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Non se ne farà nulla, ma il solo fatto che sia stato posto il problema di spostare la data del secondo confronto fra Prodi e Berlusconi per evitare la concomitanza di data con la fiction di Mediaset su papa Wojtyla la dice lunga sullo stato dell’arte: il religioso batte il politico, o almeno ci prova, e il televisivo batte tutti i due. I sondaggi danno l’Unione in testa, Berlusconi perde punti ogni volta che tenta di guadagnarne con le sue performance, ma l’agenda teledemocratica è ancora quella dettata da lui con la scesa in campo del ‘94: è la tv la scena della politica. La differenza, rispetto al ‘94, è che adesso questa scena è satura e c’è un prim’attore che ha stancato e sbaglia il copione. Un’altra scena, però, non si vede: l’Unione si avvantaggia dell’eccesso autolesionista dell’avversario, più che brillare di creatività politica propria. Il berlusconismo finirà per autoimplosione?

L’incursione di Berlusconi a Vicenza lascia aperto l’interrogativo, cui i sondaggi non bastano a dare risposta. L’eccesso di violenza è probabile che gli abbia nuociuto, confermando appunto la saturazione - in atto già da tempo - dei dispositivi di identificazione nelle sue miracolistiche promesse, nel suo ottimismo, nel suo narcisismo. Però la sceneggiata resta carica di segnali che non si possono liquidare con l’argomento consolatorio della saturazione. Perché resta il fatto che un presidente del consiglio si presenta a un convegno di un’associazione con quella arroganza monarchica, ostenta un disprezzo assoluto per qualunque regola - del galateo, dell’economia, della democrazia -,aggredisce volgarmente uno che si permette di non pensarla (più) come lui, arringa il popolo televisivo e il popolo degli industriali contro le élite della politica e degli industriali; e comunque qualcosa porta a casa, almeno nel suo campo che è poi il destinatario della sua strategia di galvanizzazione. Il che significa che Berlusconi probabilmente perderà le elezioni, ma il berlusconismo è ancora in circolo, e i suoi ingredienti di arroganza, populismo, disprezzo delle procedure sono tutt’altro che un ricordo del passato.

A proposito di élite. Nell’intervista di ieri al Messaggero, intitolata per l’appunto «Addio al berlusconismo», Massimo D’Alema ha osservato che «nelle élite del paese c’è la percezione che Berlusconi ha perso». Il che è vero e va incassato con soddisfazione, a patto di completare il quadro con almeno una domanda sulla percezione della situazione in coloro che élite non sono. È certo che una parte - solo una parte - delle élite del paese nel 2001 stava con Berlusconi oggi sta con Prodi. Ma è altrettanto certo che è stato il voto popolare, non quello d.élite, a premiare Berlusconi nel 2001 come nel .94. E va ricordato che altre élite, ad esempio gli studiosi del populismo e della post-democrazia, non hanno smesso di sottolineare in questi anni che il populismo di destra vince quando e dove il popolo scompare dalle attenzioni della sinistra. E per ora non pare che sia granché ricomparso nella campagna elettorale dell’Unione.

Si dà il caso che nel frattempo popolo ed élite si ripresentino in nuove, o antiche, combinazioni. Sta accadendo ad esempio a Parigi, contro la riduzione del lavoro a schiavitù flessibile e precaria che affligge l’Italia più della Francia. Aspettiamo con fiducia che il fatto si conquisti l’attenzione che merita nel discorso elettorale della sinistra italiana: non foss’altro perché c’è da giurare che è il futuro, prossimo, che l’aspetta. Per dare l’addio al berlusconismo stavolta non basterà una gestione più decente del quadro politico e istituzionale.

gi, giorno dello scioglimento delle camere - alle 10,30, al teatro Eliseo di Roma, l’Unione presenterà il suo definitivo programma per le elezioni del 9 e 10 aprile. Il teatro Eliseo di Roma è sede storica di impegnative iniziative del Pci e della sinistra italiana, se ne potrebbe fare un elenco di date storiche. Quindi grande attesa per l’evento di stamane. Però, però, sulla base di quel che si è potuto leggere e sapere la condizione mia, e di tanti compagni, è quella della delusione preventiva. Meno peggio della guerra preventiva, ma che certamente non aiuta chi è convinto che l’obiettivo assoluto, anche contro le peggiori delusioni, sia quello di liberarci di Berlusconi e della sua eteroclita banda.

Spero fortemente di essere smentito stamani all’Eliseo, ma da quel che finora mi è dato di conoscere non credo proprio. Non c’è un punto, dall’Iraq alla scuola, dal lavoro all’economia, dalla politica interna a quella estera sul quale si possa leggere un’opzione chiara e netta e visto che siamo in campagna elettorale una posizione che si possa tradurre in slogan (qualcuno si ricorda della «terra a chi la lavora» o della «legge truffa» o delle «riforme di struttura»?).

In questo programma (salvo felici smentite di stamani) non c’è nulla di preciso e netto, nulla che possa mobilitare gli elettori, anche quelli che di Berlusconi non ne possono proprio più. Questo programma, nella migliore delle ipotesi, appare come una delega ai gruppi dirigenti perché trattino nel modo migliore. Mancano del tutto proposte nette e precise sulle quali mobilitarsi o dividersi. L’abuso dei verbi al condizionale preoccupa.

Se questo mio timore non sarà smentito stamani, e temo che non lo sarà, allora dobbiamo preoccuparci seriamente. Per almeno due o tre ragioni. La prima è che questa scarsa chiarezza, questo volere e non volere, incoraggia l’astensionismo di sinistra, incoraggia anche un qualunquismo suicida (sono tutti uguali: litigano tra loro solo per chi deve andare al governo). La seconda ragione è che questa cauta accortezza porta acqua al berlusconismo che è presente nella nostra società e che ha consentito la vittoria del cavaliere che non è extraterrestre (come Croce aveva detto di Mussolini). La terza ragione è che queste elezioni si vincono come vogliamo che sia su questa piattaforma di indeterminati, la gestione del futuro governo di centrosinistra sarà terribile e difficilissima. Ciascuna delle componenti sarà autorizzata a tirare la coperta dalla sua parte e non solo strapperanno la coperta, ma manderanno a pezzi anche il letto. C’è ancora tempo per evitare questo slittamento. SSO

Appello, ecco perché si viola la Costituzione

Il grande giurista, reduce e vincitore del duello contro la coppia Ferrara-Armeni, racconta perchè la nuoba legge salva-Berlusconi sarà cancellata. La Repubblica del 18 gennaio 2006

L´AVVOCATO-legislatore forzaitaliota celebra i mirabilia della sua creatura: taglia i tempi processuali, garantisce l´imputato, promuove la «cultura giuridica». Non bestemmiamola, povera cultura. Studio la procedura penale da mezzo secolo: fino al 1938 costituiva appendice vile del corso penalistico; qualche suo cultore stava al giurista come i flebotomi al medico; niente da spartire con le materie nobili.

Da allora varie cose sono cambiate in meglio ma i ritardi culturali pesano: l´ignoranza figlia errori.

fioriscono pericolose sgrammaticature. Abbiamo sotto gli occhi un caso-monstre, l´inappellabilità dei proscioglimenti.

L´argomento dei guastatori suona così: assolto l´imputato, affare chiuso; non ha più senso insistervi. Sarebbe vero se come avviene altrove (anche in Italia, al tempo delle vecchie corti d´assise) decidesse una giuria. Le giurie nascono nell´Inghilterra normanna, XIII secolo, colmando il vuoto aperto dalla desuetudine degli iudicia Dei, la cui impronta irrazionale conservano: i dodici giurati sono l´organo vocale d´una infallibile anima comunitaria; ovvio che i verdetti non siano ripetibili, come non lo erano i duelli, ordalie, giuramenti purgatori. Qui invece i giudizi sono sapere tecnico, prodotti razionali, quindi criticabili: al vaglio provvede l´appello, un bis chiesto dal soccombente; ce n´è sempre uno; e soccombono entrambi quando le rispettive domande siano accolte in parte. Nello scenario romano al culmine sta l´imperatore: tale struttura verticale sviluppa i due gradi; il processo non è più evento singolo, né l´atto finale nasce irrevocabile; lo diventa se nessuno impugna. L´appello, insomma, ripara l´«iniquitas» o «imperitia» degli «iudicantes», sebbene qualche volta guasti decisioni giuste, potendo sbagliare anche il secondo giudice (Ulpiano, D. 49.1.1s.).

La Convenzione europea (art. 2 del protocollo aggiuntivo n. 7, 22 novembre 1984) contempla un diritto del condannato al secondo giudizio. Da noi l´aveva: il soccombente appella, se vuole; e i possibili soccombenti sono due, imputato e pubblico ministero; quando l´appellante vinca, sopravviene una riforma. Chi giudica è fallibile nei due sensi, assolva o condanni: giudizi ripetuti riducono i rischi d´errore; era così da duemila anni. I guastatori invocano quel protocollo. L´assolto in primo grado e condannato nel secondo ha diritto alla terza chance? Risponde l´art. 2, c. 2: solo se i singoli legislatori glielo concedono; l´appello è arma a due tagli; l´appellante vince o perde; nel primo caso va male all´avversario. L´unico argomento addotto, dunque, vale zero. Lo leggano tutto il protocollo n. 7. Qui l´ignaro rimane perplesso: dei filantropi temono inique riforme in peius, benissimo; allestiscano un terzo grado. No, vogliono impedire gli appelli del pubblico ministero, tale essendo la congiuntura in cui versa l´augusto committente. Déja vu: quante leggi gli avevano cucito addosso; siamo alla settima, salve omissioni (falso in bilancio, rogatorie, legittimo sospetto, conflitto d´interessi, immunità, prescrizione); lui comanda, i suoi avvocati unti dal popolo studiano la formula (a volte sbagliando), gli onorevoli yes-men votano.

Veniamo al punto, grosso come una casa: garantendo pari risorse alle parti, l´art. 111 Cost., c. 2, esclude proscioglimenti inappellabili; è contraddittorio monco quello dove l´imputato soccombente può appellare e l´accusatore no. Ogni sillaba in più sarebbe superflua: l´art. 593 nasce morto e tale sarà dichiarato; storpia il processo con un´assurda presunzione d´infallibilità dell´assolutore, nemmeno gli soffiasse nell´orecchio lo Spirito santo. I legislatori seri calcolano le regole in chiave pessimistica, presupponendo circostanze avverse e operatori talvolta ignoranti, distratti, negligenti, non equanimi, persino corrotti (ipotesi nient´affatto irreale, visti i casi de quibus); l´appello limita i rischi. Costoro l´aboliscono ogniqualvolta un tribunale assolva, bene o male. Inutile dire quante saranno le pressioni, se l´en plein chiude la partita. La parità dei contraddittori ammette varianti: la revisione del giudicato, ad esempio, non è esperibile contra reum; ma sono disparità nel sistema, mentre questa riforma lo devasta. Senza appello, l´organo dell´accusa perde un braccio e una gamba. Insomma, finché vigano gli art. 111, c. 2, e 112 Cost., è follia che solo l´imputato disponga del doppio grado. Né valgono i due precedenti costituzionali 24 giugno 1992 n. 305 e 24 marzo 1994 n. 98: nel rito abbreviato l´art. 443, c. 3, impone limiti marginali all´appello del pubblico ministero; l´art. 593 lo amputa.

Così risultano irrimediabili gli errori sul fatto, perché alla Cassazione manca lo strumentario d´una seconda decisione nel merito e se l´avesse, non sarebbe la Corte importata dalla Francia due secoli fa. Anche gli orbi vedono perché B. scateni il pandemonio nelle Camere moribonde: una sentenza milanese ritiene imperfetta (semipiena, scrivevano i vecchi dottori) la prova che abbia corrotto dei giudici, e applicando le attenuanti generiche, dichiara estinti dal tempo analoghi episodi delittuosi; pende l´appello; siccome la prospettiva d´una riforma lo disturba, con disinvoltura piratesca fracassa la macchina attraverso una servile mano d´opera parlamentare. I mimi lo servono raccontando che nella giustizia penale vi fossero residui barbari, e lui, sovrano benefico, la epuri. L´arte leguleia perversa è famoso tema satirico ma qui non citerei tanto Rabelais quanto Molière, quello del «Tartuffe», la commedia d´una ipocrisia sorda e cupa. L´ideologia della Cdl ha un nome, criminofilia. Avevo indicato otto esempi. Questa legge fornisce il nono. E le vittime? Al diavolo, i signori non tollerano piagnistei né rogne.

Post scriptum

Lunedì mattina 16 gennaio annuncia querela l´avvocato Gaetano Pecorella, difensore dell´Unico, nonché deputato e presidente della commissione giustizia (honni soit qui mal y pense): secondo lui, è diffamatorio dire che questa legge serva al committente. Argomento interessante, lo discuteremo in tribunale. Noto solo come G.P. abbia una curiosa idea della verità storica: deve averlo stregato B., mago del virtuale; nella loro loquela i fatti fluttuano; alla sera non sono più quelli della mattina. In poche righe l´intervista al «Corriere», 13 u.s., accumula quattro insigni esempi. È falso che, annullando la condanna inflitta ad Andreotti, la Cassazione raccomandasse d´abolire l´appello contro i proscioglimenti: quell´obiter dictum (nome latino-anglosassone degli argomenti ridondanti dalla «ratio decidendi») auspicava riforme a effetto rescindente, seguite da una terza decisione. Altrettanto falso, l´abbiamo visto, il riferimento alla Convenzione europea. E che questa sua proposta risalga al 2002, sviluppando idee formulate in un convegno di magistrati. Fanno fede gli atti parlamentari: «Proposta di legge d´iniziativa del deputato Pecorella, Modifiche al codice di procedura penale in materia d´inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, presentata il 13 gennaio 2004»; e in quel convegno nessuno s´era sognata l´inappellabilità dei proscioglimenti. Ridicolmente falso, infine, che la nuova formula riproduca quella del codice 1930: G.P. pensa davvero che Alfredo Rocco, molosso della «pretesa punitiva», negasse l´appello al pubblico ministero, suo enfant gâté?; se è così, ignora storia e procedura.

Adesso che l´Italia si trova nuovamente investita dallo scandalo – le indagini sui manager di Antonveneta, Unipol e Banca d´Italia, l´inchiesta sulla possibile tangente data da Berlusconi a un importante testimone in uno dei suoi processi – apprendiamo da alcuni autorevoli editorialisti del Corriere della Sera che la colpa non è di quanti hanno commesso quei reati, bensì di coloro che hanno osato indagare su di loro o denunciarli (ufficialmente).

Nel suo ultimo articolo intitolato "La Sinistra e il moralismo" Angelo Panebianco ha espresso la preoccupazione che l´Italia, e in particolare la sinistra, stia riprendendo il "vizio nazionale" di moraleggiare sulla corruzione e di demonizzare Berlusconi, facendo ritorno ai tempi di Tangentopoli, quando le indagini dei giudici non erano altro che "una caccia alle streghe…un regolamento di conti fra bande, mascherato da lotta tra la Virtù e il Vizio".

Bisogna ammettere che Panebianco fa notare qualcosa di molto intelligente su cui vale la pena riflettere, e specificatamente che la corruzione in Italia è sistemica per sua natura, ed è dovuta al fatto che in Italia politica ed economia sono profondamente saldate tra loro. «Per ragioni storiche il capitalismo italiano vive in simbiosi con lo Stato e la politica», scrive Panebianco, con ciò significando che coloro che detengono il potere politico - siano essi di destra o di sinistra - inevitabilmente saranno tentati di agevolare gli interessi cui essi guardano con simpatia e di ostacolare coloro che dovessero ritenere sfavorevoli. Qualcosa del genere può essere accaduto su entrambi i fronti dell´attuale scandalo bancario, con i leader Ds che hanno appoggiato Unipol, e il centrodestra che ha lavorato dietro le quinte a favore di Fiorani e di Antonveneta.

Quando trae le sue conclusioni – affermando che la colpa è dello spirito anticapitalista moraleggiante della sinistra italiana - Panebianco esce malamente fuori rotta. «Per giunta, se in Italia non cambiano gli atteggiamenti diffusi (non solo a sinistra) sul mercato, non sarà mai possibile disciplinare i conflitti di interesse, da quello palese di Berlusconi a quelli occulti dei suoi avversari. Per la sinistra, soprattutto, sbarazzarsi del moralismo è difficile. Anche perché è stato uno strumento di lotta contro Berlusconi. Ma è un´arma controproducente».

È una vecchia, deprecabile storia il fatto che le più autorevoli voci del Corriere, nei momenti cruciali, paiano sempre e inevitabilmente dare una mano, conforto morale e giustificazioni intellettuali alle anomalie estreme del fenomeno Berlusconi. Da dieci anni ormai Panebianco, Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia sembrano sempre trovare un maggior numero di colpe nei magistrati che portano alla luce la corruzione, rispetto a coloro che hanno infranto la legge, e sdrammatizzano l´importanza dei conflitti di interesse di Berlusconi con un migliaio di "distinguo" e di cavilli.

Dopo aver dato in origine il suo appoggio all´indagine di Mani Pulite, Galli della Loggia avanzò poi la curiosa tesi secondo cui i magistrati non avevano il diritto di perseguire i crimini di corruzione politica perché in precedenza non l´avevano mai fatto: «Ancora una volta, una domanda: perché, con l´eccezione di pochi casi, gli inquirenti in Italia prima del 1992 non hanno perseguito i reati di corruzione politica?» scrisse nel settembre del 2002. Oppure: «E perché dopo quella data la procura di Milano e a volte quella di Napoli e alcune della Sicilia sono le uniche ad avere condotto indagini accurate e penetranti in quella direzione? (…) È possibile esprimere un´ipotesi ideologico-politica? (…) Che la personalità, l´amicizia, la visione del mondo, il punto di vista di questo o quel magistrato ne abbia influenzato la condotta?». In altre parole, poiché soltanto un´esigua minoranza di magistrati italiani si era presa la briga di perseguire i reati di corruzione politica, devono aver agito per qualche profonda animosità politica, ideologica o personale.

Questa posizione era tanto sbagliata sul piano fattuale quanto sul piano razionale. L´ufficio del procuratore di Milano, in particolare, aveva avviato numerose indagini su importanti casi di corruzione – il caso Sindona, il caso della P2, i fondi neri dell´Iri, il caso della corruzione nella metropolitana di Milano, per citare soltanto quelli più importanti: poi però o erano stati riassegnati a Roma, dove erano stati "insabbiati", oppure il Parlamento italiano aveva negato il diritto di portare avanti le indagini. Così, stando a quanto afferma Galli della Loggia, i procuratori di Milano in qualche modo hanno fatto qualcosa di male cercando di applicare la legge, perché spesso in passato era stato loro impedito di farlo. Pertanto oggi è disdicevole che i procuratori di Milano, di Napoli e della Sicilia cerchino di portare avanti le indagini (che si ammette essere "accurate e penetranti") sulla corruzione, perché alcuni loro colleghi di altre sedi non sono riusciti a farlo. Tutto ciò è particolarmente assurdo alla luce del fatto che i procuratori milanesi hanno ormai dimostrato che corrompere i giudici era una prassi usuale a Roma; ma sono stati i magistrati che hanno scoperto i casi di corruzione a buscarsi tutto il disprezzo di Galli della Loggia.

Analogamente, anche Sergio Romano si è schierato pressoché inevitabilmente con Berlusconi contro i suoi accusatori. Quando Cesare Previti è stato incriminato per aver corrotto i giudici di Roma, Romano ha deciso di indignarsi non tanto per il fatto che l´avvocato personale del primo ministro era stato giudicato colpevole di aver scritto i nomi dei giudici nel suo libro paga, bensì per le parole adoperate dalla Corte nella sentenza che descrive la spirale di corruzione che ha invaso il Palazzo di Giustizia di Roma: «Una gigantesca opera di corruzione…Il più grande caso di corruzione nella storia, non solo d´Italia…".

Focalizzandosi su alcune frasi estrapolate dalla sentenza, Romano ha cercato di trasformare lo scandalo della corruzione dilagante nella cerchia romana degli intimi di Berlusconi nello scandalo dei procuratori di Milano. Insieme agli incessanti attacchi ai procuratori sugli organi di stampa di proprietà di Berlusconi, questi editoriali – che apparivano regolarmente ogni qualvolta i problemi legali di Berlusconi venivano in primo piano – hanno avuto il risultato di sdrammatizzare l´effetto del crescente accumularsi di prove sulle colpe del premier e dei suoi intimi. La colpa, se mai c´era, era dei procuratori: quante più prove di attività criminale essi trovavano, tanto più esse erano semplicemente indice della malvagità e dell´animosità ideologica e personale da essi riservata a Berlusconi.

Ricorrendo a ragionamenti al tempo stesso eruditi e tortuosi, essi hanno usato la loro considerevole intelligenza per rendere complicato ciò che di fatto è assai semplice: la persona proprietaria della più grande società privata del Paese non dovrebbe avere l´incarico di guidare il governo; il più importante proprietario di mezzi di comunicazione in Italia non dovrebbe altresì controllare il sistema dell´emittenza radiotelevisiva statale; e un uomo la cui azienda è indagata per qualche reato – prima che egli entrasse in politica – non dovrebbe essere responsabile del sistema della giustizia penale.

Il Corriere, in quanto voce della borghesia illuminata del nord, avrebbe potuto rivestire un ruolo assai importante costringendo Berlusconi ad attenersi alle più elementari leggi democratiche. Avrebbe potuto spiegare, con credibilità (come spesso ha fatto Giovanni Sartori, una voce isolata), che il conflitto di interessi non è un problema ideologico tra sinistra e destra, ma soltanto una regola di base della governance democratica.

Panebianco ha ragione quando afferma che il problema italiano è strutturale e non morale; ma sbaglia non vedendo che il conflitto di interessi è profondamente strutturale, che peggiora esponenzialmente e legittima la già grave simbiosi tra politica e business. Consentire all´uomo più ricco del Paese di guidare il governo è un´alterazione strutturale del sistema, nella direzione sbagliata. Panebianco e i suoi colleghi dovrebbero chiedersi che cosa sarebbe stato dell´attuale scandalo bancario – che al momento essi lodano come gestito in modo altamente professionale e imparziale –, se i tentativi del governo di Berlusconi di mettere la magistratura sotto il controllo politico diretto fossero andati in porto. Avremmo mai saputo niente delle malefatte di Antonveneta, Unipol e Banca d´Italia se fosse stato coronato da successo il tentativo del governo di abolire le intercettazioni telefoniche della polizia e di limitarle soltanto ai crimini più violenti?

(Traduzione di Anna Bissanti)

Quanto c’è della prima Repubblica nei primi, incerti passi di questa legislatura? Poco, a nostro avviso. E, comunque, poco di buono. Certo, è difficile non venire risucchiati nella spirale del remake, ripercorrendo i nomi e le vicende degli ultimi giorni. Ex e neo comunisti alla ricerca dell’assoluzione definitiva dal loro peccato d’origine. E tanti democristiani. Mai pentiti. Anzi, mai come oggi orgogliosi di dichiararsi tali. Si pensi alla faticosa elezione del presidente del Senato. Quale migliore esempio dell’immortalità dello spirito democristiano, che permea la nostra cultura politica? Andreotti e Marini. Personaggi esemplari dell’epopea democristiana. Di cui hanno interpretato riferimenti diversi e complementari.

La destra e la sinistra riunite al centro. Insomma: la Dc. La mediazione. Per definizione e per necessità. Perché il Centro della prima Repubblica, come ha insegnato Giovanni Sartori, costituiva una "rendita di posizione". O una "posizione di rendita". L’unico possibile luogo di governo, in un sistema politico altamente polarizzato. Dove le alternative erano impossibili per la presenza di partiti antisistema. L’Msi, neofascista; e il Pci, comunista. Per cui al centro convergevano e coabitavano interessi e identità differenti. E la mediazione diventava quasi un’abitudine. Andreotti e Marini. Rivederli di nuovo, accompagnati da altre icone democristiane della prima Repubblica: Cossiga e Scalfaro in primo luogo. Ha evocato l’eterno ritorno dell’uguale. In questa Repubblica, dove ogni "divisione" viene percepita come una "drammatica spaccatura", di fronte a una alternativa istituzionale incerta, le due parti si sono affidate ai mediatori per definizione. I democristiani. Opponendo un novizio di oltre 65 anni a un navigato navigatore di quasi novanta. "Democristiani" (nell’accezione deteriore) appaiono anche i giochetti che hanno allungato e complicato l’elezione di Marini. I "franceschi tiratori". Che suggeriscono un retroscena di scambi e pressioni di piccolo cabotaggio. Democristiano, infine, anche il candidato proposto da Berlusconi alla Presidenza della Repubblica. Gianni Letta. Per evitare «l’occupazione sistematica del potere» da parte della sinistra.

Eppure, in mezzo a tanti segni democristiani, mai come oggi, mai come in questa occasione, la Dc è apparsa tanto lontana. Irripetibile. I due democristiani. A interpretare non la mediazione, l’accordo fra due coalizioni, fra due Italie: ma la loro contrapposizione irriducibile. In un clima parlamentare acceso. Punteggiato di polemiche, minacce, intimidazioni. Quando la Dc era la camera iperbarica. Dove le minacce e le tensioni venivano sterilizzate all’interno. E Andreotti: l’immobilità e il silenzio del potere (che "logora chi non ce l’ha"). Usato come un ariete, da "altri": il centrodestra. Per scardinare le difese dei nemici. Per sbrecciare le fragili mura del centrosinistra. Catturare qualche voto. Qualche anima. "In virtù delle diaboliche virtù" che la mitologia politica italiana gli attribuisce. Quanto di più lontano dalla Dc: madre di ogni mediazione. Mentre nei giorni scorso, al Senato, ogni scrutinio marcava l’esistenza di due settori quasi impermeabili. Senza transumanze. Almeno per ora. Difficile imbattersi in una raffigurazione altrettanto plastica ed espressiva del bipolarismo maggioritario. A cui si sono piegati – per rassegnazione o per costrizione – anche coloro che, fino ad oggi, lo hanno guardato con avversione o scetticismo. Giulio Andreotti, che ancora nel 2001 aveva partecipato attivamente al progetto neodemocristiano di Democrazia Europea, promosso da Sergio D’Antoni (il segretario della Cisl succeduto a Marini). Affondato immediatamente dall’insuccesso elettorale. Franco Marini: il leader della Margherita più ostile all’ipotesi dell’Ulivo-partito. Del soggetto unitario di centrosinistra. E, per questo, sostenitore della Margherita di centro. Partito moderato che si rivolge non solo agli elettori, ma anche ai partiti moderati di destra. Quasi un viatico al neocentrismo proporzionalista.

Andreotti e Marini: si sono affrontati all’interno di uno schema bipolare. Ne hanno accettato e recitato la parte. Senza dubbi né esitazioni. Proclamando, entrambi, che la loro elezione avrebbe garantito cittadinanza a tutti. Alla destra e alla sinistra. Oltre le divisioni. Come avviene nei sistemi bipolari a democrazia responsabile e matura. Dove chi vince, anche con un solo voto in più, governa e rappresenta tutti. La differenza, semmai, è che il nostro bipolarismo risulta ancora povero di significato e di fondamenti. Ricco solo di fazioni e di partiti (ni). Diversamente dalla prima Repubblica. Baricentrica per necessità, ma profondamente bipolare dal punto di vista politico, dei valori, delle identità. (Oltre che, al fondo, bipartitica). La "centralità del centro". Rifletteva la "frattura anticomunista". E, al tempo stesso, la "questione cattolica". In altri termini: la Dc costituiva il riferimento politico obbligato – e senza alternative – di fronte al maggior partito comunista presente in un paese occidentale. Al tempo stesso, rappresentava i cattolici. O meglio: garantiva la rappresentanza dei cattolici in politica, di fronte alla Chiesa. Ma il comunismo, come blocco geopolitico, non c’è più. Da tempo. È crollato, insieme all’Urss; e al muro di Berlino. Nel 1989. Così i cattolici, anche per questo, oggi non hanno più fedeltà politiche. I partiti che si riferiscono direttamente ed esplicitamente alla tradizione democristiana sono piccoli. Perché i cattolici oggi non hanno partiti né coalizioni di riferimento. La Chiesa, il clero, per questo, agiscono in proprio. Autonomamente. Come una lobby influente. A tutela dei valori (Chiesa, vita, solidarietà) e degli interessi (scuola, associazionismo) del mondo cattolico. Il nostro bipolarismo, invece, si regge su fratture diverse. Certamente più povere di significato e di contenuti, anche se altrettanto profonde. Anzitutto, il "berlusconismo". Quell’insieme di modelli di valore, comunicazione, espressione interpretati da Berlusconi e dal suo partito. (L’impresa, la deregolazione, la televisione, la personalizzazione). A cui si sono piegati, per amore o per forza, gli alleati. A cui si sono adeguati – per necessità e, in parte, per scelta – gli avversari. Poi, il "nuovo anticomunismo". Un prodotto e un artefatto del berlusconismo. L’anticomunismo senza il comunismo. Sinonimo di tutto ciò che è "altro" dal berlusconismo. Una confusa nebulosa di significati, che evoca la regolazione, il pubblico, lo Stato, il sindacato, la grande stampa e i grandi imprenditori, la magistratura…

Ecco: la precarietà del nostro bipolarismo non riflette solo il processo di riforme preterintenzionali e malintenzionate che l’ha accompagnato. Ma, in misura maggiore, la miseria dei riferimenti – politici e di valore – su cui si è fondato. L’incapacità, fin qui, di andare oltre Berlusconi. E l’anticomunismo di maniera che egli evoca. Dipende, inoltre, dall’ambiguità dei progetti e dei soggetti politici che hanno partecipato a costruire questa Repubblica.

Da cui il rischio vero. Peggiore, a nostro avviso, del clima di "divisione" sociale prodotto dal sistema politico. L’affermarsi di un bipolarismo meccanico. Adattivo. Che non aggrega e non divide sulla base di valori, disegni, interessi di grande (o anche medio) raggio. Ma di pallide idee mascherate da ideologie. Rispecchia logiche di potere; o ancora: piccoli calcoli particolaristici. Un bipolarismo che non si sviluppa su grandi soggetti e progetti politici. Ma su collage frastagliati di partiti (ni). La cui coesione parlamentare si fonda sulla sfiducia reciproca; ed è garantita da tecniche di reciproco controllo fra i gruppi (come si è già visto, in occasione del voto al Senato; dove il diverso modo di scrivere il nome dei candidati è servito a dichiararne la provenienza).

Un bipolarismo dove il residuo dell’eredità democristiana – oltre che da una folla di ex, più o meno anziani, più o meno autorevoli – sia costituito dalle furbizie. Dai "franceschi tiratori".

In questa "Repubblica degli ex" io non esiterei a dichiararmi "ex cittadino".

Titolo originale: Italian vote, American echoes – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Le elezioni italiane una volta non erano così – combattute in modo tanto ravvicinato, ideologicamente polarizzate – in breve, tanto simili alle presidenziali americane del 2004 e del 2000. Ma questo succedeva prima dell’era di Silvio Berlusconi, il politico di centrodestra, uomo di spettacolo e miliardario self-made arrivato alle elezioni di questa settimana dopo il più lungo periodo in carica di un primo ministro dopo la seconda guerra mondiale.

Dopo una lunga notte di risultati altalenanti, gli italiani hanno appreso che Berlusconi probabilmente ha perso, per un margine strettissimo, a favore di Romano Prodi, esponente di centrosinistra ed economista. Prodi è l’opposto di Berlusconi quasi su tutto, dal suo atteggiamento del tutto poco appariscente alla piattaforma di governo. Su quasi 40 milioni di voti espressi, appena 25.000 separano i due schieramenti. Berlusconi deve ancora riconoscere la sconfitta, e chiede un ulteriore conteggio.

Quindi l’Italia ora è condannata a cinque anni di immobilità paralizzante? Probabilmente no. Se si confermano le cifre attuali, Prodi appare sicuro di costruire una maggioranza legislativa, posto che riesca a tenere insieme la sua composita coalizione di centrosinistra. Ma l’esiguità di questa maggioranza renderà più difficile al nuovi governo imporre le riforme fiscali, del mercato del lavoro e delle regole di cui l’Italia ha urgente bisogno per riavviare l’economia stagnante e servire la popolazione invecchiata.

Il fatto che Berlusconi non abbia mantenuto le sue promesse, di tradurre il proprio successo negli affari in una rinascita economica nazionale, gli è costato la rielezione. Prodi capisce bene cosa è necessario fare. Quello che resta da vedere è se riuscirà a convincere i suoi alleati politici, specie quelli della sinistra tradizionale, a dargli il sostegno parlamentare di cui ha bisogno.

Nota: da confrontare, questa ipotesi del NYT tutta razionalizzatrice "interna al sistema" con il più aperto approccio dell'articolo di Jonathan Freedland sul Guardian sullo sfondo dello scenario economico e politico globale (f.b.)

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Il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al Ministro dell'Ambiente perché chiarisca alcuni punti del decreto legislativo di attuazione della delega ambientale (Testo unico ambiente).

Per oggi pomeriggio e' previsto un incontro a Palazzo Chigi tra Matteoli e lo staff legislativo del Ministero e della presidenza del Consiglio dei Ministri. I chiarimenti richiesti dal Quirinale riguarderebbero i rilievi già mossi dalle regioni che hanno preannunciato ricorso alla Corte costituzionale. Un altro aspetto riguarderebbe il mancato passaggio del testo al Consiglio di Stato. Il provvedimento, che è un decreto legislativo e non una legge, non può essere rispedito alle Camere, ne' vale, ai fini della decadenza del testo, il periodo di 30 giorni per la sua promulgazione. Il Quirinale dunque potrà scegliere di recepire le indicazioni del ministero dell'ambiente promulgando il testo anche in un termine successivo a quello prescritto per le leggi o, nell'ipotesi contraria, non firmare il provvedimento attendendo la sua scadenza naturale prevista per luglio prossimo.

In questi mesi le osservazioni della Legambiente e delle altre associazioni Ambientaliste sono state sistematicamente ignorate dal Parlamento e dal Governo.

Ad ora non si conoscono ancora le motivazioni con cui il Capo dello Stato ha sostanziato l'atto di rinvio ma questo può avvenire per motivi di ordine costituzionale, intendendo con questo anche il problema delle competenze tra Stato e Regioni, di obblighi internazionali che il nostro Paese ha (e quindi anche il corretto recepimento delle direttive comunitarie) e la copertura finanziaria. Quindi quantomeno uno di questi elementi ha pregiudicato la firma della legge delega sull'ambiente da parte del Capo dello Stato.

Infatti riteniamo che le scelte nei vari comparti siano viziate da un'impostazione sbagliata che viola le direttive comunitarie che si dichiara di voler recepire. La legge Delega di fatto sottrae milioni di tonnellate di rifiuti alla disciplina comunitaria che diventano facilmente smaltiti in modo illegale, indebolisce la procedura di danno ambientale e annulla la partecipazione delle associazioni ambientaliste ai processi per i reati ambientali; rende meno certi e cogenti gli interventi di bonifica dei siti industriali inquinati; stabilisce procedure che rendono impossibile il raggiungimento degli obiettivi di qualità per le acque stabilite dall'Unione Europea; crea un procedimento di valutazione ambientale strategica (Vas) a valle dei piani o dei programmi e non, come richiesto contestuale alla decisione di questi e trasforma la Via in un passaggio burocratico svuotandola di ogni potere di controllo e diniego.

Tutto questo senza considerare il conflitto di competenze che le Regioni hanno eccepito o le carenti coperture economiche che sono state da più parti osservate, su tutti questi temi il Governo era stato avvisato, non solo dalle associazioni ambientaliste, ma anche dalla Conferenza Stato-Regioni da numerosi organi istituzionali, non ultimi gli uffici del ministero dell'Economia.

Il Governo però ha scelto di andare avanti contro tutto e contro tutti, anche contro il mondo scientifico che si era mobilitato con centinaia di docenti indirizzando proprio al Governo e al Capo dello Stato un accorato appello che vedeva fra i primi firmatari Rita Levi Montalcini e Salvatore Settis.

Probabilmente la rabbia spontanea o manovrata dell'opinione pubblica in alcuni stati islamici per le famigerate «vignette» prima o poi si spegnerà. Giuste intanto le deplorazioni per una reazione sproporzionata auna pubblicazione certamente indebita e irriverente che non si capisce perché qualche «libertario» di casa nostra vorrebbe addirittura replicare o generalizzare. E giusta soprattutto la condanna per gli atti di violenza contro le persone e le cose (molti dei morti sembrano caduti però nella repressione). L'esplosione di questi giorni è un segno preoccupante di una tensione che trascende e travalica l'episodio in sé, per quanto grave. I crimini della piazza o di chi ha manipolato la piazza non possono far dimenticare le responsabilità di chi si atteggia sempre e solo a vindice di un ordine che per suo conto ha contribuito a deteriorare e piegare ai propri interessi e alla propria lettura della storia introducendo o evidenziando una spaccatura sempre più insanabile.

Spiegare tutto con l'odio inestinguibile dell'Islam per la libertà di cui gode e che diffonde l'Occidente, o con l'incompatibilità assoluta dei due sistemi di valori, non spiega nulla. Paradossalmente, se non c'è una prospettiva su cui lavorare per un futuro migliore riducendo le distanze mediante il progresso e la diversificazione sociale (dei paesi che vivono di rendita o dei popoli che vivono di Islam?), le guerre dell'Occidente - dall'Afghanistan all'Iraq, andata e ritorno - diventano guerre di pura conquista con il petrolio come unica posta. E' come se l'orientalismo bollato da Edward Said e riproposto da Bernard Lewis come strumento conoscitivo di una realtà con sue proprie regole di identità e di aggregazione si riappropriasse della sua materia di studio espungendo il Medio Oriente dal flusso della storia. Non è la Fallaci ad aver ragione. E' il pregiudizio di massa di cui la Fallaci si è fatta portavoce immaginando di essere un rompighiaccio che ha guadagnato tutto il campo della politica costringendo la controparte a recitare il copione che le è stato ritagliato su misura per l'egemonia e la superiorità dell'Occidente in un momento di oggettivo disorientamento davanti all'orrore del divario a cui in qualche modo le punte più avanzate dello stesso Occidente si sentono in dovere di metter mano. Finché, prendendo a caso dal mazzo, fatti sulla cui illiceità non possono sussistere dubbi come la guerra anglo-americana in Iraq o l'occupazione israeliana della Palestina non saranno sanzionati a livello mondiale - e cioè da tutti in tutti i paesi del mondo e da tutte le organizzazioni internazionali come avviene per gli attentati terroristici o il vandalismo contro le chiese e le ambasciate - la cosiddetta comunità internazionale, l'Occidente, i governi europei di destra o di sinistra non avranno la legittimità morale e la credibilità politica per svolgere la funzione regolatrice che in un altro contesto di comportamenti potrebbe effettivamente risultare proficua. Parlare di Voltaire è gratificante e forse pertinente, ma è con le politiche di Bush e Sharon (e al limite di Mubarak) che bisogna fare i conti per stabilire o ristabilire un ordinamento condiviso. Anche se le intenzioni fossero state buone, ma si sa che erano cattive e basate su una serie di falsità orchestrate ad hoc, la guerra contro Saddam ha provocato un numero inaccettabile di vittime e ha sconquassato un'intera nazione chissà per quanto tempo. Gli invasori e gli occupanti non si fanno scrupolo di disporre degli uomini, delle confessioni e delle istituzioni come se fossero res nullius. Nessun addobbo idealistico può far dimenticare agli interlocutori-antagonisti, moderati o fanatici che siano, che le logiche sono le stesse messe in atto in epoca coloniale con la civiltà, il libero commercio e la sicurezza dei coloni europei al posto che hanno oggi l'esportazione della democrazia e la difesa del mercato. Non si può nemmeno parlare di «esperimento» perché i precedenti appunto del colonialismo e dell'improvvisata decolonizzazione dimostrano a sufficienza che il passaggio di un governo europeo o occidentale non corrisponde necessariamente al trapianto riuscito e imparziale dei modelli di cui europei e occidentali vanno giustamente fieri. Visto il riferimento all'esperienza coloniale, si può ricordare incidentalmente che l'occupazione della West Bank da parte dello stato ebraico è già durata più dell'occupazione italiana della Libia. In Francia, adattandosi al fatto compiuto, non è chiaro se per iniziativa di Chirac o di Sarkozy, hanno sentito il bisogno di depotenziare la «minaccia» rappresentata dagli immigrati maghrebini riscoprendo il carattere «positivo» della presenza francese oltremare, in specie nel Nord Africa, a massimo disdoro della laicità della ricerca o a massimo incoraggiamento dei più pavidi per non dare respiro ai beur di seconda o terza generazione.

E' inutile ripetere che l'agitazione, i tumulti e il ribellismo possono non essere spontanei e non hanno obiettivi politici degni di essere registrati perché non ci sono ideologie, leaderships e alternative o che la Palestina è un falso problema. E' vero, può essere vero, ma non basta. Le cause della crisi del mondo arabo-islamico o più in grande della «periferia» - a cui, come scriveva Angela Pascucci nel bell'editoriale di domenica, fa da contraltare parallelo e configgente la crisi del «centro» - sono complesse e vanno a segno in tutte le direzioni possibili. C'è un incontro, una reciproca interazione, fra le ambizioni degli uni e le frustrazioni degli altri. Di sicuro, nel movimento di contrasto, di per sé ambiguo se non informe, si riconoscono sia i gruppi che detengono il potere o che aspirano ad esso sia le classi oppresse, il lumpen pronto a tutto per disperazione, i poveri. E' proprio il formarsi di quel tipo di coalizione di fatto a rendere il tutto così esplosivo e incontrollabile.

Eppure la politica è fatta apposta per opporre i mezzi di cui dispone al trionfo dell'irrazionalità e al senso di impotenza che ne deriva. Le forze politiche o le autorità nazionali o internazionali che non credono ai vantaggi malgrado tutto dello «scontro di civiltà» hanno il compito di intervenire. Se l'Europa ha espresso dissenso per la guerra in Iraq non può accontentarsi di una spolverata di legalismo votata obtorto collo da qualche istanza dell'Onu per ignorare la sostanza del vulnus e le conseguenze di lungo periodo che quella violazione del diritto ha innescato. Dispiace che D'Alema non si sia pentito del contributo che il centro-sinistra diede a suo tempo in Italia alla guerra della Nato contro la Jugoslavia. Non ci si può sbarazzare di ciò che significa la vittoria degli islamisti nei territori occupati intimando a Hamas di riconoscere Israele. A furia di temere di essere troppo dogmatici sui principi che appartengono dopo tutto al patrimonio della parte occidentale o di fingere di essere «equidistanti», si smarrisce per strada ogni criterio per giudicare i fenomeni della tormentata e faticosa transizione in tutta quella vasta area che si estende fra l'Ovest e l'Est dei tempi della guerra fredda e fra il Nord e il Sud della tipologia terzomondista vecchia maniera e sempre attuale per merito o per colpa di quelli che non vogliono più dare per scontata la fine del colonialismo. Senonché, togliendo anche il bonus della sovranità al mondo che ha molti motivi stringenti per sentirsi deluso dai risultati della decolonizzazione, il cerchio si chiude senza lasciare più alcun margine. Non per niente, stando alle analisi che utilizzano i documenti fatti circolare dai servizi delle maggiori potenze, la consegna che sovrintende alla «guerra al terrore» è di non prendere nemmeno in considerazione le cause che alimentano lo scontento e la protesta perché sono troppo diversificate e, allo stato attuale delle relazioni internazionali, insolubili.

Giornali a lui vicini come "Libero" e "Il Foglio" hanno appioppato due nomignoli appropriati alla sua deposizione di «persona informata dei fatti»: "Detective Silvio" e "Ispettore Roc". Il "Corriere della Sera" di ieri ha richiamato l´ombra del Sifar e dei suoi illegali fascicoli di spionaggio. Ma la più pertinente delle definizioni (chiedendone scusa all´autore) mi sembra piuttosto "Dagospia", un sito Internet specializzato in gossip.

Il nostro "Dagospia" si è recato l´altro ieri pomeriggio in Procura accompagnato dall´avvocato Ghedini che aveva organizzato l´incontro con il Procuratore capo e con i due sostituti incaricati dell´inchiesta Unipol e per venticinque minuti li ha intrattenuti sui gossip dei quali era stato informato da un tunisino suo socio in affari: chi dei dirigenti diessini ha cenato con il presidente delle Generali e qual è stato il contenuto di quell´incontro.

Forse anche il menù della cena e i vini serviti a tavola.

Reati? Certo che no, ha detto Berlusconi ai suoi amici di Forza Italia ed ha ripetuto nell´ennesima trasmissione televisiva cui ha partecipato subito dopo (da Anna La Rosa).

Ieri pomeriggio ha ripetuto il concetto in una conferenza stampa appositamente convocata. Risulta evidente che il nostro Dagospia sente incombere il reato di calunnia e mette le mani avanti. Ma sente anche montare intorno a sé il disagio dei suoi alleati e la disapprovazione generale dell´opinione pubblica, non soltanto di quella di centrosinistra.

Un passo falso di estrema gravità, improvvidamente preparato dal suo avvocato di fiducia che in fatto di relazioni esterne non dev´essere proprio una cima.

La deposizione di Berlusconi ha avuto come effetto l´uscita di scena del caso Unipol, sostituito dal caso d´un presidente del Consiglio che, in piena campagna elettorale, consegna ai magistrati inquirenti un dossier di gossip politici compilato da un suo socio in affari, con il chiaro intento di attivare un ventilatore giudiziario per meglio schizzare fango sui suoi avversari, ma si accorge nel bel mezzo di questa fraudolenta operazione che il ventilatore funziona controvento rigettando il fango (o peggio) su di lui.

Qui nasce una questione della massima serietà, sollevata ieri nell´editoriale di Ezio Mauro; una questione politica e istituzionale che mette in discussione la natura stessa di questo governo.

Le iniziative calunniose e spionistiche del suo presidente turbano lo svolgimento ordinato delle elezioni politiche, cioè il momento culminante di ogni democrazia, tentando di manipolare il voto degli elettori e suscitando reazioni e tensioni. Si tratta dunque di iniziative di stampo eversivo, mentre non a caso il presidente della Repubblica, ben consapevole dei rischi indotti che possono derivarne, batte da tre giorni sul tasto del pericolo di inquinamento elettorale.

Mentre tutto ciò accade sotto gli occhi allibiti dei nostri partners europei, un Parlamento arrivato al termine del suo mandato approva a colpi di maggioranza una legge palesemente illegale (insisto sull´avverbio "palesemente") che abolisce la possibilità del Pubblico ministero di appellarsi contro le sentenze di assoluzione e con ciò discrimina la pubblica accusa e le parti civili rispetto alla difesa dell´imputato, violando gli articoli 110 e 112 della Costituzione che stabiliscono la parità delle parti in processo, con l´evidente intento di bloccare il processo Sme che vede imputato lo stesso presidente del Consiglio per corruzione in atti giudiziari.

Contemporaneamente lo stesso presidente del Consiglio, attraverso il capo del gruppo parlamentare del suo partito, fa bloccare a tempo indefinito la riforma della legge sulla contrattazione dei diritti televisivi delle partite di calcio e regala un bel pacco di denaro al Milan, alla Juventus e all´Inter a spese di tutte le altre squadre del campionato.

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Questi sono i fatti accaduti nell´ultima settimana e ne mancano ancora una dozzina prima della giornata elettorale. Aggiungerei l´occupazione totale degli spazi televisivi dai quali campeggia ininterrottamente la faccia inceronata del presidente del Consiglio, concionante senza limiti di tempo di fronte a conduttori compiacenti o ammutoliti.

I dirigenti del centrosinistra hanno preannunciato un passo formale presso il capo dello Stato affinché questa invereconda deriva antidemocratica abbia termine e si recuperino condizioni di normalità democratica. Se questo obiettivo non si realizzasse e dovesse continuare l´attuale scompiglio, la situazione potrebbe arrivare a decisioni estreme.

Gli alleati di Forza Italia vanno per una volta aldilà del mugugno. Per Casini l´iniziativa del premier in Procura equivale a una seduta di «avanspettacolo», mentre per Maroni si è trattato di «una nota stonata, da evitare». Tuttavia è evidente che una radicalizzazione dello scontro elettorale ha anche loro come bersaglio. Fini e il presidente della Camera si stanno facendo schiacciare dal radicalismo berlusconiano. Saranno loro ed i loro propositi alternativisti le prime vittime di quanto accade.

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Come se questi guasti inflitti alla democrazia dal massimo rappresentante del potere esecutivo non bastassero a suscitare stupore e preoccupazione, un´altra grave interferenza è stata compiuta tre giorni fa dalla più alta autorità religiosa. Dal palazzo Vaticano il Papa Benedetto XVI, ricevendo gli auguri del sindaco di Roma, del presidente della Regione Lazio e del presidente della Provincia, si è rivolto direttamente ad essi affinché si oppongano all´attuazione dei Pacs e alla somministrazione della pillola abortiva negli ospedali pubblici. E affinché si dichiarassero contrari alle manifestazioni popolari indette ieri a Roma e a Milano per rivendicare i diritti delle donne e degli omosessuali.

Il Papa e i vescovi – l´abbiamo ripetuto più volte da queste pagine – sono liberissimi di testimoniare la fede e l´etica che ne deriva. Ormai sono andati molto più in là e intervengono dando giudizi e indicazioni anche su temi strettamente politici sebbene i Patti Lateranensi delimitino con assoluta chiarezza che la materia politica non riguarda le autorità religiose.

Ma tre giorni fa Papa Ratzinger ha varcato un´altra frontiera che finora era stata rispettata. Non si è rivolto soltanto ai cattolici e a tutti i cittadini nella sua lotta contro l´aborto e contro gli omosessuali. Ha fatto di più.

Si è rivolto perentoriamente alle autorità civili in sua presenza e ne ha prescritto pubblicamente i comportamenti che il Papa si attende da loro.

Un fatto del genere non sarebbe certamente concepibile nei riguardi del sindaco di Parigi o di Londra o di Berlino o di Madrid. Wojtyla non si è mai spinto così oltre, neppure nella sua amata Polonia dove, proprio durante il suo pontificato, furono varate le prime leggi laiche di quel paese.

Benedetto XVI si è dichiarato addirittura ferito e offeso da due libere manifestazioni popolari che non avevano certo lui né la religione cattolica come bersaglio.

La nostra campagna elettorale non riguarda certo il Papa, ma anche lui e i suoi consiglieri, come pure il giornale che si pubblica in Vaticano con il "placet" della Segreteria di Stato, dovrebbero sentire l´elementare responsabilità di evitare interventi plateali indirizzati ad autorità civili che soltanto per un senso, esso si responsabile, di rispetto non hanno replicato come forse avrebbero voluto (e dovuto) richiamando "l´incipit" del Concordato che stabilisce l´esclusiva sovranità della Chiesa in materia religiosa e l´altrettanto esclusiva sovranità delle autorità civili in materia temporale.

Auspichiamo che il Papa dopo questo spiacevole episodio, abbia modo di riflettere con attenzione sul peso e sugli effetti delle sue esternazioni nonché sulle reazioni di chi lo ascolta con rispetto ma con libertà di spirito e autonoma dignità di coscienza.

Se nella campagna elettorale si fosse parlato dell'essenziale - della legalità tenuta in spregio da anni, del conflitto d'interessi, della legge che in Italia non ha più maestà - forse non ci sarebbe stato il caos che abbiamo visto l’altra notte quando si è trattato di nominare il presidente del Senato. Non ci sarebbe stato questo nuovo manifestarsi d'un tumore che affligge gran parte della classe politica, che non accenna a mitigarsi nonostante la sconfitta di Berlusconi, e che può esser riassunto nelle seguenti malformazioni: il prevalere dell'interesse particolare o personale su quello collettivo, il primato dell'emozione vendicativa sulla valutazione razionale dell'utile per l'Italia, la sistematica preferenza data alla divisione, al disfacimento di quel che si potrebbe fare, al ricatto, al voto di scambio, all'avvertimento che promette e non promette, insinua e impaura.

Adesso Marini è stato eletto presidente e Prodi ha l'inconfutabile diritto a governare con il sostegno di ambedue le camere, ma i miasmi delle ultime ore converrà tenerseli accanto come ammonimenti, per capire quel che sta davanti al futuro governo e agli italiani. In particolare converrà avere accanto il ricordo di come Andreotti, candidandosi, ha contribuito a tale inquinamento. A partire dal momento in cui su suggerimento di Berlusconi è sceso in campo per contrastare la candidatura di Marini, a partire dal momento in cui s'è ostinato a restare in gara pur essendosi accorto che l'imparziale spirito d'unità che pretendeva incarnare era una menzogna, si poteva infatti prevedere la massima confusione. Diabolus, che vuol dire divisore, è lo spirito maligno che imprigiona l'Italia politica e non stupisce che questo sia il nome attribuito al senatore: Belzebù. Se nella campagna elettorale si fosse parlato di legalità da restaurare non ci sarebbe stato spazio per un rientro di Andreotti all'insegna di questo epiteto, e per quel che s'è accompagnato a tale rientro: i voti sbagliati per Marini denominati pizzini, il vocabolario della mafia che entra in Parlamento e l'infanga, le parole eversive dette dall'ex maggioranza contro Scalfaro.

Quest'ultima avventura di Andreotti resta come una ferita, uno sgarro. Una ferita che oscura le non poche sue condotte benefiche, e anche integre: la battaglia per l’Europa, la scelta di difendersi nei processi e non contro i processi. Ha detto il senatore che voleva apparire come uomo sopra le parti, un tipico esponente del centro che rifiuta l'aspro conflitto bipolare: ma come tale non si è comportato, seminando piuttosto divisione. La nozione stessa di centrismo esce devastata dall'esperienza, perché ancora una volta ad affiorare è stato l'estremismo del centro, che si dilania sulle persone avendo perso cognizione del conflitto di idee. Da questo punto di vista è più super partes Bertinotti, che alla Camera non ha esitato a dire: «Sono un uomo di parte che per questo motivo, però, non teme il conflitto. (....) Ma non bisogna lasciar scivolare la politica nella coppia amico-nemico».

Altri dicono più verosimilmente che Andreotti voleva levarsi un sassolino dalla scarpa (nel frattempo se n'è tolti tanti, troppi: fin da quando si augurò, nell'agosto 2005: «Meglio sarebbe che Violante e Caselli non fossero mai esistiti». O quando equiparò il proprio processo al calvario di Gesù), e ha fallito prestandosi a un'impresa disgregante anziché unitaria. Quest'idea di adoperare la politica per levarsi sassolini, strappar poltrone, è un'usanza che rischia di fare tanti più proseliti, quanto più viene considerata normale. Quando Andreotti sostiene che il potere logora chi non ce l'ha, è a quest'usanza che sembra pensare. È la convinzione che il politico sia autentico solo se è costantemente ai comandi e non, come in Plutarco, «governante per breve tempo, e governato per tutta la vita». Una convinzione non fugata dalla vittoria di Prodi.

È l'usanza di chi nella politica vede un mezzo per propri calcoli o rivincite e neppure sa cosa sia, dare uno scopo a sé e anche alla pòlis. Il sassolino di cui Andreotti voleva disfarsi è un macigno, ed è gravissimo che nessuno glielo abbia fatto capire, a cominciare dalle gerarchie ecclesiastiche. La giustizia lo ha assolto solo in apparenza, perché nella motivazione della sentenza la sua contiguità con la mafia fino all'80 è attestata: se non ha pagato per questo reato è perché esso fu prescritto, non perché non fu commesso. I giudici d'appello hanno emesso a Palermo una chiara sentenza nel 2003, resa definitiva dalla Cassazione nel 2004, quando hanno evocato: «un'autentica, stabile e amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi» fino alla «primavera del 1980». Se la legalità italiana non fosse da tempo e in misura crescente qualcosa di opinabile, Andreotti non avrebbe potuto osare esporsi così, e offrire un pessimo esempio ai politici dei due campi.

Da questa patologia il centro sinistra dovrà prima o poi ripartire, perché essa permette il continuo riemergere di personaggi che con la legalità hanno rapporti distorti: personaggi che Sylos Labini chiama i neomachiavellici, presenti a destra come a sinistra e sempre pronti non a distinguere la politica dalla morale, ma a contrapporre l'una all'altra (Sylos Labini, Ahi serva Italia). La caratteristica di simili personalità è l'indifferenza all'etica pubblica, la disinvoltura con cui minacciano slealtà, mercanteggiano lealtà, usano parlare di gioco politico per dissolvere nella levità dei vocabolari infantili la distruttività. Sono chiamati spesso simpatici per il modo in cui esibiscono la spregiudicatezza come un pennacchio (lo osservava con acutezza Thomas Mann, poco dopo l'ascesa di Mussolini, nel racconto Mario e il Mago: «Quello strano tipo di uomo, che gli italiani chiamano simpatico, confonde singolarmente il giudizio morale con quello estetico»). Altri attributi estetizzanti si sono nel frattempo aggiunti: geniale, coraggioso, intelligente, addirittura intelligentissimo. L'imperturbabilità nelle tempeste è scambiata automaticamente col coraggio, il cinismo è preso per acume: qui fiorisce spesso l'estremismo del centro.

La morale, con tutti questi attributi, non ha rapporto alcuno. La morale del geniale è quella tartufesca di chi ininterrottamente chiede un qualche risarcimento per i sacrifici fatti, una compensazione per la lealtà che in politica si dovrebbe dare gratuitamente. Andreotti abilitato a togliersi sassolini diventa modello, anche se sconfitto: ognuno ritiene di poter rivendicare un indennizzo sotto forma di promozione, in cambio della propria fedeltà. Nel dizionario Battaglia il risarcimento è «la riparazione di danni causati ingiustamente, l'ottenere soddisfazione a seguito di un danno morale, un'offesa, un'ingiustizia». Tutto a questo punto può divenire illecita offesa, danno morale: perdere la maggioranza nel voto, subire indagini, processi: tutti - da Berlusconi a Andreotti - devono esser pacificati con risarcimenti. Se così stanno le cose, son soprattutto le parole ad ammalarsi e a dover esser ripulite. Questa non è la seconda repubblica di cui si parla, né stiamo entrando nella terza. Siamo tuttora immersi nelle escrescenze della prima, che l'hanno appestata.

Stiamo tuttora cercando il gancio che ci riconnetta con l'Italia quando fu davvero coraggiosa: nel Risorgimento, nella Resistenza, nel dopoguerra. Certo siamo in emergenza, e ogni emergenza richiede larghe intese per fronteggiare ingovernabilità e maggioranze esigue. Ma larghe intese su cosa precisamente, su quali requisiti personali, pubblici? Se il terreno comune non ha come base la maestà della legge e la moralità da restaurare, le larghe intese sono un complice patto che perpetua il fango e rende grotteschi i paragoni con la grande coalizione tedesca. Se non si cerca un altro tipo d'accordo, l'insolente distruttività delle ultime ore si ripeterà per l'elezione del Capo dello Stato, e vorrà dire che dalle notti di aprile si è appreso poco. Il centrosinistra potrebbe forse proporre queste intese all'opposizione: su legalità, etica pubblica, imparzialità vera delle nomine. Se Berlusconi e alleati dissentiranno, vorrà dire che ben altro vogliono: non intese ma cosiddetti inciuci. Un vocabolo che dissolve ogni cosa - civile coerenza, divisione tra destra e sinistra - nei miasmi del pateracchio, del pettegolezzo e dell'intrigo.

Per Andreotti questi non sono stati giorni di riscatto, proprio perché da essi si era aspettato non già giustizia ma risarcimento. Questi sono stati giorni in cui la terribile profezia di Aldo Moro, pronunciata in una lettera dalla prigionia brigatista («Lei uscirà dalla Storia e passerà alla triste cronaca che le si addice»), si è in parte avverata e non è stata contraddetta da una vera conoscenza di sé, oltre che delle proprie responsabilità.

IL VOTO dell´Italia del Nord, l´Italia ricca, è andato massicciamente a Berlusconi, percentuali bulgare in alcune province del Veneto, adesioni forti persino nel Piemonte provinciale cioè in quanto di più lontano esiste dal berlusconismo caciarone e bugiardo. L´Italia ricca, l´Italia moderata compatta in difesa dei suoi privilegi, dei suoi soldi. Una sorpresa? Ma no, una scelta che si ripete tutte le volte che sono in gioco gli interessi, i privilegi, i soldi dell´Italia borghese e moderata. Un voto conservatore più provinciale che metropolitano, con aspetti diversi: ora fascista, ora clericale, ora manageriale o finanziario ma sempre con lo stesso immutabile obiettivo: la difesa dei ricchi, compresi i poveri che si sentono ricchi.

Dico gli italiani poveri che si sentono dei potenziali Berlusconi: se ha fatto i miliardi lui perché non posso farli anche io? Il voto che negli anni Venti ha preferito il fascismo alla democrazia, che in quelli Quaranta si è rifugiato sotto lo scudo democristiano. Sorpresa? Sorpresa per chi pensa a un´Italia diversa, a una borghesia diversa, non per chi conosce o dovrebbe conoscere sia l´Italia ricca e la sua classe dirigente, sia l´Italia povera ma desiderante, l´Italia che applaude Mussolini, il fondatore di un impero inesistente o comunque già dentro la sua dissoluzione, l´Italia della «zona grigia» che appena uscita dalla rivelazione della sua pochezza si ricompatta in difesa del suo primato.

Il 25 aprile del ´45 noi partigiani di "Giustizia e libertà" scendemmo sulla città di Cuneo sicuri che fosse la nostra roccaforte: avevamo organizzato e diretto la guerra di liberazione e con noi c´era quasi al completo la gioventù della provincia. Vennero le elezioni e fummo cancellati dal trionfo democristiano, cioè dal trionfo del moderatismo, cioè dalla difesa dei soldi, di chi li aveva o di chi ragionava come se li avesse. Una sorpresa? Non direi, si tratta di sorprese che si ripetono:

I Bixio, i Medici del Vascello passano regolarmente dal Garibaldi in camicia rossa e dalla sua rivoluzione contadina ai generali di Casa Savoia, il socialista rivoluzionario Mussolini dal rosso al nero con marcia su Roma alla testa dello squadrismo agrario. Misteriose combinazioni di cause e concause su cui gli storici si affanneranno invano per capire, per spiegare, ma alla resa dei conti la storia è sempre la stessa. È una sorpresa che il Nord ricco sia rimasto fedele a Berlusconi, anche se i borghesi ben perben avevano orrore dei suoi gusti, delle sue gaffe, del suo modo di vivere, di essere? Ma quale sorpresa? Avete letto sui giornali le retribuzioni dei manager e dei finanzieri nel quinquennio berlusconiano? Non sono mai state così alte come durante il regime sovversivo e bugiardo delle grandi opere e della grande corruzione.

Non deve essere berlusconiano al voto quel manager Fiat che guadagna in un anno più di un miliardo di euro o di quello specialista in gallerie che ha quadruplicato in tre anni berlusconiani il capitale delle sue aziende? Certo, la conosciamo la borghesia dell´Italia ricca, conosciamo gli alto medio e piccolo borghesi civilissimi, colti e lontanissimi come modo di essere da Berlusconi ma nella difesa dei soldi come lui tenaci, come lui intransigenti.

E conosciamo quelli che si sentono ricchi, che desiderano essere ricchi anche se non lo sono. C´è stato un momento durante la campagna elettorale in cui ho pensato che per noi dell´Unione la partita volgesse al peggio: il giorno in cui i dirigenti dell´Unione ebbero la malaugurata idea di occuparsi delle tasse, della tassa di successione, in particolare. Sapevo abbastanza di questa tassa per essere indifferente a quel vecchio e superato spauracchio, da tutti evaso, o accettato come il minore dei pubblici balzelli; eppure il borghese e moderato che c´è in me entrò in stato di agitazione, anzi di terrore, neri fantasmi di povertà, ancestrali timori per il destino dei figli mi visitarono; e quanto più ragionando capivo che non erano una cosa seria ma una finta minaccia che non avrebbe cambiato neppure in minima parte quanto mi resta da vivere, tanto più mi procuravano una confusa affannosa preoccupazione.

Si parla molto, in questa indigestione elettorale e di passioni elettorali più forti del ragionevole, della sconosciuta e profonda italianità che si rivela nel rifiuto dello Stato, della legalità, del riformismo. Per cui su tutti i giornali, in tutte le televisioni ci sono i nostri migliori cervelli alla ricerca della spiegazione nascosta, del perché, per restare all´oggi, metà degli italiani si siano fatti incantare da un personaggio come Berlusconi, dal suo vitalismo sovversivo. La risposta deve esserci nella nostra storia, ma purtroppo la storia è quel confuso vai e vieni che non ha mai insegnato niente a nessuno. Di certo, in questa lunghissima storia siamo passati da una adorazione dello Stato, del pubblico interesse, delle leggi, del diritto e della loro pratica estensione all´impero militare, della romanità, a una perenne guerra civile fra i ricchi e i poveri, a una perenne alleanza di conservatorismo e di populismo in difesa sostanziale dei ricchi.

A ben guardare il ruolo di Berlusconi non è stato diverso da quello di Mussolini o di Masaniello, il ruolo del sovversivo che smuove le acque, moltiplica l´anarchia, fa un po´ di teatro perché intanto i costruttori di immaginari ponti sugli stretti, di ferrovie ad alta velocità che distruggono quel poco che resta del territorio, di Fiere campionarie senza strade di accesso si divorino quel che resta del mondo. Melanconie, tristi fissazioni di un utopista fallito? Da una recente indagine sullo stato della Italia ricca, quella che ha votato Berlusconi, risulta che buona parte del territorio è stato cementificato, non produce più alimenti, non consente più lo scolo delle acque e la raccolta dei rifiuti, non permette più una vita decente nelle città, sicché avviene l´esodo all´inverso di chi ci era arrivato dalla campagna... e ora ne fugge. Questa Italia sempre più ricca e sempre più sovversiva e autolesionista che ha votato Berlusconi e magari già lo rimpiange.

Signor Presidente, non sono né membro né candidata di un partito, sono un pezzo del manifesto, voce politica modesta ma rispettata. Ci ascolti. Le chiediamo di uscire brevemente dagli impegni di una campagna elettorale, cui ha saputo imporre uno stile, per prendere la parola e dire la sua, la nostra, su quel che sta avvenendo in Medioriente. Non esiste solo una provincia italiana, esiste il mondo e in esso la tragedia israelo-palestinese che è prossima a noi. Prossima all'Italia, perché siamo stati fra i persecutori di coloro che fra noi erano ebrei, e quindi coinvolti più di altri sotto il profilo morale e politico della vicenda da cui Israele ha preso vita.

Le chiediamo di non tacere sul fatto che le scelte odierne del primo ministro israeliano, Ehud Olmert, stanno abbattendo in Abu Mazen il solo vero interlocutore che Israele aveva in quell'infelice paese. Quale altro senso può avere l'attacco al carcere di Gerico? Esso ha voluto dire ai palestinesi: l'Anp non esiste. Abu Mazen voleva una trattativa? Non ci interessa. Avete votato Hamas e siamo in diritto di punirvi quando e come ci pare. Hamas ha deciso e pratica una tregua? Non ci interessa. Abbiamo inaugurato nel 1967 quella lacerazione del diritto internazionale che è stata la guerra preventiva, perché ci sentivamo minacciati dagli stati arabi. Ora nessun pericolo minaccia Israele, ma noi intendiamo continuare la guerra per azzerare i palestinesi come nazione, popolo e stato. Prima di uscire quasi dalla vita, Sharon aveva suggerito che bisognava finirla con questa linea, ma aveva torto. E poi ci servono i voti del Likud alle prossime elezioni, e se con azioni come quelle di Gerico possiamo strapparne, va bene. Se ne morranno altri palestinesi e qualche nostro figlio, va bene. Gli Usa e la Gran Bretagna ci hanno dato il via ritirandosi un quarto d'ora prima del nostro attacco. Dunque anche a loro va bene. L'Europa non dice niente, dunque per l'Europa va bene. L'Italia non dice niente, dunque anche per l'Italia va bene.

Le chiediamo di prendere la parola per dire: no, l'opposizione oggi, il prossimo governo domani, non ci stanno. Avevamo salutato la pur tardiva svolta di Sharon, e oggi non possiamo approvare che i dirigenti di Kadima, che da quella svolta pareva nata, la nullifichino. Pensiamo che sia un grave errore. L'Italia vuole due popoli, due stati. Vogliamo che i palestinesi abbiano uno stato, e consideriamo grave che in seguito alla guerra del 1967, che avete rifiutato di chiudere con una trattativa onesta e condivisa anche dall'Onu, il solo paese del Medioriente profondamente laico stia diventando una nazione islamica. Non lo sarebbe stata se a Taba aveste firmato per primi quella proposta, per insufficiente che fosse. Non lo sarebbe stato ancora dieci, cinque anni fa. Vogliamo che gli ebrei abbiano uno stato, quale che sia la nostra idea di uno stato moderno e laico: la loro è stata una storia atroce. Ci vorrà tempo.

Ma questo obiettivo, che è anche il nostro, non si identifica con la politica che di nuovo Israele si ostina a perseguire. Tanto meno in essa può identificarsi l'ebraismo. E' per rispetto e salvaguardia di Israele e, oltre ad essa, dell'ebraismo, che noi europei, noi italiani, la ammoniamo di cessare con azioni come quella di Gerico e riaprire il dialogo con Abu Mazen. Di aprirlo anche con Hamas, che oggi rappresenta quel popolo martoriato perché le strutture dell'Anp sono state devastate da Tsahal, l'esercito israeliano. Se l'attuale governo non comprende che la trattativa è la sola via di salvezza, materiale e morale, non ci avrà dalla sua parte. Come non ci avrà dalla sua parte nessuno che volesse la distruzione di Israele.

La prego, dica questo. Lo dica per non lasciare i palestinesi alla disperazione, e la loro causa a pochi di noi, che fatichiamo a difenderla da un estremismo insensato. Non si copra anche lei dietro a: «Ma a Gaza...». Gaza è un risultato della politica che Sharon ha abbandonato troppo tardi, è oggi un paese devastato e senza un governo che sia in grado di rappresentarlo. Parli ora, la prego. Dica a tutti noi e alla comunità ebraica italiana che Israele va difesa anche ora più che mai dai suoi nemici interni. La pace ha tardato già troppo. I guasti rischiano di essere irrimediabili per altri decenni, secoli. Non possiamo tacere.

Padre Andrea Santoro aveva a cuore il dialogo fra civiltà ed è rimasto vittima dello scontro di civiltà che impazza attorno alla «scandalo» delle vignette. Non è la prima vittima e non sarà l'ultima; e serve a poco interrogarsi su quanto sia diretto o indiretto il nesso fra la sua morte, la satira su Allah in Europa e le manifestazioni islamiche antieuropee in Medioriente. Diretto o indiretto che sia, il nesso c'è e sta in questa sorta di «bipolarismo culturale» in cui il mondo s'è cacciato in sostituzione del bipolarismo politico, per diretta responsabilità dei fondamentalisti islamici da un lato e del fondamentalismo identitario americano e europeo dall'altro, nemici a parole e alleati nei fatti nel costruire lo scontro di civiltà. Che non è affatto un destino ineluttabile inscritto nei codici genetici della razza della religione e della cultura, ma un preciso progetto politico, comune al peggio delle due sponde dell'Atlantico e al peggio del mondo islamico, nonché al peggio dei tre monoteismi. Padre Andrea Santoro ne è vittima come ne sono vittime tutti quelli e quelle che oppongono alla «confrontation» frontale dei valori e degli dei la pratica minuta, quotidiana, puntuale, della relazione fra differenze irriducibili, o non facilmente riducibili alla retorica a sua volta troppo semplice del dialogo e della tolleranza. Vengono in mente le parole di Freud sulla veridicità inconscia del motto di spirito di fronte all'assurdità della vicenda delle vignette, poco o nulla spiegabile in termini razionali. Non ha nulla di razionale non tanto la prima decisione di pubblicarle del quotidiano danese, quanto la pervicacia degli altri quotidiani europei nel ripubblicarle in seguito come bandierina della libertà di stampa. E non ha nulla di razionale - ma in compenso molto di strategico: i due termini non sempre sono sinonimi - la reazione di protesta montata in Medioriente a sei mesi di distanza come bandierina della dignità dell'Islam. Come il motto di spirito, le vignette funzionano da sintomo e lapsus, rivelando il materiale conscio e inconscio che lavora dietro le quinte dello scontro di civiltà: il razzismo (stavolta islamofobico, altre volte antisemita o anticristiano) di certi tratti della satira, l'islamofobia della destra danese simile a tutte le nuove destre europee, l'intolleranza della protesta islamica che chiede tolleranza all'Europa, lo svuotamento dell'universalismo occidentale dei diritti di libertà che di giorno in giorno, in guerra e in pace, si dimostrano sempre meno universali, le trappole in cui incorrono e le controbiezioni a cui si espongono molte posizioni pur ottimamente intenzionate: chi si appella al rispetto assoluto per le religioni si espone all'accusa di bachettonismo, chi si appella alla virtù dell'ironia si espone al sospetto di imperialismo culturale perché non si può pretendere da ogni cultura lo stesso tasso di disincanto della nostra, chi si appella al senso della misura si espone all'accusa di opportunismo perché non si sa chi dovrebbe decidere la misura e in base a quali parametri. Per non dire del solito Marcello Pera, l'antirelativista che stavolta domanda reciprocità e parità di comportamenti fra «noi» e «loro», con una mano fomentando lo scontro di valori e con l'altra pretendendo di ridurlo a un minuetto simmetrico e ben regolato.

Comunque la si prenda, resta materia incandescente, cui si addice solo la logica paziente della decostruzione, del «noi» e del «loro», dei diritti e dei poteri, dell'intolleranza e della tolleranza, delle parole pesanti e delle vignette leggere, dell'universalismo delle libertà e del relativismo dell'indifferenza. Nonché di ciò che chiamiamo Europa: il nome che avrebbe dovuto fare da barriera allo scontro «preventivo» di civiltà, e si ritrova invece oggi investito in pieno dalla sua onda, sempre più svuotato, fragile, frammentato.

Sostiene il politologo Mauro Calise, in un libro appena pubblicato da Laterza con il titolo La Terza Repubblica, che quindici anni dopo il troppo urlato crollo della Prima e il troppo festeggiato esordio della Seconda siamo ormai entrati, e a lungo resteremo, «in un regime che facciamo fatica a decifrare», che non reca i tratti della palingenesi incautamente evocata nei primi anni Novanta ma quelli compromissori «di ogni rivoluzione tradita, fallita, inceppata». Un misto di vecchio e nuovo, che arranca fra assaggi di presidenzial.ismo e rigurgiti di partitocrazia, fra l'elezione diretta di sindaci, governatori e premier e i capricci della nomenklatura. La transizione non ha dato forma istituzionale al mutamento, che è rimasto a mezz'aria e patisce il peggio dei «vecchi» e dei «nuovi» modelli, al centro e in periferia, a Roma e in provincia. Quello che segue è un caso di questa vasta tipologia del mutamento a mezz'aria. Nonché dello spirito autolesionista che anima la coalizione dell'Unione. Cominciamo dalla fine, o quasi. Cosenza, cinema Italia, domenica 8 gennaio, pomeriggio, più di mille persone in sala. Su un video scorrono le immagini di tutto quello che negli ultimi anni ha reso la città più bella, più viva e più vivibile. Data e luogo non sono stati scelti a caso: quattro anni fa, stesso giorno stesso cinema, era stato lì che Giacomo Mancini, tre mesi prima di morire, aveva investito della sua successione Eva Catizone, sostenendo che quella giovane donna classe 1965 formatasi nella sua amministrazione aveva «la stoffa del sindaco». Di lì a poco, in aprile, Eva vinse le elezioni al ballottaggio, sostenuta da una coalizione di centrosinistra (ma senza la Margherita, che le contrappose un altro candidato), con un programma in sette punti che prometteva una città policentrica, trasparente, aperta; una città dei saperi, dei lavori, delle donne, dell'ambiente. Il video adesso restituisce i risultati: il Castello restaurato, il progetto del ponte di Calatrava, Piazza Loreto rifatta; i nuovi raccordi stradali, l'informatizzazione dell'amministrazione; il forum dei giovani, dei disabili, delle famiglie; la città dei ragazzi, le ludoteche per i bambini; la fondazione intitolata a Roberta Lanzino, un nome-simbolo del femminismo calabrese; i bus ecologici, il lungocrati, l'isola pedonale, le biciclette per chi vuole usarle; il Festival delle invasioni del luglio scorso con un memorabile concerto di Patti Smith affollato quasi quanto quello, oceanico, di Jovanotti di questo capodanno; la mostra sui capolavori del Novecento realizzata in aprile, il museo all'aperto realizzato poco meno di un anno fa nelle vie del centro storico con le opere donate alla città da Carlo Bilotti, ultime, pochi giorni fa, Il Cardinale di Giacomo Manzù e Ettore e Andromaca di De Chirico.

Non c'è stata la bacchetta magica, s'intende: Cosenza continua a soffrire di alcuni problemi storici, fra cui la carenza d'acqua e l'abbondanza di traffico. Ma c'è stata una buona squadra, con molte donne (compresa la vicesindaco, Maria Francesca Corigliano), molta iniziativa e molte idee, animata da un'energia positiva che nel sud spesso manca e priva del complesso della marginalità che nel sud abbonda, e munita di alcune bussole salde. La bussola del welfare, che ha reso possibile la continuazione dell'esperienza delle cooperative di lavoro avviata da Mancini; quella della partecipazione, che anche grazie al rapporto con la rete «Nuovo Municipio» curato da Franco Piperno, assessore al decentramento e alla comunicazione, ha reso possibile la sperimentazione di forme di autogoverno dei quartieri; quella del rapporto con i movimenti, che ha consentito a Catizone di imporsi all'attenzione dei media pochi mesi dopo la sua elezione, quando dalla procura di Cosenza partì il processo (prossima udienza l'8 marzo) contro alcuni no-global per gli scontri di Napoli e Genova del 2001 e lei schierò l'amministrazione in cima al corteo di protesta, chiese ospitalità per i manifestanti alle famiglie, pregò i bar di restare aperti e sfilò sotto lo slogan «Cosenza città aperta». C'è stata, infine e non ultima, un'accorta politica della comunicazione (fra le altre cose fatte, il sito municipale multimediale www.monitorebruzio.net, Radio Ciroma e una tv civica), che insieme allo sviluppo dell'università (ai primi posti fra le università medie italiane per qualità degli studi) ha contribuito a imporre all'attenzione nazionale Cosenza come esempio di una città meridionale che cresce, produce cultura, dialoga con le istituzioni europee, secca smentita dell'immagine stantia di arretratezza e marginalità che al mezzogiorno resta troppo spesso incollata.

Ma tutto questo non basta, o al contrario forse fa gola, ai partiti del centrosinistra locale, che si sono messi in testa di mandare tutto all'aria. Infatti sul palco del cinema Italia Eva c'è tornata per spiegare alla cittadinanza una crisi inspiegabile, aperta ufficialmente il 20 dicembre con una mozione di sfiducia sottoscritta da 18 consiglieri, che verrà discussa martedì prossimo e con ogni probabilità segnerà la fine, o l'interruzione, del laboratorio cosentino. «Non sono qui per rispondere agli architetti della politica e ai tessitori di trame, ma per cercare di dar conto ai cittadini di una situazione che costringe tutti, anche me, a navigare a vista», esordisce Eva. «Intendiamoci - sottolinea -, la mozione non nasce su base politica. Non mi contestano nulla di specifico, non potrebbero senza sconfessare il lavoro dei loro assessori. Parlano di uno scollamento della maggioranza e di una mia incapacità di incollarla. Ma non spetta a me che ho un ruolo istituzionale ricomporre l'unità del quadro politico del centrosinistra: per questo ci sarebbero i dirigenti dei partiti, ma dove sono? La verità è che non ci sono motivi politici ma giochi di potere fatti sulla pelle della città e dei cittadini. La verità è che a Cosenza è in crisi il modello Mancini che io ho provato a continuare, un modello di autonomia dell'amministrazione, che vuol dire rispetto dei partiti ma lotta alla partitocrazia».

Due distinguo cruciali, fra politica e potere e fra funzione dei partiti e partitocrazia. Ma a quanti stanno a cuore, nelle istituzioni traballanti dell'Italia in perenne transizione? Certo la vicenda del comune di Cosenza li porta in primo piano. I guai cominciano nella primavera del 2004, quando in giunta entrano Ds e Margherita, che prima l'appoggiavano dall'esterno, i manciniani del Pse non gradiscono e i nuovi arrivati, pur forti dell'assessorato all'urbanistica e ai lavori pubblici di Franco Ambrogio e di un altro a Maria Lucente, cominciano a rivendicare più peso. Adesso che Ambrogio l'accusa nientemeno che di complicità con il centrodestra, Catizone parla di quel passaggio che imbarcò i diessini e scaricò i manciniani come di un errore: «Ho ceduto alle pressioni dei Ds, sacrificando un ancoraggio politico importante. Ma mi trovavo in condizioni particolari».

Fra le condizioni particolari, c'era all'epoca anche la sua relazione d'amore con il segretario regionale dei Ds, e oggi vicepresidente della Regione, Nicola Adamo. Storia nota, anzi cover story di quotidiani e settimanali nazionali dell'estate 2004, quando Eva annunciò urbi et orbi che con un'intervista al Quotidiano che aspettava un figlio e che gli avrebbe dato il suo cognome visto che il padre non pareva intenzionato a riconoscerlo. Mossa personale, politica e mediatica di gran signoria, che tenne banco in città e sulle spiagge e stanò il partner il quale a sua volta fece outing il giorno dopo sulla Gazzetta del Sud ma senza signoria, chiedendo scusa ad amici e compagni e perdono a moglie e figli per il peccato commesso. Fine della storia d'amore, ma non, com'è ovvio, dei suoi strascichi politici.

Che però bisogna fare attenzione a misurare. Perché certo tutto il seguito della vicenda si può e si deve leggere (come ha fatto Gianantonio Stella sul Corriere della Sera) anche come una prevedibile vendetta maschile contro un gesto di libertà femminile, o come un rigurgito di normale misoginia in una città che si era affidata all'eccezione di una donna. Ma quando privato e pubblico, personale e politico fanno corto circuito, il punto è capire gli innesti fra l'una e l'altra dimensione. E nella vicenda cosentina la posta in gioco personale non cancella, ma raddoppia, quella politica dello scontro fra partiti - segnatamente i Ds - e amministrazione. Resa più aspra, va detto, dal modificarsi del quadro nazionale, perché c'è la nuova legge elettorale che riconsegna ai partiti la scelta dei candidati e ridisloca i giochi all'interno dell'Unione, e con l'approssimarsi delle elezioni politiche tutto, anche i destini di un'amministrazione, rientra in più vasti e più contorti calcoli. Tanto più se a capo di quell'amministrazione c'è una donna molto vicina a Prodi, e che Prodi potrebbe volere anche in parlamento...

Torniamo alla cronologia politica. I partiti del centrosinistra vogliono una giunta ridisegnata a loro misura col solito Cancelli, ma non riescono ad accordarsi. A novembre la sindaca taglia il nodo e vara il Catizone-ter: quattro nuovi assessori, due di partito (Udeur e Margherita) e due autonomi, due spostamenti, qualche modifica nelle deleghe, tre nuovi organismi di democrazia partecipata. L'Unione non è soddisfatta. Il 25 novembre i Ds annunciano l'apertura ufficiale della crisi, sostenuti da Sdi, Verdi, Pse, Comunisti per l'Unione, mentre Udeur e Margherita restano in attesa: pronti a firmare, ma solo se gli altri fanno sul serio. Ma al momento decisivo, di fronte al notaio, a firmare le dimissioni dal consiglio si ritrovano non in 21, ma solo in 8. I due assessori Ds, nel frattempo si sono dimessi, quella della Margherita no e sarà la sindaca a doverli sospendere, pochi giorni fa. Il 30 novembre l'assestamento del bilancio passa nell'assenza di una parte della maggioranza dall'aula, grazie a Forza Italia che pur votando contro garantisce il numero legale. Il 22 dicembre diciotto firme (Ds, Margherita, Idv, Psdi, Comunisti per l'Unione, Udeur, Gruppo misto, Alleanza riformista, ma non Pse e Sdi) siglano la mozione di sfiducia, che in consiglio può contare anche sui voti di 4 consiglieri di An e dell'Udc e non ha bisogno di quelli del Pse e dello Sdi, che non si sa se la voteranno o no. La mozione, Catizone ha ragione, non contiene una sola critica di merito e si avvita sulla crisi della coalizione come un gatto che si morde la coda: «Si sono prodotti fatti politici e amministrativi che hanno compromesso la possibilità di assicurare al governo della città una gestione efficace e democratica. Si è creata una vera e propria paralisi politica, amministrativa e progettuale. E' venuto meno il rapporto di solidarietà e di condivisione tra il sindaco e le forze politiche». Tutto in terza persona, come se la crisi l'avesse portata la cicogna.

Il consiglio comunale è convocato per martedì prossimo. Gli argomenti si inacidiscono, l'ultimo in voga presso i Ds, dopo il successo della manifestazione al cinema Italia, è l'accusa alla sindaca di populismo. Il voto sulla mozione di sfiducia è previsto per martedì o, in seconda convocazione, per venerdì 20. I numeri per mandare a casa il laboratorio Catizone ci sono, ma le intenzioni dei manciniani non sono chiare, e tutto si giocherà nell'aula del consiglio. E dopo? Dopo c'è un commissario e poi nuove elezioni. Con l'avversario di Eva del 2002, il Dl Salvatore Perugini, che si scalda i muscoli sostenuto dai Ds, perché con lui a palazzo dei Bruzi i conti della distribuzione comunale, provinciale e regionale del potere dentro l'Unione tornerebbero meglio. Senonché Eva, che nel frattempo ha rifiutato una gentile candidatura alla camera offertale da Di Pietro, non demorde: «Questo non è né un addio né un arrivederci - ha scandito alla manifestazione di domenica scorsa -. Mantengo la mia posizione, comunque vada, nel mio impegno politico locale e nazionale. Resto al servizio della città e di qui ad aprile ci rivedremo tante volte». Vuol dire che si ricandiderà, con una lista civica e nessuno dei partiti che l'hanno sfiduciata, forte dei sondaggi che danno in ascesa, dal 44 al 48%, la fiducia dei cittadini in lei: «Questa situazione ha saldato il rapporto fra me e la città», dice, e checché se ne dica lei non ha alcuna intenzione di regalarla alla destra. Ammesso che si vada a nuove elezioni a giugno, e che la città non finisca in mano a un commissario per un anno e mezzo, come Forza Italia gradirebbe.

Restano una considerazione e una domanda. Traballando da quindici anni fra partiti morenti e leader, sindaci, governatori nascenti, la pratica della democrazia italiana rischia di rimetterci le penne al centro e in periferia. A seconda di come si guarda il bicchiere, nel piccolo di Cosenza come altrove si può impugnare la bandiera della rappresentanza e della mediazione tradizionale contro il governo diretto delle personalità, e ritrovarsi a difendere partiti che sono diventati scheletri vuoti, piccoli potentati locali, litigiosi comitati elettorali. O si può impugnare la bandiera dell'autonomia del governo dai partiti e del rapporto diretto con la cittadinanza, e ritrovarsi a scivolare sul confine della personalizzazione. Nel laboratorio cosentino, ai tempi di Giacomo Mancini non c'era gara fra pretese dei partiti e potenza di una personalità. Eva Catizone non è Giacomo Mancini, è una donna che ne ha interpretato l'eredità nel tempo infausto della seconda repubblica, dove i partiti sono quel poco e niente che sono ma nel vuoto da essi lasciato possono crescere idee, movimenti, forme di autogoverno, pratiche di buona amministrazione basate sull'amore per i luoghi in cui si radicano e su relazioni più forti di quelle garantite da una sigla. Il laboratorio cosentino adesso è questo e ha portato una città del sud fuori dall'immagine perdente del sud. Domanda: a chi giova perderlo, che cosa ci guadagna l'Unione, che cosa ne sanno e che cosa ne dicono i suoi leader nazionali?

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