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l’aggressione di ieri sera contro un gruppo di romeni dimostra che è avvenuto qualcosa che i pessimisti sentivano nell’aria. Quando sono tanto forti le emozioni, e nessuno le raffredda e troppi le sfruttano, non soltanto diventa difficile trovare le risposte giuste, ma si esasperano i conflitti.

Da un caso gravissimo, l’uccisione di Giovanna Reggiani, si è passati con troppa rapidità all’indicazione di responsabilità collettive. L’assassinio è quasi finito in secondo piano, e l’attenzione è stata tutta rivolta a documentare una sorta di incompatibilità tra la nostra società e la presenza romena, insistendo sulla percentuale di reati commessi da persone provenienti da quel paese. In un clima sociale che si sta facendo sempre più violento, le premesse per l’apertura della caccia al romeno, purtroppo, ci sono tutte.

Così non basterà condannare l’accaduto. Le risposte istituzionali sono già venute, e sarebbe sbagliato chiederne ulteriori inasprimenti, che darebbero la sensazione che alla violenza si debba reagire solo con la violenza sì che, se lo Stato arriva tardi o in maniera ritenuta inadeguata, tutti sarebbero legittimati a farsi giustizia da sé. Alla politica si devono chiedere non deplorazioni, ma misura; non ricerca di consenso, ma di soluzioni ragionate.

Da anni, da troppi anni, siamo prigionieri di un uso congiunturale delle istituzioni, che porta a misure che rispondono ad emozioni o a interessi di breve periodo più che alla realtà dei problemi da affrontare. E’ un rischio che stiamo correndo anche in questi giorni, mentre avremmo bisogno di analisi non approssimative e testa fredda nell’indicare le via d’uscita. Di fronte alle tragedie nessuno dovrebbe fare calcoli meschini.

Il presidente della Repubblica ha sottolineato che le questioni dell’immigrazione esigono responsabilità comuni dell’Unione europea. Il presidente del Consiglio si è messo in contatto con il primo ministro romeno. Dalle parti più diverse si è sottolineata la necessità di un controllo del territorio e di una attenzione per le condizioni in cui vivono gli immigrati. E’ stata proprio una donna romena che ha consentito l’immediato arresto dell’assassino.

Perché allineo questi fatti? Perché, messi insieme, dimostrano la parzialità della tesi di chi pensa che sia sufficiente inasprire le pene, cancellare le garanzie, far di tutt’erbe un fascio, sparare nel mucchio. "Facimmo ‘a faccia feroce" è una vecchia tecnica di governo, ma è esattamente il contrario di quel che serve in situazioni come questa. E’ indispensabile, invece, una strategia integrata, fatta di cooperazione internazionale, di legalità a tutto campo, di efficienza degli apparati di sicurezza, di misure per l’integrazione, di politica delle città. Ed è indispensabile una politica volta a promuovere la fiducia degli immigrati: senza la collaborazione di quella donna, senza la rottura dello schema dell’omertà (purtroppo così forte anche nella nostra cultura), l’assassino non sarebbe stato individuato così rapidamente. In ogni società la fiducia è una risorsa essenziale. Da soli, i provvedimenti di ordine pubblico non ce la fanno, non ce l’hanno mai fatta.

Essere consapevoli di tutto questo non è cattiva sociologia, ma buona politica, anzi l’unica politica possibile. Proprio quanti si preoccupano dell’efficienza dovrebbero esigere che si facciano passi concreti in quelle direzioni. Proprio chi invoca la legalità deve sapere che questa non è divisibile, ed è stato giustamente notato che uno dei meriti del "pacchetto sicurezza" è nell’aver previsto anche una nuova disciplina del falso in bilancio. Proprio chi fa professione di garantismo deve mostrare coerenza, soprattutto nei momenti difficili: non si può essere garantisti a corrente alternata.

Non sto sostenendo che il problema è "ben altro". Cerco di dire che non ci si può mettere la coscienza in pace con un decreto e una raffica di espulsioni, dando così all’opinione pubblica la pericolosa illusione che il problema sia risolto. Qualche sera fa, intervenendo in una trasmissione televisiva, Pier Luigi Vigna, certo non imputabile di atteggiamenti compiacenti verso chi viola la legalità, ha riferito la risposta di un responsabile dell’ordine pubblico ad una sua domanda su dove fossero finiti i lavavetri scomparsi dalle vie di Firenze: «Stanno a rubare». E’ l’effetto ben noto a chi ha indagato sulla scomparsa o la diminuzione dei reati nelle aree videosorvegliate: semplicemente i comportamenti criminali si erano spostati nelle zone vicine. Ecco perché, se davvero si vuole uscire dalla violenza e vincere la paura, nuove norme contenute in un decreto possono essere un punto di partenza, vedremo fino a che punto accettabile.

Guardando solo agli inasprimenti della legislazione, anzi, si finisce col distogliere lo sguardo dalla realtà. Più di una inchiesta di questo giornale, ultima quella di Giuseppe D’Avanzo, ha documentato il degrado urbano, le terribili condizioni di vita degli immigrati. Si può davvero pensare che il problema si risolva con una politica delle ruspe e degli "allontanamenti"? Con una tolleranza zero che poi non riesce neppure ad essere tale se le forze di polizia non sono messe in grado di un controllo intelligente e mirato del territorio, se i nuovi poteri dei sindaci finiscono con l’indirizzare la loro attenzione verso una esasperazione del momento dell’ordine pubblico invece di mettere al centro gli interventi strutturali, complici le difficoltà economiche dei comuni? Si può certo contare sull’effetto dissuasivo di una massiccia ondata di espulsioni. Ma quanto potrà durare? E quali saranno gli effetti reali e i prezzi della nuova disciplina?

Il decreto riprende lo schema delle norme di attuazione della direttiva comunitaria del 2004 sul diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari (romeni compresi), in vigore dal marzo di quest’anno, con due significative integrazioni. La prima riguarda l’attribuzione del "potere di allontanamento" non più al solo ministro dell’Interno, ma pure al prefetto (una figura di cui si continua chiedere la scomparsa e che, invece, ottiene così una nuova e forte legittimazione). La seconda, ben più incisiva, consiste nell’ampliamento delle cause che permettono l’allontanamento del cittadino comunitario, riassunte nella formula dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza" che derivano dall’aver "tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l’incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l’ordinaria convivenza". Malgrado riferimenti altisonanti come dignità o diritti fondamentali, siamo di fronte ad una formula larghissima, nella quale possono rientrare le situazioni e i comportamenti più diversi. Come sarà interpretata?

Qui gioca il clima in cui il decreto è stato approvato. Non "necessario e urgente" fino alla sera prima (sono questi i requisiti di un decreto), il provvedimento lo diventa dopo il brutale assassinio di Roma. Poiché si deve supporre che il governo conoscesse già i dati riguardanti i reati commessi dai romeni, sui quali si è tanto insistito in questi giorni, la conclusione obbligata è che si è utilizzato lo strumento del decreto unicamente per rispondere all’emozione dell’opinione pubblica. E la sua applicazione rischia di essere guidata dalla stessa ispirazione, rendendo inoperanti le garanzie necessarie per evitare che venga travolta una libertà essenziale del cittadino europeo.

La pressione dell’opinione pubblica non è stata alleggerita dal decreto. Al contrario, è stata ulteriormente legittimata, sì che bisogna attendersi che continuerà nei confronti dei prefetti. Già si annunciano liste di migliaia di persone da allontanare: questo renderà difficilissimo motivare in modo adeguato ciascun singolo provvedimento. E i debolissimi giudici di pace, che dovrebbero controllare questi provvedimenti, non hanno i mezzi per farlo in modo adeguato, sì che non se la sentiranno di pronunciare un no. Per non parlare di un successivo ricorso al tribunale amministrativo contro l’allontanamento, che quasi nessuno potrà concretamente proporre. La garanzia giurisdizionale, essenziale in uno Stato di diritto, rischia così d’essere concretamente cancellata.

Alle norme del decreto bisogna guardare con distacco e preoccupazione. Con distacco, perché non verrà solo da esse la soluzione di problemi che, com’è divenuto evidentissimo proprio in questi giorni, esigono interventi di altra qualità per rispondere alle legittime richieste dei cittadini in materia di sicurezza. L’ordinaria convivenza, alla quale il decreto si riferisce, non è un qualcosa da salvaguardare, ma da ricostruire con responsabilità e azioni comuni, di cui gli italiani devono essere i primi protagonisti. Con preoccupazione, perché le norme del decreto e il clima in cui nasce ci spingono in una direzione che aumenta la distanza dall’"altro", che favorisce la creazione di "gruppi sospetti", abbandonando la logica della responsabilità individuale.

Serve, davvero con "necessità e urgenza", un’altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di "bestie", o invoca i metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere "la fabbrica della paura". E’ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce. Un’agenda politica ossessivamente dominata dal tema della sicurezza porta inevitabilmente con sé pulsioni autoritarie. Ricordiamo una volta di più che la democrazia è faticosa, ma è la strada che siamo obbligati a percorrere.

Forse sarebbero bastati un paio di lampioni su quella strada, per evitare a Giovanna Reggiani il buio e l'orrore in cui è stata trascinata. Non sarebbero stati necessari decreti d'urgenza e leggi speciali che trasformano un delitto individuale nell'annuncio di un repulisti di massa. E non serviranno a salvare altre future vittime.

Di certo sarebbe bastata una maggiore attenzione alla vita quotidiana delle periferie per cercare una soluzione al violento degrado in cui giacciono migliaia di persone. Non serve inseguire la destra sul terreno che le è più naturale e vincente. Non servirà a cacciare le paure metropolitane e nemmeno - più in piccolo - a conquistare consensi elettorali. Servirebbe più Zavattini di «Miracolo a Milano» che Veltroni del cinema in festa.

Spesso la cronaca illumina più di qualunque analisi sociologica. E ci rimanda una società in cui la violenza è diventata la principale risposta che gli individui danno alla asperità quotidiane; in cui l'uso della forza definisce i rapporti tra le persone come tra i gruppi (anche quando si chiamano «nazioni») e, in quanto forza, fissa la gerarchia del potere tra i sessi, cui si aggrappa il maschile per rispondere alla propria crisi di egemonia, come una superpotenza un po' traballante usa la guerra per convincersi di essere ancora in sella. Quella cronaca poi ci parla di un'altra crisi, di una politica ormai incapace di sottrarsi alla dittatura della paura umorale, per dare solo risposte che cercano di rassicurare senza cambiare, oppure di spaventare senza risolvere. Cogliendo semplicemente l'attimo, come nel delirio su possibili frotte di tifosi capitolini pronti a uscire da uno stadio per dar vita a un pogrom di massa. E, allora meglio (pensa Amato) che il pogrom lo faccia lo stato, con la sua organizzata e legale autorità. Oppure che si accentui la «prevenzione repressiva» (dice Fini) cacciandoli tutti, quei derelitti potenzialmente criminali. E ci mostra - quella cronaca - un giornalismo guerriero, incapace di riflettere o semplicemente di distinguere e raccontare i fatti, che getta tutto in uno stesso calderone e confonde: tanto tra un campo sosta e una baraccopoli che differenza fa? tanto tra un rom e un rumeno, tra quest'ultimo e tutta la Romania, c'è persino assonanza lessicale.

Forse per battere la forza delle violenze quotidiane, per sottrarsi alla paura degli umori profondi, per battere l'insicurezza che da materiale diventa esistenziale, bisogna distinguere sempre di più, segnalare e segnare le differenze. Tra i sessi, tra le classi, tra gli stessi individui, trasformando la debolezza di oggi in una mite forza di domani, basata su convinzioni e bisogni, non sui muscoli: mutuo soccorso, non più «compattezza militare». Perché se il terreno del potere non può essere che quello andato in scena tra martedì e mercoledì scorsi (su una strada e in una sede di governo), allora è meglio ripudiarlo e cercare altrove un'altra relazione comune. Vale per chi vive in una baraccopoli, come per chi siede in un parlamento.

È un autentico orrore, come dice Walter Veltroni. Giovanna Reggiani è stata aggredita ieri a sera tornando a casa a Tor di Quinto, trascinata in una baracca, violentata e gettata in una scarpata, è in coma, clinicamente morta. Un rumeno di 24 anni è stato arrestato. L’autentico orrore che ci pervade per la vita così incerta di una donna, a rischio continuo come se fosse su un campo di battaglia, diventa misura di tutte le cose quando la risposta delle istituzioni ne raddoppia la potenza.

Ieri, poche ore dopo l’aggressione, è stato convocato un consiglio dei ministri straordinario che ha deciso di convertire una parte del disegno di legge sulla sicurezza in decreto. Espulsioni subito di cittadini extracomunitari e comunitari, «servono misure d’urgenza».

Il sindaco di Roma si fonde con il segretario del Pd e agisce. La questione sulla violenza contro le donne passa in secondo ordine, è solo l’ennesimo episodio criminale commesso dai rumeni, sdoganati dalla comunità europea, e che, ricorda Veltroni, prima hanno derubato e picchiato il regista Tornatore, poi hanno ammazzato un ciclista e via enumerando crimini emisfatti. Tutti «riconducibili a un’unica matrice». Il sindaco dice che non vuole generalizzare, che ci sono rumeni onesti, tanto che a denunciare il fatto è stata una donna rumena, «ma non posso non dire che quando il 75% degli arrestati proviene da un solo paese, e tutti gli episodi hanno la stessa modalità... esiste un problema specifico».

La signora massacrata alle porte di Roma non è un «problema specifico», e non è su di lei che si concentra l’attenzione. Il suo caso non servirà ad allarmare la società sulla catena quotidiana di stupri e omicidi che avvengono in casa e per strada. Un bollettino interminabile che riempie le pagine di cronaca. Il suo caso servirà a dare un tono decisionista a questo governo morente e soprattutto al neo-partito che mostra i muscoli ed esordisce virtualmente con una prova di forza che si confonde con la cultura di destra: «Demolire le baraccapoli, identificare e mandare via i clandestini» ha detto Fini. Via tutti. Rimessa in discussione la moratoria verso la Romania, che deve rispondere dei suoi cittadini, «l’Italia deve porre la questione in sede europea», i flussi migratori vanno fermati. Una volta «Roma era la città più sicura delmondo» ha detto il sindaco. Ma la sicurezza non si ottiene con il raddoppio della pena né con la deportazione di massa di un popolo.

Vittorio Foa direbbe che ci vuole «l’esempio» per migliorare le cose, per impedire che un uomo, italiano, maghrebino o rumeno, si senta in diritto di disporre del corpo di una donna. E che esempio ci dà il leader del nuovo partito che ci promette un futuro post-ideologico? Il suono delle catene proveniente ieri dal palazzo del governo, e che ha calpestato ogni sentimento di dolore, sembra inaugurare piuttosto un’epoca postmorale, dove una donna gettata in una canale serve da pretesto per accellerare un disegno di legge che chiede repressione e galera.

Nelle situazioni difficili e anche pericolose, di norma si raccomanda cautela e prudenza. Situazione difficile e anche pericolosa è quella, attuale, del governo Prodi, il cui sostegno è sempre più insicuro, e anche ricattatorio, distruttivo, al limite, dell'immagine di un governo di centro sinistra, e anche del neonato Partito democratico.

Tutte queste considerazioni sono importanti e anche scontate, però al punto in cui stanno oggi le cose penso che perseverare, pur con tutte le accortezze possibili, sia diabolico e autolesionistico, soprattutto per quelle forze che ancora si dicono di sinistra. Anche il rifugio in un governo tecnico o istituzionale non mi pare ipotesi positiva. Che cosa di meglio, quali riforme (elettorale compresa) potrebbe fare un governo tecnico o istituzionale che il governo politico non è riuscito a fare?

Un periodo non breve di coabitazione forzata al governo, con forze di centrodestra, sicuramente sgretolerebbe i già incerti consensi del Partito democratico e lacererebbe la sinistra.

Quindi un po' di audacia (quella cara a Danton, che però finì ghigliottinato) dovremmo averla e, piuttosto che perseverare nell'agonia, mettere nel conto il rischio delle elezioni anticipate. Dico di affrontare con coraggio questo rischio per due ragioni, a mio parere, entrambi valide.

In primo luogo non è affatto detto che queste elezioni anticipate darebbero la vittoria a Berlusconi. Per un verso il fascino di Berlusconi è un po' impallidito. Dall'opposizione è riuscito a realizzare solo attentati e azioni di guerriglia. Non è stato neppure in grado di mettere in circolo il suo famoso «contratto con gli italiani». Nessun progetto politico di un qualche respiro. Per l'altro verso c'è stato un movimento positivo a sinistra. La partecipazione alle primarie, comunque valutata, ha segnato un'uscita dalla passività inerte. Ancora di più la grande manifestazione del 20 di ottobre ha detto a Prodi e anche a Veltroni che la società italiana non è inerte e passiva. Insomma non è affatto detto che elezioni anticipate segnerebbero il ritorno a palazzo Chigi di Berlusconi e dei suoi.

In secondo luogo ove le elezioni anticipate, contro i miei auspici, andassero male ritengo che un passaggio all'opposizione delle forze di sinistra e democratiche non sarebbe una disgrazia, ma darebbe loro la libertà e l'audacia di diventare una vera forza di sinistra, non più frenata dai lacci e lacciuoli (e ricatti) della sua attuale maggioranza. Personaggi come Dini diventerebbero entità trascurabile e ci sarebbe un vero rinnovamento e rafforzamento dei democratici e della sinistra.

E questo, cari lettori, non è il tanto peggio, tanto meglio. Non solo perché oggi siamo al peggio. Se vogliamo un consenso dobbiamo avere un po' di fiducia nei cittadini italiani, tanto bistrattati dalla politica e dai politici di questi ultimi anni.

«La pastasciutta forse non piaceva a Leopardi, perché a causa del suo stomaco debole preferiva i brodini. In compenso gli spaghetti hanno pieno diritto di appartenere alla civiltà italica come e più di Dante Alighieri», scriveva Giuseppe Prezzolini nel suo indimenticabile saggio del 1957 "Maccheroni & C.". «Il mondo della pasta è essenzialmente popolare», sosteneva. E non è un caso che la ritroviamo tra i più importanti indicatori di spesa del paniere Istat. Così popolare e italica, irrinunciabile, che pare che certi grandi distributori, a volte, la usino addirittura come specchietto per le allodole, vendendola sottoprezzo per dimostrare quanto sono mirabolanti le loro offerte.

Forse i veri incassi si fanno su altri prodotti, ma quello che interessa a noi è che è avvenuto un fatto straordinario: da giugno in poi il prezzo del grano è aumentato, ora è al 132% in più rispetto all, anno scorso. Il prezzo della pasta deve risentirne, inevitabilmente. E qualcuno ci potrebbe speculare. Infatti l, Antitrust vuole capire se gli aumenti sono regolari o no, se esiste un cartello dei pastai che intende aggirare le regole della sana concorrenza a approfittarsi dei cittadini.

Va detto che l, aumento del grano duro è realmente stato incredibile, il prezzo era fermo da tre anni, tanto che molti contadini, una volta venuti meno i contributi europei, avevano smesso di coltivarlo perché non conveniva. Impennata incredibile e sorprendente, dovuta alla diminuzione della produzione (per siccità, boom dei biodiesel e altre storie) e al contemporaneo aumento della domanda, soprattutto da parte dei Paesi emergenti come India e Cina, vogliosi della moda alimentare occidentale. Tutti sono stati colti impreparati: l, Unione Europea per esempio, aveva tranquillamente venduto tutte le sue scorte (ai Paesi emergenti?) a giugno, appena aveva fiutato il possibile affare. Ora i magazzini europei sono vuoti, e cercare di calmierare i prezzi è praticamente impossibile. Anche l, Australia ha dovuto contingentare le esportazioni.

E la pasta? Beh, l, aumento del grano si è trasferito quasi intatto fino alla semola, che è la materia prima che i pastai comprano dai mugnai: più 122%. Ora, se calcoliamo che per una pasta artigianale, di qualità superiore, la semola incide sul prezzo finale per circa il 40%, l, aumento finale della pasta dovrebbe attestarsi sul 25% circa. Per la pasta industriale, in cui la semola incide per il 70%, l, aumento finale dovrebbe essere anche maggiore, fino al 40%. Quella industriale, la più diffusa, è la pasta che costa meno, comunque: di base un euro e mezzo al chilo (se ne trovate a meno comincia a essere difficile pensare che contenga solo semola). I pastai ora sono in crisi: la grande distribuzione deve stoppare i prezzi che salgono, non gli compra il prodotto a quanto vorrebbero, non gli riconosce gli aumenti. Del resto la pasta è sacra.

Ho la netta impressione che sia difficile immaginare un cartello dei pastai, alleatisi per speculare sui prezzi pazzi. La filiera è complessa, ha molti punti poco chiari e la situazione mondiale è davvero straordinaria. Senza voler dare ragione per forza a qualcuno (speriamo ci pensi l, Antitrust, se serve) però proviamo a fare un altro ragionamento: gli italiani consumano mediamente 28 chili di pasta pro-capite all, anno. Se costava un euro e mezzo al chilo fanno 42 euro all, anno a testa. Con il peggiore degli aumenti previsti, stiamo parlando di circa 15 euro in più a testa. In un anno!

Non mi sembra una cifra spropositata di fronte alle spese per altri consumi. A quanti minuti di telefono in meno basterebbe rinunciare per pagarsela? Può darsi che stiamo esagerando nello scandalizzarci, forse è un buon modo per non pensare ad altro, forse è perché si tratta della «civiltà italica». Se qualcuno ne approfitta è giusto che sia punito, ma siccome si tratta della nostra identità, parliamo anche della qualità della pasta. Se incide così marginalmente sulle nostre spese è uno dei pochi prodotti su cui quasi tutti potrebbero trattarsi da re e passare addirittura a un consumo di eccellenza. Molte signore di buon senso in tv hanno dichiarato che se aumentano gli alimentari sposteranno i loro consumi, rinunceranno a qualcos, altro. Di fatto andando in aiuto ai contadini. Mi sa quasi che era ora.

Se volete delle ricette sperimentate andate nella cartella Paste, riso e sughi.

Soppesata in chiave tecnica, l’inchiesta «Why not» pone due quesiti. Primo, chi debba indagare quando tra i concorrenti dell’ipotetico reato risultino Presidente del consiglio o ministri, essendo commessi i fatti de quibus nell’esercizio delle rispettive funzioni.

Rispondono gli articoli 6 e 11, comma 1, della legge costituzionale 16 gennaio 1989: il procuratore della Repubblica, «omessa ogni indagine», nei 15 giorni dalla notizia, trasmette gli atti al collegio istituito presso il tribunale nel capoluogo del distretto competente. Organo a tre teste. Lo compongono magistrati designati dalla sorte; è rinnovato ogni due anni (articolo 7); ha i poteri che competono al pubblico ministero nonché al gip (inscena incidenti probatori e archivia quando non vi sia materia su cui procedere: articolo 1, legge 5 giugno 1989, numero 219). Questione chiusa, «Why not» finirà lì.

Secondo dubbio: fin dove sia corretto l’atto con cui la Procura generale avoca le indagini qualificando incompatibile l’indagante, perché nei suoi confronti pendono inchieste disciplinari avviate dal ministro che gli eventi istruttori lambivano. Ecco un falso sillogismo. Che il guardasigilli lo persegua, è fatto ambiguo: tra le ipotesi possibili c’è anche quella d’una mossa intesa a spiazzare l’avversario scomodo; aspettiamo l’esito del giudizio disciplinare. Da notare come il requirente non sia ricusabile: diversamente dal giudice, equidistante, è parte, attore pubblico. Infatti accusa: e come potrebbe se non cercasse le prove? I soliti pseudogarantisti deplorano l’accanimento investigativo: chiamiamolo fisiologia del contraddittorio. I processi diventano commedia, piuttosto ignobile, quando requirenti timidi risparmino boiardi, ricchi, confratelli e varie exceptae personae.

Motivata così, persuade poco questa scelta. Già il nome suona male, relitto dei tempi in cui l’apparato requirente, gerarchico, lavorava quale braccio del potere esecutivo. Le avocazioni hanno una lunga storia malfamata e destano sospetti: spesso risultavano fondati. Stavolta la eviterei, non foss’altro perché riesce equivoca; il corso del procedimento era predeterminato; «why», allora, compiere un gesto discutibile? L’argomento richiedeva poche parole ma il discorso rimarrebbe monco se non toccassimo due punti. Primo, valgono ancora metri berlusconiani: durano intatte le norme che s’era affatturato il padrone, indecorose, meno due leggi su cui è caduta la scure della Consulta; e aveva radici organiche l’inglorioso epilogo parlamentare del caso Unipol.

Secondo, gli eventi calabresi lasciano intuire cosa sarebbe una giustizia selettiva le cui leve stiano in mano a requirenti comandati dal ministro (lo dicano o no, è quel che chiedono i fautori delle carriere separate, finiremmo lì): intuitus personarum; disturba il governo, diamogli addosso; e tanta disattenzione benevola verso gli amici. L’Italia è moralmente gobba, quindi tagliamole l’abito ad hoc, ripeteva Giolitti scusando le soperchierie elettorali prefettizie nel meridione. Lui, uomo d’inesorabile onestà.

La ricerca della Confesercenti sul fatturato delle mafie, calcolato 90 miliardi di euro, colloca la Mafia SpA al primo posto tra le aziende italiane. Ma la cifra è per difetto dal momento che si tratta del “fatturato commerciale”, quello che riguarda da vicino la vita e l’attività regolare degli esercenti. Se a questo aggiungiamo la voce più significativa che è quella della droga, seguita dal traffico di armi, il fatturato totale diventa ancora più impressionante. Per quanto riguarda la sola cocaina di cui la ‘ndrangheta, per i rapporti con Mancuso, leader dei cocaleri, rinchiuso in un carcere d’oro della Colombia e non estradabile in virtù dei buoni rapporti con il presidente Urribe, si calcola che il fatturato sia 60 volte quello della Fiat che nel 2006 è stato di 13 miliardi di euro. Si tratta quindi di una potenza economica che se potesse entrare nelle graduatorie ufficiali farebbe impallidire gruppi come Telecom, Eni, Fiat, Fininvest, ecc. A tutto questo va aggiunto che il valore dei patrimoni consolidati della mafie viene stimato 1000 miliardi di euro e cioè 2 milioni di miliardi di vecchie lire e che secondo la Dia (direzione investigativa antimafia) gli affiliati, dedotti dalla densità criminale delle regioni meridionali sarebbero (dati del 1993) un milione e ottocentomila. Sarebbe sufficiente confiscare e vendere il 20 per cento dei patrimoni per risolvere il problema del debito pubblico e dei servizi prioritari.

Ma non è finita. La maggior parte dei proventi delle attività criminali viene investita in economia legale, con la conseguenza di turbare profondamente i mercati e la concorrenza sul mercato interno e la competitività delle imprese sul mercato globale, dal momento che nessun imprenditore costretto a prelevare denaro in banca può reggere la concorrenza. È sufficiente osservare il livello di cementificazione del paese per rendersi conto che non è dovuto alla domanda di case a prezzi di mercato quanto alla necessità di lavare denaro sporco. La verità è che la finanza legale non ha più confini certi e si mescola ogni giorno con la finanza criminale o comunque illegale, compresa quella che serve per organizzare il terrorismo. Altrimenti i paradisi fiscali, che nessuno chiede di chiudere, a cosa servirebbero?

Nel nostro Paese, almeno un terzo della ricchezza prodotta, essendo illegale e criminale, evade fisco e contributi, per cui il peso di mantenere il Paese ricade sul rimanente 65-70 per cento della ricchezza prodotta, alla quale concorrono lavoratori dipendenti, imprenditori, finanzieri senza scrupoli, banche e società finanziarie, che tutti insieme si dividono il carico fiscale del Paese. L’Italia, con il governo precedente e il cosiddetto scudo fiscale, è riuscita persino a fare una grande operazione di Stato di riciclaggio. Altra considerazione: quando partecipo a convegni sulla mafia nel nord del Paese, scopro che gli amministratori locali (non sempre in buona fede) e i cittadini disinformati, pensano che le mafie siano un problema del sud e ignorano che i soldi da ripulire oltre che in tanti altri Paesi del mondo (la ‘ndrangheta investe il 12-13 Paesi) vengono investiti soprattutto nelle regioni del nord. Ma se qualcuno osa dirlo, i sindaci replicano subito che si vuole creare discredito. Poche sere fa ero a Busto Arsizio, in un teatro pieno di giovani e ho informato i presenti che la loro città è al centro degli affari di alcune cosche siciliane e calabresi tra le più note del paese. Inoltre, una di queste, che è di Gela, si è introdotta anche a Pavia e con attività immobiliari.

Sono novità che hanno colto di sorpresa i governanti che negli ultimi 30 anni si sono succeduti? Assolutamente no. Nel 1983 Giovanni Falcone aveva spiegato come tutto sarebbe cambiato con la raffinazione della morfina in Sicilia e l’esportazione di eroina negli Stati Uniti in cambio di valige di dollari portati a spalla e quello che sarebbe avvenuto «nell’intero arco dei Paesi europei utilizzando il nuovo spazio come terreno fertile per investire, con le buone o con le cattive, in attività lucrative di ogni genere, le migliaia di milioni di dollari che si ricavano dalla produzione e dallo smercio di qua e di là dell’Atantico di eroina e di altri stupefacenti». Nel 1992, nella sua ultima intervista che ne ha accelerato l’assassinio, Paolo Borsellino, del quale ancora oggi non si conoscono i mandanti, diceva le stesse cose. Ora siamo al fallimento e alla sconfitta. L’11 Luglio 2007 nella commissione antimafia Giuseppe Lumia ha detto: «siamo a 25 anni da quella straordinaria intuizione della legge Rognoni - La Torre e siamo a 11 anni dall’approvazione della legge 109 del 1996: per la confisca dei beni i tempi sono insopportabili e le confische sono diminuite». Violante aveva definito sull’Unità una vera vergogna le confische mancate.

Non c’è alcun tumore maligno con metastasi che consenta di intervenire dopo 25 anni dalla sua diagnosi. Purtroppo lo Stato ha alzato da tempo bandiera bianca e ha delegato alle forze dell’ordine e alla magistratura il problema più politico di questo paese e, cronaca di questi giorni, impedendo persino di operare ai magistrati più tenaci e capaci.

Immaginiamo di essere non nell’ottobre 2007, ma nello stesso mese del 2005. Un pubblico ministero indaga il capo del governo (è Berlusconi) e il suo ministro di giustizia (è Castelli). Gli sottraggono una prima inchiesta, avocata dal procuratore capo. Il pubblico ministero si mette al lavoro su un’altra inchiesta. In un passaggio dell’indagine che egli ritiene decisivo, il ministro di Giustizia (le indagini raccontano che è in buoni rapporti con due degli indagati) chiede – come una nuova legge gli permette – il trasferimento cautelare del pubblico ministero a un altro ufficio.

Sarebbe la definitiva morte dell’inchiesta. Il provvedimento amministrativo non convince il Consiglio superiore della magistratura che lo deve disporre. Non ne intravede l’urgenza, prende tempo, tira in lungo. Il pubblico ministero iscrive, allora, il ministro nel registro degli indagati: atto dovuto per l’esercizio dell’azione penale e soprattutto garanzia per l’indagato. Ventiquattro ore dopo, il procuratore generale avoca a sé - sottrae al pubblico ministero - anche la seconda indagine.

Il passo è inconsueto e appare anomalo. Gli addetti ricordano, se hanno memoria buona, qualche modesto precedente di quindici anni prima. Le ragioni del procuratore generale stanno in piedi come un sacco vuoto. Se il motivo dell’avocazione è l’"incompatibilità" per l’"inimicizia grave" tra il pubblico ministero e il ministro indagato (ha chiesto la punizione del pubblico ministero, che ne è risentito), si tratta una fanfaluca. Se si accetta il principio, qualunque indagato che denuncia il suo accusatore potrebbe invocare l’"inimicizia grave" e liberarsi del suo pubblico ministero. Cesare Previti, in passato e ripetutamente, ci ha provato. Non è andato lontano. Ci sarebbe - trapela dalla procura generale - un’altra ragione per l’avocazione delle indagini: l’inerzia del pubblico ministero. L’accusatore è fermo. Non va né avanti né dietro. Non esercita l’azione penale. Non richiede l’archiviazione «nel termine stabilito dalla legge». Ora, l’inchiesta del pubblico ministero è nei termini stabiliti dalla legge (è un fatto) e di quel pubblico ministero tutto si può dire tranne che sia pigro o inoperoso (è un fatto). La seconda ragione appare, se possibile, anche più debole della prima e nonostante ciò il pubblico ministero perde l’inchiesta e il capo del governo e il ministro di Giustizia tirano un respiro di sollievo, si liberano di ogni controllo (che abbiano o no responsabilità punibili è un’altra storia, naturalmente).

Siamo nell’ottobre del 2005 - lo ricordate? - e in questo modo abusivo il capo del governo (è Berlusconi) e il ministro di Giustizia (è Castelli) si grattano la rogna, guadagnano un’illegittima impunità, contraria alla Costituzione e alla legge.

L’operazione liquidatoria consiglia di gridare allo scandalo. Non siamo nella Francia ancien régime dove, grazie a lettere chiamate Committimus, le persone favorite dal potere schivano le normali giurisdizioni e si presentano dinanzi a corti più mansuete. Se questo accade (e accade) si degrada a regola fluttuante, a canone fluido l’articolo 3 della Costituzione («I cittadini sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di condizioni personali e sociali»). E’ necessario interrogarsi allora sulla qualità di una democrazia, esprimere qualche preoccupazione se il potere politico rifiuta ogni contrappeso; annichilisce l’indipendenza della magistratura. E’ un obbligo chiedersi delle ragioni (e responsabilità) di una frattura istituzionale che impone a una magistratura servile di umiliare la sua stessa autonomia liberandosi delle «teste storte» convinte che atti uguali vadano valutati a uguali parametri giuridici, sia l’indagato un povero cristo o di eccellentissimo lignaggio.

Questo avremmo pensato e detto, con apprensione e qualche brivido, se nell’ottobre del 2005 fosse stata rubata l’inchiesta a un pubblico ministero "colpevole" di voler verificare i comportamenti del capo del governo (Berlusconi) e del ministro di giustizia (Castelli).

Non siamo (purtroppo?) nel 2005. Siamo nel 2007 e il capo del governo (indagato) è Romano Prodi, il ministro di Giustizia (indagato) è Clemente Mastella e l’esito dell’affare non è mai riuscito a Berlusconi, Previti, Dell’Utri, Castelli: il pubblico ministero che li ha indagati - Luigi De Magistris - si è visto trafugare l’inchiesta dal tavolo.

Se ne deve prendere atto con molta inquietudine. Ora che il "caso De Magistris" (o il "caso Prodi/Mastella"?) precipita verso un punto critico, è indispensabile che questo affare diventi finalmente, e nel mondo più rapido, trasparente. Che tutti i comportamenti, le responsabilità, gli usi e i soprusi siano squadernati in pubblico, possano essere verificati e, se necessario, presto corretti nel rispetto delle regole democratiche che assegnano a ciascuno degli attori ruolo e doveri. Il governo governi senza condizionare l’autonomia della magistratura (se Mastella teme di cadere in tentazione, gli si assegni un altro incarico nell’esecutivo). Il pubblico ministero eserciti l’azione penale nel rispetto delle costrizioni procedurali (il Consiglio superiore ne verifichi l’ossequio, subito non in dicembre). Le gerarchie togate evitino ogni soggezione, rispettino i codici, non manipolino le procedure (la procura generale di Catanzaro receda dalla sua dissennata iniziativa). Il presidente della Repubblica sia, come sempre è stato, il garante della Costituzione e dell’eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge. Non c’è più spazio per il compromesso, la tolleranza, la furbizia. A meno di non voler cadere in quell’incubo che sembrava alla spalle con la sconfitta del cattivissimo Silvio Berlusconi.

L’Italia è l’unico paese al mondo, quante volte è stato scritto in negativo? Bene, l’Italia è da ieri anche l’unico paese d’Europa dove milioni di elettori, iscritti o non iscritti, possono scegliere il leader di un grande partito. L’unico del mondo dove milioni di operai sono chiamati a votare un accordo col governo. Una pessima politica spettacolo ha saputo offrire in pochi giorni due spettacoli di autentica democrazia. Non si tratta, è chiaro, di prendere le difese di una classe dirigente che, secondo una vignetta di Altan, si manda benissimo a quel paese da sola. Piuttosto di trovare una via d’uscita alla furibonda colluttazione fra mala politica e antipolitica che ha avvelenato l’ultimo anno.

I tre milioni e mezzo di elettori delle primarie hanno affidato a Walter Veltroni una missione e un’occasione straordinarie. Per la prima volta, da anni, la politica europea guarda all’Italia con rispetto e con speranza, come al laboratorio di una nuova stagione.

Per la prima volta la sinistra italiana ha la possibilità di balzare dalla retroguardia del riformismo europeo, dove l’avevano confinato prima l’egemonia comunista, poi l’avventura craxiana e infine le ambiguità del centrosinistra, a un ruolo guida nella sinistra continentale.

Questi passaggi di solito non offrono alternative: o finiscono molto bene o malissimo. È quasi una legge meccanica. Quando un processo è avviato e mette in moto forze, energie, partecipazione, o si traduce in fatti positivi oppure si rovescia in furia distruttiva. È già successo in fondo con le altre primarie, quelle che avevano incoronato Romano Prodi leader dell’Unione. Con un carico di speranze di cambiamento largamente disattese dall’eccesso di realpolitik della maggioranza e quindi confluite a ingrossare il mare dello scontento antipolitico.

Il primo effetto del voto di domenica è che per il governo Prodi è finita la stagione del «tira a campare». A chiarirlo subito è stato il discorso del vincitore, Veltroni, con la richiesta di «discontinuità» rispetto al passato. Un modo un po’ politichese per dire che il governo deve cambiare registro e alla svelta. L’ideale sarebbe che domani stesso Romano Prodi annunciasse il dimezzamento dei ministri e dei sottosegretari, magari all’insegna del largo ai giovani e alle donne, con in più una bella accelerata sulle riforme costituzionali e un deciso ritorno all’agenda dei problemi reali del Paese, non limitati al solo debito pubblico. Ora, è difficile che questo accada in una politica equamente ripartita fra tanti Don Abbondio e altrettanti Don Rodrigo. Ma se la maggioranza non saprà intercettare almeno in parte l’ultimo avviso del 14 ottobre, dovrà rassegnarsi in breve a compiere il fatidico passo dal tirare a campare al tirare le cuoia, come diceva Andreotti.

L’altro effetto delle primarie democratiche, in genere positivo non soltanto per la politica ma per l’intera società, è l’aver riportato all’ordine del giorno il tema di gran lunga più rimosso nella vita pubblica: il futuro. Dimenticare il futuro è il primo segnale del declino. Veltroni forse esagera nel non voler mai nominare il suo avversario. Ma è vero che il risultato peggiore della lunga stagione berlusconiana, pure verniciata di modernismo, è stato alla fine d’aver inchiodato l’Italia a un passato che non passa mai, gravido di antichi odi ideologici. D’altra parte anche al centrosinistra è mancato uno sguardo aperto e creativo sul futuro, nell’urgenza di dover sempre fare i conti, non solo metaforici, con il passato.

La scommessa di Veltroni e del nuovo partito è tornare a impugnare questa bandiera storica della sinistra, riportare il futuro al centro dei pensieri e dell’agire politico. In ogni campo, l’economia e i diritti civili, il lavoro e l’ambiente, la sicurezza. Così come è avvenuto con le primarie, vera «discontinuità» rispetto alla vecchia politica. Su questa strada il Partito Democratico può intercettare molti consensi e rovesciare i sondaggi. Altrimenti dovrà rassegnarsi a riconsegnare le chiavi di Palazzo Chigi a un Berlusconi settantenne, circondato da un’anziana corte di decrepiti miracoli.

Smettiamola, noi sinistre manifesto incluso, di essere sorpresi e amareggiati per le misure prese dal governo di centrosinistra. Un conto è cercare di modificare le scelte, che è un obbligo che abbiamo nei cofronti della nostra base o dei nostri lettori, un altro è cadere dalle nuvole come se fosse stato possibile pensare che sarebbe andata molto diversarmente. Abbiamo votato l'Unione e la coalizione relativa per impedire una riedizione del governo Berlusconi, e ci siamo riusciti appena di misura alleandoci con larghi settori e partiti democratici, che non ne sopportavano i traffici e il disprezzo della Costituzione, ma che perlopiù avevano lasciato alle spalle, come i Ds, o non avevano mai avuto, come la Margherita, un impegno sociale. Ancora meno condiviso era, nella coalizione, il giudizio sulle questioni di natura civile ed etica, prima di tutto sulle relazioni sessuali (tema in gran parte superato nel resto dell'Unione europea) e sulla posizione da tenere sui rapporti stato-chiesa, che resta irrisolta, anzi per dirla esattamente, è fortemente arretrata rispetto a mezzo secolo fa soltanto in Italia e in Polonia. Su un solo punto il governo di centrosinsitra è andato a una vera mediazione con il suo elettorato più radicale, ed è stato sul tema della politica estera, mantenendo l'impegno sul ritiro dall'Iraq, assumendo qualche iniziativa coraggiosa anche se finora di scarso esito sul Medioriente e rifiutando le smanie di punire l'Iran che, oltre agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, hanno conquistato in questi giorni anche la Francia di Sarkozy.

Sapevamo dunque di essere una minoranza sul fronte del lavoro e su quello di un'etica laica. La possibilità di inflettere verso il nostro versante le linee del governo Prodi stavano, tutte e soltanto, nella nostra capacità di rimettere al centro dell'attenzione, anche attraverso una pressione sociale, i diritti di chi lavora - in parole povere assumere come priorità salari e pensioni, ridurre il precariato, riprendere saldamente quel principio elementare del pensiero politico europeo che afferma la non riducibilità delle norme di uno stato a quelle praticate dalle religioni o dalle chiese in questo o quel paese.

Sul primo punto, cui mi limito oggi, non solo non si è fatto un passo avanti, ma l'andamento delle consultazioni indette dai sindacati dimostra che sia i pensionati sia i lavoratori dipendenti sono ormai determinati dalla paura di perdere anche il poco che hanno. Vale per ogni categoria che sia venuta via via rinunciando al conflitto, come dimostrano al contrario le aziende dove ha prevalso il no, compresi alcuni call center, mentre c'è stata una quasi unanimità di sì in fabbiche o aziende minori dove nessuna lotta è stata fatta. Non conosco al momento in cui scrivo i dati del pubblico impiego e neppure quelli della scuola, dove i compensi sono i più derisori.

È una constatazione grave e niente affatto, come troppi usano dire, «economicista». Dimostra che è stata minata una coscienza basilare di quei principi che nel 1948 avevano fatto della nostra una delle costituzioni più avanzate. In questa caduta della soggettività, resterà storica la responsabilità dei democratici di sinistra, la loro rinuncia, per non dire ecclesiasticamente abiura, a una qualsiasi idea di società che non corrisponda alle leggi di una mondializzazione governata dal capitalismo più selvaggio. Ogni nuova esternazione di Walter Veltroni lo conferma fin con candore.

Ma le sinistre che si dicono radicali, noi stessi, stiamo dandoci abbastanza da fare per risalire la china? Non mi pare. E' importante la manifestazione indetta per il 20 ottobre - rendere visibile la protesta di chi non si contenta di emettere gemiti o insulti. Almeno, di non indulgervi troppo, perché anche fra noi c'è chi dà fiato ai precordi degli umiliati e offesi, o si stringe nelle spalle, o si limita a ricordare che una protesta a furor di popolo si fonda sempre sulla mancanza di una politica forte. A me né gemiti né insulti vanno bene non per moralismo ma per senso della realtà. Anni di storia e il presente dimostrano come la denuncia o la protesta non accompagnata da una proposta portino acqua soltanto alla destra. Bisogna essere ciechi per non vederla avanzare. E sarebbe miserabile ripetere quanto siano cattivi o traditori coloro che ci governano, e, sottointeso, quanto sciocchi coloro che hanno votato già due volte Berlusconi e lo rivoterebbero se si votasse domani. Sono sciocchi i sì al referendum delle tre confederazioni sindacali, che ha visto una crescente quantità di pensionati dichiararsi d'accordo che la metà della loro propria categoria sia costretta a vivere al di sotto del livello di povertà? Sciocchi i lavoratori aderenti ai sindacati, che hanno votato a larga maggioranza di restare in condizioni salariali e normative inferiori a quelle degli altri paesi occidentali del nostro calibro e senza avere il coraggio di seguire i metalmeccanici, magari pensando che sono una specie in via d'estinzione? Non sono degli sciocchi. Bisogna cominciare a capire come la mancanza di coraggio, la poca voglia di organizzarsi, il silenzio davanti a una cabina elettorale o a un referendum, di chi teme che votando no per lui vada a finire ancora peggio, sono prove di una grande sofferenza - forse della maggior sofferenza. Penso ai ragazzi, sempre più spesso non soltanto ragazzi, dei call center, che hanno votato sì a un protocollo che li condanna a restare quel che sono, cioè in un'assoluta mancanza di prospettive e attaccati a un lavoro che - passando dal materiale all'immateriale - è identico, passando dalla fatica fisica a quella fisico-mentale, a quello di coloro che nel 1800 lastricavano le strade e furono i primi a sindacarsi.

Ma che cosa gli proponiamo noi sinistra alternativa? Non credo che sia lo «spacco tutto per dimostrare che esisto». E' una reazione comprensibile per chi non ha un salario da perdere, o perché troppo giovane o perché professore in qualche università. La rivolta delle banlieues di Parigi lo scorso anno questo è stata, a dimostrazione di un malessere esistenziale furibondo che non ha però spostato di un metro i rapporti di forza perché non era in grado di collegare attorno a sé nessuna altra parte sociale. Il sovversivismo di immagine, sul quale contano molti nostri compagni e amici, indica solo che c'è una crepa nel consenso ma non in quale direzione vada e è per natura transitorio. Qualche riflessione sull'egemonia, cioè sulla capacità di far blocco e di contare, invece che contentarsi della propria coscienza, andrebbe fatta.

La verità è che negli attuali rapporti di forza, e non solo istituzionali, la strada di una proposta in grado di persuadere e diventare una leva reale, è stretta. Penso alla nostra rispettata ma scarsa presenza sul mercato, già esile, della stampa. Leggo sul manifesto e su Liberazione i resoconti del convegno fatto assieme alle sigle politiche della sinistra radicale e ai nostri compagni e amici di Rive Gauche (nome che suggerirei caldamente di cambiare perché la rive gauche è ormai turismo e speculazioni immobiliari). Vorrei sbagliare, ma ho visto da un lato la vastità di pensiero e di documenti degli economisti, dall'altro la povertà della tavola rotonda dei leader, che non solo non avevano trovato il tempo di ascoltarli, ma non sono riusciti a disincastrarsi dalla tagliola «stare al governo o uscirne». Non doveva venir fuori da questa giornata di incontri una proposta di programma? Anche i migliori degli economisti, se posso avanzare più che una critica un bisogno, stentano a dare un'indicazione accessibile su quel che una minoranza, al parlamento e fuori, potrebbe fare e in quali tempi. Come osservava Isidoro Mortellaro, un programma che non definisce tappe, modi, luoghi e tempi non è un programma: resta un punto di vista.

Eppure l'obiettivo di oggi, primi di ottobre del 2007, sembra evidente: contro il pacchetto del governo su welfare e precariato occorre strutturare una proposta concretamente praticabile e conquistarvi un consenso, o almeno farne una casamatta (come una volta diceva Ingrao) nella società e in parlamento. Nella società i tempi sono lunghi e è certo che si sarebbe dovuto cominciare almeno da un anno, perché si sapeva che si sarebbe arrivati al dunque su pensioni e welfare (e qui il nostro giornale dovrebbe verificare la sua capacità e tempestività di comunicazione). In parlamento invece i tempi sono stretti e le condizioni politiche non sono certo migliorate dal momento della presentazione del pacchetto. Ora, in sede parlamentare, un'iniziativa consiste non solo in una discussione forte, ma in una legge o più leggi, in una mozione o più mozioni, da sottoporre al voto. Leggi e mozioni che vanno misurate sull'oggi, cioè su un anno di crescita lenta, permanentemente corretta al ribasso e sull'impossibilità di quasi tutti i principali paesi dell'Unione europea a stare al rapporto comandato tra Pil e debito.

Stupisce che i leader dei gruppi parlamentari non abbiano fornito al convegno la loro analisi, la loro previsione e i documenti che devono averla compiuta. In tema di vincoli internazionali, fra il piegare la testa al diktat della Commissione e fare come se non ci fosse, c'è una zona di manovra. Se la sinistra europea fosse realmente operativa, questa analisi l'avrebbe già fatta e avrebbe non solo già stabilito un accordo fra le minoranze in parlamento europeo ma verificato quanto le maggioranze che sfondano il parametro debito/Pil possano essere interessate a una qualche sia pur transitoria convergenza. E' su questo collegamento che si misura infatti in concreto la possibilità di fare da uno studio una politica. Ma il vincolo della spesa pubblica non è tutto e per certi aspetti non è neppure quello decisivo. Non lo è per quanto riguarda le pensioni, se è vero come è vero e controllabile sui numeri che quest'anno per le pensioni vere e proprie il fabbisogno è interamente coperto dai contributi dei lavoratori e per quanto riguardano i prossimi decenni, si impone quantomeno una moratoria perché le previsioni fatte poco più di dieci anni fa si sono già dimostrate errate.

Quanto alle politiche sul lavoro, che è impossibile separare da quelle economiche e sono lasciate fin troppo ai singoli stati, esse dipendono esclusivamente da compatibilità politiche interne e sono quindi per quattro quinti ideologiche. O il governo di centrosinistra le lascia interamente al conflitto con le parti sociali o, se si mette a legiferare, non può più affidare la crescita a un sistema di imprese verificatosi incapace, irrorandolo di soldi senza alcuna contropartita e tirare la cinghia sui ceti subalterni, migliorando non solo la caduta verticale dei redditi da salario nella formazione della ricchezza nazionale, ma il fatto che esistono in Italia una quantità indecente di famiglie «povere» nel senso che dovrebbero vivere al di sotto del minimo vitale. Sono due punti sui quali si misura la sua affidabilità intellettuale e morale. Tantopiù se non si chiede al parlamento e al paese la ragione di ambedue le scelte. Inutile lamentarsi poi se la gente non capisce o profetare che domani capirà. Perché, come già mi è capitato di scrivere, non si tratta di un «vuoto» del fare politicoi bensì del «pieno» di una strategia liberista, che si dimostra devastante per tutta l'Europa.

D'altra parte, se su salario e pensioni la scelta del governo poggia anche su una debolezza suicida della Cgil, un ridimensionamento del precariato passa da un'elaborazione non semplice. L'attuale dispositivo del ministro Cesare Damiano è una presa in giro, rimandando il trienno di precariato a altri trienni di precariati di altre imprese. Ma che cosa suggeriscono gli economisti e i sociologi sulla possibilità di mettervi un limite secco, senza far ricadere questa forza di lavoro nel nero? Il dispositivo economico e politico da mettere in campo davvero non è facile. Ma anche qui, tra abolire la Legge 30 e il niente del pacchetto governativo, si potrebbero mettere in campo tappe, modi, tempi e controlli che potrebbero essere stabiliti in un intreccio per una volta non vizioso tra pubblico e privato.

Saremmo dovuti arrivare a farlo perfino noi, per quanto siamo un povero giornale, se lavorassimo come ormai imporrebbero i tempi e i rapporti effettivi di forza. Salvo ridursi a essere un recinto di protesta, un luogo puramente simbolico e contenti di esserlo.

Tutte le cose da cui siamo circondati e che usiamo, in una giornata qualunque, sono uscite da una fabbrica. Da lì vengono, si sa, l’auto, il frigorifero e il televisore. Ma da una fabbrica sono usciti pure la tazzina del caffè e il tavolo su cui posa, i vetri della finestra e le piastrelle del bagno, il Dvd che ascoltiamo e la carta su cui è stampato questo articolo, la serratura della porta e la cabina dell’ascensore. Le cose uscite da una fabbrica rendono (quasi sempre) più comoda la vita. Usando un computer portatile, alla luce d’una lampada alogena, nel tepore diffuso da una caldaia a gas, tutt’e tre usciti da una fabbrica, è anche più agevole scrivere che le fabbriche sono ormai in via di estinzione.

La fabbrica è di regola un lungo capannone grigio senza finestre, dove entrano materie prime e pezzi separati i quali, lavorati e assemblati, ne escono poi trasformati in cose pronte per l’uso. La trasformazione è effettuata da macchine, costruite a loro volta in un’altra fabbrica, e dal lavoro umano. Rispetto a trent’anni fa, entro la stessa fabbrica sono oggi più numerose le macchine che compiono da sole varie fasi della trasformazione, spesso integrate fra loro in sistemi flessibili di produzione, oppure metamorfizzate in robot. Per contro è sceso di molto il numero dei lavoratori occupati. Ma se i lavoratori non continuassero a controllare le macchine e a provvedere con la loro attività a riempire i larghi spazi del processo produttivo che restano aperti tra una macchina e la successiva, anche nelle produzioni più automatizzate o robotizzate, dalla fabbrica non uscirebbe niente.

In fabbrica c’è sempre qualcuno che comanda, e altri che sono comandati. Qualcuno provvede a organizzare il lavoro, dividendolo in operazioni semplici e brevi. Vanno compiute in pochi minuti, a volte uno solo, per poi ricominciare. Gli altri eseguono. Dal punto di vista della divisione del lavoro, la fabbrica di oggi resta molto simile a quella di una generazione fa, se non di due. Magari non la chiamano più "organizzazione scientifica del lavoro". Però si tratta pur sempre di lavoro frammentato in mansioni parcellari e ripetitive, che si imparano alla svelta e non richiedono all’individuo che le svolge una qualifica professionale elevata. Alla quale comunque non consentirà mai di arrivare, quel lavoro diviso, nemmeno dopo una vita.

Da altri settori dell’economia, che vanno dall’agrindustria alla ristorazione rapida, dalla grande distribuzione ai call center, gli esperti guardano oggi all’organizzazione del lavoro della fabbrica per comprendere come si fa a estrarre da una persona la massima quantità di lavoro utile in una data unità di tempo. Il loro scopo ideale è quello di trasformare ogni genere di attività umana in una copia del lavoro di fabbrica. Sembra ci stiano riuscendo.

Grazie all’automazione e a altre innovazioni del prodotto e del processo produttivo, in fabbrica molte lavorazioni particolarmente pesanti e nocive ora sono svolte dalle macchine. C’è anche meno rumore. Tuttavia le mansioni che restano affidate a esseri umani sono altrettanto stressanti di quanto lo erano un tempo. In numerosi casi la fatica fisica e nervosa è anzi aumentata. Perché le fabbriche producono oggi "giusto in tempo", che significa alimentare un flusso ininterrotto di materiali e di operazioni lungo tutto il processo. Ed è sempre l’operatore umano che deve badare a che il flusso non si interrompa mai, che le eventuali disfunzioni vengano subito superate, e gli effetti di queste sui tempi come sulla qualità del prodotto prontamente eliminati. Ciò comporta ritmi di lavoro sempre più rapidi per tutti gli addetti alla produzione; drastica riduzione delle pause durante l’orario di lavoro; una tensione continua per evitare che qualcosa vada storto. Forse lo fa in modo diverso da un tempo, ma di sicuro continua a stancare, il lavoro in fabbrica. Così come gli incidenti che avvengono in essa, masse e arnesi grevi di metallo contro corpi umani, continuano a ferire seriamente ogni giorno migliaia di uomini e donne, e a uccidere, industria delle costruzioni a parte, 1200 volte l’anno.

Invece come luogo di incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, di interessi comuni, di amicizia, la fabbrica è cambiata. Tutte le forme di relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del lavoro risultano difficili. Si stenta perfino, talvolta, a mettere insieme una squadra sportiva. La causa non sono le persone, che avrebbero cambiato atteggiamento o abitudini. Sono piuttosto i contratti di lavoro di breve durata, e l’affidamento a imprese esterne, diverse dall’impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del processo produttivo interno. Ciò impedisce alle persone di imparare a conoscersi, vivendo e lavorando fianco a fianco per periodi abbastanza lunghi. Al presente può succedere che su cento lavoratori in attività entro una fabbrica, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano dipendenti fissi dell’impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova. Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da apprendista, interinale, o collaboratore. Ad altri, dipendenti da imprese terze, subentreranno in fabbrica i dipendenti di imprese diverse. La fabbrica, da luogo canonico di permanenze e stabilità, si va trasformando in un luogo di frettoloso passaggio.

In Italia come altrove, le fabbriche non sono mai state altrettanto numerose, e non hanno mai prodotto una così massiccia quantità di merci. Per convincersene basta guardare dal finestrino, dell’auto o del treno. Strade e ferrovie che si dipartono dalle grandi città, e da tante minori, appaiono costellate per decine di chilometri da file di fabbriche. Di solito uno non arriva a vederci dentro, a quegli scatoloni grigi, ma di sicuro all’interno c’è qualcuno che lavora. In certi posti lavorano poche decine di persone, in altri centinaia o migliaia. In totale, pur contando solamente i lavoratori dipendenti dell’industria in senso stretto, gli abitanti giornalieri e notturni delle fabbriche italiane sono tuttora quasi quattro milioni e mezzo.

Mentre sembra che i lavoratori di fabbrica nessuno riesca a vederli, sono invece ben visibili a tutti le colonne di tir su autostrade e tangenziali, i treni merci lunghi un chilometro che rombano a due metri da noi mentre sulla banchina aspettiamo l’eurocity, le decine di migliaia di container che riempiono i porti e le piattaforme intermodali. È vero che parecchie di quelle merci provengono dall’estero. Ma non meno voluminose sono le nostre merci che viaggiano su tir, treni e navi dirette verso destinazioni straniere. Dopo essere uscite da una fabbrica. Dalla quale esce anche una domanda ininterrotta di servizi. Ricerca, informatica, reti di comunicazione, logistica, manutenzione, consulenze varie, amministrazione, formazione e altro: una bella quota, insomma, di quel che vien denominato terziario. Chiudete o delocalizzate la fabbrica, e la relativa quota di terziario scende a zero. È uno dei debiti poco noti che economia e società hanno verso la fabbrica e quelli che ci lavorano.

L'economia di questi anni è contrassegnata dalla precarietà. Una condizione contrattuale che mina alle fondamenta «modello sociale», convivenza, rappresentanza sindacale e politica e - alla fin fine - la stessa stabilità dell'Unione europea. Gli economisti di sinistra sono stati chiamati a illustrare diagnosi, e possibilmente anche proposte, per individuare - in vista della manifestazione del 20 - «le condizioni per l'avvio di una credibile e organica iniziativa unitaria della sinistra nell'ambito della politica economica».

Ne esce fuori uno scenario fatto di molte suggestioni diverse, a volte anche incompatibili, ma tutto sommato abbastanza chiaro. Il dato di partenza è infatti la crisi di consenso delle teorie variamente liberiste, incapaci di trovare riscontro nella realtà empirica, segnata «dalla prima riduzione dei diritti del cittadino e del lavoratore» da 60 anni a questa parte (Paolo Leon). Frutto di un azzeramento delle politiche economiche degli stati, privati degli strumenti per intervenire sulla situazione politica e sociale, in un quadro anche culturalmente impoverito («un'empiria senza princìpi»).

Per l'Italia è un disastro particolare, che ha visto aggravarsi il gap («-9% di Pil in 10 anni») rispetto agli altri paesi europei. Una «meridionalizzazione» del paese (Roberto Romano) conseguente all'«incapacità del nostro sistema economico di modificarsi» e verificabile nei bassi investimenti in ricerca e sviluppo («sempre rapportati alla specializzazione produttiva»; e «se si fabbricano cravatte»...). Ma riscontrabile anche nei «differenziali salariali all'interno della Ue» (Guglielmo Forges Davanzati), che fanno il paio con il costante peggioramento della bilancia commerciale. La spiegazione liberista accusa l'«elevato debito pubblico, che comprime investimenti e tassi di crescita», oltre che «il mercato del lavoro troppo rigido». Mentre è vero l'opposto: la «flessibilità del lavoro in uscita», quella che tanto piace a Confindustria, «comprime i consumi e quindi la domanda aggregata», in un circuito depressivo.

Tra i «misteri» italiani c'è anche il rapporto tra una bassa crescita e l'aumento dell'occupazione, quasi soltanto di tipo precario; mentre aumenta la popolazione come mai era avvenuto prima. I flussi dei migranti spiegano entrambi i fenomeni (Enrico Pugliese), mentre la ripresa delle migrazioni interne avviene «rovesciando i flussi delle rimesse». A salire al nord, oggi, sono soprattutto giovani laureati che vengono letteralmente «mantenuti a distanza» dai genitori. Andrea Fumagalli rivendica le sue origini «operaiste» sostenendo che «non ci sono più differenze tra politiche che intervengono sul mercato del lavoro e quelle sulla vita»; per teorizzare la «centralità della condizione precaria», cui occorrerebbe rispondere in termini di nuovo welfare, garantendo «continuità di reddito».

Chi mette però i piedi nel piatto è Marcello Messori, che non si offende per la definizione di «social-liberista». La scarsa crescita europea in questo inizio secolo non è per lui dovuta a una politica monetaria restrittiva, che «anzi mai come in questi anni è stata permissiva dappertutto»; prova ne sono i «tassi di crescita mondiale più alti di sempre». Per l'Italia, soprattutto, «è finita l'epoca» in cui l'import di beni capitali contenente innovazione faceva da stimolo alla «creazione di un settore simile»; l'Information communication technology (Ict) si è imposta al mondo, ma noi non siamo riusciti «né a produrla, né a utilizzarla». Siamo insomma un paese «inadeguato al nuovo modo di produzione», perché qui «la vera rigidità è il capitale (capitalismo familiare 'chiuso'), insieme a diffusissime posizioni di rendita anche nel privato, un apparato amministrativo conservatore, un sistema sociale differenziato ma con comune percezione di aver da perdere dal cambiamento». Ne deriva una proposta in termini di «liberalizzazioni e ri-regolamentazione dei mercati», in cui l'accento non va sulla quantità ma sulla qualità della spesa pubblica. Di tutt'altro tenore è la relazione di apertura, tenuta da Jorg Huffschmid, dell'Euromemorandum Group. Qui la domanda fondamentale - «come portare la democrazia nell'economia» - trova risposta nella riproposizione di una visione keynesiana abbastnza classica; ma in modo consapevole («non dobbiamo reinventare la ruota per molt di questi problemi»).

Un'economia «eccezionale» come la nostra fornisce però contraddizioni in esubero. Emiliano Brancaccio si sofferma su quella tra «produttività del lavoro decrescente» rispetto ad altri paesi, con cui condividiamo però «la convergenza verso il basso dei salari nominali». Una situazione insostenibile, alla lunga, a causa della «divaricazione dei costi del lavoro per unità di prodotto». Il parallelo deficit di bilancia commerciale («è dai conti esteri che può arrivare la crisi dei conti pubblici») viene affrontato dal centrosinistra in termini di deflazione salariale. Salari già al livello più basso del continente, e su cui si può agire solo tramite «ulteriore precarizzazione del lavoro, approvazione del protocollo sul welfare e un tornare alla carica contro l'art. 18» (come nel «progetto Treu», sostenuto «anche da Veltroni»).

Lo sguardo sul globale arriva da Riccardo Bellofiore (relazione insieme a Joseph Halevi), che inquadra il «nuovo capitalismo» in modo «assai diverso da Revelli e Negri». Un nuovo «modello Usa» che riparte su «boom speculativi sostenuti dalla politica monetaria», un vero e proprio «keynesismo finanziario» travestito con slogan liberisti che produce «un consumatore indebitato, un risparmiatore terrorizzato e un lavoratore spaventato». Esiste un «problema strutturale», anche per l'Italia, di bilancia commerciale, per cui è necessario immaginare un'«alternativa di politica economica» rispetto alle ricette ideologiche liberiste; ma che presuppone «la capacità di dire qualcosa sulla spesa pubblica», ovvero «sul quanto e dove intervenire»; presupponendo naturalmente «un rapporto debito/Pil più elevato», perché si tratta di «finanziare prima di avere risultati reali»; possibile solo se si ha «credibilità».

Carla Ravaioli e Marcello Cini - «non economisti», si schermiscono - mantengono lo sguardo sulla globalità. La prima per ricordare «l'aporia insanabile della crescita illimitata dell'accumulazione capitalistica in un mondo finito», che si concreta nella «crisi ecologica: la più pericolosa, ma anche la più rivoluzionaria». Con un rimprovero ai «critici del capitalismo», che se ne dimenticano sempre. Il secondo per riandare all'importanza della «rivoluzione informatica», in cui avviene «un'appropriazione privata della conoscenza del tutto simile all'appropriazione privata delle terre con le enclosures del '600 inglese». Un processo che completa «l'assoggettamento di tutte le sfere della produzione al dominio del capitale». Quasi a ricordare che la «stabilità del posto del lavoro» è stata conquista recente del movimento operaio; oggi rimessa pesantemente in discussione.

Postilla

Lo sforzo che ci interessa è quello di costruire un ponte tra il sistema economico-sociale di oggi e quello di un domani migliore. Gli economisti della “rive gauche” sembrano coinvolti, in misura maggiore o minore, in questo tentativo. Per comprendere se e come occorrerà leggere gli interventi (o averli ascoltati). Ci limitiamo ad osservare per ora, parafrasando Italo Calvino, che del ponte si vedono molte pietre, ma non ancora la linea dell’arco che dovrebbe tenerle insieme. Ma forse è pretendere troppo.

La sicurezza, si dice, non è di destra né di sinistra. Vero, anzi ovvio: finché non si precisa che cosa si intende con sicurezza e come ottenerla. Da molti anni, negli Usa e in Europa (da ultimo in Italia), per sicurezza si intende solo, da destra e da sinistra, la diminuzione del rischio di vittimizzazione da microcriminalità da parte della «gente». Non è l'unico modo di declinare la sicurezza, che un tempo non lontano significava piuttosto «messa al riparo dai rischi della vita».

Sicurezza viene fatta coincidere, nel dibattito italiano attuale, con legalità. Dobbiamo dunque escludere che siano un rischio per la sicurezza i lavavetri e i mendicanti: nullum crimen sine lege. E se legge si farà, ricordiamo ciò che diceva Anatole France: la legge è uguale per tutti, vieta sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti. Ma vi sono altre questioni. Che cosa si intende per «gente», o «cittadini»? In città vivono e transitano uomini e donne, bianchi e colorati, ricchi e poveri, adulti e bambini: la sicurezza di chi si deve tutelare? Anche quella dei lavavetri, delle prostitute, dei mendicanti, o soltanto quella di chi «paga le tasse» (non molti, in Italia) e rispetta la legge (ancora, non molti in Italia)? E che dire di metà della popolazione (le donne, di tutte le fogge e colori), ben più a rischio di vittimizzazione in casa, in famiglia, che negli angoli bui della città ad opera di sconosciuti scuri di pelle?

E' vero, c'è un diffuso senso di insicurezza. Indipendente, però (dicono le ricerche), dall'aumentare o diminuire dei tassi di microcriminalità. E magari sensibile alle campagne di legge e ordine: le quali spostano semplicemente questo senso di insicurezza su un bersaglio visibile e (apparentemente) aggredibile, laddove sarebbe molto più difficile fare i conti con la precarietà del lavoro, la flessibilità, il declino delle protezioni collettive, la paura di chi è diverso da noi, l'incertezza del futuro, le annunciate catastrofi ambientali, per non parlare degli infortuni sul lavoro e quelli derivanti dal traffico, per tutti noi un pericolo assai grave e costante ma cui sembriamo esserci abituati (non sarà che forse le lobby dei costruttori d'auto e dei venditori di petrolio sono più influenti sull'opinione pubblica delle temibili lobby di mendicanti, lavavetri e zingari?).

Le carceri sono piene fino all'orlo di imputati o condannati per reati riconducibili alla categoria della microcriminalità - come è sempre stato, del resto (mentre invece le persone «perbene» si pagano avvocati e prescrizione): dove è dunque l'indulgenza nei confronti di quel tipo di reati? Lavavetri, mendicanti, rom ci mettono a disagio e sono un elemento di «degrado» delle nostre città. Ma forse ci mettono a disagio perché ci ricordano che noi stiamo meglio? E che cosa fare con il «degrado», spazzarlo via, nasconderlo alla vista, criminalizzarlo?

E' assai dubbio che la famosa «tolleranza zero» di Giuliani abbia veramente diminuito la criminalità a New York, se non altro perché negli stessi anni diminuì in tutte le principali città nordamericane e in tutto il paese (è assai più probabile che il calo sia da legare alla prosperità economica degli anni novanta), ma ha certo aumentato abusi ed illegalità della polizia, soprattutto nei confronti delle minoranze etniche, e diminuito il senso di coesione sociale.

Inoltre, ci si permetta di far notare, se, come dice il ministro Amato, la «ricetta» di Giuliani «non è di destra né di sinistra», non è un caso quasi straordinario che Giuliani sia proprio colui che oggi ha le maggiori probabilità di divenire il prossimo presidente degli Stati uniti, se il partito di destra, il partito repubblicano, vincerà le elezioni? Colui insomma che si appresta ad essere il massimo alfiere della destra a livello globale? I leader del partito democratico americano potrebbero forse ritenere che alcuni leader del partito democratico italiano abbiano le idee un po' confuse in proposito?

Siamo certo in presenza di un forte declino e crisi del legame sociale, di un aumento della solitudine di ognuno e ognuna e della diffidenza di tutti verso tutti. Le campagne odierne di legge e ordine rafforzano questo declino e accentuano questa diffidenza, orientandola verso i e le migranti.

Lo stesso rapporto sulla sicurezza del ministro Amato ha messo in luce come la criminalità immigrata sia statisticamente legata ad una condizione di irregolarità. Ma questa è appunto una «condizione», non una «qualità» dell'essere migranti; è assai difficile immigrare in Italia legalmente per cui i migranti, che sanno benissimo che c'è lavoro, ci vengono o ci rimangono irregolarmente. Tuttavia, la condizione di irregolarità in cui poi si trovano li espone ad un alto rischio di illegalità e criminalità. Il ministro Amato è autore, insieme al ministro Ferrero, di un ben intenzionato disegno di legge sull'immigrazione, che si pone proprio l'obiettivo di aumentare le possibilità di essere in Italia regolarmente. Come mai, quindi, nessuno del governo ci ha spiegato che si sta facendo una cosa molto importante per combattere la criminalità immigrata e cioè cercare di rendere la condizione (giuridica) di irregolarità una condizione più rara? E come mai si sente dire che si cerca di rallentare l'iter di approvazione di quel disegno di legge? Non sarà che non si riesce neppure a capire quando si cerca di fare qualcosa di buono?

Tutto ciò non tanto non è di sinistra, ma non è sopratutto produttivo di maggiore (percezione di) sicurezza: è vero, semmai, il contrario, perché contribuisce a rafforzare pregiudizi, paura, xenofobia.

Se, nel tempo breve, può sembrare che faccia gioco governare per mezzo dell'insicurezza e della paura, chi viene governato non ci guadagna niente, né maggior sicurezza, né maggior fiducia nelle istituzioni, né, quindi, maggior legame sociale. E se chi governa è, poveretto, di sinistra, non ci guadagna niente neppure lui, perché in fin dei conti, come ha detto un esperto della destra, fra l'originale e la fotocopia, gli elettori sceglieranno sempre l'originale!

*** La direzione (Dario Melossi, Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini, Tamar Pitch) e la redazione (Giuseppe Campesi, Alessandro De Giorgi, Monia Giovannetti, Lucia Re, Stanislao Rinaldi, Alvise Sbraccia, Vincenzo Scalia, Francesca Vianello) della rivista "Studi sulla questione criminale". Hanno aderito Stefano Rodotà, Ota De Leonardis, Luigi Ferrajoli, Danilo Zolo, Emilio Santoro, Franco Prina, Luigi Pannarale, Franca Faccioli, Alessandro Margara, Mauro Bove, Amedeo Cottino, Maurizio Oliviero, Giovanni Marini, Mariarosaria Marella, Grazia Zuffa, Stefano Anastasia, Mercedes Frias, Alessandra Facchi e molti altri

In queste settimane si incrociano una serie di eventi che possono mutare profondamente il corso di questa legislatura. Prima di tutto il referendum dei lavoratori sul protocollo pensioni e welfare. La conseguente riunione del governo per vararlo definitivamente. La manifestazione del 20 ottobre. Il nodo della finanziaria che inizia il suo iter al Senato (con l’incognita Dini), legata a doppio filo proprio con il protocollo. Il pacchetto pro sindaci-sceriffo. La legge Gentiloni, il cui esito si deciderà in queste ore, almeno per ciò che riguarda la Camera. Ce n’è abbastanza per prevedere il peggio. Ma non è affatto detto che stavolta la legge di Murphy si avveri.

Intanto occorre rilevare un clima nell’opposizione. Chi segue i lavori parlamentari sa che il centrodestra ha ben poca voglia di andare al voto in tempi ravvicinatissimi. Berlusconi ha bisogno di riorganizzarsi.

L’esito del referendum può segnare la discussione sul welfare. E’ un bene che, su questo punto, tutta la sinistra abbia oggi una visione comune. Piuttosto incomprensibile, semmai, è l’atteggiamento del sindacato, che in certi momenti appare persino indisponibile a correzioni migliorative.

Su questo punto i pericoli arrivano dal centro, dai settori più conservativi della maggioranza, non dalla sinistra. La sinistra chiede modifiche possibili, utili, ragionevoli, a partire da norme severe sui contratti a termine. Modifiche che anche nell’Ulivo non vengono escluse.

Riguardo la finanziaria, sono stati fatti passi in avanti concreti e disinnescate mine pericolose. Per questo ora si tratta di introdurre nuove misure (penso a norme di stabilizzazione dei precari in primo luogo).

Ma il fattore più importante per superare questi scogli è a monte dei problemi. E si chiama collegialità. La formazione del Pd, era stato detto dai promotori, serviva a dare un “timone” alla maggioranza e al governo. Un timone moderato. Così è stato. Franco Giordano ha parlato di “monocolore” del partito democratico. Siamo, cioè, di fronte ad una vera e propria offensiva (basti vedere il pacchetto sicurezza) dei settori moderati dell’Unione, apertamente in contrasto con il resto della maggioranza. Un’offensiva pericolosa, che a lungo termine mira ad “alleanze di nuovo conio” come le ha definite Rutelli o, comunque, ad imprimere una impronta centrista all’azione di governo.

E’ questo, prima di tutto, il tentativo che la sinistra deve contrastare. Il governo e la sua maggioranza, devono tornare a decidere e discutere insieme. Non è possibile governare altrimenti. E il presidente del consiglio dev’essere il punto di sintesi della discussione, spogliandosi del suo ruolo di promotore del Partito democratico.

Senza questa precondizione, il governo avrà sempre una vita difficile, anche se supererà le difficoltà di oggi. Se ne presenteranno altre, contrasti sempre più profondi, se una parte della coalizione si troverà a dover accettare a scatola chiusa o quasi decisioni prese dall’altra parte della maggioranza.

Insomma, buona parte dei contrasti potrebbero essere appianati se Romano Prodi tornasse ad essere, pienamente, il leader di tutti.

In un posto come l'Italia, che ha il passato che ha, azionare la maniglia dell'allarme terrorismo è una tattica di manipolazione emotiva facile e rischiosa, che un ministro della Repubblica dovrebbe guardarsi bene dall'usare, se non dati alla mano e strategie di contrasto in tasca. Clemente Mastella non solo la usa senza dati e senza strategie di contrasto, ma la tira fuori in un posto come New York, che quanto a terrorismo vive il presente che vive, e paragonandosi a Aldo Moro, che il senso delle proporzioni gli dovrebbe sconsigliare di scomodare. Ma Clemente Mastella il senso delle proporzioni l'ha perduto da un pezzo, a giudicare dalle sue scomposte movenze sul caso De Magistris, anzi De Magistris-Santoro. Movenze-boomerang, visto che il Csm, inondato dalle troppe «incolpazioni» ministeriali, non ha potuto che rinviare il giudizio sul magistrato, con ciò stesso smentendo l'«urgenza» del suo trasferimento invocata dal guardasigilli.

Urgente resta invece il caso Calabria che il caso De Magistris ha scoperchiato, e che scoperchiato resta quali che siano - speriamo l'opposto dei desiderata di Mastella - i destini del magistrato. Il guardasigilli non è solo a voler richiudere in fretta quei coperchi: militano con lui due governi, quello nazionale e quello regionale, e quella larga parte dell'informazione, nazionale e regionale, stampata e televisiva, che a sua volta milita per loro. E' una militanza cieca e sorda, per almeno tre ragioni.

Primo. Il ceto politico di centrosinistra farebbe bene a guardare quello che sta accadendo in Calabria e altrove deponendo lo schema politica-antipolitica e i fantasmi del '92, e aguzzando la vista sul presente. Di antipolitico, nelle piazze di Catanzaro come in quelle di Bologna, non c'è proprio niente. Fatti salvi i resti di qualunquismo, che fanno parte del dna nazionale, di ingenuità, che fanno parte del dna giovanile, e di rozzezza alla vaffa, il messaggio è evidente: è una domanda di politica diversa, più trasparente, più giusta, più efficiente, più vicina. L'obiettivo non è far fuori la politica: è far sì che politica e affari non siano sinonimi, e nemmeno classe politica e casta, o risorse pubbliche e fortune private, o potere politic+o e controllo del mercato del lavoro, o potere amministrativo e devastazione ambientale. C'è una soglia, questo dice la vituperata piazza, oltre la quale questi sinonimi non sono più tollerabili.

Il governo di centrosinistra, nazionale e regionale, non ha nulla da chiedersi, se non da rimproverarsi, a questo proposito? Entrambi dicono di voler rispondere con i fatti e le opere. E' un ottimo proponimento, purché i fatti e le opere seguano davvero: tra i fatti rientrando, ad esempio, un processo di autocritica e autoripulitura del ceto politico.

E' quando non scattano questi processi politici che scattano i processi giudiziari, nonché i processi di piazza, e a quel punto c'è poco da lamentarsi.

Secondo. Per ragioni evidenti e note, in Calabria una domanda di politica più trasparente, più giusta, più efficiente e più vicina coincide con una domanda di legalità. Nessuno potrebbe onestamente sostenere che quello della legalità sia un problema inesistente; ma nessuno potrebbe onestamente sostenere che sia tutto in carico a questo o quel magistrato, e al solito derby fra ceto politico e procure. La legalità, in uno stato di diritto, è fatta di molti elementi. Dell'esercizio delle libertà fondamentali, tanto per cominciare, che nelle regioni ad alto tasso di criminalità non è affatto scontato. E di un insieme di procedure, che non passano per le aule di giustizia. Prima di lanciarsi nell'ennesimo tentativo di riforma costituzionale, il centrosinistra di governo farebbe bene a fare il punto delle riforme già attuate: disfatto lo stato nazionale e fatto lo stato federale, chi fa che cosa, e chi controlla chi? Competenze, procedure, verifiche sull'uso delle risorse: davvero non c'è niente da mettere a regime? E perché - ripetiamo una domanda già fatta da queste colonne - le ispezioni sulle procure scattano, e quelle sui depuratori no?

Terzo. Come lo stato di diritto, anche il garantismo è fatto di molti elementi, ma è tipico del dibattito italiano degli ultimi quindici anni, a destra e a sinistra, dimenticarsene sempre qualcuno. Il garantismo prevede che la magistratura eserciti il controllo di legalità sul ceto politico, osservando a sua volta la legalità nelle procedure d'indagine. Accadeva a sinistra quindici anni orsono, quando c'era da processare il pentapartito della prima Repubblica, che l'accento cadesse spesso e volentieri sul controllo di legalità e meno spesso e volentieri sulla correttezza delle procedure, anche quando c'era di mezzo qualche manetta di troppo. Accade adesso, sulle inchieste di De Magistris che riguardano il centrosinistra della seconda Repubblica, che l'accento cada sempre sulla correttezza delle procedure e mai sul controllo di legalità. C'è chi, sul Foglio di ieri, ha definito questa inversione «una nemesi farsesca». Non arriveremo a tanto, ma solo perché non c'è niente da ridere.

Non mi capita spesso, ma questa volta sono totalmente d'accordo con l'editoriale di Giovanni Sartori sul Corsera di ieri, e soprattutto sul suo inizio. «Non vorrei - scrive Sartori - che il grillismo si arenasse in un confuso e inconcludente dibattito sull'antipolitica». Il punto è capire che Grillo (con tutte le sue intemperanze) e prima di lui Stella e Rizzo e - va ricordato - Salvi e Villone (dei quali è in questi giorni in libreria la nuova edizione del libro sui costi della politica) hanno colto e neppure enfatizzato la crisi della politica e i pericoli di un suicidio della democrazia.

Sostenere che Grillo e tutti gli altri, nella forme proprie a ciascuno, sono solo e soltanto un attacco alla democrazia significa solo non vedere lo stato penoso nel quale si è ridotta la politica, non sentire i tanti che si dichiarano astensionisti, che si rifiutano di alimentare la «casta». Significa non vedere che la politica attuale, la democrazia attuale, sono diventate quasi un affare privato. Significa non vedere che c'è la crisi dei partiti e - lo dico da vecchio comunista - che il tanto criticato «centralismo democratico» era un capolavoro di democrazia rispetto allo stato attuale delle cose e dei cosiddetti partiti. Usare la parola democrazia per difendere una democrazia che è in crisi è come sostenere che è in ottima salute una persona data per moribonda dalle sue radiografie. È come difendere l'onore di una storica villa gentilizia che è diventato un bordello o quasi.

E, aggiungo, vi ricordate Guglielmo Giannini (che non era proprio uno stupido) e il grande successo dell'Uomo qualunque? Ebbene sforzatevi di ricordare e di ricordare come allora - c'erano i partiti - in breve tempo il qualunquismo fu battuto. Ma dobbiamo proprio ricordare che allora c'erano la Dc, il Pci, il Psi, cioè i partiti che stavano e agivano nella realtà del sociale e del politico?

Non possiamo replicare a Grillo in nome di un onore della democrazia che è molto logorato. Dovremmo avere tutti, a cominciare dal piccolo manifesto, il coraggio e l'intelligenza di analizzare con impegno e serietà i mali della politica e della società (non c'è una «società civile» buona). Fare, come un buon medico, una diagnosi del nostro stato di salute e, quindi, intraprendere le cure opportune. Ma il timore è che gli attuali medici pensino che sia utile e vantaggioso il proseguimento della malattia. E questo sarebbe un errore funesto anche per i medici stessi. Insomma, o prendiamo sul serio l'antipolitica per risanare la politica, per trasformarla in critica dura e positiva, oppure restiamo impegnati in una battaglia difensiva con armi più che spuntate. Ma quando eravamo ragazzi, perché ci piaceva tanto la favola nella quale il bambino gridava: «il re è nudo»?

La presa di congedo dal regno del lavoro

Marco Bascetta

«Bisogna imparare a discernere le possibilità non realizzate che sonnecchiano nelle pieghe del presente. Bisogna voler affermare queste possibilità, afferrare ciò che cambia. Bisogna osare rompere con questa società che muore e che non rinascerà più. Bisogna osare l'Esodo». Questo, con le sue stesse sintetiche parole, il programma politico di André Gorz, l'oggetto del suo instancabile impegno di ricercatore, dagli anni Sessanta ad oggi. Da quando la rivoluzione tecnologica, le nuove pervasive forme dello sfruttamento e la globalizzazione ci hanno costretto a dire «addio al proletariato» industriale, almeno nelle società opulente dell' occidente, non possiamo firmare alcun armistizio con la realtà e accettare quel ricatto del lavoro salariato, divenuto tanto più feroce e costrittivo, quanto più il lavoro stesso è stato reso un bene scarso, quasi un premio o una concessione. Ma neanche nutrire nostalgia per condizioni ormai irrimediabilmente tramontate, per il lavoro industriale dell'epoca fordista, e quella commistione di vita impoverita e di potenza collettiva che ne scaturivano, per una «piena occupazione» secondo i modi e le regole dettate dall'accumulazione del capitale. Questa la scommessa.

Noi viviamo in un mondo, ci diceva Gorz al termine della sua ricerca, in cui le regole vigenti non sono più vere, in cui tutto resta misurato dalle leggi di una forma del lavoro sempre meno disponibile, sempre più aleatoria quando non superflua. Disoccupazione cui fa da beffardo contraltare l'incremento degli straordinari, allungamento della vita lavorativa e giovani senza occupazione, la vita intera messa al lavoro, ma senza alcun riconoscimento, senza reddito certo, senza garanzie. È a questa finzione che bisogna volgere le spalle, è dalla natura sempre più arbitraria e parassitaria del capitalismo contemporaneo che dobbiamo intraprendere la via dell'esodo. Tuttavia, imboccare questa via implica l'abbandono di schemi e figure usurate, sperimentare nuove forme di cooperazione, diversi strumenti di conflitto, rovesciare di segno l'economia della conoscenza. «Occorre che il lavoro - scrive Gorz - perda la sua centralità nella coscienza, nel pensiero, nell'immaginazione di tutti». E che una diversa idea, antropologica, filosofica, dell'attività umana prenda il suo posto. Occorre che il nostro fare si contrapponga a un fare che ci viene imposto ed elargito (con crescente parsimonia) al tempo stesso.

Certo, in questa sua visione dell'attività umana liberata, lo studioso francese, si fa a volte prescrittivo, predicatore di un modello astratto di «buona vita», purificato dalle contraddizioni e dai paradossi che attraversano i soggetti reali. Molti glielo hanno rimproverato e non a torto. Ma Gorz non è un ingenuo, sa bene che la «destandardizzazione e demassificazione» del lavoro nell'economia postfordista, non hanno prodotto il mondo nuovo, riesumato semmai forme di lavoro servile e feroci dispositivi di autosfruttamento, piegato tutto alle «leggi del mercato» e ai rapporti di forza che in esse prosperano. Non è tuttavia tornando tra le braccia dello «Stato-provvidenza» o all'antica stabilità della classe che lo sfruttamento potrà essere sconfitto. L'esperienza del socialismo reale e il fallimento di tanti riformismi stanno lì a ricordarcelo. Il movimento non può più essere semplicemente «operaio». Così egli volge il suo sguardo verso una dimensione pubblica diversa da quella statale, verso nuove dimensioni dell'agire in comune, del legame sociale e della realizzazione dei singoli. Resta, questa, una interrogazione aperta oltre che impervia. Ma a partire da una chiara premessa. Non possiamo più accettare la finzione che continua a «fare del lavoro la base dell'appartenenza e dei diritti sociali, la strada obbligata per la stima di sé e degli altri».

Oltre la miseria del presente in nome della ricchezza del possibile

Benedetto Vecchi

La laurea in ingegneria chimica ha fornito quella competenze tecnico e scientifiche che sono tornate utili a André Gorz quando scriveva di automazione del lavoro, crisi ecologica, tecnologie digitali, i temi cioè che hanno caratterizzato la sua produzione intellettuale di questi ultimi trent'anni. Nei libri facevano capolino tra una pagina e l'altra e fornivano sempre una solida base argomentativa alle sue analisi quando sosteneva, ad esempio, che la riduzione del lavoro a 35 ore era solo il primo passo, perché la produttività individuale e collettiva era così cresciuta che occorrevano ormai solo 20 ore a settimana per produrre gli stessi beni. A patto, però, che il lavoro fosse ridistribuito.

«Les temps modernes»

La sua battaglia a favore della riduzione dell'orario di lavoro lo aveva condotto, sul crinale tra gli anni Ottanta e Novanta, a un vivace e fecondo rapporto con il sindacato francese della Cfdt e con quelli metalmeccanici tedeschi e italiani. Vivace, perché invitava le organizzazioni sindacali a prendere atto che la fabbrica stava cambiando con la sostituzione degli uomini e delle donne con le macchine. Fecondo, perché André Gorz si poneva sempre in ascolto delle argomentazioni di chi la fabbrica la subiva. Un intellettuale militante, questo è stato André Gorz.

Nato nel 1923 a Vienna conseguirà, nel 1945, la laurea in ingegneria chimica a Losanna, in Svizzera, dove la sua famiglia si era rifugiata dopo l'Anschluss dell'Austria alla Germania. Con l'Austria e la Germania André Gorz ha avuto sempre un rapporto travagliato, al punto di cambiare nome (il nome di battesimo era Gerard Horst) e decidere di non recarsi in Germania a causa della politica di sterminio del regime nazista, fino a quando, alla fine degli anni Ottanta, sarà invitato dal sindacato metalmeccanico tedesco per un ciclo di conferenze su come stava cambiando il lavoro e la proposta di una sua riduzione. Scrisse, anche, che cambiare il nome era un atto pubblico di denuncia politica di quella denazificazione della Germania e dell'Austria che non avevamo fatto i conti con il recente passato E in Francia, il paese dove si era trasferito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, prese dunque il nome di Michel Bousquet, che poi abbandonerà per quel André Gorz che sarà la firma dei suoi primi scritti, fino a diventare una firma nota della rivista «Les temps modernes», dove lavorerà con Jean-Paul Sartre.

Sono gli anni in cui, assieme a tanti altri, pone le basi di un rinnovamento del marxismo, imboccando la via dell'analisi, piena di insidie, del neocapitalismo che lo conduce, assieme a altri, a fondare «Le Nouvel Observateur». Per chi scrive, l'incontro con André Gorz avviene al crepuscolo degli anni Ottanta con la pubblicazione di Addio al proletariato (Edizioni lavoro). Gorz è convinto che l'automazione del lavoro industriale (manufatturiero per Marx) porterà a una diminuzione radicale dell'occupazione industriale, ma tale esito è una chance che va colta dalla sinistra marxista eterodossa: l'automazione non va contrastata, bensì accelerata, accompagnandola con una riduzione radicale dell'orario di lavoro: «Lavorare meno, lavorare tutti» è l'orizzonte politico che Gorz in cui si pone e al quale rimarrà sempre fedele.

Il rovello dell'ecologia

C'è poi l'ecologia, tema che viene affrontato alla luce dell'auspicabile incontro tra il movimento operaio e l'ambientalismo - Ecologia e politica, La strada del Paradiso (Edizioni Lavoro) Capitalismo, socialismo, ecologia (manifestolibri) -. Il suo tentativo di coniugare marxismo e ambientalismo sarà infatti l'altro rovello su cui si concentrerà la sua produzione per tutti gli anni Novanta. Gorz guarda con interesse a quel filone di ricerca antiutilitarista che ha il suo centro in Francia. Da qui il testo La strada del paradiso (edizioni lavoro). I lavori più fecondi di questo decennio sono tuttavia La miseria del presente, la ricchezza del possibile (manifestolibri) e Metamorfosi del lavoro (Bollati Boringhieri), una critica alle culture politiche della sinistra a partire da quella controrivoluzione che talvolta è stata chiamata postfordismo.

Quasi in sordina, alcuni anni fa Andrè Gorz mandò alle stampe un altro libro - L'immateriale, Bollati Boringhieri - in cui il mostro da guardare in faccia e combattere era la vulgata neoliberista della tecnologie digitale. Anche lì pagine che meriterebbero di essere lette e discusse a fondo. Gorz è per il reddito di cittadinanza, ma invita a guardarsi le spalle da un nemico insidioso, cioò che sia un proposta che più che ricomporre il lavoro eterodiretto (nozione che preferiva a quella di lavoro dipendente o lavoro salariato) poteva ulteriormente frammentarlo. Poi il silenzio, anche se le voci di un suo nuovo lavoro rimbalzavano da un sito Internet e l'altro. Il duro mestiere di vivere deve essere però diventato insopportabile. Mancherà quel suo argomentare dove la ricchezza del possibile deve comunque fare i conti con le miserie del presente.

Eclissi dei diritti? Molte iniziative vanno proprio in questa direzione, e si sta creando un clima che li considera un ostacolo. Nell´agenda della politica la questione dei diritti precipita agli ultimi posti, sopraffatta da altri imperativi, la sicurezza e l´efficienza in primo luogo.

Non sorprende, allora, che circolino dichiarazioni di resa, come quelle di uno dei leader della sinistra, che ha liquidato la questione delle unioni di fatto perché non vi sarebbe consenso neppure nella maggioranza.

Questa settimana sarà decisiva per capire gli orientamenti su un tema centrale per la libertà delle persone – la tutela dei loro dati. Si definirà il disegno di legge sulla banca dati del Dna, invocato per ragioni di sicurezza. Il Senato dirà se la libertà d´impresa esige l´esonero dal rispetto delle misure di sicurezza finora previste quando si raccolgono informazioni su ciascuno di noi. Questioni che riguardano tutti, e il modo in cui saranno risolte inciderà sul quadro delle libertà e dei diritti.

Una normativa sull´uso dei dati genetici da parte di polizia e magistratura è necessaria. Leggiamo di indagini che utilizzano questi dati, di campioni biologici trovati sul luogo di un delitto. Tali attività devono essere accompagnate da garanzie adeguate, che definiscano rigorosamente le condizioni che rendono legittimo il ricorso a queste informazioni, intime e pericolose. I principi da osservare sono ben definiti dal Codice sulla privacy – finalità, necessità, proporzionalità.

Se il fine per il quale si costituisce una Banca dati nazionale del Dna è quello di rendere più efficace l´azione anticrimine, non è ammissibile che questa iniziativa si trasformi in schedature di massa, secondando una tendenza verso la nascita di "nazioni di sospetti". Se la nuova banca dati è necessaria per rendere possibile l´identificazione dei responsabili di reati, la raccolta dev´essere limitata ai soli dati identificativi, escludendo quelli che possono rivelare le caratteristiche genetiche relative alla salute o all´appartenenza ad un determinato gruppo familiare. Se gli strumenti adoperati devono essere proporzionati alla finalità da raggiungere, si deve procedere in maniera selettiva nella individuazione dei soggetti e dei reati: è insensato raccogliere dati genetici sui responsabili di reati finanziari, perché la loro individuazione prescinde del tutto dalle caratteristiche genetiche di chi li commette, rilevanti invece per i reati sessuali o per i furti negli appartamenti.

La bozza del disegno di legge tiene conto in parte di queste esigenze, ma la loro traduzione in specifiche norme non è sempre adeguata, sì che appare indispensabile considerare i rilievi contenuti in una nota inviata a Governo e Parlamento dal Garante per la privacy. Ma tre questioni meritano particolare attenzione: 1) le modalità degli eventuali prelievi obbligatori di campioni del Dna, poiché si tratta di limitazioni della libertà personale, garantita dall´art. 13 della Costituzione; 2) la cancellazione dei dati raccolti, essendo inaccettabile che si conservino per quarant´anni le informazioni su chi è stato prosciolto o assolto; 3) il rigore delle misure di sicurezza e il controllo sul loro rispetto, trattandosi di dati personali di straordinaria delicatezza.

Il tema delle misure di sicurezza ci porta alla discussione in corso al Senato. Già alla Camera, modificando l´originario testo del decreto sulle liberalizzazioni, è stata inserita una norma che esonera le imprese con meno di 15 dipendenti dal rispetto delle misure minime di sicurezza per il trattamento dei dati personali in casi impropriamente ritenuti di ordinaria amministrazione. Questi, invece, possono riguardare quantità ingenti di informazioni provenienti dalle più diverse fonti, rilevanti per la stessa vita delle persone, con rischi che prescindono dalla dimensione dell´impresa. Ora un pacchetto di emendamenti propone di estendere l´esonero a tutte le imprese e comprendere nell´esenzione anche i dati sensibili, relativi a opinioni politiche, religione, salute, vita sessuale.

La regressione culturale e politica è impressionante. Nella dissennata corsa verso l´"abbattimento dei costi" si cancellano garanzie e diritti. Se davvero si vogliono eliminare costi impropri per le piccole imprese, vi sono modi meno rozzi e pericolosi per farlo. Invece si è scelta una strada che la Commissione europea aveva ritenuto impraticabile, perché vi sono costi che il sistema economico deve sopportare per evitare che le sue attività pregiudichino interessi della collettività, come accade per le norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, costose ma indispensabili. Un paragone significativo, perché le norme sulla sicurezza del lavoro tutelano il corpo fisico così come le norme sulle misure minime di sicurezza per le banche dati tutelano il corpo "elettronico". Sono in gioco le garanzie della persona, la sua stessa libertà nella società della conoscenza.

I parlamentari soffrono di paurosi vuoti di memoria. Dovrebbero sapere che l´affare Telecom mise in luce che pure le gravi negligenze nelle misure di sicurezza consentirono utilizzazioni abusive dei dati raccolti, tanto che il Garante impose a Telecom di adeguare le misure agli standard previsti dalla legge. Oggi si propone di eliminare queste garanzie, sì che la scandalosa vicenda Telecom potrà ripetersi su larga scala. Altro vuoto di memoria: i senatori sembrano ignorare l´art. 41 della Costituzione, dove si dice che l´iniziativa economica privata non può svolgersi «in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E si ignora che molte esperienze hanno messo in luce come la privacy non sia soltanto un costo, ma una risorsa: perché l´offerta di forti garanzie dei dati può attribuire un vantaggio competitivo, inducendo i consumatori a preferire le imprese che forniscono, insieme, beni, servizi e privacy; e perché investire in sicurezza produce innovazione.

Ma l´eliminazione delle garanzie non si ferma qui. Si propone di cancellarle del tutto per persone giuridiche, enti e associazioni. Così pure la libertà di associazione sarebbe limitata. La via d´uscita è una sola: eliminare la norma approvata dalla Camera e respingere gli emendamenti presentati al Senato.

Torniamo alla questione iniziale. Ministri dichiarano in pubblico che, di fronte alla sicurezza, gli altri diritti devono fare un passo indietro, e un economicismo senza principi spinge nella stessa direzione. Ma la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea prevede che la protezione dei dati personali debba essere considerata un diritto autonomo della persona, escludendo che si possa alterarne il contenuto essenziale. E la Convenzione europea dei diritti dell´uomo consente limiti, a condizione però che le misure adottate siano compatibili con le caratteristiche di "una società democratica". È giusto dunque, sottolineare che non si sta discutendo di provvedimenti settoriali, ma di questioni che riguardano la qualità della democrazia nel tempo dall´innovazione scientifica e tecnologica.

Commentando la decisione che ha confermato la multa inflitta dalla Commissione europea a Microsoft, Mario Monti ha giustamente detto che questo è un buon segno della capacità dell´Europa di essere "potenza". Deve continuare ad esserlo proprio sul terreno della forte tutela dei diritti, perché questa è una vocazione che le permette di parlare al mondo con voce limpida e ascoltata. La decisione Microsoft ha aperto anche negli Stati Uniti una discussione sulla necessità di limitare il potere di Bill Gates. E i più diversi paesi guardano al modo in cui l´Europa prevede la tutela dei dati come ad un modello: una responsabilità impegnativa, viste le cattive notizie che vengono dagli Stati Uniti. Tenendo ferme le garanzie, il Parlamento italiano contribuirebbe a far sì che l´Europa rimanga un luogo al quale possano guardare tutti quelli che non si rassegnano all´eclissi dei diritti.

I nostri lettori non la pensano tutti allo stesso modo. E' così da molto tempo e, forse, è un bene. In ogni modo oggi abbiamo due lettere che ci invitano a non confonderci con i partiti dell'attuale maggioranza di governo nella manifestazione del 20 ottobre e, al contrario, una lettera che ci accusa di «estremismo, malattia infantile del comunismo» e ci invita a desistere. Io, ma posso sbagliare, non sono d'accordo con entrambe le posizioni (un'ulteriore prova della diversità di pareri che ci accomuna) e provo a rispondere.

Cominciamo dagli obiettivi della manifestazione del 20 di ottobre: migliorare l'accordo sulle pensioni e sul welfare (la questione del precariato innanzitutto) e poi una migliore redistribuzione del reddito, diritti civili, pace, ambiente, etc. Nulla di eversivo, ma tutto molto ragionevole anche se dissente dalle attuali decisioni di governo e dal consenso della Cgil.

Ma allora, cara Maria Teresa e caro Marco perché rifiutare, respingere la partecipazione dei partiti di sinistra e dei sindacati? Perché non cercare di convincere anche chi ha accettato quelle decisioni. Scrivere, come fai tu Marco, che ostinarsi a dialogare con il governo sarebbe prova di miopia o malafede, mi sembra sbagliato e tristemente minoritario. Gramsci ci diceva dell'ottimismo della volontà e io aggiungerei anche quello dell'intelligenza: questo ottimismo noi dobbiamo avere, che significa tenacia, pazienza, voglia di fare.

Per questo da qui al 20 di ottobre dobbiamo fare il possibile per allargare la partecipazione, per convincere che è giusto e possibile migliorare le norme su pensioni, precariato, diritti civili, etc. Convincendo anche Prodi (il quale peraltro non ha condannato la manifestazione) che più forte sarà la giornata del 20 di ottobre, più forte sarà lui e il suo governo. Un forte sostegno di popolo gli consentirà di correggere e migliorare i suoi provvedimenti. Quindi la massima apertura: la manifestazione del 20 non è contro, è per. Quindi porte aperte a tutti e farei un invito anche ai grillini così diamo un contenuto concreto alla loro esasperata (ma anche motivata) antipolitica.

Il discorso che fin qui ho tentato di svolgere dovrebbe valere anche per il lettore Bruno O. di Cagliari. La manifestazione non è contro il governo è fatta per dimostrare che c'è una forza di popolo che può consentirgli di fare miglioramenti non troppo graditi ai cosiddetti poteri forti, che ci sono e pesano. Quindi è decisivo che la manifestazione del 20 di ottobre sia forte e convinca l'attuale governo a fare qualcosa di meglio e di più. Cancellare la manifestazione e stare zitti lascerebbe ancora più solo e ricattabile l'attuale governo, che peraltro non sta tanto bene: il successo del 20 di ottobre sarebbe per Prodi uno straordinario ricostituente. Anche se lui, come spesso i bambini, potrà fare boccacce. Io la penso così.

Forse la cosa più intelligente su Beppe Grillo l’ha detta Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, lunedì in un incontro televisivo con Romano Prodi. La sua idea è che «finché ci saranno molti politici che vogliono fare a tutti i costi i piacioni, divenendo un po’ comici, è chiaro che i comici tenderanno a far politica». Il che è poi simile a quello che disse un giorno nel 2001 il giornalista-investigatore Travaglio, quando la trasmissione Satyricon parlò di un’ultima intervista di Borsellino - girata per Rai News 24 e contenente precisi accenni ai legami tra Berlusconi, Dell’Utri e il mafioso Mangano, stalliere di Berlusconi - che i telegiornali Rai ignoravano da mesi: «La Rai invita giornalisti che non parlano - così Travaglio - dunque è naturale che le domande di politica le facciano i comici satirici». A quell’epoca fu il comico Luttazzi a rompere il silenzio, e subito fu allontanato dalla Rai. Adesso allontanare Grillo non si può, perché tante cose son cambiate intorno a noi. Né la politica né le televisioni né i giornali hanno il potere di estromettere il nuovo mondo della comunicazione e della denuncia che si chiama blogosfera e che include siti come quello di Grillo o di YouTube.

Qui è una delle novità che si accampano davanti ai poteri costituiti, non solo politici ma anche giornalistici: la blogosfera, i movimenti alla Grillo, i giovani diffidenti che firmano proposte di legge perché sono abituati a rispondere a sondaggi-votazioni su Internet sono nuovi poteri che fanno apparizione in una democrazia non più veramente rappresentativa, né veramente rappresentata.

Politici e giornalisti ne discutono animosamente ma non sembrano comprendere tali fenomeni, e di conseguenza ne sottovalutano la forza. Più precisamente, non vedono i tre ingredienti che hanno dato fiato e potenza al fenomeno Grillo. Primo ingrediente, la complicità che lega il giornalista classico al politico, e che ha chiuso ambedue in una sorta di recinto inaccessibile: il giornalista parla al politico e per il politico, il politico parla al giornalista di se stesso e per se stesso, e nessuno parla della società, che ha l’impressione di non aver più rappresentanti.

Secondo ingrediente: l’esclusione da tale recinto dell’informazione alternativa che sempre più possente cresce attorno a esso e non è più emarginabile. Oggi essa disvela e denuncia le complicità esistenti, non solo in Italia ma in molte democrazie. Terzo ingrediente: la domanda di politica e non di anti-politica che emana da blog e movimenti alternativi. Pochi sembrano capire che Grillo in realtà denuncia l’anti-politica, e non la politica. Pochi sembrano capire che egli invoca la politica. Forse non lo capisce nemmeno lui.

Uno dei motivi per cui si discute senza guardare in faccia questi tre elementi è la cecità peculiare dei giornali dell’establishment (i giornali mainstream). Essi vengono processati allo stesso modo in cui sono processati politici e partiti. È sotto processo la loro complicità con i politici, ed è questo nesso che si tende a occultare: il nesso fra marasma della politica e marasma della stampa. Il fenomeno ha cominciato ad amplificarsi in America, tra l’11 settembre 2001 e la guerra in Iraq: fu la blogosfera a raccogliere i documenti che certificavano l’enorme imbroglio concernente le armi di distruzione di massa e i legami di Saddam con Al Qaeda. La menzogna del potere politico fu accettata da giornali indipendenti come il New York Times, che nel frattempo ha chiesto scusa ai lettori perché di copie ne perse molte. Fu quella l’ora in cui l’antipolitica dei blog divenne politica: quando la politica degenerò in antipolitica e fallì, cavalcando sondaggi e paure.

Non serve molto dunque cercar paragoni, evocare l’Uomo Qualunque. La figura del buffone che dice la verità senza esser creduto perché appunto considerato buffone è già nell’Aut-Aut di Kierkegaard. «Accadde, in un teatro, che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripetè l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo».

Quel che Grillo dice non è uno scherzo, perché con toni buffoneschi è proprio l’incendio dell’anti-politica che denuncia: l’incendio delle cose dette e non fatte, l’incendio del politico che pretende governare e in realtà s’azzuffa con l’alleato ed è in permanente campagna elettorale, l’incendio di una stampa che non indaga né spiega ma fa politica in prima persona, creando o disfacendo governi con sicumera senza precedenti. Né ha torto quando aggiunge: l’anti-politica non sono io, ma è al potere. È a quest’accusa che urge rispondere, non limitandosi a dire al comico: mettiti in politica anche tu, e vedrai come diverrai simile a noi. Difficile che Grillo imbocchi questa via. La sua è piuttosto contro-politica o, come spiega lo studioso Rosanvallon, democrazia negativa: è l’ambizione a rappresentare nuovi poteri di controllo, di vigilanza e denuncia che s’aggiungono alla democrazia rappresentativa e che riempiono il vuoto di partecipazione creatosi fra un’elezione e l’altra (Pierre Rosanvallon, La contro-Democrazia, Parigi 2006).

Questo significa che l’antipolitica nasce prima di Grillo, e non a causa di Mani Pulite ma perché Mani Pulite non è riuscita a eliminare immoralità e cinismi ma li ha anzi dilatati. Il male dell’anti-politica è cominciato con la Lega, per culminare nell’ascesa di Berlusconi e nel patto d’oblio che egli strinse con parte dell’ex-Dc, dell’ex-Psi, dell’ex-Pri (oltre che con la sinistra nella Bicamerale). È un male che ha contaminato parte della stampa e televisione: da anni quest’ultima dedica dibattiti sul pigiama della Franzoni, e mai ne dedica uno sulle carte scomparse dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino. Il male è la carriera politica di un magnate televisivo alla cui origine sono denari di misteriosa provenienza, sono le leggi ad personam fatte approvare quando il magnate ha governato, ed è l’omertà su tutto ciò. La sua certezza di non esser colpito dal grillismo è lungi dall’esser fondata.

Per questo impressiona l’indignazione che d’un tratto Grillo suscita in molti politici e giornalisti, come se nulla prima di lui fosse accaduto (un’eccezione è Eugenio Scalfari, che critica Grillo senza mai sottovalutare il pericolo Berlusconi). Si dice che alla diffidenza che dilaga si deve replicare con politiche bipartisan su quasi tutte le riforme, senza capire che gli entusiasti di Grillo non chiedono la fine dell’alternanza ma politiche che trasformino le alternanze in alternative.

Degli errori fatti a sinistra si parla molto, e non stupisce: perché tanti fedeli del sito Grillo vengono da quel campo, e perché la sinistra si è fatta dettare l’agenda da Berlusconi anche dopo la vittoria del 2006. Una porzione notevole del proprio tempo la passa mimetizzandosi con la destra su tasse, lavavetri, tolleranza zero, e anch’essa è in permanente campagna elettorale, imitando il leader dell’opposizione. Anche Veltroni sembra impegnato nella conquista della presidenza del Consiglio, più che d’un partito. Se ci son colpe a sinistra è di non aver denunciato quest’antipolitica nata ai vertici della politica ben prima di Grillo, non di averla troppo denunciata. Quel che la sinistra ha mancato di fare è rispondere a domande che riguardano legalità, moralità, giustizia. Altro che «blandire e coccolare il moralismo legalitario», come scrive Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di ieri. Per la terza volta Berlusconi sta per tornare al governo (il potere ce l’ha ancora) e per la terza volta la sinistra sta perdendo l’occasione di varare una legge sul conflitto d’interessi.

Naturalmente tutte le ansie di redenzione hanno un lato oscuro, politico-religioso. E la contro-politica può diventare simile all’anti-politica che denuncia. Può generare populismo, e fantasticare un Popolo compatto, non più diviso in parti (dunque in partiti). Può mettere tutti sullo stesso piano: mafia, gravi corruzioni, e Burlando che evita la multa mostrando il tesserino di parlamentare. Ma questa è l’elettricità della denuncia, come si diceva all’inizio della Rivoluzione francese quando Marat costruì il suo sito di denuncia e sorveglianza: allora era un giornale, si chiamava L’amico del popolo. È un’elettricità rischiosa, che può spingere il cittadino a farsi delatore. Ed è elettricità che comporta grida, insulti pesanti. Quel che mi piace di meno in Grillo è il suo urlare, che per forza genera tali insulti. L’urlo - perfino quello dipinto da Munch - è qualcosa che non dà forza al pensiero. Tucholsky fu trattato come un buffone dai benpensanti della repubblica di Weimar, quando fin dal 1931 scrisse che quel che più l’indisponeva in Hitler era il suo urlare. Fu trattato come un buffone anche lui, nonostante avesse visto bene l’incendio, e tanti spiritosi credettero si trattasse di uno scherzo. Grillo ha più risorse di lui. Urlare sempre non gli serve.

Un grande grazie a «Il Sole 24 Ore» di ieri: il grande titolo di prima pagina «Northern, interviene lo Stato» (e Stato è pure con la S maiuscola) è un inatteso riconoscimento a noi vetero sostenitori dell'intervento nell'economia.

Certo, nel caso della Northern lo stato interviene come salvatore, nel rispetto della vecchia massima, cara anche ai liberisti, della «socializzazione delle perdite». Tuttavia è pur sempre un gradito riconoscimento, l'ammissione che il mercato non è sempre il provvidenziale padreterno dell'economia, il supremo regolatore, il protagonista del progresso e del benessere universale.

Detto tutto questo - un po' polemico e anche fatuo - viene da chiedersi perché il quotidiano della Confindustria, ottimamente diretto da Ferruccio De Bortoli, non apra nell'attuale fase di crisi globale dell'economia una discussione aperta e spregiudicata sui limiti del mercato e sulla utilità del tanto disprezzato (quando tutto va bene) intervento pubblico. Un intervento pubblico che non può essere solo di emergenza e che nell'attuale fase di globalizzazione dell'economia non può essere più affidato soltanto allo stato nazionale per due ovvie ragioni: innanzitutto la riduzione dei poteri effettivi degli stati nazionali e delle singole banche centrali. In secondo luogo perché siamo in piena globalizzazione e così accade che le insolvenze degli acquirenti di immobili negli Usa provochino allarmi e disastri anche in Europa.

Sarebbe un buon segno se «Il Sole 24 Ore» aprisse una seria discussione su stato e mercato in questa fase di crisi seria dell'economia. Non gli mancano le pagine e i collaboratori competenti. Altrimenti? Altrimenti dovremmo considerare il grande titolo di ieri come la proverbiale «voce dal sen fuggita». Ma potrà mai quel giornale, che adesso vuole lanciare la moda del liberismo di sinistra, dare ascolto al manifesto?

La domanda è molto banale, nel senso che è un po' nell'animo di tutti. È la domanda del cinquantenario della grande crisi: ci sarà o no un nuovo 1929?

Mi rendo conto che il 1929, per i suoi aspetti vistosi e anche folcloristici, eserciti grandi suggestioni: il crollo di borsa, la gente che si buttava di sotto dalle finestre dei grattacieli. Galbraith ha dimostrato poi che quasi nessuno si era buttato giù dai grattacieli, ma è vero che dopo il '29 i vetri dei grattacieli sono fissi. Ma è ancora più vero che i capitalisti vittime del crollo di borsa, in un modo o nell'altro, se la sono cavata mentre a star male, sul serio e a lungo, sono state le masse rurali e i lavoratori.

Sul '29 quindi molta esagerazione, oggi anche di tipo celebrativo?

Ripeto: gli aspetti vistosi dei '29 spiegano molte enfasi degli attuali interrogativi, ma quel che veramente mi sorprende, mi appare ingenuo nella domanda «ci sarà un nuovo 1929?» è che nel '29 ci siamo già, ci viviamo dentro. Tutti gli aspetti patologici del '29 fanno parte della nostra esperienza: non nelle forme catastrofiche di allora, ma in modo endemico, nella forma di un ristagno acquisito nella nostra coscienza, al punto che neppure ce ne accorgiamo.

Questa non è un'esagerazione di riduttivismo?

No. Guardiamo ai fatti. La disoccupazione per esempio. L'Ocse per il 1980 prevede 18 milioni di disoccupati nei paesi industrializzati: questo è 1929. E senza parlare della situazione negli altri paesi: uno studio della Banca mondiale, sullo sviluppo nel mondo nel 1979, valuta che vi siano tra i 600 e i 700 milioni di uomini che vivono in condizione di «assoluta povertà». «Assoluta povertà», secondo la definizione della stessa banca, significa uno stato di pauperismo nel quale gli individui nascono già tarati per condizioni di deperimento e sottoalimentazione dei genitori. Questa povertà diffusa fa perfettamente riscontro con le condizioni di grande povertà esistenti allora negli Usa.

Questa diffusa ed enorme povertà dei paesi non industrializzati forse nel '29 non c'era o era minore, ma certamente non era «emergente», non assumeva la rilevanza che ha oggi.

Il '29 è fra noi, non c'è bisogno di aspettarselo. Faccio altri due esempi: la distribuzione dei prodotti agricoli e l'andamento delle borse. Tutti ricordiamo i romanzi americani («Furore» per esempio) con le violente e drammatiche descrizioni di distruzione di prodotti agricoli, la sepoltura dei maiali nella calce per esempio. Ma tutto questo non è forse la normale politica agraria della Cee? Solo che ci siamo abituati, non ci sorprendiamo. Io però rimango ancora esterefatto quando sento un ministro dell'agricoltura dichiararsi soddisfatto perché quest'anno la quota di frutta distrutta è un po' minore di quella dell'anno precedente. Questa è la normalità mondiale, proprio quando in tutti i parlamenti si parla tanto di fame nel mondo. Ma consideri anche il tanto esaltato crollo di borsa. Forse che i giornali di questi ultimi anni non ci informano di continui crolli con conseguenti distruzioni di risparmi?

Un febbrone può essere meno dannoso di una febbre bassa e duratura?

Esattamente ed è questo che mi induce a ribadire che viviamo un 1929 allo stato endemico.

Ma tutti siamo più assuefatti?

L'adattamento, l'assuefazione sono propri del comportamento umano. Anche le imprese spaziali non ci impressionano più. Però, dal punto di vista complessivo, adattamento e assuefazione significano deterioramento: abbiamo perduto anche quegli anticorpi, quelle capacità reattive che ci aiutavano ad affrontare la malattia. Come non ricordare che già, nel 1936, D.H. Robertson ci ammoniva a considerare che «nascosto tra le spire del serpente ciclico» poteva esserci «un nemico ancora più insidioso», «una specie di verme penetrato al centro delle basi istituzionali e psicologiche della nostra società e che ingrassa su quello stesso accrescimento della ricchezza, che essa cerca inutilmente di impedire»? (...)

(l'intervista,riprodotta in parte, è del novembre 1979)

Frédéric Lordon nell'ultimo numero di Le monde diplomatique, pubblicato ieri da il manifesto, per spiegare la crisi dei mutui subprime ha ricordato i disastri provocati da Charles Ponzi negli anni '20. Ponzi era uno speculatore che rovinò centinaia di migliaia di risparmiatori con una specie di catena di Sant'Antonio, promettendo rendimenti clamorosi dall'investimento dei loro soldi. L'esempio è calzante: la crisi dei mutui subprime è una bolla clamorosa e come tutte le bolle era destinata a esplodere.

Ormai tutti conoscono il meccanismo infernale che porta i mutui subprime a trasformarsi progressivamente prima in obbligazioni (garantite dagli stessi mutui concessi a poveracci disposti a pagare tassi di interesse altissimi pur di avere un tetto sulla testa) e poi in «scorie tossiche» per dirla con Lordon, cioè in investimenti che finiscono nei fondi (anche pensione) e nelle gestioni patrimoniali. Ma oggi siamo arrivati alla frutta.

La gente non vuole più titoli spazzatura, garantiti da obbligazioni che non garantiscono nulla e molti chiedono di avere indietro i propri soldi. Si innesca così una crisi di liquidità per fronteggiare la quale le banche non si prestano più reciprocamente soldi, ma se li tengono ben stretti in vista di eventuali corse agli sportelli.

Un'ipotesi non peregrina, visto che ieri in Inghilterra è successo per davvero con la Northern Rock, una banca specializzata nella concessione di mutui: se non fosse intervenuta la Boe, banca centrale inglese a finanziarla con un prestito d'emergenza, avremmo assistito al primo clamoroso crollo.

Ma i mutui subprime non sono l'unico problema. Negli Usa (ma anche in Europa) per fronteggiare i tracolli di borsa iniziati nel 2000 e poi accentuati dagli attentati dell'11 settembre, si è fatto ricorso quasi unicamente alla politica monetaria, cioè alla riduzione dei tassi di interesse, che negli Usa, per un paio d'anni sono stati mantenuti all'1%, nettamente meno del tasso di inflazione. Come dire: il denaro non costava nulla e conveniva indebitarsi. Negli Stati uniti molti lo hanno fatto: le banche in questi anni hanno emesso decine di milioni di carte di credito che hanno alimentato i consumi molto al di sopra delle reali possibilità di chi spendeva. Non è un caso che l'indebitamento delle famiglie sia cresciuto a dismisura e che la quota del risparmio sia passata in terreno negativo.

I bassi tassi di interesse hanno anche alimentato la corsa al mattone: i prezzi delle case, grazie alla spinta di una domanda crescente, hanno cominciato a impennarsi, ma la gente comperava e si indebitava (con i mutui) in allegria convinta che i tassi di interesse sarebbero rimasti perennemente bassi. Di più: milioni di persone hanno ricontrattato i mutui sulla base dell'aumentato valore delle case e hanno utilizzato i soldi ricevuti per spendere sempre di più per consumare. Poi è arrivata la svolta: i tassi hanno ricominciato a salire rapidamente, le rate dei mutui a costare sempre di più a causa dell'aumento della quota di interesse, le compravendite di case a rallentare e il valore degli appartamenti ha smesso di crescere. Risultato: molti non hanno più pagato le rate e si sono visti sfilare la casa ipotecata che nel frattempo aveva perso valore e le obbligazioni emesse sui mutui subprime (per limitarci al primo anello della catena) non hanno soldi per remunerare chi le ha acquistate. Ma non è finita: stanno esplodendo anche le insolvenze sul credito al consumo, visto anche le banche chiedono ora interessi stratosferici, fino al 20%. E la crisi si ripercuote sui fondi immobiliari e sui fondi pensione, mettendo a rischio la vita futura di centinaia di milioni di persone. A questo punto, la crisi finanziaria, si ripercuote sull'economia reale: scendono i consumi (peraltro drogati) e rallentano. In molti paesi si sentono scricchiolii di recessione e in ogni caso di rallentamento della crescita. Demonizzare la finanza non sarebbe giusto: molti strumenti (dalle assicurazioni alle azioni, dalle obbligazioni ai future e ai derivati) sono utili per limitare il rischio di impresa. Il problema è quando questi strumenti diventano un business autonomo da ogni attività reale. Ma il capitalismo ormai è solo questo: la finanza che distrugge l'economia reale, mentre gli stati stanno a guardare non intervenendo sui bisogni delle persone (casa, sanità e pensioni, su tutti) ma lasciando che la speculazione distrugga la vita della gente che mai come oggi vive in una condizione «imperiale» nella quale la distribuzione dei redditi peggiora cotinuamente.

«In molti paesi la disillusione e la sfiducia si sono andate sviluppando in un crescendo di frustrazione, di rabbia e, alla fine, di un vero e proprio rigetto della politica. Alla fine, siamo alle prese con una revulsione che potremmo chiamare la politica dell'antipolitica». E' una diagnosi di Giovanni Sartori, in un suo libro del 1995. Aggiungeva Sartori che questa sindrome si prospetta non più nella forma dell'apatia del passato, che «rendeva la politica fin troppo facile», ma in quella di «un rigetto attivo, partecipante e vendicativo», che «la può rendere troppo difficile». Dal 1995 a oggi sono passati la bellezza di dodici anni, e per «la politica dell'antipolitica» non è tempo di scoperte ma di bilanci: in Italia ne abbiamo avuto infatti un campionario da oscar, per la verità solo in minima parte ascrivibile ai movimenti e alle piazze, e per lo più, viceversa, interno alle trasformazioni del sistema politico, economico, massmediatico, nonché giudiziario. Fanno parte del campionario: la corruzione politica e economica scoperta con Tangentopoli e mai arrestata; l'equazione fra partiti e partitocrazia e fra corruzione e «Prima Repubblica» alimentata dopo il '92 nel senso comune dal coro pressoché compatto dell'informazione; l'illusione di risolvere i problemi politici per via giudiziaria, anch'essa alimentata all'epoca dallo stesso coro (oggi talvolta pentito); la riduzione - e conseguente neutralizzazione - della politica a questione di regole da fare, disfare e rifare; la riduzione della società civile a audience televisiva passiva dei talk show di seconda serata volentieri frequentati dai politici di professione; da penultimo, il duplice trionfo politico di Silvio Berlusconi, che l'antipolitica l'ha portata al potere; e da ultimo, la duplice delusione inflitta all'elettorato di centrosinistra dai suoi governi, che non si può dire abbiano messo la rilegittimazione della politica al primo posto della loro agenda emozionale e programmatica.

Questo per dire che, prima di prendersela con Beppe Grillo e i grillini e, retrospettivamente, con i girotondi e i girotondini (movimento peraltro molto coccolato anni addietro come grimaldello contro gli allora vertici diessini), sarebbe il caso di riportare le derive antipolitiche alla loro matrice, che è interna alla degenerazione della politica, al suo svuotamento, al suo farsi sempre più autoreferenziale e castale, al suo sempre più opaco impastarsi con l'economia, alla dissoluzione del suo linguaggio nel linguaggio televisivo e via dicendo.

Certo, sarebbe sbagliato, sbagliatissimo fare di ogni erba un fascio: dal '92 in poi, all'interno del sistema politico c'è chi ha denunciato questo andazzo (Massimo D'Alema primo fra tutti) e chi l'ha cavalcato, vuoi in nome della spallata azzurra alla «Prima Repubblica» vuoi in nome di un nevrotico nuovismo di (centro) sinistra. Ma purtroppo in politica, e nella storia, contano i risultati. E i risultati, per la politica «ufficiale» italiana, sono quelli che sono. Frustrazione, rabbia e rigetto, per riprendere i termini di Sartori, non diminuiscono ma aumentano: evidentemente non basta la fredda e professorale retorica prodian-padoaschioppiana del risanamento dei conti pubblici, né le buone intenzioni moralizzatrici di Rosi Bindi, né gli annunci sulla necessità salvifica del Partito democratico per compensare la percezione di declino, mancanza di futuro, precarietà che deprime giovani e meno giovani generazioni, o la quotidiana frequentazione di territori malamente amministrati da uno stato malamente decentrato, o la continua aggressione di un capitalismo sempre più barbaro (e sempre più sconosciuto, a destra e a manca, perché parlare del capitalismo è sconveniente e fa meno share delle comparsate di Corona). Si può prescindere da questo quadro - desolato, mi rendo conto - per capire «il sintomo» V-Day; e viceversa, basta questo quadro per entusiasmarsi del V-Day?

Eugenio Scalfari, su la Repubblica di ieri, legge la piazza di Bologna (e la piazza tout court), senza se e senza ma, come l'ennesima prova dell'eterno ritorno di un virus di qualunquismo, populismo, anarco-individualismo che corre da sempre in Italia, accentuato oggi dalla massificazone e dalla manipolabilità mediatica della società contemporanea, e portatore sicuro di una malattia, o di una terapia, dittatoriale. E' un allarme che si può capire, ma sommessamente proporrei di andarci più cauti, e di non scambiare, appunto, il sintomo per il virus. Una manifestazione che ha come slogan un gigantesco vaffanculo, che s'inventa l'ennesimo leader e che per giunta si riduce poi a fare il verso al parlamento con una proposta di legge-manifesto approssimativa, non può entusiasmare nessuno, tantomeno chi, a differenza di Scalfari, giudica che nelle piazze possano talvolta - talvolta - esprimersi discorsi e sentimenti più articolati. Ma in quello slogan converrebbe vedere, più che l'urlo di un'invasione barbarica, il rivelatore del grado zero a cui è arrivato in Italia il linguaggio della politica, cioè la politica, non certo per colpa di Beppe Grillo; e di un imbarbarimento che è tanto della società quanto della sua espressione di palazzo. Come pure nell'uso della Rete da cui la piazza di Bologna nasce converrebbe vedere, più che la continuazione della massificazione passiva via tv di cui siamo stati vittime e complici per alcuni lustri, la possibilità di uno scatto di presa di parola e di coinvolgimento in prima persona, che può fare la piccola differenza, in Italia come altrove, fra la telecrazia e una sia pur minimale interattività.

Non c'è un governo di saggi assediato in piazza dalle invasioni barbariche. C'è nel palazzo e in piazza un'afonia che tocca rompere a chi, in piazza e - se c'è - nel palazzo, sappia trovare e comunicare parole più convincenti di una V per dare voce a una necessità di svolta e a un bisogno di politica.

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