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La sicurezza è un'emergenza mondiale ma il vero terrore è quello della vita quotidiana. Così in Louisiana (profondo sud degli States) stanno per introdurre una norma a tutela dell'incolumità stradale: chi sarà condannato per guida in stato d'ebbrezza dovrà tingere di verde la targa del proprio veicolo. Sarà immediatamente riconoscibile e gli altri potranno stargli alla larga. Se n'è fatta di strada da quando nella vecchia Europa un colore serviva a marchiare «devianze» religiose, sociali e politiche: in Occidente ha vinto la democrazia, seppur automobilistica.

Gli americani sono sempre un passo avanti, e per questo un modello. Tuttavia anche da noi si cerca di tenere il passo. Così, finalmente, la sicurezza non è più un tabù della sinistra, anzi diventa un suo valore assoluto. Suonerebbe inopportuno ricordare a una classe politica così intrisa di familismo (anche nelle ricadute professionali del termine) che, per esempio, l'80% delle violenze subite dalle donne non avvengono per strada a opera di «devianti» etnici o sociali, ma tra le mura domestiche per mano di parenti più o meno devoti del family day: sono sfumature marxian-strutturaliste cui non si fa più caso.

Concentramoci, invece, sulle misure per affrontare l'emergenza-sicurezza. E, allora, via dalle città rom sfaccendati e cinesi stakanovisti, controlliamo il tutto con le telecamere (Berlusconi ha insegnato la potenza politica dell'obiettivo tv) e arricchiamo il territorio con un bel po' di divise. Insomma, ogni cosa e ogni persona va messa al «suo» posto, naturalmente con tutte le garanzie che sono proprie delle nostre civiltà. Ne trarremo maggior tranquillità e stabilità. Curiosamente questo rilancio da sinistra sulla sicurezza avviene in contemporanea con il confronto tra le massime cariche istituzionali sul «funzionamento» della nostra democrazia: che - si denuncia - è troppo impacciata e lenta. Insomma, molto instabile e precaria nei suoi meccanismi, mettendo a rischio l'efficacia della politica e incrementando ulteriormente il «senso d'insicurezza» dei cittadini.

L'accostamento delle due «emergenze» non è in realtà casuale. Offre la declinazione che va per la maggiore di una parola abusatissima come democrazia, ed ecco l'indirizzo verso cui anelano le classi dirigenti per affrontare l'epocale crisi della rappresentanza: la democrazia ridotta a governabilità. Tutto ciò che rischia di turbarla non appartiene più alla politica, anzi la minaccia e, pertanto, non va rappresentato ma circoscritto, isolato, anestestizzato. Non importa che i rom siano dei cittadini europei, che i cinesi di Milano abbiano tassi di produttività da far impallidire la Fiat di Melfi, o che la Costituzione assegni al Parlamento e non al governo il potere legislativo. Quel che conta è la governance di un sistema considerato immutabile e cui, per ben funzionare, manca solo un po' di stabilità. Targhe colorate, «delocalizzazioni» di persone o premierati efficienti, è solo questione di longitudine.

Alessandro Dal Lago

Non ne posso più. Della «sicurezza»

Se non erriamo, tra i firmatari del patto sulla sicurezza c'è lo stesso on. Minniti che ieri ha avanzato sospetti di «terrorismo» sul sequestro dell'autobus di Alessandria. A Milano il patto prevede l'installazione di videocamere all'ingresso della città, nonché la dislocazione dei magazzini dei cinesi nell'hinterland e il pattugliamento rafforzato nelle zone a rischio. A Roma l'amministrazione Veltroni provvede allo sradicamento dei campi rom e si prende un po' di mesi di tempo per trovare altre aree in cui insediare i cittadini Ue nomadi. Il prefetto Serra coordinerà un'apposita task force. La Lega minaccia «passeggiate» in altri campi rom. In alcune città italiane, Forza nuova fa lavoro sociale nei quartieri aizzando i «proletari» contro gli stranieri. Nel frattempo, l'inchiesta sul clamoroso caso di pedofilia in provincia di Roma si è un po' sgonfiata. I procuratori chiedono l'incidente probatorio con partecipazione dei bambini e gli psicologi insorgono. Un anno fa, sotto casa mia, nei pittoreschi carrugi di Genova, una donna è stata sgozzata a notte fonda. L'opinione diffusa ha incolpato prontamente i «marocchini». Due ne sono stati arrestati e rilasciati poco dopo come estranei ai fatti. Dell'omicidio è stato accusato il fidanzato italiano della donna, che è ancora sotto inchiesta. Il luogo dell'uccisione era sorvegliato da telecamere, ma le registrazioni non permettono di capire molto. Mesi fa, un tunisino è stato accusato per una strage commessa da una coppia di normali cittadini lombardi. Settimane fa la lettera di un cittadino «che non ne può più» ha innescato su Repubblica un dibattito sui crimini degli stranieri. Tema di fondo: «anche a sinistra stiamo diventando razzisti?» Ma no, ha rassicurato tutti l'on. Veltroni, «chiedere più legalità non è di destra». Che dire? In quanto appartenente alla malfamata categoria dei sociologi e per di più «di sinistra», dovrei ripetere le cose che mi è capitato spesso di scrivere su queste pagine. In sintesi, due pesi e due misure, il ritorno trionfale, nell'attuale governo, di retoriche sicuritarie, la condizione terribile in cui si trovano i migranti, sospettati a prescindere, e così via. Ma anch'io «non ne posso più». E, allora, parlo come «cittadino». Non ne posso più del modo in cui la grande stampa indipendente - non solo Libero o Il giornale - usa la criminalità per eccitare i cittadini. Vedi caso del tunisino e vedi molte cronache sul caso di pedofilia. A quando una vera riflessione deontologica nei media sul trattamento giornalistico della criminalità, vera e soprattutto presunta? Non ne posso più dei «cittadini» di sinistra che si chiedono, opportunamente esaltati da rubriche giornalistiche, se stanno diventando razzisti. Tra parentesi, il cittadino che ha aperto il famoso dibattito di Repubblica cita, a conforto della sua angoscia, la cafoneria di «una donna di colore» che sull'autobus non avrebbe ceduto il posto a un anziano. Alle proteste del cittadino, la donna gli avrebbe sputato in faccia. Sì, se tutto è vero, la donna è stata una cafona, ma quando, parole del cittadino, lui «l'ha presa per un braccio e l'ha scaraventata giù dall'autobus», l'illegalità l'ha commessa lui. Non ne posso più di «patti per la sicurezza». Le telecamere servono ai produttori di telecamere. Quanto alla dislocazione forzata dei cinesi nell'hinterland e dei rom non si sa dove, ricordo che su analoghe deportazioni varie istituzioni europee hanno duramente criticato l'Italia (e a suo tempo, se non erro, Rutelli è stato condannato per un'iniziativa simile). Quanto all'efficacia delle misure speciali, task force ecc., beh, discutiamone tra un anno. Visto come sono andate le cose negli ultimi quindici anni, scommetto che saremo esattamente al punto di prima. Nel frattempo, il welfare state autoritario, che taglia su tutto ma non sulle spese per la sicurezza, si sarà rafforzato, con soddisfazione di apparati di pubblica sicurezza e produttori di divise, volanti e manganelli. E un buon numero di clandestini saranno finiti in galera o nei Cpt. Quando e se mai tutto si diraderà, allora potremo discutere seriamente di criminalità e fenomeni sociali connessi. Un contributo, però, lo voglio dare. Sembra che uno dei tre albanesi, il regolare incensurato, avesse perso il lavoro pochi giorni prima dell'atto «terroristico». Questo non vorrà dire proprio nulla?

Daniele Farina

E va bene, a sinistra parliamo di sicurezza

Immagino che nelle redazioni di molti quotidiani e dell'informazione radiotelevisiva la questione della sicurezza dei cittadini venga affrontata seguendo regole precise. Ai giornalisti vengono fornite alcune domande con le quali affrontare preventivamente qualunque fatto di cronaca. Del tipo: 1) Gli autori del reato hanno usufruito dell'indulto ? 2) Sono immigrati irregolari? 3) C'è di mezzo la droga? Se nessuna delle risposte è positiva la notizia tendenzialmente non interessa, anzi posso figurarmi il disappunto di taluni direttori. E' un modo ironico per dire che, sul tema, l'informazione sta facendo un pessimo lavoro, nocivo non tanto per la professionalità della categoria, quanto per quella condizione, la sicurezza, che si vorrebbe tutelare. In questo è evidente che politica e giornalismo vanno a braccetto: sono due tra i mestieri più antichi del mondo e hanno dunque un' intima conoscenza. Adesso che si è aperta la sfida politica su chi meglio tutela i cittadini, ogni evento, meglio se drammatico o, peggio, tragico, diventa il campo di una battaglia senza esclusione di colpi: è meglio il tandem Cofferati&Chiamparino o il trio Moratti-Gentilini-Landrù? Il fatto che su questo terreno si impantanino egualmente i cingolati del centrodestra e le armate del centrosinistra non interessa a nessuno. Impantanare significa, nel concreto, che nelle condizioni date qualunque ricetta o pozione è poco utile indipendentemente da chi la propone. La domanda fondamentale non compare mai: qual è la legislazione vigente e, soprattutto, è efficace? Dato che, in particolare, due terzi dei reati hanno una qualche connessione con le droghe e l'immigrazione una risposta sensata, magari di sinistra, sarebbe quella di mettere mano istantaneamente alle norme che regolano la materia. La Bossi-Fini sui migranti e la Fini- Giovanardi sugli stupefacenti sono i due fiori all'occhiello del passato governo e, sotto il profilo dei risultati, sono un'evidente catastrofe. Pure, dopo ogni evento, scorrendo la mole fluviale delle dichiarazioni politiche un accenno alla verifica non lo si scorge mai. Il dubbio che la legalità (l'insieme delle norme) e il suo effettivo esercizio siano tigri di carta non sfiora nessuno. Il sospetto che la legislazione stessa concorra a produrre il reato, e dunque criminali quanto vittime, non trova cittadinanza. L'esperienza nazionale ed estera - pensiamo alle sorti della ormai, fortunatamente desueta, tolleranza zero - è in costante dissolvenza. E allora? Allora servono paradigmi alternativi per la sicurezza dei cittadini che, sempre nel concreto, significano leggi ispirate da principi e dotate di strumenti completamente diversi dagli attuali. In una qualunque azienda a fine anno si fa il bilancio e su quello gli amministratori restano o vanno a casa. In politica i tempi possono essere più lunghi e lo Stato, nonostante i tentativi, non è ancora un'impresa commerciale, ma è intollerabile che i curatori di un tale fallimento continuino a imperversare, inquinino i dati, si ergano autorevolmente da pulpiti improvvisati quanto istituzionali. Sul campo dato, con gli strumenti dati, la partita è già perduta e spaventa che una parte dell'attuale maggioranza vi abbia piantato le tende. Vi sono tutte le condizioni e già i segnali per una involuzione delle libertà, dei diritti e dell'ordinamento, anche costituzionale, senza produrre sui problemi reali alcun risultato. Ma forse proprio quello delle politiche alternative può essere un pane, un contenuto, del soggetto a sinistra di cui largamente si parla. Anche perché non è affatto vero che «la sicurezza non è di destra né di sinistra»: o almeno il destra-centro-sinistra ha dimostrato di non produrla, forse noi, guardando avanti, invece sì.

Postilla

Legalità e sicurezza, law and order, stanno diventando un must di quell'intesa bipartisan i cui segnali serpeggiano ovunque? Si direbbe di si, a leggere i giornali. E' una strada pericolosa, che già su eddyburg si segnalò a proposito di Bologna (vedi ).

Non tutti sanno (ma ne hanno scritto Mike Davis e Paola Somma) che da oltre un decennio il Pentagono sta simulando, con insediamenti costruiti ex novo o con lo studio attento delle guerre in corso, la guerriglia urbana, poichè gli stateghi di Washington ipotizzano che la ribellione generata dall'ingiustizia sociale e dal propagarsi della provertà, di cui i grandi agglomerati urbani costituiscono gli scenari e gli incubatori più importanti, saranno i campi di battaglia della guerra futura. E' a questio che ci prepariamo anche nelle nostre città?

Continua lo sconcertante duello tra società politica e società civile che va avanti dai tempi in cui grandi sommovimenti avviarono la nascita di quella che viene chiamata Seconda Repubblica. Oggi si fronteggiano i fautori del referendum e i sostenitori della via parlamentare alla riforma elettorale. Si fronteggiano gli entusiasti di "una testa, un voto" e i prudenti conservatori di tradizionali prerogative dei partiti; la Piazza e il Palazzo (così diceva già Guicciardini); e tornano gli appelli alla democrazia diretta nelle nuove forme rese possibili dalle nuove tecnologie, con inquietanti cadute nel populismo.

Ma in questo panorama di vogliosa partecipazione "dal basso" vi è un illustre assente. Se è giusto invocare "il popolo delle primarie", perché ignorare, con poche eccezioni, il ben più corposo "popolo del referendum costituzionale", i quindici milioni e settecentomila cittadini che il 25 e 26 giugno dell’anno scorso respinsero la riforma costituzionale voluta dal centro-destra?

Politicamente si è trattato di un fatto di grandissimo rilievo. L’atto più significativo compiuto dalla passata maggioranza venne respinto, è il caso di dirlo, a furor di popolo. E, se è comprensibile che i perdenti vogliano cancellare quella vicenda, sconcerta la perdita di memoria di chi si oppose con successo a quel disegno, trovando tra gli elettori un consenso persino inatteso.

Oggi questa memoria è importante, perché le discussioni sulla democrazia partecipativa e sulla legge elettorale si intrecciano con quelle riguardanti l’assetto generale delle istituzioni. È ovvio che la voce dei cittadini in un sistema ancora fondato sulla democrazia parlamentare abbia accenti assai diversi da quelli che compaiono quando si guarda piuttosto ad una democrazia d’investitura, alla scelta diretta del Presidente del consiglio. E allora, per evitare che anche le aperture verso un accresciuto potere dei cittadini diventino una delle tante esercitazioni di ingegneria istituzionale che hanno fatto già troppi danni, è necessario rispondere almeno a tre domande: quale dovrebbe essere il rapporto tra partecipazione e rappresentanza? Quale può essere l’utilizzazione migliore delle nuove tecnologie? Quali politiche sono necessarie perché la presenza dei cittadini possa essere continua e incisiva?

L’enfasi su referendum, primarie, "una testa, un voto" si comprende se si guarda all’intollerabile deriva oligarchica che attanaglia da anni il nostro sistema, che ha prodotto un familismo politico sempre più avido di poteri grandi e piccoli, che ha consegnato ad un numero ristrettissimo di persone il potere di stabilire la composizione del Parlamento. È vero che l’ultima degenerazione è figlia di una riforma elettorale che ha sommato cancellazione dei collegi uninominali e assenza delle preferenze. Ma è pure vero che gli effetti negativi sarebbero stati almeno attenuati se la scelta degli eletti (non più dei candidati) fosse stata affidata a strutture partitiche aperte e trasparenti. Proprio a questo fine tendono le proposte di rivoluzionare la selezione dei gruppi dirigenti con una ventata di partecipazione che vada al di là di chi è già iscritto ai partiti.

Vi è, in questa ipotesi, la speranza di una rigenerazione prodotta dalla semplice presenza di un numero di persone incomparabilmente maggiore di quello delle oligarchie centrali e delle loro riproduzioni locali. Ricordiamo, però, come venne sterilizzato il popolo delle primarie: nessuna oligarchia muore senza combattere. E un rinnovamento della democrazia dei partiti non può avvenire senza mettere in qualche modo in discussione la personalizzazione estrema della politica e senza una legge elettorale che affronti la questione della rappresentanza.

Siamo di fronte a due riduzionismi: il concentrarsi ossessivo dell’attenzione sulla sola investitura del leader; la considerazione del momento elettorale solo come scelta del governo, respingendo sullo sfondo la scelta da parte dei cittadini dei loro rappresentanti. Non è un vizio nuovo. Così, negli anni, è stata mortificata la politica, consegnata sempre più povera nelle mani di pochi. Di questo non vi è consapevolezza. A dispetto del risultato del referendum costituzionale si continua a proporre, in modo sfacciatamente palese o mascherato, la scelta diretta del capo del Governo: esattamente quello che il referendum aveva bocciato. Come parlare, allora, di attenzione per la volontà dei cittadini? E si insiste su un referendum elettorale che favorirebbe il permanere delle oligarchie, poiché obbligherebbe a coalizioni solo elettorali e manterrebbe le liste bloccate.

Si obietta che quel referendum è uno stimolo senza il quale nessuna riforma elettorale sarebbe possibile. Molti vivono di rendita su questo argomento, che sembra aver cancellato l’obbligo di riflettere su quel che davvero è avvenuto nel sistema politico italiano da una quindicina d’anni a questa parte. Si inneggia al bipolarismo come valore in sé, con una forma di idolatria istituzionale che non fa bene a nessuno e che preclude la possibilità di ammettere che si è creato un bipolarismo distruttivo, che ha favorito e continua a favorire fenomeni degenerativi gravi. Proprio i fautori del bipolarismo dovrebbero essere i primi a chiedere che di ciò si discuta, per evitare che si ricorra ancora alle ricette vecchie, che contrastano proprio le esigenze di rinnovamento. La democrazia d’investitura e la personalizzazione esasperata producono derive populistiche, che qualcuno potrà anche scambiare per allargamento della partecipazione, ma che in concreto finirebbero con il soffocare la nuova distribuzione del potere sociale e politico perseguita dai sostenitori di una più larga presenza dei cittadini.

La scissione tra partecipazione e rappresentanza sta già producendo uno spostamento della capacità rappresentativa verso modalità e luoghi che mettono in discussione non le forme invecchiate della democrazia rappresentativa, ma la stessa logica democratica. Si parla di un "neomedievalismo istituzionale" che, in un mondo ormai senza più centro, fa emergere la realtà di grandi coalizioni d’interessi, soprattutto economici, che s’impadroniscono del reale potere di governo, utilizzando potentemente anche le nuove tecnologie. Lo stesso accade nella dimensione nazionale, dove la capacità rappresentativa abbandona i parlamenti, s’incarna nelle più diverse corporazioni, ci offre l’immagine di una società a suo modo feudale. Post-democrazia o congedo dalla democrazia?

L’insistenza sulla partecipazione non può essere disgiunta da un ripensamento della rappresentanza che tenga conto proprio del fatto che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno già trasformato la democrazia, l’hanno fatta divenire "continua", hanno così cambiato il senso dello stesso momento elettorale. Conosciamo i rischi che accompagnano questo modo d’organizzarsi della società: la trasformazione dei cittadini in "carne da sondaggio"; l’illusione della sovranità generata dalla possibilità di consultazioni ripetute, dove però i cittadini compaiono solo alla fine di un processo decisionale al quale sono rimasti estranei; l’utilizzazione delle opportunità tecnologiche per creare nicchie propizie ai telepredicatori, a gruppi che si autolegittimano e si sottraggono a qualsiasi forma di controllo democratico. Tutte derive plebiscitarie, che aumentano il tasso di autoritarismo del sistema politico dando l’apparenza della partecipazione.

Le tecnologie devono consentire il diffondersi del potere dei cittadini sull’insieme dei processi politico-istituzionali, così riguadagnati alla logica della democrazia. Questo vuol dire dotare tutti di strumenti che consentano la conoscenza, la valutazione critica, il controllo, l’elaborazione autonoma di proposte e strategie, sottraendosi all’ingannevole logica dei "referendum elettronici" e trovando nuove forme di integrazione con l’attività dei parlamenti. Questa è la strada, che molti già cominciano a percorrere, di una nuova cittadinanza, in cui l’accesso alla conoscenza diventa pure lo strumento per rimuovere il pregiudizio dell’incapacità dei cittadini a dire la loro su molte materie, come avvenne al tempo del referendum sulla procreazione assistita, quando l’affermare che si trattava di materie ostiche, riservate agli specialisti, fu un’arma potente per indurre all’astensionismo.

Seguendo questa strada la contrapposizione tra società civile e società politica si libera di molte tra le ambiguità che l’accompagnano. E si può aprire la possibilità concreta di disegnare una nuova sfera pubblica, affrancata dalle pretese autoritarie ed oligarchiche che continuano a manifestarsi.

Più del manifesto col papà, la mamma, il bambino e l'embrione, è la gigantesca torta nuziale a cinque piani vestita di tulle, tre metri di altezza per uno e mezzo di larghezza, l'imperituro simbolo carnevalesco del Family Day del 12 maggio 2007. Foto di famiglia dal giorno più bello, quello in cui gli sposi convolano e tutto intorno, i parenti gli amici gli addobbi, si veste di sfarzo e ostenta quel che può come può, a costo di indebitarsi per anni e di mentire per sempre. Ma sarebbe un errore fatale ridere del carnevale, della torta, delle allegre combriccole di genitori nonni e figli convenuti dal monte e dal piano, delle magliette che danno del talebano a Prodi. La verità, meno risibile, del Family Day la restituiscono i suoi portavoce ufficiali, Savino Pezzotta e Eugenia Roccella. «Un gesto profetico di popolo», si era augurato alla vigilia lui. «Il luogo del senso comune che si contrappone ai luoghi comuni», sintetizza a festa finita lei.

I luoghi comuni contro cui la massa familista milita sono il pluralismo dei valori, la laicità dello stato, la legittimità dei diritti. Tradotti nella lingua di Piazza San Giovanni, diventano relativismo etico, confusione fra bene e male, minacce all'ordine naturale: perché, signora mia, non se ne può più di questo casino, non ci si capisce più nulla, non si sa più dov'è la verità, bisogna difendere la vita, e mica possiamo essere uguali ai gay e alle lesbiche. C'è molta omofobia a segnare il confine fra amici e nemici; ma c'è anche, e fa altrettanto schifo, un forte senso proprietario - la «mia» famiglia, guai a chi la tocca -, e una prepotente voglia di mostrare che la famiglia regolamentare, quella che c'è sempre stata e sempre ci sarà, è più forte e potente della famiglia in divenire, e sa ben presidiare il suo superiore perimetro.

Il senso comune di Piazza San Giovanni è dunque più precisamente un senso comune reazionario di massa, che si nutre delle pillole di sapienza elaborate nei piani alti delle gerarchie vaticane e teocon, divulgate nel salotto di Porta a porta e diffuse porta a porta dalle parrocchie. Ed è questo il senso comune che la politica italiana si contende appassionatamente, senza fatica in un centrodestra che ne è organicamente infarcito, al prezzo di estenuanti rotture e mediazioni in un centrosinistra che gioca a esserci o non esserci (Rutelli e D'Alema), a mettere in comunicazione l'incomunicabile (Fassino), a non regalare tanta grazia di popolo alla destra (Chiti), a ribadire il carattere privato della religione di fronte al suo inarrestabile uso pubblico (Prodi). Senza nessuna arma culturale di contrasto dell'ideologia globale teletrasmessa da Ratzinger dal Brasile, e senza avere più niente da salvare di quel 12 maggio 1974 che in Piazza Navona si tenta di rievocare.

Il «luogo del senso comune» ha parlato contro i Dico, il parlamento ascolterà, garantisce il presidente della Margherita. Il Partito democratico nasce democristiano, mentre Andreotti partecipa alla prima manifestazione della sua vita e si pente e si duole per aver firmato, secoli fa, la legge sull'aborto.

È dal 1994 che la disciplina del conflitto di interessi passa e ripassa in Parlamento sempre ripetendo gli stessi argomenti, e per lo più le stesse stupidaggini. In materia la dose di stupidaggini è particolarmente elevata perché questa è la battaglia che più preme a Berlusconi. Così qualsiasi argomento, non importa quanto sballato, viene gettato nella mischia. E tanto meglio se fa soltanto confusione.

L'esito è stato che il governo di centrosinistra non arrivò a nulla, mentre il successivo governo Berlusconi ha varato una legge Frattini che, vedi caso, rendeva praticamente intoccabile Sua Emittenza. Era pertanto inevitabile che i beffati dalla legge Frattini riaprissero il problema. Ed eccoci qua. Il disegno di legge che propone una nuova disciplina intesa a disciplinare davvero il conflitto di interessi è stata varata in Commissione ieri e andrà in Aula, alla Camera, il 15 maggio. Invece di commentare un testo ancora incerto e modificabile sarà più utile ricordare quali sono i nodi fondamentali del dibattito.

Il primo è se il blind trust, l'affidamento cieco del patrimonio a un gestore indipendente, risolva il problema. La risposta è indubbia: per i pesci piccoli e soprattutto per un portafoglio differenziato di titoli, sì; ma per le balene e i beni visibili, no. Persino Frattini lo riconosce: un affidamento «cieco» presuppone un patrimonio di titoli che il gestore può cambiare, e così rendere invisibili e ignoti al proprietario; ma non può accecare beni visibili che restino tali. Eppure, e stranamente, il progetto continua a puntare sul blind trust. A quanto pare i nostri legislatori non solo non hanno tempo di leggere libri e giornali, ma nemmeno di leggersi tra di loro.

Secondo nodo: se il conflitto di interessi sia meglio impedito dall'ineleggibilità o dall'incompatibilità. Stranamente l'ultima versione di questo dibattito è che la sanzione più grave, o più risolutiva, sia la non-eleggibilità. Sarebbe così se si precisasse ineleggibilità «a cariche di governo». Ma se non si precisa così, allora la privazione dell'elettorato passivo lascia il tempo che trova. Nel nostro ordinamento non occorre che un presidente del Consiglio o un ministro siano parlamentari. Vedi il caso del primo governo Amato e del governo Ciampi. Questa precisazione elementare è stata fatta centinaia di volte. Pertanto dovrebbe essere chiaro che il problema è di incompatibilità. Ma da noi si direbbe che non c'è mai nulla di chiaro su nulla.

Terzo nodo: se l'esempio da seguire sia il modello Usa, e quale sia questo modello. A questo proposito la tesi dei Berlusconi boys, Frattini in testa, è che nemmeno negli Stati Uniti nessuno è mai obbligato a vendere (se dichiarato in conflitto di interessi). Ma non è così. È vero che i vari ethics board americani incaricati di accertare i conflitti di interesse non impongono nessuna vendita, ma impongono che l'interessato faccia una scelta tra patrimonio e carica politica. Pertanto se un Berlusconcino americano sceglie la politica, allora deve vendere. Se non lo fa, allora è costretto a dimettersi.

Dicevo che il dibattito sul conflitto di interessi è monotono. Mi correggo, una novità c'è: è l'introduzione del mammismo (o forse dovrei dire del «babbismo»). L'altro giorno Berlusconi ha detto: «Vorrebbero che affidassi il mio patrimonio a uno sconosciuto. Nessuno lo può chiedere a una persona che come me ha cinque figli». Poverini. Quasi quasi mi commuovo anch'io.

Quanto pesa una parola. Quali calibri usare e su quali bilance misurarla. Domande che come febbri tropicali tormentano ogni particella di chi si avvicina da scrittore o da lettore alla letteratura. La prima volta che capii il potere della parola ero ragazzino, bande di bambini in bicicletta sulle ormai rottamate BMX scorrazzavano per i paesini dell'entroterra campano, raggiungevano i centri vicini e insultavano chiunque, sputacchiavano su tutti, signore, ragazzini, vecchi. Una volta un gruppetto si ribellò alle vessazioni e iniziò a correre verso i piccoli teppisti in bici, ma bastò solo una sola frase di questi: "Siamo di Casal di Principe" per fermare chiunque, terrorizzato. Come se si stesse giocando a "Un, due, tre, stella!", quando chi è "sotto" si gira e tutti devono fermarsi come pietre, e chi si muove perde. Allo stesso modo bastava pronunciare l´origine, il provenire da una realtà così ferocemente criminale da innescare immaginazioni mitiche così tragiche che faceva d´improvviso temere anche dei gracili ragazzini dalla faccia scura.

Da allora la potenza della parola non ha smesso di affascinarmi. La letteratura è un atleta, scriveva Majakovskij, e l´immagine di parole che scavalcano oltre la coltre d´ogni cosa, che superano ostacoli e combattono mi appassiona abbastanza. Il peso specifico della parola letteraria è determinato dalla presenza della scrittura nella carne del mondo o dall'assenza di carne, invece, per alcuni. Una volta Thomas Mann e Ignazio Silone si trovarono a discutere in Svizzera sul metro di paragone in base al quale giudicare i diversi sistemi politici. Silone rispose: "Senza dubbio: basta determinare qual è il posto che è stato riservato all´opposizione". Mann invece: "No, la verifica suprema è il posto che è stato riservato all'arte ed agli artisti".

Nelle lunghe discussioni con Vincenzo Consolo, Goffredo Fofi, Corrado Stajano, ho appreso che la necessità prima dell'intellettuale è presenziare al dolore umano, mantenersi sentinella della libertà umana, non delegare mai ad altro il proprio imperativo di difesa della dignità umana. Non all'interno di una sorta di nuova ideologia ma come unica capacità di fare del talento, della scrittura, necessità: «Esiste la bellezza e l´inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi», scrive Albert Camus. Fedele alla bellezza e all'inferno dei viventi, è il canone estetico che preferisco. La scrittura letteraria è labirintica, multiforme, non credo possano esserci strade univoche, ma quelle su cui credo debbano posare i miei piedi le riconosco. Primo Levi, in polemica con Giorgio Manganelli che rivendicava la possibilità di scrivere oscuro, affermò che "scrivere oscuro è immorale". Quando Philip Roth dichiara che dopo “Se questo è un uomo” nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz. Non di non sapere dell'esistenza di Auschwitz. Ma non si può più dire di non essere stati in fila fuori ad una camera a gas.

Questa la potenza di quelle pagine. Libri che non sono testimonianze, reportage, non sono dimostrazioni. Ma portano il lettore nel loro stesso territorio, permettono di essere carne nella carne. In qualche modo questa è la differenza reale tra ciò che è cronaca e ciò che è letteratura. Non l'argomento, neanche lo stile, ma questa possibilità di creare parole che non comunicano ma esprimono, in grado di sussurrare o urlare, di mettere sottopelle al lettore che ciò che si sta leggendo lo riguarda. Non è la Cecenia, non è Saigon, non è Dachau, ma è il proprio luogo, e quelle storie sono le proprie storie. Ed il rischio per gli scrittori non è mai di aver svelato quel segreto, di aver scoperto chissà quale verità nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene. Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Anna Politkovskaja hanno avuto in modalità fortemente diverse la responsabilità di fare delle storie che raccontavano vicende riguardanti ogni essere umano e non più circoscritte alla geografia di un territorio. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto. Può arrivare ovunque attraverso una parola che non trasporta soltanto l´informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, smentita, ma trasporta qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare.

Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano che la scrive. La forza letteraria continua ad essere questa sua incapacità a ridursi ad una dimensione, ad essere soltanto qualcosa, sia essa notizia, informazione o sensazione, piacere, emozione. Questa sua fruibilità la rende in grado di andare oltre ogni limite, di superare le comunità scientifiche, gli addetti ai lavori, e di andare nel tempo quotidiano di chiunque, divenendo strumento ingovernabile e capace di forzare ogni maglia possibile. La potenza stessa che faceva temere di più ai governi sovietici Boris Pasternak e Il dottor Zivago e I Racconti di Kolyma di Salamov che gli investimenti del controspionaggio della Cia. Mentre i saggisti venivano isolati, relegati in riviste accademiche, lasciati sfogare, gli scrittori dovevano essere eliminati, le pagine nascoste, le parole rese cieche e mute.

Quando mi capita di ascoltare le litanie sulla vacuità della scrittura, o quando io stesso mi lascio convincere dal vizio della letteratura come palestra per onanisti con poco talento per la vita, penso sempre alla figura di Kostylev, personaggio del libro di Gustaw Herling Un mondo a parte, un libro per anni marginalizzato e boicottato. Kostylev era stato un uomo che aveva dedicato la sua vita alla causa bolscevica. Poi iniziò a leggere Balzac, Stendhal, Constant e trovò in quei testi "un´aria diversa, mi sentivo come un uomo che, senza saperlo, era stato soffocato tutta la vita". Kostylev abbandonò il lavoro di partito, concesse tutto il suo tempo alla lettura desideroso di conoscere le verità che gli erano state nascoste. I libri stranieri che si procurava clandestinamente lo fecero arrestare. La polizia segreta lo accusò d´essere una spia e torturandolo fu costretto a confessare la mendace accusa. Kostylev si ustionava di sua volontà il suo braccio esponendolo alle fiamme vive, preferiva avere un braccio piagato e gonfio, piuttosto che lavorare per i suoi carcerieri. Nella baracca dove, esentato dal lavoro, passava le giornate, non c´era attimo in cui non leggesse libri. La lettura che gli aveva cambiato l´esistenza portandolo nei campi di lavoro, continuò ad essere la maggiore espressione della sua umanità in quel girone infernale.

Non mi interessa la letteratura come vizio, non mi interessa la letteratura come debole pensiero, non mi riguardano belle storie incapaci di mettere le mani nel sangue del mio tempo, e di non fissare in volto il marciume della politica e il tanfo degli affari. Esiste una letteratura diversa, può avere grandi qualità e riscuotere numerosi consensi. Ma non mi riguarda. Ho in mente la frase di Graham Green: «Non so cosa andrò a scrivere ma per me vale soltanto scrivere cose che contano». Cercare di capire i meccanismi. I congegni del potere, del nostro tempo, i bulloni della metafisica dei costumi. Tutto diventa materia. Danaro, taglio della coca, transazioni, assessori, documenti, uccisioni, proclami, preti e capizona. Tutto è coro e materia, con registri diversi. Senza il terrore di scrivere al di fuori dei perimetri letterari, prescegliendo dati, indirizzi, percentuali e armamentari, contaminando con ogni cosa.

Se devo scrivere devo farlo in emergenza, dove le bestemmie sono più sincere delle preghiere. E dove la realtà ha slabbrature maggiormente in grado di mostrare verità. Il rap in Europa sembra essere anni luce più avanti della letteratura nella capacità di fare della parola parte della carne del presente, rapper parigini che si trasferiscono a Napoli per raccontare il mediterraneo, filippini e gallaratesi che si lanciano in slang comuni e codificano nuovi sguardi, foggiando nuove grammatiche del racconto. E narrano di un mondo dove tutto è meccanismo di potere, danaro, affermazione, dove la politica è sempre tradimento e dove la parola è il discrimine capace di raccontare tutto questo senza negarlo, senza considerarlo inevitabile ma sentendo necessaria la bellezza di narrarlo e di corroderlo. Con le parole e con i succhi gastrici.

Molta scrittura invece sembra fare tarantelle intorno alle questioni centrali del nostro vivere. Tutto sommato non mi interessa far evadere il lettore. Mi interessa invaderlo. E mi interessa la letteratura più simile al morso di vipera che ad un acquarello di fantasie. Arrovellarsi sui territori delle definizioni di ciò che è letterario e di ciò che non lo è, tra combattimenti di accademici e filologi, ruzzolando nell´aia degli scrittori, può essere un´attività infinita senza soluzione alcuna. Una risposta credo risolutiva la diede l´autore del Viaggio al termine della notte e di Morte a credito. Una giovane giornalista andò a trovare un ormai vecchio, isolato e sempre più accidioso Louis Ferdinand Céline. Andò a Meudon, a pochi chilometri da Parigi, dove lo scrittore si era rintanato con sua moglie e i suoi animali. La giornalista dopo le solite domande di circostanza trovò il coraggio e gli chiese, quasi come se stesse pretendendo che lo scrittore gli svelasse il segreto del suo mestiere: «Ma quanti modi ci sono di fare letteratura?». Céline rispose, secco senza titubare: «Ci sono solo due modi di fare letteratura». La giornalista così si aspettava lo scibile umano delle lettere divise in due correnti e Céline diede la sue sintesi insuperabile: «Fare letteratura o costruire spilli per inculare le mosche».

Il lungomare di Reggio Calabria è per il viaggiatore uno dei luoghi più fiabeschi d´Europa, ma per i calabresi era soprattutto un simbolo, la speranza e oggi la nostalgia di un futuro possibile. L´aveva voluto Italo Falcomatà, l´amatissimo sindaco stroncato dalla leucemia nel 2001, protagonista della «primavera reggina», otto anni in cui il sogno di una Reggio liberata dal malaffare sembrava a portata di mano. Ed era invece un´altra Fata Morgana.Tramontato il sogno di Falcomatà, ora regna la pace mafiosa.

La giunta della restaurazione, guidata dal sindaco di An, Peppe Scopelliti, ha disseminato il «lungomare Falcomatà» di altri simboli. Per primo è sorto il monumento alla massoneria. Nella versione originale c´erano il compasso e il cappuccio, poi spariti «per le solite mene dell'opposizione». Ma così monco e allusivo, il monumento risulta ancor più massone. Cento metri a destra e cento a sinistra, nei punti di maggior passaggio cittadino, si levano due inni di pietra al neofascismo. Il monumento ai «caduti del 1970», i camerati del «boia chi molla» e l´anfiteatro dedicato al capo della rivolta, Ciccio Franco. E chi vuol capire, capisca.

Nella colossale sede della Regione, costata un po´ meno di una piramide, il presidente Agazio Loiero promette: «Con i dodici miliardi di euro in arrivo dall´Europa, nei prossimi cinque anni possiamo cambiare faccia alla Calabria». Qualcuno potrebbe obiettare che, prima, bisognerebbe cambiare qualche faccia in Regione, con trenta consiglieri inquisiti su cinquanta. Ma in Calabria le facce destinate a cambiare sono piuttosto altre, quelle degli onesti. I commercianti che si ribellano al pizzo e sono costretti alla vera latitanza, i talenti avviati all´emigrazione e i magistrati dotati di un eccesso d´iniziativa. L´ultimo è Luigi De Magistris, della procura di Catanzaro, titolare della mega inchiesta Poseidone sugli intrecci fra politica, massoneria e malavita, con un centinaio di nomi illustri nel registro degli indagati, dal segretario Udc Cesa all´ex presidente della Regione, Giuseppe Chiaravalloti, al senatore Giancarlo Pittelli, entrambi di Forza Italia. Ha appena fatto condannare a sette anni per truffa il capogruppo regionale della Margherita, Enzo Sculco. Per queste ragioni, o se si preferisce crederlo «per vizio di forma», l´inchiesta gli è appena stata tolta. L´avessero fatto con la simpatica Vallettopoli potentina di Woodcock, sarebbe insorta la società tele-civile. Ma la Calabria, nel bene e nel male, non fa notizia. Il bavaglio alla magistratura è la regola. Sei anni fa, il pool antimafia reggino di Salvatore Boemi, che aveva indagato su 64 cosche e portato a 400 ergastoli, fu smantellato pezzo per pezzo, con i magistrati distaccati sul «fronte della guerra al terrorismo islamico», e non uscì un articolo di giornale.

La minaccia di Al Qaeda, nelle strade di Reggio, non sembra così incombente. In compenso il controllo mafioso è più asfissiante che nella Palermo degli anni Ottanta. Non serve chiedere chi comanda in città. La mafia più ricca del mondo domina senza oppositori la regione più povera d'Europa. Si legge in «Fratelli di sangue», grande inchiesta sulla ‘ndrangheta firmata dal magistrato Nicola Gratteri e dallo scrittore Antonio Nicaso: «Nel rapporto tra affiliati ai clan e popolazione, la densità criminale in Calabria è pari al 27 per cento, contro il 12 della Campania, il 10 della Sicilia, il 2 della Puglia». A Reggio Calabria siamo al 50 per cento, significa che una persona su due è coinvolta, a vario titolo, in attività criminali.

La ‘ndrangheta era fino a quindici o vent´anni fa ancora una mafia rurale, specialista nei sequestri di persona. Oggi controlla 40 miliardi di euro all´anno, il 3,5 per cento del Pil italiano (Eurispes) e quasi tutta la cocaina d´Europa, possiede quartieri di città a Bruxelles e Toronto, a San Pietroburgo come ad Adelaide, da Reggio ad Aosta; siede nei consigli d´amministrazione d´innumerevoli multinazionali. Secondo la polizia tedesca, è il principale investitore italiano nella Borsa di Francoforte e controlla una quota rilevante del colosso energetico russo Gazprom. In una intercettazione del ‘96 uno dei Piromalli, i boss della piana di Gioia Tauro, confidava: «Abbiamo il passato, il presente e il futuro».

Sul futuro, con molto ottimismo, si può coltivare una pallida speranza, ma sul passato e ancora di più sul presente, non vi sono dubbi. Al colosso nero della ‘ndrangheta lo Stato spara con fucilini giocattolo. L'antimafia di Reggio è un ufficio semi vuoto. In procura Salvatore Boemi, tornato da poco in fondo a sei anni di esilio, cerca di ricostruire brandelli di pool. In questura non hanno la benzina per le auto. L´assassinio di Francesco Fortugno, il 16 ottobre 2005 davanti al seggio delle primarie di Locri, ha per un po´ scosso il tradizionale menefreghismo nazionale nei confronti della tragedia calabrese. Ma sotto processo sono finiti soltanto un pugno di sicari.

Come si campa a ‘Ndranghetopoli e dintorni? Bastano tre o quattro tappe di una giornata qualsiasi per afferrare il concetto. Il mafia tour può cominciare la mattina a Gioia Tauro con un piccolo esperimento. Sedetevi al tavolino dell'ottima gelateria in piazza e provate a vedere se in un paio d'ore, in una città col trenta per cento di disoccupati e il salario medio di 600 euro, passa qualcosa di più piccolo di una Mercedes. E´ consigliabile anche un breve giro della «zona industriale» della piana, segnalata dai cartelli. Capannoni industriali a perdita d´occhio, come nel laborioso Nord Est. Questi però sono vuoti, scatoloni d´aria. Le cosche hanno preso i fondi europei e sono sparite nel nulla. Nessuno indaga, nessuno ficca il naso.

A Reggio trascorro un pomeriggio a volantinare per «Libera», l´associazione antimafia di don Ciotti, con Mimmo Nasone, il responsabile locale. Sullo struscio di corso Garibaldi la gente ha di colpo fretta. Un centinaio di persone prendono il foglio senza guardare: «I veri mafiosi sono i politici, lo Stato», spiegano. Quattro o cinque giovani, perlopiù eleganti e quasi cortesi, lo dicono chiaro: «Io sono della ‘ndrangheta». Uno prende il volantino ridendo e saluta: «Buon vespero, saggi compagni». La formula d´iniziazione degli affiliati. Una studentessa risponde malinconica: «Non è più un mio problema, io il mese prossimo me ne vado».

Non è giusto dire che i calabresi sono stati lasciati soli a combattere, ma a volte viene da pensare che sarebbe stato meglio. Gli aiuti di Stato hanno aiutato soltanto la ‘ndrangheta. I due grandi poli industriali pubblici di Reggio sono serviti a consegnare la città in mano alle cosche, fino ad allora confinate nelle campagne e sull´Aspromonte. La prima fortuna del più potente boss del reggino, Natale Iamonte, si chiama Liquichimica. Il gigantesco impianto per produrre mangimi dai derivati del petrolio avrebbe dovuto creare decine di migliaia di posti lavoro ma ha prodotto soltanto, ricorda Giuseppe Bova, presidente diessino del consiglio regionale, «la più lunga cassa integrazione della Calabria, ventitrè anni». La fabbrica non ha aperto un solo giorno dal 1977 perché era costruita su terreno franoso, come per anni si è ostinato a segnalare il direttore del Genio Civile di Reggio, poi scomparso in uno strano incidente stradale. Di chi fossero i terreni non s´è mai capito ma nel frattempo Iamonte è passato da macellaio a miliardario. Lo stesso Iamonte ha controllato gli appalti delle Grandi Officine Riparazioni delle ferrovie di Stato, l´altra fabbrica di Reggio, al centro di un groviglio d´interessi che portò all´omicidio del parlamentare Ludovico Ligato, davanti alla sua villetta con vista mare. Il terzo grande affare delle cosche avrebbe dovuto essere il mitico Ponte sullo Stretto, con i piloni ben piantati sulle proprietà della ‘ndrangheta. Ma l´affare è saltato soprattutto per la fiera opposizione di un gruppo di reggini onesti, guidati dal professor Alessandro Bianchi, ora impegnato da ministro dei trasporti in altre due scommesse: «Usare i quattro miliardi risparmiati sul ponte per rendere civili i trasporti fra Salerno e Reggio e bonificare dalla criminalità il porto di Gioia Tauro, l´unica speranza della Calabria». Gioia è il secondo porto d´Italia dopo Genova, con la previsione di quadruplicare il traffico nel prossimo decennio. Ma gli investitori stranieri, giapponesi e cinesi in testa, vogliono garanzie nella lotta alla criminalità ed è paradossale che l´antimafia in Calabria riceva più impulsi da Tokyo e Pechino che da Roma.

Eppure perfino a Reggio la vita sa essere dolce. La città non è bella ma piacevole, calda e luminosa, pulita, aperta dal lungomare, con i pub brulicanti di movida notturna e le ragazze libere di girare da sole alle tre di notte. Il sindaco Scopelliti, ammiratore di Briatore, ha profuso risorse in eventi, feste, festival, passerelle di vipperia nazionale. Anche troppe. Come i 120 mila euro pagati a Lele Mora per far passeggiare sul corso della notte bianca Valeria Marini e il Costantino del Grande Fratello. Perfino un rispettabile fascistone come l´ex senatore Msi Renato Meduri, braccio destro di Ciccio Franco, con in casa la sabbia di El Alamein e i busti del Duce, finisce per rimpiangere il comunista Falcomatà «l´ultimo poeta della politica». Ma intanto ai reggini piace e lo sfidante di centrosinistra, il medico Lamberti Castronuovo, arranca nei sondaggi.

A Reggio regna una calma ai confini con la disperazione. In città non si spara un colpo dall'omicidio del magistrato Antonio Scopelliti nel ‘91, atto finale di una guerra di mafia con seicento morti, agguati in pieno centro con bazooka e kalashnikov. Nel 2006 non c´è stata una denuncia di «pizzo» e il telefono anti-usura tace da sempre. La pace mafiosa avvolge, rassicura, coccola il consenso. «La ‘ndrangheta è la mafia perfetta» ammettono i magistrati a palazzo di giustizia. «Mantiene l´ordine, non fa morti e ha eliminato il concetto stesso di vittima. In nome di chi possiamo agire?».

Già, chi è la vittima. I tossici? Ma di coca non si muore come di eroina. In periferia ne trovi di ottima a dieci euro la bustina, il costo di una pizza e una birra, e i drogati sono clienti soddisfatti. Le vittime dell'usura? «Consideri che i tassi praticati sono inferiori a quelli bancari» mi avverte un maresciallo. Allora i commercianti strangolati dal pizzo? Tutti pagano, nessuno ammette. A notte fonda, nel locale ormai deserto, un ristoratore mi confida: «Sì, pago il pizzo. Pago anche le tasse, più o meno, e che cosa ricevo in cambio? Lo Stato non mi garantisce la sicurezza. I trasporti fanno schifo. Se si ammala mio figlio prendo l´aereo e vado a Bologna, perché all'ospedale l'altra volta mi sono dovuto portare lenzuola e medicinali. Poi pago il pizzo, certo, ma nel mio locale non entra un mendicante, la finanza non fa controlli e se mi rubano l´auto me la fanno ritrovare il giorno dopo sotto casa. Per il servizio che offrono, non sono neppure cari. L´alternativa? La fine di Masciari». Pino Masciari, imprenditore edile di Vibo, anni fa ha denunciato il pizzo e fatto arrestare decine di malavitosi. Gli hanno fatto saltare la sede. Il resto lo hanno fatto le banche, con la revoca del credito: «cliente a rischio». E´ fallito per ventimila euro, quando aveva cantieri per tre milioni. Ora vive al Nord senza scorta e senza soldi, tolti entrambi dal governo Berlusconi. Nella primavera scorsa è tornato a Vibo, da solo, per votare alle elezioni politiche. Ai cronisti allibiti ha detto: «Non mi possono fare nulla, mi hanno già ammazzato». Soltanto don Ciotti l'ha convinto a non tornare.

Luigi Ciotti a Reggio è di casa, festeggiato come un liberatore, ma non è il tipo da far sconti. Alla giornata della memoria di Polistena, il 20 marzo, ha esordito con durezza: «Il problema in Calabria non è la ‘ndrangheta, non sono i politici. Il problema siamo noi». Noi società, civile o no, «rassegnata a chiedere per favore quanto ci spetta di diritto». La platea ha applaudito, una folla di migliaia di studenti da ogni parte d´Italia, Firenze e Torino, Palermo e Lecce. Da Reggio, quasi nessuno, Presidi e professori hanno declinato l´invito, qualcuno ha fatto sapere agli studenti che la presenza a Polistena avrebbe costituito «assenza ingiustificata». La ‘ndrangheta, che controlla tutto, ora s´è messa in testa di controllare anche l´antimafia. Infiltra affiliati nelle associazioni, costituisce cooperative per farsi riassegnare i beni sequestrati.

«Il futuro di Reggio si gioca in pochi anni, tre o quattro al massimo» racconta il sociologo Tonino Perna. «O lo stato capisce che questa è la peggior emergenza mafiosa di sempre, oppure l´avranno vinta loro e anche gli ultimi calabresi disposti a lottare si rassegneranno o andranno via, com´è da secoli. Già oggi ogni volta che laureo uno studente con 110 e lode mi piange il cuore, perché so che gli sto consegnando un passaporto».

Criticare la politica delle privatizzazioni, in questo clima neoliberale (o, forse meglio, paleocapitalistico), può apparire ozioso, in quanto, oltre a andare contro una dottrina universalmente accettata (meno stato, più privato, ecc.) da privatizzare non c'è rimasto quasi niente. Tuttavia quel «quasi» ha ancora un certo spessore (un giorno sì e uno no si riparla di privatizzare la Rai, la Fincantieri, le municipalizzate, ecc., anche di fronte ai risultati tutt'altro che edificanti delle privatizzazioni già compiute, come Telecom, Autostrade, Cirio, e via dicendo).

Cerchiamo allora di capire perché vada difesa la proprietà pubblica, evitando, se possibile, i termini abusati, oltre che del tutto soggettivi, di «strategico» e «nazionale». Quali sono le differenze di fondo tra un'impresa pubblica o semipubblica e una privata?

Certamente non il peso decisionale dell'azionariato: tra i centomila piccoli azionisti di una public company e i milioni di contribuenti che rappresentano l'azionariato di un'impresa pubblica sarebbe difficile dire chi abbia minore peso decisionale. D'altra parte, neppure la qualità del management può rappresentare una discriminante: abbiamo esempi di imprese pubbliche ottimamente gestite e di imprese private gestite malissimo, e viceversa; e è meglio non fare nomi per carità di patria. La vera differenza è nel rapporto tra obiettivi e vincoli delle une e delle altre.

L'obiettivo dell'impresa privata è ovviamente il profitto: quello aziendale per le imprese ben gestite, o quello individuale dei proprietari quando esista un controllo diretto o un «azionista di riferimento»; i vincoli sono quelli del rispetto delle leggi e dei contratti di lavoro, dell'ambiente, ecc.

Per l'impresa pubblica gli obiettivi sono (o dovrebbero essere) diversi: la creazione di posti di lavoro, lo sviluppo delle aree depresse, la lotta ai monopoli, il progresso tecnologico, ecc. E' il profitto a costituire un vincolo: questi obiettivi devono essere perseguiti in condizioni di economicità.

Non sorprende che, per realizzare i propri obiettivi, sia i privati che i pubblici tendano a aggirare o a ignorare i vincoli: che dunque le imprese private possano (occasionalmente!) trasgredire le leggi, o non rispettare gli accordi, e che quelle pubbliche trascurino il criterio di economicità e chiudano i bilanci con una redditività insoddisfacente o addirittura in perdita. Anatema! Le imprese in perdita, secondo gli assiomi correnti, distruggono ricchezza; ma anche questo assioma, per quanto generalmente accettato e condiviso, non appare corretto.

E' vero che un'impresa che - una volta remunerati adeguatamente (e occorre mettere l'accento su «adeguatamente») i fattori della produzione, rispettate le leggi, evitato di distruggere risorse non rinnovabili, ecc. - chiuda i bilanci con un surplus, ha creato ricchezza; ma, per quanto questo possa sembrare sorprendente, non è vero il contrario. Non è facile distruggere ricchezza. L'impresa in perdita remunera i fattori della produzione (paga i lavoratori, le materie prime, e tutto il resto) ma non il capitale di rischio, che viene gradualmente eroso dalle perdite: dunque non crea ricchezza, ma la distribuisce, il che, essendo zero la somma, non equivale a distruggerla. E' del tutto evidente che è preferibile avere imprese in attivo piuttosto che in perdita; ma se gli obiettivi non sono quelli della massimizzazione della ricchezza, ma piuttosto quelli di una sua più equa distribuzione, anche le imprese in perdita possono contribuire a una maggiore giustizia e pace sociale.

Molti anni fa, quando esisteva ancora la Finsider (che all'epoca perdeva, e anche parecchio) l'ing. De Benedetti disse all'avv. Sette, allora presidente dell'Iri: «Ma non si rende conto che alla Finsider avete 10 mila occupati di troppo?». Sette si limitò a scuotere la testa. Dopo la privatizzazione, la siderurgia ha perso più di 10 mila occupati; e lo spazio rimasto vuoto a Bagnoli e a Taranto è stato riempito dalla camorra e dalla Sacra corona unita. Con quale vantaggio per il paese, non si sa.

E questo ci permette di toccare l'ultimo punto: ammettiamo che un sistema altamente competitivo, completamente privatizzato, dominato da una selezione di tipo darwiniano, porti alla massimizzazione della crescita del Pil. Ma è questo un fine in sé, o stiamo confondendo un fine con un mezzo? Bene la crescita del Pil, se questo porta a un diffuso miglioramento delle condizioni di reddito e di vita della maggioranza dei cittadini; male se un ristretto numero di privilegiati vede accrescersi di molto i propri redditi, e la maggioranza assiste impotente a una crescente precarietà, alla riduzione del suo tenore di vita, all'ampliarsi delle disparità sociali.

Alla luce di quanto stiamo vedendo, e di quel che si è detto, in Italia abbiamo privatizzato abbastanza, e probabilmente troppo. Adesso, per favore, basta.

Duccio Valori è ex condirettore centrale dell'Iri

Quello che sta avvenendo in Italia negli ultimi giorni ­ due congressi che sciolgono al tempo stesso Democratici di Sinistra e Margherita, per creare un comune partito che si chiamerà democratico ­ viene spesso descritto come normalizzazione dell’Italia, come suo vero ingresso politico in Europa dopo l’ingresso economico nell’euro. In parte forse è vero: una storia fatta di frammentazioni e flebile interesse generale diventa più simile alle esperienze europee. Per inciso, va ricordato che questo doppio movimento ­ verso l’euro, verso una democrazia dell’alternanza alimentata da partiti più grandi e semplici ­ è stato voluto da Prodi.

E da chi gli è stato vicino per decenni. Già nel gennaio 2000, in un’intervista a Gad Lerner, Arturo Parisi si rivolse al segretario dei Ds Veltroni con il fatidico invito («Sciogliamoci!»). Non fu ascoltato, e quel che temeva ­ la sconfitta nel 2001 ­ s’avverò. Ma la normalità europea che si usa invocare ha qualcosa di posticcio, somiglia molto a un luogo comune. L’Europa non è quell’approdo esemplare che tanti descrivono, e la sua normalità è piuttosto un’abitudine inerte che si sbriciola. È anch’essa in cerca di nuovi pensieri, e minacciata dall’antipolitica, dall’intorpidimento mentale, da un passato che non arricchisce più (l’impoverirsi dei Popolari è significativo). È una normalità rattrappita in Inghilterra come in Germania, e in queste ore lo è più che mai ­ alla vigilia delle presidenziali ­ in Francia: un paese dove sinistra e destra si contrappongono senza essersi rinnovate in profondità, ma avendo solo cambiato facce (la faccia femminile di Ségolène; la faccia grintosa di Sarkozy, che incute crescente paura proprio perché annuncia il nuovo alla maniera di Bush, fondandolo sulla prepotenza d’un carattere instabile). Sono forze aggrappate a tic del passato, anche quando denunciano le burocrazie partitiche. Ségolène Royal ha capito alcune cose meglio di altri, aderendo al metodo delle primarie, ma la sostanza esita a vederla e la sostanza è: il socialismo da solo non vince, la vecchia alleanza mitterrandiana coi comunisti non è più maggioritaria.

L’affermarsi del moderato François Bayrou nasce da queste cecità, che il sociologo Touraine ha chiamato, in un’intervista con Domenico Quirico su questo giornale, l’agonia del partito socialista («La Francia è il solo paese europeo che ha mantenuto costantemente, dal Fronte Popolare a Mitterrand, una sinistra rivoluzionaria (...) in una situazione non rivoluzionaria anzi generalmente molto moderata, esitante»). Quest’agonia è al centro delle elezioni, e Bayrou non è semplicemente figlio delle disillusioni e dell’antipolitica. Non stiamo neppure assistendo a una primaria nella destra, come scrive Jean-Marie Colombani, direttore di Le Monde. Anche se il partito di Bayrou ha radici a destra, la primaria avviene a sinistra visto che i consensi a Bayrou vengono essenzialmente da lì. Quel che in Italia si sta costruendo da dodici anni, con l’Ulivo, in Francia avviene a caldo, sulla scia dello spavento suscitato da Sarkozy. Senza confessarselo, le sue sinistre cercano le vie che l’Italia prepara da tempo e che oggi perfeziona.

Da questo punto di vista l’esperimento italiano è fondamentale per l’Europa. Questo sciogliersi dei vecchi partiti, questo riesame della storia, questa volontà di creare non un nuovo partito ma un partito nuovo, sono ambizioni di cui anche l’Europa ha bisogno. È il motivo per cui ha poco senso e poco interesse sapere a quale gruppo europeo ­ socialista o liberaldemocratico ­ apparterrà il partito democratico. La diatriba fra Ds e Margherita è oggi insensata perché anche in Europa c’è bisogno di revisioni, rifondazioni, come giustamente osserva Prodi. Il secco no di Rutelli ai Socialisti Europei che si contrappone alla volontà Ds di restare nel Pse inquieta per altri motivi: perché indica l’attaccamento di ciascuno alle proprie oligarchie e roccheforti, confermando le difficoltà dello scioglimento. Solo il giorno in cui i due partiti diranno che anche in Europa intendono reinventare partiti e coalizioni, secondo linee divisorie che non saranno più tra socialisti e liberali ma tra europeisti e non europeisti, il partito democratico apparirà, in Italia, una novità riformatrice non decisa dai vertici.

Tutte le parole rischiano l’insignificanza dell’ovvio, se usate troppo facilmente. Secondo Confucio gli uomini smarriscono addirittura la libertà, quando le parole perdono senso. Tra esse c’è anche il vocabolo scioglimento: delle tradizioni socialiste, o del cattolicesimo politico. Il vocabolo è forte, drammatico, e la discussione nel congresso Ds l’ha dimostrato: è stata una discussione profonda perché c’era consapevolezza della gravità di questo sciogliersi. La relazione di Piero Fassino è un testo da leggere e rileggere: un analogo rimettersi in causa è raro nella sinistra europea, e in Francia è impensabile un’adesione così forte a quel che vi fu di grandioso nella socialdemocrazia (il primato dato al movimento sui fini prestabiliti, teorizzato da Eduard Bernstein nell’800 e difeso da Fassino).

Ma sciogliersi e superarsi può divenire declamazione vuota, che seduce anche chi ti vuol eliminare. Cosa significa? Cosa intende Ségolène quando dice: «Mi iscrivo in una logica di dépassement, in un oltre-passare»? Il pericolo indicato al congresso da Fabio Mussi non si può sottovalutarlo: «La retorica dell’“oltre” ­ oltre i partiti, oltre le tradizioni, oltre il socialismo ­ non dice nulla, se non è chiaro dove si va». E ancora: «Cancellare le tracce può esser diseducativo. E quando il Moderno si presenta come “il nuovo” assoluto, in verità è già decrepito».

Tuttavia non si può che cercarlo, questo modo diverso di unire le forze per governare l’enorme mutare dei tempi: l’esigenza è possente ovunque in Europa, perché ovunque gli Stati non ce la fanno senza Unione e sono paralizzati da culture politiche tuttora nazionali. La rivoluzione liberale deve diventare di sinistra, come sostiene Michele Salvati, e non è solo il moderno a rischiare la decrepitudine ma anche l’antico: solo il classico non si deteriora e il classico ci è sempre contemporaneo. Anche la sinistra radicale può divenire quel sentiero interrotto di Heidegger, in cui l’uomo si perde nel buio del bosco. Son sentieri che Mussi teme, quando ricorda che «i partiti vivono anche nelle sconfitte, non sono fatti solo per la vittoria. Sono soggetti identitari, non solo programmatici».

Ma Fassino e Prodi ci paiono più convincenti quando parlano di democrazia governante: dunque di un’identità che deve confrontarsi col reale e saper padroneggiare il reale. Altrimenti avviene come in Francia: i suoi socialisti fanno di continuo pause e rinunce, ma senza mutare programmi e miti. L’identità ha qualcosa di diabolico, rischia sempre il fascino del falso quando non osa interrompere sentieri. In tal caso non è di aiuto né per vincere, né per vivere le sconfitte e ritrovare la via nel buio dei boschi.

Quest'anno ricorre il ventennale della scomparsa di Federico Caffè. In La solitudine del riformista si può leggere: «E' cosa ben nota che l'influenza della teoria economica, ai fini della soluzione di problemi concreti di politica economica, si manifesta generalmente con notevole ritardo, quando si manifesta»... «gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da qualsiasi influenza intellettuale, sono usualmente schiavi di qualche economista defunto... Non però immediatamente, ma dopo un certo intervallo». Il dibattito sulle public utilities ed in particolare sui beni pubblici dovrebbe prendere spunto dalle riflessioni di Caffè. Caffè, riprendendo la tesi di Hotelling (Il benessere generale, in rapporto ai problemi della tassazione e delle tariffe ferroviarie e dei servizi pubblici, 1938), sostiene «la gestione dei servizi pubblici: che andrebbe ovviamente valutata in termini di servizi resi (o, ovviamente, in termini di distorsione delle risorse) e non già in termini di mero pareggio del bilancio». Per questo è necessario affermare la centralità di un nuovo spazio pubblico. Lo spazio pubblico è quel luogo della società nel quale si rendono accessibili beni primari come l'acqua, la salute, l'istruzione, la cultura, quelli che nel dibattito corrente di questi anni si chiamano beni comuni, in realtà sarebbe molto più corretto chiamarli beni di merito. La produzione di beni e servizi pubblici, meglio ancora la garanzia del diritto all'accesso universale di questi beni, indipendentemente dalle condizioni di censo e dal luogo di nascita, è indispensabile a garantire il benessere delle persone, ma anche per prefigurare politiche attive pubbliche per condizionare il mercato e per questa via lo sviluppo. Da un lato il pubblico, attraverso la proprietà e la gestione pubblica di questi beni, garantisce l'esigibilità, la giustizia sociale, dall'altro condiziona lo sviluppo del Paese e i territori coinvolti, attraverso le public utilities.

L'attuale dibattito sulle public utilities e la disponibilità di alcuni beni e servizi (acqua, energia, trasporto, ecc) dovrebbe trovare una sintesi adeguata, a partire dai tavoli nazionali aperti dal governo Prodi. Infatti, lo sviluppo e la crescita economica, unitamente alla distribuzione del reddito, dovrebbe misurarsi non solo con le risorse finanziarie messe a disposizione per tali finalità, ma anche con gli strumenti e il ruolo che si vuole assegnare al pubblico. Sostanzialmente: lo stato è regolatore del mercato o attore del mercato? È un nodo fondamentale da sciogliere. Se lo stato diventa erogatore di risorse finanziarie per il mercato e si dota di strumenti di regolazione, il rischio è quello di uno stato minimo ed esterno ai meccanismi allocativi. In qualche modo si rinuncerebbe a rimuovere i cosiddetti fallimenti del mercato, cioè alla economia pubblica. Non si tratta di gestire i conti pubblici in modo trasparente e ragionieristicamente perfetto, piuttosto di recuperare il ruolo strategico che esso (il bilancio e l'economia pubblica) hanno sempre avuto.

Dalla razza padana alla razza messicana. Le magnifiche sorti delle telecomunicazioni nazionali potrebbero di qui a un mese veleggiare da un capo all’altro del mondo. Il magnifico timoniere sarebbe Marco Tronchetti Provera, che spera di traversare l’uragano e approdare ai lidi dorati d’oltreoceano, riempiendo la sua cassaforte e lasciando l’Italia a guardare e a telefonare su licenza straniera. Eravamo dei primatisti. Rischiamo di finire peggio che in mutande: l’Omnitel, fondata da De Benedetti, è alla dipendenze dell’inglese Vodafone; Enel aveva inventato Wind e l’ha ceduta al fondo Weather dell’egiziano Naguib Sawiris; “3”, unica compagnia umts, appartiene ai cinesi della Hutchinson Whampoa. Ci restava Telecom, restiamo avvinghiati a Telecom, come al tricolore, ma Tronchetti Provera dopo aver a lungo dialogato con l’australiano Rupert Murdoch, detto lo squalo, s’è inventato quest’altra strada, un pesce d’aprile condiviso con americani e messicani, che sembra uno sberleffo per chi ancora sogna “italiano”. Di fronte al quale potrebbe aver ragione persino il neodemocristiano Rotondi, che ci racconta come questo sia il mercato, chiedendo a tutti di arrestarsi quindi di fronte alla sua inalienabile libertà. Sarebbe da incoscienti però non accogliere con rammarico la notizia dell’eventuale salto al di là dei mari di una tanto strategica (e storica) impresa italiana e non rimpiangere i tempi in cui i famosi cavalieri distribuiti tra Brescia e Mantova, da Chicco Gnutti a Roberto Colaninno, si gettavano, il cuore oltre l’ostacolo, nell’impresa gigantesca della telefonia privatizzata. Onore all’azzardo dei “grandi progetti”. Con gli americani e con i messicani si può avvertire il gusto esotico e modernista della globalizzazione in casa nostra. Ma come si fa a nascondere l’amarezza di vivere in un paese che rischia di perdere un altro pezzo, in un paese dove i primi a far dietro front davanti all’impresa sono proprio gli imprenditori, che esaltano il mercato purchè sia protetto, garantito, sovvenzionato (anche grazie ad imprevedibili “tesoretti”, come invoca Montezemolo), eccetera eccetera. Dove nessuno ti chieda idee, coraggio, piani industriali, dove mai una sfida si presenti, un rischio si calcoli.

Marco Tronchetti Provera sembra di questa stoffa: se ha rischiato, ha rischiato (molto, in passato) con l’Inter o con le sue regate. Con la Pirelli e con i telefoni è passato via via all’incasso. Smobilitando, ma incassando. Come quando nel 2001, proprio all’alba dell’operazione Telecom, cedette la Fotonica Pirelli, definita solo un anno prima la «produzione del futuro», intascando una stock options di circa cinquecento miliardi di lire, che il Wall Street Journal definì una vergogna per il capitalismo italiano. Il risultato è che la Pirelli da multinazionale s’è ridotta, sotto la sua regia “commerciale” ad azienda quasi quasi di nicchia: un sacrificio per coprire i “debiti di gioco” (finanziario ovviamente) del suo presidente. Debiti che riporterebbero ovviamente a Telecom, al primo anno di governo Berlusconi, quando Tronchetti, con Edizioni Holding dei Benetton, attraverso Olimpia, rilevò il cento per cento della lussemburghese Bell in Olivetti, arrivando a controllare per questa via il 23 per cento della società telefonica. Un pasticcio di sigle, quote azionarie, partecipazioni. Nel 2003 Tronchetti decise di scorciare la catena di controllo di Telecom fondendo Telecom Italia con la controllante Olivetti. Nascendo una nuova Telecom (quotata in borsa a partire dal 4 agosto), scomparve il marchio Olivetti. Un altro addio, un’altra dismissione alle spalle. Altro colpo nel 2005, quando Telecom lanciò un’Opa di quattordici miliardi e mezzo sulla controllata Tim. Nel via e vai miliardario, molti non ci capiranno più nulla. Sta di fatto che i debiti della capogruppo Telecom schizzarono da 29 a 44 miliardi di euro, diventarono una specie di cappio al collo dell’italianità di Telecom e consentirono a Olimpia di distribuire bei dividendi. Tronchetti aveva la risposta pronta: i profitti della telefonia mobile consentiranno la riduzione dei debiti... S’illudeva pure lui.

L’anno dopo, ai primi di settembre, a Cernobbio, per il Workshop Ambrosetti, il nuovo capo del governo, Romano Prodi, parlò a Tronchetti che lo rassicurò: niente svendite, niente scorpori, rosei orizzonti, malgrado i debiti. Pochi giorni dopo Tronchetti Provera navigava attorno all’isola di Zante, nel mitico mare di Grecia, in compagnia del patron di Sky, Rupert Murdoch, per discutere di televisione e di contenuti. Voleva fare la “media company”, basta con gli obsoleti telefoni. S’avviò così il balletto della vendita di Telecom, con il veleno di polemiche, di smentite e controsmentite, nel segno del piano Rovati (Angelo Rovati, il consigliere di Prodi). Piano privato, segreto e noto a tutti, imperniato sulla divisione della rete fissa da Telecom Italia e il passaggio del suo controllo sotto l'ombrello dello Stato, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti (con successiva quotazione in Borsa). Insomma, secondo Rovati, lo Stato si sarebbe dovuto riappropriare di fili e cuniculi, insomma dell’hardware di base, quello che fa forte nella contrattazione e nel controllo. Pochi giorni dopo Tronchetti Provera presenterà invece il suo piano: separazione della rete fissa dalla telefonia mobile di Tim (dopo l’opa miliardaria del gennaio 2005), con il progetto di venderla. Tensioni sempre più aspre. Il 15 settembre Tronchetti Provera lasciava la presidenza di Telecom. Arrivò Guido Rossi. Pochi mesi ancora (siamo all’inizio del 2007) e Pirelli comunicava l’intenzione di cedere la quota dell’ottanta per cento di Olimpia. Russi, indiani, spagnoli ne studiarono l’acquisto. Invece il pesce d’aprile dell’altro ieri, grazie al quale Tronchetti Provera si è ripreso qualche carta. Ne ha passate di tutti i colori. S’è trovato tra i piedi persino gli spioni e i loro giochi sporchi, le intercettazioni e i ricatti, sempre all’ombra dello storico marchio Telecom. Lo ricordiamo nel solito gessato blu doppiopetto in una caldissima conferenza stampa imprecare, sull’orlo di una crisi di nervi, contro quei traditori. L’offerta transoceanica gli vale miliardi di euro e il plauso delle borse, con una rivalutazione miracolosa delle azioni Telecom, a favore di Pirelli. Il padrone se la riderà: arricchirsi con i debiti. Questo, signori, è il capitalismo. O forse solo il capitalismo di capitalisti senza qualità.

La prima volta che sono atterrato in Romania è stato un anno fa, aeroporto Otopeni di Bucarest, all’una e mezza del pomeriggio. Sono partito da Torino una mattina all’alba, senza sapere che cosa avrei trovato, con troppi pochi preparativi per avere delle aspettative da collaudare e troppi pochi pensieri pregressi per avere delle domande alle quali cercare risposta dall’altra parte dell’Europa. Sono partito con l’unica sensazione che quello che stavo facendo mi riguardava nel profondo. Quando sono salito sull’aereo avevo in tasca un paio di indirizzi, un numero di telefono romeno e sei o sette nominativi di aziende italiane da cercare e a cui chiedere udienza. Il motivo concreto per cui avevo deciso di partire era proprio quello: volevo incontrare e parlare con gli imprenditori italiani che avevano spostato la produzione (e in molti casi la residenza, la vita, gli affetti) in Romania. Perché la Romania? Perché la Romania era stato tra i primi paesi ad assistere alla delocalizzazione italiana, perché c’erano quasi ventimila aziende italiane che avevano piantato le tende là, e poi anche perché avevo quel numero di telefono in tasca, che rendeva più semplici tutte le cose. Questo mi sembrava un motivo sufficiente per fare questo viaggio, e per avere l’impressione che questo viaggio mi riguardasse profondamente, come italiano e come europeo dell’Europa dell’ovest, se ha qualche senso questa distinzione cardinale. Per quasi un mese, quindi, ho girato la Romania, salendo e scendendo da macchine, salendo e scendendo da autobus, salendo e scendendo da metropolitane, e soprattutto dondolando lentamente sui treni romeni. Da Bucarest sono passato in Transilvania, poi dalla Transilvania a Timisoara, dove negli anni è sorto un autentico distretto industriale italiano. Il mese che ho passato là l’ho trascorso a fare domande, registratore alla mano, agli imprenditori italiani, e poi ai loro dipendenti romeni e poi via via ad altre persone romene finite sulla mia strada in quell’arco di tempo.

Ma ora facciamo un passo indietro, torniamo indietro di 500 anni. Parliamo di Antonio Pigafetta. Antonio Pigafetta Patrizio, «vicentino e cavalier de Rodi», ci ha lasciato come testamento la testimonianza più sapida ed efficace di un esploratore in azione. Partito dalla Spagna al seguito di Ferdinando Magellano, «nell’anno della natività del Nostro Salvatore 1519», Pigafetta segue fedelmente Magellano nel suo giro del mondo. Ha tempo da perdere, soldi da spendere, e si imbarca pagando la sua quota, come un miliardario intubato dentro una navicella spaziale. Sono gli anni delle prime colonizzazioni: le potenze europee hanno bisogno, per portare avanti i loro traffici, che esista un mondo tutto nuovo da sfruttare. E per sfruttarlo hanno necessità di comprovarne l’esistenza: è per questo che le potenze mandano in avanscoperta, con budget adeguati, ciascuna i propri esploratori. Ferdinando Magellano (e prima di lui Cristoforo Colombo) è tra questi. Il miliardario Antonio Pigafetta assiste, trascrive tutto nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo, e consegna ai posteri lo sguardo del colonizzatore sul mondo nuovo che si appresta ad essere colonizzato. Attraccati, tutti quanti, nella terra di Verzin, Magellano e compagni incontrano gli indigeni («vivono secondo lo uso della natura e vivono centovincinque anni e cento quaranta») e interagiscono con loro. Ecco la descrizione che di questa interazione fornisce Pigafetta di ritorno dal viaggio intorno al mondo: «Per un amo da pescare o uno cortello davano 5, o 6 galline: per uno pettine uno paro de occati; per uno specchio o una forbice, tanto pesce che avrebbe bastato a X uomini; per uno sonaglio o una stringa, uno cesto de batate; queste batate sono al mangiare come castagne e longhe come napi; e per uno re de danari, che è una carta da giocare, ne detteno 6 galline e pensavano ancora averne ingannati». La storia della colonizzazione sta scritta tutta in queste righe, in cui c’è tutta la postura che nasce dalla percezione di una superiorità in qualche modo evolutiva del colonizzatore sul colonizzato. Ma né Magellano (che non sopravviverà al suo giro del mondo, anche se lascerà sugli atlanti traccia imperitura del proprio passaggio) né il miliardario Pigafetta saranno i primi né gli ultimi. Si andrà avanti per secoli, di colonizzazione in colonizzazione, di selvaggi in selvaggi.

E si passerà per la grande epopea del Far west, la colonizzazione più mitizzata della storia, più travisata dalle narrazione epiche che l’hanno traghettata fin qui. I pionieri che alzano la polvere sulle strade, andando a ovest, incolonnati per vie non ancora calpestate dalla civilità, e poi gli indiani, afasici e zotici (Pigafetta docet) accucciati dietro i cespugli con le penne infilate sulla testa, anelli metallici inseriti in tutte le parti del corpo, la bocca in grado soltanto di dire Augh, e le mani buone solo a lanciare frecce con l’arco o a modulare i suoni davanti alla bocca.

Ecco, io quando ho preso l’aereo di ritorno da Bucarest, un anno fa, mentre sorvolavo la Romania per tornare in Italia, ho pensato di essere stato nel Far west. Nel Far east, per l’esattezza, dall’altra parte dell’ovest. Dall’alto ripassavo la sterminata campagna romena, campi su campi, e poi quelle infilate di capannoni messi l’uno accanto all’altro come Lego di colori diversi. E pensavo a quello che avevo visto, ai quei pionieri scesi lungo strade meno polverose di quelle del west, con ruote gommate e non con carrozze. E ho pensato che erano loro per primi, a raccontarsi come pionieri, seduti al sole a seccarsi la pelle davanti ai loro capannoni, nelle rare pause del lavoro. Erano loro per primi a raccontare i romeni come fossero indiani dietro i cespugli, a pagarli con poche centinaia di euro ogni mese, un pettinino, qualche sonaglio e qualche carta da gioco, magari un re di denari. Quante volte avevo sentito dire in quel mese, a noi italiani, che gli avevamo tolto il Medioevo dalla testa? Troppe per non pensare agli indiani dietro i cespugli, e agli anelli infilati in tutte le parti del corpo.

Caduto Ceausescu, nel 1989, i pionieri erano venuti giù lungo le strade, con gli specchietti e i sonagli dentro le borse. Gli specchietti erano i centri commerciali, gli americanissimi Mall tirati su con la stessa megalomania del palazzo eretto da Ceausescu nel centro di Bucarest. Gli specchietti, le vetrine, i vestiti firmati, i cellulari, le cose che luccicano. Dall’altra le piume sui cappelli, i vampiri e gli animali. Mentre l’aereo saliva su in alto, sopra i cieli di Bucarest, pensavo ai romeni che avevo conosciuto in quel mese, che guardavano con fierezza quei Mall e quelle vetrine, e a una ragazza che mi aveva confessato di avere usato lo stipendio di un mese per un paio di Nike. E pensavo alla differenza tra colonialismo di un tempo, che in qualche modo lasciava che i selvaggi vivessero da selvaggi, e quello che avevo sotto gli occhi, che aveva bisogno di omologare i conquistati ai propri consumi. Mi venivano in mente le vecchie Dacie ferme al semaforo accanto ai fuoristrada, le insegne pubblicitarie su tutti palazzi, e contemporaneamente la povertà dilagante, il traffico delle donne, e tutti quegli esodi di gente che se ne andava da lì, perché con lo specchietto, il pettine e i sonagli ci si faceva ben poco. Mi veniva in mente mentre tornavo a casa. Mi veniva in mente anche che non avrei pensato di sentirmi dare alcune risposte, come che quando c’era Ceausescu si pativa di gran lunga di meno la fame. Quando si prende in mano uno specchietto, la prima cosa che colpisce è quanto luccica quando un raggio di sole ci finisce contro. La seconda cosa è la faccia che ci si vede dentro, guardandosi. Solo così ci si può rendere conto di quando la propria faccia è diventata identica a quella di un altro.

Il testo di Andrea Bajani è parte di una relazione che lo scrittore torinese terrà il 3 aprile prossimo a Milano a un incontro su Le nuove città globali, insieme a Suketu Mehta (Maximum City. Bombay città degli eccessi, Einaudi) e l’architetto Cameron Sinclair.

L'Unione festeggia lo scampato pericolo, la Casa della libertà si divide dopo la gaffe colossale del cavaliere, l'Udc si vanta della sua prima sortita, la grande stampa esulta per il delinearsi di una maggioranza variabile che prefigura quella che vorrebbe invariabile. Il solo che non nasconde il malumore è il Capo dello stato che suggeriva sottovoce una bella unità nazionale. Prodi ha sperimentato per la prima volta una maggioranza diversa da quella in cui era nato senza rompere la medesima. La Margherita ha sperimentato che i fili tessuti col centro tengono. I Ds, che perseguono lo stesso disegno magari con una loro propria egemonia, hanno sperimentato che il 75% degli iscritti li segue. Il correntone ha sperimenato che resta più o meno allo stesso punto in un partito che non è più quello di dieci o venti anni fa, salvo il compulsivo votare di Emilia e Toscana ogni proposta del segretario, quale che essa sia. Bertinotti ha sperimentato la contestazione di un po' di giovani politicamente approssimativi per lungo tempo accarezzati.

E' un percorso a direzione unica nel quale le due coalizioni ancora in campo si stanno accorgendo che uno spostamento al centro, con tagli delle ali di destra e sinistra, si può realizzare meglio per scivolamenti ed erosioni successive che tornando alle urne. Berlusconi è più debole di quando non fosse all'indomani del voto. Ma è più debole anche quel 13% della coalizione vincente che era fuori dall'Ulivo e non sarà rappresentato dal futuro partito democratico. E che finora ha preferito tessere con il presidente del consiglio, Rifondazione per prima, accordi, per così dire, ragionevoli e privati, invece che cercar di diventare una forza del 13%, e non una sommatoria di sigle che non si parlano. Ma non si regge a lungo su una condizione puramente, oltre che stentatamente, numerica - della serie «senza di noi non ce la fanno». Tentano di farcela «senza di noi» tutti, salvo forse Prodi, più per una sua onestà di carattere e per qualche diffidenza sia verso Rutelli sia verso Fassino, che per amore di unità a sinistra. Da martedì dunque la sinistra della sinistra è costretta a parlarsi. E si mandano più o meno vaghi segni di apertura. Il più disponibile a ridiscutere sembra Bertinotti, per quanto la funzione di presidente della Camera glielo consenta, e avendo dovuto dismettere la speranza che attorno a Rifondazione si formasse un coordinamento vero e di qualche spessore, invece che una somma di gruppi e frammenti parlamentari ciascuno forzato a convivere. Non che le altre sigle si siano invece appassionate a darsi una piattaforma comune. Adesso che il ricatto «se cade questa maggioranza arriva Berlusconi» sta venendo meno, nessuno è protetto più dalle impossibilità. Bisogna scoprire le carte.

Quali carte? L'Unione si è basata su un programma prolisso che eludeva molti scogli. La necessità di raccogliere tutti i voti in giro pur di metter fuori Berlusconi ha indotto a rilevare i punti comuni e trascurare le discriminanti, invece che affrontarle e cercare un punto alto di mediazione. I punti comuni, o forse il punto comune, era metter fine a una manomissione personale e di gruppo delle leggi e delle leve di decisione, che è stato il collante delcentrodestra, al perseguimento di interessi privati, al disprezzo per la divisione dei poteri. E, buon ultimo, esprimere l'intenzione di rendere meno iniquo, senza altre precisioni, il rapporto fra poteri economici e lavoratori. Nonché una politica estera che esprimesse un rifiuto della guerra, simbolizzato dal ritiro del nostro contingente dall'Iraq. Su questi due ultimi punti, il programma è stato particolarmente reticente, perché assai moderate sono le posizioni della Margherita e della maggioranza dei Ds, ed esitanti i sindacati, eccezion fatta per la Fiom. L'approfondimento è stato nullo.

In tema di situazione internazionale, quando si è formata l'Unione, nessuno sembra aver pensato che Bush avrebbe tirato dritto, anzi sarebbe andato a un'escalation della guerra in Medioriente, contro le posizioni del Congresso, e ora anche del Senato. In queste settimane, l'escalation è diventata un rischiatutto. Se un anno fa era in fibrillazione soprattutto l'Iraq, ora è altissima la tensione anche in Afganistan e non si può escludere che Bush punti a un incendio anche in Iran. Negli Usa parlano i democratici, che non sono certo estremisti, lo denuncia Brzesinski, ma l'Unione è muta. E quando D'Alema tenta una mossa, certo non eccessiva, ne è impedito e non solo dal Dipartimento di stato.

Più grave, nella perpetua dicussione sui numeri al Senato e le manovre delle parti per tenere in piedi o per battere il governo, non c'è alcuna discussione nel merito. Né al parlamento né, che si sappia, nelle sinistre alla sinistra dell'Ulivo. Il massimo dell'assurdo s'è raggiunto sull'Afghanistan dove quella italiana continua a definirsi missione di pace anche se l'infittirsi degli scontri rende qualsiasi missione di pace sempre meno praticabile. Con il pretesto, non del tutto infondato, di proteggere «i nostri ragazzi» se la loro diventa zona di guerra, sono state affacciate nuove «regole di ingaggio» - in parole povere, combattere - e la necessità di fornire i mezzi relativi. La sommarietà è da tutte le parti: forse che per essere stata avallata l'impresa di Bush dall'Onu e per stare sotto il comando Nato, si è obbligati a seguirla? Com'è che la Francia non la segue, non ha un solo uomo in Afghanistan, e non succede niente di catastrofico? Né il governo né i pacifisti dicono tutta la verità su quello cui ci obbliga o non ci obbliga il far parte della Nato, dentro alla quale l'art. 5 permetterebbe assai più libertà che non si creda.

Una politica estera di relativa autonomia si potrebbe avere, e un intervento pubblico simile a quello che regge da solo Gino Strada, sarebbe moralmente urgente quanto il ritiro delle truppe. Che pensa la sinistra della sinistra sul punto in cui siamo? Che dirà, che direbbe alla conferenza di pace, se ci sarà? Lo stesso vale per il conflitto israelo-palestinese, dove non si profila un passo avanti rispetto a Condoleezza Rice, che punta manifestamente a riaccendere il conflitto fra Hamas e Al Fatah. E per il voto del Consiglio di sicurezza sull'Iran, stupidissima prova di forza che riunifica un Iran che in atto di dividersi sulle follie di Ahmadinejad? Non è detto che passerebbe, ma un'analisi, una previsione e una proposta di intervento serio la dovremmo avere.

Ieri Prodi ha detto che se sulla politica estera la maggioranza conosce dei conflitti, «sul sociale è unita». Ma davvero? Precarietà, pensioni e sviluppo sostenibile dipendono strettamente dal movimento dei capitali, protetto fino ad ora dai trattati dell'Unione europea, sui quali sicuramente non c'è accordo nella maggioranza di governo. C'è qualcuno che intende mettere sul tavolo il dossier nella sua interezza, e non solo davanti alla Confindustria ma davanti a noi stessi? Il silenzio della sinistra della sinistra nei vuoti festeggiamenti del cinquantenario europeo è stato impressionante. Siamo di fronte a una crisi sociale neanche tanto strisciante, ma né le regole della Banca centrale né il trattato di Maastricht né il patto di stabilità sono stati esaminati nella loro effettività, nelle loro difficoltà, negli spiragli che si aprono davanti alle turbolenze dell'occupazione.

E' un terreno sul quale il silenzio o le misure parziali e abborracciate hanno finora prevalso, e sulle quali l'«antagonismo» sembra soltanto ridursi agli slogan. Una continua concessione alle manifestazioni ultime e inefficaci di protesta accompagna una sostanziale indifferenza o rassegnazione. Quando sento dire: a me parole come anticapitalismo non interessano, mi vengono in mente i diciottenni italiani del 1939: ma a me la guerra non interessa. Come se fosse un optional.

Una piattaforma che contrasti la deriva centrista va formata. Senza questa non prenderà corpo nessuna alternativa. E senza qualche forma di organizzazione non avrà gambe. Non basterà a definire il che cosa e il come l'incontro di stati maggiori, che finora hanno difeso un patriottismo di sigla e si sono separati uno dall'altro. Quanto alla partecipazione di chi è estraneo agli stati maggiori è tutta da inventare. Ma c'è una cogenza delle relazioni internazionali e del rapporto di forze sociali, come sono venuti strutturandosi negli ultimi due decenni, cui non si sfugge. E la cui dimensione non viene intaccata neanche dalla più grande manifestazione di protesta. Occorre un programma e, come si diceva una volta, una strategia. Parola fastidiosa e bellicosa, ma il conflitto è il conflitto. Questa è la mia persuasione.

Non è quella di tutti coloro che non sopportavano Berlusconi né di tutti quelli che il partito democratico non incanta. Ci sono due posizioni rilevanti che considerano finita ogni potenzialità di una forma politica, più o meno collettiva e organizzata.

La prima è quella di Marco Revelli, che ritiene inutile qualsiasi coordinamento politico in qualche modo organizzato perché, per quante correzioni e distacchi si proponga, deriverebbe dalla tradizione dei partiti del secolo scorso, interamente da rigettare. E non solo per la rigidità del metodo o dell'errore delle scelte concrete compiute: il farsi «corpo politico» dell'espressione diretta dei bisogni, materiali e immateriali, della gente non può che portare a ipostasi burocratico-produttiviste-belliche. E' anche l'opinione di quella parte dei movimenti, che aveva sperato di trovare qualche cinghia di trasmissione diretta in questo o quel partito, e delusa, li considera tutti ceto politico che mira solo alla propria riproduzione. In verità Revelli punta più alto, non si illude su una spontaneità della società civile come sembra in alcune sue recenti polemiche: punta a quella che una volta ha chiamato una «cristianizzazione» delle relazioni, un lento e profondo rivolgimento delle culture della modernità basate sull'homo faber, da cui sarebbero derivati tutti gli erramenti del '900.

L'altra posizione viene dal pensiero di Antonio Negri e riflette di Marx la persuasione della creatività del capitale che nel crescere forma i suoi soggetti «antagonisti», oggi non più un proletariato reso desueto dalle tecnologie ma, nei suoi punti più avanzati, figure sociali alte, entrate in possesso della tecnica, accanto a moltitudini che portano in sé un bisogno di eversione o sovversione, se non rivoluzione, che ogni rappresentanza falsifica e azzera. Per ambedue le posizioni, la globalizzazione liberista non può essere né elusa né affrontata da una «politica», essa produce da sé e al suo interno i suoi puntuali, interessanti e plurali anticorpi.

In questo quadro politico e culturale in mutazione, dove si colloca il manifesto? Assiste o interviene? Nel suo ennesimo e difficile passaggio finanziario e nell'obbligo di riconoscere, ogni narcisismo messo da parte, che non è riuscito a superare in 35 anni la barriera delle 30.000 copie, a un costo impossibile e in un progressivo perdere di peso sulla scena politica, a chi parlare e che cosa proporre è una decisione che il giornale deve prendere.Non fra un paio di anni, ma oggi.

Talvolta la vicenda di un uomo, anche se si conclude con una tragedia anticipata, con il corpo che tradisce la mente, riesce a essere esemplare. Non ideologica, perché Nino Andreatta rifuggiva dall´ideologia: ma sta di fatto che il suo tragitto intellettuale, prima di spezzarsi nell´aula della Camera il 15 dicembre 1999, sembra riassumere in sé un intero sviluppo politico.

Era anticomunista nelle fibre più profonde di sé; democristiano con un disprezzo esibito delle pratiche di partito e nello stesso tempo con un orgoglio e uno spirito di appartenenza che lo inducevano a immaginare ancora soluzioni politiche, durante il disfacimento del suo partito, a oltranza, senza tregua e senza rassegnarsi, come se un´ossessione potesse placare una disperazione; e infine convinto che per una riflessione politica rigorosa, oltre che per una scelta etica irresistibile nella sua eleganza, i cattolici dovessero imboccare la via collocata a sinistra nel nascente e già problematico bipolarismo italiano.

Adesso una formula sbrigativa potrebbe illustrarlo come il vero padre del Partito democratico. Non significherebbe nulla se non si avesse in mente la volontà feroce con cui aveva cercato di opporsi al tramonto della Dc e dei Popolari, il sostegno scettico a Mino Martinazzoli, l´impegno da naufraghi nel Patto per l´Italia con Mario Segni. Soltanto dopo che la navicella dei centristi si era arenata, con i suoi sei milioni di voti, sull´ultima spiaggia alle elezioni del 1994, aveva compiuto la sua scelta. Uno scarto da purosangue, per lui che si era perfino candidato a sindaco di Bologna, pur di scalfire il potere comunista. Prima aveva negato la fiducia al governo di Silvio Berlusconi: «Verso questa destra ho una pregiudiziale morale»; e subito dopo si era gettato nello sforzo di evitare la «deriva plebiscitaria», il «bonapartismo», quell´ondata che stava risucchiando a destra i Popolari sotto la segreteria di Buttiglione.

Come cattolico poteva sfiorare venature anticlericali, se si trattava di interpretare la laicità come un criterio che non venisse a patti con i traffici dello Ior. Come democristiano era in grado di sfoggiare pensieri giacobini, taglienti, irriducibili alle convenienze clientelari o a complicità da sottogoverno. Come uomo politico tout court, si dedicò al pensiero infinito di come riorganizzare l´alternativa a una «destra gaglioffa». Con quella stessa verve polemica che aveva praticato a usura contro il Psi di Craxi, contro «il commercialista di Bari», contro il «nazional-socialismo», Andreatta si dedicò alla ricerca di una leadership per il centrosinistra futuro, dopo il luttuoso fallimento della «gioiosa macchina da guerra» nel ‘94. La trovò in Romano Prodi, attirato verso la politica con l´ironia socratica del maestro ancora in grado di condizionare l´allievo.

Ma si sbaglierebbe a pensare che l´amichevole intrigo di Andreatta avesse come traguardo una soluzione politica modesta, un accordo minore, un compromesso mediocre. Nella primavera del 1996, a un convegno a Bologna, mentre incombevano le elezioni politiche e il neoliberista Berlusconi prometteva di tagliare il peso fiscale, Andreatta fece sfoggio della sua migliore sfrontatezza sostenendo che occorreva anzi aumentarle, le tasse. Perché non accettava il liberismo dei provinciali. Aveva individuato la tendenza ancora prima del 1989 e del crollo del Muro, allorché aveva intuito che il destino del mondo senza più barriere e blocchi geopolitici era davvero in quella parola che si cominciava a usare, la «globalizzazione». Di qui il suo scetticismo verso gli europeismi retorici, nonché verso la piccola Europa bruxellese, e invece la concezione di un continente largo e aperto, capace di muoversi liberamente dentro i grandi flussi del pianeta.

Si esprimeva qui il suo singolare keynesismo, un´inclinazione sociale fatta di doveri prima che di diritti, ma in cui il primo dovere era l´accettazione integrale del mercato e dei processi competitivi. E che quindi lo portava a considerare una fastidiosa stravaganza della storia la conquista del potere da parte di un monopolista come Silvio Berlusconi: «Lei chiede per sé la fiducia che si concede al cittadino comune», aveva detto il 20 maggio 1994 durante il dibattito in aula; «ma lei non è un cittadino comune, è il proprietario di una colossale concentrazione di mezzi d´informazione e di interessi economici».

Aveva scelto la sinistra immaginandone un destino americano, con l´idea che le grandi convenzioni di partito e le primarie potessero restituire alla politica quella concorrenza interna che anni di «consociazionismo» (non avrebbe mai ceduto a una ovvietà propagandistica e di destra come «consociativismo»). Convinto che una traccia della Dc di De Gasperi, cattolica, liberale e soprattutto sobria, dovesse essere l´eredità degli ultimi profughi della sinistra democristiana. E che una scia della moralità comunista potesse indurre tutta la sinistra, a fare i conti con la sfida, così difficile, dell´uguaglianza in una società diseguale. In quegli anni, parlare del Partito democratico era una fantasia intellettuale. Forse, il pregio maggiore di Andreatta è consistito nel pensare che nulla fosse reale come la fantasia.

Sotto il sole un gruppo di manovali – gli uomini seminudi, le donne coperte dai sari – scavano un canale al lato del viottolo, qualcosa che vuole somigliare a una fognatura. Appartengono alla casta più derelitta che un tempo si definiva degli «intoccabili», gli unici predestinati a lavorare a contatto con gli escrementi. Nella fossa sono immersi fino alle cosce in un fango misto a feci, manovrano scodelle di ferro arrugginito per rimuovere il liquame. Li osserva una vecchia seduta per terra con una cesta semivuota, pochi grappoli di uva da vendere infestati di mosche. È appoggiata a un muro dove un manifesto promette «Grazia Suprema Luce Universale», la pubblicità di un guru locale.

Questo è uno degli sconfinati "slum" di Mumbai, baraccopoli abusive fatte di fragili casupole addossate l´una contro l´altra, costruzioni di materiali precari (assi di legno, scatole di cartone, lamiere ondulate, polistirolo), dove si ammassano concentrazioni di centinaia di migliaia, forse milioni di abitanti.

Qui convivono indù, musulmani e tamil. Nel centro della stradina bambini e cani camminano sopra una montagna di immondizia viscida, nel fetore di gusci di uova marce, verdure in putrefazione. Ogni tanto sul monte s´inerpica una capretta che bruca tra i rifiuti. Sotto il sole uno dei mercanti inganna l´attesa di clienti leggendo il Corano.

Malgrado la miseria, la sovrappopolazione, la sporcizia, non ci si sente insicuri nel dedalo di viuzze di questa baraccopoli. S´intuisce un ordine sociale, quello delle mafie che regnano nel ventre di Mumbai. Prima di portare qui dentro uno straniero è prudente avvisare i padroni di questi luoghi. Abbiamo fatto sosta davanti alla casa di un capobanda - dietro la facciata diroccata del palazzo fatiscente l´uomo mantiene un harem di 13 mogli, con idromassaggi e una sala cinematografica privata - per segnalare l´ingresso sul suo territorio.

Nella zona detta Kumbharwadi è un viavai incessante di donne che trasportano grandi vasi in testa. I fianchi fasciati nei lunghi sari ondeggiano eleganti come ballando, sempre in perfetto equilibrio coi loro carichi sulla nuca. Questa è una delle baraccopoli più antiche, il primo insediamento risale all´Ottocento: è il villaggio dei vasai, una casta che s´identifica con un mestiere. Nel labirinto di catapecchie questi artigiani poveri hanno il loro minuscolo distretto industriale, dozzine di forni a legna per cuocere la terracotta. Sui tetti di lamiere e ai bordi dei vicoli sono accatastati vasi e giare appena sfornati.

Ora sul villaggio dei vasai incrostato nel cuore di Mumbai pende una minaccia. Le autorità municipali vogliono risanare quest´area. Hanno già costruito dei caseggiati popolari qui a fianco, offrono appartamenti modesti ma nuovi in cambio della distruzione delle baracche. La casta dei vasai resiste. Il comfort e l´igiene dei palazzi moderni non compensa la perdita di uno spazio vitale, i vicoli usati come depositi di vasi da seccare al sole. I vasi sono al tempo stesso il loro reddito e la loro identità, la ragion d´essere di un villaggio antico nel cuore di una moderna metropoli. La gente degli slum fa fatica a immaginare la propria vita nei parallelepipedi di cemento che ha visto costruire. Ci si può affezionare a una baraccopoli come a un villaggio: per il senso di comunità, il calore dell´affollamento, la solidarietà nel bisogno.

Per alcuni di loro quei caseggiati popolari costruiti dal governo promettono una solitudine che temono più delle epidemie. Mumbai con i suoi 20 milioni di abitanti ospita più esseri umani di tutta l´Australia, in quartieri come questo raggiunge una concentrazione di un milione di abitanti per miglio quadrato, mille volte la densità di una città europea.

Il "don" Arun Gawli, il Padrino indù che contende alla mafia islamica il controllo su questi bassifondi, concede udienza come il guru di un ashram. Essere ammessi al suo cospetto assomiglia a un rito d´iniziazione spirituale. Al suo quartier generale si arriva traversando un cortile dove delle bambine danzano attorno a un falò votivo, sul fuoco bruciano come offerte propiziatorie tante noci di cocco tagliate in due. Un muro del cortile è decorato da statuette di divinità sotto vetro: altarini sotto i quali sono posate ghirlande di fiori bianchi, gialli, arancioni.

Sopra il portone d´ingresso della palazzina troneggia gigantesco, in un bassorilievo di ceramica, il panciuto dio-elefante Ganesh, tutto arancione salvo la proboscide che luccica d´oro. Ai suoi fianchi due topolini verdi gli suonano il flauto. La sala dell´udienza è all´ultimo piano, sul superattico con terrazza dove vive il boss con famiglia: per arrivarci bisogna attraversare fortificazioni, cancellate, griglie, sotto lo sguardo di giovanotti vigilanti. Sull´ampia terrazza che domina la città vecchia di Mumbai, un muro è decorato con il ritratto di Hanuman, dio-scimmia guerriero raffigurato in una celebre scena dell´epopea mitologica del Ramayana, mentre vola nel cielo trasportando una montagna sulla mano.

L´attrazione più singolare della terrazza è una roccia da cui sgorga una cascata d´acqua fresca: in alto c´è il dio Shiva e un toro dorato, un tempietto a forma di fiore di loto, e poi in una gioiosa fratellanza ecumenica figure di Budda, immagini cristiane, la foto di un pellegrinaggio alla Mecca.

L´attesa del leader promette di essere lunga, altri postulanti sono in coda, sul terrazzo file di sedie di plastica indicano la consuetudine di udienze di massa, e la timorosa pazienza dei visitatori è un segno della potenza di Gawli. Per preannunciarlo si fa vivo uno dei suoi luogotenenti, Raju Shirsath: un quarantenne piccolino, dal sorriso servizievole, vestito con un completo bianco attillato sembra un barbiere di provincia d´altri tempi.

Invece Shirsath ha "esercitato" per vari anni come sicario, è sopravvissuto a varie sparatorie con le gang dei musulmani, se l´è cavata con una pallottola nella gamba. Si commuove quando ricorda un amico che non ce l´ha fatta, quello che sul lavoro si faceva chiamare Paul Newman ed è caduto sotto il fuoco nemico. Nel corso della sua carriera, stima che la guerra per il controllo dei vicoli di Mumbai abbia fatto 1.200 morti.

Finalmente arriva Gawli. Magro, minuto, vestito dell´abito bianco più tradizionale, sorride mansueto, con occhi luminosi e ispirati, sembra una controfigura giovane del Mahatma Gandhi. La testa si inchina più volte nel saluto all´ospite straniero. Per il colloquio occorre l´interprete. Gawli, 54 anni, non parla inglese e sa appena leggere e scrivere, appartiene a una casta inferiore, quella dei pastori. Da bambino quando la città dormiva lui si alzava per distribuire il latte nelle case, un lavoro che gli è servito a padroneggiare la topografia dei vicoli e della vita notturna. A tradurre ci pensa Hussain Zaidi, giornalista giudiziario e autore della sceneggiatura di Black Friday, film di Bollywood sulle stragi terroristiche di Mumbai nel 1993. Il reporter ha organizzato questo appuntamento a una condizione: durante l´incontro nessuno deve fotografarli insieme. Non si sa mai quale uso potrebbe essere fatto in futuro, di una foto con un gangster a cui si attribuiscono 40 omicidi.

«Tutte montature - risponde con un sorriso serafico Gawli - calunnie con motivazioni politiche». Lui è uscito indenne dai processi (salvo uno, tuttora in corso) e ha fatto un salto di status: è stato eletto al Parlamento locale dello Stato del Maharastra. L´aureola di Al Capone fa parte del passato, il nuovo Gawli ormai si considera un politico, parla da leader del popolo. «Sono al servizio della mia povera gente - dice con lo sguardo mite e dondolando bonariamente la testa - sono entrato in politica per un senso di umanità. In passato ho provato sulla mia pelle la disoccupazione, la miseria. Ho aderito al Shiv Shena, (il movimento nazionalista indù, di estrema destra e antimusulmano, ndr) ma mi ha deluso».

Adesso è al vertice del movimento Bharatiya Sena, uno dei tanti che si proclamano difensori delle caste inferiori. Tra questa miriade di partitini la concorrenza è aspra. «Molti di quelli che dovevano rappresentare le caste sfavorite - dice Gawli - hanno ingannato gli elettori. Sfruttano l´immagine del dottor Ambedkar, il difensore delle caste povere negli anni dell´Indipendenza, ma tradiscono il suo spirito».

L´analisi del boss mafioso è semplice. «Oggi Mumbai è piena di progresso tecnologico, i computer arrivano anche nei bassifondi, ci sono abitanti delle baraccopoli che si indebitano per comprare il motofurgone a rate. Ma non si può vivere solo di informatica. I lavori manuali hanno sofferto, le vecchie manifatture tessili hanno chiuso, la disoccupazione resta elevata». Lui si vanta di prendere voti in «tutte le comunità religiose, perché indù o musulmani nei bassi di Mumbai hanno gli stessi problemi, l´acqua e la luce che non arrivano». Tra gli inchini si conclude l´udienza, Gawli consiglia una visita alla nuova palestra che lui ha «regalato ai ragazzi del quartiere per toglierli dalla strada». In mezzo allo squallore delle baraccopoli è una fitness di lusso. I più assidui al sollevamento pesi però sono le guardie del corpo di Gawli.

Gherardo Colombo lascia la magistratura. Uno dei pm della scoperta della loggia P2 e di Mani pulite, ora giudice in Cassazione, dice addio alla toga a 60 anni. E spiega al Corriere: «In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su furbizia e privilegio.

Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è arrivati a una riabilitazione complessiva dei corrotti». E per il futuro? «Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia». «Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole». E invece in Italia «quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio. A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. E' una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice».

Dentro il giudice Corrado Carnevale, fuori il giudice Gherardo Colombo. Depurato da coincidenze temporali e rispettivi profili professionali, in termini puramente numerici è uno scambio alla pari: uno (il giudice assolto dall'accusa di mafia, il collega del "Falcone è un cretino") è riammesso dal Csm in magistratura (dove da presidente di sezione di Cassazione resterà sino a 83 anni); l'altro (con Turone il giudice della scoperta della loggia P2 e del delitto Ambrosoli, con Di Pietro il pm di Mani pulite, con Boccassini il pm dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme ai giudici corrotti da Previti), dà le dimissioni da magistrato ad appena 60 anni, 15 prima della pensione. Con una lettera presentata, in sordina, al Csm e al Ministero della Giustizia a metà febbraio, nei giorni delle stanche rievocazioni del 15esimo anniversario dell'inizio di Mani pulite.

Non è una resa, dice, non c'è sfiducia nel lavoro di 33 anni in toga, né tantomeno ci sono porte da sbattere o superbe prese di distanza da coloro che invece restano con la toga addosso, convinti che far bene il proprio lavoro quotidiano contribuisca a migliorare da dentro il sistema: «Ci mancherebbe altro, anche l'amministrazione della giustizia è indispensabile». Anche, dice però Colombo. Prima, un «prima che magari non è cronologico ma sicuramente concettuale», spiega di essersi reso conto che, per crederci ancora, ha bisogno di sentire esistere un prerequisito: «La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare».

La scelta di dedicarsi a questo obiettivo nasce da «un rammarico: il verificare come la giustizia sia l'unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di entrambe le dichiarazioni. Ma lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità quando l'illegalità sia particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e disillusione».

«E' incredibile vedere quanto le persone siano coinvolte da questi contatti, da fuori è davvero inimmaginabile», si infervora Colombo raccontando di incontri «programmati per due ore e dove invece devo fermarmi per tre»; di centinaia di persone che magari vengono in un teatro o in una biblioteca all'antivigilia di Natale e quindi non certo perché non sanno cosa fare»; di «ragazzi che succede spessissimo restino con la bocca aperta» a sentire eventi della vita del loro Paese fondamentali, ma che nessuno mai gli aveva raccontato. «Bisogna dar loro due cose: metodi e informazioni», ritiene Colombo, che, sostenuto anche dall'esperienza di tanti incontri in tema di corruzione, tecniche investigative, assistenza giudiziaria internazionale, ai quali è chiamato particolarmente all'estero, si propone ora di impegnarsi in questa direzione «sia attraverso contatti diretti, sia scrivendo che occupandomi di editoria: va comunicato il profondo perché delle regole e il come farle funzionare; occorre colmare la carenza di informazione non solo sui fatti, ma anche sulla concatenazione dei fatti e del pensiero; è necessario individuare le premesse e rendere evidenti le loro conseguenze, sottolineando la necessità di coerenza, in modo da dare risposte stimolanti alla tanta voglia di approfondire questi temi».

E si intuisce che, rapportata a sé, è proprio questa esigenza di "coerenza" a spingere ora Colombo a lasciare l'amministrazione della giustizia.

Non ci crede più, non crede che si possa aumentare il tasso di legalità attraverso l'uso dello strumento giudiziario, quando nulla cambia all' esterno.

Da fuori forse sì, gli sembra possibile: «A questo punto della vita mi sono convinto che può esistere giustizia funzionante soltanto se esiste un pensiero collettivo che in primo luogo individui il senso della giustizia nel rispetto degli altri; che poi ci rifletta; e che infine, se ne viene convinto, arrivi a condividerlo. Si tratta di confrontarsi con i fondamenti della nostra Costituzione, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge». Mentre l'amministrazione reale della giustizia, quella che oggi a suo avviso arranca «senza una cultura condivisa delle regole, diventa qualcosa di estremamente difficoltoso, addirittura per certi versi eventuale, fonte essa stessa di giustizia casuale e quindi paradossalmente di ingiustizia», nel marasma di «una grande disorganizzazione e con scarsi mezzi».

Da questo punto di vista, per paradosso, «l'esperienza in Cassazione è stata per certi versi inaspettatamente confermativa: un impressionante numero di cause da trattare in poco tempo, scarsi mezzi, mancanza di stanze».

Il tutto accompagnato da una sensazione di «ineluttabilità» alla quale «si rassegna» chi pure lamenta «le cose che non funzionano», ultima goccia del cocktail che ora a Colombo fa dire: «Dare così poca cura a un'attività cruciale per l'amministrazione della giustizia è stata, per me, la definitiva conferma che c'è anche altro da fare».

Altro rispetto ai processi. E prima dei processi: la condivisione delle regole. E qui sembra affiorare l'eco di una sconfitta, l'unica forse avvertita come davvero bruciante dall'ex pm di Mani pulite: corrotti e corruttori rientrati nella vita pubblica, o direttamente (votati) o indirettamente (nominati), comunque legittimati dai cittadini.

Colombo si sente "tradito" dal "popolo" nel cui nome ha amministrato giustizia? «Piuttosto, sono contrariato nel vedere come la legalità, per questo Paese, sia ancora qualcosa che ha poche chances». Tra le concause, dice, « ha pesato il mutato atteggiamento dei media, le falsità dette contro le nostre indagini e talora contro di noi. Ma credo ci sia stato anche un altro elemento importante. All'inizio le indagini hanno coinvolto i livelli più alti della politica e dell'imprenditoria, perché nei loro confronti erano allora emersi gli indizi: persone lontane anni luce dal cittadino comune. Poi, però, man mano che le indagini progredivano, sono comparsi anche fatti attribuibili a persone comuni: al maresciallo della Finanza, al vigile dell'Annonaria, al primario dell'ospedale, all'ispettore dell'Inps, al medico e ai genitori dei figli alla visita di leva, alla cooperativa di pulizie. E qui, ecco che l'atteggiamento della cittadinanza è cambiato».

E voi magistrati siete finiti fuori mercato perché offrite un prodotto (la legalità) per il quale non c'è domanda? «Anche qui la misura della legalità è il rispetto dei principi costituzionali. Di legalità non c'è n'è abbastanza. Sono molti, per fortuna, coloro ai quali interessa la legalità, che vuol dire piena attuazione dei principi costituzionali della tutela dei diritti fondamentali e dell'uguaglianza di fronte alla legge. Ma non sono ancora abbastanza. E soprattutto, hanno una scarsissima rappresentanza, non trovano voce sufficiente. In alcuno dei due schieramenti». Colombo lo ricava «dal fatto che, altrimenti, sulla legalità sarebbero state fatte delle battaglie. E dico sulla legalità, non sul fatto che il signor Tizio o il dottor Caio siano colpevoli o innocenti: ad esempio sulla modifica delle regole del processo, per renderlo più agile e rapido; sulla dotazione di strumenti che consentano ai giudici di svolgere meglio la propria funzione; sulla cura della preparazione professionale».

E' questo il fronte che ora sembra prioritario a Colombo. Il quale, a sorpresa, non ha tanta voglia di voltarsi per toccare con mano l'esito delle sue inchieste: «Vogliamo essere spietati? Sono magistrato dal 1974, per 3 anni giudice, poi da inquirente mi è capitato di occuparmi della loggia P2, dei fondi neri dell'Iri, di Tangentopoli, della corruzione di qualche magistrato. Alla fine — a parte la dovuta definizione giudiziaria delle singole posizioni —, i risultati complessivi di questo lavoro quali sono stati? Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è sostanzialmente arrivati a una riabilitazione complessiva di tutti coloro che avevano commesso quei reati. Con un livello di corruzione percepita che non si è modificato. E, soprattutto, con una rinnovata diffusione del senso di impunità prima imperante». Cambiare dall'interno, no? «Dovrebbe davvero cambiare tutto». E invece, «possibile che per selezionare i capi di uffici giudiziari di dimensioni pari a una grande azienda, continuiamo a fare le scelte, quando va bene, sulla base della capacità di condurre indagini o scrivere belle sentenze, qualità che nulla hanno comunque a che fare con la capacità di organizzare un ufficio? Anche a proposito delle questioni disciplinari, siamo sicuri che, nonostante tutti gli sforzi, pur fatti, non si potesse fare ancora di più per evitare che qualche magistrato fosse avvertito come arrogante o non sufficientemente dedicato alla sua funzione?».

Per Colombo «l'Italia è un paese di corporazioni che per prima cosa si difendono autotutelandosi (ha presente l'espressione "cane non mangia cane"?)». E pur se «la magistratura mi sembra, tutto sommato, la migliore» di queste corporazioni, «anche al suo interno si avverte la tentazione di cedere alla stessa logica: la difesa della categoria, prima che dell'organizzazione, della disciplina, della laboriosità; con il rischio di isolamento per chi pensa il contrario».

La decisione di guardare alle regole da una posizione diversa — confessa Colombo, ieri in Procura a salutare alcuni colleghi — «non è stata facile e continua ad essere molto sofferta. Non soltanto perché questo lavoro ha assorbito buona parte della mia vita, ha accompagnato la nascita dei miei figli, la morte dei miei genitori, è stato intriso di eventi di dolore squarciante (come gli assassinii, proprio qui a Milano, di Guido Galli e Emilio Alessandrini, e dei colleghi eliminati da terrorismo e mafia); ma anche perché tanti sono i colleghi, dai quali mi separo, che con cura, attenzione e direi ostinazione non hanno fatto altro che cercare di rendere giustizia. Ma a mio parere, perché non sia un compito immane, occorre anche altro: che l'atteggiamento verso le regole cambi anche fuori dai palazzi di giustizia».

Luigi Ferrarella

Il quadro politico si sta chiudendo intorno a noi, stretti nella morsa di chi manovra al centro per espungere l'anomalia di una sinistra antagonista al governo e il nostro corpo sociale sempre più deluso. Marco Revelli su questo giornale, la redazione di Carta e molti altri che scrivono sulle reti dei movimenti pacifisti, dei lavori precari e delle comunità locali impegnate in vertenze contro gli effetti devastanti del neoliberismo, segnalano l'aprirsi di una lacerante separazione tra le istanze di movimento e la società politica. E' una crisi che viene da lontano - un fallimento delle ipotesi egualitarie della democrazia rappresentativa liberale, come ci dice Paul Ginsborg su La democrazia che non c'è - e che nemmeno i governi di ispirazione progressista e di fede democratica sembrano attrezzati a contenere. Eppure, qualche speranza era stata accesa dai modi decisamente innovativi con cui si costruì la coalizione dell'Unione attorno al programma elettorale e alla felice invenzione delle primarie. Rifondazione stessa - la novità della coalizione - portava con sé un laboratorio di pratiche di «internalità» ai movimenti nati a Seattle, maturati a Porto Alegre, esplosi a Napoli, Genova, Firenze e affermatisi con il «popolo della pace». Poi a Melfi, Scanzano, Val di Susa, fino a Vicenza, in mille e mille «cortili d'Italia» a difesa dei beni comuni. Coscienza di classe, di genere, di luogo, di specie... intrecciate nel tentativo di ricomporre una visione del mondo planetaria, pacifica, ambientalmente sostenibile, cooperante e economicamente equa.

Di fronte alle dure repliche della guerra e del mercato, queste posizioni sembrano oggi perfino ingenue, prive di incidenza, «inefficaci» nei confronti di una logica di governo che procede su binari predefiniti. Anche il governo Prodi sembra rifluire dentro il tran-tran dei vecchissimi centro-sinistra. Prevale la governabilità, la stabilità del quadro politico, il rispetto degli «impegni precedentemente assunti», dei «vincoli» monetari e militari internazionali, l'affermazione di astratti «interessi generali» dell'economia contro le istanze «particolari» degli abitanti, dei pensionati, dei giovani, dei migranti... Accettato questo quadro politico come il migliore possibile, comunque privo di alternative, ne discende conseguentemente la sua blindatura. I tentativi delle sinistre di dare corso alle aspettative dell'elettorato o anche solo di rispettare i programmi pattuiti con gli alleati vengono denunciati come pericolose azioni destabilizzanti. Paradossalmente sono proprio le sinistre (prive in realtà di alcun vero ruolo di comando e orientamento generale del governo) a apparire come i più strenui difensori del governo, dando l'impressione di sacrificare su quest'altare le rivendicazioni della propria parte.

In maggiore sofferenza appare Rifondazione, che ha rappresentato precisamente il tentativo di dimostrare che un partito politico avrebbe potuto tenere in relazione bisogni, aspirazioni, obiettivi di trasformazione della società, e istituzioni politiche rappresentative. Ciò che Revelli chiama : «fare rappresentanza di ciò che muove in basso». Alcuni traggono da ciò la conclusione che un equivoco si sarebbe definitivamente consumato e che per le sinistre d'alternativa vi sarebbe un'incompatibilità ontologica con le funzioni di governo: da agenti della trasformazione a guardiani dei movimenti. Altri pensano invece che la contraddizione potrebbe risolversi positivamente riuscendo a rafforzare il peso delle sinistre (tramite un loro allargamento e una unificazione), e così facendo si potrebbe spostare in avanti l'asse delle mediazioni politiche. Ma forse, per usare le riflessioni di Fausto Bertinotti nella Città degli uomini, il suo ultimo libro, serve di più.

Servirebbe sottoporre a critica il concetto di politica come sfera separata, autosufficiente e sovraordinata rispetto alle relazioni sociali - inevitabilmente conflittuali - che animano il vivere quotidiano. Alla politica del potere, come tecnica di perpetuazione del dominio dei più forti, bisognerebbe sostituire la politica dell'esperienza concretamente vissuta. In fondo, a ben guardare, la distanza crescente tra decisioni assunte nelle stanze dei rappresentanti politici e ciò che succede nel paese reale ha spiegazioni molto semplici, come nel caso più estremo, quello della partecipazione (diretta o fornendo la logistica) alle guerre scatenate dagli Usa: l'imposizione di scelte impopolari agli occhi della stragrande maggioranza degli elettori, oltre che estranee al sentire comune. Anche volendo lasciare fuori dalla porta il dibattito sul rapporto tra etica e politica potremmo attenerci al criterio della partecipazione e della condivisione: «Una mediazione buona non può che essere una mediazione capace di coinvolgere il popolo interessato nella sua condivisione; allo stesso modo, una mediazione cattiva è, per certo, quella che viene realizzata in condizioni di separazione dalla rappresentanza della volontà popolare» (Bertinotti, p.107).

Il passo successivo, per una politica di sinistra, è quindi portare lo scettro della sovranità sempre più giù, nelle sfere più basse della società, nei territori, nelle comunità locali degli abitanti e dei produttori e sancire che nessuno può avocare il diritto di sacrificare il benessere di altri, per nessuna ragione. Le notizie che ci vengono da Serre, da Aprilia, da Livorno, da Brindisi, da Civitavecchia, da Roncade, da San Piero di Rosà... ci dicono che la rinascita della politica deve chiamarsi con questi nomi.

Povero Bersani: tutto preso dagli scampoli di liberalizzazione - orari dei barbieri e ricariche telefoniche - non si è accorto che pezzi importanti d'Italia finiscono all'estero privando l'economia di settori tecnologicamente avanzati. Il riferimento è a Fastweb che sta per prendere la cittadinanza svizzera e a Telecom destinata (da Tronchetti Provera) a emigrare in Spagna, nella scuderia Telefonica, ma che forse sarà «salvata» dalle banche. Ieri il ministro dello sviluppo economico, messo da parte il tradizionale aplomb, ha detto agli industriali che fanno un po' schifo: «non raccolgono le sfide della liberalizzazione e dell'innovazione».

Bersani ha ragione: l'Italia non brilla nei settori tecnologicamente avanzati soprattutto perché la ricerca è nulla. Gli imprenditori preferiscono spendere soldi per investire nei settori protetti: non è casuale la campagna contro le multiutility municipali nate - nessuno lo ricorda mai - oltre un secolo fa, nel 1903, grazie a Giolitti che in questo modo volle estendere una pluralità di servizi a popolazioni che ne erano prive perché anche un secolo fa i padroni investivano solo in quello che garantiva profitti immediati.

L'Iri è stata smantellata, tutte le sue imprese privatizzate. E molte - soprattutto le industriali e quelle della distribuzione - sono finite in mani estere. Poche, purtroppo, sono state valorizzate; la maggior parte (soprattutto nell'alimentare) sono divenute aziende anonime riconoscibili solo per il marchio glorioso, dietro il quale spesso non c'è valorizzazione dei prodotti di base italiani. Gli imprenditori italiani hanno preferito investire nelle banche e nei monopoli naturali. E' così che i Benetton si sono trasformati in casellanti d'autostrada, perdendo parte della vocazione industriale. E così, un po' per volta, sono finite in mani estere l'elettronica, l'informatica, la chimica fine e in particolare l'industria farmaceutica.

L'Italia è diventata grande consumatrice di prodotti fisicamente costruiti nel nostro paese, ma progettati all'estero. Insomma, salvo rare eccezioni, i centri decisionali delle multinazionali non sono domiciliati in Italia. Nel settore delle telecomunicazioni è accaduto la stessa cosa. All'inizio era tutto italiano (Telecom e Tim) e pubblico. Poi è arrivata Omnitel (prima De Benedetti, poi Colaninno) e poco dopo Wind. Poi è scoppiato il caos: Telecom è stata privatizzata malamente - allora le banche fecero le schizzinose - è divenuta terra di conquista e strada facendo si è caricata di debiti visto che i vari padroni che la conquistavano le scaricavano addosso i debiti fatti per la scalata.

Intanto però Omnitel è finita in mani inglesi (buone); Wind in mani egiziane (misteriose) e ora Fastweb (la più tecnologica del gruppo) rischia di finire in mani svizzere. Pubbliche, visto che la Confederazione gli affari li sa fare. Nel settore tlc a difendere l'italianità sono rimaste Tiscali (idea geniale) e Telecom, la cui rete è un monopolio naturale che sarebbe pericoloso privatizzare. Per questo il governo oggi benedice le banche che vogliono conquistarla.

«Berlusconi non aspetti neanche un minuto a provocare la caduta del governo Prodi e il ricorso a nuove elezioni perché la promessa che aveva fatto fin dall’inizio di non lasciare spazio ai comunisti sta per essere contraddetta (dal probabile voto della Cdl a favore della missione italiana in Afghanistan, ndr) in maniera tale da far pensare che l’intervallo berlusconiano sia servito ai comunisti per assestarsi nel migliore dei modi. Noi - quelli che amano l’Italia - vogliamo dimostrare che non è così e vogliamo farlo subito. Siamo pronti a combattere subito».

È l’articolo di fondo, pag. 1, apertura, de Il Giornale organo personale di Berlusconi, il giorno 9 marzo.

L’autrice è Ida Magli, che forse ha lasciato allibito lo stesso direttore di quel quotidiano. Ma ha avuto il sostegno autorevole per trasformare uno sfogo febbrile e concitato nella voce ufficiale della destra di Berlusconi sul giornale di Berlusconi.

Da notare la parola «combattere» che, come si vede dal contesto, non è una metafora.

Sono importanti anche altri due passaggi di questo testo di cui «Radioparlamento» (Rai) ha dato lettura integrale spiegando che conteneva «importanti valori sociologici» (9 marzo, ore 9.08).

Il primo: «perché di questo si tratta con l’attuale governo, del comunismo, in tutte le decisioni già prese e in quelle da prendere. È lo Stato comunista. E il comunismo non può governare se non come Stato di polizia».

Il secondo: «Non lo vedono (i politici di destra, ndr) che i giovani girano a vuoto fino al punto di ammazzarsi con l’unica arma che possiedono? I politici hanno fatto una legge per vietare la violenza negli stadi. Pensano davvero che combattere per la propria squadra sia “stupido” oltre che illegittimo? Ma per cosa devono combattere questi giovani, con che cosa si possono identificare se non gli è stato messo davanti altro valore che il calcio?».

Il manifesto combattentistico (e la macabra celebrazione dell’omicidio dell’ispettore Raciti) pubblicato con solennità dal quotidiano personale di Berlusconi non gira a vuoto. Appare il perno di una strategia, una febbre lucida di distruzione della vita italiana che la parola “guerra” inietta nelle vene berlusconiane come una droga. No, i talebani non c’entrano e neanche gli alleati americani. Scherziamo? I nemici sono - ci spiega Libero pag. 3, articolo di Fausto Carioti lo stesso giorno - «Romano Prodi, Massimo D’Alema, Arturo Parisi e Piero Fassino (che) con ogni probabilità proveranno a mettere la testa sotto la sabbia, incrociare le dita, continuare a dire che la nostra era e resta una missione di pace e sperare che non ci scappi il morto. Sta alla Casa delle libertà inchiodarli alle loro responsabilità: siete pronti ad ammettere che i militari italiani in Afghanistan sono in guerra contro i talebani? Se, come è assai probabile, Prodi si dichiara contrario a mettere i nostri soldati in assetto di guerra, metterebbe in gioco, per la sua sopravvivenza politica, la vita dei nostri soldati».

Vedete dunque dove vola l’avvoltoio. Vola in cerca di cadaveri da poter depositare, con bandiera e tutto (e la più cinica finzione di patriottismo), davanti a Palazzo Chigi come strumento (pensate all’orrore di questa parola) per rifare elezioni già in parte misteriosamente taroccate e comunque rese “malate” dall’esito (due Camere elette con due leggi diverse e dunque con due maggioranze diverse) dalla legge-porcata di Calderoli. Una grave, drammatica questione internazionale viene dunque usata come espediente per salvare, tutto insieme, legge Cirielli, prescrizioni, condoni, Mediaset, processi in cui l’ex premier è tuttora - e più che mai - imputato, conflitto di interessi, affari personali, la cosidetta riforma giudiziaria Castelli che spazza via il potere giudiziario, tutte le leggi ad personam che si possono ancora fare, magari spartendo un po’ di benefici anche con altri imputati di crimini vari, tipo Mitrokhin, Sanità, intercettazioni illegali, tutte imprese di bravi compagni di strada.

Ricordate Nassiriya e l’oltraggio che si levava quando qualcuno metteva in dubbio la possibilità di una missione di pace in cui i soldati italiani erano sottoposti agli ordini di due armate in guerra? Ricordate la strage di base Maestrale (Animal House) portata a termine senza difficoltà dai terroristi perché, a difesa di quella base, non vi erano neppure gli ostacoli in cemento detti “panettoni” che si usano nel traffico italiano? Si levava stentorea, a quel tempo, la voce del ministro della Difesa Martino intento ad affermare ciò che adesso la stampa del suo regime nega risolutamente (che si tratti di missioni di pace). Resta il fatto che i soldati italiani nell’era di Berlusconi venivano inviati a scortare (cioè precedere) pesanti convogli militari inglesi con l’unico vero compito di scoprire se vi erano bombe o mine sul percorso, esponendosi al pericolo di saltare in aria.

E infatti sono saltati, in aria, gli italiani, e morti, per “aprire la strada” ai mezzi di guerra inglesi. Erano piene di fierezza le dichiarazioni di chi andava a passare in rassegna i nostri militari in missione di pace e ritornava precipitosamente in Italia due ore dopo. I “nostri ragazzi” intanto andavano in pattuglia su blindati leggeri senza torretta, il militare addetto all’arma esposto fino ai fianchi.

E qualcuno forse, nonostante la concitazione di guerra che imperversa tra i falchi di Berlusconi, ricorderà che il maresciallo Cota, di pattuglia su un elicottero senza portelloni e senza difese, è stato facilmente colpito e ucciso da terra mentre accorreva a sostenere l’azione di combattimento di un’altra unità di volenterosi (soldati romeni).

Ma se il dibattito fosse di politica internazionale, allora si saprebbe che Camera e Senato americani sono in rivolta perché non riconoscono le strategie fin qui seguite, dal loro isolato presidente, e si interrogano sul quando e come e con quale esito guerre di questo genere possono finire. E invece di farsi prendere dalla frenesia bellica, si stanno interrogando, insieme a tutta l’opinione pubblica di quel Paese libero, sul perché i soldati reduci dall’inferno Iraq e dall’inferno Afghanistan, quando sono feriti e quando sono menomati, vengono abbandonati in altri inferni, pieni di sporcizia e di topi, detti “ospedali militari”. Il più scandaloso, ci dice la libera stampa americana (che non deve fare i conti con il conflitto di interessi di nessuno) è il «Walter Reed» di Washington che abbiamo visto in tanti film di guerra.

Ma questo non è un dibattito sulla politica internazionale e - spiace deludere i colleghi senatori Turigliatto e Rossi - non è neppure un dibattito sulla pace e sulla guerra.

In quel dibattito tutti i Paesi civili scambiano voti e persuasioni, perché i confini fra maggioranza e opposizioni, specialmente quando il pericolo è vero e il dramma è da un lato come affrontarlo e dall’altro è come uscirne, non sono netti e non sono tracciati una volta per tutte, sia perché cambiano gli eventi sia perché cambia o può cambiare la politica. Per esempio - come abbiamo detto - la politica americana sta attraversando un cambiamento molto grande. E infatti la distanza tra la politica che ispira adesso tutto il Parlamento americano (Camera e Senato) e la febbre di guerra che agita il mondo berlusconiano si è fatta grandissima.

Ma questo - bisogna ripeterlo - non è un dibattito di politica estera. Per quel dibattito sia Prodi che D’Alema hanno già dato risposte dignitose, ferme e necessarie. E la tipica frase della destra (vecchia come le guerre napoleoniche): «far mancare il sostegno ai nostri soldati» oppure «non abbandoneremo i nostri soldati» è priva di senso perché non sono i soldati che chiedono aiuto alla politica (senza decisione politica i soldati non vanno in nessuna guerra) ma è la politica che - una volta decisa una guerra - chiede aiuto ai soldati.

No, questo è un percorso di trappole e tagliole per tentare di liberarsi di un governo che - nonostante ostacoli e tentativi dell’ultimo momento, nonostante le corse pazze di Berlusconi in tutte le televisioni e i programmi sportivi e porno della Repubblica - è stato democraticamente eletto e sta tentando di ripristinare dignità e legalità in un Paese duramente manomesso, a cui stava per essere sottratta persino una parte importante della Costituzione e la libertà dei giudici.

Dunque il voto è ancora una volta per o contro Berlusconi, per o contro politica e dialogo invece di violenza e potenza, per o contro un nuovo filo di comunicazione e reciproco sostegno con il Parlamento dei democratici anti-guerra appena eletto negli Stati Uniti e già molto determinato a non continuare nel percorso Bush-Cheney, dietro cui continua a trottare solo Berlusconi.

Può essere utile ricordare le parole citate all’inizio di questo articolo, l’articolo di fondo de Il Giornale firmato da Ida Magli. Il fatto importante non è se la firma sia o non sia autorevole. Il fatto importante è che, avendo la Magli scelto di scrivere un articolo paleo-fascista in cui il nemico è il comunismo, il condottiero è Berlusconi, l’uomo da abbattere è Prodi, e il valore centrale è il maschio che sceglie la guerra e l’appello a combattere, quell’articolo è diventato un editoriale. Sul giornale personale di Berlusconi. Dunque il proclama della metà dell’Italia che dice di rappresentare. Sarebbe un errore riderci sopra. Infatti quell’articolo interpreta bene ciò che avviene ogni giorno al Senato, la violenza degli insulti e il tripudio da stadio (quello stadio di morte esaltato dalla Magli) in caso di vittoria.

Chi vorrà dare il suo voto a questa gente, ovvero negare il sostegno a Prodi, e poi dire di avere dato un “voto di pace”?

Quando la socialdemocrazia tedesca decise di divenire forza di governo, alla fine degli Anni Cinquanta, fu la capacità di coalizione il cruciale banco di prova cui decise di sottoporsi, non solo muovendosi in modo diverso dal passato ma ripensando i propri programmi, lo sguardo sulla società, l’attitudine ad ascoltare voci differenti dalla propria. Il congresso di Bad Godesberg nel ’59 fu la scoperta e l’approfondimento di questa capacità, cui venne dato il nome di Koalitionsfähigkeit. La metamorfosi, che ebbe come protagonista Herbert Wehner, passò con difficoltà nel partito ma divenne evento fondatore: la Grande Coalizione, nell’autunno ’66, nacque da quella scelta e fu lo strumento attraverso il quale la sinistra, dopo ripetute sconfitte, poté prima governare con la Democrazia cristiana, poi divenire - già nel 1969 - forza egemone di un’aggregazione alternativa alla Dc. Il bipolarismo compiuto che da allora regna in Germania ebbe bisogno di quel tirocinio preparatorio, per metter radici. La capacità di coalizzarsi con forze non appartenenti al proprio campo irrobustì alla lunga il campo stesso, anziché impoverirlo e sopprimere l’alternanza tra fronti contrapposti.

Un fenomeno simile sta accadendo in Francia, da quando François Bayrou ha cominciato a salire nei sondaggi come uomo-ponte fra destra e sinistra. Qui abbiamo due blocchi che già hanno governato (il socialista-comunista, il gollista-liberale) e dunque formalmente il bipolarismo vive. Ma la loro Koalitionsfähigkeit è lungi dall’essere acquisita. I socialisti hanno una cultura delle coalizioni solo rivolta a sinistra, pur essendo oggi assai moderati: lo slogan «nessun nemico a sinistra», teorizzato nel primo Novecento dai radicali francesi, è rimasto immutato con Mitterrand, Jospin, Ségolène Royal.

Quanto ai gollisti di Sarkozy, essi sono ossessionati da Le Pen, con cui non vogliono allearsi ma i cui elettori intendono conquistare.

Bayrou rompe le abitudini, e lancia alla Francia una sfida del tutto nuova: ai cittadini come ai partiti chiede di apprendere l’arte di coalizzarsi col diverso. Nell’immediato, il suo progetto prevede un’intesa destra-sinistra, magari temporanea per non impedire future alternanze. Nella sostanza, e nel lungo periodo, la ginnastica mentale che propone consiste nella capacità virtuale d’ogni raggruppamento di cooperare sia a destra sia a sinistra, per svecchiare il profilo dell’una come dell’altra e restituire al paese un bipolarismo rinvigorito. Come Wehner a suo tempo, egli sembra convinto che governare durevolmente si possa alla sola condizione di imparare simili virtù di elastica resilienza e rifondazione.

All’origine di questa metamorfosi del pensiero francese non ci sono le ripetute sconfitte d’un partito, come in Germania negli Anni 50-60. Oggi sono più vaste malattie della democrazia rappresentativa - e delle famiglie di destra e sinistra - a esigere il cambiamento. Il caso francese quindi ci riguarda, nascendo da un male diffuso e annoso. La tesi di Bayrou è che sinistre e destre sono divenute impotenti, non essendo più in grado di rappresentare la società e di predisporre mutazioni importanti assieme a essa. Le proposte fatte da ambedue non tengono conto dello svanire della sovranità nazionale assoluta - tuttora un mostro sacro in Francia - e sono accomunate da illusioni completamente irrealistiche. Da questo punto di vista né Sarkozy né Ségolène Royal sono innovatori, nonostante si presentino come figure provvidenziali e originali (il primo perché volitivo di carattere, la seconda perché donna femminista).

Ambedue le forze sono divenute impotenti a causa della loro chiusura e inattitudine all’ascolto. L’esempio più clamoroso, che Bayrou cita sempre, è quello di Chirac: avendo raccolto nel 2002 una maggioranza immensa ma artificiale (82,2 per cento), egli non ebbe l’accortezza di aprire ai socialisti che l’avevano votato per evitare Le Pen. Quel che sinistre e destre non vedono, che non sanno ascoltare, è la trasformazione vistosa della società e della stessa democrazia rappresentativa. Una trasformazione che in Francia ha generato autentici tracolli: l’eliminazione del candidato socialista e la sua sostituzione con Le Pen nel 2002; il no caotico all’Europa nel maggio 2005; i tumulti nelle periferie nel novembre 2005: tutti eventi che hanno disvelato l’atrofia del bipolarismo classico e gli svantaggi delle reciproche impermeabilità. La scelta di divenire specchi fedeli della società non ha addomesticato quest’ultima ma l’ha ulteriormente frammentata, estremizzata. Entrambe le forze sono apparse lontane dal popolo, sorde, ed entrambe hanno reagito senza mutare abitudini di pensiero anche quando si rifugiavano nel populismo. Un populismo ormai radicato, non solo in Francia. L’Italia aveva dato il via, negli Anni 90, con Mani Pulite, al crollo dei vecchi partiti e all’impolitica alternativa di Berlusconi. A questo «populismo lungo», il politologo Rosanvallon dà il nome di contro-democrazia. Una contro-democrazia che di per sé è la naturale risposta al frantumarsi dei partiti, delle visioni sociali d’insieme. Il cittadino non più affiliato a grandi organizzazioni partecipa alla cosa pubblica votando, ma anche fabbricandosi vari poteri indiretti.

Contro-democrazia è quando si reagisce alla crisi delle democrazie rappresentative con una democrazia negativa: aumentando il potere di sorveglianza, di veto, di giudizio istantaneo su ogni politica, breve e non. Chi reagisce è un cittadino niente affatto passivo, che interviene con metodi classici (il voto) e non classici (piazza o rivendicazioni identitarie, giudici o stampa), ma che imboccando tale strada ha perso la visione d’insieme dell’interesse pubblico e ogni volontà che non sia d’impedimento. Il populismo e l’antipolitica sono patologie della contro-democrazia: il potere vigilante diventa delegittimazione costante, il veto blocca le politiche anziché suscitarle, il giudizio diventa sistematica distruttività (Pierre Rosanvallon, La contre-démocratie, Seuil 2006).

Di qui la necessità di infrangere le barriere: di «scomporre le linee», dicono i francesi citando Baudelaire. Di evitare che la frammentazione favorisca paradossalmente chi inventa di sana pianta un popolo uno, indiviso: il populista, appunto, secondo il quale qualsiasi avversario che non rappresenti l’Uno è subito illegittimo. Di qui l’alternativa suggerita da Bayrou: non l’uomo provvidenziale che congela divisioni fossilizzate, ma il politico che ingloba la contro-democrazia per curarne le patologie, esercitandosi nelle coalizioni con il diverso da sé e ridefinendo i futuri criteri di divisione.

In Italia quest’apprendimento è in corso ed è significativo che l’esempio Prodi seduca Bayrou. Centro-sinistra e Ulivo sono la risposta all’emergenza populista di Berlusconi e alla crisi della democrazia. Contrariamente a quel che si dice, non abbiamo in Italia un blocco governativo di sinistra, ma un blocco che oltre all’Unione comprende conservatori e sinistre estreme. Sia pur faticosamente, anche queste ultime hanno dimostrato capacità di coalizione: hanno digerito un pesante risanamento economico, accettato la missione in Libano, scoperto l’Europa. Divenire capaci di coalizioni e dunque di governare presuppone nei due blocchi la preservazione di un programma minimo cui non si rinuncia: a sinistra possono essere i diritti della persona, il lavoro non precario, o la laicità e autonomia della politica; il multilateralismo o un’Europa autonoma dall’America. Bayrou, ad esempio, promette modifiche profonde (l’abbandono dell’illusione nazionale di De Gaulle, un’Europa federale fatta da un’avanguardia di Stati) ma al tempo stesso è fermo nel preservare alcuni valori: il modello d’integrazione repubblicana, la laicità, la valorizzazione di servitori dello Stato come gli insegnanti.

Ma, soprattutto, egli propone di assorbire la contro-democrazia: di darle un ordine, una voce, per evitare che sfoci nella malattia dell’impolitica populista. Da questo punto di vista, Bayrou non è centrista come son centristi alcuni italiani. Non dice che la mutazione avverrà solo a opera d’una famiglia centrale. Dice che avverrà solo se si incorpora la contro-democrazia, espressione della nuova società della diffidenza cresciuta sulla chiusura reciproca di tutti i partiti, compresi i centristi. Dice che devono cambiare non solo metodi ma programmi: cosa non ancora avvenuta nelle forze centriste. I centristi italiani ad esempio non hanno ancora appreso la Koalitionsfähigkeit ad ampio raggio. Sembrano interessati a un’aristocrazia chiusa, autosufficiente, come proposto da Antonio Polito e Nicola Rossi in una lettera a Follini pubblicata l’8 marzo sul Corriere della Sera. Follini sembra più lungimirante. Nella risposta, il 9 marzo sul Corriere, sostiene che un ponte fra destra e sinistra è preferibile a un tetto su nuove compatte famiglie. È il ponte che educa alla Koalitionsfähigkeit, all’ascolto e rispetto del diverso, e che aiuterà a ricreare una bipolare architettura fatta di famiglie, case, tetti meno pericolanti.

Scarsa curiosità e nessuna passione sta suscitando quel terremoto della scena politica italiana che dovrebbe rappresentare la nascita del Partito democratico. Esso cancella definitivamente i due protagonisti del dopoguerra, Dc e Pci, duellanti per oltre quarant'anni, formatori di storia e cultura antagoniste, i cui residui - Ds e Margherita - stanno fluendo in un tiepido abbraccio dentro uno stampo centrista, per dirla all'europea, o «clintoniano» per dirla come Veltroni.

Sono in corso le assemblee che preludono ai due congressi di scioglimento. Non si può dire che la discussione sia bruciante. La Margherita era già frutto della turbolenza che dal 1987 aveva scagliato la Democrazia cristiana in frantumi disperdendone la base elettorale perlopiù nel centrodestra. Ma quello dei due che subisce la trasformazione più profonda è l'ex Pci, che dal crollo del Muro di Berlino ad oggi è andato perdendo, per scivolamenti successivi, ogni aggancio con il movimento operaio dal quale veniva. La svolta, che per breve tempo è sembrata portarlo a una socialdemocrazia ammodernata, è andata assai oltre, fino al taglio con qualsiasi radice, non solo comunista ma socialista. Nessuna Bad Godesberg ha segnato il passaggio come era avvenuto, con non poco clamore, nella socialdemocrazia tedesca; la deriva è stata pigra, coperta, all'italiana, per stati di fatto successivi.

E così sarà anche, a quanto si vede fin d'ora, il suo atto finale. A leggere le mozioni che preparano l'ultimo congresso dei Ds - quella di Fassino, quella di Angius e Zani, quella di Mussi - l'impressione è che, con diverse sensibilità, sia comune a tutte e tre un orizzonte di fine della storia - fine dei due secoli di vicenda europea segnata dall'alto conflitto politico e sociale che, emerso con la rivoluzione francese, s'era addensato mezzo secolo dopo nelle lotte continentali del 1848 e con il Manifesto di Marx avrebbe poi dato vita alla I, II e III Internazionale, e segnato la seconda metà del XIX secolo e tutto il XX. La mozione di Angius e Zani chiede, è vero, un tempo di riflessione prima di andare allo scioglimento, per correggerne l'asse e coinvolgere quell'associazionismo di sinistra, che è una novità degli ultimi decenni e del quale nessuno ha tenuto conto, nell'operazione tutta verticista, e di vertici in buona parte consunti e rissosi. Quanto alla mozione di Fabio Mussi, essa dice rotondamente no all'intera operazione. Ma è da dubitare che l'una e l'altra saranno un vero ostacolo al processo che da almeno dieci anni somiglia piuttosto a una deriva, nel corso della quale idee e pratiche e fini assai lontani anche dalla migliore o più eretica e libertaria tradizione comunista hanno penetrato l'ex Pci. E dove i meccanismi cogenti propri di un grande o ex grande partito, che è anche arbitro dei singoli destini elettorali, sono in grado di garantire il gruppo dirigente da qualsiasi deviazione dalla rotta.

Non era scritto che questo fosse l'approdo obbligato della crisi del Pci alla caduta del Muro di Berlino. Neanche questa crisi era obbligata per un partito che era cresciuto in un largo margine di autonomia e aveva un radicamento autentico. Ma è un fatto che quel partito non aveva mai preso per le corna il toro del cosiddetto socialismo reale, né alle sue origini né nella sua marcescenza, per cui quando l'Urss è precipitata è precipitato anch'esso, fino a definirsi un errore storico. Restando imprecisato a quando risalisse il medesimo, alla scissione del 1921 a Livorno, come sosteneva Giorgio Amendola, o alla matrice marxisteggiante del socialismo europeo, come devono essersi convinti gli stessi che avevano condannato Amendola nel 1964. Né vi si è più riflettuto, con il pretesto che la velocità dei cambiamenti mondiali, negli eventi e nei paradigmi culturali, renderebbe mera perdita di tempo far i conti con la storia. Sta di fatto che l'identità attuale dei Ds si è del tutto separata dall'idea di un conflitto insanabile fra capitale e lavoro, capitale e forze produttive non devastatrici, capitale e piena libertà della persona umana. Essa viene relegata al più passato dei passati, quando non irrilevante da sempre.

E' sulla sua obliterazione che può convergere con i Ds l'ala democratica e solidarista del cattolicesimo politico rappresentata da Romano Prodi e da (un più riluttante) Rutelli. Nonché l'ex terzaforzismo italiano, che con la socialdemocrazia ha sempre flirtato assai poco.

La mozione di maggioranza dei Ds presentata da Piero Fassino rappresenta già il nuovo partito, in essa la transizione o il famoso passaggio del guado sono pienamente compiuti. L'assetto del mondo e della società sono soddisfacenti, o almeno privi di mortali pericoli, la globalizzazione seguita al crollo dell'Urss e al breve tentativo di autonomia dei paesi terzi è assunta come solo terreno reale in cui operare. La mozione suona anzi assai poco aggiornata, giacché neppure fa cenno né alle traversie della crescita europea sotto gli imperativi della Banca Centrale e della Commissione, né alle resistenze di opposta natura degli stati nazionali, né al delinearsi di minacciose guerre commerciali fra soggetti emergenti, né all'imbuto in cui l'iniziativa americana ha cacciato se stessa e il mondo musulmano. Vi è più attenta la mozione Angius-Zani. Il provincialismo domina - l'obiettivo del futuro Partito democratico è non più che una alternanza di governo sulla base di una idea largamente condivisa di società in Italia, come quella che si dà fra repubblicani e democratici negli Stati Uniti, conservatori e New Labour in Gran Bretagna. Partiti peraltro sempre più somiglianti: basti l'impossibilità di distinguersi sul ritorno della guerra come strumento della politica, riesumato con il pretesto della lotta al terrorismo, e sul dogma del mercato e della competitività, con conseguente drastica riduzione dei poteri della sfera politica rispetto a quella economica.

Le due altre mozioni esprimono preoccupazione. Non tanto sulla collocazione del partito sulla scena internazionale, che pure è un punto tutt'altro che risolto, come le vicende della maggioranza dimostrano, ma sulla questione sociale e la laicità. Il conflitto fra capitale e lavoro ha subito anch'esso uno scivolamento semantico, sparendo il capitale e restando il lavoro come problema di solidarietà con i meno fortunati, salariati a vari livelli e, salvo i dirigenti, tutti retribuiti meno d'una volta e precari. E' vero che appena si prende la questione sul serio, ci si scontra con temi tabù, l'essere l'Europa non più che un mercato aperto ad ogni razzia ed esposto a ogni dumping, e la mancanza di qualsiasi controllo sul movimento dei capitali e quindi l'impossibilità d'una politica economica. La verità è che nel liberismo spinto in cui siamo,con permanenti delocalizzazioni e in preda alla speculazione finanziaria, né l'occupazione né il potere d'acquisto dei salariati possono essere protetti. L'immigrazione è un bisogno potente indotto dalle inuguaglianze della globalizzazione selvaggia e un potente destabilizzatore, cui ad oggi non si sanno che opporre muri e proporre chiacchiere sulle multiculturalità. Ma su tutto questo erano già anni che Pds e Ds avevano saltato il fosso.

Quanto alla laicità, va detto che le due mozioni minoritarie mettono le cose in chiaro, ma quella di Fassino assume da Giorgio Napolitano la complementarietà dei valori che si darebbero fra la chiesa e la repubblica, e qui davvero il novello Partito democratico si colloca alquanto più indietro del 1789.

Chi rappresenterà ormai in Italia i lavoratori e le figure sempre più assoggettate dal mercato? E' sorprendente come l'imminenza del Partito democratico abbia lasciato immobili le forze che si vedono alla sua sinistra. Nulla è cambiato nei rapporti, neppure fra le due che si proponevano di mantenere o rifondare la rappresentanza del conflitto capitale-lavoro, anche se, a dir la verità, una, il Pdci, è stata sempre troppo debole e l'altra, Rifondazione, ha frascheggiato sulla sua importanza nel tempo, quando ha puntato tutto e solo sui movimenti. C'è perfino un paradosso, che in pieno dispiegarsi dell'anarchia dei capitali, il solo nominarla sia diventato oggetto di scandalo. Ma il conflitto esiste e su scala mondiale come non mai ed è esso a rodere alle radici anche l'esercizio della politica, e non solo per i salariati ma per le altre figure che da esso sono, assieme, prodotte e trascinate fuori di sé, nessuna di loro essendo in grado, da sola, di assumere una diversa centralità. Sta di fatto che è una voragine che si è aperta nella rappresentanza.

La necessità di tenere assieme il governo, per evitare che il guasto ormai avvenuto nella nostra società riporti a galla Berlusconi, sta rendendo opaco il vuoto politico a sinistra. Anche per la Cgil: si tratta di ben altro che di governo amico o non amico per il sindacato - tutto il sindacato, non solo quello dei metalmeccanici. Esso è di fronte a qualcosa di ben più grave che lo scorrazzare di qualche velleitario epigono degli anni Settanta, che non ha nulla imparato ma anche nulla ha fatto se non gesticolazioni. Le organizzazioni dei lavoratori hanno davanti a sé una dirigenza capitalistica modesta, quando non improvvisati social climbers, e un ceto politico che in tema di sviluppo, compatibile o no, non ha la minima idea. Come possono difendere il lavoro?

Ieri sull'Afghanistan, domani sulle pensioni, sarà difficile tenere assieme alla Camera o al Senato una maggioranza già così somigliante al prossimo Partito democratico da non riuscire a reggere al suo interno le voci di chi parla il linguaggio dei movimenti, dall'ormai antico movimento sindacale a quello nuovo della pace, e a seguire. Sgomenta che i partiti di estrema (estrema!) sinistra non abbiano di meglio da fare che perseguitare e, magari espellere, i quattro gatti che esprimono una protesta reale, che sbagliano soltanto il terreno su cui farla valere. Se nelle istituzioni oggi essa non può che perdere, fuori di essa si può solo augurarsi che cresca finché anche le istituzioni dovranno tenerne conto. Ma questo non è un obiettivo anche di Rc, del Pdci e di gran parte di quel 13% di italiani che aveva votato fuori del campo ulivista? Non so se sia vero, ma che una persona come Paolo Cacciari sia indesiderabile in Rc è una follia. Si possono tener separati i livelli di intervento (non lo fanno la borghesia e la sua rappresentanza più o meno accreditata?), ma che le sinistre debbano rianalizzare il punto in cui siamo, misurare senza più soddisfazioni la propria fragilità, rimettere le teste in movimento e costruire un'operazione opposta a quella dei Ds-Margherita è d'obbligo. Se no, non glielo perdonerà nessuno.

L'idea di acquistare il raccolto di oppio dell'Afghanistan e di utilizzarlo per incrementare la produzione di morfina, secondo la proposta avanzata da Rifondazione (e altri) e da un ex ambasciatore canadese alla Nato, Gordon Smith, non è così fantasiosa come può sembrare.

Si direbbe un'idea pazza solo se si è convinti che l'oppio sia l'essenza del male e che pertanto acquistare i raccolti non farà che incoraggiare i contadini afghani a coltivare un prodotto riprovevole. In realtà, se l'operazione fosse gestita nel migliore dei modi, un simile progetto potrebbe riscattare gli agricoltori, sottraendoli alle grinfie di criminali, signori della guerra e talebani. Il vero problema non ha nulla a che vedere con l'oppio o l'eroina, quanto piuttosto con i costi di realizzazione. Quest'idea può funzionare solo se i Paesi occidentali, tra cui l'Italia, si impegnano a finanziare il progetto, e generosamente, di anno in anno.

Certo, la politica attuale in Afghanistan non sta funzionando. La Nato combatte i talebani, anche se con truppe e materiali insufficienti. I talebani, invece, possono contare su riserve di denaro più che adeguate, grazie allo sfruttamento del narcotraffico, e inoltre raccolgono consensi tra la gente comune, che non vede alcun miglioramento nella propria esistenza sotto il governo di Karzai e dei suoi alleati americani e Nato.

La vita dei normali cittadini non migliora in parte a causa della guerriglia dei talebani, ma anche perché finora sono state costruite poche strade, scuole e ospedali. I contadini cercano di sopravvivere coltivando i prodotti che si vendono in un Paese che è povero e carente delle infrastrutture di base. E tra questi prodotti, il migliore in assoluto è il papavero da oppio. L'eroina rende bene e si può trasportare facilmente malgrado le pessime condizioni delle strade. Con questa realtà si scontra l'azione di contrasto del governo Karzai e della Nato per sradicare le coltivazioni di oppio, con il fuoco e i diserbanti. Non c'è da meravigliarsi se stanno perdendo la scommessa di conquistarsi «la mente e il cuore» dei contadini afgani, visto che si adoperano per distruggere, giorno dopo giorno, le loro uniche fonti di sussistenza.

L'eliminazione delle colture rappresenta una politica pessima, nella realtà odierna dell'Afghanistan, e si presta alla perfezione al gioco dei talebani. In ultima analisi, tutti si augurano che la richiesta di eroina nei Paesi ricchi finirà col diminuire, facendo abbassare i prezzi e rendendo questo tipo di coltivazione meno appetibile per gli agricoltori. Ma questo non accadrà. Oggi l'Afghanistan sforna oltre il 90% dell'oppio mondiale e la produzione è in aumento. Il narcotraffico attraversa i Paesi confinanti, l'Iran, il Pakistan, l'Uzbekistan e altri ancora, in un reticolo di tracciati facili da individuare ma impossibili da controllare.

Pertanto non restano che due scelte: o la Nato e il governo afghano lasciano in pace i coltivatori di oppio; oppure il resto del mondo propone di acquistare l'intero raccolto, ogni anno, sottraendolo alle mani della criminalità. Questo sarebbe difficile, sotto il profilo tecnico, perché occorrerebbe fissare un prezzo per il raccolto che non incoraggi i contadini a contrabbandarlo ai narcotrafficanti che sono disposti a pagare un prezzo ancora più elevato per un prodotto ormai scarseggiante.

Il problema di gran lunga più spinoso però riguarda i costi dell'operazione. Nessuno lo sa con certezza, ma si stima che i contadini afghani guadagnino circa 700 milioni di dollari ogni anno dal commercio dell'oppio. Il reddito complessivo per tutti gli afghani, compresi i talebani, i contrabbandieri, i funzionari corrotti e altri, si aggira su un terzo del Pil del Paese, e cioè 2,8 miliardi di dollari all'incirca. Se vogliamo che funzioni il progetto di acquistare l'oppio da convertire in morfina, quel reddito complessivo dovrà essere rimpiazzato, a beneficio di tutti, talebani esclusi. Per i contadini, si tratterà di acquistare semplicemente il loro raccolto, ma sarà più difficile supplire agli introiti per il resto della popolazione. E questa operazione dovrà essere ripetuta ogni anno, e con la prospettiva di fornire prima o poi agli afghani un modo alternativo di guadagnarsi da vivere.

I costi non sono impossibili: immaginiamo che si tratti di spendere qualcosa come 4 miliardi di dollari o più l'anno. Questo rappresenta grosso modo un ventesimo di quanto la sola America spende per la guerra in Iraq ogni anno. Il lato più arduo sarà convincere tutti a contribuire una quota. E poi ci sarebbe da affrontare un'altra questione: che fare se gli agricoltori di altri Paesi si mettono a coltivare il papavero da oppio per offrirlo in vendita al fondo occidentale per la morfina?

© Bill Emmott, 2007 ( Traduzione di Rita Baldassarre)

Il cosiddetto disegno di legge Lanzillotta, in discussione al Senato, è un progetto che, sotto la bandiera del riformismo, procede verso una colossale e forzata privatizzazione di diritti e servizi pubblici locali, e sotto la superficiale apparenza di modernità costituisce in realtà un ritorno al passato. Basti ricordare che dopo tutto l'800, dominato dal principio del laissez faire, solo all'inizio del '900 la legge sulla municipalizzazione dei servizi pubblici locali, proposta da Giolitti e approvata nel marzo del 1903, diede la possibilità ai comuni di decidere se affidare i servizi pubblici locali in concessione ai privati, come era avvenuto fino ad allora - peraltro con costi esorbitanti a carico dei comuni -, ovvero se gestirli direttamente, in proprio, in condizione di maggiore economicità ed efficienza.

In Italia, negli ultimi quindici anni, con ipocrisia e approssimazione, si è detto che la privatizzazione fosse un processo imposto dal diritto comunitario, o peggio, imposto dalla «mano invisibile» del mercato. Nulla di più falso, infatti, è stato il frutto di specifiche politiche pubbliche, il risultato di scellerate manovre finanziarie. Tuttavia, mentre fino all'ultima versione del testo unico degli enti locali del 2000, si riconosceva ai comuni il potere di scegliere il proprio modello organizzativo di gestione dei servizi (pubblico, misto, privato), con il disegno di legge Lanzillotta la modalità di gestione dei servizi diventerebbe unica: sarebbe imposta l'esternalizzazione e l'uso del modello privatistico della società per azioni. I modelli di gestione misto e in house diventerebbero eccezioni rispetto alla regola generale, ben oltre quanto richiesto dal diritto comunitario e in violazione dei principi costituzionali. Proverò a dimostrare i diversi profili di illegittimità comunitaria e costituzionale presenti nel suddetto testo.

1. Il disegno di legge delega impedisce ai comuni di ricorrere ad un modello previsto dal diritto comunitario, ovvero ad una gestione formalmente e sostanzialmente pubblica, tutte le volte in cui gli interessi generali ed il principio della coesione economico-sociale non siano garantiti dalla regola della concorrenza. La concorrenza che, appunto, a differenza di quanto affermato dall'art. 1 del testo in questione, non è principio, ma appunto regola, deve cedere di fronte alla tutela effettiva di beni sociali, espressione dei valori comuni dell'Unione e strumenti decisivi per la promozione della coesione economico-sociale e territoriale. L'ente locale, non eccezionalmente, come indica il disegno di legge, ma ogni qualvolta lo ritenga necessario, deve avere la possibilità di tenere per sé la gestione o di affidarla ad un soggetto interamente pubblico. La concorrenza, nell'ambito dei servizi pubblici essenziali, non può assumere un valore primario, assoluto, gerarchicamente sovraordinato, ma va intesa quale regola limitata dal raggiungimento di fini sociali, quali lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, la solidarietà sociale, l'elevato livello dell'occupazione, la tutela dell'ambiente e della salute.

2. Il ricorso alla gestione pubblica in casi eccezionali, e comunque non attraverso un ente pubblico, ma una società che, come ha recentemente ricordato la Corte di Giustizia, è un soggetto che, seppur a capitale interamente pubblico, tende a muoversi secondo logiche privatistiche del profitto piuttosto che degli interessi generali, si pone in contrasto con l'art. 43 della Costituzione, ovvero con quella norma che in collegamento con gli artt. 2 e 3, consente, ai fini di utilità generale, il ricorso in via esclusiva ad un soggetto pubblico. La Lanzillotta, impedendo di fatto al comune di ricorrere alla gestione pubblica anche nei monopoli di interesse generale, violerebbe l'art. 43 della Costituzione.

3. Il disegno di legge-delega violerebbe l'art. 76 della Costituzione nella parte in cui afferma che il servizio eccezionalmente può essere gestito in house. La delega, infatti, dovrebbe contenere l'indicazione dei principi e degli oggetti definiti che possono essere disciplinati dal governo. L'espressione eccezionalmente è vaga e attribuisce al governo un eccessivo potere discrezionale; in sostanza è come se il legislatore delegasse il governo a determinare principi ed oggetti, nell'ambito dei quali è possibile derogare alla regola della concorrenza. Nel caso in cui neppure il governo circoscrivesse, con puntualità, i casi eccezionali, tale potere sarebbe esercitato direttamente dal comune in violazione del principio di legalità e dell'unità nazionale.

4. Infine, il disegno di legge-delega Lanzillotta prevede, sempre eccezionalmente, il potere del comune di affidare la gestione del servizio direttamente ad una società mista. Tale disposizione è in contrasto con la più recente giurisprudenza comunitaria che più volte ha ribadito che la presenza anche minoritaria di un socio privato all'interno della società di gestione impedisce l'affidamento diretto e rende obbligatorio l'espletamento di un'apposita gara. La gestione a mezzo di una società mista a capitale pubblico/privato non è riconducibile ad una gestione pubblica, essa ha infatti due anime: la pubblica che persegue interessi di natura pubblica, la privata che persegue obiettivi di natura diversa.

In conclusione, l'impresa pubblica, quale gestore di servizi pubblici essenziali ha assoluto e pieno titolo di cittadinanza nel nostro ordinamento. Interventi legislativi di segno opposto, quale il disegno di legge-delega Lanzillotta, vanno ritenuti in contrasto con l'assetto comunitario e statale e contribuiscono all'ulteriore disarmo delle istituzioni pubbliche e al progressivo indebolimento della tutela degli interessi generali.

Caro direttore, qualche giorno fa, in una sezione Ds del centro di Roma, si è svolta una discussione fra gli iscritti sul tema del Partito democratico, e la senatrice Anna Finocchiaro ha svolto un ottimo intervento, ben calibrato fra ragione e passione, a favore della mozione Fassino e dunque della necessità del nuovo Partito democratico. Sul merito della quale concordo anche se (come ho scritto su la Repubblica del 12 febbraio) quella mozione purtroppo non la argomenta in modo sufficientemente concreto. Ma l´analisi della Finocchiaro è stata particolarmente efficace in riferimento al fatto che i Ds, per contare nel Paese (col loro attuale 17%) e per contribuire alla stabilità del governo in un sistema bipolare, devono obbligatoriamente riunire le proprie forze riformiste a quelle di altri partiti e di altre tradizioni culturali, confrontandosi con esse senza per questo perdere il carattere particolare che il loro passato - e la stessa provenienza dal Pci - attribuisce al loro riformismo socialista. E’ a questo proposito che vorrei aggiungere qualche riflessione come contributo alla discussione sul futuro Pd.

Incomincio con un ricordo personale. Nei tardi anni ‘70 sono entrato alla Camera, eletto nelle liste del Pci, insieme a due economisti di chiara fama: Luigi Spaventa e Claudio Napoleoni, eletti fra gli Indipendenti di sinistra. Era l’epoca in cui ancora si discuteva animatamente sulle varie forme di socialismo come un correttivo o, addirittura, una possibile alternativa del capitalismo. Fu nel corso di una chiacchierata su quel tema con Spaventa e Napoleoni che il primo se ne uscì con questa memorabile battuta: "Ma prima di parlare di fuoriuscita dal capitalismo, non sarebbe opportuno da noi riuscire ad attuarlo?". Era una domanda, niente affatto retorica in un paese che aveva conservato tracce del suo passato corporativismo fascista nel forte clientelismo e nepotismo del suo sistema politico ed economico.

Ancora oggi però - anche se di fuoriuscite non pare proprio più serio ragionare - quei vecchi vizi non li abbiamo perduti, sebbene proprio di essi il capitalismo (se "attuato") avrebbe dovuto sbarazzarci imponendoci un benefico salto nella modernità. Ma poi è successo di peggio: non solo corporazioni, clientele e consorterie famigliari (anche criminali) hanno continuato a prosperare, ma di "elementi di socialismo", come si diceva allora, non si parla proprio più. I motivi di questo silenzio piatto forse sono basati su quest’unico assunto: poiché il capitalismo ha stravinto, non è certo più tempo di occuparsi né di esso né, tanto meno, del socialismo.

Immersi come siamo nel capitalismo "globale" - americano-europeo-indo-cino-asiatico - la maggior parte dei politici è sempre più portata a considerarlo come un fenomeno puramente "naturale", al quale quindi non resta che adattarsi. Anche gli economisti hanno smesso di indagarlo come, al contrario, un fenomeno politico-sociale, che ha avuto una lunga evoluzione storica e che ha gradi di sviluppo diversi e caratteristiche disuguali nelle diverse aree del mondo che ha conquistato. E tanto meno essi si curano ormai di analizzare i modi specifici in cui ha realizzato in passato, e realizza oggi, il suo vero e unico scopo che è l’accumulazione del capitale.

Ma ammesso che, in ragione della sua lunghissima durata storica, il capitalismo potesse essere considerato un fenomeno "quasi naturale", allora l’analogia più corretta sarebbe quella con gli attuali mutamenti climatici potenzialmente disastrosi. Perché quei mutamenti li abbiamo creati proprio noi umani con le emissioni di carbonio nell’atmosfera, che sono la diretta conseguenza di più di un secolo di crescita esponenziale della produzione industriale e dei consumi di massa, oltre che dell’esplosione demografica che, nello stesso periodo, ha quadruplicato la popolazione mondiale. E se dunque è vero che il capitalismo ha stravinto sul falso socialismo che è stata la tragica stagione comunista, è stato proprio il suo prevalere che ha diffuso a livello globale i modelli di accumulazione della ricchezza che hanno generato un elevato benessere per una parte dell’umanità, ma al costo dell’impoverimento di un’altra parte e dell’indigenza di un’altra ancora. Oltre che, ora ce ne accorgiamo, anche un folle sfruttamento delle limitate risorse dell’ambiente in cui tutti viviamo.

Questa è la ragione per la quale, preso atto che il socialismo non può più essere una alternativa secca del capitalismo come nella vecchia ipotesi rivoluzionaria, si deve tornare a considerarlo in senso riformista come un progetto di correzione della rotta del capitalismo, per realizzare una società meno lacerata da ingiustizie e meno avvelenata da sprechi. Esattamente come si prevede oggi di dover fare per il fenomeno dell’inquinamento dell’ambiente. Ne consegue che le divisioni fra destra e sinistra devono mutare anch’esse, perché devono oggi vertere sulla netta contrapposizione fra un cieco liberismo affaristico e un consumismo dissipatore da un lato, e dall’altro un "socialismo ecologico" nel suo significato più ampio di fede nella possibilità di proteggere e migliorare l’ambiente sia umano che naturale.

Un socialismo, perciò, che deve perseguire sicuramente i suoi obbiettivi di solidarietà nei confronti delle classi più deboli, di difesa del diritto al lavoro, di contrasto alle forme più odiose di privilegio da un lato e di sfruttamento dall’altro, e via discorrendo, in continuità con la tradizione socialdemocratica alla quale anche il Pci aveva dato il suo contributo. Ma oggi ci sono altri obiettivi ancora più vitali per le nostre società che esigono una riforma del capitalismo, per raggiungere la quale è assolutamente necessario che si uniscano in uno sforzo comune tutti i movimenti riformatori, dai socialdemocratici ai liberali, dai cattolici ai laici. Proprio ciò che si intende fare col nuovo Partito democratico.

Se questo è il nuovo senso e significato del socialismo, allora ritorna di attualità il "quesito Spaventa". Ma sì, proprio quello posto trent’anni fa dall’amico economista che oggi, attualizzato, dovrebbe suonare così: "Ma per parlare di socialismo non sarebbe necessario sapere come è fatto il capitalismo col quale si dovrebbe confrontare?". Per raggiungere questo "sapere" è allora indispensabile tornare prima di tutto a indagare la storia del capitalismo, rivisitando le sue tappe, e riflettere sulle sue continuità e sulle sue grandi trasformazioni. Ritornare cioè a una critica del presente combattendo una specie di analfabetismo di ritorno in tema di analisi sociale: un altro compito per il futuro Pd.

Penso che il socialismo come fede in un nuovo grande progetto ecologico potrebbe essere un richiamo per i giovani che cercano disperatamente, e non trovano per ora, una buona ragione per interessarsi ai riti vegliardi della nostra politica.

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