La politica cade sempre più in basso. C'è da preoccuparsi: la bassa politica, prima o poi partorisce mostri.
Ieri, in Senato, il governo Prodi se l'è cavata per un solo voto, contro un emendamento alla legge sul riordino giudiziario proposto da un componente della sua maggioranza (il caso Manzione). Pochi minuti dopo Panorama (proprietà Silvio Berlusconi) annunciava che Romano Prodi sarebbe iscritto sul registro degli indagati della Procura di Catanzaro, per arricchimento illegale sui finanziamenti dell'Unione europea a opera di persone vicine al presidente del consiglio. Il magistrato che dirige l'inchiesta, Luigi De Magistris è persona al di sopra di ogni sospetto, ma - a pensare male si fa peccato, ma talvolta si indovina - l'uso politico-mediatico di un'inchiesta giudiziaria è inquietante. Non è la prima volta che accade, ma accade sempre più spesso.
L'attacco a Prodi investe tutto il governo, il nascituro Partito democratico e anche il candidato leader Walter Veltroni. Il giudiziario avviso di reato è un avviso di guerra. Però tutto questo avviene nella disattenzione generale.
Siamo a un passaggio difficile (verso dove?) che mette a rischio tutta la sinistra (litigiosa e divisa) e mette a repentaglio la stessa democrazia: troppo disordine sollecita e alimenta una risposta di ordine. Ma tutto questo si sviluppa nella disattenzione generale. E' come se fossimo a teatro, nel quale gli attori rappresentano una tragedia, che di per sé dovrebbe essere avvincente e stimolante. Ma il teatro è vuoto e i pochi spettatori dormicchiano. Il sonno della ragione, diceva qualcuno.... E non aggiungo altro.
L'annuncio dell'iscrizione di Romano Prodi nel registro degli indagati insieme con un gruppetto di suoi collaboratori non è cosa da prendere sottogamba, soprattutto per il fatto che a Romano Prodi possiamo fare (e abbiamo fatto) mille critiche, ma tutte politiche. Il fatto che oggi emerga un'accusa di reato, di complicità in arricchimento illecito, ci dice che il clima è diventato pericoloso, tale da richiedere un'emergenza dell'attenzione democratica e non la scettica disattenzione di questi tempi.
INVIATO A CALCIO (BERGAMO)
La scritta spennellata di blu sul muro di via Aldo Moro è apparsa l’altra notte: «Fiducia e onore ai nostri e a tutti i carabinieri». Nemmeno fossimo a Nassiriya e non in questo paesino di cinquemila abitanti scarsi in provincia di Bergamo, ma più vicino a Brescia, dove sette carabinieri su otto sono finiti in galera o, comunque, nei guai per una storia balorda di pestaggi e razzie ai danni degli extracomunitari della zona. «Aspettiamo che la magistratura finisca l’inchiesta, non me la sento di dare giudizi...». E’ fin troppo cauto Pietro Quartini, fotografo con il negozio in piazza, sindaco di una lista civica più la Lega, preoccupato soprattutto per la sicurezza, 130 mila euro solo per venti telecamere lungo via Giovanni XXIII e poi si scopre che i «cattivi» avevano la divisa e nel dopolavoro facevano gli straordinari a modo loro.
I magistrati di Bergamo hanno contato almeno dieci raid, il primo a novembre di due anni fa, l’ultimo il mese scorso. Durante i controlli ai danni di albanesi, rumeni o nordafricani, sparivano cellulari e banconote, orologi e pure droga, 50 grammi di cocaina mai denunciati a verbale. «Ti giuro, li ho picchiati con cattiveria...», si vantava al telefonino intercettato il maresciallo Massimo Deidda, «Herr kommandant» per tutti gli altri carabinieri di Calcio, tutti quelli finiti nell’inchiesta che non sembra scuotere più di tanto questo paesino del Nord sprofondato tra i campi.
Con le inferriate alle finestre
In piazza San Vittore c’è la chiesa, il bar Extasis e il bar Pavone dove si fanno vedere tutti. All’ora dell’aperitivo non si parla di altro. «A mia madre sono entrati in casa tre volte. Adesso ha le inferriate alla finestra che sembra un carcere. A me hanno rubato la macchina. Vuole che mi preoccupi se i carabinieri davano fastidio a quelli là?», si sfoga uno con la camicia arancione e la bicicletta, professione imbianchino, ogni giorno su e giù verso Milano perché di lavoro qui ce n’è poco, qualche fabbrichetta poco più che artigianale, un paio di allevamenti, più maiali che vacche, dove gli extracomunitari lavorano come bergamini nelle stalle. «Questo è un paese tranquillo. I carabinieri collaboravano con i vigili urbani a mantenere l’ordine. Se poi hanno sbagliato, lo stabiliranno i magistrati...», ripete come in un ritornello il sindaco, preoccupato di non far apparire Calcio come il Bronx, doppiamente preoccupato dalla presenza degli immigrati. «Gli stranieri regolari sono cinquecento, con i clandestini sono il doppio. Più del 10 per cento degli abitanti».
«Prima o poi lo pettiniamo»
A sentire chi va all’oratorio del Sacro Cuore dietro la chiesa di San Vittore o a passeggio lungo via Giovanni XXIII, Calcio è un paese tranquillo. «Qualche furto in casa, soprattutto zingari. Un’auto rubata ogni tanto. Un po’ di droga, come ovunque...», quasi non si lamenta uno con la camicia blu seduto al bar Pavone, lungo la strada che porta verso Milano e il nulla dei campi. Una delle zone preferite da «Herr kommandant» e dai suoi carabinieri ai quali ogni tanto si aggiungevano un paio di vigili urbani di Cortenuova. Uno di loro, Andrea Merisio, ha già ammesso tutto. Difficile negare dopo che i magistrati gli hanno fatto sentire la telefonata intercettata in cui il maresciallo Deidda gli parla di un piccolo spacciatore: «Prima o poi lo pettiniamo, la mano di Dio lo colpirà». E lui che ride e non si capacita di come sia possibile che un marocchino - l’ultimo episodio accertato, lo scorso 8 giugno - si sia buttato da una finestra, ferendosi gravemente, per non farsi prendere: «Perché, anziché finire nelle nostre mani, preferiscono suicidarsi?».
Xenofobi in erba
«Va beh, cosa hanno fatto di male?», si chiedono in troppi in questo paese dove non c’è niente di niente e quando fa troppo caldo si va come in processione fino alle Acciaierie, un centro commerciale imponente come una cattedrale, centosettantacinque negozi, un ipermercato e l’aria condizionata che sembra di essere in montagna. E si va anche quando fa troppo freddo e la sera fa buio presto, avanti e indietro sotto ai neon e le luci artificiali di questo non luogo dove il tempo non passa mai. «Almeno lì non ci sono extracomunitari...», dicono in coro tre ragazzini a cavallo degli scooter nel campetto di via Onorato, dietro la parrocchia. «In paese ci sono bar dove trovi solo loro. Rapporti? Nessuno. A noi quelli lì danno fastidio, non lavorano e hanno la Mercedes o la X5», spiegano questi xenofobi in erba, venuti su a noia e televisione, televisione e noia. «Abbiamo sentito il telegiornale. Non sappiamo niente. In casa non si parla di queste cose».
Tra le «favelas»
Chissà di cosa si parla in queste palazzine tutte uguali, poche villette, il giardino è un lusso, tirate su con a fatica e lavoro. Chissà cosa si dice degli extracomunitari ammassati alla Stretta, in quel dedalo di casette con le paraboliche. Qualcuno le chiama «favelas», per i carabinieri del maresciallo Deidda erano il «terreno di caccia». Il luogo ideale per i safari contro gli stranieri, come lo stradone che da Calcio va alle Acciaierie dove si appostavano soprattutto il venerdì sera, niente divisa, una Panda nera con la targa falsa o un’auto dei vigili di Cortenuova con le insegne coperte. Così per due anni, prima che un carabiniere e poi un vigile raccontassero ai magistrati quello che forse sapevano tutti e di cui tutti adesso parlano. Tutti meno gli albanesi e i marocchini seduti davanti al caffè del bar a cinquanta metri dalla piazza della chiesa. «Noi non sappiamo nulla. Noi lavoriamo e basta». Non vuole dire di più, è un nordafricano visibilmente impaurito che ogni mattina si alza alle cinque per andare a lavorare come muratore a Milano. Silenzioso come i carabinieri che hanno mandato due giorni fa a rimpiazzare i loro colleghi finiti in manette. Preoccupato come gli abitanti di Calcio, Càls sul cartello all’inizio del paese dove si avvisa del «divieto di sosta o di campeggio per roulottes, caravan o case mobili» e che al bar insieme all’aperitivo mandano giù anche questa storia: «Se non è stata denunciata prima, vuol dire che i carabinieri colpivano nel giusto».
Signori Presidenti del Consiglio d´Amministrazione e del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell´Inps, abbiamo bisogno di lumi.
Siamo un gruppo di persone i cui figli e nipoti sono preoccupati perché temono che a suo tempo non avranno più una pensione, o almeno una pensione decente. Alla base delle loro preoccupazioni v´è un´idea fissa: che il bilancio dell´Inps sia un disastro, o ci sia vicino. L´hanno interiorizzata sentendo quanto affermano ogni giorno politici, economisti ed esperti di previdenza, associazioni imprenditoriali, esponenti della Commissione europea. Non tutti costoro, è vero, menzionano esplicitamente l’Inps. Ma tutti sostengono che le uscite dovute al pagamento delle pensioni risultano talmente superiori alle entrate da rappresentare una minaccia devastante per i conti dello Stato. Che tale deficit peggiorerà di sicuro nei decenni a venire, poiché pensionati sempre più vecchi riscuotono la pensione più a lungo, mentre diminuisce il numero di lavoratori attivi che pagano i contributi. Che allo scopo di ridurre il monte delle pensioni erogate in futuro bisogna allungare al più presto l’età pensionabile e abbassare i coefficienti che trasformano il salario in pensione. Dal complesso di tali affermazioni pare evidente che chi parla ha in mente anzitutto l’istituto che eroga quasi il 75 per cento, in valore, di tutte le pensioni italiane. Cioè l’Inps. E il suo bilancio.
Pressati dai nostri giovani - quasi tutti lavoratori dipendenti o prossimi a diventarlo – che ci domandano dove stia l’insostenibile pesantezza del deficit della previdenza pubblica che minaccia il loro futuro, abbiamo passato qualche sera, in gruppo, a scorrere il bilancio preventivo 2007 dell’Inps. Tomo I, pagine 933. E ora abbiamo un problema. Perché non siamo riusciti a comprendere da dove provenga la necessità categorica di elevare subito l’età pensionabile, e di abbassare l’entità delle future pensioni, pena il crollo della solidarietà tra le generazioni e altre catastrofi.
Quel poco che noi, genitori e nonni inesperti, crediamo d’aver capito lo possiamo riassumere così:
a) Lo Stato trasferirà dal proprio bilancio a quello dell’Inps, nel 2007, 72,3 miliardi di euro. Cifra enorme. Quasi 5 punti di Pil. Vista questa cifra (a pag. 90), ci siamo detti: ecco dove sta la voragine che minaccia di ingoiare le pensioni dei nostri figli e nipoti. Poi qualcuno ha notato che il titolo della pagina riguarda non il pagamento delle ordinarie pensioni, bensì gli oneri non previdenziali. I quali ammonteranno a 74,2 miliardi in tutto, coperti dallo Stato per la cifra che s’è detto e per 1,9 miliardi da altre entrate. Gli oneri non previdenziali sono per quasi la metà uscite che, per definizione, non presuppongono nessuna entrata in forma di contributi. Si tratta di interventi per il mantenimento del salario (2,5 miliardi); oneri a sostegno della famiglia (2,7 miliardi); assegni e indennità agli invalidi civili (13,5 miliardi); sgravi dagli oneri sociali e altre agevolazioni (12,7 miliardi). Sono tutti oneri sacrosanti, che lo Stato ha il dovere di sostenere. Ha quindi chiesto all’Inps di gestirli, cosa che dal 1988 l´Istituto fa con una cassa separata, la Gestione degli interventi assistenziali (Gias). Però chi prende il totale di questi oneri per sostenere che la normale previdenza costa ai contribuenti oltre 70 miliardi l’anno, per cui è necessario tagliare qui e ora le pensioni ordinarie, forse ha esaminato un po´ troppo alla svelta i bilanci dell’Inps. O, nel caso del Bilancio preventivo 2007, si è fermato a pag. 89.
b) Poiché quasi tutti i nostri giovani sono o saranno lavoratori dipendenti, siamo andati a cercare nel Bilancio quale rapporto esista tra le entrate del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) in forma di contributi, e le uscite in forma di pensioni. Anche qui, sulle prime, credevamo d’aver letto male. Il Fpld in senso stretto avrà un avanzo di esercizio, nel 2007, di quasi 3,5 miliardi (pag. 219). In altre parole i contributi che entrano superano di 3,5 miliardi le pensioni che escono. Ma poiché ad esso sono stati accollati, con gli anni, degli ex Fondi che generano rilevanti disavanzi (trasporti, elettrici, telefonici, più l’Inpdai, l’ex Fondo dirigenti di azienda che quest’anno sarà in rosso per 2,8 miliardi) il Fpld farà segnare un passivo di 2,9 miliardi di euro. Il bilancio Inps definisce appropriatamente "singolare" il caso del Fpld (pag. 162). In effetti esso appare ancor più singolare ove si consideri che il passivo degli ex Fondi, per un totale di 6,3 miliardi, è generato da poche centinaia di migliaia di pensioni. Per contro le pensioni del Fpld sono 9 milioni e 600.000, ben il 96 per cento del totale. Tuttavia sono proprio anzitutto queste ultime di cui la riforma delle pensioni vorrebbe ridurre l’entità, in base all’assunto che i lavoratori attivi non ce la fanno più ad alimentare un monte contributi sufficiente a pagare le pensioni di oggi e di domani.
Vi sono in verità altri temi, connessi al bilancio Inps, che nel nostro gruppo inter-generazionale di discussione han fatto emergere dei dubbi. Ad esempio: le pensioni di domani, indicano i grafici su cui siamo capitati, sarebbero a rischio perché senza interventi drastici sul monte pensioni esse arriveranno verso il 2040 a superare il 16 per cento del Pil, in tal modo generando un onere intollerabile per il bilancio dello Stato. Però a noi risulta che il totale delle pensioni pubbliche, erogate dall´Inps e da altri enti, al netto delle gestioni o spese assistenziali in senso stretto (le citate Gias) rappresentavano nel 2005, ultimo anno per cui si hanno dati consolidati, l’11,7 per cento del Pil. Le Gias valevano da sole oltre 2 punti di Pil, pari a 30,1 miliardi. Le gestioni previdenziali dell’Inps incideranno sul Pil del 2007 per il 9,7 per cento, ma se si escludono il Fondo Ferrovie e l’ex Inpdai arriveranno appena al 7,4 per cento (pag. 61).
A noi sembra quindi che chi disegna o brandisce scenari catastrofici per il 2040 (il 2040!) lasci fuori dal disegno un po’ tanti elementi. Tra di essi: il peso economico delle gestioni assistenziali (di cui una legge del 1988, la n. 67, dava già per scontata la separazione dalla previdenza); il fatto che i contribuenti, quelli che pagano i contributi, non stanno affatto diminuendo, bensì aumentano regolarmente da diversi anni (più 121.000 nel solo 2007: pag. 45); il peso rilevante dei deficit che non riguardano il Fondo dei lavoratori dipendenti in senso stretto; il fatto, ancora, che prendere come un assioma il rapporto pensioni/Pil significa voler misurare qualcosa con un elastico, visto che il rapporto stesso può cambiare di molto a seconda che il Pil vada bene o vada male. Com´è avvenuto tra il 2001 e il 2005.
Riassumendo: delle due l’una. O noi inesperti dei bilanci Inps abbiamo capito ben poco, e i nostri figli e nipoti han ragione di temere per le loro future pensioni ove non si decida subito di tagliarne il futuro ammontare. Se questo è il caso, restiamo in trepida attesa delle Loro precisazioni. Oppure dobbiamo concludere che quando, nelle più diverse sedi, si dipinge di nero il futuro pensionistico dei nostri giovani, si finisce per utilizzare i dati Inps, come dire, con una certa disinvoltura. Su questo, naturalmente, non ci permettiamo di chiedere un parere all’Inps.
Caro direttore, in alcuni capitoli del suo recente e stimolante saggio, L'altra metà della storia, nell'analizzare le vicende relative allo sviluppo urbanistico di Napoli, lei fa più volte riferimento al famoso film di Francesco Rosi «Le mani sulla città», osservando che esso contiene un tendenzioso atto di accusa al laurismo, perché ingigantisce le responsabilità del sindaco, degli amministratori locali monarchici e del gruppo dirigente laurino, mentre esalta, nel contempo, l'azione dell'opposizione comunista e attenua le pur esistenti corresponsabilità, in operazioni speculative, dei governi democristiani dell'epoca.
Non mi convince la tesi che «Le mani sulla città» possa essere ritenuto un film comunista e contemporaneamente reticente nell'indicare i misfatti democristiani, e anche se la critica cinematografica — compresa quella di sinistra — lo giudicò espressione del «realismo socialista» proprio della cultura togliattiana, esso non lo fu affatto. «Le mani sulla città», uscito nella sale nell'autunno del 1963, fu girato quando il sistema laurino di potere era ormai al tramonto, quando gran parte dell'elettorato monarchico andava disperdendosi per dirigersi verso altri lidi; e militanti di base, segretari di sezione, consiglieri comunali e amministratori, che erano stati al fianco del Comandante per tutto un decennio, avevano già preso le distanze dal loro leader, abbandonandolo e aderendo ad altre formazioni politiche (principalmente la Democrazia cristiana, ma anche qualche partito della sinistra moderata). Per queste ragioni, il film di Rosi guardava al laurismo come a un fenomeno che andava esaurendosi, ma i cui metodi e sistemi di potere potevano invece sopravvivere ed essere utilizzati, forse con maggiore abilità e spregiudicatezza, dai nuovi gruppi dirigenti che andavano a occupare il posto di quelli usciti di scena.
Nel film di Rosi, le forze politiche in lotta, nel consiglio comunale e in città, sono tre: la destra monarchica di Maglione, magistralmente interpretato da Guido Alberti, che è il vero capo della maggioranza, sicuramente più dello scialbo sindaco (che, a dire il vero poco ricorda la figura di Lauro); all'opposizione, il centro di De Angelis (interpretato da Salvo Randone), e la sinistra del consigliere De Vita (Carlo Fermariello). La giunta comunale intende realizzare progetti urbanistici che, a quanto pare, stanno a cuore anche al governo centrale, De Vita li contrasta energicamente, ne svela i torbidi meccanismi, cerca e trova qualche alleato nell'opposizione moderata di centro. Il consigliere della destra Nottola (Rod Steiger), costruttore cinico e arrogante, vuole realizzare l'urbanizzazione di aree della città calpestando leggi e regolamenti, e, per raggiungere i suoi scopi, intende farsi nominare assessore nella giunta che nascerà dopo le elezioni. Ma il partito della destra, che teme una perdita di consensi nella competizione, gli rifiuta la candidatura, ritenendolo, dopo un gravissimo crollo avvenuto nei suoi cantieri, troppo esposto e dannoso all'immagine del partito. Nottola, forte di un grande consenso elettorale, rompe con la destra, e si candida, insieme con altri consiglieri uscenti, nelle liste del centro, e da questa parte politica ottiene l'assessorato al quale tanto ambisce per poter seguire personalmente i programmi urbanistici.
Rosi, La Capria e Forcella scrissero la sceneggiatura e il soggetto del film nei mesi che prepararono la faticosa nascita del primo governo di centrosinistra, formula politica alla quale il regista e gli sceneggiatori di «Le mani sulla città» guardavano con grande simpatia e fiducia. Erano dei riformisti convinti, perché ritenevano l'accordo tra cattolici e socialisti l'unica via percorribile per garantire insieme sviluppo economico, equilibrio sociale, progresso culturale e civile, espansione della democrazia; riponevano maggiori speranze in Moro e la Base, in La Malfa e in Nenni che in Togliatti e in Basso. Ma temevano anche che l'incontro tra democristiani e socialisti (che fu una sfida al Pci), potesse perdere la sua carica rinnovatrice per assumere il profilo di un'operazione trasformistica e sostanzialmente moderata. Si avverte, quindi, in «Le mani sulla città», questa loro preoccupazione, che appare prevalere sulla condanna del laurismo.
A tal proposito risulta illuminante il personaggio del consigliere del centro Balsamo, che, tenace avversario dei metodi di Nottola, quando apprende che lo spregiudicato costruttore sarà candidato nella sua stessa lista, minaccia di ritirare la propria candidatura; mentre il nuovo sindaco, l'astuto De Angelis, riesce, con sapienza tutta dorotea, a garantire nuovi equilibri e accordi politici con la destra, ammorbidisce le posizioni dei suoi amici di partito moralmente più intransigenti, si adopera per stemperare i contrasti, assume la regia delle operazioni speculative. Quindi, possiamo dire che il vero personaggio «diabolico» nel film di Rosi, è il nuovo sindaco, non il vecchio. E infine, anche la figura di Nottola è meno negativa di quel che può apparire: gli sceneggiatori, infatti, disegnano un profilo del costruttore dal quale emergono sicuramente la rapacità sociale e la spregiudicatezza, ma anche il dinamismo, l'intuito, l'intelligenza, la prontezza a comprendere i processi sociali. Forse, se inserito in un diverso contesto ambientale, sembrano dire Rosi e La Capria, Nottola avrebbe rispettato leggi e regolamenti, e si sarebbe comportato in maniera corretta. Ripeto, a mio modesto avviso, «Le mani sulla città» è un film di forte denuncia sociale e di impegno civile, ricorda più certo cinema americano d'inchiesta che non il realismo sovietico, non un è film, insomma, ideologico e tanto meno somiglia a un'opera cinematografica dell'epoca staliniana.
Antonio Frattasi
Circolo culturale Umberto Terracini Napoli
Il Consiglio superiore della magistratura denuncia che l´intelligence militare (il Sismi) – a partire dal 2001 e intensamente fino al 2003 e saltuariamente fino al 2006 – ha spiato, anche con l´aiuto di qualche "toga sporca", quattro procure della Repubblica (Milano, Torino, Roma, Palermo), 203 giudici (47 italiani) di 12 paesi europei. Li ha spiati per sorvegliarne le iniziative; per intimidirli con operazioni di disinformazione; per screditarli con manovre «anche traumatiche». Per comprenderla meglio, la notizia va ridotta all´osso. Nel suo significato essenziale ci racconta che per cinque anni un programma illegittimo, anticostituzionale e minaccioso è stato coltivato e realizzato non da un ufficio separato o infedele o "deviato" dello spionaggio, ma dal Sismi stesso, dalla sua stessa direzione perché ogni iniziativa e risultato della "pianificazione" è stato riferito direttamente al capo delle spie, il generale Nicolò Pollari. Per dirla con una formula, l´attività abusiva del Sismi era «istituzionale». A conferma dell´uso "separato" che impone a ogni sua funzione, il generale – oggi consigliere della presidenza del Consiglio – ha replicato alla denuncia del Csm con una lunga e solitaria apparizione al Tg5. Con il consueto disprezzo per i fatti, negando ogni responsabilità, anche quelle ammesse dal suo "braccio destro". Ha minimizzato l´attività di dossieraggio, anche quelle documentate dall´archivio sequestrato. Ha preso la parola a nome del Sismi, come se ancora lo dirigesse. Ha polemizzato, quasi si trattasse di una baruffa televisiva, con un organo di rilevanza costituzionale presieduto dal capo dello Stato. Se c´era bisogno di avere la conferma dell´esistenza di un «agglomerato» spionistico (legale/illegale) che si è autonomizzato, privatizzato intorno a interessi estranei ai compiti istituzionali e del tutto personali e autoreferenziali, Nicolò Pollari ne ha offerto ieri un saggio con il suo volto e con le sue parole: con l´irresponsabilità onnipotente di chi si sente ancora e sempre una sorta di autorità autonoma e separata.
La "sfida" del generale fa chiarezza, tutto sommato. Come chiarezza fa il documento approvato dal Csm, come sempre esaminato dal presidente della Repubblica. Il lavoro del Consiglio ha infatti il pregio di eliminare la fuffa che gli attori, Pollari in prima fila, hanno accumulato su questo affare. Lo si è voluto rappresentare con la faccia e i modi di un tale di nome Pio Pompa, diventato dal mattino alla sera, nel 2001, alto dirigente del Sismi, con un suo ufficio riservato in via Nazionale a Roma, alle dirette dipendenze del direttore del Servizio. Questo Pompa è un uomo in apparenza ridicolo, che si comporta in modo ridicolo, che dice cose ridicole. Se ne va in Parlamento e dinanzi al Copaco (la commissione di controllo dei servizi segreti) si presenta come «un compagno», uno – per dire – che si è laureato con una tesi su «Togliatti e il Mezzogiorno»; un tipo che la domenica andava in giro a diffondere l´Unità; un funzionario dello Stato e agente segreto che riconosce un solo leader degno di governare il Paese. Romano Prodi, naturalmente. Salvo poi scoprire che scriveva a Berlusconi: «Sarò, se Lei vorrà, il suo uomo fedele e leale…». Come prendere sul serio Pompa? Il fatto è che il tipo ridicolo è soltanto una maschera grottesca e oggi utile. Protegge l´autore e le responsabilità dell´impresa. Ne occulta la ragione politica e istituzionale. Il Csm se ne libera con un tratto di penna e va al cuore nero della vicenda. Pollari, il direttore dell´intelligence militare, era informato ad ogni passo dello spionaggio contro la magistratura (lo ammette Pompa). Quindi quel Sismi si è messo al lavoro in forme del tutto illegittime rispetto alla propria missione istituzionale, che è – secondo legge – «la difesa sul piano militare dell´indipendenza e dell´integrità dello Stato da ogni pericolo, minaccia o aggressione». Per il Sismi proteggere l´integrità dello Stato ha voluto dire difendere un governo dai contrappesi costituzionali, tutelarlo dalle opinioni dissenzienti. È nella denuncia di questa deformazione, il segnale di pericolo lanciato del Csm. «È chiaro – scrive il Consiglio – che le iniziative giudiziarie (soggette ai controlli giurisdizionali previsti dall´ordinamento) e il dibattito politico-culturale sono componenti essenziali della democrazia e nulla hanno a che vedere con aggressioni o minacce che richiedono azioni di "difesa sul piano militare"; inoltre, il compito dei Servizi è quello di vigilare sulla "indipendenza e integrità dello Stato" e non sulla stabilità del Governo contingente, qualunque ne sia il segno politico».
Nell´interpretazione delle regole praticata dal generale Pollari, si sono creati sillogismi deformi e antidemocratici. Lo Stato è il governo, qualunque siano le sue decisioni, mosse, progetti e responsabilità. Ogni opposizione al governo – sia controllo giurisdizionale o informazione o convinzione culturale e politica – diviene immediatamente, in questa dottrina azzardata, "una minaccia alla sicurezza nazionale", quindi un´eversione che giustifica ogni mezzo, ogni attività di spionaggio, finanche una «pianificazione traumatica». Per anni, si è voluto rappresentare questo sentiero stortissimo con una tautologia, a volte anche in buona fede. Si è detto, l´intelligence è l´intelligence: si sa, lavora con metodi sporchi, border line, spesso oltre i confini della legalità. Ma il nodo della minaccia non era nel metodo. Era nel fine. Non era nell´illegalità possibile del lavoro di intelligence, ma nella legittimità di quel lavoro che trova ragioni soddisfacenti e adeguate soltanto «nella difesa dello Stato» e non può trovarle, come è accaduto al Sismi di Pollari, nella protezione di un equilibrio politico; nello scudo per un governo (quale che sia); nell´aggressione ad altre indipendenti funzioni dello Stato (la magistratura), della politica (l´opposizione), della società (la stampa) e, infine, nella creazione di un potere "autonomo", privato, extraistituzionale. È nella denuncia di questa mutazione genetica di una burocrazia dello Stato la rilevanza dell´accusa del Csm. Che non può rimanere senza esiti e riscontri. Ne potrebbe (dovrebbe) trovare subito tre.
In uno dei primi interrogatori a cui è stato sottoposto, Pio Pompa ha farfugliato dinanzi al pubblico ministero di Roma la formula del segreto di Stato. Bene, il governo potrebbe chiarire presto e in modo inequivoco che tutta l´attività svolta dall´ufficio di disinformazione e dossieraggio di via Nazionale non è coperta da segreto di Stato in quanto in quell´ufficio non si è svolta alcuna attività in difesa dell´integrità dello Stato. Il secondo immediato esito dovrebbe coinvolgere il Sismi, oggi diretto dall´ammiraglio Bruno Branciforte. Quante delle informazioni, dei dossier autentici e fasulli raccolti dagli uomini di Pollari – in base al sillogismo "Stato uguale governo"; "opposizione uguale eversione" – si sono "sedimentati" negli archivi del Servizio? Bene, ripulire gli archivi di quelle scorie avvelenate deve voler dire mettere a disposizione della magistratura le informazioni per neutralizzarle, per accertare le responsabilità di un´ombra che ha oscurato la democrazia italiana. Infine, un terzo esito. Immediato. Per il generale Pollari. Dopo la sfida lanciata dalla tv al Csm, può ancora essere consigliere del governo?
Palazzo Chigi dovrebbe battere un colpo.
Anche chi, come il sottoscritto, ha espresso riserve sulla scelta politica del partito democratico deve riconoscere oggi che la candidatura di Walter Veltroni conferisce a quella scelta una innegabile credibilità. Messaggi e programmi marciano sulle gambe degli uomini. E la sinistra riformista ha un bisogno disperato di leadership. Quella di Walter Veltroni è una scelta felice.
Resta il problema dell’identità del nuovo partito. Non parlo di programmi. Che tocca ai governi e non ai manifesti degli intellettuali, di formulare e di gestire. Parlo dell’identità politica. La quale si riassume nella collocazione rispetto alle grandi forze politiche esistenti in Europa. E in una chiara indicazione sulla posizione che il nuovo partito assumerà rispetto al grande confronto tra la destra e la sinistra. Non è affatto vero, come è diventato di moda affermare, che quella distinzione abbia perso significato. Mai come oggi, in tutta Europa, quella contrapposizione è stata così evidente e serrata. E così ideologica, se con questa parola si intende non un travestimento – come la intendeva Marx – ma una antitesi tra visioni opposte della realtà sociale, come la intendeva Bobbio. Certo, non si tratta più della rappresentazione della sinistra come cambiamento e della destra come conservazione. Per più di un verso questa distinzione si è rovesciata. Si tratta della contrapposizione tra chi accetta i rapporti di forza che risultano dal conflitto sociale e chi pretende di correggerli e di orientarli secondo valori e obiettivi di sostenibilità e di equità. Da questo punto di vista, la questione del rapporto tra economia e politica, tra mercato e democrazia è centrale e vitale.
Il partito democratico dovrebbe assumere una posizione non equivoca sul contrasto di fondo tra una società fondata sui rapporti di forza o su valori di solidarietà. E quindi, sulla questione cruciale del posto che il mercato deve assumere nella società.
La storia dei rapporti tra il mercato e la politica (ambedue fondati sui rapporti di forza) si è alternata, nella modernità, tra condizioni di prevalenza dell’uno o e dell’altra. Non v’ha dubbio che verso la fine del compromesso socialdemocratico la politica fosse giunta, in gran parte dell’Europa, a comprimere il mercato in una morsa tra invadenza amministrativa e pressione sindacale. E non v’è altrettanto dubbio che, tra globalizzazione e finanziarizzazione, il mercato ha ribaltato violentemente, a partire dagli anni ottanta, questo rapporto. La domanda di fondo è questa. Il partito democratico asseconderà queste tendenze alla mercatizzazione, non solo dell’economia ma della società, o si impegnerà a ristabilire un equilibrio democratico tra economia e politica, tra potenza economica e potere democratico?
Questo equilibrio non comporta affatto un recupero di invadenza dello Stato rispetto al mercato. Ci sono due terreni sui quali quel rapporto dovrebbe essere riqualificato. Il primo è che lo Stato sappia programmare, anziché gestire. Su questa linea dovrebbe essere perseguita la riforma della spesa pubblica, ispirandosi ai criteri di pianificazione strategica introdotti in Francia e negli Stati Uniti. Un’amministrazione moderna deve essere informatizzata, trasparente e fortemente finalizzata. Non si tratta di meno, ma di meglio. Il secondo è che lo Stato del benessere sia trasformato in una società del benessere (la definizione è di Gunnar Myrdal), nella quale una grande parte dei bisogni sociali sia assicurata non dalla burocrazia, ma dall’autogoverno dei cittadini organizzati in associazioni autonome.
Perché questo equilibrio sia ristabilito in queste nuove forme, il partito democratico non dovrebbe tradire il progetto democratico dell’Ottantanove, costruito sui tre fiammeggianti messaggi (libertà, eguaglianza, fratellanza) ma declinati in una tonalità ben temperata (responsabilità, merito, solidarietà) evitando che si rovescino, come è avvenuto, nel loro contrario.
Quanto al mercato, resto a quello che mi sembra uno slogan persuasivo: economia di mercato sì, società di mercato, no.
E a proposito di mercato, voglio chiudere queste note con due citazioni di due grandi uomini della Destra, insospettabili di simpatie per la Sinistra. La prima, di un liberale autentico, Luigi Einaudi: «Il meccanismo del mercato è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani: sul mercato si soddisfano domande, non bisogni». La seconda è di un altro grande economista reazionario, Joseph Schumpeter: «Questo sistema di idee sviluppato nel diciottesimo secolo (parla dell’utilitarismo) non riconosce altro principio normativo dell’interesse individuale…Il fatto essenziale è questo: che sia una causa o un effetto, questa filosofia esprime fin troppo bene lo spirito di irresponsabilità sociale che caratterizzava la passione e lo stato secolare, o meglio secolarizzato, del diciannovesimo secolo. Nel mezzo di questa confusione morale il successo economico serve solo a rendere più grave la situazione sociale e politica che è la naturale conseguenza di un secolo di liberalismo economico».
Giovanna Marini raccontava, in uno spettacolo di qualche anno addietro, storie vere e da lei vissute di viaggi tra il sud e il nord Italia (e viceversa). Nel suo scompartimento di seconda classe un giovane pendolare, morto di sonno, le era letteralmente cascato addosso (senza alcuna cattiva intenzione, mi parve di capire). Sulla base della conversazione con il giovane, Marini aveva abbozzato un quadro della mobilità territoriale e delle nuove migrazioni interne.
Cerchiamo di vedere cosa è successo ieri alla stazione di Roma Tiburtina e cosa c'entra con la storia raccontata da Giovanna Marini. Che dei pendolari blocchino talvolta una stazione ferroviaria, è sempre successo. Si tratta di proletari, che in generale vivono peggio degli altri e lottano per migliorare le condizioni di vita e di lavoro. E il viaggio, gravoso per il costo del biglietto e la qualità dei treni, riguarda vita e lavoro. Quando poi il costo del biglietto aumenta, le condizioni diventano ancora più insopportabili: i pendolari si arrabbiano e ricorrono alla loro tradizionale forma di lotta, che è appunto quella che abbiamo visto. E' una storia antica e ha sempre irritato i benpensanti, i quali ritengono che «le proteste devono essere misurate rispetto ai disagi che si ripercuotono nei confronti dei cittadini. Bisogna trovare il modo per protestare che sia meno insopportabile per la vita dei cittadini»: così ha dichiarato ieri (Ansa.it) il sindaco di Roma, dopo aver sentito il prefetto Achille Serra. Che sia stato il sindaco di Roma Valter Veltroni a prendersela con l'inciviltà dei pendolari mi sembra già una novità importante, ancorché particolarmente sgradevole. Avremmo preferito che avesse ascoltato, oltre al prefetto, anche qualche pendolare. Speriamo che l'abbia fatto
Ma la novità vera non è questa. Semmai è quella di cui parleranno oggi tutti i giornali e che già si trovava nelle note di agenzia di ieri. La protesta è cominciata alle ore 4,25 e i protagonisti venivano dalla Campania diretti a Milano: pendolari a lunga distanza. Sono fantasmi non registrati dalle statistiche sulle migrazioni (anche se qualcosa dicono i dati Istat sul pendolarismo). Fantasmi - notturni come sono i fantasmi - che risparmiano due notti di pensione o di affitto a settimana stando in treno. Fantasmi morti di sonno che non si muovono «come ombre nella notte», ma - essendo dotati di una pesante materialità corporea - sono costretti a muoversi in treni scadenti, dove viaggiavano solo loro. O, forse, viaggiavano solo loro giacchè ora glieli hanno anche tolti, e comunque i prezzi del viaggio sono aumentati.
Le proteste di ieri dovrebbero aprire un dibattito che va ben oltre la questione del, pur scandaloso, aumento del prezzo dell'abbonamento. Gli episodi cominciati alle 4,25 di ieri mattina dovrebbero far riflettere sulla nuova realtà del lavoro. Nei reportages sugli operai di una volta la giornata in treno per gli operai comnciava proprio a quell'ora. Solo che questi napoletani o salernitani erano già a metà del loro viaggio. Che poi guadagnino 500 euro al mese - come ha dichiarato uno di loro - è un'altra storia. Non sarà vero per tutti, ma per la grande maggioranza di loro i salari sono molto bassi. Perciò il loro progetto migratorio non è definito: continuano a fare i pendolari, spesso da anni, senza poter emigrare una volta per tutte.
Dicono che l’esperienza e gli errori servono a maturare, ma per l’Unione europea le cose non stanno così: nel vertice di Bruxelles che venerdì e sabato doveva salvare la Costituzione dei Ventisette si è scelto di tornare indietro, non di andare avanti e di ripartire dal punto più alto cui si era arrivati. Hanno contato più i pochi Stati ansiosi di frenare l’Unione, che non gli Stati che in gran parte avevano già ratificato il progetto costituzionale proposto nel luglio 2003 dai rappresentanti del popolo, dei governi, delle istituzioni europee. Pochi Stati hanno spadroneggiato sui più, e a forza di spadroneggiare hanno spostato le lancette degli orologi costringendo il tempo ad arretrare e a cancellare non solo le esperienze vissute ma anche le risposte date agli errori passati.
La finta che da decenni consuma l’Europa ricomincia dunque, impermeabile agli insegnamenti della storia: continua l’abitudine a costruire l’Europa senza darle né il metodo né i mezzi né le parole per affermarsi. Non solo: pur appellandosi alle volontà dei cittadini, pur affermando di voler riavvicinare l’Europa alle popolazioni deluse, i capi di Stato e di governo hanno ignorato il parere delle genti. Il popolo europeo non aveva chiesto queste pavide rinunce. Aveva chiesto una costituzione europea, in cui potersi identificare come ci si identifica con le costituzioni nazionali: il 66 per cento l’aveva reclamata con forza, nel sondaggio Eurobarometro di giugno. Non è quello che gli Stati gli hanno dato, se è vero che perfino la parola costituzione li ha impauriti. Gli Stati hanno protetto non i popoli ma se stessi e le proprie false sovranità. Il linguaggio del progetto costituzionale era troppo farraginoso - era stato detto e per questo francesi e olandesi l’avevano respinto nel 2005. I testi odierni hanno un linguaggio infinitamente più opaco, impenetrabile, ambiguo.
Più precisamente, i Ventisette sono tornati al trattato di Nizza del 2000, migliorandolo in alcuni punti importanti ma non decisivi. Di qui l’impressione che sette anni siano passati invano, quasi non fossero esistiti. Non è esistito il momento in cui fu chiaro a tutti che Nizza era una trappola paralizzante, e venne convocata una Convenzione più rappresentativa delle volontà popolari. Non è esistita la decisione di affidare la riforma delle istituzioni e dunque la nascita di un’Europa politica non più a governi gelosi delle proprie prerogative ma a un corpo più democratico (la Convenzione appunto, composta di rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei governi, del Parlamento europeo, della Commissione di Bruxelles). Ogni futura modifica non richiederà la convocazione di un’analoga Convenzione, come era scritto nella parte quarta della Costituzione oggi affossata (articolo IV-443).
Anche questo paragrafo viene estromesso, assieme a tanti altri paragrafi, dal mandato su cui lavorerà, a partire dal 23 luglio, la Conferenza intergovernativa incaricata di emendare i vecchi trattati e proporli a ratifica prima delle elezioni europee del 2009.
Ma, soprattutto, gli Stati hanno agito come se non avessero avuto alle spalle una serie di fallimenti, riconducibili tutti all’incapacità dell’Unione di prendere decisioni comuni anche quando fra i Ventisette c’è disaccordo: fallimenti come la spaccatura sull’Iraq e l’impossibilità di una comune politica internazionale. Il ministro degli Esteri europeo, che doveva avere una sua autonomia e presiedere i Consigli dei ministri, diventa una figura senza autorità. Non si chiamerà d’altronde ministro degli Esteri ma Alto Rappresentante. Sarà una copia di quello che abbiamo già dal 1999 (Xavier Solana) e che ha dimostrato di non funzionare.
Gli Stati insomma si riprendono - per intero - i poteri che avevano promesso di delegare. In politica estera non accetteranno alcuna autorità sopra di sé, e ciascuno ottiene di gestirla «secondo i propri interessi nazionali». Non ci sarà una Carta dei diritti obbligatoria per tutti, ma solo un accenno alla sua esistenza e la possibilità, per Inghilterra e Polonia, di non considerare i suoi dettami vincolanti. Londra non considera validi i paragrafi sul diritto di sciopero e altri diritti sociali. Varsavia giudica irrilevanti diritti etici come la non discriminazione.
In realtà non si è tornati indietro di sette anni ma di più di mezzo secolo. Certo, l’europeizzazione delle politiche nazionali è un dato di fatto difficilmente smantellabile, anche se viene restaurato il falso potere sovrano degli Stati. Ma nei modi di pensare e di fare, i dirigenti nazionali tornano all’epoca che precedette la nascita stessa dell’unificazione europea. Il vertice appena concluso a Bruxelles ha svegliato mostri maligni, che sembravano dormienti, e l’Europa torna a essere un continente dove quel che conta è l’equilibrio di potenze invece della cooperazione e della comune volontà: la balance of power che tiene le singole nazioni del nostro continente in stato di perenne rivalità, intente a tenersi a bada reciprocamente e a brandire l’una contro l’altra le proprie sovranità assolute.
La balance of power è il veleno che per secoli ha corroso l’Europa fino a distruggerla, e contro cui fu inventata - dopo la guerra - l’Unione europea: questo veleno viene inoculato di nuovo nelle nostre vene, spensieratamente, come se la storia fosse fatta di nulla. Altro significato non ha lo scontro Berlino-Varsavia, che ha impregnato l’intero semestre di presidenza tedesca. Il governo polacco si è presentato a Bruxelles con l’esplicito proposito di ottenere un risarcimento per i disastri bellici causati dalla Germania («Se nel 1939 la Germania non avesse invaso la Polonia, oggi avremmo 66 milioni di abitanti invece di 38 e il problema non si porrebbe», ha detto il premier Jaroslaw Kaczynski) sostenendo che la regola di decisione basata sulla doppia maggioranza degli Stati e della popolazione è a ben vedere un premio dato alle stragi di Hitler.
Il risentimento, l’uso della storia, l’invidia per paesi come la Germania, divenuta ricca anche se perdente nell’ultima guerra: queste le emozioni che hanno dominato i lavori a Bruxelles. Quando Angela Merkel ha minacciato di convocare una conferenza senza Varsavia, ripetendo il gesto compiuto nell’85 a Milano dal governo Craxi (così si riuscì a convocare una conferenza intergovernativa sulla riforma delle istituzioni, mettendo in minoranza la Thatcher), era troppo tardi. Sarkozy e Blair si sono opposti, e l’Italia ha dimenticato Craxi e Andreotti.
Dicono che la sostanza resta, anche se la forma svanisce. Dicono che gli Stati non vogliono dire quel che fanno, e ancor meno scriverlo. In parte è vero: la dissimulazione torna a essere quel che distingue l’Unione. Ma proprio questa continua dissimulazione stava negli ultimi quindici anni uccidendo l’Europa, impedendole di divenire potenza per meglio salvare i simulacri che sono ormai gli Stati sovrani. Non si parla più di costituzione, non c’è più il preambolo del vecchio progetto né si accenna al comune inno, alla comune bandiera, alla comune parola d’ordine («uniti nella diversità»). Non si critica il diritto di veto, anche se un pochino lo si attenuerà. Il presidente della Commissione Barroso annuncia che «dalla bella lirica si è passati alla più efficiente prosa», ma in questa prosa non c’è efficienza e nel pragmatismo non c’è che menzogna: la menzogna secondo cui gli Stati hanno sovranità autentiche, per il solo fatto che riprendono il controllo dell’Europa e le vietano di nascere.
Chi in Italia aveva previsto e voluto simili involuzioni ha parzialmente ottenuto ragione, anche se lo sguardo che getta sull’Unione è non meno menzognero: è uno sguardo che sottovaluta la debolezza effettiva degli Stati e il riaffiorare continuo delle volontà europeiste. Il governo, presente a Bruxelles con Prodi e D’Alema, ha fatto comunque poco per smentire queste previsioni. Ha acconsentito all’arretramento, ha accettato perfino una richiesta assai equivoca del presidente Sarkozy: la rinuncia a considerare la «concorrenza libera e non distorta» uno dei fini dell’Unione, che dà alla Commissione di Bruxelles il diritto di punire il protezionismo degli Stati.
Ma soprattutto ha accettato di negoziare sulla base del trattato di Nizza anziché sulla Costituzione ratificata da 18 paesi, tra cui il nostro.
Proprio quello che si era impegnato a non fare, nell’incontro di Prodi e D’Alema con il Capo dello Stato il 16 maggio scorso. In realtà non c’era che Napolitano a volersi battere per una linea coerente e ferma anche a prezzo di rompere. La sua voce nei prossimi mesi e anni, quando inevitabilmente riaffiorerà il bisogno d’Europa, sarà sempre più preziosa.
Se la cosa non fosse triste - una buona Europa in fondo la vorremmo tutti - quanto è accaduto al summit che avrebbe dovuto varare la Costituzione dell'Unione sembrerebbe una farsa: la grande Comunità che ormai va dall'Atlantico all'Ucraina e dal mar Baltico a quello Nero, messa in mora da due gemelli polacchi che sembrano appena usciti da un Circo; il campione del modello di nuovo socialismo, in cui larga parte della sinistra trova l'ispirazione per ammodernare il suo armamentario politico-ideologico, Tony Blair, che ottiene trionfante di esentare il suo paese dall'obbligo di rispettare diritti umani e sociali (in particolare dal diritto di sciopero di solidarietà, e cioè l'arma che serve contro le multinazionali); il più illustre esponente della nuova destra, Sarkozy, che si fa paladino della richiesta su cui si è battuta la sinistra radicale e i movimenti che fanno capo al Forum Sociale Mondiale - non fare più della concorrenza, e dunque del nocciolo delle politiche neoliberiste, una finalità dell'Unione - e il capo di un governo di centro-sinistra, Prodi, che tenta di bloccarlo. Ma che razza di Europa hanno disegnato a Bruxelles nelle ultime ore?
Naturalmente niente corrisponde a quanto appare, sicché possiamo strare tranquilli, l'Europa, più o meno resterà quella di prima. Il fumo sollevato è molto, l'intrico della normativa europea devastante e occorrerà tempo per capire meglio. Già ora sappiamo comunque che: l'Inghilterra già se ne infischiava dei diritti europei, e senza commettere un grave peccato, dato che nei Trattati c'era scritto anche che questi debbono comunque essere conformi alle legislazioni nazionali (peccato, sia detto fra parentesi, altrimenti noi italiani vi avremmo trovato il modo di far passare i nostri Dico, come infatti temeva Buttiglione); che, cancellata come priorità e principio costitutivo, la concorrenza sul libero mercato, resta come «mezzo», legittimato dai Trattati precedenti e dalla Carta di Nizza, che restano in vigore. Si dirà che non aver fatto del mercato un principio costituzionale dell'Unione (al punto che avremmo potuto gettare alle ortiche la nostra Costituzione) è una vittoria etica. E però non ci salverà dal neoliberismo estremo, mentre sapendo come vanno le cose, non sarei davvero certa che la nuova formulazione eviterà le misure protezioniste verso Cina e altri. Che è quanto Sarkozy, ma non solo lui, vorrebbe: nel concetto di competizione coesistono infatti due elementi contraddittori: per un verso il protezionismo miope, per un altro le direttive stampo Bolkenstein, mirate in nome della competitività, a stracciare i diritti sociali acquisiti.
Infine l'annosa questione della politica estera: non avremo un ministro degli esteri dell'Unione! Ma siete davvero certi che se lo avessimo avuto Blair non avrebbe fatto la guerra all'Iraq assieme a Bush? O, al contrario, che, se gli europei avessero davvero voluto impedirlo, non avrebbero esercitato la dovuta pressione perché quella carica non era prevista? Il problema Europa non è istituzionale, sta nella sua incapacità di rispondere a una domanda di senso: perché l'Europa, se è solo un pezzo, subalterno, di mercato globale?
La distorsione e la manipolazione delle parole e del pensiero altrui sono un vecchio sport a cui si dedica chi non è in grado di misurarsi criticamente con opinioni diverse dalle sue. E, a volte, questo sport assume i connotati di vera e propria possessione. Giorni fa un conoscente israeliano mi ha telefonato per chiedermi se io avessi dichiarato nel corso di un dibattito radiofonico che non avrei mai detto: «viva Israele», intendendo che io rifiutassi di augurare vita allo Stato d’Israele e alla sua gente. Sono rimasto interdetto e gli ho risposto che ciò che gli avevano riferito era una solenne idiozia. Uno dei tanti “invasati per Israele”, un Hezbollah del “sionismo” aveva distorto il senso di una mia affermazione nel corso di un pacato e civile dibattito sul libro di Magdi Allam «viva Israele!» a cui ho partecipato insieme all’autore e a Fuad Allam, deputato dell’Ulivo, sociologo del mondo arabo e corsivista de la Repubblica. In quell’occasione dissi che non avrei scritto un libro simile, perché sostiene tesi sbilanciate che non condivido e perché quel titolo da tifo sportivo o da ideologia politica che rimanda ad altri tempi, non favorisce il dialogo e la pace. Non mi sono mai sognato di mettere in discussione il diritto di Israele all’esistenza e alla piena sicurezza, né di augurare del male a quel Paese e alla sua gente non solo per ragioni personali e affettive, ma anche e soprattutto per ragioni attinenti al diritto internazionale che si chiamano diritto all’autodeterminazione dei popoli e legalità internazionale ossia le risoluzioni dell’Onu. Mi batterei con tutte le forze per impedire la distruzione di Israele come quella di qualsiasi altro popolo e Paese. Ma agli Hezbollah dell’ “ebraismo” non importa di quali siano le vere opinioni di coloro che criticano la politica dei governi israeliani in merito all’occupazione e la colonizzazione e denunciano l’immane tragedia del popolo palestinese. Costoro non vogliono discutere, hanno già deciso che quelli come me sono antisemiti, ebrei che odiano se stessi, seminatori di odio. I giudici autonominatisi del bene d’Israele in realtà, quando non sono agiti da turbe della sfera emotiva, sono esimi esponenti di una mentalità fascista o stalinista che considera i critici e gli avversari orridi nemici da estirpare. Oggi comunque il problema è che se c’è una identità che rischia un cancellazione reale questa è quella palestinese. Ci si sono messi in tanti a congiurare perché i palestinesi arrivassero sull’orlo dell’abisso: molti dei governi israeliani come quello attuale, con politiche miranti a mantenere lo status quo dell’occupazione, con lo stillicidio della colonizzazione, con l’umiliazione sistematica di Abu Mazen celebrato come interlocutore affidabile solo per raggirarlo meglio, con la pratica degli omicidi mirati il cui esito è stato quello di fomentare de facto la conflittualità fra le fazioni palestinesi. Non pochi dei governi arabi che hanno avvolto in un polverone di retorica e strombazzamenti bellicosi la finta solidarietà, maschera di un boicottaggio, ovvero nessun vero atto politico per dare futuro ad uno Stato palestinese laico democratico. E, last but not least, il teatrino dell’imbelle e ipocrita comunità internazionale, a partire dagli Usa con gli chiffon de papier della sua penosa road map, per finire con la Ue che tradisce l’esemplare lezione di democrazia delle libere e corrette elezioni palestinesi con una punizione che lungi da indebolire l’ala militare di Hamas l’ha resa sempre più forte, togliendo ogni legittimità al democratico Abu Mazen e vessando ulteriormente i già vessati cittadini più poveri ed indifesi dei Territori. Esiste ovviamente anche una responsabilità dei palestinesi. In un simile contesto i peggiori e i più violenti esponenti di ciascuna fazione hanno preso il sopravvento contro il proprio infelice popolo. Probabilmente gli Hezbollah del “sionismo” gioiranno nel vedere che i palestinesi si fottono da soli. Ma se si illudono che da questo vergognoso scenario uscirà un rafforzamento della sicurezza di Israele o sono privi di senno o ci fanno. La sicurezza autentica non germina dalla prevaricazione immorale, la sicurezza e la dignità dell’esistenza si riverberano solo nella sicurezza e nella dignità dell’altro.
Malatempora
Se oggi potessi essere a Roma andrei al Gay Pride. E non per solidarietà "da esterno" a una categoria in lotta. Ci andrei perché, da cittadino italiano, riconosco nei diritti degli omosessuali i miei stessi diritti, e nell'isolamento politico degli omosessuali il mio stesso isolamento politico. Ci andrei perché la laicità dello Stato e delle sue leggi mi sta a cuore, in questo momento, più di ogni altra cosa, e ogni piazza che si batta per uno Stato laico è anche la mia piazza. Ci andrei, infine e soprattutto, perché, come tantissimi altri, sono preoccupato e oramai quasi angosciato dalle esitazioni, dalla pavidità, dalla confusione che paralizzano, quasi al completo, la classe dirigente della mia parte politica, la sinistra.
Una parte politica incapace di fare proprio, senza se e senza ma, il più fondante, basilare e perfino elementare dei princìpi repubblicani: quello dell'uguaglianza dei diritti. L'uguaglianza degli esseri umani indipendentemente dalle differenze di fede, di credo politico, di orientamento sessuale. Ci andrei perché ho il fondato timore che la nuova casa comune dei democratici, il Pd, nasca mettendo tra parentesi questo principio pur di non scontentare la sua componente clericale (non cattolica: clericale. I cattolici sono tutt'altra cosa).
Ci andrei perché gli elettori potenziali del Pd hanno il dovere di far sapere ai Padri Costituenti del partito, chiunque essi siano, che non sono disposti a votare per una classe dirigente che tentenni o peggio litighi già di fronte al primo mattone. Che è quello della laicità dello Stato. Una piazza San Giovanni popolata solamente da persone omosessuali e transessuali, oggi, sarebbe il segno di una sconfitta. Le varie campagne clericali in atto tendono a far passare l'intera questione delle convivenze, della riforma della legislazione familiare, dei Dico, come una questione di nicchia. Problemi di una minoranza culturalmente difforme e sessualmente non ortodossa, che non riguardano il placido corso della vita civile di maggioranza, quella della "famiglia tradizionale". Ma è vero il contrario. L'intero assetto (culturale, civile, politico, legislativo) dei diritti individuali e dei diritti di relazione riguarda il complesso della nostra comunità nazionale. La sola pretesa di elevare a Modello una sola etica, una sola mentalità, una sola maniera di stringere vincoli tra persone e davanti alla comunità, basta e avanza a farci capire che in discussione non sono i costumi o il destino di una minoranza. Ma i costumi e il destino di tutti.
Ci andrei perché dover sopportare gli eccessi identitari, il surplus folkloristico e le volgarità imbarazzanti di alcuni dei manifestanti è un ben piccolo prezzo di fronte a quello che le stesse persone hanno dovuto pagare alla discriminazione e al silenzio. E i peccati di orgoglio sono comunque meno dannosi e dolorosi delle umiliazioni e dell'autonegazione. E se la piazza dovesse essere dominata soprattutto da questi siparietti, per la gioia di cameraman e cronisti, la colpa sarebbe soprattutto degli assenti, che non hanno capito che piazza San Giovanni, oggi, è di tutti i cittadini. Se ci sono pregiudizi da mettere da parte, e diffidenze "estetiche" da sopire, oggi è il giorno giusto.
Ci andrei, infine, perché in quella piazza romana, oggi, nessuno chiederà di negare diritti altrui in favore dei propri. Nessuno vorrà promuovere un Modello penalizzando gli altri. Non sarà una piazza che lavora per sottrazione, come quella rispettabile ma sotto sotto minacciosa del Family Day. Sarà una piazza che vuole aggiungere qualcosa senza togliere nulla.
Nessuna "famiglia tradizionale" si è mai sentita censurata o impedita o sminuita dalle scelte differenti di altre persone. Nessun eterosessuale ha potuto misurare, nel suo intimo, la violenza di sentirsi definire "contro natura". Chi si sente minacciato dall'omosessualità non ha ben chiaro il concetto di libertà. Che è perfino qualcosa di più del concetto di laicità.
Vane parole d’ordine percorrono l’Italia. Dialogo, ascolto, non lasciare alla destra temi come la sicurezza, no e poi no all’antipolitica. Indicazioni giuste, ammonimenti necessari. Che, tuttavia, ogni giorno vengono oscurati o travolti da pulsioni che spingono in altre direzioni o che inducono a dare risposte frettolose, e sbagliate.
Sul dialogo insiste con giusta determinazione il Presidente della Repubblica. Ma i suoi margini si assottigliano sempre di più. La debolezza numerica della maggioranza e la bassa capacità di gestione del Governo hanno rafforzato nell’opposizione la convinzione che non sia tempo di aperture e che, spallate o non spallate, ogni occasione debba essere colta per mettere in difficoltà, o addirittura liquidare, il Governo. Una resa dei conti: dunque la cosa più lontana da un dialogo, per il quale, sul terreno politico, le difficoltà sembrano quasi insormontabili, come conferma l’ultimo dibattito parlamentare sulla vicenda della Guardia di Finanza.
Non minori sono i problemi quando si passa alle questioni, di vita, ai temi “eticamente sensibili”. Nel suo messaggio alla Conferenza sulla famiglia, il Presidente della Repubblica, dopo aver ricordato l’eguaglianza raggiunta “con la riforma del diritto di famiglia e altre leggi come quelle sul divorzio e l´aborto”, ha sottolineato che anche le unioni di fatto “vanno concretamente assunte come destinatarie dei principi fondativi della Costituzione senza alcuna discriminazione”, attraverso “il riconoscimento formale dei diritti e dei doveri”. Immediata la risposta del Presidente della Conferenza episcopale, interpretata appunto come disponibilità al dialogo. Attenzione, però. Ogni segnale deve essere valorizzato, ma va pure analizzato per quello che effettivamente è.
Monsignor Bagnasco ha manifestato la volontà di "promuovere, là dove ci sono, veri diritti individuali". Vengono così definiti terreno e modalità del dialogo. Ieri si parlava di “sana laicità”, oggi di "veri diritti". In questo modo, uno dei due dialoganti si attribuisce il potere di stabilire le “condizioni d’entrata” dell’interlocutore. Ma non ci sono "veri" diritti individuali, che qualcuno pretende di definire unilateralmente. Vi sono i diritti riconosciuti dalla Costituzione, e basta.
Un atteggiamento analogo si era già colto a piazza San Giovanni, al cui ascolto si continua ad invitare. Ma quella piazza va ascoltata fino in fondo, nel senso che bisogna ricordare proprio le parole che hanno concluso il Family Day. E´ stato detto che bisogna sostituire una nuova "antropologia", fondata sulla famiglia, alla logica dei diritti individuali. Non è poco, anzi è la conferma che la vera materia del contendere nasce dal fatto che siamo di fronte ad una volontà sempre più dichiarata di riscrivere la tavola dei valori costituzionali, questa volta espressa nella forma di una sostituzione della logica "comunitaria" a quella dei diritti delle singole persone.
Prima vittima di questa iniziativa sembra ormai essere la proposta del Governo sui Dico, peraltro assai claudicante. Ma il prossimo obiettivo è già indicato: la legge sul testamento biologico, arbitrariamente presentato come un passo verso l’eutanasia. E il Family Day non ha soltanto reso più acuto il conflitto sui valori. Sta producendo un nuovo soggetto politico, al quale si annuncia l’adesione dei parlamentari teo-dem, rendendo così ancor più arduo il dialogo, dal momento che la sopravvivenza del Governo, la tenuta della maggioranza saranno fatalmente subordinate alle condizioni poste da questi gruppetti, minoritari ma indispensabili.
La sottolineatura delle difficoltà non può essere liquidata come volontà di ostacolare il confronto, come espressione di intransigente laicismo. Al contrario. Si potrà dialogare davvero solo se tutte le posizioni saranno chiare, se il netto punto di vista della Chiesa avrà di fronte a sé atteggiamenti altrettanto chiari da parte dei suoi interlocutori, se diverrà manifesta la logica che deve ispirare l´azione dello Stato. Le contorsioni degli ultimi tempi sono il segno d´una cultura debole, dalla quale discende una politica inadeguata.
Arriviamo così al punto dolente dell´antipolitica. Giustissimo non alimentare populismo e qualunquismo (però, per favore, non tiriamo sempre in ballo l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, che era cosa del tutto diversa), non fare di tutt´erbe un fascio. Ma da troppo tempo queste giuste preoccupazioni si traducono nel silenzio colpevole su fenomeni inammissibili in un sistema democratico, nell´accettazione di una moralità a geometria variabile, nelle smagliature continue della legalità che hanno portato ad un ritorno impressionante della corruzione. L´antipolitica nasce quando la politica perde la capacità di guardare al proprio interno senza compiacenze, quando i ceti dirigenti sono più impegnati nell’autoconservazione che nella ricerca di una trasparente legittimazione pubblica.
Da anni la responsabilità politica è praticamente scomparsa. Quando si censura il comportamento di un politico, la risposta corrente è "non vi è nulla di penalmente rilevante". Così non soltanto si confondono codice penale e regole della politica. Si fa diventare la magistratura l’esclusivo e definitivo giudice della politica, con distorsioni che sono davanti agli occhi di tutti e che non sono il frutto d’una volontà di potenza dei giudici, ma delle dimissioni della politica da uno dei propri, essenziali compiti. Un establishment che voglia davvero essere tale, e che voglia conservare credibilità davanti all´opinione pubblica, dev’essere capace di escludere chiunque trasgredisca regole di trasparenza, correttezza, moralità.
Altrimenti si finisce su terreni scivolosi, si diventa prigionieri d’ogni contestazione, si riduce tutto solo ad una questione di taglio di spese, sacrosanto per molti versi, ma che può perfino produrre inefficienze maggiori di quelle che si vorrebbero eliminare. Non si abbia pausa della trasparenza e della severità. Da qui, e solo da qui, può partire una possibile salvezza.
La buona cultura, come unica via verso la buona politica, dev’essere invocata anche nella materia della sicurezza, cominciando con qualche distinzione. La criminalità "predatoria", che determina insicurezza, è cosa ben diversa dall’affiorare di un terrorismo strisciante, e entrambi questi fenomeni non possono oscurare il tema cruciale della radicale caduta della legalità. D´accordo, prestiamo la dovuta attenzione alle lettere ai giornali. Ma dovremmo anzitutto domandarci le ragioni per cui lo straordinario successo del libro di Roberto Saviano non è stato accompagnato da nessuna significativa reazione istituzionale. Il passaggio di poteri dalle istituzioni pubbliche alle organizzazioni criminali è ormai fatalisticamente archiviato, sì che possiamo tranquillamente occuparci dei problemi legati alla localizzazione di un campo rom?
Diciamo pure che il bisogno di sicurezza non è di destra, né di sinistra. Ma sono molto diversi i modi in cui si "produce" e si governa questo bisogno. Proprio perché la legalità è cosa tremendamente seria, non può essere ridotta solo a questione di ordine pubblico, peraltro rilevante. Nei documenti di alcuni sindaci compare la consapevolezza di una strategia complessiva, che va dagli interventi sociali all´integrazione culturale e politica. Questa è la via maestra verso una sicurezza che non solo non smantella le garanzie, ma le fa penetrare più profondamente nella società con benefici per tutti. Altrimenti prepariamoci alla società della sorveglianza, dove la sicurezza è di destra perché insidia la democrazia.
Distinguendo pazientemente, chiarendo punto per punto, si creano le condizioni del dialogo. Che, tuttavia, sono negate da un linguaggio che descrive città assediate da nuovi barbari all´assalto della vita e della dignità dell´uomo. Per fortuna, in tutti i campi vi è chi non lancia anatemi. E allora cerchiamo i buoni interlocutori, e andiamo avanti.
Non è una buona cosa maneggiare l´affare Visco/Speciale come una baruffa tra due caratteri autoritari e spicciativi, e non come un conflitto tra istituzioni che annuncia un ben altro sisma, più violento e dagli esiti imprevedibili. Un'analisi senza profondità, tempo e memoria di questo "pasticciaccio" impedisce di scorgere l´autentico focus della crisi che sta incubando: il ritorno sul "mercato della politica" degli interessi di quell'«agglomerato oscuro» che si è andato costituendo all'ombra del governo Berlusconi e nella spensierata indifferenza o sottovalutazione dei leader del centro-sinistra, Prodi, D'Alema, Rutelli in testa. Si può dire che quel che fa capolino con l'offensiva del generale è una varietà modernizzata della loggia P2. La si può definire così, una P2, soltanto per semplificazione evocativa anche se il segno caratteristico di questa consorteria non è l'affiliazione alla massoneria (anche se massoni vi abitano), ma la pervasività – sotterranea, irresponsabile, incontrollata, trasversale – del suo potere di pressione, di condizionamento, di ricatto.
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E´ necessario cominciare da Visco. I passi stortissimi del comandante generale della Guardia di Finanza non possono lasciare in ombra gli errori del viceministro, che sono gravi. Non è in discussione la limpidezza morale di Vincenzo Visco, ma l'efficacia delle sue mosse e soprattutto la coerenza delle sue iniziative con la strategia del governo di cui è parte. Il primo errore del viceministro è di non rendere trasparenti le ragioni dell'urgenza di cambiare aria nelle stanze del comando della Guardia di Finanza in Lombardia, di non farne una questione pubblica.
Visco cede alla tentazione di avviare, come si legge in una lucida analisi del Sole-24 Ore, «un rozzo spoils system nei confronti di personale militare ritenuto troppo vicino alla gestione politica precedente». Che in Lombardia, la Guardia di Finanza sia stata molto prossima e a volte subalterna alle volontà del ministro dell'Economia uscente, Giulio Tremonti – e che ancora oggi possa esserlo – è fatto noto dentro la Guardia di Finanza e nella magistratura, ma Visco tira per la sua strada in silenzio e al coperto, con un altro passo falso. «Anziché stare alla larga da diatribe annose e poco misurabili», pensa «di utilizzare un gruppo contro un altro, senza calcolare modi, conseguenze e nemmeno la forza di chi gli sarebbe potuto rivoltare contro» (ancora il Sole-24 Ore). Tatticamente difettosa, l´iniziativa di Visco ha un altro deficit. Non è politicamente omogenea alle scelte del governo che ha deciso di stringere, contrariamente a quel che crede Visco, un patto di compromissione, un´intesa, un patto di non-aggressione, chiamatelo come volete, proprio con quel network di potere, di cui il generale Roberto Speciale è soltanto uno degli attori, e nemmeno il maggiore.
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Di quel network di potere occulto e trasversale, ormai si sa o si dovrebbe sapere. E´ un "apparato" legale/clandestino deforme, scandaloso, ma del tutto "visibile". Nasce con la connessione abusiva dello spionaggio militare con diverse branche dell´investigazione, soprattutto l'intelligence business, della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove esiste una "control room" e una "struttura S2OC" «capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: può entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato».
Quel che combina questo «mostro», che dovrebbe preoccupare chi ha a cuore la qualità della democrazia italiana, si sa. Qualche esempio. Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, pianifica operazioni – «anche cruente» – contro i presunti «nemici» del neopresidente del Consiglio. Durante la legislatura 2001/2006 raccoglie, «con cadenza semestrale», informazioni in Europa su presunti finanziamenti dei Democratici di Sinistra. E´ il "dossier Oak" (Quercia), alto una spanna, denso di conti correnti, bonifici, addirittura con i nomi e i cognomi di presunti "riciclatori" e "teste di legno" dei finanziamenti occulti dei Ds che fanno capo ai leader del partito. Prima della campagna elettorale del 2006, l´apparato legale/clandestino programma e realizza una campagna di discredito contro Romano Prodi.
Sarebbe un errore, però, considerare il network «al servizio» del centrodestra. Quell´apparato legale/clandestino, a cavallo tra due legislature, si è "autonomizzato", si è "privatizzato", è autoreferenziale. Raccoglie e gestisce informazioni in proprio. Vere, false non importa: sono qualifiche fluide – il vero e il falso – nella «mediatizzazione della politica dove ogni azione politica si svolge all´interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei media». A questa variante moderna di P2 è sufficiente amministrare, saggiamente, la cecità e le nevrosi delle power élite, angosciate dalle mosse degli alleati; spaventate dai complotti possibili, probabili, prossimi.
Con accorta disciplina, il network spionistico sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all´uno come all´altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare. Alimenta così la sindrome di Berlusconi consegnandogli dossier sul complotto mediatico-giudiziario. La cura con una pianificazione di annientamento dei presunti complottardi. Eccita il "complesso berlusconiano" della sinistra e lenisce quello stato psicoemotivo, prima che politico, con informazioni sulle mosse vere o presunte del temuto spauracchio. Quanto più il conflitto pubblico precipita oscurandosi in un sottosuolo, dove poteri frantumati, deboli, nevrotici tentano di rafforzarsi o difendersi; tanto più il network è in grado di essere il custode dell´opaca natura del potere italiano o il giocatore in più che può favorire la vittoria nella contesa.
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La minaccia di questa presenza abusiva e minacciosa nel "mercato della politica", alla vigilia delle elezioni del 2006, sembra chiara al centrosinistra. C´è chi esplicitamente, con grande scandalo e dopo anni di distratto silenzio, avverte che «sono tornati i tempi della P2» e chi, più lucidamente, ragiona sul quel che è accaduto e sul da farsi. Preoccupato da una realtà che ha consentito di «sviluppare un agglomerato oscuro fatto di agenzie di investigazione e polizie private in combutta con infedeli servitori dello Stato che si muove in una logica di ricatto», trova «lo spettacolo spaventoso» e promette che «il nuovo governo solleciterà il Parlamento a indagare, accertare, comprendere cosa è accaduto». (Marco Minniti, oggi viceministro agli Interni).
In realtà, il governo Prodi appena insediato muove in tutt´altra direzione. Preferisce guardare altrove, incapace di prendere atto dell´infezione, in apparenza impotente a comprenderne il pericolo, addirittura impedito a programmare il necessario lavoro di bonifica. Quel che appare al vertice del network, il direttore del Sismi Nicolò Pollari, incappa nelle indagini della procura di Milano per il sequestro di un cittadino egiziano. L´inchiesta mostra le connessioni del network e dimostra la sua attività di dossieraggio illegale. Incrociata con i risultati dell´istruttoria Telecom, offre una scena così inquietante per la qualità della nostra democrazia che dovrebbe convincere il governo a darsi da fare in fretta, a rimuovere, rinnovare, risanare; a chiedere al Parlamento – appunto – di «accertare e comprendere». Accade il contrario. Il sequestro del cittadino egiziano è protetto da un segreto di Stato che nemmeno Berlusconi e Gianni Letta hanno mai proposto alla magistratura milanese. Di più, per dare un minimo di credibilità alla sorprendente iniziativa, l´esecutivo non esita ad accusare dinanzi alla Corte Costituzionale di illegalismo la procura di Milano. Un altro segreto di Stato va a coprire gli avvenimenti che hanno accompagnato la missione in Iraq di Nicola Calipari, salvo poi chiedere a Washington «verità e giustizia».
Che si voglia tutelare, anche nella nuova stagione politica, il passato, i traffici e la fortuna dei protagonisti di quel network è ancora più chiaro quando si procede alla sostituzione dei vertici dell´intelligence. L´ammiraglio Bruno Branciforte va al Sismi senza alcuna delega in bianco o margini operativi e decisionali. Viene consegnato a un imbarazzante stato di impotenza. In sei mesi, per vincoli politici, non ha avuto la possibilità di rimuovere nemmeno un dirigente. Lo staff, i direttori centrali e periferici, il potentissimo capo del personale sono gli stessi dell´éra Pollari. Ad alcuni degli uomini più fidati del generale uscente è stato consigliato di fare un accorto passo laterale diventando gli uomini forti e ascoltati del ministero della Difesa. Al Sisde il nuovo capo, Franco Gabrielli, ammette addirittura davanti al Parlamento che «così com´è, il servizio interno non può svolgere appieno un efficace compito di prevenzione». E tuttavia non riesce a incuriosire il ministro dell´Interno che, in sei mesi, non ha ancora trovato il tempo e il modo di riceverlo.
Se i "nuovi" hanno difficoltà a fare il loro lavoro, i "vecchi" possono ampliare – al contrario – il loro margine di manovra e i "punti di appoggio". Pollari è oggi consulente di Palazzo Chigi; il suo fidatissimo braccio destro, che con spavalderia minacciosa si è detto dinanzi al Parlamento «di sinistra» e prodiano, è addirittura al "Personale" della Difesa mentre il generale Emilio Spaziante, l´operativo di Pollari nella Guardia di Finanza di Roberto Speciale, è il numero due al Cesis, la struttura che fa da link tra la presidenza del Consiglio e l´intelligence militare e civile, una poltrona che, nel 2001, già fu di buon auspicio per Nicolò Pollari che da lì partì alla conquista della direzione del Sismi.
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Il governo di centro-sinistra ha preferito chiudere un accordo di non-aggressione con quel network che, soltanto alla vigilia delle elezioni, appariva all´opposizione di ieri «spaventoso», «oscuro». Un´intesa cinica, realista che avrebbe anche potuto resistere se la parabola dell´esecutivo avesse dimostrato di poter durare a lungo; se la forza del governo avesse dimostrato, in questo suo primo anno, di essere adeguatamente salda e autosufficiente per poter affrontare l´intero ciclo quinquennale della legislatura. Ai primi scricchiolii di popolarità e consenso, ai primi segnali di debolezza politica interna, il network è ritornato a muoversi con tutta la sua pericolosità. Le minacce del generale Roberto Speciale ne sono una eloquente testimonianza. «So io che fare», ha detto ieri al Corriere della Sera.
La congiuntura politica, la debolezza e le divisioni della maggioranza, qualche appuntamento di carattere giudiziario non inducono all´ottimismo e lasciano pensare che il peggio debba ancora venire, altro che il match Visco/Speciale.
Dunque. Ancora poche settimane e nel frullatore politico-mediatico entreranno le migliaia di intercettazioni telefoniche raccolte nell´inchiesta Antoveneta/Bnl. Un breve saggio di quanto possano essere esplosive lo si è già avuto nel 2006 con la pubblicazione della conversazione tra Gianni Consorte (Unipol) e il segretario dei Ds, Piero Fassino. Ma in quelle intercettazioni si sa, per dirne una, che si ascolta la voce dei maggiori leader del centro-sinistra, a cominciare da Massimo D´Alema e del suo collaboratore più affidabile, il senatore Nicola Latorre. A incupire la scena, la preoccupazione che le intercettazioni legali possano incrociarsi con gli ascolti abusivi e le indagini illegali della Security Telecom. Per quel che se ne sa, è stato trovato soltanto un dvd con migliaia di dossier, nella disponibilità di un investigatore privato che lavorava per la società di telecomunicazioni (o per lo meno per gli uomini della sua sicurezza). Nessuno è in grado di escludere, a Milano come a Roma, che quel dvd sia soltanto una parte dell´archivio segreto. Mentre non c´è dubbio che anche la più irrilevante briciola di quelle informazioni, raccolte illegalmente, sia oggi nella disponibilità dell´«agglomerato oscuro». Che avrà il modo e l´occasione di giocare una nuova partita e qualche asso.
I tempi sono favorevoli. Le anomalie, i vizi, gli sprechi della politica italiana hanno scavato un solco tra il Paese e il Palazzo mettendo in moto, per dirla con le parole di Massimo D´Alema, «una crisi di credibilità della politica che tornerà a stravolgere l´Italia con sentimenti come quelli che, negli anni novanta, segnarono la fine della Prima Repubblica». La storia ci insegna che una democrazia fragile e largamente screditata può sopravvivere anche molto a lungo, grazie ai sui meccanismi di autotutela, soltanto però «in assenza di eventi traumatici "esterni" che la facciano crollare». Ora tutta la questione è in questa eventualità. Non c´è dubbio che il network oscuro sia in grado di creare, anche artificialmente, un evento «traumatico» esterno. I dossier – veri o falsi, non importa – raccolti negli anni del governo Berlusconi dall´apparato legale/clandestino di spionaggio possono di certo esserlo. Se si guarda a come si è mosso, contro Vincenzo Visco, il generale Roberto Speciale, sembra di poter dire che in giro ci sia anche la volontà di farlo, la determinazione senza tentennamenti. Il comandante della Guardia di Finanza ha tentato, infatti, di "giudiziarizzare" il braccio di ferro con il viceministro, di alimentare con la sua testimonianza (aggiustata per l´occasione) un´indagine penale e, sotto l´ombrello dell´inchiesta, mettere in circolo veleni, notizie mezze vere e mezze false o del tutto manipolate, capaci di «travolgere il Paese con i sentimenti degli anni novanta». Può essere stato soltanto un piccolo accenno di quanto accadrà di qui a dieci giorni. Sapremo presto quali iniziative intende muovere, quest´altra P2 – simile, ma non uguale a quella che abbiamo conosciuta – e quale forza di dissuasione o di compromesso è in grado di opporre il sistema politico.
Il Governatore ha capito che per una politica di occupazione c'è da superare la precarietà e soprattutto l'assenza di giovani e donne al lavoro. Mentre le sue considerazioni sono tradizionali e niente affatto positive quando parla di finanza pubblica: propende per il pareggio del bilancio, cosa che distruggerebbe lo stato sociale.
Le considerazioni finali del governatore Draghi hanno qualche novità e invece qualche accenno tradizionale. Le novità sono di due tipi: la prima riguarda un'attenzione nuova alla globalizzazione finanziaria con i suoi pericoli, che Draghi definisce "dirompenti".
Un'altra novità, meno positiva, è il suo favore per il gigantismo delle banche che il governatore della Banca d'Italia pensa debbano entrare nel capitale delle grandi imprese. Così, grandissime banche con forti poteri di influenza sulle imprese rischiano di diventare dei mostri non assoggettabili ad alcuna vigilanza. Draghi pensa che la vigilanza della Banca d'Italia possa essere sufficiente per evitare gli inevitabili conflitti d'interesse e non si accorge della contraddizione: se le grandi conglomerate bancarie sono internazionali, la vigilanza nazionale è del tutto insufficiente.
Alcuni aspetti positivi riguardano la sua visione dell'occupazione che vorrebbe meno precaria, più aperta alle donne e ai giovani. Anche i suoi riferimenti alle pensioni di anzianità, legate all'invecchiamento della popolazione sono però non disprezzabili, perché Draghi parla di allungare l'età media degli occupati e questo implica che, probabilmente, accetterebbe un allungamento differenziato a seconda dell'usura dei lavori.
E' invece tradizionale e niente affatto positivo quando parla di finanza pubblica, perché sembra propendere per il pareggio del bilancio cosa che distruggerebbe lo stato sociale (il suo vecchio maestro Federico Caffè questo passaggio non lo avrebbe certamente apprezzato) e, soprattutto, perché pensa di poter trasformare una parte della previdenza obbligatoria (fino al 33 % dei contributi) in previdenza complementare - in pratica sostiene una forma di privatizzazione.
Draghi non capisce che quest'idea aumenta l'incertezza dei lavoratori, non assicura che la pensione sarà dignitosa, e al contrario rafforza quel mercato dei capitali che egli stesso, in precedenza, ha descritto come denso di avversità.
Per concludere, mi preme sottolineare alcune lacune della relazione svolta oggi dal Governatore Draghi: si è dimenticato completamente del sindacato e della concertazione; ha parlato delle liberalizzazioni, ma non ricorda il fallimento di quelle oggi in vigore - da Telecom alle Ferrovie dello Stato - e ha attribuito alla Banca Centrale Europea il successo contro l'inflazione che, a suo dire, sarebbe stata molto più elevata in ragione dell'aumento dei prezzi del petrolio se la BCE stessa non avesse operato in modo prudente. Invece, la BCE non c'entra nulla, perché l'inflazione è stata abbattuta dalla Cina e dall'India che hanno fatto aumentare la produzione di merci ad un livello tale da abbassarne il prezzo. E ancora, nella sua relazione Draghi non da alcuna importanza o rilievo al ruolo dello Stato; dimentica le esternalità negative; non pensa all'ambiente e, in generale, preferisce guardare alla finanza pubblica come una serie di dati senza andare alla ricerca del loro significato.
Ingrandite la figura di uno di questi 27 naufraghi aggrappati, con i piedi più ancora che con le mani, sul bordo di una gabbia di tonni, largo appena 35 centimetri. Sgranate e deformate, sino a indovinare il viso e le espressioni, la foto degli uomini-tonno o, se preferite, dei ragazzi-sughero che si lasciano galleggiare tenendosi in equilibrio sulla nassa: per un momento potrebbe persino sembrare che sorridano
Più verosimilmente gli uomini-tonno mostrano i denti. E guardate la mano alzata a segnalare la fretta, una fretta che non finisce mai. E poi chiedetevi com´è possibile che tutti insieme, che tutto l´insieme non abbia impietosito le barche di passaggio, com´è potuto accadere che tanti, troppi pescherecci abbiano fatto finta di non vedere questa scenografia di morte, questa camera ardente sull´acqua, o che davvero li abbiano guardati come fossero tonni tra i tonni. Agitandosi molto meno, 27 autostoppisti all´autogrill avrebbero guadagnato anche l´attenzione dei più distratti e dei più indaffarati. Cattivi marinai? Sadici filibustieri? No. La logica è quella terrestre dell´indifferenza, quella stessa di chi volta la testa dall´altra parte davanti a uno stupro, di chi non soccorre i feriti sull´autostrada…
E però in questa foto c´è di peggio. Non si vede, ma la gabbia per tonni è ovviamente legata a un peschereccio: il Budafel. E speriamo, se il decoro non è diventato retorica, che Budafel diventi sinonimo di vergogna. Inutilmente infatti - e questo nella foto si vede - gli uomini-tonno implorano uno "strappo" sino a terra, uno "strappo" che vale le loro vite. Ma il capitano del Budafel non ha alcuna intenzione di portarli a terra per la seguente ragione che egli stesso ha poi spiegato all´Indipendent: «Non potevo correre il rischio di perdere il mio carico». Come avrebbe potuto sacrificare un prezioso carico di tonni-tonni, «almeno un milione di dollari», per un carico di tonni-uomini, almeno un milione di guai?
Insomma non stupisce che stia già diventando una delle immagini emblematiche del secolo la foto di questi 27 uomini-tonno che sono stati lasciati lì, per tre giorni e tre notti, a galleggiare in acque libiche. E vale la pena di sottolineare, per una volta con orgoglio, che sono stati gli italiani a salvare i naufraghi mentre i maltesi chiedevano l´intervento dei libici, i quali a loro volta imprecavano contro i maltesi.
Di sicuro nessun obbligo di legge e nessun diritto internazionale imponevano alla Marina italiana di mandare la sua Orione che, in acque non troppo lontane, stava cercando un´altra barca di disperati. Ma si sa che l´Italia ha, nei rapporti internazionali, un modo di presentarsi che esclude la durezza. Quella famosa idea che siamo tutti figli di mamma e che la vita vale più dei regolamenti, delle opportunità politiche, e anche dei confini e della ragion di Stato, quella idea italiana che è stata spesso, e a ragione, considerata come un segno di debolezza, forse sta ora diventando un segno di modernità. E lo diciamo pensando anche all´Afghanistan e alle polemiche sul prezzo dei riscatti. Forse, mostrarsi deboli e fragili oggi significa mostrarsi evoluti.
La Marina italiana ha dunque fatto prevalere i sentimenti elementari pur sapendo che i nostri centri sono allo stremo, e che persino un paradiso vacanziero come Lampedusa è oggi diventato simbolo di ingestibile e invivibile "accoglienza".
Ma soprattutto la foto ci parla del Mediterraneo, di quel che è diventato il mare delle nostre canzonette d´amore, il mare che pure ha visto e superato ogni genere di ferocia, che è stato solcato da imprenditori violenti e da razziatori di ricchezza, ha conosciuto ogni tipo di boat people, antico e moderno, dai settemila Cavalieri di Gerusalemme che, cacciati da tutti i porti, errarono dal 1522 al 1530, alla famosa Exodus con a bordo 4515 profughi ebrei scampati ai campi di concentramento. Ricordate il film con Paul Newman? Arrivata nel porto di Haifa la Exodus fu speronata e rimandata indietro dai cacciatorpediniere inglesi che fecero anche parecchie vittime.
Insomma sembrava che tutto fosse già accaduto nel Mediterraneo, diventato caldo come un caffè e accogliente come un convento. Ed ecco invece le barche dei disperati, ecco gli uomini-tonno. Davvero mai era successo che gli uomini in surplus demografico venissero trattati come spazzatura, costretti a farsi sugheri e a galleggiare attaccati alle nasse. Eppure altrove il mare, come per esempio in Giappone, benché sia naturalmente più ostile, non è il luogo dove la terra si svuota degli uomini in eccesso ma il luogo dove la terra si espande, dove si costruiscono aeroporti e intere città palafitticole, il mare insomma che si sostituisce al terri-torio diventando mari-torio. Quella foto ci spiega invece che non solo il nostro Mediterraneo non sta diventando un maritorio ma che è la bocca di un vulcano, è un campo di concentramento con soluzione finale, è il mare del "navi frango", il mare dove si è franta la vecchia e gloriosa nave della nostra umanità.
Pensate a un milione di dollari. In quella gabbia c´erano tonni per un milione di dollari. Voi chi buttereste a mare: il tonno o il naufrago? Come vedete, sembra tornare in vita, proprio nel cuore del Mediterraneo, la vecchia figura del negriero. Pare quasi di rivedere la caricatura brechtiana dell´imprenditore, quello delle vignette bolsceviche: ci si liberava di lui con la scopa della rivoluzione. Ebbene, se sulla terra non è più quella la logica del mercato, la foto ci racconta che il nobile Mediterraneo è di nuovo infestato da quei miserabili.
E’ Verona, la tradizionale "Bologna bianca", virata per una breve stagione al rosa, e tendente da oggi quasi al nero che simboleggia il vallo tra le due Italie, un vallo non più solo geografico, non solo antipolitico, ma antropologico. Alessandria, Vercelli, Como, Varese, molte le vittorie scontante del centrodestra. Ma Verona no, Verona è l’icona del Nord che se ne va, che evade definitivamente, che non concede più prove d’appello al centrosinistra, incapace di confezionare le «scorciatoie mentali» che hanno dimostrato di pagare tra Padania e Pedemontana: immigrazione, prostituzione, sicurezza e meno tasse, Ici e addizionali, tanti parcheggi, poca cultura.
Pochi slogan elementari, se possibile feroci, perché non catturano più nel Veneto cattolico e peccatore le «fumisterie» solidaristiche del Vescovo, «alibi» della sinistra per coprire l’incapacità di scelte esplicite e forti. Figurarsi la «redistribuzione», concetto di moda a Roma, che il leader nazionali ripetono incoscientemente anche in campagna elettorale sulle sponde del Po. «Redistribuire? Redistribuiscano a noi quelli di Roma», ci ha detto un ricco commerciante del "Listòn" veronese, faticando a capire il concetto stesso di redistribuzione.
Aveva un sindaco moderato, un avvocato ex democristiano, la ricca e moderatissima Verona, talmente moderata che per un mese Forza Italia e Udc litigarono su quale dei loro possibili candidati fosse il più moderato. Poi arrivò Umberto Bossi che senza colpo ferire convinse Berlusconi a scegliere come candidato unitario il leghista più trinariciuto del Triveneto, il giovane assessore regionale Flavio Tosi, un signore che una volta si presentò in comune con una tigre al guinzaglio lanciando lo slogan "el leon che magna el teròn". Bell’effetto sul proscenio della «leaderizzazione» locale, una specie di parodia di quella nazionale. Paga più la moderazione di un avvocato "understatement", timorato e ben visto nei centri del potere economico, che non ha fatto male nel suo quinquennio, o quella di un giovanotto, capace di fulminee «scorciatoie mentali» per chi lo ascolta? Più i faticosi ragionamenti di Prodi o i fulminanti slogan di Berlusconi? Condannato in secondo grado per violazione della legge Mancino avendo propagandato «idee razziste», la leggenda metropolitana veronese dice che quella condanna, nata da un’inchiesta del Pm Papalia, è stata il vero, grande assist per l’elezione quasi a furor di popolo di Flavio Tosi. Il che, tra l’altro, la dice lunga sul fenomeno Bossi, che guida un partito ai minimi termini e divorato dalle lotte intestine, ma - genio del parassitismo politico e tuttora massimo interprete dell’anima padana - riesce a imporre e a far vincere i candidati scelti da lui. Ciò che fa infuriare il governatore forzista del Veneto Giancarlo Galan, il quale sulla scelta leghista per Verona, che l’altra volta lui non azzeccò aprendo la strada al candidato di centrosinistra, chiese addirittura le dimissioni dei coordinatori nazionali Bondi e Cicchitto, minacciando di creare Forza Veneto, per la quale - pare ovvio - dovrebbe ormai chiedere consulenza a Bossi. In fondo, funziona ancora e sempre da tre lustri il «modello Gentilini», sindaco al terzo mandato (ora formalmente nel ruolo di prosindaco) di Treviso, quello che tolse le panchine agli immigrati e consigliò di sparargli come ai leprotti. Il paradosso è che dopo tanti anni di dichiarato razzismo del primo cittadino, Treviso risulta la città del Nord con una delle migliori integrazioni degli immigrati extracomunitari. Vuol forse dire che le «scorciatoie mentali» servono alla politica per prendere voti, ma che poi funzionano canali sotterranei di compensazione della locale classe dirigente? Dove l’avrebbero spedito Gentilini le decine di migliaia di imprenditori trevigiani, se davvero gli avesse negato la necessaria manodopera straniera? Dove s’incontrano poi «scorciatoie mentali» e business, lì è il vero regno di Bossi. Come a Monza, dove ha imposto il candidato leghista Marco Mariani, più moderato, ma più «business oriented», che ha vinto con una campagna elettorale affidata al progettista di una grande speculazione immobiliare della famiglia Berlusconi, la «Milano-4», che ora certamente si farà in quel di Monza per replicare i successi di «Milano-2» e «Milano-3», con il fattivo appoggio del governatore lombardo Roberto Formigoni, nel nuovo capoluogo della nuova Provincia brianzola, già costata alcune decine di milioni. La destra ne ha fatto un cavallo di battaglia, la gente la Provincia la vuole, ma poi si schifa per i costi della politica. Solo quella degli altri? A Monza, altro presunto luogo felice di moderazione, abbiamo assistito a un comizio allo stato di «preparola» di Gianfranco Fini su come cacciare immigrati e puttane - ovazioni - e, il giorno dopo, ad uno di Walter Veltroni, assai meno affollato, sullo «spirito di servizio» e sul sindaco santo di Firenze Giorgio La Pira, che le ragazzotte minigonnate trascinate in piazza Trento e Trieste pensavano fosse un gelato.
L’antipolitica non si celebra nella sala ovattata della Musica di Renzo Piano, con Luca Cordero di Montezemolo che sul palco legge il gobbo elettronico, si consuma al seggio di Monza o di Gorizia, anch’essa persa per insipienza dal centrosinistra, dove del Partito Democratico nulla sanno e soprattutto nulla vogliono sapere. L’antipolitica si fa nell’incrocio dello smercio europeo di droga a Verona, si fa alla «Cascinazza» di Monza, dove Paolo Berlusconi costruirà quasi un milione di metri cubi. L’ondata antipolitica nasce dalle piccole scelte leaderistiche, nazionali e locali, dei partiti in crisi, nei quali l’elettore non si ritrova più e corre alla ricerca della scorciatoia mentale, di cui Bossi, nonostante la malattia, resta uno dei migliori interpreti sulla piazza. Fosse stato per Berlusconi e Galan, gli obiettivi veneti sarebbero stati persi, mentre per Monza, quartiere milanese, l’odore del business è invincibile.
Poi, c’è l’effetto «Berlusconi mancante», che ha prodotto un calo della partecipazione del voto a sinistra. Se non c’è lui, che odio, perché devo andare a votare? Croci e delizie del leaderismo. Ma, per favore, nessuno ci racconti più, tre lustri dopo la dicci, di un Nord cattolico e moderato.
Invece di farsi mille domande molto sospettose sulle vere intenzioni di Luca di Montezemolo, converrebbe ascoltare quel che egli ha detto sulla politica italiana: una politica «debole», «litigiosa» sempre tesa a «galleggiare in attesa della consultazione elettorale successiva». Chiunque rilegga il discorso che il presidente della Confindustria ha pronunciato il 24 maggio sa che questi mali non sono immaginari ma molto reali e comunque percepiti diffusamente come reali. Sa che la politica in Italia non riesce a decidere, bloccata com’è da veti sempre più fitti e da quelle che Ilvo Diamanti chiama minoranze dominanti. Nel loro libro su La Casta (Rizzoli) Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo si soffermano sullo Stato disastrato e parlano di caste grandi, piccole e piccolissime: tutte intoccabili. Persino il singolo parlamentare tende di questi tempi a divenire casta: il veto d’un singolo può paralizzare ogni cosa.
Chiudersi a questo monito e considerarlo addirittura un’usurpazione non riscatta la politica ma conferma, semplicemente, le accuse che le vengono rivolte. Se è veramente forte, il politico non s’indigna se criticato. Se ha ambizione e anche attitudine a guidare con autorità il proprio campo e il proprio paese accoglie tutti i consigli che possano irrobustire quest’autorevolezza. Se si chiude vuol dire che ha paura, che non si ritiene all’altezza.
Che è animato da una sorta di xenofobia, che diffida d’ogni voce straniera che minaccia la sua identità e il suo territorio. Il politico debole non ha torto a prendersela con le élite che vedono i difetti altrui e non i propri, ma debole resta pur sempre se si fa sommergere da simili fobie. Alla fine avrà paura del voto stesso, come nei giorni che hanno preceduto le elezioni di questa domenica. Un’elezione non indifferente ma neppure decisiva, perché i governi solidi sopravvivono ai voti locali.
Tremare davanti alle amministrative è come tremare davanti a Montezemolo o a un articolo di Mario Monti o alle interferenze della Chiesa, della magistratura, delle minoranze dominanti. Vuol dire che i poteri forti son divenuti talmente numerosi che un vero potere al centro non c’è più. Ogni voto e giudizio contrario è ritenuto destabilizzante, ed è vissuto come un’usurpazione e un’indebita incursione.
Naturalmente queste incursioni corrono il rischio di sottovalutare le servitù della politica. Chi critica è di enorme aiuto quando fa sentire la propria voce (quella di Montezemolo è d’altronde severissima con il «cinismo dell’antipolitica» e con la tentazione del Paese a «far da sé nella convinzione che lo Stato assente sia preferibile allo Stato considerato invadente») ma è di aiuto davvero pratico se scorge le differenze fra il proprio statuto e quello del politico, se riconosce i limiti propri oltre a quelli altrui: lui, il critico non impegnato nell’azione, non è stato messo alla prova, non si è misurato con le difficoltà della politica, del consenso, del tribunale elettorale che un giorno ti premia e il giorno dopo può licenziarti.
I rappresentanti delle élite che ammoniscono dall’esterno hanno un privilegio che il politico non possiede: godono di immunità, sono immortali mentre il politico è, per definizione, mortale. Berlusconi non ha torto quando ricorda che il difficile è ottenere il 51 per cento. Così Prodi, quando rammenta che entrare in politica non è una discesa ma una salita fatta di «fatica, sudore, mediazioni, consenso, voti per raggiungere risultati». Non ha torto neppure il sindacalista Bonanni, quando sospetta Confindustria di scaricare sui governanti incapacità che son di industriali e sindacati. Ma questo non permette di liquidare il monito di Montezemolo, soprattutto quando questi fa lo sforzo, esplicito, di «parlare prima come cittadino e poi come imprenditore». Se c’è oggi una forza che difende il particolare più dell’interesse generale, che scarica sulla politica incapacità che son proprie, che adotta il comportamento denunciato da Bonanni («Lui sembra che scenda dal pero», dice di Montezemolo), questi è piuttosto il sindacato.
Domandarsi quali siano le carriere che questi critici vogliono intraprendere interessa forse gli esperti in retroscene ma vuol dire rinunciare a correggere e migliorare la politica. Vuol dire rimanere nella melma in cui essa s’è impantanata dai tempi di Tangentopoli, e cercare una scusa per non agire. Vuol dire non chiedersi quel che spinge queste persone critiche e quel che le rende popolari. Se fanno tanta impressione, se ogni giorno si parla di governi e leader alternativi, vuol dire che c’è, in giro, un’immensa sete di guide, capaci di decidere presto e imperiosamente. Negli anni di Weimar, dunque di una democrazia debole e litigiosa, il filosofo Max Scheler si soffermò su questo punto, considerandolo il male più grande. Vide che s’era creato un tragico distacco fra spirito e potere, e parlò di una «nostalgia straordinaria di guida, a tutti i livelli» (beispiellose Sehnsucht nach Führerschaft allüberall). I Führer sarebbero alla fine venuti, sotto forma di anti-politica e anti-democrazia, perché la politica dei partiti non seppe dissetare quegli assetati di leadership.
Scheler scriveva su élite e leadership poco dopo un saggio fondamentale della sociologia, il Suicidio scritto nel 1897 da Emile Durkheim, in cui son descritte le società che perdono le regole, vedono frantumarsi i legami sociali, precipitano nell’assenza di leggi che è l’anomia. Il suicidio anòmico, che si diffonde in simili epoche, è favorito dallo slabbrarsi dell’autorità, delle istituzioni come Stato o famiglia, Chiesa o sindacato.
Il suicidio può essere l’atto d’un individuo o di una società, una civiltà, uno Stato. Può suicidarsi anche la politica, come rischia di succedere in Italia. Chi è tentato dal suicidio anòmico ha la tendenza a considerarsi perdente, e vive come se nessun legame sociale potesse più tenere insieme gli interessi dei singoli partiti (quella che Monti chiama tecnica della sopravvivenza è in realtà autodistruttiva). A spingerlo verso questo tipo di harakiri non è tanto la crisi economica ma sono le trasformazioni impetuose che spezzano equilibri e regole preesistenti. Secondo Durkheim è soprattutto nei periodi di prosperità che i legami sociali s’allentano e il senso di sconfitta mette radici, creando quell’infelicità così ben spiegata, il 24 maggio su La Stampa, da Arrigo Levi: un malumore dilagante che non nasce da mali autentici ma è piuttosto una nevrosi, una collettiva illusione pessimista, enigmatica e inquietante: assai simile alla sete che secondo Scheler minava Weimar. Quando vengono meno regole e leggi i desideri diventano illimitati - nel nostro caso i desideri dei partiti-casta che difendono i loro elettorati - e altrettanto illimitata è l’insaziabilità, la brama che non si sfama. Il «male dell’infinito» sommerge tutti.
Tanto più gravi sono le delusioni, quando vien fuori che i mezzi e le risorse realmente a disposizione - finanziarie e non - non bastano ai propri fini. Le forze che oggi governano sembrano afflitte da questa insaziabilità, che invece d’ordinare il mondo lo sbriciola (lo specchio rotto di cui parla Eugenio Scalfari): «una sete inestinguibile» cattura i partiti, e nessuno sa regolare le proprie passioni e capire il vantaggio d’avere un limite. In Durkheim è questo il suicidio anòmico, nella società priva di autorità rispettate e temute.
A questo bivio è la politica. Le tante critiche che le vengono rivolte non sono sempre giuste, abbiamo visto. La crisi della politica non cade dal cielo e al caos contribuiscono in tanti: imprenditori, sindacati, caste varie comprese quella dell’informazione. I cittadini non hanno sfiducia solo nel Parlamento, nel governo, nell’opposizione. Diffidano anche delle imprese, della Chiesa che sequestra la politica, perfino di se stessi.
I politici usano difendersi nascondendosi dietro la complessità del proprio compito, delle proprie pene. Ma la complessità è una via di fuga. È una terribile tentazione di cui urge liberarsi. Chi dice che «tutto è molto più complicato» già s’è arreso. La semplicità è la via, e tutto ruota attorno a una cosa semplice: in una comunità organizzata ci vuole la dignità dell’esercizio del governare, del reggere il timone. L’Italia è un Paese che dal 1992 ha distrutto la politica e che non ne può più d’averla distrutta.
Tutti invocano il suo ritorno: sotto forma di capacità rinnovata di guida, sotto forma di un rapporto meno nevrotico col tempo (è un altro punto sollevato da Montezemolo: «Fare oggi scelte coraggiose, i cui risultati si vedranno fra otto o dieci anni, significa avere senso dello Stato»). Sotto forma di misure forti, che ristabiliscano la maestà della legge e l’idea stessa della maestà (ci deve pur essere un modo per rimediare d’imperio al disastro dei rifiuti in Campania). La politica deve fare il primo passo, dice l’ex Presidente Scalfaro in un’intervista a Repubblica: «Ma non a partire dalle prossime elezioni: a partire da domani». Anzi, da oggi.
Nella vignetta di Altan pubblicata ieri dal nostro giornale uno dei due consueti protagonisti dice fissando l’altro: «Confindustria all’attacco» e l’altro con la mano in tasca e il basco di traverso risponde: «Speriamo in una forte risposta della Conferenza episcopale».
Ha ricordato Ezio Mauro nel suo editoriale dell’altro giorno che molti anni fa, in analoghe circostanze, l’avvocato Agnelli di fronte alle pressioni di chi auspicava una sua "scesa in campo" nell’agone politico, commentò: «Ipotesi ad alto rischio. Se fallisce non resta che ricorrere a un generale o a un cardinale».
I nostri generali sono leali alla Repubblica; i cardinali sono extraterritoriali, la loro verità viene da un altrove. A quindici anni di distanza uno dall’altro, Agnelli e Altan hanno colto perfettamente la fragilità della democrazia italiana quando la politica si infiacchisce e la società ripiega sui suoi "spiriti animali".
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Televisioni e giornali da qualche settimana sono pieni di dibattiti e inchieste sul costo della politica. Il libro dei bravissimi Stella e Rizzo ha dato la stura ad un Niagara di dati, testimonianze, invettive, denunce, che documentano sprechi, arricchimenti illeciti, ruberie, rendite di posizione, privilegi, tutti sulla pelle e con i soldi dei cittadini, vittime designate, agnelli sacrificali di tanto malaffare.
Tra i molti pezzi di bravura nel proporre e in un certo senso imporre questa agenda all’opinione pubblica si è distinto martedì scorso Enrico Mentana in due ore e mezzo di dibattito nella sua trasmissione "Matrix". Merita di essere segnalato perché il montaggio televisivo era di rara efficacia.
Partiva documentando che il costo complessivo dell’attività politica vera e propria – stipendi dei ministri, dei parlamentari, degli eletti nelle Regioni e negli enti locali, dei loro portaborse, del finanziamento dei partiti e dei giornali di partito – ammonta a 4 e più miliardi (la stessa cifra è stata ripresa da Montezemolo nella sua allocuzione all’assemblea della Confindustria).
Ma questo è solo l’inizio, l’antipasto, incalzava Mentana dal video di Canale 5. E via una serie serrata di quadri, brevi inchieste, tabelle sinottiche da lasciarti senza fiato, nelle quali si avvicendavano le cifre del debito pubblico, gli stipendi pagati ai dipendenti dello Stato e del parastato, il costo delle Ferrovie, il peso delle imposte e infine l’intero ammontare della spesa pubblica, cioè la metà di tutto il prodotto italiano, imputato in blocco al costo della politica. In studio due o tre personaggi con volti gravi e occhi spiritati annuivano e rilanciavano.
Quando ho spento il televisore (era quasi l’una dopo mezzanotte) ero francamente spaventato. A tal punto che lo stesso dibattito mi è ricomparso in sogno con le sembianze dell’incubo e la sensazione di essere fisicamente stritolato da una morsa che si stringeva su di me togliendomi l’aria e il respiro.
Enrico Mentana, quando ci si mette, è bravo, non c’è che dire.
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Il 27 dicembre del 1944 Guglielmo Giannini fondò il settimanale "L’Uomo qualunque", che ebbe come insegna un omino inerme schiacciato da un torchio. Il primo numero tirò 25 mila copie ma appena cinque mesi dopo, nel maggio del ‘45, era già arrivato a 850 mila.
Lo scopo del settimanale era di dar voce all’uomo della strada contro i partiti di qualunque colore, contro lo Stato, contro il centralismo, ovviamente contro il comunismo e contro "gli antifascisti di professione".
Il 21 giugno di quello stesso anno nasce il governo presieduto da Ferruccio Parri che per Giannini diventò il bersaglio numero uno. Lo scontro aumentò il successo del settimanale. Sotto la spinta d’un vento così favorevole Giannini fondò il partito dell’Uomo qualunque; si aprirono sedi in tutta Italia, il giornale superò il milione di copie, fu tenuto a Roma il congresso di fondazione.
Il programma approvato all’unanimità «concepisce lo Stato come semplice ente amministrativo e non politico. Lo Stato deve essere presente il meno possibile nella società. L’economia deve essere lasciata totalmente ai privati in un sistema totalmente liberista». I punti cardine del partito enumerati nel programma erano: Lotta al comunismo. Lotta al capitalismo della grande industria. Propugnazione del liberismo economico individuale. Limitazione del prelievo fiscale. Negazione della presenza dello Stato nella vita sociale del Paese.
Il 2 giugno del ‘46 «L’Uomo qualunque» si presentò alle elezioni per l’Assemblea Costituente, ottenendo 1.211.956 voti, pari al 5,3 per cento, diventando il quinto partito italiano dopo la Dc, i socialisti, il Pci e l’Unione Democratica Nazionale di Croce, Orlando, Nitti. Ebbe 30 deputati. Nel ‘47, quando De Gasperi ruppe con le sinistre, l’Uomo qualunque appoggiò il governo centrista, ma questo fu l’inizio della sua fine. I qualunquisti finirono per confluire nel Partito monarchico e nel neonato Movimento sociale.
Fino al 1947 il giornale e il partito ricevettero sostegno finanziario dalle associazioni agrarie meridionali e dalla Confindustria.
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Qualunquismo, antipolitica, populismo, demagogia: sono quattro parole che configurano modalità ed esprimono modi di sentire abbastanza simili, pur non essendo termini sinonimi. Nella vita pubblica italiana queste modalità e questi sentimenti rappresentano una costante da molti anni, dalla fondazione dello Stato unitario ma anche prima, soprattutto nelle province del Mezzogiorno.
Una costante, ma per fortuna non una dominante se non a tratti e per brevi periodi. Per diventare dominante ci vogliono condizioni che esaltino quella costante e la propaghino nella psicologia di massa.
Una condizione è la debolezza dell’autorità politica. Un’altra è la debolezza delle organizzazioni dei lavoratori. Un’altra ancora è l’assenza d’una borghesia forte e responsabile. E il proliferare delle corporazioni e dei sindacati corporativi. L’ultima condizione infine è la presenza di demagoghi e populisti capaci di cavalcare il qualunquismo e trasformarlo in una forza d’urto che pervada le istituzioni e le offra al potere dei demagoghi di turno.
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Ho letto con molta attenzione l’omelia, o se volete la «lectio magistralis» di Luca Cordero di Montezemolo e ne ho sottolineato i passi salienti, i punti di consenso e quelli – dal mio punto di vista – di dissenso. Poiché molti amici e lettori mi hanno chiesto di esprimere un’opinione in proposito, dirò che i punti di consenso sono nettamente superiori a quelli di dissenso, sicché – sia pure con alcune note a margine – potrei concludere con un’approvazione finale.
Le note a margine riguardano: 1. Il mancato riconoscimento del risanamento finanziario come premessa indispensabile della ripresa economica. 2. Il merito della ripresa attribuito soltanto agli imprenditori e al mercato. 3. Il silenzio sulle responsabilità di molti imprenditori in operazioni truffaldine che hanno pesantemente colpito il risparmio e la fiducia. 4. Le leggi e le politiche dissennate del quinquennio berlusconiano, per terminare con una legge elettorale votata da tutto il centrodestra a cominciare dall’Udc di Casini, che ha reso ingovernabile il Parlamento e il Paese.
Non sono note a margine trascurabili, ma le tralascio: sono state già segnalate e approfondite nei giorni scorsi, sicché le do per note, lo stesso Montezemolo del resto mi pare che le abbia riconosciute come valide e ne abbia fatto ammenda.
Confermo che, nonostante tali rilievi, la «lectio» confindustriale mi pare meritevole di consenso. Però...
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Il punto in questione riguarda la nascita d’una nuova borghesia. Montezemolo ha più volte insistito su questo aspetto e c’è ritornato nelle dichiarazioni del giorno dopo: è nata una nuova borghesia che sta facendo la sua parte. Lavora come e più di tutti. Effettua investimenti. Innova i prodotti e i processi di produzione. Accorcia lo svantaggio competitivo. Ha ridato slancio alle esportazioni.
In forza di questi meriti la nuova borghesia chiede, anzi pretende: meno tasse sulle imprese, piena mobilità del lavoro, ammortizzatori sociali adeguati, liberalizzazioni in tutti i settori, riforma delle pensioni in armonia con gli andamenti demografici, riconoscimento del merito in tutti i settori e a tutti i livelli.
La nuova borghesia ha già fatto ciò che il Paese si attendeva e continuerà a farlo, ma non può esser lasciata sola. Il governo finora è stato inadeguato e indeciso. Partiti e Parlamento altrettanto o peggio. Opposizione forse pure. Si mettano dunque al passo.
Gran parte di queste richieste sono condivisibili, anzi sacrosante. Per quanto ci riguarda le sosteniamo da mesi, anzi da anni. Ma l’osservazione che qui solleviamo riguarda la nuova borghesia, innovatrice, liberista e liberale, corretta con le regole del mercato. E dunque meritevole. Con quel che segue.
È già nata questa nuova borghesia, amico Montezemolo? E quando? Lei stesso fa datare il risveglio, la ripresa, l’innovazione a due-tre anni fa. Più o meno dall’inizio della sua presidenza in Confindustria. Prima di allora, è verissimo, l’innovazione era ridotta ai minimi termini, gli investimenti languivano, il Pil aveva addirittura cessato di crescere. Crescita zero.
Non voglio discutere le sue capacità salvifiche ma chiedo: in tre anni, in un paese dal quale la borghesia è scomparsa da almeno vent’anni, ce la troviamo rinata all’improvviso come Minerva che uscì armata di tutto punto dalla testa di Zeus? Non è credibile.
Le esportazioni sono aumentate. Verso quali aree del mondo e in quali settori della produzione? Lei lo sa benissimo. Perché non lo ha detto?
Gli investimenti. Quelli privati la soddisfano perché sono aumentati di ben il 2,3 per cento. Ma più oltre lei lamenta che quelli pubblici sono aumentati "soltanto" del 4 per cento. Quattro non è forse il doppio di due?
C’è un punto della sua relazione in cui lei, giustamente, lamenta l’evasione fiscale enorme e il sommerso altrettanto enorme. Ha ragione. Ma chi evade? E chi si sommerge? Che mestieri fanno i sommersi e gli evasori? Fanno molti e vari mestieri, ma concederà che quelli che pagano con il sostituto d’imposta evadono infinitamente meno di tutti gli altri. Ne dobbiamo dedurre che gli evasori sono tutti e soltanto i liberi professionisti?
Lei non ha parlato delle violazioni delle regole di mercato. Uno dei suoi vicepresidenti seduto accanto a lei ne rappresenta un luminoso modello: quello di aver controllato fino a ieri la più grande società per azioni italiana rischiando in proprio l’1 per cento del capitale. Sono questi i meriti da imitare e riconoscere?
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Gentile presidente di Confindustria, di Fiat, di Ferrari e di parecchie altre iniziative certamente meritevoli, noi abbiamo la sensazione che la nuova borghesia non sia ancora nata e – purtroppo – sia ancora sulle ginocchia di Giove. Lei fa benissimo ad auspicarla. Fa benissimo a dedicare i tre quarti del suo discorso ad una politica insufficiente e indecisa. Fa benissimo a parlare più da cittadino che da capo della sua associazione. Ci ruba un po’ il mestiere, ma ben venga.
Per fortuna per farci conoscere qualche cosa di più approfondito sui problemi dell’industria italiana c’è stato, dopo il suo, l’intervento del ministro Bersani. Se la platea dell’Auditorium fosse stata popolata dalla nuova borghesia, Bersani avrebbe avuto applausi appena appena inferiori a quelli avuti da lei. Non la pensa anche lei così? Non l’ha un po’ colpita constatare che l’ovazione più lunga al suo discorso è venuta quando lei ha scandito che gli industriali non pagheranno un solo euro di più di tasse? Dichiarazione ineccepibile. Da sottoscrivere. L’aveva già detto Mario Monti. Non parliamo di Giavazzi. Vedrà che il 31 maggio lo ripeterà Draghi e sarà più d’una triade, sarà un quadrumvirato. Ci vogliamo aggiungere anche Pezzotta e i cardinali?
Per finanziare tutte le richieste che vengono i soldi ci sono: basta cancellare il debito con un colpo di bacchetta, abolire la spesa pubblica seguendo le indicazioni di Matrix, e oplà, non è poi così difficile. I soldi si trovano sempre. Basta decidere da quali tasche prenderli.
Lei mi risponderà: dal sommerso e dall’evasione. Perfetto, è il programma del governo Prodi. Visco ci sta provando e qualche risultato è già arrivato. Forse è per questo che stanno facendo il tiro a bersaglio su di lui.
Le do una cifra, amico Montezemolo: la vecchia borghesia – la sola che l’Italia abbia avuto in 150 anni di storia unitaria, la cosiddetta destra storica – pagò attraverso l’imposta fondiaria il 52 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato nel periodo in cui governò, tra il 1861 e il 1876. Il 52 per cento. Era una borghesia composta interamente da proprietari fondiari.
Le entrate extra tributarie vennero dalla vendita dei beni ecclesiastici, avocati allo Stato e venduti da Marco Minghetti.
Purtroppo tarderà a nascere, se nasce, una borghesia di quel conio, che nazionalizzò le ferrovie e le assicurazioni sulla vita.
L'ineluttabilità dell'ampliamento della base militare di Vicenza è stata giustificata con un anonimo obbligo che dovrebbe derivare da un trattato internazionale, cioè da un accordo Italia-Usa per la concessione allo stato straniero di installare o ampliare basi militari. In assenza di un dibattito parlamentare da cui far scaturire i doverosi dati identificativi di questo trattato e la sua legittimità, non ci resta che ricordare che nella Costituzione vi sono norme (articoli 80, 87, 72, 73) che indicano quali siano gli organi competenti, quali siano i loro doverosi atti, quali i controlli reciproci nella procedura di formazione dei trattati relativi alla presenza di forze militari straniere.
Agli organi di governo (presidente del consiglio, ministri, plenipotenziari) è assegnata solo una competenza residuale. Possono, cioè, compiere tutta l'attività (iniziativa e conduzione della negoziazione, predisposizione e firma del progetto) che non è formalmente assegnata agli altri organi costituzionali.
Fra sottoscrizione dell'organo plenipotenziario e la ratifica del Presidente della Repubblica (il quale manifesta la volontà dello stato di stipulare il contratto e di vincolarsi) si inserisce la fase dell'esame parlamentare, che si conclude con la legge di autorizzazione, legittimante il successivo atto di ratifica. Non è da sottovalutare poi, in una democrazia rappresentativa, il ruolo di controllo riconosciuto al corpo elettorale, che, grazie al regime di pubblicità dei atti legislativi, è in grado di conoscere e di giudicare la fondamentale politica internazionale seguita dalla maggioranza parlamentare.
Dalla teoria, ora, passiamo alla pratica.Partiamo da un dato storico incontestabile, riferitoci da Sergio Marchisio: l'Italia è il paese mediterraneo con il maggior numero di basi e forze militari straniere. Secondo il rapporto predisposto dal governo americano per il Congresso,nel 1977 esistevano circa sessanta installazioni militari concesse in uso agli Stati uniti e all'Alleanza atlantica, distinte in varie categorie (quartieri generali, basi aeree, centri di informazione di basi aeree, stazioni radar del sistema Nadge, basi navali, basi terrestri, terminali di comunicazione, ripetitori radio) .
C'è da dubitare che gli accordi su queste installazioni siano inquadrabili all'interno della procedura di autorizzazione da parte del Parlamento e di ratifica da parte del Presidente della Repubblica.
A giustificazione dell'esclusione dal controllo parlamentare si sostiene che accordi di questo tipo sono strumentali rispetto ai trattati sull'Alleanza atlantica.
In forza dell'unico articolo della legge di ratifica e esecuzione del Trattato di Washington sull'Alleanza atlantica, negli accordi Italia-Stati uniti si è consolidata una procedura semplificata, in cui la sottoscrizione dei plenipotenziari perfeziona l'accordo, escludendo la fase della ratifica e esecuzione per via legislativa e la conoscibilità del suo contenuto da parte dei cittadini.
Questa argomentazione non è convincente, in quanto:
1. dal trattato non emerge in maniera esplicita alcun obbligo per i contraenti di accettare sul proprio territorio la installazione (politicamente gravosa) di basi militari straniere;
2. l'articolo 9 del trattato prevede che gli accordi di cooperazione militare devono essere applicati nei vari stati «in conformità con le rispettive procedure costituzionali»;
3. la Costituzione pone, implicitamente ma chiaramente il divieto di concludere questi trattati in una forma che ne comporti la segretezza: gli accordi militari rientrano tra quelli di natura politica per i quali l'articolo 80 prevede la stipulazione attraverso ratifica, la quale deve essere autorizzata per legge la quale, a sua volta (articolo 73 comma 3) deve essere pubblicata, unitamente al testo del trattato.
La precisa procedura prevista dalla nostra Costituzione impone che l'attuazione del trattato sia subordinato alla condizione che lo stato italiano abbia partecipato alla sua formazione attraverso gli organi investiti di questo potere...Ne deriva che un atto amministrativo (decreto del governo, decreto ministeriale e simili), emanato in esecuzione di un trattato nullo, non può che essere impugnato dall'interessato e annullato dal giudice amministrativo; inoltre deve essere disapplicato dal giudice ordinario. Il presidente del consiglio e il ministro competente sono responsabili ex art. 96 Cost. per inadempienza dell'obbligo di sottoporre al Parlamento i trattati indicati dall'art. 80.
Su questi temi il Parlamento deve pronunciarsi, rivendicando il potere-dovere che la Costituzione gli affida su un tema fondamentale per la sicurezza della nostra democrazia. Non basta la partecipazione di alcuni componenti alle manifestazioni di dissenso extra-parlamentari.
Stefano ha una storia normale: 36 anni, un lavoro a tempo indeterminato, guadagna - da contratto - appena 900 euro al mese. Vive nella periferia romana con il padre. Vorrebbe una sua casa, una sua famiglia. Ma con 900 euro al mese non è possibile. Per cercare di rompere l'accerchiamento della non-vita, Stefano sta pensando a un doppio lavoro. Magari in nero per portare a casa e per la casa un po' più di soldi. Ma Stefano non è una eccezione. La sua «normalità» chiama in causa quello che tutti ormai chiamano «crisi di credibilità della politica».
Stefano è una vittima della globalizzazione, che ha spinto i capitalismi a ricreare una sorta di «esercito di riserva» composto dai precari che debbono accettare una retribuzione inadeguata a vivere: il mercato non offre altro. E anche questo chiama in causa l'inefficacia della politica.
Ieri Montezemolo ne ha offerto la sua versione accusando la politica di essere inadeguata ai compiti della globalizzazione. Montezemolo è passato sopra ai dati sulla competitività dell'industria italiana, diffusi 24 ore prima dall'Istat, che mettono sotto accusa le aziende, la loro assenza in settori produttivi fondamentali, il loro modo di investire che privilegia il processo, anziché il prodotto. Insomma, molte industrie dovrebbero piangere per le loro colpe.
Montezemolo si è proposto profeta di una «nuova» politica, risolutiva di tutte le crisi di rappresentanza. Con domande retoriche ha spiegato alla platea che non esistono più confini tra destra e sinistra. L'ideologia è morta, insomma, e va sostituita con un modello buonista e efficiente dove stato e governo debbono essere funzionali all'impresa. L'equità, sulla base di questo ragionamento, è l'ultima delle preocupazioni.
L'accusa di Montezemolo alla politica ha solo l'obiettivo di far cadere su altri le responsabilità. Però nel ragionamento del presidente degli industriali esistono elementi che non possono essere trascurati. Insomma, è vero che lo stato e i partiti sono carenti, ma lo sono non nell'ottica di Montezemolo che farebbe a meno dello stato per delegare tutto (tutto ciò che non costa) alle imprese e favorire così i processi di globalizzazione. La Confindustria di Montezemolo mira a farsi stato e governo: a imporre le proprie idee sui processi non solo di produzione, ma sulla stesa democrazia.
Certo, la politica è fragile, confusa, e un po' corrotta, ma la verità è un'altra: l'Italia manca di una presenza autorevole del «pubblico» e delle scelte di politica economica che non possono essere delegate - lo diceva anche Keynes - ai privati. In questo non c'è nostalgia dello statalismo, ma la richiesta di soggetti pubblici - anche istituzionali - che ascoltino e cerchino di soddisfare le necessità di chi non vive, ma sopravvive. Non riducendo l'attenzione a carità pubblica. Per dirla in altro modo, occorre tornare ai diritti. Al diritto alla casa, alla salute, al lavoro, a salari e redditi adeguati anche per chi perde il lavoro. Sarebbe un modo per capire se la politica ha ancora un futuro.
Proprio alla vigilia dell'assemblea di Confindustria, sono arrivate, con il rapporto dell'Istat-Istituto nazionale di statistica, le cifre sullo stato di salute dell'Italia e sulla distribuzione dei redditi. Il confronto non potrebbe essere più aspro. Gli industriali, oggi, il loro giorno verificheranno la ricchezza della nazione e se ne attribuiranno i meriti. Ieri al contrario è emersa con nettezza la povertà della nazione: come se fosse Alfred Marshall a parlare, e non Adamo Smith.
La povertà della nazione ha colpito perfino l'attenzione del vescovo Angelo Bagnasco, il presidente della Cei. La cattiva distribuzione del reddito è in aumento in Italia, quale che sia il governo. Non sono soltanto le persone rimaste indietro nella scala sociale a soffrirne, in famiglia o prese una per una. E' un fenomeno di massa che coinvolge milioni e milioni di persone: «il 28,9 per cento delle famiglie ha... specificato di non aver potuto far fronte a una spesa imprevista di importo relativamente modesto (600 euro)». Così l'Istat, anche se non è facile dimenticare che un quarto dei pensionati riceve meno di 500 euro mensili e il 31 per cento tra 500 e 1.000 euro. Per tutti, 600 euro sono una somma importante. Per i primi, anziché di un «importo relativamente modesto», si tratta di una somma irraggiungibile, il risultato di un terno al lotto. Ed è un avverbio relativamente che suggerisce molte riflessioni sulla distribuzione dei redditi nel nostro paese e sulla percezione che se ne ha, perfino in un ambiente attento e colto come quello dell'Istat.
Sono dati che vengono discussi all'interno, nel manifesto; qui vogliamo aggiungere solo un altro paio di notazioni sui redditi: sui ricchi e sui poveri del nostro paese; anche se sarà «nostro» a pieno titolo solo per alcuni; e «loro» per tutti gli altri. «Le famiglie appartenenti al 20 per cento più povero della distribuzione percepiscono soltanto il 7,8 per cento del reddito totale, mentre la quota del quinto più ricco risulta cinque volte maggiore (39,1 per cento)». E poi: nel Nord-est una persona con disabilità riceve un sostegno che grava sul pubblico - stato, comune - per 4.182 euro in media. La media per lo stesso sostegno nel sud è di 448 euro.
Ma torniamo al 20 per cento delle famiglie più ricche, quelle che godono di redditi doppi di tutto l'insieme delle famiglie; e redditi cinque volte maggiori di quelli del 20 per cento delle famiglie meno provviste. Anche all'interno del campo dei ricchi vi sono notevoli differenze; anzi, vi sono di solito barriere tra chi guadagna un milione e chi solo centomila. Alcuni partiti hanno tentato in passato, senza successo, di organizzare i secondi contro i primi. Adesso, se accettassero, tutti gli industriali andrebbero bene, per il nuovo partito che nasce.
Oggi, in Confindustria, luogo assai democratico, le barriere saranno abbassate. Tutti in coro gli industriali, guidati dai più ricchi di loro, chiederanno ai ministri, presenti in massa, notizie sul cuneo fiscale. I ministri, rassegnati, prometteranno . Qualcuno, nel «nostro» paese, parlerà ancora di come ridurre il cuneo sociale?
Ci sono due strade per cercare di uscire dalla crisi della politica che è sotto gli occhi di tutti. La prima, è quella di denunciare i ritardi e gli abusi della classe dirigente – tutta – lavorando per una riforma del sistema che è necessaria e urgente, ma che forse è ancora in tempo per salvare le istituzioni dal collasso e per evitare che l´antipolitica diventi il sentimento prevalente del Paese. La seconda, è quella di puntare direttamente sul collasso del sistema, vellicando l´antipolitica per arrivare se non a una seconda ribellione popolare in quindici anni almeno a una delegittimazione dei poteri costituiti: in modo da aprire la strada agli "ereditieri", quel pezzo di classe dirigente che non sa fare establishment ma sa proteggere molto bene la sua dubbia imprenditorialità e la sua scarsa responsabilità, sperando addirittura di ereditare il Paese. Come se in una democrazia, anche malata, la cosa pubblica fosse scalabile al pari di un´azienda in crisi, trasferendo in politica il network italiano delle scatole cinesi che consente di comandare senza essersi guadagnati il comando, senza aver costruito o almeno riammodernato qualcosa – come un partito, un movimento, un sistema culturale – che parla ai cittadini e raccoglie il loro consenso semplicemente perché "poggia su una intuizione del mondo".
Bisogna dire che i partiti e i loro leader fanno di tutto per deludere chi crede nella prima strada, e aiutano chi punta sulla seconda. Solo la cecità e la sordità italiana consentono di dire che l´allarme nasce oggi, all´improvviso. In realtà, prima di Natale il Presidente della Repubblica Napolitano (destinato ad avere un ruolo come quello di Pertini, denunciando la crisi del mondo da cui proviene) aveva parlato chiaro e forte, lanciando un vero e proprio allarme per la "tenuta" della democrazia, lamentando il "distacco" tra politica, istituzioni e cittadini, ammonendo tutte le parti politiche, perché nessuna si illudesse di "trarne vantaggio". Cosa ci voleva di più? Siamo da almeno cinque mesi davanti al rischio conclamato di una regressione democratica, con lo Stato che ritorna Palazzo, separato, trent´anni dopo.
È chiaro che la sinistra, guidando il governo e il Paese, ha le responsabilità maggiori di questo disincanto democratico, ed è naturale che ne subisca le conseguenze maggiori, in termini di consenso. Ma è altrettanto chiaro – e ripeto quel che ho scritto altre volte – che c´è qualcosa di più generale, di sistemico, che sta intaccando le istituzioni e corrode lo stesso discorso pubblico senza distinzioni, perché salta ogni intermediazione riconosciuta e accettata, sia di tipo organizzativo che di tipo culturale, dunque è la doppia anima della politica che viene colpita. Tutta la politica.
Quando il sistema dei partiti fa lievitare in modo indecente i costi della politica e si trasforma in "classe" privilegiata, autoprotetta e onnipotente, controllando gli accessi, premiando l´appartenenza, puntando sulla cooptazione dei fedeli e dei simili, lottizzando ogni spazio pubblico con l´umiliazione del merito, corrodendo così la stessa efficienza della macchina statale, allora diventa impossibile fare distinzioni tra destra e sinistra. Quando a tutto questo si aggiunge da un lato l´esercizio disinvolto e automatico del denaro pubblico per mantenere e far crescere questo sistema autoreferenziale e dall´altro lato l´esibizione pubblica dei privilegi, diventa difficile non parlare di "ceto separato", un tutt´uno dove le differenze culturali e politiche che – per fortuna – dividono e connotano i due schieramenti di destra e sinistra finiscono per essere travolti dal sentimento indistinto di rifiuto e di lontananza che cresce tra i cittadini.
Naturalmente l´anima originaria di Berlusconi, il suo istinto mimetico del senso comune dominante e il carattere della destra italiana possono portarlo a fingere di interpretare il risentimento democratico come una sua possibile politica, perché in realtà l´antipolitica è una forma primaria di espressione del populismo, che se ne giova mentre la nutre. La sinistra, semplicemente, non può. Questo sentimento di progressiva perdita della cittadinanza – perché di questo si tratta – la colpisce al cuore, distrugge il canale di dialogo e di incontro con la sua gente perché fa venir meno una piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento: come se con l´agibilità dello spazio politico pubblico venisse a mancare un territorio in cui muoversi da cittadini consapevoli dell´ambito di libertà nostro e altrui, del portato di storia e di tradizione che ci definisce, dei nostri diritti e dei nostri doveri. In questo senso, è drammatico il vuoto di ogni proposta di cambiamento nel costume e nel metodo politico (la rinuncia alla lottizzazione, la riduzione drastica del numero dei ministri, il rifiuto dei privilegi, la riorganizzazione del tempo di lavoro del parlamento) da parte del centrosinistra tornato al governo, dopo il quinquennio berlusconiano. La sinistra radicale, mentre vuole cambiare il mondo vuole intanto cambiare anche il cda delle Ferrovie, per avere un posto. La sinistra riformista, non vede la riforma più urgente: e che credito riformatore può avere – si è chiesto qui Adriano Sofri – una politica che non mostri di saper riformare se stessa?
Un ritardo reso tragico dal paragone con i tempi del nuovo presidente francese Sarkozy, che in due giorni ha fatto il governo, lo ha ridotto ai minimi termini, lo ha rinnovato per metà con ministri-donna. Un ritardo reso amaro dall´abbandono di Blair, che lascia il governo inglese all´età in cui da noi normalmente vi ci si affaccia e lo fa nella convinzione di poter avere una "second life" altrettanto piena e soddisfacente, cancellando lo stereotipo della politica non come professione, ma addirittura come vitalizio. Sia in Francia che in Gran Bretagna, nei discorsi di addio e di investitura la retorica dei leader usa la coppia concettuale formata da "io" e "voi", due parole che trasmettono molto semplicemente l´idea del vincolo di mandato e anche l´idea del vecchio partito come animale politico vivo e vitale, soggetto politico obbligatorio di riferimento, anche per leader carismatici e decisionisti.
Da noi, i partiti sono nati tutti mercoledì scorso, non hanno storia, tradizione, valori consolidati, una cultura di riferimento: tutte quelle cose che fanno muovere e garrire le bandiere, che infatti non ci sono, o restano ammosciate. Anche qui, ancora una volta, la nuova destra berlusconiana prende a prestito i valori e i precetti nel deposito di tradizione millenaria della Chiesa, mentre riempie il vuoto culturale con un carisma vagamente paganeggiante e idolatrico che finge di restituire la politica ai cittadini trasformati in folla mostrando il corpo mistico del leader: mentre in realtà sottrae loro ogni partecipazione reale e per sempre, ipotizzando addirittura una successione in forma dinastica, capricciosa e incontrollabile, comunque autocratica.
Ma la sinistra, quanto può resistere sul mercato politico senza una rifondazione di pensiero, senza idee-forti che diano sostanza alla sua politica, la pre-determinino, e parlino della vita e della morte, dei grandi temi, al cittadino? La parte radicale ha ancora il comunismo nelle sue bandiere, e finché dura quel simbolo sconfitto dalla tragedia che ha suscitato, ogni altra idea non è accostabile. I Ds sembrano credere che diventare riformisti significhi annacquare ogni mattina la propria identità nel mare turbolento del senso comune altrui. Come se gli strumenti propri di una sinistra riformatrice, serena e radicale insieme, non fossero oggi probabilmente i più adatti a governare le contraddizioni della fase: basterebbe saperlo, e usarli, a partire dalla laicità.
Davanti a questi ritardi conclamati, al camaleontismo della destra, alle cifre del disincanto svelate da Ilvo Diamanti, la sinistra ha tuttavia una carta, che è il Partito democratico. Può banalizzarla, come sta facendo, giocandola tutta dentro il mondo chiuso degli apparati, facendo di questo partito l´ultima della creature politiche del Novecento, e allora si misurerà soprattutto il ritardo, l´affanno, il costo tardivo dell´operazione. Oppure, può farne il primo soggetto diverso del nuovo secolo, per una nuova politica, contagiando la "cosa" che dovrà nascere nella sinistra radicale, e forse persino il futuro partito conservatore, a destra. Un partito, ha scritto Mario Pirani, forte perché leggero, potente in quanto disarmato: e soprattutto, scalabile, infiltrabile, contendibile. Da qui non si scappa: perché la riforma della politica parte da qui, se si vuol fare sul serio.
Altrimenti, si inseguirà il fastidio popolare crescente, da gregari spaventati, sperando che non si condensi in quell´antipolitica in cui si entra tutti insieme, ma si esce soltanto a destra. Sperando in più di evitare un nuovo collasso e una nuova supplenza, anche perché non sempre il supplente si chiama Ciampi. "Benissimo il Governatore – diceva allora l´avvocato Agnelli – ma ricordiamoci che dopo di lui c´è solo un generale o un cardinale". I generali non so, ma i cardinali sarebbero anche pronti. Proviamo a dire che non è il caso, perché non ce ne sarà bisogno.
Tre settimane fa la redazione economica del settimanale Die Zeit ha spaventato i suoi lettori con il titolo «Il quarto potere viene messo all´asta?». Lo spunto è venuto dall´allarmante notizia secondo cui la Süddeutsche Zeitung sta andando incontro a un futuro economico incerto. La maggioranza dei soci vuole separarsi dal giornale. Se si dovesse arrivare a un´asta, uno dei migliori quotidiani nazionali tedeschi potrebbe finire nelle mani di investitori finanziari, imprese quotate in borsa, o grandi gruppi mediatici. Qualcuno dirà: business as usual. Cosa c´è di allarmante nel fatto che i proprietari si avvalgono del loro legittimo diritto di esternalizzare, qualunque sia il motivo, le loro partecipazioni aziendali?
La crisi della stampa, scatenata all´inizio del 2002 dal collasso del mercato pubblicitario, è stata nel frattempo superata dalla Süddeutsche Zeitung e da testate analoghe. Un trend dimostrato dalle notizie che arrivano dal settore dei giornali americani.
Il Boston Globe, uno dei pochi giornali liberal di sinistra del paese, ha dovuto tagliare tutti i corrispondenti dall´estero, mentre le corazzate della stampa nazionale, come il Washington Post o il New York Times, temono di essere rilevate da gruppi che vogliono "sanare" i media di qualità con inadeguati piani di profitto. Per il Los Angeles Times l´acquisizione è già un fatto compiuto. Die Zeit ha rincarato la dose parlando di «lotta dei manager di Wall Street contro la stampa Usa». Cosa c´è dietro questi titoli? Evidentemente, il timore che i mercati su cui i gruppi dell´informazione nazionale si devono affermare non assolvono più alla doppia funzione che la stampa di qualità ha sinora garantito: soddisfare in modo sufficiente e con profitto la domanda di informazione e formazione.
Ma i guadagni più alti non sono una conferma del fatto che dei giornali "opportunamente ridotti" soddisfano meglio i desideri dei consumatori? Termini vaghi e fuorvianti come "professionale" "esigente" e "serio" non sono una tutela per i consumatori adulti che sanno cosa vogliono? Può la stampa limitare la libertà di scelta dei suoi lettori con il pretesto della "qualità"? Può imporre scarni resoconti invece che infotainment, proporre commenti oggettivi e argomenti scomodi invece che messe in scena accomodanti di fatti e persone?
L´obiezione implicita a queste domande si basa sul controverso presupposto che i consumatori scelgano autonomamente in base alle proprie preferenze. Questa sbiadita saggezza da libri di scuola è sicuramente fuorviante, se si considera la particolare caratteristica della merce "comunicazione culturale e politica". Perché questa merce mette alla prova le preferenze dei fruitori e al tempo stesso le trasforma.
Nell´uso dei media, lettori, ascoltatori e spettatori si lasciano sicuramente guidare da preferenze diverse. Vogliono essere intrattenuti o distratti, informati su temi e avvenimenti, oppure partecipare a discussioni pubbliche. Ma appena si lasciano coinvolgere da programmi culturali o politici, ad esempio da quella che Hegel lodava come "realistica benedizione del mattino", la lettura quotidiana dei giornali, si sottopongono - in modo in un certo senso auto-paternalistico - a un processo di apprendimento dall´esito incerto. Durante la lettura possono venirsi a formare preferenze, convinzioni e valori nuovi.
Questa lite sul carattere particolare della merce formazione e informazione ricorda lo slogan diffuso a suo tempo negli Usa, quando venne introdotta la televisione: anche questo mezzo è solo "un toaster con immagini". Si riteneva dunque di poter delegare il consumo di programmi televisivi unicamente al mercato. Da allora i gruppi mediatici producono programmi per gli spettatori e vendono l´attenzione del loro pubblico ai responsabili degli introiti pubblicitari.
Questo principio organizzativo, quando è stato introdotto superficialmente, ha creato gravi danni politico-culturali. Ascoltatori e telespettatori non solo sono consumatori, ossia soggetti che fanno parte del mercato, ma al tempo stesso sono cittadini che hanno diritto alla fruizione culturale, all´osservazione degli avvenimenti politici e alla partecipazione, alla formazione delle opinioni. In base a questo diritto, i programmi che assicurano questo "approvvigionamento di base" della popolazione non possono essere resi dipendenti dalla loro efficacia pubblicitaria e dal supporto degli sponsor.
Ovviamente, i finanziamenti stabiliti dalla politica, che qui finanziano questo approvvigionamento di base, non possono neppure dipendere dalle casse dei Länder, ovvero dalle ondulazioni delle evoluzioni congiunturali. Una tesi che, a ragione, le emittenti hanno fatto valere in un procedimento della corte costituzionale contro i governi regionali.
Ora, le riserve pubblico-giuridiche sul ruolo dei media elettronici sono cosa buona e giusta. Ma, in caso di bisogno, le si potrebbe usare come esempio per l´organizzazione di giornali e riviste serie come la Süddeutsche, la Faz, Die Zeit o Der Spiegel, oppure addirittura per mensili di qualità? In tal senso, i risultati di alcuni studi nel campo delle scienze della comunicazione sono interessanti. Perlomeno nell´ambito della comunicazione politica - dunque per i lettori in quanto cittadini - la stampa di qualità risulta essere il "mezzo-guida". Nei resoconti e nelle analisi politiche anche radio, televisione e il resto della stampa sono infatti largamente dipendenti dai temi e dai contributi prescritti dalle testate "ragionanti".
Supponiamo che alcune di queste redazioni finiscano sotto pressione da parte di investitori che cercano profitti rapidi. Se la riorganizzazione e i tagli in questo settore chiave mettono a rischio il consueto standard giornalistico, il pubblico politico viene colpito nel vivo. Perché, senza il flusso di informazioni prodotto da costose ricerche e senza la linfa fondata su indagini non proprio economiche, la comunicazione pubblica perde la propria vitalità discorsiva. La collettività non opporrebbe più alcuna resistenza alle tendenze populiste e non sarebbe più in grado di assolvere alla funzione che deve assolvere nel quadro di uno stato democratico di diritto.
Viviamo in società pluralistiche. Il processo decisionale democratico può superare i profondi contrasti di visione del mondo solo se produce una forza unificante e legittimata che convinca tutti i cittadini, un processo che scaturisce dalla combinazione di due esigenze. Deve coniugare l´inclusione, ossia la paritaria partecipazione di tutti i cittadini, con la necessità di uno scontro di opinioni proposto in modo più o meno discorsivo. Perché solo sui contrasti si fonda la supposizione che il processo democratico, a lungo termine, produca dei risultati più o meno ragionevoli. La formazione democratica dell´opinione pubblica ha una dimensione epistemica, perché si basa anche sulla critica di affermazioni e analisi false a cui partecipa una collettività vitale a livello discorsivo.
La comunicazione pubblica sviluppa una forza stimolante che al tempo stesso orienta la formazione delle opinioni e delle volontà dei cittadini, e contemporaneamente obbliga il sistema politico alla trasparenza e alla mediazione. Senza gli impulsi di una stampa che forma le opinioni, che informa accuratamente e commenta in modo attendibile, la collettività non è più in grado di produrre una simile forza. Quando si tratta di gas ed elettricità, lo Stato è costretto ad assicurare alla popolazione l´approvvigionamento energetico. Però non dovrebbe essere costretto anche quando si tratta di un´altra forma di "energia", senza la quale emergono disturbi che danneggiano lo stesso stato democratico? Non è un "errore di sistema" se in singoli casi lo Stato cerca di proteggere il bene pubblico della stampa di qualità. Rimane solo la pragmatica domanda di come vi possa riuscire nel modo migliore.
A suo tempo il governo regionale dell´Assia ha sostenuto la Frankfurter Rundschau con un credito, senza successo. Altre strade sono le fondazioni a partecipazione pubblica, oppure le riduzioni fiscali. Nessuno di questi esperimenti, che altrove già esistono, è privo di problemi. Ma prima di tutto è necessario abituarsi all´idea stessa di sovvenzioni a giornali e riviste. Da un punto di vista storico, la convinzione di imbrigliare il mercato della stampa ha qualcosa di anti intuitivo. Il mercato stesso ha fondato il palcoscenico sul quale i pensieri sovversivi si sono potuti emancipare dalla repressione statale. Ma il mercato può assolvere a questa funzione solo finché le leggi economiche non penetrano nei pori dei contenuti editoriali e politici che il mercato diffonde. Ancora una volta si dimostra esatto il nocciolo della critica dell´industria culturale di Adorno. È necessario osservare con sospetto, perché in questo settore nessuna democrazia si può permettere il fallimento del mercato.
(Copyright Süddeutsche Zeitung
Traduzione di Thomas Paggini)
E’importante quel che accade lungo la frontiera Est dell’Unione, nel momento in cui a Parigi c’è un nuovo Presidente che promette di metter fine all’inedia che affligge l’Europa dal 2005, quando la costituzione fu bocciata in Francia e Olanda. È una frontiera dove stanno mettendo radice nazionalismi autoritari, che avvalendosi del diritto di veto insidiano mortalmente il farsi dell’Europa e il suo guarire. Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner dicono che Parigi cambierà politica, difendendo i diritti dell’uomo nel mondo e combattendo le dittature. Ma la vera battaglia inizia in casa, se davvero la si vuol fare: il male è dentro l’Europa, ed è letale e contagioso. Le periferie dell’Est sono le nostre marche di confine, da quando la comunità s’è allargata, e questa loro condizione - l’esser baluardi orientali dell’Unione, come la Germania occidentale nella guerra fredda - le rende determinanti in politica estera e militare. Sono i governi dell’Est a decidere come e se l’Europa comincia a negoziare con il retroterra russo. Sono loro a influire sui rapporti con Washington, a meno d’un tempestivo chiarimento.
Chi vive nel cuore dell’Unione ha meno preoccupazioni politiche e strategiche di chi presidia le frontiere: questo è il dato da cui conviene partire quando si esamina quel che succede a Varsavia, Bratislava, Budapest, Bucarest, nei Baltici. I governi dell’Est hanno utilizzato questa carta (l’acuta coscienza delle marche di confine) ma col tempo il ragionamento strategico è divenuto un pretesto per insediare nazionalismi intolleranti che con le regole e la storia dell’Unione sono incompatibili. Il bisogno d’America che essi esprimono - su Iraq, sullo scudo anti-missili Usa, su ulteriori allargamenti a Est auspicati da Washington - è un mezzo per impantanare l’Europa con tre armi: il nazionalismo, l’appello al cristianesimo, la politica dei valori.
Il caso Polonia è il più significativo, ma il suo esempio fa scuola attorno a sé. Da quando i gemelli Kaczynski sono al potere, dopo le legislative e presidenziali del settembre-ottobre 2005, Varsavia è precipitata in un nazionalismo prevaricatore e religioso. Quel che conta per i due fratelli (Lech presidente, Jaroslaw premier) è opporre la democrazia al liberalismo, non solo economico ma istituzionale e dei diritti cittadini. Solo due idoli contano per loro - la legittimità popolare, i Valori - e su essi nulla deve prevalere: né le norme né la Costituzione, né le istituzioni né la divisione dei poteri. Una dopo l’altra, le istituzioni indipendenti sono state politicamente asservite (Banca Centrale, Corte costituzionale,Vigilanza sull’audiovisivo). Uno svuotamento democratico accentuato dal regolamento dei conti con la generazione dissidente, che nell’89 liberalizzò economia e politica negoziando con i comunisti (un metodo rischioso, che garantì alle nomenclature impunità e oblio del passato). Il regolamento dei conti secerne oggi la più vendicativa delle epurazioni.
La legge entrata in vigore a marzo si propone di epurare ben 700 mila persone. Secondo i calcoli fatti da Aleksandr Smolar, presidente della Fondazione Batory a Varsavia (filiale della fondazione Soros), sono 3 milioni i cittadini messi in pericolo dalla lustrazione, se si includono le famiglie dei 700 mila. Ha fatto impressione la ribellione di Geremek, leader di Solidarnosc negli Anni 80 e ministro degli Esteri fra il ’97 e il 2000: il deputato europeo si è rifiutato di firmare un’umiliante dichiarazione in cui negava d’aver collaborato con i servizi comunisti. Ma tanti si son rifiutati, perché l’epurazione non minacciava di licenziamento solo politici o giudici (come la legge del ’97) ma studenti, professori, giornalisti. La Corte costituzionale ha invalidato la legge, l’11 maggio, affermando che i governi «non regnano sulla Costituzione» e i diritti individuali. Di fatto sono forme neo-fasciste che s’installano a Est. Un neofascismo che usa la politica dei valori per imporre società chiuse, ostili alle diversità: per colpire chi difende gli omosessuali, chi avversa la pena di morte, chi si schiera per un’Europa che i Kaczynski considerano atea, permissiva, materialista, decadente moralmente. È in nome delle radici cristiane che i gemelli si ergono contro un’Unione sovrannazionale, e legittimano l’arbitrio nazionalista: chi in Europa occidentale inalbera bellicosamente i Valori, ha interesse a vedere quel che succede qui. I grandi nemici dei Kaczynski sono la Russia ma anche la Germania accusata di furia egemonica: le due nazioni sono messe sullo stesso piano, la battaglia per i diritti umani violati da Putin è contaminata. Ambedue le potenze si spartirebbero l’Europa centrale e minaccerebbero, come in passato, la sopravvivenza polacca. Paralizzata com’è, l’Europa di oggi non ha tuttavia strumenti d’intervento: né istituzionali né culturali. Non ha neppure volontà di capire. È tormentata dal falso dibattito sulle radici cristiane, non osa difendere una laicità vitale per la democrazia polacca. Fu vigilante nel 2000, quando Haider in Austria s’avvicinò al potere, ma quei tempi son tramontati e oggi, in una situazione ben più deteriore (un’estrema destra ai vertici del potere), impensabili. La vigilanza d’allora fu ingiustamente criticata, ritenuta inefficace. In realtà l’Unione influì grandemente su Vienna. Il cancelliere democristiano Schüssel fu abile, nell’assorbire Haider invece di demonizzarlo. Ma mai sarebbe riuscito nell’impresa, senza il vigile occhio esterno dell’Unione. Oggi l’occhio è cieco.
A bloccare l’Europa è la stasi istituzionale, ingovernabile da quando l’Unione è composta di 27 Stati: sulle decisioni cruciali occorre l’unanimità, e al veto gli orientali s’aggrappano rabbiosamente, perché il diritto di nuocere e interdire dà loro lo smalto di mini-potenze. Smalto fittizio, ma pur sempre smalto. Senza che l’Unione possa impedirlo, ci sono deputati polacchi nel Parlamento europeo che impunemente elogiano Franco (uno «statista cattolico eccezionale») o Salazar. Il deputato europeo Maciej Gyertich ha pubblicato un pamphlet antisemita, edito dal Parlamento europeo (Guerra delle civiltà in Europa: gli ebrei, «biologicamente differenti», avrebbero scelto volontariamente i ghetti). Maciej è padre di Roman Gyertich, il ministro dell’Educazione che vorrebbe escludere Darwin dall’insegnamento, che avversa gli omosessuali e appartiene alla Lega della Famiglie Polacche, una formazione che governa con i Kaczynski e l’estrema destra di Lepper (partito dell’Autodifesa).
La Carta dei Diritti potrebbe essere uno strumento europeo: ma non è vincolante senza approvazione della Costituzione. È sperabile che Kouchner si batta per non estrometterla dal mini-trattato che sarà presentato in Parlamento. L’Unione è inerme: ha contato molto durante la presidenza Prodi, quando Bruxelles impose una democrazia fondata sulla separazione dei poteri in cambio dell’adesione. Ma appena ottenuto l’ingresso, i dirigenti che l’avevano voluto sono caduti: a Varsavia, Praga, Budapest, Bucarest. Lo slogan s’è fatto nichilista: adesso che siamo entrati, tutto è permesso. Jacques Rupnik, storico della Cecoslovacchia, parla di sindrome da decompressione. «Ora possiamo far loro vedere chi siamo veramente», avrebbero detto i Kaczynski. Quasi nessuno di questi Paesi entrerebbe oggi nell’Unione: né la Polonia né l’Estonia, che critica non senza motivi Putin ma che smantella provocatoriamente monumenti ai morti dell’ultima guerra e vieta alle consistenti minoranze russe (40 per cento della popolazione) una cittadinanza che dovrebbe esser normale (lo stesso accade in Lettonia).
L’Europa ha oggi bisogno di istituzioni forti, ma per edificarle dovrà capire l’emergenza veto creatasi a Est. Ha bisogno di laicità, per arrestare le proprie derive autoritarie-religiose. Ha bisogno di trattare seriamente con Mosca, e di avere una politica energetica comune anziché molte politiche e sterili veti alla trattativa. Uno straordinario articolo di Piero Sinatti, sul Sole-24 Ore, spiega bene come la Polonia rischi, bloccando il negoziato euro-russo, d’impedire che una risoluta politica comune nasca. L’emergenza veto dovrebbe ricordare qualcosa ai polacchi. Quando introdusse il liberum veto, nel XVII secolo, la Polonia preparò la propria rovina: ogni deputato della Dieta poteva interrompere sessioni e decisioni con le parole «Non permetto». Nel secolo successivo sarebbe scomparsa dal continente. È grave che oggi Varsavia usi la stessa carta per far scomparire l’Europa, nell’illusione di salvarsi come finta nazione sovrana.