialettica democratica. Ci sono questioni sulle quali anche da parte dello Stato democratico dovrebbero essere detti dei non possumus. Ci sono principi irrinunciabili di laicità e democraticità delle istituzioni che sono non negoziabili. Ci sono casi su cui sarebbe bene che i soggetti che le rappresentano facessero sentire una voce rassicurante per tutti, pacata e ferma. Questo è uno di quelli. Con ogni garbo, naturalmente, e con tutta la diplomazia necessaria, ma questo è uno di quelli.

Ieri abbiamo appreso di una reazione di eletti dal popolo, ascrivibili alla schiera dei cattolici democratici, di cattolici adulti che, senza disconoscere la loro appartenenza alla Chiesa e il loro attaccamento ai principi spirituali cristiani, ristabiliscono le distinzioni, rivendicano la loro autonomia nell’esercizio delle loro funzioni costituzionali e respingono richiami all’ordine fin nel dettaglio di scelte legislative, in definitiva lesivi delle responsabilità dei cristiani nelle cose temporali. Finalmente. Anche per loro, la partita in corso è decisiva ed è precisamente quella che riguarda la difesa della loro dignità di soggetti, non di oggetti, come si dice, in re: quella dignità che il Concilio Vaticano II ha riconosciuto loro.

Si è detto che, nella vicenda in corso, la Chiesa italiana, attraverso la Conferenza episcopale, gioca il tutto per tutto, in una partita dall’esito incerto. Noi non sappiamo se la presa di posizione dell’Avvenire sarà eventualmente seguita da atti conseguenti. Può essere sì o no. Gli esperti di cose vaticane sono concordi nel riconoscere agli uomini della Cei capacità tattiche, se non strategiche. Può darsi che la prudenza induca a ripensamenti, a lasciare che le cose si stemperino nel tempo. Ma che triste delusione, per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare, il vedere la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d’una partita, tentata di usare la discordia politica tra i cittadini e i suoi rappresentanti, come se fosse arma lecita delle sue battaglie.

Vacilla da tutte le parti il bipolarismo che dopo il 1989 era eretto a principio base di tutte le assemblee elettive, a imitazione del sistema anglosassone. Nell'Europa, politicamente più complessa, esso non funziona. Francesi, italiani, tedeschi ben poco conoscono l'uno dell'altro - sa sul serio soltanto chi ha poteri di decisione, la Commissione della Ue, la Banca centrale, l'Ecofin, il coordinamento delle polizie - ma le popolazoni sono investite dagli stessi processi che stanno mandando in fibrillazione i rispettivi scenari istituzionali.

Comune è il ridisegnarsi di un centro che tende a tagliare le ali delle coalizioni che riflettono settori importanti ma politicamente minoritari della società. Questo è il vero oggetto della pericolosa navigazione del centrosinistra di Romano Prodi, in queste settimane sui pacs e sulla politica estera, con il rifinanziamento della missione in Afganistan e il raddoppio o allargamento della base americana a Vicenza. E ancora più difficile sarà, nelle prossime settimane, il tavolo delle pensioni.

La prima negazione del bipolarismo è venuta da tempo dalla Germania con la Grosse Koalition fra Spd e Cdu, che pure avevano già tagliato le famose ali estreme, ed è tornata in sella alle ultime elezioni: in questo caso il bipolarismo funziona soltanto come misura dei rapporti di forza, in un sistema di governo condiviso a dominanza moderata, cioè centrista.

In Italia, la maggioranza di centrosinistra è strattonata nello stesso senso, e non soltanto dall'ala ultrà della Margherita e da Mastella, che gradirebbero liberarsi delle cosiddette sinistre radicali, cioè Rifondazione, Pdc, forse i Verdi e sostitirli con i voti della Udc e qualche transfuga di Forza Italia.

Non è solo una tentazione parlamentare, indotta dalla esilità dei numeri specie al Senato: è l'auspicio della maggior parte dei media antiberlusconiani, basti leggere gli editoriali di Eugenio Scalfari, personalmente non sospetto di volere maggioranze variabili, ma insofferente di quel che chiama «massimalismo» delle sinistre.

In Francia, il classico duello fatale e finale fra due idee del paese che prenderebbe corpo nelle elezioni presidenziali del prossimo aprile, è incarnato dal repentino emergere nella coalizione governativa uscente di una specie di Follini-Rutelli d'oltralpe, Francois Bayrou, che minaccia i due candidati rispettivamente della Ump, Nicolas Sarkozy e del Partito socialista, Segolène Royal. Non che il candidato centrista sembri poter vincere, ma certo morde sull'uno e sull'altra, che finora dominavano incontrastati la scena. Nel sistema di voto francese, al primo turno possono presentarsi tutti coloro che hanno cinquecento firme di già eletti, mentre nel secondo vanno in ballottaggio soltanto i primi due. In concreto, il 21 aprile saranno in campo per l'uscente centrodestra Jean Marie Le Pen (un cocktail di Almirante e Bossi), Nicolas Sarkozy, attuale ministro degli Interni e ultraliberista, e il rampante Francois Bayrou, mentre l'attuale opposizione presenta ben sei nomi, per i socialisti Segolène Royal, già ministra del governo Jospin e presidente d'una grande regione, Marie George Buffet segretaria del Pcf, Arlette Laguiller, inossidabile leader di Lutte Ouvrière, Dominique Voynet per i Verdi e, se ottengono come sembra le cinquecento firme di sponsors, Olivier Besancenot, segretario della Ligue Communiste Revolutionnaire e José Bové per l'ecologismo senza partito. Fino a tre settimane fa, l'animatore d'una fortunata rubrica ecologica in tv rischiava di prendere un posto trasversale analogo a quello che si propone Bayrou.

Il fascino che, almeno nei sondaggi, hanno i personaggi terzi viene certamente dal fatto che sembrano rompere un gioco prefissato fra ruoli. Ma è apparenza, perché essi non possono che collocarsi sul baricentro delle forze in campo, e variano con il loro variare. Oggi come oggi è un'opzione centrista. Nel 2007 non molto resta delle categorie che strutturavano destra e sinistra fino al 1990; in Francia, differentemente che da noi, resta viva l'opzione antifascista, e se per delusione o dispetto arrivasse ancora una volta al secondo turno Jean Marie Le Pen, tutti i voti si riverserebbero sul suo rivale, chiunque fosse, come nel 2002 si rovesciarono su Jacques Chirac, inclusi giovani e immigrati delle banlieues con le bandiere al vento. E' come se il senso comune, al di là delle Alpi, avesse ereditato dalla seconda metà del Novecento l'intollerabilità per il razzismo e l'antisemismo, cosa che da noi non è avvenuta quando Berlusconi ha sdoganato i fascisti. Mentre è sempre più confusa sulla scena della rappresentanza politica la contraddizione sociale. Dal 1945 agli anni '70 è parso - e sarebbe questione da rivedere senza schematismi - che l'antifascismo contenesse in sé una valenza progressista: fascismo e nazismo erano arrivati a gettare nei campi di sterminio ebrei, zingari e bolscevichi dopo aver devastato tutte le organizzazioni politiche, sindacali e operaie. Ma oggi, malgrado i suoi connotati imperativi, il liberismo sembra aver perduto le stigmate di un autoritarismo affine, o almeno preparatorio, d'una possibile precipitazione fascista. Esso dilaga fin nelle sinistre storiche.

E' avvenuto insomma il processo inverso da quando la percezione di una profonda contraddizione fra le classi era penetrata nella cultura democratica niente affatto marxista, ma liberale. Così le costituzioni postbelliche sono sotto attacco e il trattato costituzionale europeo ne ignorava o annacquava in formule vuote ogni ricordo. Non a caso i lavoratori francesi e olandesi hanno votato no.

E' inoppugnabile che questo oscuramento vada inserito nel quadro della globalizzazione, ma è altrettanto inoppugnabile che il dominio capitalistico che la induce non ha nulla di oggettivo e separato dallo scontro di interessi e di idee di società. Ora è questa presunta oggettività che è stata introiettata dalle sinistre storiche, abbattendo anche i residui delle socialdemocrazie, per cui il nostro centrosinistra, l'opposizione francese e in Germania quella della Cdu, mentre contano sulle sinistre «radicali» per battere il centrodestra, tendono a liberarsene subito dopo.

Da che altro è travagliata la coalizione di Prodi? Prodi si è illuso di governarne le contraddizioni con la ragionevolezza e, vocabolo preferito, l'equità. Così ha tenuto sulla finanziaria, così sulla pioggia di liberalizzazioni avanzata da Bersani, che non colpivano direttamente se non nicchie corporative, e ha finora rimandato il tema pensioni nonostante gli strepiti della Commissione o le beneducate ma precise ingiunzioni del governatore Draghi.

Ma esse si squaderneranno presto. Per primo si è presentato lo scontro sulla politica estera. Il governo ha tenuto fede al ritiro dall'Iraq, ma per il resto privilegia ancora la linea di un Bush in declino, invece della nuova maggioranza democratica che regge il Congresso e perfino il Senato, e accenna a una inversione di rotta in Medio oriente. L'Italia, non dovrebbe guardare a questa come a un futuro già iniziato? Sembra invece che il nostro governo abbia l'occhio fisso su una amministrazione non solo disastrosa ma sconfitta, che regge ancora soltanto sulle regole d'un estremismo presidenziale.

Così se nel caso dell'Iraq, il centrosinistra si è tirato fuori, facilitato dall'essere stata quella una guerra decisa unilateralmente, non è riuscito a districarsi dall'Afganistan (che peraltro nel programma dell'Unione non era stato neppure considerato) e dove il conflitto si fa sempre più incandescente.

Se su questo punto si troverà una mediazione (la famosa «discontinuità») questa non basta a fare una politica estera. Se in Iraq e in Afghanistan la priorità italiana è salvare le vite italiane, e su questo non ci piove, è assai poco per sostenere che abbiamo una posizione forte sulla tragedia che, nel nostro piccolo, abbiamo contribuito a creare.

Il punto centrale per quel settore del mondo e per il mondo, noi inclusi, è il ritiro degli Stati Uniti, per una ragione diversa e cogente: mentre la nostra presenza è stata e resta probabilmente più grave per noi che per gli afghani o iracheni, quella americana costituisce il detonatore che ha messo a fuoco in Medio oriente e moltiplicato il fondamentalismo fino a sconvolgimenti impensabili prima dell'11 settembre e in crescita esponenziali. Gli Stati Uniti si sono fatti simbolo stesso del nemico, ne hanno dato tutti i motivi, e finché vi resteranno non ci sarà pace possibile e si aggroviglieranno anche i conflitti interni. Che gli Usa se ne vadano è una priorità mondiale, e per l'Europa questione di vita o di morte.

Non è un disimpegno semplice, tanto più in quanto manca un disegno pacifico alternativo, che non consista solo in beneficienze ma in iniziative politiche - prima di tutto sulla questione Israele e Palestina, già atrocemente guasta. Di fronte alla vastità del problema, che senso ha che il governo si limiti a sganciarsi, e con difficoltà, dall'intervento armato? Non sottovaluto le mosse di Massimo d'Alema, non a caso l'Italia è bersaglio degli ambasciatori (pochini) che hanno scritto la derisoria, oltre che irrituale, lettera di rimprovero al nostro governo. Siamo seri, dopo il ritiro non si sono proposte che genericità davanti a un focolaio che la guerra americana ha alimentato come un fiammifero sulla paglia e che non basterà neppure il ritiro americano a spegnere. E' una rovina umana, politica, culturale di dimensioni crescenti.

Di più, chi ne riconosce le dimensioni? Neppure la sinistra radicale, se si limita al ritiro del nostro contingente, come finora ha fatto. E' vero che non può essere solo l'Italia, dovrebbe essere l'Europa. Ma l'Italia sta premendo sull'Europa? Neanche siamo a un decente lavoro di analisi: perché in un paese come l'Afganistan, che non era affatto dei più arretrati, i talebani hanno vinto? Perché sono di nuovo in ripresa? Perché l'Iraq ha paurosamente oscillato da Saddam Hussein agli sciiti, e da questi al più brutale conflitto interetnico e interreligioso? Che è avvenuto dei palestinesi che si uccidono nella striscia di Gaza? Una deriva mortale è andata avanti. E non ci vuol molto a vedere che in essa hanno giovato, tutte le proporziooni fatte, anche due opposte debolezze delle sinistre europee, vecchie e nuove: la linea della ingerenza umanitaria e quella di un elogio indifferenziato delle differenze a prescindere dal quadro che solo le può garantire, un sistema politico condiviso di coesistenza. La nostra resta una paralisi politico-intellettuale.

Inutile scomodare i grandi problemi per il caso di Vicenza. Su nessun ragionevole argomento poggia la scelta di raddoppiare o allargare una base americana destinata a operazioni logistiche Usa verso il Medio Oriente (che altro se no?). L'attuale governo non è tenuto a onorare le scelte contingenti del governo precedente. Che perdipiù vanno contro al rinsavire dell'opinione americana espressa nelle ultime elezioni.

La fragilità di Prodi su questo punto è così evidente che paiono fin eccessive le preoccupazioni della protesta vicentina di non avere con sé il «governo amico». Non sono autonomi i movimenti, non sono nati per sospingere e non per essere sospinti? Che la manifestazione del 17 febbraio sarà grande è cosa certa. Sarà un problema per il comune di Vicenza, che non pare dotato di grandi lumi, e forse per la maggioranza, ma se la sbrighi la maggioranza.

Sulla quale mi permetto due parole. Nessuno ha obbligato nessuno a candidarsi in una coalizione che si sapeva in partenza divisa su diversi fronti cruciali: non si fa politica soltanto da un'aula parlamentare. E questo va detto alle coscienze inquiete. Ma nessuno obbligava Romano Prodi ad accompagnarsi a coscienze che sapeva inquiete e motivate da culture così differenti: non si mette assieme uno schieramento così articolato senza pagare un prezzo.

Non è corretto che, dentro e fuori la maggioranza, si suggerisca al Presidente del consiglio di passar oltre le esitazioni niente affatto impreviste né superficiali di molti, tanto non avrebbero altra via d'uscita che assumersi la responsabilità di far cadere il governo, riaprendo la strada a un governo di destra. E non è corretto che una minoranza, pur seriamente motivata, risponda: non sei autosufficiente, ti faccio cadere oggi o preparo la tua caduta domani se prendi i voti da un'altra parte. Una coalizione del genere impone a tutti e in egual misura di andare a una mediazione, che a volte consiste semplicemente nell'ascoltare l'altro. Sulla questione di Vicenza, Prodi ascolti quel che non è un fatto personale di un gruppetto di parlamentari. Un governo forte deve saper anche tornare indietro.

Non lo farà? Il problema simmetrico si porrà allora alle sinistre radicali. Io non conto niente, ma non ho mai accusato Rifondazione di aver fatto cadere il governo Prodi la prima volta, quando questi ha rifiutato di procedere su una, chiaramente promessa, «fase due». E' il non esserci andati che ha prodotto la successiva sconfitta del centrosinistra, non la scelta di Bertinotti.

Non sono sicura che se fossi oggi in una delle due camere mi comporterei allo stesso modo. Ma non è un caso che, quando in passato mi è stato proposto di entrarvi, non ho accettato

Brutte giornate nel Parlamento, e dintorni. E allora bisogna guardare più a fondo, e più lontano, nel considerare il modo in cui oggi si discute e si decide su questioni essenziali e drammatiche dell´esistenza di ciascuno di noi – come morire e come organizzare le relazioni affettive, come procreare e come dare il cognome ai figli e come riconoscere pienezza di diritti a quelli nati fuori dal matrimonio. Sono in campo in prima persona, ed è un fatto inedito nella storia repubblicana, tutte le grandi istituzioni: Presidente della Repubblica, Governo, Parlamento, Corte costituzionale, magistratura. E la Chiesa cattolica, sempre più presente. E una opinione pubblica sempre più sondata e sempre meno informata. Vale la pena di seguire le mosse di alcuni di questi protagonisti.

Dice il Cardinal Ruini: è «norma di saggezza non pretendere che tutto possa essere previsto e regolato per legge». Dice il Presidente della Corte di Cassazione: «Appare urgente e indispensabile un intervento del legislatore che affronti e chiarisca i gravi problemi che sempre più frequentemente si presentano al giurista e al medico». Chi ha ragione?

Nessuno dei due. Intendiamoci: nelle materie che interessano la vita è sempre necessario un uso sobrio e prudente della legge e i giudici devono avere forti principi di riferimento per le loro decisioni. Ma la sobrietà, o addirittura l´assenza, dell´intervento legislativo significa cose radicalmente diverse a seconda che manifesti rispetto della libertà individuale o, al contrario, intenzione di mantenere vincoli costrittivi, volontà di girare la testa dall´altra parte di fronte alle dinamiche sociali ed alle difficoltà dell´esistenza. Il legislatore auspicato da Ruini non avrebbe dovuto votare la legge sul divorzio, quella sull´interruzione di gravidanza e neppure quella pericolosa riforma del diritto di famiglia del 1975, a lungo avversata da ambienti cattolici perché abbandonava il modello gerarchico e riconosceva i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio (e anche allora si impugnava una interpretazione gretta della nozione di famiglia). Oggi siamo di fronte ad una situazione analoga. Affrontando con poche norme le questioni delle unioni di fatto e del diritto di morire con dignità, il legislatore non invade indebitamente la sfera delle decisioni private. Rimuove ostacoli ormai irragionevoli, sviluppa logiche già ben visibili nel nostro sistema costituzionale, non impone nulla a nessuno e mette ciascuno nella condizione di esercitare responsabilmente la propria libertà.

Perché, a questo punto, non si può dar ragione neppure al Presidente della Cassazione? Perché nelle sue parole si scorge anche un ritrarsi da responsabilità che sono proprie della magistratura, un riflesso dell´atteggiamento gravemente rinunciatario che si è manifestato nelle decisioni riguardanti Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Due casi che i giudici avrebbero potuto risolvere seguendo in particolare la linea tracciata dagli articoli della Costituzione sulla libertà personale e sul diritto alla salute (e che era stata indicata con precisione da un parere della Procura di Roma).

Sembra quasi che i giudici, messi di fronte a temi assai impegnativi e che dividono la società, abbiano scelto di chiamarsi fuori, di lasciare che sia solo la politica ad affrontare e risolvere questioni che pure li investono direttamente. Questo accade perché, provati da un lungo braccio di ferro con una politica che voleva mortificarne indipendenza ed autonomia, hanno deciso di prendersi una rivincita e di lasciarla sola e nuda, indicandola come unica responsabile delle difficoltà presenti? Ma questa sarebbe davvero una ingiustificata reazione corporativa e il segno di una regressione culturale che impedisce loro di cogliere quale sia oggi il compito istituzionale della magistratura, senza che possa essere accusata di indebite invasioni di campo, di esercitare una illegittima supplenza.

Commentando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell´uomo, si è proprio messo in evidenza che ormai spetta sempre a questi giudici "risolvere le più gravi e difficili questioni di diritto civile poste dal cambiamento dei costumi, dalla scienza e dalla tecnica". Questo non è l´effetto di distrazioni o ritardi del legislatore, ma del fatto che la vita propone ormai una molteplicità di situazioni sempre nuove e sempre variabili, che nessuna legge può cogliere e disciplinare nella loro singolarità, in un inseguimento continuo e impossibile. Ad essa, invece, spetta il compito di fissare i principi di base, che l´intervento del giudice adatterà poi ai casi concreti.

Questo quadro di principi è, e non può che essere, quello della Costituzione italiana, integrato da indicazioni che vengono da documenti internazionali, in primo luogo dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Ed è proprio su questo punto che si sta svolgendo il conflitto. Si leggono interpretazioni di norme costituzionali contrastanti con la loro stessa lettera o comunque incompatibili con il sistema complessivo di cui fanno parte. Ma sempre più spesso si va oltre, e si parla e si scrive come se la Costituzione non esistesse. Si fa riferimento a valori, rispettabilissimi, ma che non trovano alcun riscontro nel testo costituzionale, o addirittura contrastano con esso. Da tempo sottolineo che è in atto un tentativo, strisciante ma visibilissimo, di sostituire al quadro dei valori costituzionali un quadro del tutto diverso, portando così a compimento una impropria e inammissibile revisione costituzionale.

Qui è il limite dei dialoghi possibili intorno ai temi in discussione. I principi costituzionali non possono essere revocati in dubbio contrapponendo ad essi altri valori "non negoziabili", che nella religione cattolica troverebbero un fondamento così forte da imporli ad ogni altro. Gustavo Zagrebelsky ha più volte messo in evidenza come ciò apra un conflitto insanabile con la stessa democrazia. E, nella concretezza della vicenda italiana, ciò pone il problema della linea che stanno seguendo le gerarchie ecclesiastiche. Un problema che non si affronta e non si risolve ripetendo, come peraltro è ovvio, che la Chiesa deve poter esercitare pienamente il suo magistero spirituale.

Da anni sappiamo che la Chiesa, venuta meno la mediazione svolta dalla Dc, agisce ormai in presa diretta sulla politica italiana. Lo si ripete in questi giorni. Ma questo vuol dire che essa si comporta come un soggetto politico tra gli altri, sia pure con il peso grandissimo della sua storia, e che come tale deve essere considerata. Entrando direttamente nella politica, la Chiesa "relativizza" sé e i suoi valori, non può pretendere trattamenti privilegiati, che è pretesa autoritaria, incompatibile appunto con la democrazia.

Nella debolezza della situazione politica italiana, nelle sue fragilità e convenienze, la pressione della Chiesa si sta manifestando con una intensità sconosciuta quando, in Francia o in Belgio o in Germania o in Spagna o in Olanda, sono state affrontate, e in modo assai più radicale, analoghe questioni intorno alla vita. La debole Italia più agevole terreno di conquista? Una politica che porta a ritenere inammissibile nel "cortile di casa" quel che è tollerato quando Roma è più lontana?

Inquieta, a questo punto, la quasi totale assenza di un mondo cattolico che conosciamo portatore di un´altra cultura che, ad esempio, si fa sentire con chiarezza nelle questioni riguardanti la pace. Una dura ortodossia avvolge i temi "eticamente sensibili". Nessuno è autorizzato ad avviare una discussione aperta, dunque l´unica via per un vero dialogo, fosse anche il cardinal Martini. La dura reprimenda che gli è stata rivolta, con un´accusa neppure velata di "deviazionismo", aveva evidentemente anche l´obiettivo di impedire che si aprisse una falla, di intimidire chi avesse voluto seguirne l´esempio. Anche nel silenzio di quei cattolici, come nelle aggressività di altri e nel disorientamento di troppa sinistra, scorgiamo la conferma di una debolezza politica e culturale che non autorizza troppe speranze.

La moglie del leader del centrodestra scrive una lettera al maggior quotidiano di centrosinistra per chieder conto al marito di qualche battuta di troppo pronunciata ad una cena dei Telegatti. Dopo ventisette anni di matrimonio, improvvisamente, Veronica Lario scopre che il modello culturale rappresentato dal coniuge è nutrito di dosi massicce di maschilismo, offensivo per lei, per i figli. E pretende pubbliche scuse alzando la bandiera femminista dell'intreccio politico tra rapporti privati e comportamenti pubblici, tra sesso e politica.

C'è qualcosa che non quadra, ma di sicuro non si tratta di gossip da bar sport. Per le modalità dell'esternazione, l'atto clamoroso dell'ex first lady ha una valenza politica. A qual fine si vedrà.

Troppe tette e culi sono passati sotto i baffi del Telegattomammone per alzare ora il sopracciglio dell'orgoglio ferito. La politica vola rasoterra da molti anni, appesantita dalla zavorra culturale del berlusconismo. Una filosofia di vita (arricchitevi) alimentata quotidianamente, e negli anni, dall'abbuffata televisiva di una classe dirigente perennemente in fila per sedersi sulle poltroncine di Porta a Porta. Il dibattito sulle tasse accompagnato dalla chitarra del maestro Apicella, la polemica sulle coppie di fatto impreziosita dalle tette di Aida Yespica, onorevoli rappresentanti del popolo che vanno a prendere le torte in faccia al Bagaglino, secondo l'antica lezione andreottiana di sempre: è lo specchio di un'Italia affratellata dal celodurismo sbruffone che ha nutrito generazioni di governanti e governati senza soluzione di continuità dai tempi del regime democristiano.

Il grande comunicatore ha ipnotizzato l'opposizione diventando paradigma del consenso. Gli apprendisti stregoni si sono moltiplicati, Rai e Mediaset sono diventate indistinguibili, un unico palinsesto ha soffocato il paese. Quando, nel '96, vinse l'Ulivo di Romano Prodi, la speranza di un cambiamento svanì in un profluvio di carrambate, omologhe al pensiero unico di un bipolarismo posticcio, fatto apposta per mascherare un sistema unico di valori e cultura (tele-vaticano, tele-famiglia, tele-patria, tele-guerra).

In questi giorni si è acceso il dibattito sulla legge di riforma del duopolio televisivo, con le sorprendenti opinioni del presidente Catricalà verso i timidi tentativi del governo di porre un tetto al monopolio pubblicitario di Mediaset. Come se il feudalesimo made in Italy, recentemente scoperto dalle indagini sociologiche, non fosse diretta conseguenza di uno strapotere economico che ha plasmato il sistema mediatico, profittando del nanismo della carta stampata, intasando le vie di una libera informazione di massa.

Le scuse di Silvio a Veronica sono arrivate in poche ore a stretto giro di posta («scusami, te ne prego»). Il modello del reality si è riprodotto nei telegiornali della sera. Ma per le scuse al paese si prevedono tempi più lunghi.

Cissè, Mohammad, Azar, Abdou, Bathie, Babacar, Sammadi, Sikdar, Sow, Melick... sessanta uomini pigiati in 120 metri quadri. Materassi in terra, pavimento nudo, latrina accanto alla cucina, fili elettrici che pendono a mazzi dal soffitto e che piovono dalle scatole vuote degli interruttori. Un luogo nascosto e nemmeno tanto segreto di una strada romana del Pigneto, ex quartiere popolare che sta diventando di moda: case ridipinte, stucchi ritoccati, colori pastello e botteghe trendy. Qui il prezzo delle case ha ormai superato i 4.000 euro al metro quadro, ma per chi abita al numero 97 è tutta un´altra storia: si paga per passare una notte all´asciutto, sia pure stesi in terra; si paga 100-150 euro a testa per riposare con un cuscino sotto il capo. E se non c´è il cuscino c´è un rotolo di stracci in due metri di cemento preziosi, da sfruttare a turno. Uno si alza per andare a vendere accendini e un altro si riposa.

È il cosiddetto "posto testa", una vergogna diffusa in tutti i ghetti urbani della capitale e non solo. E loro sono i "migranti", i senza casa e senza diritti. Senegalesi, bengalesi, nigeriani, pachistani che a migliaia si nascondono nelle pieghe della città. Disposti a spendere anche un quarto della loro paga non per avere una stanza o un letto, ma il diritto di dormire. Anche semplicemente in terra.

«Che dobbiamo fare? Dove possiamo andare?», dicono.

Il vero pericolo per questi disperati è trovarsi senza un tetto, per quanto pericolante e infiltrato dall´acqua, e senza nemmeno quello spicchio di cemento detto "posto testa" dove poter chiudere gli occhi (e rompersi le ossa) quando fuori è freddo.

È per questo che Bilal, del Bangladesh, non ha problemi a raccontare che dalle parti di Porta Maggiore dorme assieme ad altri 6 connazionali ogni notte in un buco di stanza. Un solo letto su cui giacciono a turno. Ma guai a fartelo vedere: «Se qualcuno lo dice al padrone, quello ci scaccia». E la stessa cosa ci dice Baku, anche lui del Bangladesh, raccontando di come per un anno intero ha pagato per ottenere un "posto testa" a Centocelle: «Mi stendevo davanti alla porta di un bagno e tutti quelli che dovevano andarci mi dovevano scavalcare». La conferma arriva anche da Azar, un albanese che assieme ad altri 7 dalle parti di via Turati si divide 15 metri quadri di pavimento e un solo letto a turno per 600 euro al mese. E lì accendono bombolette e fornelli, stufe e lampadine appese a fili di fortuna, fissati alla meglio con un chiodo alle pareti. Ogni giorno e ogni notte a rischio della vita. Stessa sorte di Joseph, indiano, senza permesso di soggiorno, che paga 150 euro al mese per un letto apribile: «Siamo in 5 in una stanza - dice - In genere chi arriva prima si mette sul divano e chi arriva dopo si sistema in terra. A me non pesa molto, l´unica cosa è che al risveglio ho un po´ di mal di schiena. Ma ora abbiamo deciso di fare i turni».

Non è stato facile arrivare a uno di questi luoghi di miseria e sopravvivenza, protetti dalla diffidenza dei loro abitanti.

Ma alla fine eccolo l´inferno, dietro un portoncino anonimo come tanti altri. Entriamo. È buio pesto, i fasci di fili scoperti non portano a nessuna lampadina. E dentro senegalesi, che sopravvivono con la vendita dei cd pirata. Un posto-testa? Un metro quadrato a pagamento per sdraiarsi in terra e dormire al riparo della pioggia? No, qui è peggio. «A volte in tutta la palazzina siamo anche novanta, e allora si dorme dovunque, sulle scale, sui balconi e se serve anche nel bagno». Eppure il padrone di casa li chiama appartamenti.

Ecco un´altra casa: tre passi da una parte e poi cinque dall´altra. Quindici metri quadrati, forse meno. Con dentro una cucina alimentata a bombola e qualche tramezzo di cartongesso per chiudere una minuscola latrina coperta da muffe. Nello spazio che resta ci vive Elisabeth, peruviana di 38 anni, con marito e due figli, più uno in arrivo. «Sono incinta di 5 mesi, almeno credo». Affitto 550 euro, più le spese. E non è neanche l´alloggio peggiore.

Basta arrivare al piano di sopra, dopo essersi arrampicati per una scala buia con le pareti sporche e unte di grasso. Sul pianerottolo un secchio d´immondizia. Dentro un pezzo di terzo mondo per come lo raccontano i documentari: odore di chiuso e umidità, mucchi di gommapiume putride, stracci, cuscini ammassati in terra, borsoni pieni di cd. Sikdar, senegalese, spiega che questo marciume risponde a una ferrea logica economica. Se uno possiede un palazzo cariato dal degrado, lo affitta al nero spezzettandolo in loculi infami a qualche centinaia d´immigrati che non hanno la minima possibilità di protestare o di trattare il prezzo; e così ricava proprio da loro, i più disperati, i soldi che gli serviranno per ristrutturare la casa e metterla infine linda e pinta sul mercato immobiliare. Infatti tutti gli sfruttati, una volta spremuti, poi ricevono l´avviso dello sfratto. I poveri sono un grande affare, due volte.

Sono le 14. Dall´"appartamento" di Melick un refolo di odore di zenzero e cumino taglia quello delle muffe e del sudore. In terra c´è la tovaglia: dei giornali vecchi stesi con accuratezza. La fiamma del gas lampeggia a cinque palmi da una valigia piena di stracci. Dalla latrina si spande minacciosa una perdita d´acqua che già bordeggia un materasso. Finestre non ci sono. E se scoppia un incendio? Risposta: «Qualcuno muore, come è successo con i due bengalesi a piazza Vittorio. Che dobbiamo fare?». Quanto pagate per questo buco? «Seicento euro». Ci vivono in cinque. I giacigli di fortuna sono talmente vicini che per mettersi in piedi, vestirsi e imboccare la porta d´uscita tocca fare a turno. «Ma ora siamo pochi. D´estate è peggio, anche se ci si può sdraiare sul terrazzo». E le donne? «Non ce le portiamo qui le nostre donne, fa troppo schifo». Nel palazzo ci sono altri otto vani come questo, di 10-15 metri ciascuno, "servizi" compresi. E per ognuno nelle tasche del proprietario vanno dai 400 ai 600 euro.

Il fotografo inquadra feci di topo grandi come noccioli di oliva e pezzi di gomma piuma arrotolati, pronti ad essere usati per la notte. Eppure Mohammad, Abdou e Sharani ringraziano il cielo di vivere comunque sotto un tetto «perché il rischio è di perdere anche questo». Così come a Porta Maggiore il bengalese Abdil trema all´idea di perdere una striscia di pavimento per cui paga 200 euro al mese con altri cinque. «Perché dovremmo denunciare i proprietari? - dice in piazza Vittorio uno dei capi della comunità del Bangladesh - . Forse per avere un´altra presa in giro? Chi ha denunciato fino a oggi ha avuto un solo risultato: s´è ritrovato in strada. Senza neanche un posto-cuscino».

Dice Carl Gustav Jung che la gente «non può sopportare troppa realtà»: preferisce pensare ad altro, chiudere le finestre, rinviare il momento in cui guarderà quel che ha davanti e deciderà il da farsi. Il cambiamento del clima che stiamo vivendo è una di queste realtà, ormai ben visibile e proprio per questo insopportabile. È difficile guardare la catastrofe che s'avvicina, perché noi stessi l'abbiamo in parte creata e stiamo accelerandola: con i nostri comportamenti di consumatori, con la nostra abitudine al petrolio a buon prezzo e all'acqua sprecata come fosse inesauribile, con le nostre politiche incuranti, asservite a lobby e compagnie petrolifere. Le scienze economiche aiutano poco a fronteggiare il male, prigioniere come sono - da decenni - di ideologie liberiste senza più costrutto: l'invisibile mano del mercato non produce correzioni del clima, e l'individualismo che s'accompagna a tale ideologia perpetua le illusioni della belle époque petrolifera che ci ha viziati e accecati, con la benzina poco cara e l'atmosfera che intanto si riempiva di biossido di carbonio. Perfino la preferenza assoluta che si tende oggi ad accordare al cittadino-consumatore, rispetto al cittadino-produttore, potrebbe rivelarsi intelligente ma fatale: se stesse nel consumatore, nessun prezzo aumenterebbe e di certo non quello di petrolio o gas. Questo nel momento in cui proprio il contrario si impone: che i prezzi restino alti, in modo da favorire la ricerca - subito - di energie alternative (vento, solare, anche nucleare). E che la tassa sull'emissione di anidride carbonica, già adottata in gran parte d'Europa, diventi una necessità anche agli occhi degli Stati Uniti, prima potenza mondiale non per saggezza ma per i danni che sta arrecando al pianeta.

Venerdì prossimo, 2 febbraio, ne sapremo ancora di più: l'Ipcc, un organismo delle Nazioni Unite nato nell'88 per studiare il cambiamento climatico, pubblicherà un nuovo rapporto. L’Observer annuncia fin d'ora che il linguaggio sarà improntato al massimo allarme, e la conclusione inequivocabile. Non ci saranno più dubbi sulle responsabilità dell'uomo nel riscaldamento planetario, e sul nostro destino qualora si continuasse come se nulla fosse. Il collasso delle attuali condizioni di vita, dunque della nostra civiltà, è già oggi anticipabile da quel che vediamo, viviamo: i ghiacciai tendono a sciogliersi - al Polo Nord, al Polo Sud, in Groenlandia - e, come è già avvenuto nella storia terrestre, il livello del mare di conseguenza si alza. Intere regioni e città minacciano d'essere sommerse (New York, Florida, Olanda - solo in Cina, Bangladesh e India i rifugiati sarebbero 520 milioni). È un riscaldamento dovuto anche alla radiazione solare, sostengono alcuni scienziati, ma l'emissione di anidride carbonica (CO2) contribuisce grandemente a dilatarlo e ad accelerarne i tempi. Ogni volta che si consuma petrolio o gas naturale o carbone si sprigiona questa letale sostanza e ci si avvicina al punto critico, di non ritorno. Anche il metano è sostanza che surriscalda, ed è destinato a esser liberato nell'atmosfera con lo sciogliersi del permafrost in varie regioni e soprattutto in Siberia, dove il ghiaccio sta diluendosi per la prima volta da quando si formò, undicimila anni fa alla fine dell'ultima glaciazione. Grande quanto Germania e Francia, il permafrost siberiano contiene 70 miliardi di tonnellate di metano, un quarto del metano nascosto in terra. Il metano sprigiona un gas serra venti volte più potente del biossido di carbonio. Dice uno dei massimi esperti, James Hansen: «Abbiamo tempo fino al 2015 prima di arrivare al punto di non ritorno, oltre il quale la Terra diverrà un altro pianeta e la situazione sarà fuori controllo». Al calore potrebbe paradossalmente far seguito una serie di glaciazioni: se si fermerà la corrente del Golfo, a seguito dello sciogliersi dei ghiacciai, l'Europa tornerà alla sua temperatura «naturale», non più temperata come l'attuale. L'allarme nasce da una straordinaria accelerazione del mutamento, e della sua visibilità. La canicola in Francia del 2003 (15 mila morti), l'estate surriscaldata del 2005, l'uragano Katrina che quasi sommerse New Orleans, il recente uragano in Europa, gli ultimi dati sullo scioglimento dei ghiacciai: siamo entrati nella Lunga Emergenza, come annuncia in un libro James H. Kunstler (The Long Emergency, New York 2005). L'allarme viene anche da Al Gore, il candidato alla Casa Bianca vinto da Bush nel 2000. Il suo libro e il suo film s'intitolano Una scomoda verità (Rizzoli 2006) e in America libro e film hanno un successo enorme. Al Gore mostra senza eufemismi un collasso ineluttabile se non contrastato. Anch'egli sostiene che abbiamo pochissimi anni, meno di dieci. Nel 2005 Hansen disse: «Abbiamo dieci anni non per decidere, ma per ridurre fondamentalmente le emissioni di gas serra».

In altre parole è necessario il ritorno della politica, e precisamente, come ripetono gli scienziati più avvertiti, della capacità di egemonia e di leadership dei governanti. Una capacità venuta tragicamente meno, soprattutto nel paese che pretende di governare il mondo: gli Stati Uniti. Rifiutando di aderire al trattato di Kyoto, l'America di Bush ha non solo intralciato gli sforzi delle altre nazioni ma si è anche sbarazzata dell'obbligo, previsto dal protocollo di Kyoto, di assistere i nuovi consumatori d'energia - Cina e India - che dovranno ridurre le loro crescenti emissioni di gas serra. L'indifferenza dell'America è totale, e l'ultima presa di coscienza di Bush è flebile e retorica. Più ancora che nella fallimentare lotta al terrore, l'America è lungi dal comportarsi - nella Lunga Emergenza climatica - come la superpotenza che pretende essere. Non guida più nulla, e l'Unione europea ha una ben più decisiva capacità di leadership, grazie alla sua adesione al protocollo di Kyoto. La parte dell'America nell'emissione di biossido di carbonio è impressionante: circa il 30 per cento, molto più di altri paesi fortemente inquinanti come Cina e Russia (meno di 8 per cento ciascuno). Un Presidente davvero egemone mondialmente non ha paura, come ha paura Bush, di urtare lobby e petrolieri usando parole scomode come global warming, riscaldamento globale. Leadership vuol dire rimettersi a far politica, sfatando tanti luoghi comuni accumulatisi negli animi di governi, classi dirigenti, giornalisti. E vuol dire parlar chiaro, non mentendo. Non è vero che il consumatore ha sempre ragione. È vero che il prezzo dell'energia (come dell'acqua) deve riflettere il costo del suo consumo smisurato. E il costo è ormai chiaro: il riscaldamento climatico, le guerre che si scateneranno - già son cominciate - per il controllo delle risorse. Il costo del riscaldamento globale, scrive l'economista Nicholas Stern nel rapporto preparato per il governo inglese il 30 ottobre, supera quello di due guerre mondiali e della Grande Depressione degli anni Trenta.

Cambia il pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. L'impoliticità degli stessi ecologisti è spesso disastrosa, perché individualmente si può far poco per mutare le cose e l'impegno nella prassi di governo è più che mai urgente: l'individualismo è figlio del petrolio facile, e la tassa sul carbonio difficilmente passerà se non l'impongono i governi. La politica deve ritornare al centro, deve sapersi imporre agli industriali e al consumatore. Nell'era del petrolio che si sta esaurendo e che resterà caro conterà sempre più l'«agire in comunità», spiega Hansen, e sempre meno la buona coscienza dell'individuo isolato (o dell'isolato Stato nazione). Un altro luogo comune è l'idea secondo cui i grandi cambiamenti si ottengono solo con l'accordo bipartisan di tutti, e con interminabili dibattiti d'opinione. Non sempre è vero: il politico coraggioso deve poter affrontare anche l'odio avversario, se ritiene che l'alternativa sia necessaria. Lo spiega bene Paul Krugman sul New York Times del 26 gennaio, ricordando come nacque il New Deal di Roosevelt. Anche Al Gore fu considerato un pazzo, quando mise il clima al centro della sua battaglia. Il suo libro rivela che un consenso vasto esiste tra riviste scientifiche, ma non tra giornali e tv. Questi ultimi, dipendenti come sono dalla pubblicità e dunque da gruppi d'interesse, non mancano mai di presentare la questione climatica come molto più controversa di quanto essa sia in realtà. Ma soprattutto si tratta di ricominciare a pensare nei tempi lunghi, e non nell'orizzonte inane di settimane e mesi. Probabilmente, per i politici e per noi giornalisti, è questa la difficoltà maggiore. Non saremo noi infatti a pagare per l'indifferenza di oggi, ma chi ancora non può agire: i figli e nipoti. La scelta immorale che stiamo facendo è stata ben spiegata, un centinaio di anni fa, dal filosofo William James: «La caratteristica più significativa della civiltà moderna è il sacrificio del futuro sull'altare del presente, e tutto il potere della scienza è stato prostituito per raggiungere questo obiettivo».

Una questione urbanistica, direbbe qualcuno. Ma soprattutto un grande affare. Per gli italiani, o almeno per alcuni. Forse anche per gli americani, se verrà smentito quello che, di fronte alla polemica politica montante, due giorni orsono si è affannato a spiegare il portavoce (italiano) della base (americana) di Sigonella, Alberto Lunetta: «Non c'è, in generale, alcun piano per la costruzione di nuove unità abitative militari a Sigonella, e quindi neppure a Lentini». Quel che pare vero è che, «in generale», non ci sia alcun accordo formalizzato per spostare da Mineo a Lentini settemila militari con i loro familiari. Quel che è invece sicuro è che il consiglio comunale della cittadina del siracusano ha approvato, in maniera assolutamente bipartisan e senza alcun voto contrario, una variante al Piano regolatore che prevede la trasformazione di due aree da «agricole» a «edificabili» per consentire la realizzazione di un «complesso insediativo chiuso ad uso collettivo destinato alla esclusiva residenza temporanea dei militari americani della base Sigonella Us Navy».

Come a Vicenza, l'urbanistica prevale sulla politica forse perché alla politica è superfluo chiedere un'approvazione che si dà per scontata. Come a Vicenza, il progetto compiuto arriva prima degli accordi formali. Ma questa volta siamo in Sicilia.

E' il 16 ottobre quando arriva il via libera definitivo, ma per capire meglio la portata del grande affare bisogna fare un passo indietro e spiegare come in meno di un anno e con due amministrazioni contrapposte la lottizzazione abbia potuto procedere spedita come in tempi di governi forti e maggioranze compatte. E soprattutto tenere d'occhio i protagonisti. Che portano i nomi di un'impresa vicentina, la Maltauro, che potrebbe entrare anche nell'appalto per la costruzione della nuova base Usa in Veneto. E di Mario Ciancio Sanfilippo, monopolista dell'informazione catanese, editore-direttore del quotidiano La Sicilia nonché delle due principali tv locali ed ex vicepresidente della Federazione degli editori. Un potente che qui si mostra in un'altra veste, quella di ricco proprietario terriero e imprenditore.

Ma partiamo dal progetto, diviso in due lotti. Il primo prevede «n.1000 villette a schiera unifamiliari a piano terra e primo piano, con annesso verde privato e parcheggi», nonché scuole, strade, negozi, centri sportivi e quant'altro serve per la nascita di un'ordinata cittadella di cinquemila abitanti distribuita su 145 mila mq. Con l'unica particolarità di essere blindata e presidiata all'accesso da alcune guardiole «per il presidio di controllo e sicurezza». Laddove oggi c'è un cancello e la scritta «cavaliere Sanfilippo». Idem per il secondo lotto, solo un po' più piccolo: 50 mila mq per 1.800 abitanti. L'importo previsto per i lavori è di 300 milioni di euro. La durata fissata in 36 mesi. Previsto l'impiego di una quarantina tra tecnici e geometri e di svariate centinaia di operai suddivisi in quattro o cinque ditte subappaltatrici.

Chi ci andrà ad abitare lo spiega il sindaco Alfio Mangiameli, della Margherita: si tratta del trasferimento degli alloggi occupati a Mineo, dovuto al fatto che «Lentini è più vicina alla base di Sigonella». Dunque, un mero spostamento logistico che «porterà solo vantaggi per le casse comunali: basti pensare che dall'Ici arriveranno oltre 500 mila euro ogni anno».

Nulla, insomma, che giustifichi la procedura d'«urgenza» con cui il comune ha affrontato la pratica. Evidentemente non la pensava così, lo scorso febbraio, l'allora sindaco Sebastiano «Nello» Neri, ex deputato di An trasmigrato nelle fila del Mpa di Lombardo e ripescato alla camera nelle elezioni di aprile. Accade infatti che l'entusiasta primo cittadino, «appresa l'importante rilevanza sociale» del progetto, disponga che «il provvedimento venga istruito con urgenza». Detto fatto, nel giro di poco lo prendono alla lettera, nell'ordine, il Genio civile, l'Asl, la Soprintendenza e la Commissione consiliare urbanistica. Tutti pareri favorevoli e senza alcun dubbio, nonostante l'area si trovi in una zona doppiamente vincolata, per il paesaggio e per i ritrovamenti archeologici. L'unico a fare qualche osservazione dissenziente è il locale Centro studi territoriale Ddisa. Che però non ha alcun potere di fermare nulla. I Verdi si oppongono ma non hanno consiglieri comunali, Rifondazione anche ma ne ha uno solo e per giunta si astiene insieme a due diessini. E così il 18 aprile 2006 viene approvata in prima convocazione, nessuna discussione e stragrande maggioranza la variante al Piano regolatore. In cambio la società Scirumi srl, proprietaria dei terreni, si dichiara «disponibile» alla realizzazione di alcune opere per il paese, come una strada per il lago di Lentini e il completamento di opere di urbanizzazione per un quartiere. E' quello che a molti appare come un compenso per un sì così veloce, visto che analoghe lottizzazioni erano già state tentate nel '99 e nel 2002, con giunte di centrosinistra, ed erano entrambe naufragate.

Ma non tutto va per il verso giusto. Il Centro studi, con i Verdi e un giornale on line, Girodivite, montano una campagna contro l'arrivo degli americani. L'opposizione finalmente si oppone, la delibera viene bloccata e tutto è rinviato al dopo-elezioni. Vince il centrosinistra ma servirà a poco, perché a ottobre il voto si ripete, è di nuovo bipartisan e il progetto viene riapprovato. A guadagnarci è ancora una volta la Scirumi.

E qui arriviamo all'ultimo punto dell'affare. Forse il più importante. Chi c'è dietro la società che gestirà l'intera partita? Il principale azionista è la Maltauro spa di Vicenza. Una società gradita agli americani per aver già lavorato al progetto Aviano 2000. Poi c'è la Cappellina srl, che appartiene in parti uguali a familiari di Mario Ciancio Sanfilippo. Che a sua volta è proprietario degli agrumeti su cui sorgerà il lotto A. E così dalle arance agli hamburger il passo è più breve del previsto.

Da oggi siamo più liberi? Il pacchetto Bersani, presentato al consiglio dei ministri di ieri, presume che sia proprio così, ma la questione è aperta. La materia si può dividere in tre parti.

Vi sono in primo luogo i piccoli affari. L'idea base è quella di difendere il contraente più debole, ma in un libero mercato. Contraente più debole significa il cliente della banca, l'assicurato, il mutuatario: insomma chi sottoscrive un contratto con molti articoli obbligatori e con i caratteri scritti in piccolo. Il mercato si allarga e la concorrenza si rafforza - ne è convinto il ministro - se ognuno può fare il mediatore, il rappresentante, l'agente immobiliare. Sarà forse il festival dell'improvvisazione, ma alla fine le cose si aggiusteranno; sarà il mercato, ancora lui, a selezionare gli agenti capaci dagli altri; saranno sufficienti pochi mesi di errori e di truffe per eliminare gli incapaci e promuovere gli altri. Sempre in linea con il libero mercato, sarà possibile aprire esercizi accanto a esercizi simili: un primo tentativo era già stato svolto dall'antitrust in tema di cinematografi, ma senza arrivare ai risultati sperati.

Poi vi sono i grandi affari, che toccano i veri interessi economici. Tra piccoli e grandi, a fare da spartiacque, l'impresa-fatta-in-un-giorno, tanto in fretta da confondere il radicale Capezzone che si sarebbe accontentato di una settimana. I grandi affari sono connessi alla distribuzione dell'energia: i supermercati venderanno benzina e gasolio; le stazioni di servizio, in compenso, venderanno di tutto. Inoltre la rete del gas, ora controllata dall'Eni tramite la consociata Snam, verrà liberalizzata, nel senso che per poterla utilizzare gli altri fornitori di gas non dovranno chiedere il permesso all'Eni. Una parte rilevante della politica industriale e finanziaria del paese si gioca su questo punto. Gazprom, in riva al fiume, attende che passi lo sconfitto. Anche gli industriali dei rigassificatori attendono, con trepidazione, la rete del gas. La liberalizzazione, in fondo, li riguarda più di tutti gli altri. Le alleanze, gli scontri, le pacificazioni nel mercato energetico sembrano prescindere dall'esigenza primaria di risparmiare energia, di progettare energie alternative, di vivere con emissioni di gas serra ridotte e tendenti allo zero.

E poi c'è una terza parte. La piccola tassa per la ricarica del telefonino è abolita, almeno nelle intenzioni, e questo fa piacere a quasi tutti. Il lunedì del barbiere è un'usanza molto antica, che consentiva di tenere aperta la bottega alla domenica, dando modo ai maggiorenti del villaggio di stare insieme e commentare (gli uomini non spettegolano, commentano). Nessuno riterrà che sia una questione decisiva.

Decisiva a nostro parere è invece la liberalizzazione della vendita dei giornali. Lo spostare dalle edicole ad altri luoghi, indeterminati ma di certo numerosi, la vendita della carta stampata è una scelta che moltiplicherà, in teoria, i punti vendita. In passato si è fatto un esperimento, con la vendita di quotidiani nelle stazioni di servizio e nei supermercati. E' provato che non si è venduta una copia in più. Se i grandi proprietari dell'editoria volevano aumentare le copie, il risultato è stato mancato in pieno. Ma forse volevano «razionalizzare il mercato» cioè far fuori i piccoli e mettere in riga le edicole. I giornalai hanno tentato di difendersi e hanno usufruito del successo straordinario dei collaterali. Con essi le edicole hanno aumentato le vendite complessive, i quotidiani sono rimasti stabili e sono aumentate le disgrazie dei minori.

Ora le edicole otterranno di vendere ogni merce, non solo collaterali. Il risultato sarà di escludere dallo spazio di vendita tutto il superfluo. I piccoli giornali, per esempio. Così, liberalizzando liberalizzando, si ucciderà anche la libertà di stampa.

I mille volti del social forum

Cinzia Gubbini

Con una marcia contro gli Epa, un'altra degli antiabortisti e l'occupazione dell'imbarazzante punto ristoro del forum, di proprietà della famiglia del ministro della Sicurezza John Michuki, si avvia alla conclusione il settimo forum sociale mondiale. Tra luci e ombre. Da un lato, si è trattato di un'occasione importante per i movimenti africani che dopo il forum policentrico dello scorso anno a Bamako, in Mali, hanno avuto l'occasione di rafforzare le loro campagne. In particolare quelle per l'acqua pubblica e contro gli Epa, gli accordi di partenariato economico con l'Europa, che in un'altra sede avrebbero certamente avuto meno visibilità di quanta ne abbiano avuta qui. A loro sono stati infatti dedicati numerosi stand, almeno una decina di seminari e un corteo che ieri ha attraversato le vie del centro per dire no a quello che viene definito «un cappio al collo dell'Africa».

Viceversa, l'appuntamento di Nairobi ha evidenziato l'incompatibilità della presenza di soggetti e organizzazioni molto diverse tra loro. Il che è ovviamente una caratteristica dei forum sociali, della loro cifra da «università popolare» in cui chiunque può organizzare il suo seminario, e più in generale del movimento dei movimenti che abbiamo conosciuto da Seattle in poi. Ma questa volta la distanza è parsa abissale, probabilmente anche per la la preponderante presenza delle chiese, cattoliche o evangeliche. Solo per fare un esempio, ieri all'interno del forum un gruppetto di persone ha marciato innalzando cartelloni di feti abortiti. E sull'ultimo numero del Korogocho Mirror, il giornale stampato da una ong che opera nella baraccopoli di Nairobi, si può leggere un editoriale in cui ci si rammarica per l'aumento di aborti nello slum. Antiabortisti ma anche radicali su questioni come il debito, l'acqua pubblica e il diritto alla casa, i cattolici. Suore, preti e frati hanno assunto infatti le posizioni più radicali e meno di mediazione con i governi. E se l'influenza delle chiese nei luoghi più poveri e marginalizzati dall'Africa ha lasciato perplessi molti degli attivisti arrivati a questo social forum, va anche detto che i ragazzi di Korogocho «organizzati» dai cattolici hanno dato una lezione a tutti.

Tra gli aspetti più positivi, invece, il ruolo delle donne, che hanno dominato il forum, organizzando decine di iniziative ma anche cercando di mettere in piedi reti transnazionali. I seminari sui diritti delle donne, nei quali l'autodeterminazione è sempre stata un elemento centrale, sono stati in assoluto quelli con la maggiore partecipazione intercontinentale.

Quello che non è andato giù a molti è invece il costo eccessivo dei cibi, dei trasporti e di registrazione, nonché la commercializzazione del forum. Lo si era visto già nei giorni scorsi, ma ieri la contestazione ha raggiunto il suo picco quando i ragazzi degli slum hanno preso di mira il punto di ristoro Windsor, così chiamato perché in epoca coloniale era una catena di ristoranti britannici e ora è di proprietà della famiglia del contestato ministro della Sicurezza. Gli attivisti all'ora di pranzo hanno prima inviato un gruppo di bambini a sedersi alla spicciolata ai tavoli. Poi hanno inscenato un corteo di protesta urlando «free food», «cibo gratis». La polizia, colta di sorpresa, non ha potuto fare niente, mentre l'altro ieri era riuscita a scongiurare un altro tentativo di occupazione. Alla fine, dopo una lunga trattativa, i giovani hanno ottenuto la distribuzione gratuita dei pasti.

Ma quella di ieri è stata soprattutto la giornata in cui si è tentato di dare un senso a questo settimo forum sociale. Per la prima volta si sono svolte assemblee sui temi principali (dall'acqua agli Epa, dall'educazione alla guerra, dalla sovranità alimentare al debito, fino alle migrazioni) finalizzate non solo alla discussione ma a proporre iniziative concrete per il prossimo anno. Nel pomeriggio i risultati sono stati presentati all'assemblea generale, che però si è trasformata in un gran calderone in cui chiunque voleva lanciava le iniziative che aveva in mente: la mobilitazione per la cancellazione del debito a ottobre, una manifestazione contro gli sfratti in Zimbabwe, l'annuncio del prossimo controvertice a Rostock, in Germania, contro il G8, dal 2 all'8 giugno. Non è mancato nemmeno un messaggio di solidarietà con i cittadini di Vicenza che manifesteranno a febbraio contro l'allargamento della base statunitense a Vicenza. La curiosità è che a lanciarlo sia stato un ragazzo spagnolo e nessuno degli italiani. Su tutte, grande eco ha avuto la campagna contro la privatizzazione dell'acqua.

Proprio questo argomento ieri pomeriggio ha creato qualche momento di tensione tra gli italiani. Una lite arrivata dopo molti giorni di malumori dovuti alla presenza considerata troppo «ingombrante» della Tavola della pace e che si è riversata poi su alcuni aspetti dell'organizzazione: ad esempio il fatto che la delegazione ha avuto come punto di riferimento l'hotel Hilton, che si trova al centro della città (anche se chi ci vive giura che il lusso non è di casa). Ieri, durante la presentazione della prossima marcia Perugia-Assisi, che si svolgerà il prossimo 7 ottobre, Alex Zanotelli ha chiesto a Flavio Lotti «coerenza», chiedendo di escludere i gonfaloni dei comuni impegnati in progetti di privatizzazione dell'acqua. Il coordinatore della Tavola ha replicato che non sta a lui giudicare «chi marcia vicino a me». Ne è scaturita una contestazione, animata da attivisti di Ya Basta e della Rete del nuovo municipio, contro la mancanza di dialogo e di trasparenza sulle decisioni e anche sulle parole d'ordine lanciate dalla Tavola, «contro la povertà e per il sostegno all'allargamento della presenza civile nelle missioni militari». C'è infatti chi avrebbe gradito una posizione molto più netta contro la guerra. Non è stato così nemmeno sulla Somalia. L'unica parola d'ordine in comune è «stop bombing», cioè fermare i bombardamenti, senza alcuna critica al ruolo dell'Etiopia e degli Usa.

Il forum contestato è un segnale politico

Raffaele K. Salinari *

Potrebbe sembrare un episodio marginale del Forum, ma l'invasione dei bambini di strada che ieri hanno letteralmente espugnato il costosissimo ristorante dello stadio è certamente un segnale politico-simbolico che mette e nudo tutte le contraddizioni di questo Wsf. Da giorni infatti cresceva il malcontento verso i prezzi troppo alti di ogni genere alimentare, come verso l'impossibilità da parte degli abitanti delle baraccopoli di accedere al Forum; basta pensare che la quota di ingresso corrisponde a circa un mese di affitto per una baracca. Nei giorni scorsi, lentamente, gruppi di bambini erano arrivati alla spicciolata, quasi in avanscoperta, per poi tentare questa azione di massa, che ha voluto segnalare un disagio tanto più motivato in quanto il ristorante espugnato è di proprietà del fratello del ministro degli Interni.

Dopo l'attacco e la conseguente distribuzione di cibo per tutti a prezzi politici, restano però gli interrogativi di fondo che il Consiglio internazionale dovrà affrontare nei prossimi mesi. Primo fra tutti il come coinvolgere realmente i gruppi di base nella preparazione dei Forum, ma anche per tentare di rispondere all'interrogativo se è ancora questa la formula più adatta allo scopo. Restano poi aperte altre importanti questioni, come quelle legate al finanziamento di una manifestazione che si rivela sempre più costosa e che in questa occasione ha accumulato un debito di un milione di dollari. Naturalmente il problema è politico e pone una ipoteca gravissima sui prossimi Forum. Chi ha i fondi infatti, nel caso di Nairobi anche imprese private come quella di telefonia mobile che lo sponsorizza quest'anno, rischia di condizionare il processo decisionale e di impoverire la partecipazione popolare. Si aprirebbe così una divaricazione tra le cosiddette organizzazioni «grass roots» e quelle che possono permettersi di partecipare alle riunioni itineranti del Consiglio internazionale.

Questi dunque i temi di un dibattito che è già cominciato e che dovrebbe vedere un amplissimo coinvolgimento dei movimenti sociali, a partire dalle realtà nazionali, almeno per cercare una piattaforma comune che sappia portare a sintesi la necessaria libertà di espressione tra le varie anime del movimento altermondialista e la altrettanto impellente necessità di stabilire impegni comuni per tutti. Ancora una volta, come hanno fatto i bambini di Nairobi, dovremo partire alla conquista del palazzo d'inverno.

* Presisente sez. italiana Terre des hommes

Pillole di Wsf

Da Nairobi ad Assisi

In marcia con la Tavola

La diciassettesima marcia per la pace Perugia-Assisi partirà idealmente dall'Africa. E' infatti stata presentato ieri il percorso che porterà, il prossimo 7 ottobre, centinaia di migliaia di pacifisti a sfilare per 24 km tra le due cittadine umbre. «Il tema di quest'anno sarà "All human rights for all"», ha spiegato il coordinatore della Tavola della pace Flavio Lotti, «e ci muoveremo in questo senso a partire da oggi perché cercheremo di facilitare la partecipazione alla marcia di tante persone delle baraccopoli di questa città, che inviteremo in Italia». Al centro della mobilitazione ci saranno i problemi, ha detto ancora Lotti, «per i quali siamo oggi a

Nairobi insieme alla società civile africana e internazionale: lotta alla povertà, pace in Medio Oriente, Obiettivi di sviluppo del Millennio, comunicazione e informazione di pace».

Migranti senza frontiere

E' nata una Rete globale per i diritti dei migranti. L'iniziativa è giunta a conclusione dell'assemblea dei migranti organizzata oggi dall'Arci al Forum sociale mondiale. L'obiettivo, ambizioso, è giungere a una Convenzione sui diritti umani alle frontiere.

Per questo, appena possibile, sarà messa a punto una campagna ad hoc.

Oggi la maratona finale

Il World social forum si chiuderà oggi con una maratona promossa da Libera e Uisp che partirà dalla baraccopoli di Korogocho e arriverà a Uhuru Park, nel cuore di Nairobi. A dare il via alla maratona, 14 chilometri il percorso, sarà la viceministra degli Esteri con delega alla cooperazione, Patrizia Sentinelli.

Backstage

Il duro prezzo dell'antagonismo

Shaka

Come finanziare il Forum sociale mondiale è una delle più rilevanti questioni da corridoio. Se si vuole che il prossimo incontro si tenga di nuovo in un paese del Sud del mondo, come evitare le ingombranti sponsorizzazioni di ditte private? Se Nairobi 2007 fosse stato adeguatamente sostenuto finanziariamente, forse non sarebbe stato necessario chiamare una compagnia di telefonia mobile a coprire le spese di un evento che vuole denunciare le multinazionali. Una proposta la lancia il quotidiano del Forum, TerraViva, che nell'intervista a Luiz Dulci, ministro della presidenza brasiliana, propone la creazione di un fondo internazionale che possa farsi carico dei costi (ingenti) del Forum. E possa soprattutto coprire gli extra. Perché il segreto di pulcinella è che quest'anno si va sotto di un milione di dollari. Chi pagherà?

Costi 2, l'iniziativa d'impresa

La signora Helen ha pensato che in occasione del Word social forum avrebbe potuto fare un buon affare. Con cinquantamila partecipanti previsti le premesse c'erano. È andata in banca e si è indebitata per un milione e mezzo di scellini (circa quindicimila euro) dando per garanzia la casa, i mobili e anche il letto. Non aveva fatto i conti con la realtà: relegata in un angolo del grande stadio, non ha venduto niente perchè il grande punto di ristoro di proprietà del ministro della Sicurezza interna ha praticamente monopolizzato le gole dei partecipanti. A fine gennaio la banca le chiederà indietro i soldi e lei dovrà vendere la casa, i mobili e il letto. I suoi figli smetteranno di andare a scuola. «Il Forum mi ha lasciato più povera di prima», dice. Chi pagherà?

Costi 3

Il costo per entrare una giornata al Forum era di circa cinque dollari, quanto costa l'affitto di una baracca in uno slum per un mese intero. Dopo le proteste che hanno caratterizzato i giorni scorsi, ieri i bambini di Korogocho sono passati all'azione e hanno letteralmente dato l'assalto al solito unico grande punto di ristoro. L'esproprio proletario ha funzionato e in pochi minuti sono stati svuotati tutti i contenitori di cibo. Arrivati in ritardo, alcuni fotografi hanno chiesto ai bimbi di rifare la scena. Buona la seconda. Nessuno si è lamentato. Neanche i lavoratori del ristorante che sanno che questa volta a pagare sarà il proprietario detto il Kimendero, lo «spezzatore di ossa», ministro della Sicurezza.

Costi 4

Il vuoto spaventa, soprattutto in politica. E quando si lascia uno spazio vuoto c'è sempre qualcuno che tende a riempirlo. Una dinamica che si è ripetuta anche durante questo Forum, dove è venuta fuori in maniera chiara la mancanza di unità del movimento italiano. Ieri tutto ciò è divenuto palese con le contestazioni e le polemiche alla presentazione della prossima marcia della pace Perugia-Assisi. Tra smentite, correzioni e contraddizioni, si è reso palese il passo di gambero fatto da diverse organizzazioni che finora avevano fatto da punto di riferimento per la società civile italiana: facile criticare chi fa salti in avanti, più difficile fare autocritica sullo spazio lasciato libero a chi li ha fatti. Tornati a casa, però, c'è chi scommette che le cose rientreranno in breve tempo nella normalità. Chi ne pagherà il costo politico?

Shaka Lettera22

Guardie private all'attacco di uno slum. Scontri e paura al Wsf

Lacrimogeni, roghi e tanta paura. Non è una riedizione del G8 di Genova, non c'entrano nulla nè la polizia nè gli attivisti arrivati a Nairobi per il social forum. Quello che si sono trovati ad assistere diversi delegati al Wsf è stato «solo» lo sgombero di uno slum. Nel pieno centro della città e proprio nei giorni del forum. Ma soprattutto ad opera di guardie private. La vicenda è emblematica di come funzioni da queste parti il rapporto tra ricchi e poveri per quanto riguarda la proprietà. E' accaduto infatti ciò che di regola avviene in questo pezzo d'Africa: un latifondista che noleggia a centinaia di dannati povere lamiere trasformate in case, riscuotendo anche un affitto. Quando l'area diviene improvvisamente redditizia e commercialmente appetibile, ecco pronto lo sgombero per costruirvi sopra un albergo. Così, da un giorno all'altro. Il 19 il preavviso e il 20, per puro caso il primo giorno del forum, ecco arrivare le ruspe che non danno nemmeno il tempo ai malcapitati abitanti di portare via le loro povere cose. Non rispettata nemmeno la legge che prevede un preavviso di sei mesi. Per i 150 sfrattati nessuna protezione né di polizia né sociale. Semplicemente dalla baracca alla strada. L'altra sera il secondo round: ruspe con il contorno di guardie private che non esitano a sparare lacrimogeni tra la folla. Che questa volta, galvanizzata dalla presenza dei militanti di alcune reti presenti al forum, si ribella e blocca gli accessi allo slum con falò e auto di traverso. Tanta paura, finché arriva la polizia e risolve tutto semplicemente rinviando lo sfratto. Che comunque avverrà. A riflettori spenti.

Lettera a Prodi da Nairobi

Flavio Lotti

Caro Presidente Prodi, le scrivo da Nairobi, nel cuore dell'Africa, seduto accanto a due milioni e cinquecentomila persone che in questa città sono costrette a sopravvivere e a morire miseramente con in tasca meno di un dollaro al giorno. Li ho incontrati a Kibera, la più grande baraccopoli dell'Africa, da dove è partita la Marcia per la pace che ha aperto i lavori del Forum Sociale Mondiale. Camminando insieme a loro, dal quartiere più povero a quello più ricco di Nairobi, ho avvertito un profondo disagio per le ingiustizie che continuano ad uccidere ogni minuto centinaia di bambini e bambine, donne e uomini innocenti. Questa mattina li ho incontrati nuovamente a Korogocho, la discarica di Nairobi, dove si è svolta la prima assemblea del Forum sociale mondiale: un'assemblea eucaristica carica di preoccupazioni, di gioia e di speranza.

Caro Presidente, vista da qui a Nairobi, la base militare che gli Stati uniti intendono costruire a Vicenza appare un insulto a tutte queste persone private della dignità e di ogni diritto, straziate dalla fame e dalle peggiori malattie, violentate e abusate, ignorate e abbandonate dal mondo. Immersi in questa miseria, la costruzione di una nuova base di guerra è un inaccettabile spreco di denaro pubblico. E le cose inaccettabili non possono essere accettate. Di chiunque sia quel denaro, sono soldi sottratti alla lotta alla povertà.

Cosa dobbiamo dire ai ragazzi e alle ragazzi che, forse per la prima volta, sono usciti dalle loro baracche per marciare al nostro fianco chiedendo giustizia, diritti umani, pace? Cosa dobbiamo dire quando ci chiederanno perché l'Italia ha deciso di appoggiare la costruzione di questa nuova base? Perché signor Presidente? Quale nobile motivo ha spinto il suo Governo ad assumere una decisione così importante? Quanti aiuti umanitari partiranno dalla nuova base di Vicenza? Quante vite umane riusciremo a salvare grazie a questa nuova infrastruttura strategica?

Si dice che gli impegni internazionali si debbono mantenere. Ma allora... perché l'Italia mantiene sempre gli impegni militari con il governo Usa e non rispetta gli impegni contro la povertà che il governo si è assunto con l'Onu e tutti gli altri governi del mondo, come gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio?

Come faremo a spiegare che anche quest'anno dovranno cavarsela da soli perché l'Italia ha stanziato per la cooperazione internazionale solo una piccola somma incapace persino di toglierci da quell'angusta posizione che ci identifica come il paese più avaro dell'occidente? Quest'anno non c'erano soldi per salvare la loro vita. Non ce n'erano neanche l'anno scorso. Com'è possibile allora che ogni anno il nostro bilancio militare segni un nuovo record?

Tra qualche settimana forse qualcuno di loro forse sbarcherà a Lampedusa e diventerà immediatamente clandestino da rinchiudere in un Centro di permanenza temporanea in attesa di essere espulso. Altri moriranno lungo la strada. Caro Presidente, cosa possiamo dire a questa gente? Sono qui al nostro fianco. Hanno fame e sete ma non c'è né cibo né acqua. Ne hanno bisogno ora. Domani per alcuni sarà già troppo tardi. Vorrebbero vivere in pace ma, ad ogni istante, sono vittime di una violenza inconcepibile. Non c'è nessun esercito in grado di proteggerli. Sono qui al nostro fianco, signor Presidente. Cosa gli dobbiamo dire? In queste situazioni anche il silenzio uccide.

Flavio Lotti è Coordinatore della Tavola della Pace

AAA, fittasi baracche negli slum di Nairobi

Cinzia Gubbini

Fare a piedi la strada che separa Korogocho dallo stadio Kazarani, dove si sta svolgendo il primo social forum mondiale in Africa, è istruttivo: prima di tutto si scopre che lo slum dista solo quattro km dalla sede del forum, anche se tutti in salita. In secondo luogo si possono incontrare le persone che vanno e vengono dal centro, e che magari si sono spinte fino allo stadio, per partecipare o almeno dare un'occhiata alle decine di stand e alle centinaia di seminari che vanno avanti da quattro giorni. Ci sono un signore con le scarpe laccate, un gruppo di ragazzini che giocano a far rotolare i copertoni, una donna velata, un'altra vestita di stracci, un anziano con la barba curata, un diciassettenne che ascolta musica con le cuffie, parla un buon inglese ed è appena tornato dal forum.

Perché per quanto baraccopoli come quelle di Korogocho o di Kibera, rispettivamente la seconda e la prima di Nairobi, siano i posti più poveri, marginalizzati e disumani della città, a viverci sono soprattutto kenyani, cittadini che lavorano e pagano le tasse. Si calcola che il 65% della popolazione viva in uno slum. Ovviamente, appena la situazione economica lo consente chiunque scappa da qui. Nelle baracche in lamiera e nelle poche case costruite in mattoni non ci sono servizi igienici, non c'e acqua corrente, manca la corrente elettrica anche se poco lontano c'è una piccola centrale e si possono vedere gli elettrodotti che portano l'elettricità chissà dove.

Il fatto è che Korogocho - il cui nome nella lingua degli Agikuyu significa «immondizia» - è nata intorno al 1950 ma è ancora considerata dal governo kenyano un insediamento abusivo, che sorge su un terreno demaniale: dunque non esiste alcun obbligo per lo stato a fornire servizi, compresi ospedali e scuole. Tutti gli istituti scolastici che ci sono nello slum, come la St. John's School dei comboniani, non rilasciano titoli riconosciuti dallo stato. Eppure, anche se può sembrare incredibile, la gente che vive qui paga l'affitto e non è proprietaria neanche del pezzo di lamiera che ha sopra la testa. A costruire le baracche, infatti, sono dei privati, perlopiù proprietari terrieri che gestiscono questo business. L'offerta è finanche diversificata: le catapecchie sono la maggior parte, ma qua e là c'è anche qualche palazzetto fatto in mattoni. Una baracca costa tra i 300 e i 500 scellini al mese, un appartamento 1.500. Bisogna considerare che non è frequente, per chi svolge un lavoro umile, guadagnare 500 scellini al mese, cioè cinque euro, e che c'è molta gente che guadagna invece meno di un dollaro. Anche per questo motivo nello slum si vende di tutto: corpi, droga, armi, oltre ai più ordinari oggetti di consumo. Tutta merce esposta nei banchi allestiti proprio di fronte alla porta di casa, intorno ai quali si incontrano capre e galline che beccano la terra - l'asfalto non c'è - impastata con centinaia di buste di plastica che galleggiano anche dentro al fiumiciattolo, intorno al quale ci sono gli stessi meravigliosi alberi che si possono ammirare al Safari Park, uno degli alberghi più esclusivi di Nairobi, anch'esso distante pochi chilometri da Korogocho.

Quello della plastica è un problema serio. L'unica conseguenza positiva è che questi appezzamenti sono talmente inquinati che difficilmente il governo troverà qualcuno a cui venderli. Ciò non difende però gli abitanti degli slum - a Nairobi ce ne sono più di 200 - dalle demolizioni. Solo in questi giorni di forum ce ne sono state tre, anche se nessuno allo stadio Kazarani se n'è accorto. A raccontarlo è Daniele Moschetti, il padre comboniano che ha raccolto il testimone di Alex Zanotelli, che ha vissuto per ben 12 anni a Korogocho. L'occasione è stata uno dei tredici seminari disseminati negli slum per cercare di decentrare un po' i lavori del forum. A Korogocho, in una piccola arena che si trova nel centro culturale dei comboniani, si parlava di diritto alla casa e alla terra: ospiti d'onore, oltre a Zanotelli che ormai vive a Napoli da quattro anni ma che viene accolto dagli abitanti della baraccopoli come una specie di capofamiglia emigrato all'estero, gli attivisti sudamericani della campagna No evictions, «Basta sfratti», e il teologo della liberazione brasiliano Marcello Barros. «Qui in Kenya il diritto alla casa e alla terra è un problema essenziale: l'80% delle persone vive nel 5% della terra, in una situazione insostenibile», dice Moschetti. Barros ricorda che quando un dominatore vuole conquistare un paese, la prima cosa che fa è prendere la terra, come hanno fatto i colonialisti in America Latina e in Africa.

La storia degli slum di Nairobi è proprio questa: quando gli inglesi fondarono la città, prima come deposito della ferrovia da Mombasa a Kampala, poi come sede del protettorato, i neri non potevano entrare nel centro. E così nacquero i primi slum, che sono diventati la risposta abitativa, dopo l'indipendenza, dei lavoratori che scappavano dalle campagne - distrutte dalle politiche di aggiustamento strutturale - per cercare lavoro in città. Oggi negli slum arrivano anche i migranti, ad esempio da Tanzania e Uganda, o rifugiati politici come i somali.

Alla fine del seminario padre Zanotelli celebra una cerimonia di benedizione della terra in cui coinvolge i ragazzini dello slum, alcuni dei quali avevano passato tutto il tempo dell'incontro a sniffare glup, colla. Tutti, mano nella mano, intonano «We shall overcome». L'azione dei comboniani è uno dei fattori che hanno stimolato una qualche organizzazione politica nelle baraccopoli. Veri e propri movimenti sociali non esistono, ma nel 2004 la protesta degli abitanti ha fermato l'espulsione di 300 mila persone. Oggi la rete Kutoka chiede prima di tutto che sia concesso maggiore spazio vitale agli abitanti e che la terra diventi comunitaria. Ma ci sono anche gli adolescenti, che barcamenandosi tra comboniani, ong e una vera volontà di autonomia, si muovono: al Social forum sono stati loro a mettere in piedi la protesta contro il prezzo di ingresso e il costo del cibo.

Backstage

L'esercito, il torturatore e chi rapina Indymedia

Shaka *

Changamoto za mkutano wa Nairobi (le sfide del forum di Nairobi). Si può discutere di cosa significhi essere di sinistra oggi senza interloquire con i governi di sinistra e la classe lavoratrice? Secondo l'organizzazione non governativa brasiliana Ibase, sì. In un seminario che si è tenuto domenica scorsa, si è riusciti a parlare di sinistra senza menzionare neanche una volta la parola working class e citando curiosamente solo tre dei nove paesi sudamericani che hanno oggi un governo progressista. Ignorando i governi di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cuba, Ecuador, Nicaragua, Uruguay e Venezuela i relatori si sono inavvertitamente esposti a una delle critiche più comuni al Word social forum: l'incapacità di connettersi attivamente al mondo reale della politica. Nelle loro discussioni, i relatori si sono lanciati in una vigorosa discussione sulla vecchia e la nuova sinistra: nonostante il riconoscimento dei valori della sinistra tradizionale e della loro importanza per la nuova sinistra e i movimenti, le sfide che guardano in avanti non possono non partire dall'analisi della sconfitta globale del comunismo avvenuta lo scorso secolo con la caduta del muro di Berlino. Circa 100 persone erano presenti alla discussione, tra loro nessun africano.

Contraddizioni

Di contraddizioni al forum di Nairobi ce ne sono parecchie. Si potrebbe cominciare da quelle sulla sicurezza. L'apparato messo a disposizione dei partecipanti è sicuramente imponente: guardie private, polizia, verso sera anche l'esercito (armato). Il grado di potere è direttamente proporzionale alla lunghezza del sempre presente manganello e tutti gli accessi ai punti «sensibili» sono sorvegliati con occhi di falco. Eppure verso le 18 di lunedì tre persone armate sono potute salire all'ultimo piano dello stadio e rubare tutto il materiale di Indymedia. La lista dei furti è peraltro abbastanza elevata. In termini di sicurezza poi, c'è da dire che l'unico grande punto di ristoro del forum è di proprietà personale del ministro della Sicurezza nazionale, tanto noto torturatore da meritarsi il nomignolo di Kimendero, «lo spezzatore di ossa».

Buon appetito

Un panino e una birra costano quanto dieci giorni di reddito medio di una famiglia povera di Nairobi (circa dieci dollari). Dopo il lauto pasto, gli attenti altermondialisti non esitano a seminare plastica e carta tutt'intorno, di fretta per non perdere l'ultimo seminario sull'ecosostenibilità dell'ambiente.

Cosa c'è

La sinistra giovanile, la Caritas, Vittorio Agnoletto, i bonghi (in abbondanza), i ballerini, l'artigianato locale, i sandali, gli infiltrati del governo tunisino, tanta buona volontà, un sole che spacca le pietre, le suore, i francescani, qualche parlamentare, qualche ministro (o vice), qualche ladruncolo, le magliette di Ho Chi Min, le apparecchiature cinesi.

Cosa non c'è

I microfoni, le sedie, il programma, i traduttori, internet (poco), la carta igienica, una comunicazione efficace, Bertinotti, i disobbedienti, Radio Popolare, i trasporti gratuiti, la certezza dei luoghi dove si tengono gli incontri, le zanzare, i cestini della spazzatura, una visione comune del Forum.

* Lettera22

E al forum alternativo parlano i «cittadini»

Cristina Formica

Il giorno prima dell'apertura del Wsf, nel parcheggio del Kenyatta conference centre si è svolta una manifestazione di protesta contro il comitato organizzatore keniano. Quindici donne e uomini con cartelli scritti a mano che invitavano i partecipanti al Social forum a recarsi agli incontri organizzati dall'associazione Citizen assembly. A chi li osservava, i manifestanti davano un fiocchetto bianco, simbolo della lotta dei poveri del Kenya a una vita più giusta. Il luogo degli incontri era il Jevanjee Garden, che si trova ai limiti del centro di Nairobi, tra le università: siamo al confine con gli slum, quando la città diventa baraccopoli. Il Citizen social forum si è svolto tra il 21 e il 23 gennaio, ma gli organizzatori tengono a precisare che la loro iniziativa è interna al più grande Social forum mondiale.

Citizen assembly appare una rete civica: Shamsia, uno degli organizzatori, spiega che il loro network nasce nel 2005 e lavora solo in Kenya, ma ora stanno cominciando a collegarsi anche con reti europee. Lavorano sulla mobilitazione popolare perché i keniani possano maggiormente incidere sulla vita politica nazionale e abbiano più potere e consapevolezza. Assembly citizen ha 10 gruppi nazionali che si riuniscono regolarmente una volta al mese, le assemblee sono libere alla partecipazione popolare. Ogni gruppo decide il tema su cui impegnarsi, che è sempre legato al territorio e ai problemi reali delle persone.

Il programma svolto al Citizen forum center era tutto incentrato sul Kenya: dibattiti dalla mattina al primo pomeriggio sulla democrazia, la pace e la giustizia, i giovani, i diritti delle minoranze. L'ultimo giorno dei lavori è stato riservato ai temi dell'aids, delle relazioni tra i diversi gruppi etnici keniani e del debito estero. Quest'ultimo è al centro delle discussioni sia qui che al social forum, dramma comune per il sud del mondo: mentre il 56% della popolazione keniana vive miseramente, 112 miliardi di scellini devono essere ripagati alle istituzioni internazionali, per un debito senza fine che ha il drammatico risultato di distogliere fondi dall'educazione, dalla sanità e dal miglioramento delle condizioni di vita dei keniani.

Anche a Jevanjee Garden la soluzione per i keniani è quella di non pagare più. Tutte le proposte che l'Onu fa per risolvere le ingiustizie mondiali sono da respingere, a partire dagli Obiettivi del millennio, che per i keniani sono falliti e inutili. Per non parlare delle politiche degli accordi tra Unione europea e paesi africani, e che provocano disastri per i mercati africani.

Odindo è il fondatore di una delle associazioni legate a Citizen network, Hakijamii, che si occupa della questione agraria. A suo parere il ruolo del colonialismo britannico nella creazione delle discriminazioni in Kenya è stato determinante: la proprietà della terra era in mano a gruppi economici stranieri che hanno costretto l'agricoltura keniana a monoculture come il tè e il caffè e che non hanno contribuito a migliorare le condizioni di vita dei keniani. Un problema molto sentito è oggi la discriminazione delle donne: sebbene siano loro a coltivare la terra e garantire la sopravvivenza delle comunità, esse non sono proprietarie, dipendendo in questo modo dai mariti e dai fratelli.

«Tutti a New York a giugno». Un forum nel cuore dell'impero

ci.gu.

Si terrà ad Atlanta a partire dal 27 giugno. Il primo Social forum statunitense è praticamente già realtà, e qui a Nairobi si guarda a quell'appuntamento con speranza e entusiasmo. Praticamente dopo aver «espugnato» l'Africa, che per i tantissimi problemi organizzativi sembrava un'impresa impossibile, gli Stati uniti rappresentano la tappa successiva nel tentativo di esportare il forum nel «cuore» dei probelmi. E certamente la politica degli Usa e di Bush è uno di quei cuori. A organizzare l'«evento» è la Grassroot global justice network, una rete che raccoglie più di 80 associazioni e che si occupa di difendere i diritti della working class. «L'idea è nata al Social forum di Caracas, avevamo un tendone nel centro della città, eravamo molto visibili, e in tanti si sono avvicinati per incoraggiarci, soprattutto i latinoamericani, dicevano che un Social forum negli Usa è indispensabile - spiega Stephen Bartlett - così prima abbiamo provato con un forum regionale che si è svolto ad aprile in North Carolina, poi abbiamo iniziato a costruire il forum nazionale». La vittoria dei Democratici al Congresso, dice Bartlett, non ha influenzato minimamente la voglia di dare questa spallata: «La vittoria dei Democratici cambia gli equilibri nel paese. Ma il nostro problema è un altro: la consapevolezza che la democrazia in America è a rischio. La gente è contraria alla politica di Bush, ma è impossibile farsi ascoltare. Organizziamo il forum soprattutto per il bene degli Usa». A Nairobi qualcuno ha fatto notare che sarà molto complicato raggiungere gli States: «E' una preoccupazione seria - dice Bartlett - nel mio paese vige lo stato di polizia, ottenere i visti sarà durissima. Ma noi faremo il possibile per assicurare una partecipazione ampia».

Rischi e pericoli di un'Africa no global

Emma Bonino *

Cari direttori, ho letto con interesse - e una buona dose di inquietudine - l'opinione di Vittorio Agnoletto (il manifesto 20 gennaio) sugli Accordi di partenariato economico (Epa) in corso di negoziato fra l'Unione europea ed i Paesi africani. Mi inquieto non tanto per il grido d'allarme lanciato da Agnoletto, quanto per l'approssimazione nel trattare una materia delicata e complessa, e per la rappresentazione caricaturale dell'operato del mio Ministero.

L'iniziativa europea di negoziare accordi di partenariato economico con i paesi dell'Africa, Caraibi e Pacifico (Acp), conseguenti agli Accordi di Cotonou del 2000, ha una ragione e una scadenza precisa. A norma dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc), è necessario per l'Unione europea concludere accordi di libero scambio con questi paesi entro la fine del 2007, data in cui scadrà la deroga che ci consente di praticare a vantaggio dei Paesi Acp condizioni tariffarie preferenziali rispetto a quelle che l'Ue applica a tutti gli altri membri dell'Omc (inclusi altri paesi in via di sviluppo, che reclamano da tempo contro questa «discriminazione fra poveri»).

L'esperienza dei vari accordi precedenti tra Ue e Paesi Acp (in particolare gli Accordi Lomé) mostra che questi ultimi non ne hanno tratto grande giovamento per la loro crescita economica. E' tempo di cambiare registro, e di rendere questi paesi più partecipi dei ritmi e dei meccanismi dell'economia globale. E' innegabile che il passato coloniale e anche certi atteggiamenti spregiudicati sul piano dello sfruttamento delle risorse (non solo degli occidentali: cinesi e indiani fanno la loro parte) abbiano concorso a penalizzare le prospettive di sviluppo dell'Africa sub-sahariana, ma non per questo mi sento di condividere l'analisi di Agnoletto.

L'Africa non è oggi una vittima della globalizzazione selvaggia. Ha ereditato, come tutti, la sua quota di problemi e rischi globali: ambiente, pandemie, terrorismo. Ma soffre, al contrario, di rimanere ai margini di quasi tutti i processi globalizzanti: che si tratti dell'economia, della tecnologia, della diffusione delle conoscenze, della ricerca, della governance, spesso della democrazia e dello stato di diritto. Ad essere seri, quasi l'intero continente è oggi no global, nel senso che accusa un ritardo crescente, secondo tutti gli indicatori mondiali, anche rispetto agli altri paesi in via di sviluppo. Se questo trend continua, come sembra auspicare Agnoletto, c'è poco da stare allegri. Il processo di globalizzazione è destinato a continuare e ad incidere pesantemente sui tassi di crescita e di sviluppo - che ci piaccia o meno.

Gli «Epa» sono un tentativo di affrontare il problema del sottosviluppo con un approccio diverso. Sono accordi che sostengono fortemente l'integrazione regionale all'interno delle aree dell'Africa, Caraibi e Pacifico: ciò dovrebbe costituire per i paesi di piccola dimensione un impulso aggiuntivo alla crescita.

Il nostro governo - non solo un ministro liberista, né solo il mio dicastero - sostiene la strategia della Commissione europea, volta a concludere entro quest'anno gli «Epa» con le sei aree regionali interessate. In qualche caso - si pensi all'Africa orientale e ai drammi che la scuotono, dal Darfur alla Somalia - si tratta di un obiettivo probabilmente non realizzabile. Ed è un peccato.

Gli «Epa» non hanno intenti predatori, né fanno astrazione della differenza di sviluppo delle parti contraenti. Il mandato negoziale prevede infatti un adeguato sostegno finanziario ai Paesi Acp, che fa seguito al meccanismo dei Fondi europei di sviluppo ampiamente sperimentato nel corso degli ultimi decenni. Parte di questo sostegno può essere utilizzato per recuperare l'erosione finanziaria conseguente all'eliminazione dei dazi, che sarà retta da un meccanismo asimmetrico, e avrà luogo solo alla fine di un congruo periodo di adattamento.

Agnoletto ha ovviamente pieno diritto a coltivare e esprimere opinioni divergenti da quelle dell'Unione europea e del governo. Può anche, se lo ritiene opportuno, versare il contributo della sua preziosa esperienza no global alla causa di un ipotetico movimento pan-africano che ha «nell'opposizione agli Epa l'obiettivo principale di questa stagione di lotta».

Per quanto mi riguarda, auspico soprattutto che il dibattito sui problemi e le prospettive del continente africano rimanga serio e non demagogico. E che le energie disponibili per lottare a favore dell'Africa e degli africani trovino una causa migliore di quella dell'«opposizione agli Epa».

* Ministro del commercio internazionale e per le Politiche europee

Epa, il cappio europeo al collo dell'Africa

Cinzia Guzzini

Nairobi

«L'Europa ha visto tutte le piroghe che sono partite questa estate per la Spagna dal Senegal? Ebbene, su quelle barche c'erano i contadini. Contadini costretti a partire perché non riescono più a vivere della loro agricoltura», dice Babacar Ndao, uno dei rappresentanti della Roppa (la rete delle organizzazioni agricole dei paesi dell'Africa occidentale). «E' l'effetto incontestabile della liberalizzazione del mercato: gli aggiustamenti strutturali imposti dall'Organizzazione mondiale del commercio negli anni passati hanno costretto i nostri paesi ad abbassare le tariffe doganali e a spingere il pedale delle privatizzazioni: questo è stato il risultato. Ora stanno per completare l'opera». Ndao ha appena concluso il suo intervento al seminario contro gli Epa, uno dei tanti che si svolge allo stadio Kazarani di Nairobi. Sono loro il fantasma che attraversa questo settimo Social forum mondiale, i grandi accusati. Perché per quanto la sigla Epa sia pressoché sconosciuta - moltissimi europei guardano con curiosità lo striscione che annuncia l'incontro, qualche italiano la scambia con l'abbreviazione di epatite - gli «accordi di partenariato economico» sono il cappio che sta per stringersi attorno al collo dell'Africa. «La Commissione europea sta siglando accordi con le regioni africane per stabilire aree di libero mercato - spiega Ndao - Questo significa che i paesi europei pretendono la completa eliminazione dei dazi doganali in modo da competere con i nostri prodotti». Chi avrà la meglio in questa «competizione» è facile da immaginare.

«L'Europa pretende di arrivare con i suoi prodotti nei nostri paesi, ma la nostra agricoltura non ha niente degli standard agricoli europei: ci vorranno almeno venti anni. E nel frattempo la nostra agricoltura deve essere protetta. Come d'altronde l'Europa protegge la propria», aggiunge una donna del Camerun, che rappresenta le reti contadine dell'Africa centrale. A partire dal primo gennaio 2008, cioè tra meno di un anno, gli Epa entreranno in vigore. «Per noi è una vera catastrofe», dice Yaboxyekk Haile, etiope, membro della ong Acord e arrivato a Nairobi con il neocostituito Ethiopian Social Forum. «L'agricoltura famigliare, quella più diffusa, verrà completamente distrutta. Ma accadrà lo stesso anche con le piccole industrie, che non potranno avere prezzi abbastanza competitivi». Haile sottolinea le ipocrisie di Bruxelles: «Parlano di libero mercato, ma una mucca europea riceve due dollari al giorno di sussidi, quando il 45% della popolazione in Etiopia vive con meno di un dollaro al giorno». Un esempio piuttosto scioccante.

La contrattazione sugli Epa è iniziata dopo la firma degli accordi di Cotonou nel 2000, tra l'Europa e i paesi Acp (paesi dell'Africa dei Caraibi e del Pacifico): fino a quel momento i paesi Acp godevano di una clausola preferenziale che però, secondo le regole del Wto, scade il 31 dicembre 2007. Da quel momento in poi devono entrare in vigore nuovi accordi: ed è così che si è scatenata la corsa agli Epa. «Ma gli accordi di Cotonou prevedevano tre pilastri: l'aspetto politico, sociale e economico. I tre pilastri sono stati messi da parte, e gli accordi riguardano soltanto l'aspetto finanziario», denuncia ancora Haile. I sostenitori degli accordi di partenariato economico ritengono che il libero mercato stimolerà anche la produttività delle aziende e dell' agricoltura del sud. Una filosofia che può apparire molto moderna, ma che in Africa e in altre zone del pianeta viene applicata in modo sfrenato da almeno venti anni. E i risultati sono pessimi: in Ghana 50 mila posti di lavoro nel settore tessile sono scomparsi dopo la liberalizzazione delle importazioni tra il 1987 e il 1993. Babacar Ndao racconta che in Senegal tra il 2003 e il 2005 sono scomparse 56 aziende per effetto dell'entrata in vigore delle tariffe esteriori comuni (un ennesimo taglio delle tariffe doganali). Qui, al Social forum, i movimenti contadini africani stanno cercando di coordinarsi per impedire ai propri governi di firmare gli Epa. Ma senza una mobilitazione in Europa, la loro lotta sarà molto più dura.

Sentinelli: la cooperazione deve cambiare

«La cooperazione internazionale deve cambiare, le decisioni devono essere prese dai governi ma insieme ai movimenti e alla società civile». La politica della donazione non funziona, è meglio diventare partner dei paesi. Unica rappresentante del governo italiano al Forum di Nairobi, Patrizia Sentinelli ha parlato di Africa e beni comuni: «Acqua, energia e cibo sono della popolazione e non delle multinazionali. Basta con le politiche che portano via le risorse».

«L'Italia dimentica gli Obiettivi Onu»

Emanuele Giordana*

«Siamo francamente stupiti che nella legge delega di riforma della cooperazione non ci sia praticamente alcun accenno agli Obiettivi del Millennio, la "road map" della comunità internazionale per la lotta alla povertà». Silvia Francescon è la coordinatrice per l'Italia della Campagna del Millennio delle Nazioni Unite, gli otto obiettivi che dovrebbero trasformare in realtà le decisioni prese nel 2000, con la Dichiarazione del Millennio. All'epoca 189 leader mondiali si impegnarono a eliminare la povertà, o almeno le sue forme più scandalose, attraverso appunto otto Obiettivi da raggiungere entro il 2015: dimezzare la povertà estrema e la fame; raggiungere l'istruzione primaria universale, promuovere l'uguaglianza di genere, diminuire la mortalità infantile, migliorare la salute materna, combattere l'Hiv/Aids, la malaria e le altre malattie, assicurare la sostenibilità ambientale, sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo. «Ma su quest'ultimo tema - aggiunge Francescon - vediamo pochi avanzamenti. L'Italia non è tra i paesi che redigono un bilancio dello stato dell'arte del punto 8, che riguarda gli impegni dei paesi ricchi». Manca un segnale forte insomma, e da questo punto di vista la legge delega di riforma della Cooperazione, fatta propria il 12 dicembre dal consiglio dei ministri, pare alla rappresentante dell'Onu troppo avara.

Nella legge c'è un riferimento alle Nazioni Unite nelle prime righe...

Si, ma resta un principio troppo vago perché non c'è alcun riferimento agli Obiettivi del Millennio, mentre sarebbe stato importante, e in linea tra l'altro col Programma dell'Unione, un segnale forte sull'impegno italiano, com'è per altri paesi europei. Francamente la cosa ci ha stupito.

Gli altri paesi?

Ogni paese ha una strategia, il problema è che l'Italia non sta spiegando qual è la sua. Nazioni come l'Olanda o la Svezia preparano dei rapporti che monitorano l'Obiettivo 8 che, a differenza degli altri che responsabilizzano i paesi in via di sviluppo, è incentrato sui doveri dei paesi ricchi. L'Italia non lo fa: è come se non sapessimo qual è la strategia in termini quantitativi e qualitativi.

Cominciamo dalla quantità.

Questo è forse un difetto anche della legge. Non c'è alcun riferimento all'obiettivo dello 0,7% del Pil entro il 2015 o dello 0,51% entro il 2010. Ora noi sappiamo che l'Italia è nella situazione scandalosa di essere il fanalino di coda nell'aiuto pubblico allo sviluppo, ma il governo, pur se il programma dell'Unione era stato molto puntuale, non ha più dato indicazioni. Come ci arriveremo e quando?

La qualità...

La povertà non si vince solo coi soldi e devo dire che da questo punto di vista la legge delega fa un passo avanti molto importante. Mi riferisco all' "aiuto legato" quando si scrive che "nelle attività di cooperazione allo sviluppo sia privilegiato l'impiego di beni e servizi prodotti nei paesi e nelle aree in cui si realizzano gli interventi". Sarebbe forse stato opportuno anche un riferimento alla Convenzione di Parigi che fornisce indicatori quali l'armonizzazione delle procedure di erogazione dei fondi. C'è anche un altro punto positivo: il concetto di unitarietà. Anche se non è chiaro in che modo poi si farà questa coerenza delle politiche. Mi rendo conto che la legge è in itinere e sono certa che molte lacune saranno colmate.

C'è stata una polemica sui fondi privati. C'è chi teme una «privatizzazione» dell'aiuto allo sviluppo.

Nella legge delega c'è un forte riferimento ai fondi privati, ma non sta a noi dire se sia una scelta positiva o meno. La domanda vera riguarda la risposta ai cittadini italiani. Se i fondi sono pubblici, sulle scelte rispondono governo e parlamento. Se sono privati? E' un nodo che resta forse da sciogliere.

Qualcuno trova la legge troppo «bilateralista».

Credo che si debba tener conto delle scelte del governo che sono evidentemente orientate in senso multilaterale. Non credo ci sia il rischio di un eccesso di cooperazione bilaterale. Naturalmente è importante indicare i mezzi, la quantità, la qualità, la coerenza degli interventi. Una strategia dunque nella quale, ci auguriamo, trovino un riferimento forte e puntuale gli Obiettivi del Millennio.

* Lettera22

Non è troppo tardi per salvare la terra

Cinzia Gubbini

Inviata a Nairobi Alla conferenza che ha tenuto ieri mattina nel tendone allestito dalla Caritas internazionale (una vera potenza in questo social forum) il premio Nobel per la pace Waangari Maathai ha emozionato tutti, raccontando la parabola dell'uccellino che non scappa di fronte al grande incendio, mentre tutti i grandi animali se la danno a gambe. «Con il suo piccolo becco andava e veniva dal fiume, per spegnere il fuoco. Gli altri, gli animali potenti, lo scoraggiavano: che puoi fare tu così piccolo? E lui rispondeva: "faccio il meglio che posso". E questo è quello che dovremmo dire anche noi tutti i giorni». Maathai ha cominciato così la sua battaglia ambientalista con il Green belt movement: piantando alberi, uno dopo l'altro, un'azione piccola ma dirompente. E non ha mai smesso: oggi pomeriggio ha organizzato una cerimonia in cui verranno piantati degli alberi.

Dottoressa Maathai, cosa pensa dei cambiamenti climatici che si stanno registrando nel mondo? Proprio in questi giorni l'Europa del nord è stata colpita da un violento uragano che ha fatto molti morti e provocato il naufragio di una petroliera.

E' molto difficile capire se i fenomeni che si registrano nel mondo siano da addebitare al 100% ai cambiamenti climatici. Per molto tempo non c'è stato consenso tra gli scienziati su cosa stia accadendo. Alcuni sostengono che è tutto normale: accade periodicamente che ci siano dei cambiamenti climatici e dunque non c'è nulla di cui preoccuparsi. Ma ormai la maggior parte degli scienziati è d'accordo nel segnalare che questi cambiamenti sono accelerati da quando è iniziata la rivoluzione industriale. Nel film realizzato da Al Gore, negli Stati uniti, vengono mostrati dei grafici che esemplificano come il clima sia cambiato negli ultimi 300 o 500 anni. Secondo la maggior parte degli scienziati, ormai, è evidente che le attività umane stanno causando dei mutamenti troppo veloci, e che le conseguenze sul nostro pianeta saranno gravi: già oggi ci sono casi in cui nevica ad agosto, al polo si riducono i ghiacciai, un fenomeno che possiamo osservare andando sul monte Kenya, dove si sta sciogliendo il ghiacciaio mentre alcuni fiumi straripano. I periodi di siccità, inoltre, si allungano sempre di più. Sono fenomeni sotto gli occhi di tutti.

Il punto è se i danni causati sono irreparabili o meno. Lei cosa ne pensa?

Molte persone ritengono che si possa ancora fare qualcosa. E io ci credo. Ma è complicato convincere le persone a muoversi. La gente sa tutto su queste cose, è d'accordo, dice che vorrebbe fare qualcosa. Ma non reagisce a meno che non si trovi in mezzo alla catastrofe. Lo stesso si può dire dei governi.

Gli Stati uniti non hanno ancora adottato il protocollo di Kyoto, riducendone nettamente l'impatto. Cosa si può fare per convincerli?

Credo che vedremo molto presto dei cambiamenti importanti in America. Quando sono stata negli Stati uniti ho avuto la sensazione che ci sia una grande coscienza, una grande mobilitazione. In paesi come il Kenya le persone vedono alberi bellissimi, la natura rigogliosa, pensano che non stia accadendo nulla, finché non arriva qualche catastrofe. Gli americani saranno anche grandi consumatori, ma hanno contemporaneamente un grande livello di analisi e coscienza. Durante la conferenza sul clima che si è tenuta qui a Nairobi, gli Stati uniti sono stati piuttosto silenziosi. Non so esattamente per quale motivo, forse stanno aspettando di vedere cosa accadrà entro il 2012, ma secondo me il governo è consapevole che la maggior parte della popolazione vorrebbe che gli Usa appoggino Kyoto. Forse non accadrà finché Bush è alla presidenza. Ma poi, ne sono certa, le cose cambieranno. Detto questo, credo che il problema rimanga cosa abbiano intenzione di fare gli altri paesi: se l'America sbaglia, ciò non impedisce agli altri di imboccare la strada giusta.

A che punto è il movimento ambientalista africano?

Credo che non ci sia una grande coscienza in Africa sul collegamento tra degrado ambientale e cambiamenti climatici. C'è invece una fortissima coscienza della necessità di proteggere l'ambiente e la natura. Anche a livello governativo, ad esempio qui in Kenya, c'è tradizionalmente questo tipo di preoccupazione. Ma io credo che i governi non facciano ancora abbastanza per mobilitare le comunità, e soprattutto per investire in energia alternativa: qui in Kenya il legno è ancora una fonte di energia importante. Significa che si continuano a bruciare troppi alberi.

Al social forum mondiale appare evidente che nei movimenti del sud del mondo le donne hanno un ruolo centrale, che hanno perlopiù perso nel nord. Perché, secondo lei?

E' vero, le donne sono una risorsa essenziale nei movimenti del sud del mondo. Ma io credo che lo siano per necessità: stanno cercando di cambiare veramente la pessima situazione in cui si trovano. Dunque si informano, si cercano, si incoraggiano, vanno avanti. In un forum come questo pretendono che tutti sappiano quali sono le loro istanze. Io credo che la cosa più importante sia esattamente questa: formare delle reti. Perché è in questo modo che si può riuscire a focalizzare degli obiettivi chiari, che possono essere portati avanti incoraggiandosi l'un l'altro.

Eppure alcune campagne non riescono ad avere successo, come quella sulla cancellazione del debito, altro grande tema del forum. Perché?

I cittadini non sanno nulla del debito: quelli del nord pensano che ci siano stati prestati dei soldi, e che ora non li vogliamo restituire. Per questo mi piace il termine «debito illegittimo» e vorrei che lo chiamassero tutti in questo modo. Certo, sarebbe fantastico se un governo africano decidesse di non pagare più: ma non lo faranno perché sarebbero puniti. Oltre al fatto che alcuni stati non vogliono accettare le condizioni che vengono poste quando il debito viene cancellato, e non per nobili motivi, ma perché hanno paura che non avrebbero più i soldi per comprare le armi o mantenere se stessi. Ma nel processo per eliminare questa enorme ingiustizia sono fondamentali anche i movimenti del nord. Noi, dal sud, dobbiamo fare pressione sui nostri governi. Ma voi, del nord, dovete essere coscienti che il debito uccide e dire con chiarezza che non volete soldi sporchi di sangue.

I paradossi della cooperazione

Michele Nardelli

Ha ragione Giulio Marcon (il manifesto 13 gennaio) nel felicitarsi del fatto che avremo finalmente una nuova legge sulla cooperazione internazionale a fronte di una normativa del secolo scorso. E ad auspicare che sia una buona legge. Per farlo però non serve un semplice ammodernamento del vecchio impianto legislativo. Quel che occorre è un «salto di paradigma».

E invece ho l'impressione che le proposte di legge in circolazione siano ancora segnate dalla logica dell'«aiuto allo sviluppo», il che significherebbe disegnare una legge fuori dal tempo, incapace di tentare qualche risposta alla crisi profonda in cui versa la cooperazione internazionale.

Il paradosso è questo. Nel momento in cui più forte che mai è la consapevolezza della globalizzazione e tocchiamo con mano i meccanismi dell'interdipendenza, viviamo il momento più alto di crisi della cooperazione internazionale. Tale crisi non è data, come in genere si ritiene, dal taglio dei fondi nazionali o del sistema delle Nazioni unite, e nemmeno dal perverso connubio fra intervento bellico e «circo umanitario». La crisi della cooperazione riguarda i suoi «fondamentali», il suo presupposto teorico.

E' cambiato il mondo e si continua a ragionare come se questo fosse ancora diviso fra nord e sud, fra sviluppo e sottosviluppo. Prima ancora della mancanza di strategie, la cooperazione internazionale sembra incapace di leggere il presente.

La nuova geografia planetaria, l'economia mondo, ci indica che i luoghi cruciali dell'accumulazione finanziaria sono le aree di massima deregolazione: le guerre, i traffici criminali (dalle scorie nucleari agli esseri umani), le nuove schiavitù. L'internazionalizzazione delle produzioni e la delocalizzazione delle imprese ci raccontano di paesi che conoscono una crescita travolgente grazie soprattutto alla sistematica violazione dei diritti umani e dei lavoratori e a forme di controllo neofeudale dei territori. Chi è dunque sviluppato e chi sottosviluppato?

L'idea della «cooperazione allo sviluppo» ha come presupposto che ci siano paesi «rimasti indietro»: si tratta di una lettura economicista e sostanzialmente neocoloniale («insegnare a pescare», ci dicevano...), che non corrisponde alla realtà.

Forse andrebbe ripensato il concetto stesso di cooperazione intesa come trasferimento di risorse, a partire dalla semplice considerazione che non esistono paesi poveri (impoveriti semmai), che ogni paese è ricco di suo, di culture e saperi prima ancora che di risorse materiali (spesso motivo di impoverimento e di aggressione), e che la frontiera di una nuova cooperazione dovrebbe riguardare il sostegno ai processi di riappropriazione da parte delle comunità locali di tali risorse, il che implica una capacità tanto di riconoscerle che di partecipazione e di autogoverno.

Allora non è solo o tanto un problema di maggiori investimenti nella cooperazione, smettendola peraltro con la contabilizzazione del debito o delle operazioni militari dette umanitarie in questa voce: serve una modalità diversa di fare cooperazione basata sulle relazioni piuttosto che sugli aiuti.

Questo investe anche il nodo dell'autonomia progettuale, tanto della cooperazione governativa quanto del sistema delle Ong. Gli uni e le altre hanno il problema di ricostruire un loro pensiero, cui far seguire la ricerca dei fondi per operare. Non possiamo nasconderci che la crisi della politica e la cultura dell'emergenza hanno fatto disastri da una parte e anche dall'altra, nel mondo detto non governativo, nell'ossessivo rincorrere bandi che pongono le coordinate entro cui agire. Così le Ong rischiano di perdere la loro autonomia, rinchiuse in gabbie già prestabilite dai donatori, sempre più tecnicizzate e dunque tendenzialmente prive di autopensiero. Gli schemi tecnici impongono tempi di realizzazione che non permettono la conoscenza approfondita dei territori nei quali si opera anche perché il lavoro di relazione viene trascurato in sede progettuale e di finanziamento. Producendo insostenibilità.

Limitarsi ad agire sugli ingorghi ministeriali in termini di finanziamenti e competenze, arrivando tutt'al più alla legittimazione di una pluralità di attori della cooperazione, può servire ma non aiuta certo a «cambiare rotta».

Una nuova legge sulla cooperazione internazionale dovrebbe cercare uno sguardo diverso in un tempo cambiato, pensando alla cooperazione come sostegno ai processi di autosviluppo, valorizzando le relazioni territoriali e le esperienze di cooperazione fra territori, cogliendo le straordinarie potenzialità di comunità che si mettono in gioco in uno spazio aperto. Prossimità (conoscenza), reciprocità (comunità di destino) ed elaborazione del conflitto (una lettura condivisa di ciò che è accaduto) sono le parole chiave che dovrebbero segnare quel salto di paradigma che si richiede alla cooperazione internazionale.

nardelli@osservatoriobalcani.org

La discussione su antiamericanismo e filoamericanismo sta assumendo, in Italia, caratteristiche molto stravaganti e assai poco pratiche. È una disputa completamente astratta, che si sostituisce all'analisi dei fatti e che ignora non solo la storia passata ma anche la storia che con le nostre azioni o omissioni stiamo facendo. Chi entra nella disputa deve rinunciare a quello che sa, che vede e prevede razionalmente, che ha appreso da errori constatati. Deve accettare di discutere religiosamente della politica statunitense, e per essere ascoltato deve prima professare una fede: crede o non crede nell'America, a prescindere da quello che essa fa? Essere antiamericani o filoamericani non implica un giudizio sui modi d'agire di una superpotenza trasformatasi in unico egemone mondiale: è divenuto il metro con cui definiamo quel che siamo e chi siamo, senza più rapporto alcuno con la realtà. Per molti musulmani l'accusa di antiamericanismo o filoamericanismo ha questa funzione integralista-identitaria, ma in Italia le cose non stanno diversamente.

La discussione sulle basi di Vicenza non è condotta con l'intento di capire l'uso che oggi, nel 2006-2007, Washington fa delle basi costruite in Europa durante la guerra fredda, ma diventa subito un affare ideologico interno - un'occasione per verificare se la sinistra è restata comunista o no, se la nostra diplomazia è ricaduta nelle tradizioni filoarabe o se ne è liberata - come se niente fosse successo dai tempi della diplomazia andreottiana. La decisione di proseguire l'operazione in Afghanistan oppure di rimetterla in questione è vissuta come se non avesse nulla a che vedere con quel che accade in quel paese, e con una guerra antiterrorismo che pretende di andare avanti con occhi chiusi e opinioni granitiche, senza apprendere alcunché dagli errori dei cinque anni scorsi. Simili sviste avvengono in Iraq, Somalia, Palestina, Israele.

La Scomparsa dei fatti cui Marco Travaglio allude nel suo ultimo libro vale anche per i rapporti che tanti politici italiani hanno con l'America, e con una lotta mondiale al terrore che manifestamente non funziona e che necessita una revisione urgente. Alla luce dei risultati ottenuti, infatti, non regge più l'assunto secondo il quale bisogna tutti far quadrato attorno alla strategia imboccata nel 2001 da Bush e Blair. È come se dicessimo: per fronteggiare il disastro del clima e dell'energia inquinante sosteniamo tutti la perniciosa noncuranza americana. L'evaporare dei fatti è una malattia grave, e non si limita a ignorare quel che succede. Cancella anche il mondo che ci circonda, sottraendolo alla vista e trasformandolo in un'arena dove vengono inscenati i nostri ripetitivi, immodificabili tornei ideologici domestici. La mente si fa casalinga e tutto, fuori casa, si tramuta in simbolo o terra ignota. La disputa sull'antiamericanismo fa di noi dei provinciali del pensiero, che corrono con occhi bendati in direzioni di cui non si vuol conoscere il senso. Gli eventi in cui ci imbattiamo son senza geografia, e la storia stessa assieme alla memoria si converte in trappola: non è qualcosa che scorre, che cambia, che obbliga a ripensare azioni e concetti. È fatta di alcune idee astratte, che vengono strappate al fluire fenomenico come accade per le immobili costruzioni mentali che sono le ipostasi. Le storie degli altri paesi e l'influenza che esse hanno sul loro modo di giudicarci non le vogliamo conoscere, quindi non le sappiamo capire né contrastare. Tutto ciò ha avuto effetti nefasti: il disastro in Iraq, l'impossibile pace mediorientale, l'incancrenirsi della missione afghana, il caos somalo sono il risultato di questa cecità e di questa monotona fissità delle menti e dei dibattiti.

Analogamente si può dire della base di Vicenza: la sola discriminante che conta sembra essere la fedeltà intima agli Stati Uniti, anche se un contratto perenne con gli Usa non esiste e se la storia è cambiata rispetto all'era della guerra fredda. La scomparsa dei fatti rende vani, quasi inaudibili, gli argomenti di chi prova a ragionare e osservare con freddezza. L'analisi di Sergio Romano ad esempio è come cadesse nel vuoto, anche se è difficilmente confutabile: «Oggi, dopo il crollo dell'Urss e dell'impero sovietico in Europa centro-orientale, le basi sono al servizio di una strategia politico-militare che l'Italia potrebbe non condividere. So che rappresentano per la gente del posto una fonte di reddito (...). Ma non credo che uno Stato sovrano abbia interesse a cedere una parte del proprio territorio per attività su cui, in ultima analisi, non può esercitare alcun controllo» (Corriere della Sera, 16 ottobre 2006). Discutere sulle basi potrebbe esser l'occasione per ridiscutere queste attività, e per meditare sulla dismisura di un'ambizione egemonica americana che i neoconservatori per primi hanno chiamato a suo tempo imperiale. Al momento attuale sono attività che stanno fallendo, in maniera gravissima perché Washington presenta le proprie guerre come globali, non locali e circoscritte nel tempo. In queste condizioni non è astruso interrogarsi sull'utilità delle basi, in Europa e in Italia. Naturalmente il ministro della Difesa Parisi ha motivi validi di preoccuparsi. C'è, in molte critiche italiane ed europee dell'America, un'abitudine alla passività e alla dipendenza strategica che rende irrealistica, perché poco praticabile, la difesa della sovranità cui si vorrebbe tendere: manca «un'adeguata cultura della difesa e della sicurezza», dice il ministro, senza la quale la sovranità è vuota parola. Quando ad esempio il presidente della Camera Bertinotti parla dell'Europa, invoca una cosa giusta: «L'Europa deve farsi più autonoma». Ma deve anche darsi una cultura della difesa, se si vuol ritrovare nell'Unione le sovranità nazionali perdute. L'autonomia come valore a sé stante è falsa libertà, nella vita come in politica. Lo stesso vale per l'Afghanistan: sono mesi che esperti e osservatori raccontano come la missione stia impantanandosi, se non naufragando. I talebani son tornati a esser padroni della metà sud-orientale del paese, hanno programmato per la primavera nuove offensive, e le truppe occidentali si sono dedicate molto più alla distruzione che alla ricostruzione, illudendosi di controllare l'Afghanistan come si illudevano i sovietici. La campagna di sradicamento dell'oppio non ha seminato che estrema povertà e ha spinto le popolazioni ad aggrapparsi ancor più ai talebani, come spiega l'ultimo rapporto del Senlis Council di dicembre. Ogni proposta di legalizzare la produzione dell'oppio (come accadde in passato in Turchia, quando si cominciò a produrre legalmente narcotici a fini medici) cade nel vuoto perché politicamente scorretta. Tenere lì i soldati è forse opportuno, ma egualmente opportuno è ridefinire la missione: sia dandole finalmente una durata precisa, sia riscrivendo i suoi compiti a cominciare dalla questione dell'oppio. Visto come sono andate le cose occorrerà negoziare un ordine nuovo anche con i talebani e le tribù Pashtun, e poco importa che sia Russo Spena di Rifondazione a dirlo. Non è il dito di Russo Spena che dovrebbe interessarci, ma le realtà afghane su cui il dito è puntato.

La disputa religiosa sull'antiamericanismo non è pratica, perché in situazioni di pericolo si rivela del tutto inutilizzabile. Bisogna che gli esperti, emarginati sistematicamente dopo l'11 settembre, tornino a svolgere il proprio ruolo e a parlare. Lo storico Rashid Khalidi, della Columbia University, racconta in un suo libro come orientalisti e arabisti sono stati estromessi e sprezzati, nel farsi della politica americana in Iraq, Afghanistan, Medio Oriente (Resurrecting Empire, Beacon Press 2005). Allo stesso modo non sono oggi ascoltati gli esperti di Somalia, dell'Iran, con effetti deleteri sulle politiche statunitensi e occidentali. Se ascoltassero un po' più orientalisti e africanisti, i politici avrebbero idee più chiare su quel che accade. In Somalia vedrebbero i risultati di un disastro annunciato: lo schieramento americano a fianco degli stessi signori della guerra da cui furono cacciati nel '93, e lo scombussolamento di un fragilissimo ordine che le corti islamiche avevano a loro modo restaurato a Mogadiscio, non democraticamente ma mettendo fine al caos sanguinario degli anni passati. Perfino i talebani stanno mutando, secondo il Senlis Council. Non mancano i terroristi, in Somalia come in Afghanistan, ma il caos creato dalle guerre americane li resuscita e li nutre. Gli orientalisti hanno sbagliato enormemente nel Novecento, ma non tanto quanto stanno sbagliando oggi politici e commentatori. Il fallimento delle strutture statuali, il failed state generatore di terrorismo, non è un danno collaterale delle guerre antiterroriste. Sta diventando il loro fulcro, la loro ragion d'essere. Le rovinose peripezie coloniali di Francia e Inghilterra sembrano ripetersi (fa impressione l'insistenza di Londra nell'errore) ma senza più disporre - come l'impero britannico nei primi del '900 - di un Arab Bureau e di un Lawrence d'Arabia.

Una leggenda circola da anni negli ambienti politici e economici: gli americani saranno anche ingombranti, però pagano l'affitto delle basi allo Stato italiano. Falso. Completamente. La verità è contenuta nel "2004 Statistical Compendium on Allied Contributions to the Common Defense", ultimo rapporto ufficiale reso noto dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Alla pagina "B-10" c'è la scheda che ci riguarda: vi si legge che il contributo annuale alla "difesa comune" versato dall'Italia agli Usa per le "spese di stazionamento" delle forze armate americane è pari a 366 milioni di dollari. Tre milioni, spiega il documento ufficiale, sono versati cash, mentre gli altri 363 milioni arrivano da una serie di facilitazioni che l'Italia concede all'alleato: si tratta (pagina II-5) di «affitti gratuiti, riduzioni fiscali varie e costi dei servizi ridotti». Ciò che le imprese del Nord-Est e del Meridione domandano da anni a Roma senza ottenerlo, gli Usa lo incassano in silenzio già da molti anni. È come se il padrone di casa, oltre a dare alloggio all'inquilino, gli girasse anche dei soldi. Nel caso delle basi americane, il 41 per cento dei costi totali di stazionamento sono a carico del governo italiano: il dato è riportato alla pagina B-10. Alla tabella di pagina E-4 sono invece messi a confronto gli alleati: più dell'Italia pagano solo Giappone e Germania, mentre persino la fidata Gran Bretagna è dopo di noi, si è limitata - nel 2004 - a contribuire con 238 milioni di dollari.

Una sorpresa la si ha mettendo a confronto i dati del 1999 e del 2004: si scopre che il Governo Berlusconi ha incrementato i pagamenti agli Usa, passando dal 37 per cento al 41 per cento dei costi totali sostenuti dalle forze armate ospiti.

Ma non basta. In base agli accordi bilaterali firmati da Italia e Usa nel 1995, se una base americana chiude, il nostro governo deve indennizzare gli alleati per le «migliorie» apportate al territorio. Gli Usa, per esempio, hanno deciso di lasciare la base per sommergibili nucleari di La Maddalena, in Sardegna: una commissione mista dovrà stabilire quanto valgono le «migliorie» e Roma provvederà a pagare. Con un ulteriore vincolo: se l'Italia intende usare in qualche modo il sito entro i primi tre anni dalla partenza degli americani, Washington riceverà un ulteriore rimborso.

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