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ROMA - «Il problema non è solo la manifestazione di Bologna. Ma le tante firme, la gente che ha fatto la coda per aderire. E se uniamo il tutto alle copie vendute dal libro "La casta", allora bisogna capire che siamo di fronte ad una ribellione contro la politica che va presa sul serio. Non possiamo far finta di niente». Beppe Grillo, il Vaffa-day, i privilegi della politica, gli stipendi dei parlamentari. Rosy Bindi li mette tutti in fila come anelli di un´unica catena che rischia di stritolare nella culla il nascente partito Democratico. Per questo «dobbiamo dare una risposta». Non si può tacciare quel che accade come «qualunquista e demagogico». «Quando vado ai dibattiti, alla fine le domande della gente sono sempre le stesse: "perché noi non arriviamo alla fine del mese e voi vi arricchite?". E me lo chiedono anche alle Feste dell´Unità, perché il messaggio di austerità di Berlinguer è ancora vissuto sulla pelle da una parte del popolo della sinistra. E certe cose non vengono digerite». La sua risposta, allora, il ministro della famiglia già ce l´ha: abolizione del Senato, Camera con 450 deputati, dimissioni dei condannati, stop agli aumenti degli stipendi dei parlamentari, rimborsi spese sottoposti al controllo di una agenzia indipendente.

Ma perché la protesta di Grillo va presa così tanto sul serio? E soprattutto perché adesso?

«Perché o diventa una seria occasione di rinnovamento della politica o è chiaro che sarà l´anticamera dell´antipolitica».

Non lo è già?

«Non voglio usare toni apocalittici. Io ho vissuto in prima linea la stagione di tangentopoli. C´era una grande rabbia contro i corrotti, la rabbia ora è nei confronti di tutta la politica. So che nelle parole di Grillo ci sono venature qualunquiste e anche un po´ di volgarità, ma prima di liquidarle come ribellione antipolitica forse è il caso di chiederci se non sia una domanda di buona politica».

Eppure i suoi colleghi dell´Unione tengono a distanza il fenomeno Grillo.

«C´è sempre la tentazione di rimuovere».

E invece?

«E invece credo che il nostro 14 ottobre debba essere una straordinaria occasione per chiamare le persone a firmare per la buona politica e non contro la politica. Altrimenti - dopo aver suscitato attese - l´effetto non potrà che essere devastante».

Se vuole rispondere alla piazza bolognese, dovrà allora recepire le sue istanze.

«Siamo ancora in tempo a non legittimare il passato. Il governo, ad esempio, ha cominciato a ridurre le indennità dei ministri. Ma bisogna imprimere un forte cambiamento».

Nel concreto che vuol dire?

«Ecco le mie proposte: i parlamentari del Partito Democratico si dovranno impegnare a modificare la legge elettorale fino a dichiarare che non si candideranno con quella attuale. Immediata attuazione del nuovo titolo V della costituzione con la soppressione del Senato e l´istituzione di una Camera delle regioni. E così avremo 315 parlamentari in meno».

Ma ci saranno i membri di questa nuova Camera?

«Sì, ma si tratta di un´assemblea di secondo livello. E comunque ci dovremmo impegnare a ridurre del 30% anche i componenti della Camera dei Deputati. Ma non mi fermo qui».

Cioè?

«Dimissioni di chiunque abbia avuto problemi con la giustizia e quindi massima trasparenza per le liste elettorali del futuro. Interruzione immediata dell´indicizzazione delle nostre indennità. Solo noi e i magistrati abbiamo questo privilegio. Separazione netta tra indennità personale e rimborsi spese. Uno stipendio di 5000 euro va bene, i rimborsi vanno affidati ad una agenzia indipendente che valuti le finalità della spesa, verifichi se risponde ad un´attività politica o meno. Stesso discorso per la gratuità dei mezzi pubblici: vale per l´attività politica e non per i viaggi privati. Bisogna anche limitare i mandati e prevedere le primarie per tutti gli incarichi politici».

I suoi «colleghi» non saranno tanto contenti. Anche perché per fare la riforma elettorale serve un consenso che va oltre il Pd.

«Veniamo considerati dei privilegiati e quasi inutili per la comunità. Per questo ci chiedono quanto costa la politica. Dobbiamo spogliarci dei nostri privilegi. Il vitalizio, ad esempio, va dato a 65 anni e deve essere un´assicurazione privata. Va rivista anche la legge sui rimborsi elettorali e sui giornali di partito. Anche la vita "finanziaria" dei partiti andrebbe controllata di una agenzia indipendente. E sa perché faccio queste proposte? Perché ritengo che il finanziamento pubblico della politica sia necessario».

Sembrava il contrario.

«Per difendere il finanziamento pubblico bisogna correggere le distorsioni. Lo difendo perché altrimenti faranno politica solo i ricchi o quanti trovano dei finanziatori che però, prima o poi, presentano il conto».

Sembra quasi che lei voglia dire: attenzione se non sarò io il leader del Pd, tutto questo non accadrà.

«Mi auguro che nel Pd saremo in molti a pensarla così».

E se il Pd non seguirà questa linea?

«Guardi, Grillo può anche essere un provocatore, ma se ottiene questo consenso, seppure con accenti di qualunquismo, non si può pensare che tutto resti come prima. Io farò la mia battaglia su questo, in ogni caso».

Però anche nel Pd potrebbero risponderle che è facile richiamare la gente con il qualunquismo e la demagogia.

«Senza una politica autorevole la vita democratica di un Paese può correre dei rischi. La nostra sfida è quella di restituire dignità alla politica costruendo un partito nuovo. Un grande partito popolare e nazionale che non sia emanazione solo di una persona. Per questo va approvata una legga sulla regolamentazione dei partiti in attuazione dell´articolo 49 della Costituzione».

Lei chiede le dimissioni di chi ha avuto problemi con la giustizia. Ce ne sono anche nel centrosinistra. Vincenzo Visco è stato condannato per abuso edilizio. Dovrebbe dimettersi per questo?

«Io parlavo di corruzione e concussione. Il giustizialismo per me non è un valore, ma nel ‘92-´94 quando la politica si rifiutò di autoriformarsi e si affidò alle aule dei tribunali, il risultato fu che arrivò Berlusconi. Come allora sono convinta che debba essere la politica a riformarsi».

Questa dunque dovrebbe essere la piattaforma del PD?

«Io penso che su questo si fonda il nostro futuro».

Nella discussione di questi giorni si possono scoprire sorprendenti vuoti di memoria, che rischiano di provocare pericolosi momenti di schizofrenia politica ed istituzionale. Vale forse la pena di ricordarne qualcuno nella speranza, non so quanto fondata, che se ne possa tenere conto nelle future discussioni.

Il primo caso riguarda la natura stessa del nascituro Partito democratico, almeno nella versione variamente prospettata da Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Entrambi sembrano convenire sulla necessità di un partito a vocazione maggioritaria; svincolato da paralizzanti accordi di coalizione come quelli che hanno portato alla nascita dell´attuale Unione, aperto ad alleanze di "conio" più o meno nuovo. Una volta enunciati questi propositi, bisogna tuttavia affrontare alcune altre, e decisive, questioni, che non possono essere ignorate o rinviate a quando il Partito democratico avrà definito la sua identità. Questa dipenderà proprio dal modo in cui il nuovo partito si collocherà nel sistema politico.

Il Partito democratico non può coltivare la proclamata vocazione maggioritaria in una sorta di orgoglioso isolamento. Non è un istituto di ricerca, dove si svolgono analisi e si elaborano programmi senza doversi preoccupare delle reazioni politiche e sociali. Ogni mossa qualifica il partito e ne definisce i rapporti con gli altri. Poiché non si può scambiare vocazione maggioritaria con autosufficienza elettorale, ogni dichiarazione o iniziativa finisce con il prefigurare o condizionare le future, indispensabili alleanze. Di queste si afferma la necessaria "omogeneità". Una affermazione, questa, che contiene una critica alle alleanze attuali e può portare ad una significativa conseguenza politica. Se la costruzione del nuovo partito si manifesterà anche come costruzione di una nuova omogeneità, sarà inevitabile una tensione sempre più marcata tra Partito democratico e coalizione di governo.

Molte forze agiscono in questa direzione, sottolineando con intensità crescente che la disomogeneità sarebbe determinata solo dalla presenza nella coalizione della sinistra "radicale" sì che, liberi da questa, le alleanze in altre direzioni, dunque verso il centro, produrrebbero una sorta di "naturale"omogeneità. In questo gioco di azioni e reazioni si collocano gli atteggiamenti della sinistra dell´Unione, che non possono essere liquidati come irresponsabili, a meno di non adottare il teorema di Tecoppa, secondo il quale l´avversario non dovrebbe muoversi e farsi tranquillamente infilzare.

La questione delle alleanze e della coalizione si fa ancora più stringente se si considera l´eventualità che, falliti i tentativi di una riforma elettorale in sede parlamentare e approvati i quesiti referendari, si vada a votare con una legge che assegna un cospicuo premio di maggioranza al partito o alla coalizione che abbia comunque avuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui si tratti di un partito del 30% o anche meno. Sono consapevoli, i referendari, che questa vicenda è destinata ad influire pesantemente sul futuro del Partito democratico, obbligandolo ad accelerare la definizione di una coalizione in grado di raggiungere la maggioranza? Sembra un tema di domani, e invece riguarda l´oggi, se non altro perché le risposte influiranno sull´atteggiamento delle varie anime del Partito democratico sul referendum. E questo significa indicare con precisione le riforme da fare e, soprattutto, con chi farle.

Proprio qui, intorno al riformismo, si può cogliere un secondo vuoto di memoria. Nei modi più diversi, e persino sgangherati, si cerca di riannodare un filo riformista che sarebbe stato trascurato, o addirittura troncato per l´incapacità o la prava volontà di chi non seppe cogliere l´attimo fuggente degli anni Ottanta, che qualcuno oggi mitizza come una sorta di Età dell´Oro di un riformismo perduto. Ha fatto bene Eugenio Scalfari a ricordare di quale pasta fosse fatto quel decennio, che quasi dovrebbe esser preso a modello, nel quale il debito pubblico balzò, tra il 1982 e il 1992, dal 57 al 120 per cento del Pil. Oggi, infatti, nella pur legittima ricerca di un passato nel quale riconoscersi, viene da molti adottata una memoria selettiva, che volutamente ignora come la vera eredità del proclamato riformismo di quegli anni fu la cancellazione della legalità, la disinvoltura nella spesa pubblica, lo sperpero del capitale sociale, la fine del senso civico, l´abbandono di qualsiasi moralità pubblica e privata. Questo non avvenne nel silenzio. Ed è quindi più stupefacente il silenzio di oggi, che dà corpo al rifiuto di confrontare proclamazioni e fatti concreti, velando così anche il fatto che proprio allora furono poste le basi di quella rincorsa ai privilegi che alimenta oggi l´antipolitica e che non fu appannaggio del solo ceto politico. E cominciò allora una regressione culturale dalla quale non siamo ancora usciti. Basta guardare al modo in cui si sta svolgendo la discussione sulla sicurezza, ormai ridotta ad una brutale questione di ordine pubblico, mentre sarebbero necessarie analisi approfondite proprio per individuare le strategie più efficaci, dunque una alleanza con le discipline sociali che in questi anni sono state tutt´altro che avare di indicazioni concrete.

Queste letture del passato indeboliscono anche le promesse di un riformismo che si affida quasi esclusivamente alla logica di mercato, perdendo così di vista che ogni riforma economica oggi non può essere separata dalla necessità di ricostruire legalità, legami sociali, relazioni di fiducia, rapporti di solidarietà, senso civico, moralità pubblica, dunque un tessuto connettivo mancando il quale ogni riforma, isolata o "lenzuolata" che sia, è destinata se non a fallire, a produrre esiti modesti o persino contraddittori. Il rimpianto per Bruno Trentin, in me grandissimo, ci obbliga a ricordare il rigore con il quale analizzò, per i lavoratori, il passaggio "da sfruttati a produttori". Un ammonimento da tenere in gran conto oggi che la qualità di produttore viene riconosciuta al solo imprenditore, dando corpo ad una frattura sociale destinata a produrre nuovi conflitti, che hanno radici nell´esclusione e nella mortificazione.

Si può cogliere qui un altro vuoto di memoria. Parlando dei sessant´anni di indipendenza dell´India, Amartya Sen non si è fermato al suo travolgente successo economico, ma si è chiesto se questo non sia stato pagato con una eccessiva perdita dei valori di apertura e di solidarietà che avevano non solo connotato la politica indiana al suo interno, ma le avevano attribuito forza e prestigio nei rapporti internazionali. Nel costruire l´agenda della nostra politica interna si sta correndo lo stesso rischio. Il "discorso sui valori" è poco più che retorica o scappellate di maniera. Manca una riflessione rinnovata sui principi costituzionali, è assente una visione prospettica di libertà e diritti. In questo vuoto prospera la tesi di chi dice che una serie di questioni non sono né di destra, né di sinistra: un alibi perfetto per chi, per debolezza politica e culturale, non si accorge o non vuole accorgersi che la destra sta di nuovo imponendo l´agenda politica, come accadde tra il 2000 e il 2001, anni che prepararono la sconfitta elettorale del centrosinistra.

Le stesse proclamazioni sui temi "eticamente sensibili" descrivono piuttosto una situazione del Partito democratico ora ambigua, ora inquietante, con rimozioni e vuoti di memoria, incapacità di riflettere sul senso laico dell´agire pubblico. Tornano qui, come problemi irrisolti, la vocazione maggioritaria e l´omogeneità del nuovo soggetto politico. E se, guardando appena più a fondo, scoprissimo che, su questo terreno, l´omogeneità interna del Partito democratico appare davvero minima e che, invece, vi è una consonanza tra parti consistenti del partito nascente e l´aborrita sinistra radicale?

ROMA — Le dinamiche della piazza Roberto Zaccaria ( foto) le conosce bene. Già presidente della Rai, oggi deputato dell'Ulivo, ha partecipato alla prima stagione dei girotondi, il movimento che dopo la sconfitta elettorale del 2001 provò a dare la scossa ad un centrosinistra in crisi di identità. «No — dice — non condivido tutto della manifestazione di Beppe Grillo. Non avrei scelto quel nome, quella parola, vaffa..., che non mi sembra proprio la più adatta. E non l'avrei organizzata così, non è nel mio stile perché degli accenni di populismo e qualunquismo ci sono stati, anche se ormai si sono ovunque. E poi l'attacco a Biagi è stato uno scivolone che era meglio evitare».

Questo non vuol dire che il suo giudizio sia negativo. Anzi: «In quella piazza, e in molte piazze italiane — osserva Zaccaria — c'era un numero altissimo di persone che ha manifestato il proprio malessere verso la politica. È un segnale importante, non si può fare finta di nulla». E al di là degli slogan e dei paroloni, Zaccaria è sulla sostanza che si concentra: «Lì si raccoglievano le firme per una legge di iniziativa popolare. Una manifestazione contro i partiti ma che alla politica si rivolge con uno strumento previsto dalla Costituzione: chi siede in Parlamento non può voltarsi dall'altra parte solo perché non condivide lo stile». Il deputato dell'Ulivo minimizza sulla contestazione a Marco Biagi, quella che ha spinto l'assessore bolognese Libero Mancuso a lasciare la piazza per protesta: «No so bene cosa sia successo. Criminalizzare Biagi è senza dubbio sbagliato ma in una folla così grande c'è sempre qualcuno che fa la frittata. È inevitabile. Sarebbe tuttavia un grave errore cancellare il messaggio di una manifestazione così importante per un dettaglio del genere».

Dal Palavobis al V day, è possibile che Grillo raccolga l'eredità dei girotondi? «Penso di sì — risponde l'ex presidente della Rai — perché vedo la stessa ansia di inventare nuove forme di partecipazione democratica. Con la differenza significativa che i girotondi si concentravano sulla protesta mentre qui, con il disegno di legge di iniziativa popolare, siamo già alla proposta».

Nel clima che si sta creando attorno al problema della sicurezza in Italia dopo le ultime sortite del ministro dell'Interno Giuliano Amato, tutto è possibile e non può sorprendere. Malgrado ciò, le richieste avanzate dai sindaci di Bologna e Firenze mi hanno lasciato di stucco. Sergio Cofferati: «Che ai sindaci e alla polizia municipale possano essere assegnati funzioni di polizia giudiziaria è, in determinate situazioni, di qualche utilità». Leonardo Domenici: «Si potrebbe consentire ai vigili urbani, ad esempio, di arrestare gli scippatori».

Domanda: conoscono i due sindaci la legge quadro n° 65 del maggio 1986, che stabilisce le competenze attribuite ai Comuni? Conoscono i due sindaci gli articoli 55, 56 e 57 del Codice di procedura penale?

Quello che con tanta enfasi e titoloni sui giornali viene da loro richiesto per garantire maggiore sicurezza ai cittadini è già previsto dalle leggi vigenti. I Vigili urbani sono dotati di pistola da oltre vent'anni (infatti percepiscono un'indennità speciale di Ps), di manette e di una mazzetta bianca per le segnalazioni. Nelle sedi centrali dei singoli corpi di polizia municipale è previsto un «Ufficio trattazione arrestati e fermati». Tutti i vigili urbani (da non confondersi con i messi comunali) hanno non solo l'autorità ma il dovere di procedere all'arresto di persone sorprese in flagranza di reato, quindi anche gli scippatori. Tutti i vigili urbani sono abilitati a svolgere, alla pari dei carabinieri, le guardie di finanza, gli agenti di custodia, le guardie forestali, come prescrive il paragrafo B del comma 2 dell'articolo 57 del Cpp., compiti di polizia giudiziaria su richiesta della Magistratura. Ma cosa vogliono, i compagni Cofferati e Domenici: la stella da sceriffo da mostrare ai nipoti quando li vanno a trovare in Municipio?

PADOVA. Gli "sceriffi" della sinistra a confronto. Hanno ancora la "pistola fumante" in mano: Graziano Cioni, assessore della città di Firenze, è l’uomo dell’ordinanza contro i lavavetri ai semafori che ha messo a rumore l’Italia e sta facendo scuola perfino in Inghilterra. Flavio Zanonato è il sindaco del muro di via Anelli. Dopo quello di Berlino è the Wall più famoso in the world. «Ne ha parlato perfino il New York Times» ricorda lui. Con l’aria di non compiacersene molto, dato che aggiunge: «In un trafiletto». L’occasione è un dibattito alla festa dell’Unità, al quale assistono quattro gatti, perché c’è ancora qualcuno che organizza incontri interessanti in ore impossibili. Eppure lo diceva anche Renzo Arbore che bisogna andare dopo il tigì. Peccato, perché il Cioni è un personaggio. Altro che lavavetri. Un fiorentino mordace, due occhi inquisitori dietro lenti da professore, barba e baffi pepe e sale.

Se non li tenesse interi ma a pizzetto, sarebbe Lenin sputato. Tutti comunisti nella sua famiglia. Da generazioni. Anche il suocero, un ex comandante partigiano. «Eppure adesso fa certi discorsi...» «Da leghista?» gli suggerisce Omar Monestier che dirige il dibattito. «Proprio così» gli risponde il Cioni, guardandolo con gli occhi perforanti. «Se non vogliamo spingere le persone alla xenofobia, dobbiamo coniugare accoglienza e solidarietà con sicurezza e legalità. Se mi si dice che la miseria giustifica tutto, allora giustifichiamo anche i picciotti. Io penso di essere di sinistra ma se c’è uno che dorme sotto il ponte e poi, per bisogno, sale in strada e rapina un passante, io sto dalla parte del rapinato. Dev’essere chiaro. E mando in galera il rapinatore, così starà meglio anche lui».

Segnaliamo che Graziano Cioni, assessore comunale alla sanità e al sociale e casualmente anche alla polizia municipale, ha mandato davvero in galera più di qualcuno. Che non faceva il lavavetri ma, per esempio, il vicepresidente dell’allora comitato regionale di controllo, iscritto al Pci, presentatosi a offrirgli denaro. Lo racconta lui stesso. Adesso non manda più in galera nessuno: «Al parco delle Cascine - dice - ho messo le telecamere per garantire la sicurezza ai cittadini. In nome della privacy l’autorità di controllo me le ha fatte togliere. Abbiamo arrestato dopo anni due graffitari, presi sul fatto, di notte: il pm ha convalidato ma il gip ha revocato, perché mancava la querela di parte. Abbiamo dovuto metterli fuori con le scuse e restituire le bombolette spray. I lavavetri a Firenze sono 60, non di più, tutti rumeni che hanno soppiantato magrebini e polacchi. Non li perseguiamo perché lavano i vetri ma perché terrorizzano le persone più deboli al volante, addirittura costringendole a passare col rosso. L’ordinanza non serve a mandarli in galera, come è stato raccontato, ma per fotosegnalarli, per identificarli. Per dir loro: guarda che ti conosciamo e ti stiamo addosso. Ed è servita: non ce ne sono più». «Che poi - gli scappa anche la battuta - mi dovrebbero dire se il lavavetri è davvero un mestiere. Perfino Cento che l’ha fatto solo per mezz’ora dovrebbe essersene reso conto».

Zanonato, che si è visto sparato sui media di mezzo mondo per un muro che costava 60.000 euro e non per lo sgombero di 270 famiglie durato due anni e mezzo e costato immensamente di più, la prende alla larga: «Se una vecchietta viene borseggiata all’uscita dell’ufficio postale, difenderla è di destra o di sinistra? - chiede il sindaco di Padova -. Se un giro notturno di clienti e prostitute fa deprezzare il valore di un’area dove abita gente che non ha ancora finito di pagare il mutuo per la casa, intervenire è di destra o di sinistra?». Che domande, verrebbe da rispondere: bisogna intervenire e basta, anche se lo scippato non fosse la vecchietta ma Silvio Berlusconi o se il giro di prostitute deprezzasse la villa di Giancarlo Galan. Tutto il mondo lo sa. Meno la sinistra evidentemente: il passaggio di Zanonato è rivelatore di questa difficoltà, non sua ma della coalizione.

La tesi degli "sceriffi rossi" è che «non si può andare avanti a colpi di ordinanze comunali». «Ci vuole uniformità di comportamenti in tutto il territorio nazionale» dice Cioni. E rinvia al piano Amato. Zanonato aggiunge una scoppola che fa male al destinatario: «Alberto Asor Rosa ha scritto che si dimette da intellettuale di sinistra: si è accorto di quante persone si sono dimesse dall’elettorato di sinistra?». Qualche milione, dottore.

PostillaUn catalogo dei luoghi comuni della "sinistra".

Il Cioni: "Io penso di essere di sinistra ma se c’è uno che dorme sotto il ponte e poi, per bisogno, sale in strada e rapina un passante, io sto dalla parte del rapinato". Già, ma perché portarlo via se sta sotto il ponte e non rapina nessuno?

Lo Zanonato: "Se una vecchietta viene borseggiata all’uscita dell’ufficio postale, difenderla è di destra o di sinistra?". Già, ma se non viene borseggiata perché chiudere con un muro il quartiere dove abitano i potenziali borseggiatori?

Ancora lo Zanonato: "Se un giro notturno di clienti e prostitute fa deprezzare il valore di un’area dove abita gente che non ha ancora finito di pagare il mutuo per la casa, intervenire è di destra o di sinistra?". Questo è il problema: guai a "deprezzare un’area"…

Per finire, ancora lo Zanonato:"Alberto Asor Rosa … si è accorto di quante persone si sono dimesse dall’elettorato di sinistra?". Una volta la sinistra era alla testa, adesso è alla coda, e per sopravvivere perde la ragione della vita.

Prima che un Paese normale, dovremmo essere in grado di diventare – ne è una pre-condizione – un Paese serio, e serio vuol dire capace, responsabile, attendibile. Può essere utile affrontare alla luce di queste categorie – responsabilità, capacità, attendibilità – le iniziative che il governo progetta di contrapporre a una diffusa ondata di panico morale provocata da quella che viene definita «microcriminalità» e concentrata, in quest’occasione, contro i miserabili che occupano spazi pubblici – lavavetri, vagabondi, mendicanti – e il piccolo mondo criminale che vende beni e servizi alla società "per bene": prostitute, piccoli spacciatori di droga. Per necessità semplificatoria, si farà a meno di quel che, nel nuovo senso comune penale, il governo cinicamente giudica superfluo. Per un momento, allora, lasciamo in un canto qualche questione pur assai essenziale: come, ad esempio, che le politiche pubbliche in tema di sicurezza ridisegnano il profilo stesso della società (e varrebbe la pena discuterne, no?); che molte esperienze hanno messo in dubbio l’efficacia delle politiche criminali nel controllo dei conflitti e dei fenomeni illeciti; che il senso di insicurezza non è necessariamente connesso all’esistenza di pericoli "concreti", ma spesso ha a che fare con il genere, l’età, l’esperienza di vita, la familiarità con l’ambiente in cui si vive, il senso di appartenenza a una comunità.

Via tutto questo. E via (anche se magari leggendolo scopriremmo che l’utopista era molto pragmatico al punto da sostenere che «la grandezza delle pene deve essere relativa allo stato della nazione»), via pure la lezione di Cesare Beccarla che credeva gli uomini liberi e uguali: in fondo nei think tanks (Heritage Foundation, Manhattan Institute), che furono la fucina della ragione penale dei neoconservatori, avevano già in odio «la perversione dell’ideale ugualitario apparso con la Rivoluzione francese». Via questa roba da filosofi. Affidiamoci soltanto al programma del governo. Non al programma originario: quello, prevedeva il carcere solo per i reati più gravi e mai il carcere per violazione di disposizioni amministrative (come sono le ordinanze di un sindaco). Occupiamoci soltanto del disegno annunciato, ex novo. Nel ripensamento affiora subito un primo indizio di inattendibilità perché non c’è risposta alla domanda: che cosa è cambiato rispetto a un anno fa? Pare niente, se il ministro dell’Interno scrive al Corriere della Sera (30 agosto): «Troppo spesso la politica costruisce polemiche su uno stato della sicurezza che amplificano stati d’animo che non possono valere come giudizi generali. I dati ci dicono un’altra cosa».

Epperò, senza un’esplicita ragione, Giuliano Amato annuncia «tolleranza zero», «una lotta all’illegalità così come fece Rudolph Giuliani da sindaco di New York». La mossa svela, quanto meno, un’inversione di rotta e quindi un’incapacità nelle scelte del passato. Per farla corta. Ci sono, in competizione tra loro, due modi di fare polizia: «polizia intensiva» (a «tolleranza zero») e «polizia comunitaria» (o community policing o «polizia di prossimità»). Fino ad oggi in modo condiviso e inaugurata addirittura dal centro-destra di Berlusconi, la nostra scelta era caduta sulla «polizia di prossimità» che ha il suo «caso di scuola» a San Diego, negli stessi anni del governo newyorchese di Giuliani. In tre anni in quella città della California, con l’aumento degli effettivi di polizia di solo il 6 per cento, il numero degli arresti diminuì del 15 per cento. Al contrario, New York - che nelle classifiche della criminalità dell’Fbi in quel 1993 (Giuliani diventa sindaco) si collocava all’87esimo posto su 107 città (non era poi tanto malmessa) - sceglie il metodo della «polizia intensiva» che fece aumentare gli arresti del 24 per cento (314.292 persone soltanto nel 1996); i poliziotti di 12 mila unità; il budget della polizia del 40 per cento (2,6 miliardi di dollari, un importo quattro volte superiore ai fondi concessi agli ospedali pubblici) con un’opzione che provocò il taglio di un terzo dei finanziamenti ai servizi sociali della città e il licenziamento di 8.000 addetti. Con il nuovo indirizzo di «tolleranza zero» fa capolino una traccia di inattendibilità. Anche fingendo di non sapere che la «polizia intensiva» non colpisce singoli delinquenti, ma alcuni gruppi sociali, e per di più alla lunga non è efficace come si crede, dove sono i soldi? Le casse dello Stato permettono di far crescere del 10/20/30 per cento le risorse delle polizie centrali e comunali? Troverà consenso, in caso contrario, una manovra che, per assicurare quei finanziamenti, riduca nelle città del 10/20/30 per cento il bugdet dei servizi sociali, già stressati dalla "cura Berlusconi"? Contro queste difficoltà si è già, peraltro, scontrato il centro-sinistra quando, nel 1999, il governo D’Alema, dopo la consueta ondata di panico provocata da alcuni assassinii a Milano, adottò una serie di misure repressive (criminalizzazione di alcuni illeciti minori, poteri rafforzati per la polizia, pugno di ferro nelle carceri) che non mutarono di un pelo né la percezione della sicurezza né la sicurezza (il centro-sinistra perse le elezioni). L’oblio di quell’esperienza fallimentare può essere un indizio di irresponsabilità. D’incapacità tocca invece discutere, quando si affronta quel che, per Amato, è «uno dei maggiori problemi di sicurezza nel nostro Paese, in questo momento»: la criminalità rumena.

La leva per scardinarla c’è. Dice Amato: «Ogni cittadino comunitario (i rumeni lo sono) può registrarsi all’anagrafe di un altro Paese solo se ha i mezzi leciti di sostentamento. Se non li ha, va a casa». Quel che Amato non dice è che il governo italiano (inattendibilità), per rendere esecutiva questa norma europea (direttiva numero 38), deve definire qual è la soglia minima richiesta al cittadino immigrato. Quanto deve guadagnare per definirsi «in grado di sostenersi»? 500 euro al mese? 800? L’esecutivo, in un anno, non ne è venuto a capo (incapacità). Sarà per questo che, molto sottilmente, il ministro dell’Interno si defila e chiama in causa il ministro della Giustizia come ha fatto a Telese Terme, il 29 agosto: «Quando uno viene arrestato poi non te lo puoi ritrovare davanti dopo tre mesi. Questo si chiama certezza della pena. E questo compito tocca al ministro della Giustizia».

La certezza della pena è una litania, buona per tutti gli usi, a destra come a sinistra, ma semanticamente povera. Non costa niente evocarla, ma lascia le cose come sono nel congegno - il processo - che dovrebbe assicurarla. Ora, in Italia, il processo è inefficiente e interminabile. Ha incrociato e moltiplicato nel tempo i difetti di tutti i modelli a disposizione. E’ un ordigno perverso e maligno che, al più sanziona prima dell’accertamento e, quando accerta le responsabilità, non riesce a punirle. Lasciamo cadere allora quelle iniziative che vogliono ripristinare antichi reati già cancellati dal centro-sinistra (i mestieri girovaghi) o già censurati come illegittimi dalla Corte Costituzionale (è il caso del reato di mendicità). Occupiamoci soltanto del processo, unico padre possibile dell’effettività della pena. Per rianimarlo ci sarebbe voluto un Giustiniano e una coesa volontà politica e non un Parlamento impotente dinanzi alla pressioni delle lobby dei magistrati, dei politici, degli avvocati. Il ministro di Giustizia, da buon democristiano, si è mosso come ha potuto con l’ambizione di chiudere i tempi del giudizio in cinque anni. Ha anticipato qualche proposta già pronta. Il consiglio dei ministri l’ha approvata. Il disegno di legge è incagliato da cinque mesi alla Camera dove pure il governo può contare su una larga maggioranza (incapacità). Quel che si annuncia - l’inversione dell’onere della motivazione (il giudice deve motivare perché scarcera non perché «carcera»), un processo "speciale" per furti, rapine, stupri etc, nuove regole di carcere preventivo - renderà soltanto quel ferro più arrugginito, storto, inutilizzabile di quanto già oggi non sia (irresponsabilità). Per tenere in carcere chi lo merita e ridurre il danno, si poteva correre ai ripari con una banale tecnologia applicando le leggi che già ci sono. Oggi capita che, condannato a Milano, un imputato risulta incensurato perché il giudice che decide se tenerlo in carcere fin dal primo giudizio (come è possibile) non sa che quello è già stato condannato a Pescara, magari per lo stesso reato. Sarebbe necessario un casellario giudiziario aggiornato e una banca dati efficiente, ma non ci sono né alcuno sembra ci stia lavorando (incapacità).

Già c’è - pare - materia sufficiente per dire della serietà della discussione di questi giorni, ma c’è un ultimo, definitivo argomento: il Parlamento da oggi a fine anno non ha sedute a disposizione per approvare il "progetto sicurezza" del governo. Il Senato, per i prossimi 45 giorni, si occuperà di Finanziaria. Che, per i successivi trenta, sarà all’ordine del giorno della Camera per poi ritornare al Senato, prima delle ferie natalizie. In ogni caso se il "pacchetto" prevede anche soltanto una lira di spesa in più non può essere discusso durante la sessione di bilancio. Il governo potrebbe muoversi con un decreto legge, è vero, ma è difficile che voglia tirarsi addosso un’altra rogna, dopo le difficili mediazioni in programma per tagli, tasse e tesoretto. Per sapere della serietà bisognerà dunque aspettare l’anno prossimo.

TORINO - Dottor Giancarlo Caselli, lei oggi è il procuratore generale del Piemonte, ma in passato si è occupato di terrorismo e di mafia. Che cosa pensa del clamore odierno attorno ai temi della sicurezza? È d´accordo con gli annunci che giungono in queste ore dal governo?

«No, non sono del tutto d´accordo».

E perché?

«È vero, in 40 anni da magistrato ho fatto tanti mestieri: sono stato anche responsabile di tutte le carceri, ho lavorato ad Eurojust per combattere la criminalità internazionale e ho presieduto una corte d´assise dove si condannano gli assassini. Posso dire, dunque, che conosco bene il problema della sicurezza e che essa mi sta a cuore. Ma non credo che la soluzione ai suoi problemi sia solo la rincorsa alle manette. C´è una questione di coerenza politica, prima di tutto».

Beh, cominciamo da politica e coerenza. Che cosa vuol dire?

«Io, è noto, vado spesso in giro per dibattiti e nelle scuole, proprio a parlare di legalità: da un po´ di tempo sento di essere fuori moda. È il frutto di un lustro di storia italiana, quello che coincide con la passata legislatura. Per anni, si è fatto intendere che le regole vanno bene sino a quando le si proclamano, poi diventa subito bravo chi sa aggirarle meglio. È l´Italia dei condoni, delle leggi ad personam per sottrarsi ai processi, del "così fan tutti". Dopo, quelli che sono i più tolleranti con se stessi, invocano la tolleranza zero per gli altri, che a loro volta sono sempre gli stessi...».

Di chi parla?

«I più deboli, i diversi, ma anche i cittadini "comuni". Il nostro sistema di legalità ha due codici: quello per i galantuomini a prescindere, per censo; subito dopo quello che vale invece per tutti gli altri. Con in mezzo gli eterni problemi della giustizia. La lentezza dei processi soprattutto, che per i primi costituisce la salvezza dalle condanne e per gli altri una punizione in più».

Il ministro Amato definirebbe questi suoi discorsi sui «diversi» come «sociologia d´accatto». Vuol provare a rispondergli?

«Guardi, io non faccio il sociologo. Lo ripeto: penso di poter parlare di legalità avendone titolo come magistrato penale da 40 anni. E non condivido neppure quella definizione secondo cui la sicurezza «non è né di destra né di sinistra». È un modo di dire che ci offende: noi che, per anni, siamo stati chiamati giustizialisti e "toghe rosse" proprio perché volevamo difendere la legalità. Un tempo la sinistra era considerata sinonimo di garantismo e la destra di ordine. Ora, invece, c´è un´inversione deformante di tutto questo, con chi chiede privilegi per sé e nessuna tolleranza per gli altri».

Ma oggi la maggioranza di governo, dopo quel lustro, è cambiata. Continua ad essere critico?

«Faccio fatica a orientarmi, le differenze politiche si stanno affievolendo. Si fa a gara nell´appiattirsi sulle posizioni con venature populistiche, ad accantonare ad esempio la difesa dei diritti sociali nel nome supremo della sicurezza, ad assecondare le paure e le insicurezze della gente e le sue percezioni esasperate».

Che cosa dovrebbe fare allora la politica?

«Arginare le paure e le insicurezze, far comprendere ai cittadini che spesso esse sono esagerate. Non confondere i diversi temi e i diversi problemi della legalità. Invece vedo una trasversalità politica nel compiacere un´opinione pubblica sempre più arrabbiata, perdendo di vista la complessità della realtà».

Facciamo qualche esempio?

«Ragioniamo sui lavavetri o sui posteggiatori abusivi e persino sui graffitari. È gente che, se non compie atti violenti, non commette alcun reato. Pensare alle manette per cancellarli dalla città è un assurdo giuridico e anche un´illusione. Su questi temi leggo molta confusione».

In che senso?

«Si mettono assieme problemi molto diversi tra loro: la criminalità organizzata, la criminalità comune, la microcriminalità e persino comportamenti che non sono criminali. Non voglio giudicare i provvedimenti annunciati dal governo, perché non sono ancora concreti, ma vi scorgo il pericolo che siano non una serie di interventi mirati, ma un gran calderone».

Ma il magistrato Caselli, l´uomo che ha attraversato tutti gli scenari della lotta al crimine, che cosa suggerisce allora?

«Che reprimere non basta: le risposte devono essere anche altre. Quanto al funzionamento della giustizia, bisognerebbe cominciare prima dalla certezza della pena e dalla durata smisurata dei processi. Non è possibile che in Inghilterra il primo grado di un processo penale duri pochi mesi e in Spagna solo un anno, mentre da noi si va dai 4 ai 6 anni. Si tratta di offrire più soldi alla giustizia, di distribuire meglio le risorse là dove sono più necessarie e di snellire le procedure cancellando i cavilli travestiti da garanzie».

Un esempio da imitare?

«Non voglio fare il campanilista, ma direi proprio Torino. Saranno state le Olimpiadi, sarà stato l´impegno di tutti, ma ora è davvero una bella città. C´erano luoghi poco vivibili e oggi sono quelli dell´aggregazione cittadina. Ce ne sono purtroppo altri con ancora dei problemi, ma importante è la valutazione complessiva. Noi abbiamo un modo di dire, anche quando i problemi esistono, che penso non abbia bisogno di traduzioni: "esageruma nen". Vuol dire agire senza toni apocalittici».

Possono o non possono i ministri d'un governo di coalizione partecipare a una manifestazione che chiede di mutare in aula alcuni aspetti d'un pacchetto di norme sociali? Dei quali il meno che si può dire è che nel programma elettorale parevano promessi? Squisito caso costituzionale, che oscura il merito del contendere: come va esattamente con le pensioni, perché si sono dette balle grandissime sui bilanci dell'Inps, quanti sono i precari, se davvero sarebbero inesorabilmente richiesti dalla crescita. Cose di cui nel merito pochi sono informati e nessuno parla, mentre del dilemma «se i ministri non sfilano» Prc, Pdci e Verdi restano isolati e «tutto va bene», se i ministri sfilano Prc, Pdci e Verdi trionfano, il governo cade e torna Berlusconi, orribile prospettiva, parlano tutti - incluso il mio rispettato amico Claudio Magris, che paventa la seconda ipotesi.

Anche io la paventerei. Ma perché conseguirebbe a una manifestazione con o senza ministri? Le manifestazioni non votano. Il solo che minaccia il governo è Lamberto Dini, il quale ha dichiarato che se l'aula, cioè il più legittimo dei luoghi, modifica il pacchetto non ancora approvato, voteranno contro il governo lui e i suoi. Si rivolgessero dunque, i preoccupati, al dottor Dini.

Per tornare nel merito, ci sarebbe caro se ci si rispondesse alle seguenti tesi e domande:

1. Non è vero che bisogna ridurre le pensioni (attraverso età, scalini o altre pensate) perché il bilancio pensionistico dell'Inps sarebbe in deficit. Il bilancio delle pensioni, cioè il saldo fra contributi pagati dai lavoratori e pensioni erogate è in attivo. Vero o falso?

2. Il bilancio dell'Inps è in rosso esclusivamente perché sono messe indebitamente a suo carico le spese per casse integrazioni lavoro e una serie di altre misure assistenziali. Esse dovrebbero cadere su regimi speciali con relativa legge, lasciando ai lavoratori il bilancio delle proprie pensioni. Vero o falso?

3. I pensionati non costano nulla alla fiscalità pubblica, mentre vi contribuiscono pagando le tasse anche sul reddito che da esse proviene. Vero o falso?

4. La gobba che avrebbe gonfiato la spesa pensionistica secondo le previsioni del governo Dini, non si è verificata. Erano sbagliate. Vero o falso?

5. Che un paese civile abbia circa sei milioni di pensionati (su sedici) a meno di euro 500 al mese è una vergogna. O no? Gradirei risposta firmata.

6. Molto altro resterebbe da dire sulle pensioni. Intanto Massimo D'Alema cessi di giurare che non ci sono i soldi. Per le pensioni non occorrono. La proibizione di usare il tesoretto per l'assistenza non è un dogma di Santa Romana Chiesa. Si occupi dell'Afghanistan (in politica estera finora non se l'era cavata male) invece che di Welfare di cui non sa. A proposito, non l'aveva definito una trovata del maschio adulto e garantito. Vero o falso?

7. Precariato. Secondo il calcolo di Luciano Gallino i precari sono da quattro a cinque milioni, circa un lavoratore su quattro. E non smettono di crescere. Vero o falso?

8. La cosa fa comodo alle imprese, specie del terziario (in quelle più grosse della manifattura il precariato esiste già alla grande), dove pagare il lavoratore solo nei giorni che serve riduce i costi e aumenta il profitto. Vero o falso?

Quando il lavoro è qualificato, l'usa e getta giova a breve all'impresa ma spreca una gran quantità di know how. Vero o falso?

Quando la qualifica è bassa (tipo call center) il precariato è quello che più somiglia al lavoro parcellizzato del secolo scorso, con elementari diritti in meno. Vero o falso?

9. Soltanto i giovani che hanno una famiglia alle spalle o possiedono una qualifica forte sul mercato (cioè pochi), preferiscono il lavoro precario a quello fisso. Vero o falso?

10. Puntare a un salario generale di cittadinanza, è una chiacchiera. Esso ammonterebbe, secondo i calcoli fatti in Francia da Marc Augé, a circa la metà del salario minimo di sussistenza quando fosse ricavato dall'abbattimento di tutta l'attuale struttura del Welfare. Vero o falso?

Sono dieci tesi e domande. Soltanto dopo avervi risposto si discuta di estremismo e massimalismo, eccetera. Farlo prima significa nascondere a se stessi e al prossimo delle semplici verità elementari.

E' vero, l'ordine e la sicurezza non possono essere né di destra né di sinistra. Ogni cittadino desidera vivere, come auspicava Zavattini, in una città dove «buongiorno, significhi veramente buongiorno» senza temere di essere scippato, aggredito, violentato. L'unica distinzione reale che va fatta tra coloro che sono preposti al governo della cosa pubblica è tra gli intelligenti e gli stupidi. Non c'è difficoltà dove collocare Borghezio, Gentilini, Gasparri, ecc... Il guaio è che, ad essere onesti, la lista da qualche tempo si è allungata ed è trasversale. In questa demenziale rincorsa al consenso (sperando che si tramuti in voti) dei cosiddetti benpensanti, ne stiamo leggendo di tutti i colori.

I bulli quindicenni ad esempio, non si correggono costringendoli a scrivere cento volte, «sono un cretino, sono un cretino». Tutt'al più si possono convertire se a dire loro «sei un cretino» sono i compagni di classe a condizione che questi sin dalla scuola del pre-obbligo abbiano avuto un'educazione intelligente. In un Paese dove (come ci ricorda Tullio De Mauro) il 60% degli abitanti è analfabeta di ritorno cioè sa leggere e scrivere (una cartolina di auguri), ma non sa compitare una lettera nella quale trascrivere il proprio pensiero, c'è di che per stare allegri.

Viviamo in una realtà dove i nuovi modelli, per i giovani, sono il fotografo Corona, il quale ha recentemente firmato un'autobiografia (scritta da due giornalisti), pubblicata non a caso dal berluschino Cairo, nella quale ci rivela che il carcere (che avrebbe ingiustamente subito) gli è stato utile, perché finalmente è riuscito a leggere il primo libro della sua vita. Viviamo nella patria delle sorelle Cappa, aspiranti veline, quelle del fotomontaggio con la cugina assassinata. Della squillo al servizio del democristiano doc (che ha regalato alla moglie per riappacificarsi, un maxi-brillante) che spera di trarre profitto dalla sua disavventura nell'albergo romano, magari con un invito all'Isola dei famosi.

Viviamo nell'Italia dei Lele Mora, dei Briatore (anche se ha la residenza all'estero ai fini fiscali) dei Moggi, in pellegrinaggio a Lourdes in compagnia del Cardinale Ruini. Quale messaggio viene quotidianamente trasmesso alle nuove generazioni ?

Nel 1976 l'Amministrazione comunale di Torino inventariò i danni provocati alla città dal vandalismo adolescenziale (circa un miliardo all'anno di vecchie lire). Per combatterlo fu istituito il «tempo pieno» nelle scuole dell'obbligo, «l'estate ragazzi», l'uso di tutte le strutture pubbliche ai fini didattici, ad esempio visite e lezioni presso la caserma dei vigili del fuoco contro gli incendi, agli studi Rai per un «consumo» diverso della televisione nella scelta dei programmi, all'acquedotto municipale per non sprecare il bene acqua...

L'obiettivo era quello di occupare, nel modo più intelligente, senza pedanteria, senza annoiare, anzi divertendo il tempo «vuoto» dei ragazzi.

Quattro anni dopo, il costo dei danni per «vandalismo domestico» era stato più che dimezzato. Buon ultimo è arrivato in questi giorni il ministro dell'interno proponendo il modello Giuliani: «Tolleranza zero». Si presume che il ministro, almeno attraverso gli uffici studi di cui dispone, sia informato. Evidentemente no.

L'editore Laterza ha pubblicato lo scorso anno, un illuminante libro, di una studiosa italiana, Lucia Re, dell'università di Firenze (la città dell'assessore Cioni!), nonché redattrice del Centro di filosofia del diritto internazionale.

Scrive la Re: (cito testualmente)

1) Il tasso di detenzione degli Stati Uniti è il più alto del mondo, con 726 cittadini incarcerati ogni centomila (fra le persone residenti negli Usa, 1 ogni 138 è in carcere)

2) Il segreto del successo di New York, se di successo si deve parlare, è dovuto alle modalità operative e organizzative adottate dal New York Police Department.

3) I metodi di polizia adottati a New York hanno determinato un forte aumento delle violazioni dei diritti delle persone fermate e arrestate. Molti casi di abuso della polizia hanno condotto alla morte delle vittime.

4) Le uccisioni con armi da fuoco da parte della polizia sono aumentate del 34,8% mentre le morti di civili detenuti in custodia dalla polizia sono cresciute del 53,3%. E' questo che vuole in Italia il ministro dell'interno (un tempo socialista , si fa per dire)?

Si documenti per favore e mediti prima di lancirae certe campagne

Lavavetri, racket, pedofili, incendiari, mafiosi. Il dibattito politico sembra orientato finalmente verso la realtà, quello sgradevole accidente così poco elegante con cui bisogna fare i conti perché la gente che vota – e decide del potere – ci vive immersa fino al collo. Potrebbe essere un eccellente indizio, un segnale di rinnovamento di un Palazzo che, soffocato dalla sua autoreferenzialità, si sporge dal balcone, scende in strada e cerca di accostarsi alla "vita reale" considerata finora informe, noiosa, insignificante.

Purtroppo non c’è da entusiasmarsi, se non per il tempo necessario ad ascoltare quel che vanno dicendo i Grandi Inquilini venuti giù in strada. Si può fare qualche nome a caso, e parleremo dei più seri del centro-sinistra, non dei ciarlatani che, a destra, s’improvvisano da tempo imprenditori politici della paura. Di Bertinotti, ad esempio, e soltanto perché è l’ultimo ad avere preso la parola a proposito dei lavavetri. Mi piacerebbe che si colpisse prima il racket che li organizza, dice. Ma è proprio vero che ci sia un racket? Se ci si rivolge ai procuratori di mezz’Italia, la risposta sarà un no, non c’è traccia nel loro lavoro di un racket di lavavetri. Di minorenni costretti in stato di schiavitù a mendicare, sì. Di donne costrette a prostituirsi, sì. Di lavavetri, no. La questione non cambia nella forma, certo. Se a Firenze i lavavetri sono aggressivi e minacciano e impauriscono i più deboli, perché è più facile, è doveroso proteggersene e punirli e prevenire le mosse di quella massa critica di emarginati che affligge le città con una criminalità predatoria e diffusa. Ma il fatto è che contro questo tipo di criminalità – al di là di qualche ossessivo luogo comune propagandistico – la mano è già pesante. Per oltre l’80 per cento, le nostre carceri sono affollate proprio da quella gente lì, emarginati, tossicodipendenti, migranti. La vogliamo più pesante? Bene, se servisse. Ma siamo proprio sicuri che portando quella percentuale a 85/90 per cento le città ne abbiano sollievo? Discutibile, se non si affrontano anche le ragioni del crimine. «Tough on crime, tough on the causes of crime», diceva Tony Blair già nel 1993. Quelle ragioni andrebbero dunque esplorate. Ignorarle come fanno i Grandi Inquilini cambia allora nella sostanza la questione perché alla politica spetta non solo alleviare i sintomi della patologia, ma contenerne le cause. In quanto a questo gli Inquilini del Palazzo – anche quando sembrano voler abbandonare il paradigma che associa il crimine diffuso al disagio sociale – appaiono a corto di idee anche perché, soprattutto, a corto di informazioni.

Per fare un altro esempio e un altro nome. Veltroni. Sostiene che la privacy per i pedofili non debba valere, devono portare scritto in fronte o sulla carta d’identità – non si è ben capito – quel che sono. Può essere un’idea. Ma è proprio certo che la pedofilia sia così estesa da giustificare una sospensione così rilevante dei diritti paragonabile soltanto a quella inaugurata con l’11 settembre? E’ possibile, come si chiedeva Lietta Tornabuoni qualche tempo fa, che tanti italiani siano pedofili? Non si ha ragione a coltivare qualche dubbio se gli unici dati a disposizione sono originati da quelle organizzazioni che di lotta alla pedofilia vivono e prosperano? Non è legittimo temere che la loro rappresentazione della realtà sia troppo intenzionale? Si può paventare che il contrasto alla pedofilia, odiosa e spaventevole come il terrorismo, sia il nuovo prodotto lanciato sul mercato della paura, il nuovo grimaldello per violare a uso delle polizie privacy, comunicazioni, propensioni, curiosità, reti sociali? Gli esempi potrebbero continuare. Ancora uno. Di nuovo Veltroni, e in attesa che Bindi e Letta dicano la loro. E’ ragionevole andare in Calabria per spiegare che la confisca dei beni debba essere lo strumento per sconfiggere la ‘ndrangheta senza dire perché e per responsabilità di chi quello strumento, già a disposizione, è stato mozzo fino a oggi? O, per dirne un’altra, tacere che i capitali delle mafie non sono a Locri, ma a Milano, in Germania, in Svizzera? Si può non dare ragione del perché soltanto il 12 per cento dei detenuti è in carcere per fatti di sangue o di mafia?

Più di trent’anni fa, Pier Paolo Pasolini si chiedeva perché «la cronaca» fosse relegata in un «ghetto mentale», chiusa in un «reparto stagno». Analizzata, sfruttata, manipolata, ma «non collegata con la storia seria, non resa cioè significativa». Perché rapine, rapimenti, criminalità minorili, furti, omicidi gratuiti, protestava, sono in concreto «esclusi dalla logica e comunque mai concatenati»? Perché, chiedeva (era il 1975), «questa diacronia tra la cronaca e l’universo mentale di chi si occupa di problemi politici e sociali?». Sono domande che hanno ancora un’ostinatissima attualità. Pasolini si rispondeva che a quella «massa di criminaloidi» (italiani) «non si può parlare in nome di niente» e che le poche élites colte sono «soffocate, da una parte, dal conformismo e, dall’altra, dalla disperazione». E’ una ragione che dopo trent’anni ancora tiene. Al lavavetri di Firenze, al di là di una minaccia, non si sa che cosa dire né il lavavetri ha voglia di sentirsi dire qualcosa. Quel che appare peggiorato da quel tempo è che le élites colte non avvertono con disperazione la loro impotenza. L’alleviano e la nascondono con un ordinario conformismo che ha come unica direzione l’inseguimento delle paure (reali o virtuali, non importa), dei desideri, delle ambizioni, degli egoismi e furbizie di italiani confusi e contraddittori: vogliono prostitute, ma non vederle sotto casa; vogliono cocaina, ma non lo spacciatore nella strada accanto; vogliono lavoro a basso costo e in nero, ma non clandestini. Il solo orizzonte in cui si muovono oggi gli Inquilini, usciti dal Palazzo incontro alla «cronaca», è quella fantasmagoria di «coriandoli» che oggi è l’antropologia italiana. I riformisti non fanno eccezione. Credono di poter così aumentare il loro consenso. E’ un’illusione. Berlusconi, come sostiene Giuseppe De Rita, assomiglia troppo a quel che sono diventati gli italiani per potere essere sconfitto su quel terreno. Davvero è così difficile capirlo? Davvero è troppo chiedere che un onesto riformismo, liberato dagli ideologismi, non accompagni e sfreghi e strusci la realtà, ma comprendendone le verità nascoste, abbia l’ambizione di modificarla?

Vorrei dedicare all’assessore Graziano Cioni di Firenze, importante figura della sinistra in Italia, le parole di una canzone italiana che al principio dell’altro secolo era popolare anche fra le signore bene, popolare come «Balocchi e profumi». La so perché la cantava mia madre con una buona voce da soprano leggero: «A Natale non badare, spazzacamino / ogni bimbo ha un focolare / e un balocco vicino / tu però non ti accostare / resta in giardino / i bambini non toccare / va a spazzare il camino».L

a canzone, di tempi in cui alcuni borghesi non si vergognavano di essere un po’ socialisti, prevedeva la risposta del lavoratore abusivo citato nella canzone: «Tu mi scacci, lo so, perché il volto più bianco non ho, ma lo spazzacamino tiene il cuor come un altro bambino».

Pensandoci bene devo dedicare le parole di questa canzone (era sostenuta da una bella aria strappalacrime che purtroppo qui non sono in grado di trascrivere) a tutte le figure della sinistra italiana che volentieri, spontaneamente, e qualche volta con impeto da neoconvertiti alla luce di verità non più negabili, sostengono che:

- le tasse di Prodi-Padoa-Schioppa sono effettivamente un furto senza precedenti nel mondo e bisognerà «restituire» (attenzione alla parola, significa riconoscere che parliamo di maltolto) ciò che spetta ai cittadini. Tener presente che i Paesi con le mitiche tasse bassissime non sono mai citati e confrontati realmente (tasse, incentivi per le imprese, favori, interventi pubblici, scuole, ospedali, spese militari);

- affermano tuttavia, fra una sparata e l’altra di Bossi, che non si devono discriminare né la Lega né Tremonti da un serio discorso sulle riforme (Bossi è il fucile e Tremonti, ovviamente, è il fiscalista del progetto «sciopero fiscale»);

- dicono con autorità che bisogna finalmente proteggere i più deboli (cioè gli esclusi da ogni beneficio) nel mondo del lavoro attraverso il giusto espediente di privare di ogni beneficio i lavoratori che se li erano conquistati con lotte e scontri sociali neanche tanto facili negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Intanto il resto del Paese - come ha poco dopo rivelato la infelice operazione «Mani pulite» - viveva nella austerità. E se quei lavoratori, allora accampavano tanti diritti, adesso sono abbastanza vecchi e dopo 35 o 40 anni di lavoro (quasi sempre senza barca e senza seconda casa) sono andati in pensione, si fa dell’ironia sul fatto che un sindacato «conservatore» di pensionati pretende di dettare legge alle nuove dinamiche del lavoro.

Ma adesso i «coraggiosi» (questo è il termine per gli audaci di sinistra e centrosinistra che hanno trovato una identificazione originale nel ripetere con passione e convinzione ciò che ha già detto la Lega, ciò che si ascolta nelle assemblee degli imprenditori padri e - in seconda convocazione - gli imprenditori figli, ciò che scrivono gli editorialisti di ispirazione «moderna»), adesso i coraggiosi puntano dritto ma contro Rom e lavavetri. Conoscete nemici peggiori? È futile una sinistra che vede i lavavetri come gli spazzacamini, e pensa ai Rom più come a poveri che a ladri di bambini. Eccoci dunque pronti a spezzare le reni ai lavavetri.

Anzi, hanno pensato, facciamo di più. Facciamo di Firenze, città di sinistra, il simbolo e il modello della caccia ai lavavetri. E facciamo bandiera della sinistra la «sicurezza» ai semafori. Finalmente lotta di liberazione dai poveri, dai Rom, dai mendicanti, dai lavavetri. Mentre nostri connazionali bianchi e agiati alzano un po’ il gomito (dopotutto siamo in ferie), guidano un po’ spericolato (dopotutto siamo italiani) e ti spazzano via un ragazzino o una ragazzina sedicenne al giorno (dopotutto c’è sempre il perdono e un mazzo di fiori da recare sul posto); mentre nostri connazionali bianchi e laboriosi sono impegnati a vendere a bravi risparmiatori padani fondi di investimento in cui sono accuratamente incluse le somme ricavate da «cartolarizzazioni mondiali» che possono provocare in ogni momento un crollo prima di azioni, poi di Borsa, poi di banca, poi di risparmi (e tanti esperti, pacati, pensierosi e tranquilli sono impegnati a «esaminare le varie ipotesi»), il lavavetri non ha scampo. Lo becchi al semaforo e gli dai tre mesi di carcere. Come è noto, tutti gli importanti e irrisolti delitti italiani di ragazze inseguite, tormentate e uccise dal fidanzato laureando, originano dalla piaga del lavavetri.

Con quel loro ostinato appostarsi ai semafori e quella loro deliberata volontà di usare (male) spugna e straccio anche sui vetri puliti, provocano una tale esasperazione che poi si spiega se un povero italiano credente (che verrà comunque perdonato) va a casa e fa una strage di italiani grandi e piccoli, moglie, figli e neonati inclusi.

Tutto ciò sarebbe uno scherzo, benché un po’ pesante, se non ci fossero alcune ragioni che disorientano e umiliano non solo chi credeva di essere a sinistra. Ma anche una comune «classe media» di sentimenti umani che altrove si chiamerebbe soltanto «liberal». Provo a elencarle così.

Primo. C’è qualcosa di blasfemo - certo di stupido - nell’agitare la parola e «il valore» della sicurezza a proposito di lavavetri, a Firenze nell’estate in cui mezza Italia è messa a fuoco da cittadini italiani, il più delle volte incensurati, che non si fermerebbero a occuparsi dei vostri vetri sporchi. Hanno missioni di malavita alquanto più grandi. E molto ben coordinate.

Secondo. C’è qualcosa di blasfemo - e anche di stupido - nell’agitare la parola e il «valore» della sicurezza a proposito di lavavetri, a Firenze nel giorno (lo stesso giorno) in cui il presidente della Regione Calabria Loiero riceve una ulteriore minaccia di morte (la sesta).

Terzo. C’è qualcosa di stupido - politicamente stupido - in una sinistra ricca delle bandiere della uguaglianza, della legalità, dei diritti umani e civili, quando questa sinistra cerca di rubare e usare come bandiera lo straccetto della presunta insicurezza dei cittadini sia perché quella bandiera è saldamente nelle mani di Borghezio (che non ha nessuna intenzione di mollarla perché non ne ha un’altra); sia perché - portino pazienza tutti coloro che fingono di non saperlo - l’Italia della insopportabile immigrazione è il Paese meno insicuro d’Europa (per non parlare di Usa e America Latina) tranne che nel seno delle buone famiglie e delle simpatiche coppie italiane dove va forte la strage delle donne (solo italiane, solo per mani di bravi cittadini italiani).

L’evidenza triste è che il sistema omologato delle informazioni, una volta impiantato da Berlusconi nel cuore della televisione pubblica e privata, dei giornali, degli editorialisti, dei corsivisti (fa eccezione il fronte dei vignettisti, forse perché, come dimostra Forattini dai giorni della sua conversione, la destra non può ridere), continua a mettere in luce con successo il lato falso delle notizie. Molti italiani che non leggono l’inglese credono davvero che l’Italia sia il Paese più tassato o che le imprese, in Italia, siano davvero perseguitate (quanto ai manager che sanno l’inglese, gli conviene far finta di non saperlo, se no avrebbero difficoltà a spiegare la cattiva sorte americana di Ford, General Motors e Chrysler nel Paese del liberismo, il fallimento della Swiss Air nella mitica Svizzera delle banche, la pesante disoccupazione nei Paesi di bassissima tassazione). Ed ecco che subito si arruolano «i coraggiosi», entusiasti e vivaci seguaci di fatti mai accaduti e di notizie non vere e si battono per nuove tasse (niente tasse) e nuovo lavoro (niente garanzie, se mai raccomandazioni o essere nati figli di). Molti italiani credono davvero - perché lo dicono Borghezio, Gentilini e il Bossi del fucile purificatore - che il nostro pericolo, terrorismo globale e terrorismo stradale, sono gli immigrati, cioè i lavavetri.

Cioni ci crede perché purtroppo nell’Italia di oggi non fa una gran differenza guardare Canale 5 o la Rai. Non abbiamo detto che la sicurezza non è né di destra né di sinistra (benché sia una evidente sciocchezza, se si parla di eventi stradali)? Crede nella sicurezza, arresta i lavavetri.

Cioni dunque, in preda a una terribile crisi di buona fede, prende alla lettera gli spot berlusconiani, e arresta i lavavetri. Finalmente una sinistra moderna. Ci dicono due giorni dopo i quotidiani: «Non si vedono più lavavetri a Firenze».

Grande vittoria della sinistra, anche se ottenuto lungo la scorciatoia della destra, che non è uguaglianza ma abolire l’immagine della diseguaglianza. E non è giustizia ma evitare ogni constatazione di ingiustizia.

Ricordate l’inizio del «Siddarta» di Hesse? «Fecero scomparire tutti i poveri e i malati dalle strade perché il principe non li vedesse».

L’assessore Cioni ha vinto. Con un prezzo un po’ alto. Liquidare nella sua città la sinistra.

P.S.

L’assessore Cioni, nel compilare il suo editto senza se e senza ma non ha potuto tener conto di due esperienze, verificate personalmente, che gli giro, insieme ai versi della canzone di mia madre.

- Varie volte ho visto bravi cittadini italiani farsi lavare accuratamente il vetro, indicando con precisione punti ancora insoddisfacenti per prolungare l’operazione. Poi, appena il semaforo lo consente con uno strappo sull’acceleratore, sgommano via facendo il segno del dito, senza pagare.

- Due volte, in reputati e pubblicizzati distributori di benzina e Diesel, mi è stato detto, durante l’estate: «Il parabrezza? Se lo faccia pulire dal lavavetri. Noi non lo facciamo più».

colombo_f@posta.senato.it

Tutti pazzi per Sarkozy (Nicolas, non Cécilia). Per un paio di mesi è sembrato in Italia che il nuovo presidente francese fosse per la destra quello che per la sinistra è stato il premier spagnolo José Zapatero: e cioè l'esempio di come si mantengono le promesse elettorali e di come si possono operare riforme di fondo. Ma mentre sulla base e sugli elettori dell'Ulivo Zapatero ha ancora una presa fortissima (le sue scelte laiche, la legislazione sui Pacs...), alla classe politica e agli spin doctors del neonato Partito democratico il solo nominare il premier di Madrid fa venire l'orticaria («Mica siamo in Spagna qui!»). Invece sembrano essersi presi tutti una cotta per «Sarkò»: in italiano questo tipo d'innamoramenti si chiama «sbandata» che qui va intesa in senso letterale e politico.

Ormai si sprecano le lodi sperticate al dinamico inquilino dell'Eliseo. I buonisti hanno cominciato a sgiuggiolare con la scelta di ministre di origine immigrata: Rachida Dati alla giustizia, Fadela Amara alle politiche urbane, Rama Yade ai diritti umani. Poi sono tutti caduti in ammirazione per le nomine bipartisan, a cominciare da quattro (ex) socialisti: Eric Besson (transfuga dal Ps) è sottosegretario; il cofondatore di Médecins Sans Frontières, Bernard Kouchner, è ministro degli esteri; l'ex ministro della cultura (il «Nicolini francese») Jack Lang fa parte della Commissione per le riforme istituzionali (presieduta dell'ex premier Edouard Balladur e in cui siede anche un altro ex deputato socialista, Olivier Duhamel); infine l'ex consigliere economico di François Mitterrand, ed ex enfant prodige dell'economia francese, Jacques Attali, presiede la commissione per le riforme economiche di cui fanno parte anche la ex ministra conservatrice spagnola Ana Palacio e due italiani, l'ex ministro del centrosinistra Franco Bassanini, e l'ex commissario europeo Mario Monti.

Ma perché sarebbe ammirevole tutto ciò? Forse che con tre ministre di origine maghrebina, Sarkozy è meno odiato nelle banlieues degradate di Francia? E poi, forse in Italia tutto sarebbe risolto se un Silvio Berlusconi tornato al potere facesse entrare nel suo gabinetto Michele Salvati, Renato Nicolini e Gino Strada? Romano Prodi dovrebbe aprire la sua compagine a Giulio Tremonti, Vittorio Sgarbi e don Pierino Gelmini? Vivremmo forse in quell'Eden politico che ci viene prospettato come «post-ideologico», «né di destra né di sinistra»?

Sono decenni che i conservatori di tutto il mondo ci assordano con «la morte delle ideologie». Ma George W. Bush ha conquistato due vittorie che più ideologiche di così non si può: in queste due vittorie i conservatori repubblicani hanno raccolto il frutto di una guerra ideologica all'ultimo sangue che hanno combattuto per trentacinque anni con enorme dispendio di mezzi e di intelligenze.

Nel nostro piccolo, l'offensiva ideologica la subiamo tutti i giorni quando la sigla Usl viene tramutata in Asl, dove l'«unità» deve far spazio all'«azienda» (e allo «spirito d'impresa») e in ospedale non siamo più pazienti, ma «clienti», in treno non siamo più passeggeri, ma «clienti», anche all'università i nostri figli non sono più studenti ma sono diventati «clienti», unica categoria antropologica ammissibile per lo sfrenato liberismo che è assurto a vera ideologia totalitaria, anzi a religione trionfante di questi anni.

Perché al libero mercato ci si crede, è una fede. Per cui, quando ci parlano di post-ideologico, vogliono solo dirci che l'unica ideologia consentita è il perbenismo liberista che, come unico correttivo agli sfaceli prodotti dal libero mercato, porge solo carità, filantropia, Ong, e «conservatorismo compassionevole» (Bush). E «morte delle ideologie» è solo il loro modo di dirci che la nostra ideologia è morta e che la loro trionfa: la caratteristica di ogni ideologia è di non riconoscersi come tale, proprio come ogni religione considera idolatre tutte le altre religioni e mai se stessa.

Viene il sospetto che, invocando Sarkozy a nume tutelare, le nuove teste d'uovo del Partito democratico vogliano attuare la «strategia Cacciari»: come il filosofo-sindaco ha sostenuto per anni che l'unico modo per battere la Lega era essere più leghisti di Bossi, così ora la nuova trovata geniale del Pd è che per battere la destra bisogna essere più di destra di Berlusconi.O almeno, sempre e comunque, bipartisan. Infatti, da noi, ci si deve genuflettere non solo al dio mercato ma anche al bipartisan che è nei cieli, come fosse un marchio di qualità.

Ma, come ha mostrato con il suo propendere all'(altrui) castrazione, Sarkozy non è affatto bipartisan. Ed è facile profezia prevedere che nel menu di riforme che gli saranno presentate dalle sue commissioni bipartisan, sceglierà solo quelle che gli si confanno e che si accordano con la sua specifica ideologia, che è poi è sempre quella della borghesia reazionaria francese, già descritta da Karl Marx nel 18 brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte, e che instancabilmente presenta le vecchie ribollite della reazione come «il volto nuovo della politica».

Ed è paradossale che l'adorazione tutta italiana per Sarkozy (in Germania ne hanno un'opinione ben peggiore) assuma toni lirici proprio mentre in Francia vi sono i primi crolli nei sondaggi, le prime crepe nella popolarità, i primi nodi al pettine per promesse che si riveleranno troppo costose, in termini sia economici, sia politici: o Sarkozy annacqua parecchio il suo vino, o l'autunno in Francia sarà torrido. Ma ognuno ha gli idoli che si merita. E forse allora la verità recondita di questa nostrana «sbandata» è che, ancor prima di costituirsi, il Pd ha già svoltato a destra e che i suoi leader sono pronti a sedere sugli strapuntini offerti dal prossimo Sarkozy italiano. Però, temiamo, senza vivere con altrettanta, ammirevole, gallica nonchalance le proprie disavventure coniugali.

"La Costituzione americana del 1787 lasciò aperta la questione della schiavitù, questione non piccola. Noi abbiamo lasciato aperta una quantità di questioni irrisolte molto minore di quella che ha permesso di creare il primo Stato federale della storia". Il Consiglio dei ministri aveva appena approvato, il 3 agosto, il progetto di legge sul federalismo fiscale e Tommaso Padoa-Schioppa commentava così i molti contrasti che lo hanno accompagnato. E messa così, è come lui dice. Anche se sarebbe stato meglio se il progetto avesse già incassato il consenso della Conferenza di regioni, province e comuni (che invece, non si è potuta neppure riunire per il rifiuto dei comuni).

Comunque, ha ragione il ministro dell´Economia. La ripartizione dei soldi pubblici fra Stato, regione e comuni è una grande questione costituzionale. Anzi: la più spinosa che ci sia. Di fronte ad essa, tutte le altre di cui tanto si sente parlare diventano secondarie. Legge elettorale, referendum, democrazia nei partiti, coalizioni e fusioni politiche, poteri del premier e così via: sono certo cose assai importanti ma, a ben vedere, riguardano la nostra forma di governo. Il federalismo fiscale riguarda invece la nostra forma di Stato. Cioè la maniera con cui si dividono e si intrecciano le decisioni tra la capitale politica e i centri territoriali; i rapporti tra le regioni e le minori comunità locali; la disponibilità delle risorse finanziarie per i servizi pubblici; e, infine e in principio, la garanzia uguale dei diritti civili e sociali dei cittadini.

Per dirla in altri termini, la vita quotidiana degli italiani non cambia molto se il sistema elettorale è maggioritario o proporzionale, "alla tedesca" o "alla spagnola"; oppure se si forma un grande partito di centro-sinistra, con le "primarie", o una grande confederazione di centro-destra, per volontà sovrana. Il "giorno per giorno" dei cittadini risente invece, moltissimo, del livello di efficienza dei servizi pubblici come sanità, scuola e trasporti e del grado di vivibilità delle città. Perciò la "Costituzione della vicinanza" è come una rete che accomuna tutti ed ognuno. I suoi nodi sono: la quantità di soldi del contribuente che possono essere spesi dai sindaci e dai "governatori" di regioni; le entrate che i governi territoriali si possono procurare con imposte proprie senza attenderle dallo Stato; la trasparenza dei conti e del rapporto tra dare (al fisco "vicino") e avere (in servizi); la misura giusta e controllabile degli aiuti tra le regioni secondo il principio di solidarietà nazionale.

Come il Dna, il progetto del governo ha una doppia elica. Quella del decentramento fiscale: che disegna un sistema di tributi propri dei governi territoriali, autonomi rispetto a quelli dello Stato ed operanti "nelle materie non assoggettate a imposizione da parte dello Stato". L´altra elica è quella del coordinamento complessivo della finanza pubblica e del sistema tributario. In certi punti le due eliche si intrecciano e sono lì le cinque questioni aperte del nostro federalismo fiscale.

Questione numero uno. La tenuta complessiva del sistema delle entrate e delle spese pubbliche ("nel rispetto dei vincoli derivanti dall´ordinamento comunitario" come dice la Costituzione). E´ giusto che sia la prima questione. Anche negli Stati di federalismo "maturo" sta suonando l´allarme sugli impedimenti, le nicchie, i privilegi che ogni sistema di assolutismo federale ha tendenza a produrre.

Il coordinamento complessivo del sistema tra finanza centrale e finanza territoriale è affidato dal progetto ad una legge "collegata" alla legge finanziaria statale. Essa sarà presentata, ogni anno, assieme al Documento di programmazione economico-finanziaria. In questo modo il Parlamento potrà fissare sia i saldi e il tetto all´indebitamento delle istituzioni territoriali sia soprattutto il livello della pressione fiscale, ripartito tra i tributi del governo centrale e quelli dei governi locali.

Nessuno può contestare che spetti al Parlamento stabilire l´equilibrio finanziario nazionale. E che non vi debbano essere entrate o spese "periferiche" che sfuggano al suo occhio. L´euro circola infatti dappertutto, da Bolzano a Palermo. E non vi possono essere regioni "speciali" che si sottraggano alla responsabilità per la sua tenuta. Questa dipende infatti anche dalla buona gestione del conti pubblici della nostra Repubblica, tutta intera. Preoccupa perciò che, per cautela costituzionale forse oramai eccessiva, il progetto rimandi, per le regioni speciali, questa esigenza di coordinamento generale alle norme di attuazione dei loro "statuti". Non è così che si bloccheranno i tentativi di migrazione dei comuni delle regioni confinanti con quelle "speciali" (il referendum per Cortina d´Ampezzo si farà il 24 ottobre…).

Questione numero due. La perequazione: cioè gli aiuti dello Stato e delle regioni più ricche ai territori "con minore capacità fiscale per abitante". La Costituzione garantisce infatti, per tutto il territorio nazionale, sia i "livelli essenziali" dei diritti civili e sociali, sia la copertura "integrale" delle funzioni amministrative fondamentali che incidono direttamente sulla vita dei cittadini.

Il progetto dice che lo Stato farà la sua parte con l´istituzione di tre "fondi perequativi": per le regioni, per le province, per i comuni. Ma le difficoltà si annidano negli aiuti orizzontali fra regioni e regioni.

Le regioni "ricche" hanno naturalmente i mezzi per coprire tutte le funzioni che la Costituzione attribuisce loro. Inoltre possono chiedere al Parlamento di svolgere e finanziare altri compiti ora riservati allo Stato. Quello che non possono fare è tenersi, a loro uso e consumo, tutti i soldi riscossi nel loro territorio. In ogni caso non possono sfuggire, secondo il progetto, alle "esigenze di perequazione". Ma anche per le regioni " che ricevono" si pone un problema di responsabilità nazionale. Certo, i soldi del fondo perequativo sono costituzionalmente "senza vincolo di destinazione". Ma la Costituzione non dice che sono anche senza vincoli di rendiconto. In Paesi più attenti del nostro alla spesa pubblica, chi dà i soldi pretende lo spending review e l´accountability. Cioè: fammi vedere come hai speso i "miei" soldi, e se non li hai spesi bene, non te ne do più. Le regioni "che danno" se chiedessero anche da noi un meccanismo di controllo (sanzionatorio) di questo tipo non solo sarebbero nella legittimità costituzionale, ma farebbero cosa utile per l´intero Paese.

Questione numero tre. La certezza dei dati numerici. Il progetto di federalismo fiscale è un progetto matematico. Le formule giuridiche in esso contenute rimandano continuamente a cifre. Deve essere "cifrato", con variazioni annuali, l´equilibrio istituzionale tra Stato e governi territoriali. E devono essere calcolati: i costi standard per i servizi essenziali; gli indici di fabbisogno finanziario; il mix tra tributi locali, addizionali ai tributi statali e quote "perequative"; il costo delle "funzioni fondamentali" e così via. Essenziale appare allora l´individuazione dell´autorità pubblica che dovrà compiere, in maniera incontestabile, questi complessi calcoli. L´Istat certo e in primo luogo, per il suo prestigio nazionale ed europeo (in Eurostat). Ma in vista di tutto questo, su un terreno di naturale conflittualità di interessi, sarebbe bene farlo diventare un super- Istat con più nitide garanzie di indipendenza, se non con la sua "costituzionalizzazione".

Questione numero quattro. Il rapporto tra regioni e comuni. E´ zona di guerra tra le nostre due storiche istituzioni territoriali. Guerra dura ma pura: per una volta destra e sinistra non c´entrano niente. Si scontrano due ragionamenti e non due schieramenti.

Le regioni fanno valere due vincoli costituzionali da rispettare. Il primo è il principio generale che i tributi possono essere imposti solo "in base alla legge" (qui: legge regionale). Il secondo è che le regioni concorrono con lo Stato " al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario". I comuni ricordano la specialità della norma costituzionale per cui anche essi hanno il potere di "stabilire" ed "applicare" tributi propri. E ricordano la pari dignità che la Costituzione riconosce a regione e comuni nella gestione della propria autonomia.

Il progetto non è riuscito a trovare formule d´equilibrio. Né quando, per il coordinamento fiscale, prevede che le regioni possano "istituire tributi locali" (e non solo, com´è giusto, "determinare le materie nelle quali i comuni possono stabilire tributi locali"). Né quando, per il coordinamento della finanza territoriale, prevede che i comuni siano divisi in due fasce per popolazione. Nella fascia superiore il coordinamento, anche attraverso il fondo perequativo, spetterebbe allo Stato. Per i comuni con meno abitanti, spetterebbe alle regioni. Divisione certo arbitraria e di macchinosa gestione (a cominciare dalla determinazione delle due fasce).

Detto questo è però anche chiaro che la possibilità per i nostri comuni di evitare il temuto "centralismo regionale" passa per la loro riduzione numerica, almeno per poter svolgere determinate funzioni: 8000 comuni (di cui 7 mila con meno di 10 mila abitanti) sono una enormità. E allora sia che si tratti di gestione di servizi (come sta prevedendo il "codice delle autonomie" all´esame parlamentare) sia che si tratti di poteri fiscali e finanziari, la stessa nozione di "comune" va ristretta. E per "comune" dovrà intendersi, ai soli fini della legge sul federalismo, una entità municipale singola o aggregata, con almeno 15 mila abitanti (fermo restando sotto ogni altro aspetto l´identità storica di tutti i comuni e le loro funzioni tradizionali).

Questione numero cinque. Il Senato. Cioè il problema dei problemi. Perché è evidente che nessuna delle questioni irrisolte potrà comporsi se non in un luogo dove i rappresentanti delle autonomie territoriali abbiano effettivi poteri di co-decisione. Questo progetto ha segnato anche il punto di estrema crisi e quasi di irrilevanza della Conferenza Stato-istituzioni territoriali, del cui consenso ha potuto fare a meno.

Eppure è proprio dalla Conferenza Stato-istituzioni territoriali, un organo con 30 anni di esperienze, che si deve cominciare, andando contromano, per costruire un Senato-casa delle autonomie. Un Senato con funzioni federatrici. Perché in un Paese con fortissime autorità territoriali (a cominciare dalla elezione diretta del sindaco e dei "governatori") non ha alcun senso che esse siano prive di voce e poteri diretti nel sistema parlamentare. E, come nel Bundesrat tedesco, la voce più autorevole deve essere quella dei governi territoriali. L´invenzione del nuovo Senato passa dunque per la "parlamentarizzazione" e la "costituzionalizzazione" della Conferenza; con i "governatori" di tutte le regioni, i sindaci delle nove "città metropolitane" e i rappresentanti dei presidenti delle province e degli altri ottomila comuni. E in più, non più di cento senatori eletti direttamente nelle regioni o con elezioni di secondo grado dai consigli regionali.

Del nuovo Senato nel progetto, per ovvie ragioni tecniche, non si parla. Ma le ragioni politiche dicono che è questo il punto in cui la "Costituzione della vicinanza", espressa nei complicati meccanismi del federalismo fiscale, deve congiungersi con la Costituzione parlamentare di un Paese che funzioni.

Ha fatto dunque bene il governo a forzare la mano e a portare il progetto in Parlamento, rompendo un abbandono dei temi "federali" che durava dal 2001. Certo, non c´è una questione aperta come quella della schiavitù nell´America del 1787. Ma ci sono i problemi appena visti e altri ancora. E tuttavia non vi è interesse nazionale più grande in confronto a quello di chiudere bene questa partita, prima che si concluda – quando che sia – la legislatura.

«Chiunque affermi che il peggio è definitivamente passato, o è un pazzo o è qualcuno che ha interessi da proteggere».

Così scrive l’Economist con un tono ben più ruvido di quello usato fino a qualche giorno fa a proposito delle perturbazioni finanziarie. E aggiunge che si tratta di una «grande ondata», che sovrasta i guai del mercato immobiliare americano, di cui non si può ancora misurare la portata e l’estensione; e che rivela comunque la debolezza di certe fondamenta della finanza mondiale. Segue un’analisi serrata dei fatti, che avremmo voluto leggere quando già erano sotto gli occhi di tutti, denunciati peraltro da molte parti, anche, tra le altre, su questo giornale.

L’analisi è severa. Come anche la constatazione dei fallimenti delle previsioni delle agenzie di rating e di molti ultrasofisticati modelli come quelli della Goldman & Sachs che aveva valutato i rischi di ciò che è accaduto a un pacchetto di titoli sottoposti al suo controllo con una probabilità di 1 su 100 millenni.

Devo dire che non altrettanto convincente mi appare l’analisi di Tito Boeri e Luigi Guiso riportata dalla «Voce» su Repubblica del 22 agosto. I due autori attribuiscono la responsabilità di ciò che è accaduto a tre fattori: la bassa alfabetizzazione delle famiglie dei risparmiatori americani, la cartolarizzazione di attività illiquide; la politica monetaria della Fed dal 2001 al 2003. Quanto alla prima mi pare francamente sorprendente attribuire alle vittime le colpe di avere seguito i consigli e accolto le offerte «licenziose» di credito facile e facilissimo che le banche proponevano. Come dire, la colpa è di Tecoppa, che si è fatto infilzare.

Quanto alla seconda causa l’analisi, simile a quella dell’Economist, è corretta tranne che per la giustificazione della condotta diretta a «spalmare i rischi di insolvenza su una platea più vasta»: insomma di scaricare su altri operatori che a loro volta li addosseranno a risparmiatori più o meno inconsapevoli rischi che sarebbe responsabilità fondamentale delle banche di assumere e di affrontare. Quanto alla terza causa non ci sono dubbi circa le responsabilità pesanti di una politica monetaria ultrapermissiva guidata da colui che fino a ieri ci era presentato come un mago della finanza, il signor Greenspan.

«Il re ne ha colpa», grida Laerte prima di morire insieme con Amleto. Ma è proprio così? Qui Keynes non c’entra proprio per niente. La politica monetaria americana rientra in una strategia più generale non rivolta al finanziamento di investimenti produttivi ma di un irresponsabile boom dei consumi. Il signor Greenspan non ha fatto che interpretarla. Anche Stiglitz lo critica, e non da oggi, per queste ragioni; e per lo squilibrio che da questa politica è sorto tra la finanza e l’economia reale. E qui il discorso non può non allargarsi. C’è infatti da chiedersi se alla radice di questo squilibrio non vi sia quella vera e propria mutazione del capitalismo intervenuta a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso e culminata negli anni Novanta con la liberalizzazione e globalizzazione dei movimenti di capitale. Questa mutazione segna il passaggio storico da un capitalismo ben temperato, di marca keynesiana, a un turbo capitalismo di marca neoliberista. Con il vantaggio di uno sguardo lungo sul tempo trascorso possiamo valutare meglio la performance di quel tipo di capitalismo che un marxista non pentito e certo non sospettabile di simpatie socialdemocratiche, lo storico Hobsbawn battezzò l’età dell’oro. Caratteristiche incontestabili di quella breve ma intensa esperienza furono un tasso di crescita dei paesi capitalistici avanzati molto più elevato dell’attuale, una notevole attenuazione delle disuguaglianze e una condizione finanziaria di relativa stabilità. Quest’ultima si fondava su un sistema di flussi finanziari liberi per quanto riguarda le merci e controllati per quanto riguarda i capitali. Era questa, del resto, la formula suggerita proprio da Davide Ricardo, l’autore di quella teoria dei vantaggi (e costi) comparati che costituisce la pietra angolare delle politiche di libero scambio e la cui condizione preliminare, come egli stesso spiegò era una relativa immobilità dei capitali: senza di che il commercio sarebbe stato regolato non dai costi comparati ma da quelli assoluti con conseguenti forti tendenze destabilizzanti.

Con la deregolazione dei capitali è intervenuto proprio questo: una fase di sregolatezza. Il lato positivo di questa fase sta nel potente impulso dato alla crescita di grandi economie stagnanti come l’India e la Cina, quello negativo, dall’aumento della instabilità e da una abnorme espansione della finanza e un sistema di flussi del risparmio perversi, diretti al finanziamento dell’economia americana, la più ricca e la più indebitata del mondo. Ciò non significa che la risposta a questa «confusion de confusiones» come un osservatore del Seicento definiva la Borsa di Amsterdam, possa comportare un ritorno al capitalismo keynesiano del quale non esistono le premesse economiche e politiche. Significa però che l’attuale situazione di sregolatezza non è a lungo sostenibile, come le frequenti fibrillazioni finanziarie dimostrano.

Vi è un’aria di riscoperta della Costituzione che assomiglia sempre di più ad una riconquista. Lontani i tempi dell’"inattuazione" o del "disgelo" o dell’"arco" costituzionale, che facevano apparire quel testo come un affare di politici e di specialisti, gli articoli della Costituzione si stanno rivelando uno strumento potente per affrontare e risolvere problemi difficili dell’organizzazione sociale, della stessa vita quotidiana. Una riscoperta "dal basso", si potrebbe dire.

Gli esempi sono davanti a noi. Un commento di Adriano Sofri sul proscioglimento dell’anestesista del caso Welby è stato giustamente presentato su questo giornale con il titolo "Quel semplice articolo della nostra Costituzione", che è poi quello che, riconoscendo il diritto alla salute, vieta di imporre trattamenti che contrastano "con il rispetto della persona umana", consentendo così a ciascuno di noi di fare liberamente le proprie scelte di vita. La Corte di Cassazione, riprendendo indicazioni della Corte costituzionale, ha appena ribadito che il diritto alla identità sessuale è fondato sull’articolo 2, che tutela la libera costruzione della personalità. Nella discussione sulle coppie di fatto è sempre l’articolo 2 a ricordarci che devono essere tutelati i diritti derivanti dal far parte di una "formazione sociale".

Sono soltanto gli ultimi casi che, insieme a molti altri, smentiscono la tesi di una Costituzione invecchiata anche nella sua prima parte. È vero il contrario. La Costituzione si conferma "presbite", capace di guardare lontano, secondo la felice definizione di Piero Calamandrei, tanto che sono proprio i problemi posti dai mutamenti culturali e dalle novità tecnologiche a trovare risposte nelle norme costituzionali, senza che sia sempre necessario ricorrere a nuove leggi. E lo fa con la forza dei valori in essa riconosciuti, smentendo in tal modo anche la tesi di una società svuotata di riferimenti forti, prigioniera ormai di una deriva "relativistica".

Ma ci sono anche altre conferme dell’attualità del modello costituzionale italiano.

Analizzando qualche settimana fa i problemi delle identità nazionali e dell’integrazione, Jean-Paul Fitoussi così scriveva sempre su questo giornale. «L’uguaglianza di fronte alla legge è certamente un principio essenziale, ma debole; che andrebbe quindi completato con una concezione più esigente dell’uguaglianza, grazie a un impegno della repubblica proporzionale all’entità dell’handicap di ogni suo cittadino, per liberarlo dal peso della sua condizione iniziale». Ma questo è esattamente lo schema che si ritrova nell’articolo 3 della Costituzione che, ribadito il principio dell’eguaglianza formale, lo integra appunto con l’obbligo della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Un’indicazione, questa, particolarmente importante per cogliere la dimensione complessiva dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza. Proprio le innovazioni scientifiche e tecnologiche impongono la considerazione dell’eguaglianza come "risultato". Ad esempio, per garantire effettivamente l’accesso alle cure e ai farmaci, l’accesso alla conoscenza reso possibile da Internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi le condizioni materiali e culturali creano condizioni di disuguaglianza e di esclusione.

La Costituzione rivela così una specifica virtù. Obbliga a fissare lo sguardo su un orizzonte largo, a valutare l’intero contesto in cui si collocano le questioni da affrontare. A qualcuno, tuttavia, questo contesto appare monco, amputato da una adeguata considerazione del mercato e della concorrenza, che meriterebbero una più adeguata "dignità costituzionale". Ma è davvero così?

La libertà dell’iniziativa economica privata è affermata esplicitamente in apertura dell’articolo 41, e questa formulazione dovrebbe essere ritenuta soddisfacente da chi vuole che il mercato abbia un suo spazio costituzionale. Certo, quell’articolo afferma poi che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana: e qualche avventato riformatore ha proposto di riscriverlo eliminando ogni vincolo o limite all’attività d’impresa. Ma i nuovi interventi legislativi sollecitati dal dramma delle morti sul lavoro confermano l’attualità e l’essenzialità, dunque l’ineliminabilità, del riferimento alla sicurezza. E il limite rappresentato dal rispetto della dignità è un segno ulteriore della lungimiranza della Costituzione. Due anni fa la Corte di giustizia delle Comunità europee, un organo certo non sospetto di ostilità al mercato, ha adottato proprio la linea indicata dall’articolo 41 fin dal 1948, affermando che il principio di dignità deve essere sempre tenuto presente nel valutare la legittimità delle attività economiche.

Ancora. La vita quotidiana ci parla del precariato, che ha appena sollecitato l’attenzione del Presidente della Repubblica, e dei problemi della famiglia, tante volte sollevati dalle diverse forze politiche. Ricordiamo, allora che l’articolo 36 stabilisce che la retribuzione deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia «una esistenza libera e dignitosa». Questa norma è già servita per respingere la tesi di chi pretendeva che la legittima misura della retribuzione fosse solo quella che si limitava a garantire la mera sopravvivenza del lavoratore. Oggi ci ricorda che nessuna esigenza produttiva può giustificare la miseria salariale alla quale sono costretti tanti lavoratori; e che le tanto invocate politiche della famiglia non possono consistere solo in interventi pubblici, ma esigono pari attenzione per il modo in cui si configurano concretamente i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro.

Questa lettura della Costituzione non serve soltanto per sottolineare l’attualità della sua prima parte (altra questione è la buona "manutenzione" della seconda parte). Ne conferma la vitalità nelle aree più sensibili della vita sociale, nelle materie in cui più acute si manifestano le esigenze individuali. Una progressiva e crescente vicinanza della Costituzione ai cittadini può divenire una via per riconciliarli con le istituzioni. Una impresa che sembra troppo spesso disperata, ma che non può essere abbandonata, a meno che non ci si voglia rassegnare ad una definitiva regressione culturale e politica, ignorando anche la nuova penetrazione nella società dei principi costituzionali.

Ma l’auspicabile consapevolezza culturale e politica esige un’attenzione intensa per un’ interpretazione della Costituzione che ne utilizzi le potenzialità per dare risposte alle nuove domande ininterrottamente poste dalle diverse dinamiche che percorrono la società. Che cosa diventa la libertà di circolazione in un mondo sempre più videosorvegliato? La libertà di comunicazione quando si conservano tracce di ogni nostro contatto elettronico? La libertà di manifestazione del pensiero nell’era di Internet? La libertà personale quando si moltiplicano le forme di controllo del corpo? E bisogna guardare alla conoscenza come bene comune, alla Rete come il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, ai nuovi intrecci tra genetica e costruzione del corpo, alla questione ambientale che in Italia fu possibile affrontare proprio partendo dalle norme costituzionali su paesaggio e salute.

Questioni ineludibili. Se libertà e diritti non vengono considerati nel nuovo ambiente tecnologico, si rischia una drammatica riduzione delle garanzie costituzionali. Le capacità prospettica della Costituzione deve essere utilizzata per mettere a punto una agenda dei diritti consapevole di un futuro che è già tra noi. L’annunciato rinnovamento della politica guarderà anche in questa direzione?

Caro Epifani, ci sentiamo accerchiati? La firma sotto il protocollo, le riserve a proposito del protocollo, Fassino che non comprende le riserve, la sinistra e i riformisti, i metalmeccanici e Bonanni. Rifaccio la domanda, sfogliando l’ultimo numero dell’Espresso, quello con la copertina dedicata a Epifani, appunto, ad Angeletti e a Bonanni.... Sotto il volto dei tre segretari il titolo è «L’altra casta». E ancora «Privilegi. Carriere. Stipendi. E fatturati da multinazionale. I conti in tasca ai sindacati». Nelle pagine interne, poi, un lungo elenco di malefatte, una somma di delitti sotto il segno del potere.

Che dire del titolo, “L’altra casta”. Senza dimenticare quello all’interno, “Così potenti, così arroganti”...

Vi sentite percorsi da un brivido di indignazione?

«Sì, siamo indignati. Siamo indignati per un’operazione a freddo, senza argomenti, senza nessuna indagine, tra distorsioni intollerabili. Come se il proposito fosse: abbiamo fatto i conti con la politica, adesso tocca al sindacato. In un’altra intervista all’Unità, avevo accennato al rischio di un diciannovismo di ritorno... ».

Spieghiamo “diciannovismo”. Come novant’anni fa .

«Cioè, il tentativo di mettere alla gogna le istituzioni: prima si pensa alla politica e ai partiti, poi si passa al sindacato. Che senso vuole avere la sistemazione dentro una casta di sindacalisti e sindacati? Perché piegare a questo disegno la storia? Cito l’intollerabile dimenticanza che sta all’origine di quanto si scrive a proposito di patrimoni immobiliari. Una dimenticanza che rimuove la nostra storia e il fascismo, perché si cancella il fatto che il cosiddetto regalo delle sedi fasciste ai sindacati fu un risarcimento minimo di quanto i sindacati patirono dal punto di vista politico, umano e materiale nel ventennio. Vogliamo ricordare quante sedi sindacali vennero incendiate, devastate, distrutte? Occultare o dimenticare sono procedimenti che dovrebbero impensierire chiunque abbia coscienza democratica e quindi anche un settimanale come l’Espresso che nella costruzione di quella coscienza ha avuto sicuramente parte. Se tutto si rimuove, se tutto si azzera, si finisce con lo smarrire il senso di tante parole come “storia”, come “diritti”, come “solidarietà”... E naturalmente come “sinistra”...».

Con argomenti che abbiamo letto e riletto sui fogli del centrodestra: i soldi dei Caf...

«Come se li avessimo cercati noi, i Caf, come se comunque non rappresentassero un servizio pubblico, utile a tanti. Un calderone inaccettabile, per concludere che il sindacato gode di un eccesso di potere. Se penso a questa accusa in rapporto al ruolo che abbiamo esercitato durante la complicata trattativa di questi mesi, devo dedurre che proprio questa forza espressa nel confronto con il governo e con le altre parti sociali si vuole colpire. Questa forza e questa autonomia... È evidente che qualcuno coltiva l’idea di una società semplificata, dentro la quale i poteri forti si contrappongono agli individui, senza più corpi di mezzo, senza più partiti o sindacati a mediare, fornendo alla affermazione del più forte sul più debole un modello tecnocratico, secondo un’ideologia liberista che riduce il mondo al mercato, spazzando via regole e rappresentanze, considerate un impiccio, un intralcio».

Se questa è la dimensione dello scontro, mi pare che la miopia non faccia difetto alla nostra sinistra, molto critica soprattutto dentro casa...

«C’è il vizio di cercare gli avversari tra i vicini, mentre probabilmente gli avversari stanno da un’altra parte. Ma in questo modo si smarrisce il senso di un’appartenenza e questo dovrebbe far riflettere la sinistra...».

Quando litigare diventa una malattia...

«Lo chiarisce Bersani...»

Quando sostiene che la parola sinistra non deve essere lasciata incustodita. È una raccomandazione che rivolge al nuovo Partito democratico...

«E a ragione. Sembra passare uno slogan: quello della contrapposizione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Mentre dovrebbe finire in primo piano ciò che nella diversità delle posizioni comunque significa “sinistra”: e cioè solidarietà, senso della giustizia, difesa dei più deboli, concezione del lavoro. Valori, che mi auguro possano appartenere a un campo più vasto, ma che sono ancora il tratto della sinistra attraverso il quale ricostruire un linguaggio comune che sia libero da chiusure, schematismi, ideologismi. Ne dovrebbero discendere programmi e scelte, che, al di là delle articolazioni, riconducono a questo linguaggio. Dovrebbe valere anche per il futuro Pd».

Speriamo. Veniamo al presente del protocollo e della firma. Firma con riserve. Fassino ha detto di non capire. Non c’è il rischio che siano in molti a non capire, di fronte a un accordo giudicato comunque “buono”?

«Prima viene il dispiacere perché con poco sforzo si sarebbe potuto garantire un profilo riformatore più alto... Se penso a quei quattro punti che abbiamo indicato... Lo staff leasing: c’era l’impegno del governo a cancellarlo. La previdenza agricola: un progetto pronto è stato accantonato. Il lavoro a tempo determinato: si deve capire che bisogna affrontare il problema del “termine”, altrimenti si apre la strada a tutti gli abusi... Sono obiettivi importanti, ma non sono una montagna insuperabile per il governo. Spero che una risposta serena alle nostre domande comunque arrivi e mi pare che la discussione nel corso del consiglio dei ministri sia stata interessante, dal nostro punto di vista».

Queste le critiche. Anche la decontribuzione degli straordinari. Poi viene il buono... Sulle pensioni siamo tutti sensibili.

«Guai a sminuire il valore di questa intesa. L’aumento delle pensioni, l’aggancio al costo della vita... Cose note. Soprattutto bisogna ricordare che è il primo accordo che pensa ai giovani, dal riscatto della laurea alla misura dei coefficienti di rivalutazione. Per questo mi chiedo perché rinunciare a un passo avanti sui contratti a termine. Per questo, per tutte queste buone cose, malgrado le critiche, abbiamo firmato, assumendoci una responsabilità di fronte ai nostri iscritti, ai lavoratori, al paese. Come non hanno fatto tante altre grandi associazioni di interessi... Il sindacato ha cercato la difesa di un interesse collettivo, che riguarda il paese nella sua complessità, con un’attenzione che dovrebbe essere di tutti. Il senso della concertazione dovrebbe vivere in questa attenzione comune».

Che pensa allora del sì di Montezemolo, a condizione che non si tocchi nulla?

«Mi fa piacere, anche se non capisco il vincolo della immodificabilità. È assurdo pensare che non si possa più toccar nulla... Anche nel merito di questioni molto particolari. Ad esempio: non capisco perché Confindustria debba difendere lo staff leasing, non capisco perché non debba mirare ad una soluzione legislativa per il lavoro a termine, argomento che si ritroverà di fronte ad ogni discussione contrattuale, perché si capisce che non accetteremo mai situazione in cui il contratto a termine non torni alla sostanza chiara di contratto a termine».

Con la firma e con le riserve, andrete a chiedere il voto di lavoratori e pensionati...

«Il voto di tutti, insieme con Cisl e Uil. Vogliamo che la consultazione sia un momento di grande democrazia, di partecipazione, di coinvolgimento, perché non chiediamo soltanto un voto. Chiediamo di parlare e di spiegare, ma anche di ascoltare: vogliamo ascoltare le ragioni del malessere...».

Ma la Cisl si vorrebbe rivolgere solo agli iscritti.

«Legittimo che chieda un voto per sé. Del resto si devono riconoscere sensibilità diverse. Noi, unitariamente, vorremmo qualche cosa di più di un semplice voto. E torno da capo. Torno agli attacchi rivolti ai sindacati, ai tentativi di delegittimazione. Ai quali si deve rispondere».

A ridar forza al sindacato sarà anche la battaglia d’autunno. Si parla di iniziative diffuse, di una manifestazione a Roma...

«Vogliamo riproporre il tema dei migranti. In Parlamento stazionano quattro disegni di legge. Tutti fermi, mentre mi pare che non si possa attendere di fronte a un fenomeno sempre più vistoso, sempre più presente nella realtà italiana. Poi ci sono i giovani, poi c’è il lavoro precario. Tante iniziative locali, una grande iniziativa unitaria, la manifestazione... Queste sono le mie proposte».

Leggendo i giornali, al di là della “casta”, si scoprono contrasti dentro la Cgil, trame tra un sindacato e l’altro. Immagine non proprio di solidarietà.

«Ogni qualvolta la politica è scossa da un terremoto, anche il sindacato ne risente. Ma è sbagliato raccontare la discussione all’interno dei sindacati e della Cgil come fosse una trasposizione banale della discussione politica. La Cgil ha dentro di sé una forte convinzione della propria autonomia».

Ma della divisione tra cosiddetta “sinistra” e “riformisti” sapete qualche cosa anche voi.

«Ricordiamo che c’è stato un voto e che non è stato unanime. Una parte del direttivo ha votato contro. Rinaldini si è astenuto. Penso che questi compagni sbaglino, ma è legittimo sbagliare. La linea è però quella indicata dal voto».

Qualcuno, però, scrive che le parti si sono rovesciate: la Cgil in balia di questa insinuante e pervasiva sinistra, che pare il demonio e ha messo nell’angolo i riformisti. E rimpiange i tempi di Cofferati, quando le distinzioni erano nette.

«Mi sembra un’analisi profondamente sbagliata. che fa torto anche a Cofferati. Il pluralismo è un bene».

E comunque, si vedrà in autunno.

«Da una grande consultazione ci aspettiamo una grande legittimazione del sindacato, proprio quando il sindacato è sotto schiaffo. Recuperare una grande convalidazione democratica: questa è la sfida».

Signor Presidente del consiglio, ha ragione di preoccuparsi. Ho letto con attenzione quel che Lei ha risposto attraverso Liberazione e il manifesto alle sinistre che, ne conveniamo, meglio sarebbe chiamare popolari che radicali (ricordando, a scanso di equivoci, che si chiamano abusivamente «popolari» i partiti di destra detti una volta, e non per elogiarli, «moderati»). Ma lasciamo la filologia. Lei sa come noi dai sondaggi e dagli analisti che delusione e scontento corrono nella parte socialmente più debole del paese - quelli che cercano di vivere del proprio lavoro, quelli che devono vivere solo della pensione, quelli che in varia misura sono impoveriti o marginalizzati - e che tutti hanno votato per il Suo governo sperandone una sorte migliore. Questo «popolo» è poi quello che ha difeso il paese, varato la Repubblica e con i suoi figli ha costruito l'Italia dal dopoguerra a oggi.

Ora è un errore quando Lei scrive: tutti sanno che la priorità è il risanamento dei conti pubblici. No, non lo sappiamo tutti. Quel popolo non lo sa. Io non lo so. So che per chi da qualche tempo in qua non riesce più ad arrivare alla quarta settimana del mese, per i salari oggi assai più bassi di quelli dei tedeschi o dei francesi, per gli otto milioni di pensionati che non percepiscono 750 euro, l'80% dei quali non raggiunge i 500 euro, il primo obiettivo è riuscire a vivere. So che per i precari, che non sono affatto soltanto giovani, il primo obiettivo è che gli vanga rinnovato il contratto a termine, e anche questi sono milioni, non so se tre o quattro. Il paese può chiedere anche a loro dei sacrifici, non sono dei dementi e vi sono fin troppo abituati. Ma un governo con le sinistre lo può fare soltanto se ha messo in atto una inversione nella redistribuzione dei redditi, che dalla fine degli anni '70 in poi si sono divaricati in modo gigantesco. Lei lo sa. È diminuita la ricchezza pubblica, è cresciuta in modo esponenziale quella privata, ma non per tutti, per una classe medio alta che sbandiera consumi di spreco, mentre si sono impoveriti i ceti bassi e medio bassi.

Il governo Berlusconi ha svergognatamente favorito questa tendenza. Per questo è stato battuto. Ma il suo governo non ha invertito la rotta. Forse che i meno abbienti non lo vedono? A chi gli dice «prima mettiamo a posto i conti pubblici», obiettano: «Sì, ma perché cominciate da noi?».

Hanno ragione. Sono le sole categorie sociali investite come tali. Delle altre si persegue, se si becca, solo chi evade le tasse, reato neppur prevedibile per chi ha un reddito fisso. Anche questo Lei sa come me. Ma la sua filosofia è che il governo deve favorire chi più ha perché finalmente si risolva a investire nel nostro asfittico capitale produttivo italiano (a dire il vero, con la legge sul Tfr il suo governo obbliga a investire soltanto chi non ha). Non le attribuisco alcuna intenzione di dissanguare i poveri.

Ma la persuasione, propria della Banca Centrale Europea e della Commissione che Lei ha a lungo diretto, che solo iniettando sangue, cioè soldi, nelle imprese e garantendo minuziosamente il libero gioco del mercato si avrà una crescita economica, della quale, poco a poco, profitteranno tutti, i più disagiati inclusi. Non sarebbe il caso di riflettere sui risultati di questa scelta, che ormai ha almeno quindici anni? Facciamo un bilancio. Una vera crescita non c'è stata. L'Europa galleggia appena attorno al 2,5 per cento, e l'Italia è quella più in basso fra i paesi industrializzati. In Francia e Olanda il progetto di trattato costituzionale, sottoposto a referendum, è stato bocciato e sarebbe successo anche in Italia, se non fosse passato silenziosamente al Parlamento. Dove si vorrebbe mandare quel che ne resterà. Le previsioni Sue, di Barroso e di Almunia non si sono realizzate. Non sarebbe il caso di trarne qualche conclusione? E di capire che c'è da diffidare della politica non economica ma monetaria che avete fatto, imponendo tagli pesanti su occupazione, previdenza, sanità e istruzione, mentre i detentori di capitali non investono in produzione ma nella speculazione, immobiliare e no?

Questo è il trend. Non lo dico io, lo dicono gli Stiglitz e i Fitoussi, che non definirei massimalisti. Non ci ripeta, prego, l'elenco di quel che siete riusciti a fare, alzare di sì e no cinquanta euro le pensioni minime. Lasci dire a Fassino che lui «non capisce» come si possa essere scontenti, Cgil inclusa, del cosiddetto pacchetto welfare. A prova che non ha più idea di come la gente campi. Noi, viceversa, capiamo che i problemi che avete davanti sono grandi, fra l'incudine dei parametri europei e una ripresa che non vuole ripartire sul serio. Ma perché avete usato il tesoretto per rientrare prima nel debito, invece che alleviare il livello crescente delle vecchie e nuove povertà? Eppure Sarkozy ha dichiarato alla Ue: «Sapete? Rientreremo non nel 2008 ma nel 2012». E ha difeso Alstom e Eads soltanto per una certa idea di sé e del primato della sua nazione. Almunia non lo ha scomunicato. Forse proprio per questo, mentre sul lavoro mena botte da orbi? Perché Lei non si sente di difendere con altrettanta determinazione una moderata causa sociale in nome della quale ha avuto i voti?

Noi, come Rc e Pdci e i Verdi, non auspichiamo davvero la sua caduta. È la destra della Sua coalizione che sembra sognare nuove maggioranze. Noi le diciamo che è la vostra politica tutta e solo monetaria che va cambiata. Ragionevolmente. Non è né giusto né lungimirante logorare le sinistre popolari, o la Cgil come Lei ha fatto imponendo un aut-aut a Epifani. Crede che senza una Cgil forte un governo di centrosinistra reggerà? Non reggerà. Non ha davanti a sé molto tempo. Veda quel che è successo in Francia nel 2002, in Germania alle ultime elezioni, e succederà alle prossime in Gran Bretagna. La destra è abile nel populismo, e aspetta solo di fare strame dei ceti più deboli. Non li spinga alla disperazione. Non aspetto risposte né le chiedo. Ma ascolti quel che le segnalano con insistenza due giornali modesti e onesti, e le dirà la manifestazione di ottobre. Non sono in pochi a pen

Il Governo sta per varare il nuovo piano economico/finanziario di Anas. L'azienda, trasformata in S.p.A. nel 2002 è del Ministero del Tesoro e risponde agli indirizzi del Ministero per le Infrastrutture. Gestisce in convenzione dallo Stato 20.842 Km di strade di interesse nazionale e subconcede 1.206 km di autostrade. La prima novità è il ripiano della perdita di esercizio maturata da Anas (427 milioni), sui cui bilanci le magistrature contabili e ordinarie stanno indagando da tempo. La seconda novità (già in Finanziaria) è che la concessione passa 30 a 50 anni, cioè fino al 2052. Praticamente per sempre. Lo spostamento del termine - non dovuto, secondo l'Autorità garante del mercato e della concorrenza - consente di diluire nel tempo il rientro della quota parte di esposizioni finanziarie che l'Anas dovrà assumersi per realizzare le opere inserite nell'Allegato Infrastrutture al Dpef e appaltabili già nel prossimo quinquennio. Un elenco, il «Master plan infrastrutture prioritarie», che il ministro Di Pietro ha concordato in un lungo tour per lo Stivale con i governatori delle regioni.

Nel complesso le risorse necessarie sono state stimate nel quinquennio 2007-2011 in: 7 miliardi e 100 milioni di opere «ordinarie» e 12 miliardi e 220 milioni di «grandi opere» riconfermate dalla «legge obiettivo» di lunardiana memoria.

L'Anas potrà contare su modesti trasferimenti annuali sicuri dallo Stato: 1.083 per l'anno in corso e 1.500 per ciascuno degli anni successivi per un montante finanziario quinquennale di 7.103 miliardi. Attenzione, però: dentro questa cifra dovrebbero esserci anche le opere di manutenzione (almeno 2 miliardi e mezzo) ordinarie e straordinarie, gli interventi per la sicurezza (eliminazione dei «punti della morte»), l'ambientalizzazione e quant'altro serve a far funzionare il carrozzone aziendale.

A questo punto il problema che si è presentato al ministro Di Pietro e al nuovo presidente dell'Anas Pietro Ciucci è il seguente: come riuscire, con così modeste risorse finanziarie a disposizione, a mantenere la promessa di «appaltabilità» del sempre più lungo elenco di opere che regioni, associazioni industriali, società autostradali, costruttori, trasportatori e lobby varie dell'asfalto chiedono con sempre più insistenza? Se per le «grandi opere strategiche», già ricomprese nella Legge obiettivo, Di Pietro potrà contare su finanziamenti speciali direttamente contrattati con Prodi e Padoa Schioppa, di finanziaria in finanziaria (opere come il Passante di Mestre, la Salerno Reggio Calabria, ecc.), per il mantenimento e l'ammodernamento delle strade e autostrade «minori» nulla è garantito. Ecco allora la nuova filosofia contenuta nel Piano economico e finanziario 2007-2053: «completare il processo di trasformazione di Anas in impresa»; avere un «approccio imprenditoriale e di mercato» e, parola chiave, raggiungere il «deconsolidamento della Società dal bilancio dello Stato». Detta in altro modo: la fuoriuscita dello Stato dai settori imprenditoriali di gestione dei servizi pubblici e la consegna di Anas nelle braccia del mercato finanziario privato. L'Anas è spinta a trovarsi finanziamenti ricorrendo agli istituti di credito privati. Ma sappiamo che questi non sono dei filantropi: chiedono garanzie e pretendono piani onerosi di rientro dei prestiti. Il risultato sarà che ciò che lo Stato risparmia non trasferendo denari sufficienti ad Anas, l'Anas dovrà spendere con sovrappiù di interessi al sistema bancario.

Si tratta di una operazione pianificata dalle banche con la regia di Padoa Schioppa. Qualche mese fa, puntuale come un orologio, è nato il Fondo Infrastrutture (amministratore delegato, guardacaso, quel Vito Gamberale già della società Autostrade dei Benetton), un polo bancario con due miliardi di capitale, per incominciare, specializzato in credito alle grandi opere nato tra Cassa Depositi e Prestiti (14,3%) , Fondazioni bancarie, Unicredito, Intesa San Paolo, Lehman e persino un fondo previdenziale dei geometri. La triangolazione è chiara. Questo Fondo dovrà fare da apripista e finanziare ciò che lo Stato non riesce o non vuole più finanziare. Ma chi pagherà?

Qui subentra l'altra innovazione nel piano Anas: il «pedaggiamento, ombra o reale» delle strade di più lunga percorrenza. «Ombra», su 8mila Km della rete esistente, nel caso in cui sia lo Stato a pagare i costi di gestione (compresi gli ammortamenti agli investimenti e agli oneri finanziari per la realizzazione), «reale», su altri 1.500km, dove verranno costruiti caselli fisici o virtuali per l'esazione delle tariffe direttamente agli utenti. Insomma, alla fine continueremo a pagare noi. Con una certezza in più: dovremo remunerare anche i servizi resi dalle banche, dai gestori dei caselli, dai concessionari vari. Ciò nonostante, c'è chi è pronto a giurare che pagheremo di meno in termini di prezzo/qualità considerando l'inefficienza delle gestioni pubbliche dirette. Non lo si può escludere in linea teorica e pratica, ma penso che ci sarebbe un modo meno contorto e più diretto di rimediare: riformare le gestioni pubbliche. In alcuni stati degli Usa le autostrade sono affidate a enti no-profit, la mobilità è considerata un diritto primario e conseguentemente le strade un servizio di utilità generale, collettivo, non un investimento speculativo. Dalle reti infrastrutturali dipendono altre attività economiche e sociali e in molti casi non sono fisicamente duplicabili, è cioè impossibile creare vera concorrenza, quindi un vero mercato. Sono monopoli naturali ad elevata redditività che creano rendite e sovrapprofitti. Non a caso sulla testa delle società che gestiscono servizi pubblici (utilities) volano avvoltoi sempre più voraci e prepotenti. In generale andrebbe riconosciuta la natura non capitalistica della gestione dei servizi pubblici. In altri termini bisognerebbe rispondere alla domanda che si ponevano gli economisti liberali due secoli fa: è moralmente lecito guadagnare, ad esempio, dalla gestione di un ospizio per i poveri? E, per estensione, è giusto fare profitti (privati) sulla pelle di consumatori abbandonati dallo Stato?

La competente Commissione della Camera ha formulato molte osservazioni critiche e Rifondazione e Verdi non hanno votato il parere, ma c'è da credere che la marcia verso la privatizzazione delle strade statali proseguirà.

Non è «solo» su pensioni e mercato del lavoro che il profilo generale del governo Prodi rischia di connotarsi come sempre più distante da bisogni e aspettative. La lista delle sofferenze rischia di allungarsi, le emergenze sociali di incancrenirsi. E' quanto sta accadendo sulle politiche abitative. Drammaticamente, perché l'azzeramento del molto e buon lavoro che era stato compiuto in questo ambito provoca oltre che sconcerto, la messa in discussione persino della credibilità del governo. Se linee di indirizzo precise e dettagliate anche nella quantificazione delle risorse, concordate da ben quattro ministeri, dalla Conferenza delle regioni, dall'Associazione dei comuni, dalle organizzazioni di settore e sindacali vengono da un giorno all'altro in sostanza annullate, il senso di impotenza si fa grande.

Le politiche neoliberiste hanno significato scelte precise e regressioni altrettanto nette. Veniamo da anni in cui in nome della supremazia del mercato si sono deregolamentate le locazioni, messi in atto giganteschi processi di privatizzazione e interrotti i finanziamenti all'edilizia residenziale pubblica. Così mentre la rendita immobiliare è schizzata alle stelle, e il «mattone» è diventato uno dei più lucrosi meccanismi di valorizzazione del capitale, dieci milioni di persone, 75% delle quali ha un reddito inferiore ai 20.000 euro annui, composte in larga parte da anziani, precari, migranti, hanno dovuto arrangiarsi. Sopportare affitti pari a metà di redditi già bassi e sommare al ricatto del lavoro precario, quello dell'abitazione. Oppure non farcela, come accade a molti, con il dato terribile degli sfratti per morosità, passati negli ultimi venticinque anni dal 13% al 70% del totale.

Un emergenza sociale pericolosa, soprattutto nelle realtà metropolitane dove si concentrano le contraddizioni più acute con la percentuale degli affitti che raddoppia rispetto al resto del paese, espellendo in periferie lontane i ceti popolari. La precarietà del lavoro e l'impossibilità di una casa hanno fatto crescere in dieci anni di ben 8 punti la percentuale di quanti nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni restano nella famiglia di origine, portandola all'abnorme 43%.

A questa situazione il governo aveva promesso di porre rimedio. A partire dalla cosiddetta legge Ferrero per la prima volta si erano messe insieme risposte all'emergenza e strumenti di programmazione e, con un inversione di tendenza nettissima, si era affermato che all'edilizia residenziale pubblica e sociale dovevano essere destinati annualmente un miliardo e mezzo di euro, che il diritto alla casa doveva diventare una prestazione essenziale del Welfare, che il costo dell'affitto doveva essere detraibile dalla dichiarazione dei redditi, mettendo in campo un meccanismo di conflitto di interessi tale da poter efficacemente contrastare il mercato nero, che il canale concordato doveva essere rafforzato e il fondo sociale raddoppiato, mentre in 6 mesi andavano recuperati i 25.000 alloggi pubblici non utilizzabili perché degradati. Il piano avrebbe dovuto essere avviato con urgenza e un decreto era già pronto per avviare questa prima fase di interventi con la messa a disposizione di 600 milioni di euro.

Poi improvvisamente il decreto è scomparso e del piano casa non si parla più. Mancanza di copertura finanziaria. Non è valso fino ad oggi che l'Anci abbia rotto i rapporti istituzionali e minacci iniziative più dure, né che i sindacati dell'inquilinato denuncino quanto sta accadendo, compreso quando la proroga degli sfratti del 15 ottobre scadrà per ultrasessantacinquenni, malati terminali, disabili. Né sono valsi i tentativi del Ministro della solidarietà sociale di avere risposte.

La questione non può finire così. Vanno date risposte immediate per l'emergenza e va impedito che si abbandoni il percorso delineato. Ma servirà tutta la capacità di costruire iniziative, mobilitazioni, conflitto. Servirà un autunno caldo di protagonismo delle sinistre sociali e politiche. E' l'unica chance che abbiamo di tenere aperta una possibilità di cambiamento.

L’autrice è componente della segreteria nazionale Prc-Se

Una città sarda sul mare, passeggiata sotto il primo sole estivo. Una ragazza cinese ha appena finito di accomodare per terra, su un telo colorato, i soliti oggetti. Un vigile intima lo sgombero e non si allontana fino a quando l'ultimo accendino non è riposto nella scatola di cartone. Tutto avviene in silenzio, secondo un rituale collaudato che non prevede spiegazioni: basta un cenno è la legalità è ristabilita. La scena, molto penosa, si ripete spesso, dicono. Nulla sfugge o dovrebbe sfuggire, a nessun abusivo è consentito di entrare in concorrenza con il mercato legale, neppure in epoca di liberismo estremo. La concorrenza: quei centoventi centimetri quadrati, su suolo pubblico, di merce che tutti noi compriamo per beneficenza, è difficile immaginare che possano impensierire davvero quelli che «noi paghiamo le tasse, eccetera».

Il rischio, solito, è di apparire alfieri dei fuorilegge. Ma occorre dirla qualcosa sulla asimmetria di questa inflessibile linea, reclamata da qualcuno in questa città e in quest'isola baciata dalla fortuna di flussi turistici inattesi - che aeroplani a basso costo scaricano a terra di continuo. Ma povera e memore dell'emigrazione. Per cui ti aspetteresti maggiore comprensione verso questi cascami della globalizzazione a mille facce. A volte conveniente a volte meno. A volte servirebbe un po' di tolleranza o solo di buon senso. E pure un po' di solidarietà. In paesi dell'interno della Sardegna, piccoli e sfigati, dove di emigrati ne sanno di più, si vedono i venditori abusivi che girano porta a porta e gli offrono pure da bere. Non scrivo il nome della città - facile da indovinare - perché la gran parte dei suoi abitanti è ospitale, altruista, ecc. Anche se vota a destra. Ma ecco due considerazioni per spiegare la perplessità su questa sbilenca superefficienza, proprio perché sappiamo qualcosa della tolleranza ampia - ed ecco la asimmetria - verso metriquadri occupati e metricubi realizzati, anche su suolo pubblico, che c'è sempre stata in queste riviere preziose, dove la sera l'estate profuma di mirto rosso e bianco. Molte attività si svolgono su aree demaniali - legittimamente, ci mancherebbe - ma forse con generosità eccessiva di timbri e firme, visto che di spiagge libere non ce ne sono più e che i tavolini di bar e ristoranti occupano con una densità intollerabile strade molto strette e splendide piazzette vista mare impedita dagli ombrelloni. Ci sono poi - al riparo dello slogan «tutti devono lavorare» - trasgressioni continue, specie nelle ore notturne, di cui si da conto spesso sulle pagine dei giornali, perché la violazione alle regole di convivenza civile supera di molto la pazienza degli abitanti. Musica oltre i limiti e violazioni agli orari di chiusura degli esercizi stabiliti nelle ordinanze sindacali. E c'è di più, se si guarda bene. Se si pensa che il giardino di una vecchia scuola nel centro di questa città è stato generosamente messo all'asta, molti mq di area pubblica per farci appartamenti e negozi importanti in cambio di qualche parcheggio. Ecco perché che quel metro quadro di strada occupato - reversibilmente - da un cinese o senegalese appare nella sua vera inoffensiva dimensione.

Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Clementina Forleo, chiede al Parlamento di rendere «utilizzabili» nel processo le intercettazioni telefoniche in cui sono incappati i Ds Massimo D´Alema, Nicola Latorre, Piero Fassino; il senatore e i deputati di Forza Italia, Grillo, Comincioli e Cicu. Il ceto politico – in coro e con allarme, a destra come a sinistra – discute i toni e le parole che il gip, Clementina Forleo, ha ritenuto di adoperare nella sua ordinanza. Il ministro di giustizia si spinge addirittura a ipotizzare contro il giudice «una potenziale lesione dei diritti e dell´immagine di soggetti estranei al processo». I «soggetti estranei» sarebbero i politici di cui si parla. Al contrario, il giudice li definisce «complici consapevoli» dei reati ipotizzati nel tripartito progetto di scalata Antonveneta/Bnl/Rcs-Corriere della Sera. Chi è chiamato a giudicare? Il ministro o il giudice? Forse il giudice anche quando si tratta di politici, e allora la confusione di linguaggi, interessi e opposte (e forzate) interpretazioni può far perdere il filo.

Che cosa accade? Accade che, dopo la pubblicazione a goccia e a boccone, delle intercettazioni di due anni fa finalmente abbiamo - con la richiesta di utilizzabilità - un giudice che configura penalmente "il fatto" e non è tenero con i politici coinvolti nell´affare. Al giudice, i politici appaiono non «passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da una sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata che si stava consumando ai danni dei piccoli e medi risparmiatori, in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale».

I politici, dunque, non stavano soltanto alla finestra per guardare e applaudire o fischiare, ma erano sul terreno di gioco a giocare una partita che era anche loro. Ma i dialoghi telefonici giustificano questa approssimata - preliminare, appunto - convinzione? Va detto che nessuno può dirla spensieratamente ballerina. Anche senza trarre affrettate conclusioni di colpevolezza o di innocenza, è indubbio che quelle conversazioni hanno bisogno di spiegazioni, approfondimenti, indagini. Il reato degli "scalatori" è documentato. Ammettono di aver messo insieme il 51 per cento prima di lanciare un´offerta pubblica di acquisto (opa) obbligatoria già quando si detiene il 30 per cento. Confessano candidamente come hanno occultato gli accordi sotto banco. Peccano di «insider trading» e "passano" quelle informazioni privilegiate a soggetti non legittimati a riceverle. Bene, fin qui tutto chiaro. Ma i politici? Non si limitano a raccogliere notizie, a tenersi informati sugli eventi. Per il giudice, intervengono, si danno fare per rimuovere o aggirare gli ostacoli. Hanno un ruolo attivo. Sono partecipi (se complici appare troppo). Per usare le parole di Clementina Forleo, sono «pronti e disponibili a fornire loro supporti istituzionali». Giovanni Consorte (Unipol) giunge a chiedere a D´Alema e Latorre un aiuto: «Stiamo messi così, adesso dovete darci una mano a trovare i soldi, no?». E Latorre: «Vabbé, a disposizione». E, più tardi D´Alema, a un Consorte che gli racconta delle sue riunioni con il mondo cooperativo, chiede: «Di quanto hai bisogno ancora?». «Non tantissimo, di qualche centinaio di milioni di euro», risponde l´altro.

Appare chiaro dalla lettura dell´ordinanza che, per il giudice, questi colloqui sono frammenti d´indagine che avrebbero giustificato un´iscrizione al registro degli indagati e un´investigazione severa. Iniziative che non sono mai decollate per la inutilizzabilità delle intercettazioni "politiche". Una volta utilizzabili - sembra di capire - il giudice si attende dal pubblico ministero un´imputazione e, in sua assenza, appare pronto a chiederla coattivamente. Quindi, se il Parlamento dovesse liberare quelle carte è molto probabile che soprattutto D´Alema e Latorre saranno indagati.

Ora ci si deve interrogare sulla correttezza delle mosse del giudice. In altri termini, la legge consente al giudice per le indagini preliminari di "leggere" con tanta severità le carte, giungendo anche a una prima conclusione su soggetti che non sono stati mai ufficialmente indagati? Non c´è dubbio che la Forleo si muove nell´ambito delle regole. Potrebbe addirittura indicare al pubblico ministero quali aspetti dell´affare approfondire. Deve spiegare però al Parlamento la necessità di mettere a disposizione della giustizia quelle intercettazioni. Per farlo, è quasi obbligata a squadernare la rilevanza di quei comportamenti, la loro opacità, l´opportunità di verificarne la consistenza penale. Non c´è dubbio che nel farlo, scivoli in qualche eccesso moralistico e sovrattono. Non sembra che un giudice possa essere, per dirne una, il tutore dell´«immagine del Paese». Ma può una "papera" oscurare i fatti? O gettare in un canto l´esigenza di accertare chi ha fatto che cosa, e perché, in una stagione in cui, come dicono con candore gli intercettati, si voleva «cambiare il volto del potere» italiano? Ora la parola tocca al Parlamento. Che si spera renderà al più presto utilizzabili quelle intercettazioni anche nella consapevolezza che la scelta può significare - per tre uomini del centrosinistra e tre uomini del centrodestra - affrontare i pubblici ministeri, un´istruttoria, un giudice. Una decisione contraria - il rifiuto - creerebbe una nuova nuvola nera sui destini della politica italiana; impedirebbe ai protagonisti di liberare la propria reputazione da ogni sospetto; accentuerebbe la separatezza della politica dal Paese. A chi conviene?

MI sono fatto da qualche mese una nomea alla quale non sono particolarmente affezionato: quella di essere la sola persona convinta che Romano Prodi sia un buon presidente del Consiglio.

In realtà dare giudizi su chi è migliore o peggiore rispetto ad un altro è un esercizio futile e logicamente scorretto perché non si possono paragonare le mele con le spigole, le zucchine con la carne d’agnello. E così non si possono dare etichette di efficienza a due governi che hanno operato in contesti politici ed economici diversi.

Se inquadriamo l’attuale governo Prodi nel contesto in cui ha operato nei primi dodici mesi dal suo insediamento sono convinto che si tratti d’un buon governo, anche se assai scarso nella comunicazione dei suoi provvedimenti. La capacità di Prodi a mediare è notevole, ma c’è mediazione e mediazione. Andreotti per esempio, ai suoi tempi, fu un fuoriclasse in questo esercizio da lui usato quasi sempre per mantenersi al potere anche a costo dell’immobilismo più disperante. La mediazione di Prodi ha una diversa natura: mira a compromessi capaci di avanzare verso obiettivi di utilità generale.

Andreotti – tanto per proseguire nell’esempio – governò in tutte le stagioni politiche; guidò governi appoggiati a destra, al centro, a sinistra. In alcuni casi ebbe perfino il sostegno dell’Msi; in altre fece maggioranze organiche con il Pci.

Prodi al contrario ha sempre sostenuto (e confermato con i fatti) di non essere un politico disponibile in tutte le stagioni ma in una soltanto. Forse proprio per questo non piace alla maggioranza degli italiani. In più ha una testa durissima, come quasi tutti quelli che sono nati a Reggio Emilia. Io sono nato nel segno dell’Ariete, perciò lo capisco.

Guardate ai vaticini berlusconiani che si susseguono ormai da un anno. Vaticinavano che sarebbe caduto entro un mese dalla proclamazione del verdetto elettorale. Da allora spostano la data dell’apertura della crisi di due o al massimo tre settimane in continuazione. Sono passati dodici mesi e le date di scadenza della crisi sono state finora almeno una ventina. Adesso il capo dell’opposizione e tutti i suoi accoliti hanno fissato per il prossimo settembre l’appuntamento decisivo con la dissoluzione del centrosinistra.

Tutto può accadere quando si naviga con la maggioranza di un voto, ma io non credo che il centrosinistra celebrerà il suo suicidio in autunno.

Credo che, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti. Per una ragione molto semplice: ancora per un bel pezzo non ci saranno alternative al governo Prodi.

* * *

Vengo alla riforma delle pensioni, una vicenda che dura da mesi e che, un giorno dopo l’altro, è stata preconizzata come irrisolvibile. Sarebbe un esercizio utile per tutti rivedere i titoli dei telegiornali e dei quotidiani da maggio in poi. Una sequenza sussultoria senza fine: «Pensioni, l’accordo è vicino» «Scontro feroce sulle pensioni» «Il governo è spaccato» «La sinistra all’attacco» «Il contrattacco per i riformisti» «Berlusconi: governo in crisi» «Resta lo scalone» «Via lo scalone senza se e senza ma».

Bene. Giovedì sera alle 22 i sindacati confederali sono stati convocati a Palazzo Chigi. Alle 4 del mattino, in una delle tante pause d’un negoziato che tutti i partecipanti hanno definito durissimo, si sono appartati in una saletta del palazzo Prodi, Padoa-Schioppa, Letta e il segretario della Cgil, Epifani. «Devi dirmi sì o no. Adesso» gli ha detto il presidente del Consiglio. «Per me l’accordo va bene, ma debbo consultare il direttivo. Garantisco che la risposta sarà un sì ma formalmente la darò lunedì mattina». «Lo ripeto: mi devi dare la risposta adesso. Se è no esco di qui e annuncio le dimissioni del governo».

Dopo questo siparietto il sì di Epifani è arrivato con la clausola «per presa d’atto» scritta a penna prima della firma. Il senso di quella frase l’ha dato lo stesso segretario della Cgil in un’intervista di ieri al nostro giornale. Alla domanda dell’intervistatore sull’accordo raggiunto, la risposta è stata la seguente «il testo di ieri notte contiene molte misure di grandissimo valore e anche di carattere innovativo. In modo particolare sto pensando ai giovani, al fatto che nell’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione sarà indicato che per loro la pensione non potrà essere inferiore al 60 per cento dell’ultima retribuzione. Non solo: dopo tanti anni vengono definiti finalmente i lavori faticosi».

Poche righe più in là il giornalista gli chiede: «Il governo reggerà la prova parlamentare dell’intesa?». Risposta: «Il governo ha una navigazione a vista, ma troverei paradossale che naufragasse proprio su questo. La conseguenza sarebbe la crisi di governo ma anche la sopravvivenza dello scalone e la rinuncia a tutto ciò che c’è di buono in questa intesa».

Esatto. Che altro c’è di buono in questa intesa? Ricordiamolo perché di questi tempi la memoria è diventata assai corta. C’è l’aumento delle pensioni d’anzianità a 3 milioni di pensionati, l’avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani contro il precariato, per un complessivo ammontare di 2.600 miliardi.

Altri 5 miliardi sono stati stanziati per l’aumento graduale dell’età pensionabile al posto dello scalone di Maroni. Si parte da subito con lo scalino di 58 anni, nel 2009 l’età sale a 59 anni, nel 2011 a 60, nel 2013 a 61. Un anno in più alle stesse date per i lavoratori autonomi.

Tutti questi provvedimenti saranno inseriti nella legge finanziaria per il 2008. Se il governo fosse battuto, il complesso di questi accordi – che dovranno essere approvati dai lavoratori – salterà per aria insieme al governo.

Ha ragione Epifani: sarebbe un capitombolo epocale. Chi si prenderebbe questa responsabilità: Giordano? Diliberto? Cremaschi della Fiom?

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Tito Boeri, un economista di valore, ha scritto ieri sulla "Stampa" che l’accordo sulle pensioni è un buon compromesso. Avrebbe voluto che l’età pensionabile si muovesse con maggiore celerità ma si rende conto, appunto, del "contesto" e se ne dichiara parzialmente soddisfatto. A differenza del suo collega ed amico Francesco Giavazzi che sul "Corriere della Sera", lancia invece raffiche sul governo, sui sindacati, sulla sinistra. Se la prende anche con Veltroni. Il finale arieggia a quello che il Manzoni mette in bocca a fra’ Cristoforo quando apostrofando don Rodrigo con l’indice puntato contro di lui e gli occhi fiammeggianti profetizza: «Verrà un giorno... ».

Più misurati gli eurocrati di Bruxelles. Conosceremo meglio domani la loro opinione ma il primo impatto è stato favorevole, almeno perché una decisione è stata presa.

Negativa – moderatamente – la Confindustria, anche perché non è stata ascoltata. Mi permetto di osservare in proposito che l’oggetto del negoziato riguardava i pensionati e i pensionandi. Non un contratto di categoria e neppure la politica economica in generale ma semplicemente pensionati e pensionandi.

Mi permetto altresì di dire che perfino la consultazione della "base" da parte dei sindacati è un gesto apprezzabile di democrazia ma non statutariamente necessario, come lo sarebbe per un contratto di lavoro. Si spera comunque che i dirigenti confederali accompagneranno la discussione con la base esternando il loro motivato parere e spiegando bene le conseguenze di un voto negativo. La democrazia non è (non dovrebbe essere) una lotta libera senza regole. Serve a costruire e non a sfasciare. E se i partiti invadono l’agone sindacale, tempi duri si preparano per i lavoratori.

Post Scriptum. Alcuni lettori si chiedono e ci chiedono perché mai la Chiesa abbia celebrato con tutti gli onori previsti dalla liturgia i funerali dell’avvocato Corso Bovio, eminente figura del Foro milanese, morto suicida, ed abbia invece negato quei funerali all’ammalato Welby che fu aiutato da un amico generoso a interrompere cure inutili che perpetuavano senza scopo alcuno una vita di intollerabili sofferenze.

Una spiegazione pare che ci sia da parte della Chiesa. Dal diniego opposto contro tutti i suicidi, essa è passata col tempo ad una visione più duttile (più ipocrita) secondo la quale il suicidio deriva da un "raptus", una perdita improvvisa di coscienza. Su questa base il suicida viene "perdonato" e ammesso ai funerali religiosi che mandano in pace l’anima sua e sono di conforto per i suoi parenti.

Nel caso Welby invece l’ipotesi del "raptus" non poteva essere adottata poiché si trattava di un militante che voleva contrastare l’accanimento terapeutico. Di qui il divieto di celebrare il funerale religioso nonostante fosse stato richiesto insistentemente da lui e dai suoi familiari.

Che possiamo rispondere ai nostri lettori? Che la Chiesa è, oltre che un’organizzazione religiosa, anche se non soprattutto un’organizzazione di potere. È anzi un potere a tutti gli effetti e si muove come tale su un’infinità di questioni che hanno poco o nulla a che vedere con la religione dell’amore e della carità predicata dai Vangeli. Come tutte le organizzazioni di potere, anche la Chiesa usa largamente lo strumento dell’ipocrisia. Questo è tutto.

Tre fantasmi si aggirano per il mondo: clima, terrorismo, finanza. Quest’ultimo sembra il meno pericoloso. C’è chi non lo vede proprio. Ma potrebbe essere il più imminente. I segnali di allarme si infittiscono. Sulla Repubblica del 4 luglio, Federico Rampini avvertiva: «Torna la paura del grande crac finanziario: i bond aziendali non si vendono, i tassi salgono, scricchiolii negli hedge fund». Il Financial Times si chiede in termini problematici che ne è di un capitalismo riplasmato da una finanza incontrollata. L’Economist si preoccupa dei guai dei private equity funds. E da ultimo è diventato attuale anche l’argomento più inquietante: la parte della popolazione americana che ha rischiato maggiormente non è più in grado di pagare il mutuo della propria abitazione. E ciò rischia di sconvolgere il sistema creditizio, con le conseguenti ricadute sull’economia generale.

Non è da oggi, del resto, che ci si preoccupa della possibile insostenibilità di una espansione finanziaria, che è passata da una dimensione pari a quella del prodotto mondiale globale nel 1980, a una tre volte superiore nel 2005 (i dati sono del McKinsey Global Institute). La domanda che naturalmente ci si pone è: come mai questo enorme divario non si è tradotto finora in un processo inflazionistico?

Molta parte della non facile risposta sta, probabilmente, nello straordinario apparato di strumenti di assicurazione e di copertura, come i "derivati", prodotti da una intelligence finanziaria che ha dimostrato un ammirevole grado di ingegneria professionale. Mai il mercato finanziario internazionale ha esibito una così ampia tastiera di scelte a disposizione del risparmiatore. Questa ricchezza nasconde però un formidabile rischio. Ogni aumento delle possibilità di copertura comporta un aumento delle "scommesse". E’ come se, per scongiurare una depressione, si moltiplicassero gli eccitanti. Gli strumenti di "copertura", come si sa, sono anche occasioni offerte alla speculazione. Il gioco regge, comunque, fin quando l’economia reale, nel suo insieme, aumenta: ed è ciò che avviene in effetti nel mondo, a un ritmo anch’esso accelerato. Ma i due aumenti hanno ritmi diversi. Che cosa può avvenire se il divario tra queste due "corse" continua a salire? Non c’è il pericolo che una tensione crescente tra queste due dinamiche possa provocare un arresto, un infarto? Non è che questo rischio si è accentuato, in questi ultimi tempi? Se un arresto, in qualche parte del mondo, dovesse propagarsi sistemicamente – ci si è andati molto vicino alla fine degli anni Novanta – la prospettiva di un rotolamento all’indietro diventerebbe catastrofica. Il 1929 è un numero che nessuno vuole pronunciare scaramanticamente.

Ci si può chiedere, come diceva l’economista Rodrick della globalizzazione, se la finanziarizzazione, che è la sua compagna gemella, non sia andata troppo oltre. Se non avesse ragione Tobin nel suggerire di gettare qualche manciata di sabbia negli ingranaggi di questo meccanismo travolgente? La sua proposta di una mini-imposta sulle transazioni di brevissimo periodo andava in questo senso. Fu accolta con orrore, se non con indignazione. Oggi, appare inadeguata alla luce di quanto sta succedendo sui mercati. Quel che sta succedendo, è un ininterrotto processo di deregolazione finanziaria. Una deregolazione che è difficile non definire sregolatezza.

Prendiamo il fenomeno dei cosiddetti private equity che preoccupa l’Economist, fino a ieri un loro entusiasta sostenitore. Che cos’è che sta andando storto? Possiamo tentare di capirlo se collochiamo questo trionfale successo dell’economia finanziaria nella sequenza di una progressiva differenziazione e articolazione degli strumenti finanziari. All’inizio del processo comparvero i fondi di investimento, nient’altro che pacchetti combinati di titoli scelti nel mercato finanziario tra quelli che presentavano a giudizio dei loro promotori le migliori performances. Seguirono poi gli hedge founds che, all’opposto del loro significato letterale (fondi di copertura) erano fondi speculativi operanti attivamente al rialzo o al ribasso su qualunque tipo di titoli, monete e materie prime al fine di ottenere una plusvalenza. La differenza tra fondi di investimento e hedge funds è enorme. Nel secondo caso i titoli sono trattati come dei valori in sé utili esclusivamente a realizzare un guadagno speculativo, solo alla lontana collegati con la realtà delle imprese che rappresentano. Valori che questi fondi riescono a movimentare ben oltre le loro risorse, perché usano spregiudicatamente la leva finanziaria. Chi non ricorda il fantastico successo del Quantum Fund di Soros e il suo trionfo sulla sterlina (e prima ancora, sulla nostra liretta?): ma anche il disastro delle Casse di Risparmio americane, che avevano affidato le risorse dei loro pensionati a operatori eccessivamente audaci?

Alla fine, il terzo stadio della deregolazione: i private equity (letteralmente, averi privati). Anziché operare con acquisti e vendite di titoli all’interno del mercato finanziario, lo si abbandona, comperando delle imprese quotate e sottraendole alla quotazione per affidarle a una gestione del tutto disinibita. Da che cosa? Da quell’insieme di regole di condotta che la quotazione impone per garantire ad azionisti e a risparmiatori una protezione, quanto alla visibilità della gestione, ai conflitti di interesse, eccetera. Dalla odiata legge Sarbanes Oxeley introdotta per sanzionare i comportamenti criminosi del management, dopo il disastro della Enron. Dalla violazione di norme riguardanti i rapporti di lavoro. Inoltre, gli investitori ed i gestori dei private equity godono di privilegi fiscali che lo stesso Economist giudica indecenti, e le aziende da loro acquistate godono della generosissima leva finanziaria accordata dalle banche. C’è da stupirsi se queste imprese, sottratte ad ogni visibilità da parte dei cosiddetti stakeholders (le parti sociali comunque interessate all’impresa) registrano profitti eccezionali?

Insomma, si torna a una epoca di capitalismo selvaggio, come espressione più avanzata del «nuovo capitalismo». Dopo aver inventato il mercato finanziario per rendere più liquido il capitalismo, si liquida il mercato finanziario.

Le preoccupazioni sulla sorte dei private equity, a causa dei debiti che questi caricano sulle aziende sono, comunque, solo un aspetto del rischio maggiore, che consiste nel colossale e generalizzato indebitamento che caratterizza il capitalismo dei nostri giorni. Indebitamento che in America raggiunge il culmine. Della bilancia dei pagamenti verso i paesi esteri, dello Stato verso i cittadini, dei cittadini verso le banche, le quali diventano sempre più, grazie al loro potere di creare moneta, le vere e proprie arbitre del sistema. Questo indebitamento è frutto di una mercatizzazione del futuro; si può dire anche del tempo, come la globalizzazione è una mercatizzazione dello spazio.

Questa corsa all’indebitamento non può però non incontrare limiti. Due sono, in fin dei conti, i limiti assoluti. Uno riguarda la disponibilità di risorse naturali. Prima o poi, la domanda crescente incontrerà scarsità di materie prime e di fonti di energia. Di qui potrebbe partire un processo inflazionistico. L’altro, più imponderabile, ma molto più preoccupante, è una crisi di fiducia: di quella fiducia sulla quale si regge, in fin dei conti, la strapotenza del capitalismo. Se domani dovesse malauguratamente accadere, nessuno avrà dubbi nell’individuarne le cause. Il commento lo si potrebbe scrivere oggi, senza esitazioni.

La sentenza che permise a Silvio Berlusconi di sottrarre la Mondadori al Gruppo Espresso-la Repubblica fu comprata con 425 milioni di lire forniti dal conto All Iberian di Fininvest a Cesare Previti e poi, dall´avvocato di fiducia di Silvio Berlusconi, consegnati al giudice Vittorio Metta. La Cassazione condanna definitivamente Cesare Previti, il giudice corrotto e, quel che soprattutto conta, rimuove una patacca che è in pubblica circolazione da due decenni. L´uomo del fare, Silvio Berlusconi, è l´uomo del sopraffare, del gioco sottobanco, della baratteria illegale. La sentenza dimostra la forma fraudolenta e storta della sua fortuna imprenditoriale. Mortifica la koiné originaria con cui Berlusconi si è presentato al Paese ricavandone fiducia e consenso, entusiasmandolo con la sua energica immagine di imprenditore purissimo capace di rimettere in sesto il Paese – e rimodellarne il futuro – con la stessa sapienza e determinazione con cui egli aveva costruito il suo successo, conquistato aziende e quote di mercato, sbaragliato i competitori.

Berlusconi, se non sapeva delle manovre di Previti (e non si può dire il contrario), è stato un gonzo e, nella sua formidabile ingenuità, ha trascinato il Paese e le sue regole verso la crisi per difendere un mascalzone che soltanto agli occhi del Candido di Arcore appariva un maestro del diritto e un martire della giustizia.

La sentenza della Cassazione scolpisce dunque un´altra biografia di Berlusconi. Ci dice che non è oro quel che riluce nella sua storia imprenditoriale. Sapesse o non sapesse quali erano i metodi criminali del suo avvocato, il profilo di imprenditore dell´uomo di Arcore ne esce irrimediabilmente ammaccato, deformato. La sua Fininvest ha barato. Il suo avvocato giocava con carte truccate.

I fatti sono noti.

Il lodo arbitrale Mondadori risale al 21 giugno 1990. Riguarda il contratto Cir-Formenton. La decisione è assunta dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis, Natalino Irti e Pietro Rescigno, incaricati di dirimere la controversia tra Carlo De Benedetti e la famiglia Formenton per la vendita alla Cir da parte dei Formenton di 13 milioni 700 mila azioni Amef (il 25,7% della finanziaria che controlla la Mondadori) contro 6 milioni 350 mila azioni ordinarie Mondadori. Il lodo è favorevole alla Cir e dà a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate. Berlusconi perde la presidenza che va pro tempore al commercialista Giacinto Spizzico, uno dei quattro consiglieri espressi dal Tribunale, gestore delle azioni contestate.

Il 24 gennaio 1991, la Corte d´Appello di Roma presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini dichiara che una parte dei patti dell´accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir è in contrasto con la disciplina delle società per azioni. Quindi, è da considerarsi nullo l´intero accordo e anche il lodo arbitrale. Berlusconi riconquista la Mondadori.

Vittorio Metta è il giudice corrotto da Cesare Previti, dice ora la Cassazione. Delle due, l´una. Se sapeva, Silvio Berlusconi è un complice che si è salvato soltanto perché, per le sue pubbliche responsabilità politiche, è parso meritevole delle "attenuanti generiche" così accorciando i tempi di prescrizione e uscendo dal processo qualche anno fa. Se non sapeva, l´esito non è che sia più gratificante. Perché bisogna concludere che l´ex-presidente del Consiglio non è poi l´aquila reale che ama dipingersi. Ha accanto un lestofante. Non se ne accorge. Ne è beffato, ingrullito per anni, per decenni, nella sua totale insipienza. Gli affida «un mandato professionale molto ampio per rappresentare la persona fisica come il gruppo Berlusconi». Lo ha raccontato lo stesso Previti: «Io rappresentavo il dominus per le questioni legali, sceglievo gli avvocati, esaminavo nei dettagli tutti gli argomenti che avremmo usato e anche le persone e le operazioni da organizzare nelle varie situazioni».

E´ un ruolo occulto, segretissimo e non se ne comprende la ragione (l´evasione fiscale non può spiegare tutto). Non c´è (né Previti lo ha mostrato in anni di processi) un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste neppure (né è stata mostrata) una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest, un qualsivoglia documento che attesti la causale dei pagamenti effettuati da Finnvest a favore di Cesare Previti.

Berlusconi poteva non sapere di essersi tenuto in casa per decenni quel mascalzone. Meglio, gettiamo una buona volta ogni sospetto o incredulità e diciamolo chiaro. Silvio Berlusconi non sapeva, non ha mai saputo né immaginato per un attimo che ceffo fosse Previti e quali i suoi metodi di lavoro. L´uomo di Arcore era così accecato dal suo candore, dall´amicizia per il suo fedele sodale, che quando ne ha la possibilità, 1994, propone addirittura quel corruttore di giudici come ministro di Giustizia. Il Paese si salva per l´ostinazione di Oscar Luigi Scalfaro che dirotta il malfattore alla Difesa. E, nonostante il segnale e la documentazione offerta dalla magistratura, nemmeno allora Silvio Berlusconi nella sua assoluta dabbenaggine si scuote. Si può dire che una volta ritornato al governo - per salvare se stesso, è vero, ma anche e soprattutto il suo complice, che è più esposto per le indagini e per le prove raccolte - assegna a se stesso la missione di gettare per aria codici, procedure, tribunali, ordinamenti, accordi internazionali al fine di evitare guai all´avvocato che credeva immacolato. Il Parlamento che Berlusconi governa con una prepotente maggioranza non lascia intoccato nulla. Cambia le prove, se minacciose. Il reato, se provato. Prova a cacciare i giudici, a eliminare lo stesso processo. Non ci riesce per l´opposizione di un´opinione pubblica vigile, per l´intervento della Corte Costituzionale che protegge le regole elementari dello Stato di diritto e il sacrosanto principio della legge uguale per tutti. Meno male, ma il respiro di sollievo non può riguardare Silvio Berlusconi. Per anni ha spaccato il Paese usando come cuneo il processo all´avvocato-barattiere che egli riteneva un "figlio di Maria". Ora qualcosa l´uomo di Arcore dovrà pur dire perché purtroppo qualcosa, questa sentenza, dice di lui. Nella sua credulità, Silvio Berlusconi ha procurato un danno a se stesso, e tant´è, ma nella cieca fiducia che ha avuto per un avvocato fraudolento egli ha arrecato danno alla politica, alle istituzioni. Forse è una buona idea che dica in pubblico che è stato preso in giro e se ne dispiace.

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