No, adesso non si può proprio più ironizzare sulle stimmate antropologiche o sul vernacolo di Stefano Ricucci descritto via via, fin dall´incredibile estate del 2005, come un marchese del Grillo dai lombi plebei, l´Alberto Sordi di "Un giorno in pretura", Capitan Fracassa o Gastone Paperone, giusto il soprannome usato dalla di lui signora Anna Falchi, ricambiatane con Cenerentola. Non si può più, perché con l´arresto - pare ben motivato - dell´odontotecnico di Zagarolo che voleva scalare l´Italia intera, si completa l´affresco del nuovo capitalismo straccione e fangoso, che stava per conquistare con variegate complicità, ma senza capitali, tutto ciò che conta nel paese. Dalle banche al "Corriere della Sera".
E poi, forse, su su fino a Mediobanca, alle Generali e - perché no? - alla Fiat. Per occupare il posto di quel capitalismo esangue e familistico che ha abbandonato la partita, col sogno di ricostituire il "salotto buono", che sembra non abbia più nemmeno gli occhi per piangere. Un "neosalotto" formato dal sestetto Gnutti-Fiorani-Ricucci-Billè-Coppola-Consorte, con il cappello del pio ex governatore della Banca d´Italia, aspirante Cuccia del nuovo millennio, e chissà di chi altri.
La commedia all´italiana non basta più ora che i contorni delinquenziali dell´affresco vanno precisandosi con le dichiarazioni rese da Fiorani nei due mesi di prigione e con le nuove accuse contestate a Ricucci.
L´epopea dei furbetti del quartierino, che Marco Tronchetti Provera bollò come «un´associazione a delinquere», e dell´uomo che così li battezzò e si battezzò, è qualcosa di molto di più che l´avventura di newcomers un po´ arruffoni, di raider velleitari, di finanzieri dalle ricchezze di origine oscura. E´ il pullulare, il manifestarsi senza più pudori, di un´Italia dove quasi tutto è stato sempre consentito, ma che nell´ultimo lustro ha visto cadere nell´oblio quel poco di rispetto che teneva insieme la democrazia più aleatoria d´Europa in termini di regole. Un´Italia nella quale l´intreccio tra affari e politica è diventato un crocevia di reciproche debolezze. Dove i furbetti hanno messo insieme un tesoro grande decine di volte più di quello di Tangentopoli, fin qui il più grande scandalo del dopoguerra conosciuto.
Tutta la storia di Ricucci nell´Italia berlusconiana si può raccontare, in fondo, con le parole di Ricucci medesimo. «In America secondo lei c´è qualcuno che si è mai chiesto chi c´è dietro a Bill Gates? Perché in Italia tutti domandano chi c´è dietro Ricucci? - sbruffoneggiava l´agosto scorso con Dario Di Vico, che lo intervistava per il giornale che stava scalando. Berlusconi non ha forse creato dal nulla un impero da 20 miliardi di euro? Come lui, Ricucci si attribuisce «una marcia in più», perciò dietro Ricucci c´è soltanto Ricucci.
Immaginate le risate che avrebbero fatto in America.
Immaginate le indagini della Sec, della Dea, gli agenti segreti del fisco sguinzagliati, se un tizio di 43 anni, figlio di un conducente dei trasporti pubblici e reduce dal fallimento di uno studio di odontotecnico perché non poteva pagare pochi milioni di lire, si fosse presentato dicendo: «Sapete che c´è? Sono come Gastone Paperone»; e mettendo sul tavolo i numeri della sua fortuna: 910 milioni di euro in immobili, 1400 milioni di partecipazioni in Rcs, Antonveneta, in Bnl, in Bipielle. Totale 2 miliardi di euro, circa 4 mila miliardi di ex lire. Come li ha fatti? Secondo il suo quadrettino naif, scambiando all´inizio un terreno di sua madre con tre appartamenti in quel Zagarolo, località del Lazio famosa, per l´appunto, per "Ultimo tango a Zagarolo", parodia dell´"Ultimo tango a Parigi" di Bernardo Bertolucci, interpretata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
Ubbie di moralisti invidiosi, secondo lui, quelle di chi lancia sospetti e calunnie. E poi, in fondo, chi ha mai chiesto seriamente all´ex palazzinaro Berlusconi qual è stata l´origine delle sue fortune? L´hanno tenuto per due decenni ai margini dei salotti, l´ala nobile del capitalismo, che non sempre, per la verità, fu nobile, non l´ha mai accettato, l´ha tenuto fuori dalla porta dei salotti, gli ha scatenato contro «Il Corriere». E lui si è vendicato conquistando il salotto della politica, scalando palazzo Chigi.
Ecco la pista Berlusconi, che ha sempre occhieggiato, anzi qualcosa di più, dietro il caso Ricucci e furbetti. Anche qui attraverso le parole di Ricucci e dei ricucciani medesimi. Non solo le cene del premier con Gnutti, mentre Fazio decideva di consegnare l´Antonveneta a Fiorani, i fili numerosi con tutto il coté berlusconiano, dignitari, ministri e sottosegretari compresi. Ma le parole stesse di Ubaldo Livolsi, berlusconiano di antica affiliazione e banchiere d´affari del Gastone di Zagarolo, il quale ha candidamente confessato: «Ricucci l´abbiamo sdoganato (noi berlusconiani-ndr) perché non fosse cooptato dal centrosinistra e in particolare dal presidente di Banca Intesa Giovanni Bazoli», notoriamente supporter di Prodi.
Soltanto sdoganato? O sdoganato fino a farne un cavallo di Troia? Così lasciò intendere il coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi, quando in pieno caso Unipol, dopo l´annuncio dell´invito a comparire recapitato al Cavaliere per i fondi neri Mediaset, dichiarò accorato al Giornale, rivolgendosi ai Ds: fermiamo i Poteri forti. Ci sono grandi quotidiani che promuovono e bocciano persone e programmi: agiscono come partiti. Come dire una proposta ante litteram di Grosse Koalition a D´Alema.
Anche Anna Falchi scese in campo per difendere il marito «genio della matematica e della Borsa», dall´accusa di essere il cavallo di Troia di Berlusconi. Ma fece una piccola gaffe invitando a non guardare solo le sue tette, ma il suo «film d´arte». Film distribuito indovinate da chi? Da Marco Jacopo Alessandro Dell´Utri, figlio del più noto Marcello, fondatore di Forza Italia.
«Il signor Stefano Ricucci, poco più che quarantenne, avrà finito di pagare quando compirà cento anni», disse una volta cinicamente il finanziere Francesco Micheli. Chissà se si riferiva ai debiti o, visti gli sviluppi del caso, ai conti con la giustizia.
«Quanno uno deve seguì `na strada maestra p´annà a Napoli - aveva scolpito Gastone il matematico in un´intercettazione telefonica - tocca pijà l´autostrada del Sole, non è che tocca annà sulla Casilina, no?» Parole sante. Ma ieri ha imboccato via della Lungara, Regina Coeli
IL DIBATTITO sull’importanza politica dei moderati italiani prese il via a partire dalla primavera del 2004. Da allora è ininterrottamente proseguito. Siamo alla primavera del 2006, mancano esattamente due settimane alle elezioni e quel dibattito è ancora in corso. Non pare abbia dato molti frutti per una serie di ragioni: equivoci lessicali, interessi e furberie politiche, pigrizia intellettuale, luoghi comuni mediatici.
Ho partecipato anch’io a quel dibattito in varie occasioni e in particolare con tre articoli su "Repubblica" rispettivamente dell’8 luglio e del 27 ottobre 2004 e del 21 agosto 2005, cercando di chiarire gli equivoci lessicali, mettere in luce gli interessi economici e politici che usano il termine "moderati" per dritto e per rovescio e spronare gli intellettuali a scuotersi dalle loro pigrizie. Direi con scarso successo. Visto l’esito avevo quindi deciso di abbandonare il tema e arrendermi all’uso così confuso e spesso contraddittorio del termine «moderati». Confesso che a volte è piacevole arrendersi, specie quando non è in gioco l’onore, l’onorabilità.
Farsi cullare dal luogo comune può essere refrigerante, mettere il cervello in letargo è un modo come un altro di conoscere la beatitudine passiva. "Passivity rule", termine finanziario anglosassone molto apprezzato nei casi di Opa di incerta soluzione.
In questa nuova e arresa disposizione d’animo mi aspettavo che dopo la sortita del presidente del Consiglio al convegno confindustriale di Vicenza i moderati italiani manifestassero la loro presenza inviando un qualche messaggio con voce sia pur moderata ma chiara e netta. Gli elementi per attendersi questa reazione c’erano tutti: plateale violazione di regole in casa d’altri, interferenza altrettanto plateale del capo del potere esecutivo (cioè di una delle maggiori cariche dello Stato) nella vita di un’associazione privata, accuse pubbliche e facinorose contro la stampa, la magistratura, l’opposizione parlamentare, le Università, le persone della cui ospitalità stava fruendo in quel momento. Uno spettacolo purtroppo conosciuto ma mai ancora verificatosi in un luogo - la Confederazione degli industriali - che dovrebbe essere almeno in teoria il tempio, il sacrario del moderatismo politico. I moderati - pensavo - non avrebbero retto a quello scempio, a quell’estremismo politico oltreché verbale che non trova riscontro in nessuna democrazia liberale che conosciamo. Perciò aspettavo con fiducia.
Ebbene, non è accaduto assolutamente nulla. Non si è sentito un fiato.
Anzi: la presidenza confindustriale ha emesso un commento severo nei confronti della sortita berlusconiana, ma poi ha dovuto chiudersi a riccio sotto le proteste dei piccoli industriali del Nordest (e non solo del Nordest) imponendo il silenzio stampa a tutte le associazioni confederate; Della Valle, insultato dal presidente del Consiglio in quello stesso convegno vicentino e privato a forza di fischi del diritto a rispondere, si è dimesso dal direttivo confederale per potersi difendere «senza compromettere l’associazione».
I "moderati" che seguono Casini non hanno emesso verbo. Quanto al loro leader, ha detto che lui preferisce discutere di problemi concreti e non farsi coinvolgere in polemiche. E questa dichiarazione è stata considerata come il ruggito d’un leone nei confronti del leader massimo. Fini ha mantenuto un "aplomb" da fare invidia alle statue di cera del museo Grévin. In compenso i suoi colonnelli La Russa e Gasparri, berlusconiani onorari, si sono allineati ai colleghi di Forza Italia, i soliti, osannanti al colpo di teatro vicentino.
Questi sarebbero gli esponenti economici e politici dei moderati italiani: imprenditori come l’ex presidente di Confindustria, D’Amato, leader politici come Casini e Cesa, quadri dirigenti di Forza Italia. Quanto al partito di Alleanza nazionale, da tempo si sta riaccendendo nel cuore di molti di loro la fiamma missina, quindi non c’è da stupirsi.
Passi comunque per gli apparati: guardano alle elezioni e non hanno spazio per pensare ad altro. Ma i moderati? I moderati di base? La gente comune che si ritiene moderata? Quelli che coltivano il buonsenso, le buone creanze, la tolleranza, il giusto mezzo, il centrismo come luogo santo, il rispetto delle istituzioni? Dove sono finiti? Queste domande mi hanno scosso e mi hanno suggerito questa proposizione: i moderati in Italia non esistono. Non sono mai esistiti.
Esistono i conservatori. Gli indifferenti. Gli antipolitici. Gli anarco-individualisti.
Anche i trasformisti. Anche i doppiogiochisti. Ma i moderati nel senso di liberal-democratici, quelli no, non ci sono o sono quattro gatti. Quei pochi, semmai, stanno nel centrosinistra. Sono quelli che si riconoscono in Ugo La Malfa, nei fratelli Rosselli, in Turati, in Norberto Bobbio e Vittorio Foa, e nei quali non fa affatto schifo di essere in compagnia politica con i cattolici della Margherita, i diessini di Fassino e D’Alema. Di avere Prodi come leader e di guardare a Ciampi come il solo punto di riferimento istituzionale poiché i capi delle altre istituzioni hanno fatto fagotto.
Insomma il popolo riformista.
Ci potrebbe anche essere un riformismo moderato. In molti Paesi esiste e anzi vigoreggia. Ma da noi no perché da noi i moderati sono un’invenzione verbale. Da noi, parliamoci chiaro, non esiste la borghesia. Quella che fece le Cinque giornate milanesi del ‘48. Quella dell’illuminismo riformatore dei fratelli Verri e di Beccaria. Quella delle riforme agrarie nella Toscana e nell’Emilia. Dei setaioli e dei cotonieri che eleggevano a Biella Quintino Sella. Insomma la borghesia cavouriana che fondò lo Stato perché era portatrice di valori e di interessi.
Purtroppo quella borghesia non ha attecchito per lungo tempo. Durò poco più di un batter di ciglia. Fu seppellita dal fascismo. La Dc di De Gasperi la riportò in vita con una sorta di respirazione bocca a bocca, ma era una piccola borghesia del pubblico impiego, ceto medio del terziario, coltivatori diretti in fase di smobilitazione. Tenuti insieme dall’assistenzialismo pubblico e dalle braccia protettive di Santa Romana Chiesa.
Moderati? Cosiddetti. Conservatori? In parte. Apolitici? In maggioranza. Il gruppo dirigente Dc li trattenne al centro.
Riuscì addirittura a portarli all’alleanza con i socialisti. Poi, tendendo ancora di più l’elastico, all’"attenzione" amichevole verso il Pci. Ma nel momento del "liberi tutti" dopo Tangentopoli, rotte le righe che li trattenevano, gran parte di loro rifluirono a destra. Con Casini? Solo le briciole. Il grosso si riconobbe senza sforzo alcuno in Berlusconi. Nella tv delle ballerinette, del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi. Nell’Italia raccontata da Nanni Moretti con ironia e dal Bagaglino con convinto candore.
Ci sarà anche del buono in quest’altra metà della mela italiana; anzi certamente c’è. Ma non c’è la borghesia, che non si esaurisce in una figura patrimoniale ma condensa la sua essenza imprenditoriale nell’innovazione dei prodotti, nella libera competizione, nel contributo a costruire un ambiente che faccia sistema e includa energie, potenzialità e anche debolezze. Gli anglosassoni lo chiamano "togetherness", noi lo traduciamo "insiemità". E’ il tratto che ha fatto la forza delle nazioni e la loro ricchezza creando le classi dirigenti appropriate e le culture della libertà e della democrazia.
Una borghesia che accetti di farsi rappresentare da una squadra di demagoghi, populisti, arraffoni, infiocchettati da un pizzico di futurismo marinettiano come efficacemente l’ha definito Edmondo Berselli, non è una borghesia ma la sua grottesca caricatura.
Accettò d’esser presa in giro cinque anni fa dal "contratto con gli italiani", un elenco di promesse da marinaio delle quali ogni persona sensata avrebbe capito l’illusorietà. Mancavano dieci giorni alle elezioni ma nessuno chiese a Berlusconi di dire come avrebbe finanziato quelle promesse. Si vide dopo: le finanziò azzerando l’avanzo primario del bilancio che aveva ricevuto in eredità dal precedente governo, condonando entrate, non perseguendo le evasioni, lasciando briglie libere alle spese improduttive, tagliando i trasferimenti agli enti locali, inasprendo le imposte indirette, facendo lievitare ancora di più lo stock del debito pubblico. Con tutto ciò le clausole di quel "contratto" restarono largamente inadempiute.
Con questo po’ po’ di passato prossimo alle spalle si accusa oggi Prodi di non dire come finanzierà i suoi impegni programmatici, a cominciare dal taglio del cuneo fiscale. Lo si accusa di voler tassare i Bot e il risparmio. Ma Prodi ha detto chiaramente quale sarà la sua politica. Ha detto: «Manterrò ferma la pressione fiscale senza aumentarla di un centesimo. Sposterò una parte di quella pressione dalle spalle più deboli alle spalle più forti». Non poteva essere più onesto e più chiaro: «Dalle spalle più deboli alle spalle più forti».
La borghesia della Destra storica si autotassò ferocemente per costruire lo Stato. Era una borghesia soprattutto fondiaria e pagò il suo debito alla comunità e allo Stato da lei costruito e governato contribuendo con il 62 per cento alle entrare tributarie totali negli anni che vanno dal 1865 al 1876. Allora dico: giù il cappello di fronte a quella destra e a quella borghesia. Essa aveva in Cavour, Sella, Minghetti, Spaventa, i suoi punti di riferimento. I se-dicenti borghesi dei giorni nostri hanno come modelli Berlusconi e Tremonti.
Basterebbe questo a farci capire perché Mister Tod’s viene considerato un bolscevico da molti suoi colleghi. E perché nei cinque anni appena trascorsi la competitività delle imprese italiane abbia perso 25 punti nella classifica mondiale, il bilancio faccia acqua da tutte le parti, la crescita sia bloccata da tre anni e l’Europa ci tratti a pacche sulle spalle e a calci nel sedere.
PIÙ AUMENTANO gli attacchi e le cocenti offese che il presidente del Consiglio uscente lancia verso la magistratura e più si moltiplicano gli appelli ai magistrati affinché non rispondano all’aggressione. Venerdì scorso Ciampi li ha invitati alla pacatezza e all’imparzialità dal suo alto seggio di presidente del Consiglio superiore della magistratura riaffermando ancora una volta il valore dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario. L’opposizione di centrosinistra dal canto suo si è astenuta dal commentare l’ennesima offensiva del "premier" condotta fino al parossismo nel discorso milanese di apertura della campagna elettorale.
Comprendo benissimo lo spirito di quegli inviti e di quella voluta prudenza, ma resta il fatto che l’aggressione tra il presidente del Consiglio uscente e i magistrati è un fatto la cui anomalia e gravità non può passare sotto silenzio per la semplicissima ragione che Silvio Berlusconi è, almeno fino al 10 aprile, il titolare del potere esecutivo. Allora la domanda, già posta tante volte ma finora priva di risposta, è questa: può il capo del potere esecutivo aggredire, insultare, delegittimare sistematicamente da cinque anni (tralascio gli anni precedenti) un altro potere dello Stato senza incorrere in alcuna sanzione? Non si configura un conflitto tra poteri che dovrebbe essere oggetto di giudizio presso la sede garante della correttezza di comportamento dei vari organi costituzionali?
I commentatori che si sono occupati di questa questione eccellono di solito nel dare un colpo al cerchio e un altro alla botte. Quelli più attenti a salvaguardare la propria equidistanza non mancano di premettere che «fa male» il presidente del Consiglio ad aggredire la magistratura. Fa male? È sufficiente un biasimo di mera opportunità? Qui si tratta, lo ripeto, d’un grave conflitto istituzionale tra poteri dello Stato provocato dal capo del potere esecutivo. La questione assume quindi una specialissima gravità.
Ho sotto gli occhi un articolo dell’ex ambasciatore Sergio Romano sul Corriere della Sera di ieri, intitolato Ritorno all’imparzialità. Mi sono domandato, prima di leggerlo, se sarebbe stato imparziale a sua volta. Purtroppo non lo è stato e me ne dispiace molto per il conto che faccio dell’intelligenza dell’autore.
* * *
Romano descrive la figura del magistrato quale lui la vorrebbe, anzi quale secondo lui deve essere e non è.
Scrive: «Non basta aver applicato scrupolosamente la legge e agito con impeccabile rigore professionale. Occorre che una scelta politica, anche quando è fatta alla fine della carriera, non proietti un’ombra sull’imparzialità del magistrato nel corso della sua vita professionale».
Più oltre rincara la dose: «Un magistrato che si esprime nella vita pubblica come cittadino e come elettore perde una parte della sua autorità morale».
Secondo Sergio Romano un cittadino che decide a un certo punto della sua vita di scegliere la carriera giudiziaria, di partecipare ad un concorso e di vincerlo, da quel momento in poi deve comportarsi come un monaco di clausura, sordo, cieco e muto in tutto salvo che agli articoli della legge. Ma poiché non gli si può vietare di pensare (meno male) deve tuttavia far finta di non pensare, non lasciarsi sfuggire neppure una parola sui suoi pensieri poiché se lo facesse e se quelle parole venissero risapute egli «perderebbe la fiducia dei cittadini». Un monaco, dicevo, senza neppure la possibilità di abbandonare la tonaca. I sacerdoti hanno questa possibilità, possono rinunciare ai voti che presero in un certo momento della vita; ma il magistrato non può. Neppure se la sua carriera si è chiusa per cause anagrafiche. Magistrato è stato e tale morirà. La sua bocca deve restar sigillata per sempre. Altrimenti può essere attaccato e metaforicamente lapidato: se l’è voluta lui.
Ho riferito quasi letteralmente il contenuto dello scritto di Sergio Romano e ancora mi strofino gli occhi incredulo. Non avendo mai letto nulla di simile e poiché (lo scrive lui stesso) il magistrato è comunque una persona pensante, non mi ero mai imbattuto in un invito così scoperto all’ipocrisia. Dovrà fingere di non pensare e anzi di non aver mai pensato, di non aver avuto né fedi né convinzioni, non potrà neppure scrivere un romanzo o un saggio da cui traspariscono inclinazioni culturali e politiche, altrimenti sarà sfiduciato, messo all’indice, e non potrà che prendersela con se stesso. Ah, de Maistre... anche lui, vedi il caso, fu ambasciatore alla corte di San Pietroburgo e anche lui, nelle sue conversazioni non ufficiali, fece indebitamente mostra di aver convinzioni proprie sulla corte dello zar anziché limitarsi ad esprimere la posizione del regio governo che rappresentava. Perciò fu rimosso. Sua eccellenza Romano conosce bene questa storia per averne vissuta una analoga. Mancarono entrambi di ipocrisia e fu un bene per tutti e due. Ma ora pretende che il magistrato ne faccia invece sfoggio riducendosi a un manichino impagliato «quand’anche abbia applicato scrupolosamente la legge e agito con implacabile rigore professionale». Incredibile.
* * *
La premessa sull’indipendenza della magistratura e sugli attacchi che riceve da cinque anni senza soluzione di continuità mi ha preso la mano, lo confesso. Ma ora vengo al merito della questione che mi ero proposto di trattare: il rapporto tra politica, economia, magistratura.
Essa è stata posta infinite volte, l’ultima delle quali dal presidente del Consiglio (sempre lui) quando tre giorni fa ha inopinatamente (?) attaccato la Procura di Milano per essere intervenuta sulla scalata Antonveneta determinando la vittoria della Abn Amro di Amsterdam. Ha anche attaccato la Procura e il "gip" di Parma per aver sospeso Geronzi dalle sue attività professionali per due mesi, poiché su di lui è in corso un’inchiesta connessa alla bancarotta della Parmalat. Secondo il presidente del Consiglio in entrambi i casi la magistratura ha dimostrato la sua faziosità, è uscita dalle sue competenze per interferire nel mercato e anche sui poteri della politica.
Mi ha stupito leggere in proposito un articolo di Paolo Franchi ( Corriere della Sera del 24 febbraio), collega del quale sono estimatore e amico, che dopo aver severamente censurato gli attacchi di Berlusconi, ha tuttavia aggiunto: «Non possono certo essere i magistrati a stabilire il destino del sistema bancario». Franchi auspica che su questo tema si apra un «serrato confronto». Non capisco bene tra chi. Ma per quanto mi riguarda rispondo volentieri al suo invito.
L’azione penale, come sappiamo tutti, si esercita sempre e soltanto nei confronti di persone nella loro individualità e fisicità. Nei casi sopracitati si è esercitata nei confronti di Fiorani, consigliere delegato della Popolare italiana (ex Lodi), nei confronti di Tanzi, presidente di Parmalat, ed ora nei confronti di Geronzi, presidente di Capitalia.
Sono tutti e tre (e gli altri coimputati con loro) presunti innocenti. Geronzi più che mai poiché l’inchiesta su di lui è alle primissime battute. Gli esiti sono dunque ancora lontani. Ma il problema sollevato non è questo. «Non possono essere i magistrati a stabilire il destino del sistema bancario». Giustissimo. E infatti non sono loro a stabilirlo. La scalata della Popolare ad Antonveneta è caduta perché Fiorani con il consenso del suo consiglio d’amministrazione, l’ha inzeppata di reati e di violazioni delle regole stabilite per legge. Tanzi idem, mandando la sua azienda in bancarotta. Geronzi è accusato (a torto o a ragione, si vedrà) di avergli tenuto mano e addirittura di essersi sovrapposto a lui dettandogli i comportamenti da prendere.
E allora? Che cosa avrebbero dovuto fare i magistrati secondo Berlusconi (e anche secondo Franchi)? Non esercitare l’azione penale? La tesi è singolare. L’interdizione di Geronzi non incide affatto sull’azienda bancaria Capitalia come il processo contro Tanzi ha lasciato in piedi Parmalat e quello contro Fiorani non impedisce alla Popolare italiana di portare avanti il suo lavoro. Dov’è dunque il problema? Intendo dire quello di Franchi, perché quello di Berlusconi è chiarissimo: insultare la magistratura, la Procura di Milano e quella di Parma, dare una mano al suo amico Fiorani. Finalmente viene fuori con tutta evidenza chi era l’amico di Fiorani, anche nella scalata dei "furbetti" al Corriere della Sera. Il tempo è galantuomo. Paolo Mieli era ancora incerto sugli dei protettori di quella scalata; adesso ne ha finalmente l’indicazione davanti agli occhi.
* * *
Mi resta da fare qualche non peregrina riflessione sulla politica bancaria. Perché una politica bancaria c’è e ci deve essere da parte di qualsiasi governo che si rispetti.
Generalizzando (ma non troppo) si può dire che esistono due orientamenti: uno è quello di affidare quella politica al mercato e alle sue regole, stabilite da leggi che non ne mortifichino l’efficienza ma ne salvaguardino la contendibilità. L’altro è quello di dotare il governo di ampia discrezionalità e capacità d’intervento in favore di obiettivi di bandiera. In sostanza protezionismo nazionale e coordinamento operativo.
Il governo "liberale" Berlusconi-Tremonti è orientato in quest’ultima direzione. Non lo dico io, l’ha detto Tremonti in varie occasioni e soprattutto in una sede ufficiale, nell’ultima riunione del Comitato del credito e del risparmio (Circ) avvenuta qualche giorno fa con la partecipazione di Draghi, neo-governatore della Banca d’Italia.
Lo strumento operativo indicato dal ministro dell’Economia è per l’appunto il Circ, che dovrebbe coordinare gli accorpamenti bancari dando la preferenza a quelli tra banche italiane e ostacolando le Opa non gradite al governo, modificando se necessario la legge vigente sulle Offerte pubbliche. L’obiettivo è quello di favorire la nascita di banche italiane più forti, capaci di confrontarsi con le istituzioni straniere da posizioni di maggior peso. Di fatto ciò equivale all’imposizione di dazi e contingentamenti. Cioè la fine del mercato comune tutte le volte che non vi sia reciprocità nel paese cui appartiene l’assaltatore. Insomma un ritorno all’italianismo di Fazio, con un po’ di belletto per renderlo presentabile.
Essendo tuttavia, questa discrezionalità interventista, affidata ad un organo governativo come il Circ ed essendo da esso coordinate tutte le Autorità di garanzia, Banca d’Italia inclusa, si avrebbe un ritorno dal mercato all’autorità politica del governo in barba all’autonomia della Banca d’Italia e alle liberalizzazioni fragorosamente strombazzate.
Da notare che il partito Ds ha da tempo presentato in Parlamento una proposta di legge per abolire il Circ, ritenuto un organo ormai inutile data la presenza delle Autorità di garanzia. Il tema di questo importante dissenso ha il suo perno nel concetto di reciprocità. Se paesi come la Francia, come dimostra la barriera eretta contro l’Enel, (ma non la Francia soltanto) privilegiano la difesa delle banche e delle imprese nazionali, non dobbiamo anche noi scendere sullo stesso terreno?
Tremonti dice di sì e lo dice anche Draghi che si è espresso allo stesso modo dinanzi al Circ e al Consiglio superiore della Banca d’Italia. Viva dunque i campioni nazionali. Anche se poco efficienti? Non sempre infatti l’accorpamento va in direzione dell’efficienza. Talvolta, anzi spesso, accade il contrario. Ma l’accorpamento di bandiera diminuisce la contendibilità della preda. Se questa tendenza si affermerà il mercato comune europeo cesserà di fatto di esistere come ha giustamente osservato il nostro collega Bonanni da Bruxelles. Il tema della (sacrosanta) reciprocità va dunque posto a Bruxelles alla Commissione Europea. È lì che bisogna risolvere la questione, non azzerando il mercato comune.
Quest’involuzione protezionistica è evidente ma non stupisce in Tremonti, colbertiano dichiarato e confesso. Stupisce piuttosto in Draghi, del quale non risultava una particolare inclinazione verso il ministro del Re Sole.
A proposito di Draghi, arrivato in Banca d’Italia dopo un brillante servizio nella Banca d’affari americana Goldman Sachs: la Banca d’Italia è la più alta «magistratura» del sistema bancario. Dovrebbe quindi valere la regola che non possa accedere alla sua guida chi abbia avuto posti di comando in banche private di affari e quindi inevitabile commercio con questo o con quell’operatore sul mercato nazionale e internazionale. Se per un magistrato la regola di "monachesimo" deve durare tutta la vita, non dovrebbe durare almeno per qualche anno per un banchiere privato prima di varcare i cancelli di via Nazionale? Sottopongo questa riflessione all’intelligenza di Sergio Romano.
L’inaudito attacco scatenato contro Carlo Azeglio Ciampi da Silvio Berlusconi, con il dichiarato proposito di sostituirsi al capo dello Stato su materie delicatissime come lo scioglimento delle Camere e la data delle elezioni, dimostra che questo personaggio non si ferma e non si fermerà davanti a nulla pur di non mollare palazzo Chigi. Sta per deflagrare, insomma, con le conseguenze più gravi e imprevedibili, l’anomalia finale di un premier che considera la democrazia e i suoi istituti degli accessori facoltativi da mettere sempre e comunque al servizio del suo personale potere. Attraverso strappi e forzature, leggi ad personam e conflitti di interessi, occupazione delle televisioni e manovre intimidatorie contro l’opposizione, si è così venuta realizzando al vertice del governo una sorta di autocrazia di stampo caucasico; un’escrescenza prepotente, decisa a non rispondere dei propri comportamenti a nessuno dei poteri elencati nella Costituzione della Repubblica Italiana. E quindi non risponde alla magistratura che è stata anzi colpita e perseguitata come mai era accaduto in Europa; ciò per puro spirito di vendetta determinato dai numerosi processi per corruzione a cui l’imputato premier è riuscito comunque sempre a sottrarsi dileguandosi attraverso le maglie larghissime delle prescrizioni. E quindi non risponde al Parlamento costretto ad approvare le leggi più ingiuste e vergognose a colpi di maggioranza, di quella maggioranza formata in larga parte da suoi dipendenti o da esponenti politici assoggettati o troppo deboli per potergli dire di no.
E quindi, adesso, non risponde neppure al presidente della Repubblica e anzi lo minaccia facendo persino balenare l’ipotesi di far eleggere il successore di Ciampi dalle Camere uscenti e non da quelle rinnovate dal voto dei cittadini. Cosicché, visto che la maggioranza dei deputati e dei senatori è ancora sotto il suo controllo, c’è anche l’incubo di una elezione di Berlusconi al Quirinale.
Ma Ciampi, fortunatamente, è ancora il nostro presidente e lo resterà, nella pienezza delle sue funzioni, fino alla scadenza del settennato fissata il 19 di maggio. Possiamo dunque stare certi che tutti i tentativi di aggirare la Costituzione saranno respinti con la massima determinazione. Costituzione, ricordiamolo, che è stata già manomessa per effetto di quella sciagurata riforma approvata con il consenso dei bravi ragazzi Bossi, Fini e Casini e che, per fortuna, gli italiani avranno modo di rispedire al mittente con il prossimo referendum.
Se Ciampi farà il possibile, Berlusconi farà l’impossibile, come sta già facendo, per avvelenare il clima elettorale. E più i sondaggi lo daranno per sconfitto e più lui si adopererà per introdurre nuove rotture, nuove provocazioni, nuove aggressioni nei confronti di chi gli si oppone. E quando dalle urne uscirà la vittoria dell’Unione, lui, stiamone certi, griderà che l’Unione ha organizzato brogli e che il voto va annullato. Lo ha già fatto nel ‘96 e, del resto, se continua a definire impossibile un’affermazione del centrosinistra una ragione ci sarà.
In questo clima dove ogni colpo di mano è possibile si iscrive l’aggressione del presidente del Consiglio all’Unità. Non è la prima volta che il nostro giornale viene attaccato dall’autocrate con linguaggio diffamatorio e violento esponendo i giornalisti e i lavoratori di questa testata a tutti i rischi connessi. Sabato, a Firenze, però, ogni limite è stato superato quando davanti alla nostra precisa denuncia di come, con le 1942 intercettazioni trafugate per essere divulgate si voglia gravemente intossicare la campagna elettorale, il presidente del Consiglio ha citato il ministro degli Interni e chiesto l’intervento dell’Avvocatura dello Stato.
Cosa ci sta preparando? Minacce, comunque, che non ci fanno paura anche perché ci sentiamo appoggiati e confortati dalla grande solidarietà che ci giunge dai nostri lettori e dai tanti amici che ci chiedono di andare avanti, tenere duro. Ci dispiace soltanto che abbia ragione il Cdr dell’ Unità quando ieri mattina ha registrato «l’assordante silenzio» di importanti testate giornalistiche (la più importante della quale domenica mattina pubblicava la fotografia del Berlusconi che sventolava scatenato l’Unità, senza una sola parola che spiegasse il perché negli articoli degli inviati).
Nessun vittimismo da parte nostra, per carità, ma solo il timore che molti nostri colleghi non abbiano ancora capito che dopo la magistratura, il parlamento e il Quirinale, l’assalto di Berlusconi toccherà a loro come adesso tocca a noi. «Vi attacca perché date fastidio», Enzo Biagi lo ha spiegato come meglio non si poteva.
Ciampi. Biagi. Meno male che ci sono loro.
Sui risvolti politici della vicenda Unipol si è già scritto e detto quasi tutto, ma c’è ancora qualcosa da aggiungere in attesa che la Direzione Ds si pronunci l’11 gennaio.
Le questioni che secondo me meritano un chiarimento ulteriore sono almeno tre: quella della diversità della sinistra, quella del fuoco incrociato contro i Ds e, l’ultima, sulla emendabilità del capitalismo italiano. È inutile aggiungere che si tratta di tre questioni interamente intrecciate tra loro nel senso che ciascuna è concausa delle altre due. Insieme stanno e insieme cadono, sicché bisogna anche porsi la domanda se sia nell’interesse del paese risolverle o impedirne la soluzione.
Dico subito che a mio avviso è interesse della democrazia italiana che quelle tre questioni siano risolte e che la loro soluzione non passi attraverso il dissolvimento del gruppo dirigente diessino, anche se è vero che la responsabilità di uscire dal bunker in cui si è cacciato spetta principalmente ad esso (come del resto ha già cominciato a fare Piero Fassino, nell’intervista che pubblichiamo oggi sul nostro giornale).
* * *
A proposito della diversità della sinistra italiana citai la settimana scorsa il «lascito» di Enrico Berlinguer. Un lascito costruito dalla coerenza di tutta la sua azione di dirigente politico, volta a evitare il rischio dell’omologazione del suo partito. Berlinguer aveva misurato quel rischio attraverso l’esperienza fatta dai socialisti. Non solo nella fase craxiana, ma già dal centrosinistra di Nenni e di Giacomo Mancini. La resistenza dei socialisti all’omologazione restando saldi in una versione riformista che incidesse sulla realtà italiana durò poco più d’un anno, dall’autunno del 1962 al giugno del ‘63. Fu la fase della nazionalizzazione dell’industria elettrica e della nominatività delle cedole e dei dividendi, ben presto caduta. La fase guidata da Riccardo Lombardi e da Antonio Giolitti nella breve esperienza della programmazione.
Quella fase ebbe termine con il «rumore di sciabole» del generale De Lorenzo, con l’intervento del ministro del Tesoro Emilio Colombo per una politica economica più rigida, con l’uscita di Giolitti dal ministero e l’emarginazione politica di Lombardi. Da allora la presenza politica del Psi si esaurì (con l’eccezione della legge Brodolini sulla giusta causa) nella «conquista» delle vicepresidenze negli enti pubblici di ogni genere e tipo, cioè nell’occupazione condominiale con la Dc delle caselle d’un potere che diventava rapidamente sempre più clientelare e partitocratico e sempre meno democratico e rappresentativo.
Poi arrivò Craxi e non fu più pioggerella ma grandine. La diversità berlingueriana aveva ben presente quell’esperienza e non voleva che si ripetesse. Non in quei modi. L’austerità berlingueriana era del resto un costume di tutto il partito, del gruppo dirigente, dei quadri, della base sociale in gran parte composta da operai, lavoratori dipendenti, braccianti, insomma proletari. E anche borghesia liberal-radicale.
Oggi la base sociale diessina è in parte cambiata, il partito attuale è, io dico per fortuna, molto diverso dal vecchio Pci, l’ideologismo rivoluzionario e massimalista non c’è più, la libertà è diventata un valore almeno pari ed anzi superiore a quello dell’eguaglianza. Ma la moralità politica è rimasta. Di qui l’anti-berlusconismo. Volete chiamarlo viscerale? Chiamatelo pure così perché viene dalla visceralità della gente di sinistra.
Il presidente della Camera, Casini, ha dichiarato due giorni fa che non vuol più sentir parlare d’una superiorità morale della sinistra. Dal suo punto di vista ha mille ragioni, ma non si tratta di superiorità, bensì di diverso modo di sentire. Ne volete una prova? La gente di destra (e di centro) non è rimasta affatto scossa dalle notizie di denari passati dalla Popolare di Lodi nelle mani di alcuni autorevoli esponenti di Forza Italia, Udc, Lega, An.
Quelle notizie sono scivolate come gocce d’acqua su un vetro. Così pure per il ben più grave problema del conflitto d’interessi di Berlusconi.
Ma è invece bastato un sostegno «tifoso» e certamente impreveggente dei dirigenti Ds all’Unipol per scatenare una tempesta nella sinistra e nei giornali. Perché? Perché la sinistra non solo è diversa nella sua sensibilità morale, ma è considerata diversa anche da chi non è di sinistra. La sua diversità dovuta alle ragioni e alle motivazioni di appartenenza alle quali ho accennato, è dunque un dato di fatto. Si può dire che è un dato di fatto negativo, un errore, un residuo ideologico. Si può dire qualunque cosa, ma resta un dato con il quale sia gli avversari sia soprattutto i dirigenti debbono fare i conti. Se non li fanno sono loro a sbagliare.
Voglio dire al presidente Casini che quel modo di sentire «diverso» rispetto ai temi della moralità pubblica, dell’austerità del vivere, dei valori della solidarietà e dell’eguaglianza, dovrebbero anche essere patrimonio dei cattolici. Di quelli veri e non di quelli che si fanno il «nomedelpadre» baciandosi le dita e poi crogiolandosi nel sistematico malaffare.
Ce ne sono pochi di cattolici veri e sono anch’essi diversi. Mi rammarica perciò il disprezzo con cui il cattolico presidente della Camera parla dei diversi. Mi rammarica ma non mi stupisce. Non sempre i cattolici sono veri cristiani che rinunciano al potere per testimoniare la loro fede.
* * *
E vengo alla seconda questione: il fuoco incrociato contro i Ds. Scrissi la settimana scorsa che la dirigenza diessina ha commesso alcuni gravi errori.
Si è volutamente impigliata in una difesa di Unipol e del milieu circostante a Consorte, offrendo occasione ad un attacco nei suoi confronti e nei confronti del suo partito. Da questi errori non si è ancora completamente districata ed è sommamente opportuno e urgente che se ne liberi.
Che il centrodestra in tutte le sue componenti ne abbia approfittato era nell’ordine delle cose e non può stupire. Fa parte della logica elettorale. Stupisce semmai l’impudenza con cui Berlusconi si è gettato in prima persona nella battaglia; stupisce che abbia potuto rivendicare, nell’indifferenza di gran parte della stampa, la sua estraneità alla mescolanza della politica con gli affari.
La fortuna di Berlusconi come imprenditore immobiliare prima e come concessionario di emittenti televisive poi è interamente legata a connivenze politiche; in particolare al legame strettissimo che ebbe con Bettino Craxi. I decreti craxiani che sospesero l’applicazione esecutiva delle sentenze della Corte costituzionale in materia televisiva, non a caso furono chiamati decreti Berlusconi, primo e gravissimo esempio d’una legislazione «ad personam». Per non parlare della legge Mammì che sancì di fatto il duopolio Rai-Mediaset.
Alla fine, dal 1994, avemmo il gigantesco conflitto d’interessi che tuttora incombe sulla vita nazionale.
Ma se vogliamo restare al tema delle Opa tuttora in atto, è stupefacente che le pagine dei giornali e i resoconti delle tivù siano pieni di Unipol mentre è totale l’assenza delle implicazioni ben più gravi di autorevoli politici del Polo, sottosegretari, presidenti di commissioni parlamentari, a finire con lo stesso presidente del Consiglio significativamente presente in compromettenti intercettazioni.
Perché dunque tanto accanimento unilaterale al quale, lo ripeto, la dirigenza diessina ha colpevolmente offerto il destro? La risposta è semplice.
Esiste in certi settori della politica e della stampa una nostalgia di centrismo che trova come impedimento maggiore la presenza d’un forte partito Ds. L’occasione offerta dal caso Unipol è stata da questo punto di vista preziosa. Ma è preziosa anche per rinverdire la visibilità elettorale di quella sinistra radicale «pura e dura» cui sembra in certe occasioni star più a cuore l’interesse della «ditta» che quello del paese.
Qui non si tratta della diversità berlingueriana ma d’un massimalismo a buon mercato, velleitario quanto nocivo come tutti i massimalismi. Berlinguer, tanto per ricordare ancora una volta la lezione dell’ultimo vero segretario del Pci, fu nel suo partito il punto centrale dello schieramento interno, distinto e spesso in contrasto con la sinistra di Ingrao, con quella filosovietica di Cossutta, oltre che con il gruppo moderato di Napolitano. Non darò – non ne avrei alcun titolo – giudizi di valore su queste diverse posizioni, ma ricordo appunto che Berlinguer rifuggì dal massimalismo e dall’estremismo come già prima di lui Longo e Togliatti.
In conclusione, si spara contro i Ds in nome del centrismo e dell’anti-riformismo. Questa è la verità del «fuoco incrociato».
* * *
Infine la terza questione, l’emendabilità del capitalismo italiano. Questo tema non è stato posto esplicitamente da nessuno con due eccezioni che mi piace citare: Alfredo Reichlin e Franco Debenedetti sulle pagine dell’Unità: due osservatori impegnati con biografie politiche assai diverse e tuttavia in consonanza su un tema di così grande rilievo.
Il capitalismo è stato modificato in modo sostanziale tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, cioè prima e dopo il secondo conflitto mondiale, dal pensiero di Keynes, dall’azione politica di Roosevelt e da quella successiva di Beveridge in Gran Bretagna e della socialdemocrazia in Germania.
Cioè dal pensiero e dalla pratica liberale e socialista abbinate alla forza del movimento sindacale.
Questo assetto ha configurato il capitalismo nella seconda metà del XX secolo accrescendo benessere e piena occupazione. Da un paio di decenni questa fase si è chiusa; la globalizzazione, l’informatica, la finanziarizzazione dell’economia hanno posto problemi nuovi tra i quali predominano la riforma del mercato del lavoro, la riforma del «welfare» e, soprattutto, la riforma dell’offerta di beni e servizi a cominciare dalla riorganizzazione dei mercati finanziari e delle società che vi operano.
Illudersi che una delle alternative a questa riorganizzazione sia il settore delle imprese cooperative è un grave errore di prospettiva. La cooperazione rappresenta un modello diverso di organizzazione dei consumi e del lavoro, non già un’alternativa al capitalismo. Merita di espandersi ma senza farsi «contaminare». Se non vuole scomparire e essere assorbita e omologata deve restare nel settore «non profit» che costituisce la sua forza e il suo limite.
Un grande partito riformista deve invece porsi il tema di stimolare la riforma dell’offerta, che riguarda la struttura societaria delle imprese capitalistiche, le piccole, le medie, le grandi e grandissime. Il fisco sulle imprese. L’accesso al credito e alla Borsa. Gli intrecci tra banche e imprese.
Gli organi di controllo esterni e interni alle imprese. La dimensione delle imprese.
L’internazionalizzazione e soprattutto l’europeizzazione delle imprese.
Ci sono nel capitalismo italiano forze consapevoli di questa necessità evolutiva del sistema e forze che vi si oppongono. Ma una cosa è certa: il sistema da solo non riuscirà a riformarsi. Lo stimolo politico gli è indispensabile come lo fu per arrivare alla fase denominata «mercato sociale» e «welfare».
Sono dunque tre questioni in una, come abbiamo indicato all’inizio. E ad esse bisognerà porre energicamente mano quando la nottata berlusconiana sarà finalmente passata.
Una volta esaurita la fase cruciale della investitura della presidenza della Repubblica, delle cariche istituzionali e degli incarichi governativi, il nuovo governo Prodi sarà presto, speriamo, sulla linea di volo. Sarà allora tempo di allacciare le cinture. Tanto più che il volo del nuovo governo dovrà affrontare non lievi turbolenze. Fuor di metafora, è necessario che una compagine governativa che poggia su una maggioranza risicata trovi in sé stessa la compattezza e la disciplina necessaria per persuadere gli italiani di saper governare. Ciò richiede che essa agisca energicamente e parli sobriamente, con chiarezza, e soprattutto con concordia. Sarebbe quanto mai opportuno dare un bel taglio agli «assolo» dei vari esponenti della coalizione. Perché non affidare a un portavoce il compito di spiegare la posizione del governo e anche le divergenze che inevitabilmente insorgono in ogni maggioranza, anche la più omogenea, evitando le passerelle televisive e minimizzando le esternazioni individuali? Ciò comporterebbe un confronto costante tra i numerosi partiti della coalizione: per esempio, attraverso la costituzione di un comitato permanente, uno steering committee che lavori a tempo pieno per raggiungere un accordo sulle inevitabili questioni controverse, prima di invadere le pagine dei giornali con il brutto vizio dei battibbecchi privati che non si traducono certo in pubbliche virtù; e compromettono gravemente il prestigio e la credibilità del governo e della sua maggioranza.
Mi rendo conto che allacciare le cinture è un arduo sacrificio per leader grandi e piccoli (soprattutto per questi ultimi) che aspirano alla più ampia visibilità dei loro movimenti. Saranno in grado di pagare questo ovvio costo del governare? È difficile non dubitarne. Ma è altrettanto vero che una spada di Damocle oscilla sulle loro teste: la minaccia del ricorso alle urne nel caso di una crisi della maggioranza. Ebbene: Damocle non dovrebbe lasciar dubbi sulla sua volontà di valersene, se fosse necessario.
Un governo provvisto di questo capitale di serietà può affrontare con fiducia i compiti gravi che lo fronteggiano. Il primo, è ovvio, è una strategia di risanamento dalla pesante eredità di una finanza pubblica in pericolosa difficoltà. Il governo precedente era convinto di "assistere" a una grande fase di sviluppo contando sull´onda favorevole di una economia mondiale in crescita. Scommessa rovinosa e perduta. Così, non solo non si è promossa la crescita interna, ma si è dissestata una finanza pubblica che faticosamente i precedenti governi erano riusciti a rimettere sulla buona strada. Quello che l´ex premier ha definito il miglior governo della Repubblica ha distrutto l´avanzo primario del bilancio, ha aumentato l´indebitamento annuale ben oltre il limite convenuto con Bruxelles, ha invertito la tendenza che era stata finalmente avviata alla riduzione del colossale debito pubblico, viaggia ormai verso il 108 per cento del prodotto nazionale. Che cosa poteva fare di più? Oggi sembra che davvero la crescita mondiale sia in deciso aumento. Pur con tutte le riserve prudenziali, questa sarebbe, per il governo di centrosinistra, una bella fortuna. E per Silvio Berlusconi un´amara beffa. Generali sfortunati, diceva cinicamente Napoleone, non fanno per me (figuriamoci quando credono di essere Napoleone!). D´altra parte, se Prodi, come alcuni sostengono, è accarezzato dalla fortuna, questo mi pare un indennizzo provvidenziale ai guai che il centrodestra gli ha lasciato in eredità. Si tratta però di un indennizzo ancora tutt´altro che scontato e comunque insufficiente. La strategia di risanamento comporta un programma da impostare subito ? bisogna arginare al più presto la possibile deriva di sfiducia dei mercati ? ma da attuare in un triennio, concordandola con Bruxelles.
Un governo di centrosinistra dovrebbe essere, però, anche un governo di forti iniziative riformatrici, che definisca in un vasto progetto di sviluppo dell´economia e della società italiana, entro un orizzonte di tempo più vasto, i traguardi che questo paese vuole darsi per assumere la condizione di equa prosperità e il ruolo di soggetto politico che gli spetta nella comunità delle grandi nazioni europee. Penso che al centro di questo progetto dovrebbe essere posta la valorizzazione della risorsa sulla quale non dobbiamo temere competizioni: l´immenso patrimonio territoriale storico culturale artistico dell´Italia. Ciò richiede una decisiva inversione di tendenza rispetto all´attuale vergognoso degrado di risorse, di idee, di competenze e di coraggio. Esige priorità per grandi progetti di risanamento ambientale e urbano, specie nel Sud: di infrastrutturazione, di organizzazione turistica, di promozione culturale. Comporta una posizione centrale dei soggetti responsabili dell´ambiente e dei beni culturali nel governo del Paese.
Un governo veramente riformatore dovrebbe, inoltre, realizzare finalmente la radicale modernizzazione di una pubblica amministrazione ancora vetusta. Si dice: meno Stato. Si dovrebbe dire: uno Stato migliore, agile ed efficiente. La riforma dello Stato è identificata dalla stoltezza convenzionale con le privatizzazioni: che poi, o non si fanno, o si fanno solo per incassare quattrini, spostando strutture monopolistiche dal settore pubblico a quello privato. Una riforma modernizzatrice dovrebbe riorientare l´amministrazione verso la pianificazione strategica, introdotta in America ormai da lungo tempo (all´insegna del reinventing government) ristrutturando nel senso della definizione degli obiettivi e del controllo dei risultati monumenti burocratici e autoreferenti come la Corte dei conti e la Ragioneria dello Stato.
Dovrebbe, infine, riprendere in grande stile la procedura di consultazione: sui grandi temi economici e sociali, con imprenditori e sindacati; su quelli territoriali, con le Regioni e le parti sociali, in veri e propri patti regionali di sviluppo.
Debole nei numeri della sua maggioranza, un governo ricco di idee innovatrici può diventare fortissimo conquistando il consenso popolare grazie alla credibilità del suo progetto. Gli italiani tutti gli saranno grati se gli si risparmierà la giornaliera chiacchiera televisiva, con la sfilata dei soliti noti, e gli si assicurerà, in operoso silenzio, servizi degni di un Paese moderno.
Primo paradosso, il pianto sulle due Italie e sul paese spaccato a metà in quegli stessi cantori del maggioritario che questa spaccatura l'hanno voluta e costruita. Che la società italiana sia una società divisa - per interessi, valori, ideologie - è sempre stato vero (quale società non lo è?) ed è sempre stato il sale del conflitto politico. Che questa divisione andasse rappresentata e forzata, politicamente e mediaticamente, nello schema bipolare «o di qua o di là», invece non era detto e non era neanche vero: è stato un risultato, tenacemente perseguito, della religione bipolar-maggioritaria nata sulle ceneri di Tangentopoli. Rappresentazione appunto schematica, che (l'ha notato pochi giorni fa Rossanda) occulta o semplifica molte divisioni trasversali ai due schieramenti. Ma che a sua volta, come ogni rappresentazione, produce realtà, o effetti di realtà. Alla fine, insomma, lo schema bipolare ha bipolarizzato la società, con l'aiuto determinante delle forzature ideologiche (altro che modernità disincantata) che Berlusconi ci ha messo: sulla proprietà (niente tasse), sull'identità (niente immigrati), sull'anticomunismo, puntando come sempre alle viscere dell'Italia profonda (come il Berlusconi di sempre, e come Bush del secondo mandato, solo che Bush all'anticomunismo sostituisce l'antiterrorismo). Perché meravigliarsi se l'Italia è spaccata? E perché meravigliarsi se si può «vincere tutto» con un solo voto di scarto? La religione bipolar-maggioritaria questo promette e questo mantiene. Se spacca in due il paese bisognerebbe casomai - e finalmente - interrogarsi sulla sua validità.
Con un voto di scarto infatti si vince, ma non è detto che si convinca (e tantomeno che si governi). Da cui il secondo paradosso, la sensazione di una vittoria (ai punti) che in realtà è una mezza sconfitta (politica). Sensazione diffusa nell'elettorato di centrosinistra, aldilà dell'opera di delegittimazione del risultato perseguita da Berlusconi. Qui però bisogna distinguere: l'opera di Berlusconi va bloccata, ma quella sensazione va ascoltata e analizzata. Berlusconi fa il suo gioco di sempre, come sempre puntando più uno. Il gioco di sempre è: le regole non contano niente; il più uno di oggi è: le regole elettorali non contano niente, basta negare l'evidenza del risultato. Anche in questo caso le parole, a lungo andare, producono effetti di realtà (è il meccanismo dello spot pubblicitario), sì che nessuno, neanche dalle più alte cariche dello stato, fa presente al Cavaliere che delira; e il suo gioco di sempre stavolta può diventare molto più pericoloso che in passato (chi invita alla vigilanza democratica non esagera). Ma in quel senso di vittoria dimezzata non c'è solo la paura che le istituzioni non reggano all'assalto di Berlusconi e l'amara constatazione che metà del paese continua a premiarlo (e non premia le sue promesse come nel '94 e nel 2001 ma il suo governo). Ci sono molte altre cose che riguardano il campo nostro e non il gioco suo. C'è la delusione per un risultato che si sperava più solido. C'è un senso di debolezza, non rassicurato dal poco credibile tono trionfale delle prime dichiarazioni di Prodi. C'è una scarsa identificazione in uno schieramento che ha condotto la più grigia campagna elettorale della storia repubblicana, senz'altri argomenti dai soldi e dalle tasse, senza mondo (guerra, Europa, politica estera) e senza passioni. Prodi conta sul fatto che l'esiguità del vantaggio compatterà la coalizione: può darsi che funzioni in parlamento, ma nell'elettorato?
Nell'elettorato, può darsi invece che la malinconica distanza dalla politica cresca. Il terzo paradosso della situazione è che arrivati a quella che tutti definiscono «una democrazia matura» (cioè bipolare), si scopre che si tratta in realtà di una democrazia svuotata. In cui tutte le attese di cambiamento si concentrano sull'attimo del voto, e il voto in un attimo le delude. E in cui la società è ormai la grande assente e la grande sconosciuta: compulsata (male) dai sondaggi, ignota alle sedi della rappresentanza (la classe politica) e della rappresentazione (i media). Siamo alla quarta elezione, senza contare il referendum sulla procreazione assistita, in cui il risultato spiazza le aspettative: forse dovremmo trarne qualche conseguenza, nella classe politica e nei media.
Per ultimo il paradosso più paradossale di tutti. Stando le cose come stanno, il referendum sulla Costituzione riacquista il rilievo che la campagna elettorale gli ha tolto cancellandolo dal discorso.
La Francia, ancora una volta, ha rimesso le cose al loro posto. I suoi giovani hanno gridato la domanda che inchioda l’intera Europa: «Come faremo a campare domani?». Hanno spazzato via i falsi problemi, i falsi obbiettivi, gli inutili discorsi con i quali i loro coetanei italiani sono stati ridotti a uno stato semiconfusionale.
Tre sole cifre per descrivere la situazione italiana. Siamo l’unico paese della Ue dove i salari di fatto sono rimasti fermi da più di dieci anni a questa parte, quello dove le disuguaglianze di reddito tra diverse categorie di cittadini sono più accentuate, siamo l’unico paese della Ue dove la produttività del lavoro è diminuita (nell’era dell’informatica!!!!). Com’è stato possibile? Vogliamo cavarcela dando ancora la colpa a Berlusconi? Vogliamo continuare con questa ossessione del Cavaliere, con questa fissazione che ha reso gli elettori di Sinistra una massa di gattini ciechi?
E. stato possibile dal modo in cui sono state poste le fondamenta della Seconda Repubblica, le architravi che ne reggono l’impalcatura istituzionale. Una di queste è l’accordo sul costo del lavoro del 1993. Così lo ha definito Cipolletta, allora Direttore Generale di Confindustria: «Non ho difficoltà ad ammettere che il vantaggio maggiore di quell’accordo fu per le imprese. Il blocco dei salari, unito alla svalutazione della lira che si ebbe successivamente, consentì alle aziende un recupero di competitività gigantesco».
Non condanniamo il sindacato per quell’accordo, ma avremo o no il diritto di trarne un bilancio, tredici anni dopo? Il sindacato volle mostrare allora senso di responsabilità e firmò un patto implicito: noi fermiamo i salari e voi, imprenditori, rafforzate e consolidate le imprese, investite in innovazione, fate un salto di qualità. E. accaduto il contrario. I salari sono rimasti fermi, le grandi imprese si sono rarefatte, è iniziato un processo di sgretolamento, di frammentazione, le imprese sono diventate sempre più piccole, prive di risorse per innovare, investire in ricerca. E. cresciuta a dismisura la finanziarizzazione, oggi l’Italia è in mano ai riders della finanza, agli immobiliaristi e ai monopolisti privati delle utilities pubbliche (v. autostrade). Accumulano rendite da capogiro. Il patto implicito contenuto nell’accordo del 1993 è stato rispettato solo da una controparte.
Ma non è in termini economici che il mancato rispetto di quel compromesso sociale ha prodotto i danni più gravi: è invece in termini di cultura d’impresa, anzi, di civiltà. L’Italia è diventata un paese nel quale il lavoro è considerato un costo, non una risorsa. Ed è qui che inizia il dramma dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Possono essere carichi di lauree e master, saranno considerati un puro costo e accettati solo in base alla disponibilità a ridurlo. Perché queste considerazioni «impolitiche »? Perché troppi sono coloro oggi che invocano una riduzione dei salari ed un allungamento degli orari, troppi sono coloro che parlano di «riforme» fondate su un nuovo «compromesso sociale ».Ma chi può oggi sottoscrivere un nuovo patto, quando il primo è stato cos ì vergognosamente violato? Se le imprese non hanno investito in innovazione e consolidamento dieci anni fa, che la congiuntura era favorevole, come si può pensare che lo facciano adesso, messe alle corde da concorrenti ben più temibili e da un prezzo del petrolio che punta verso i 100 dollari al barile? Come possono investire in innovazione le microimprese, le sole che trainano l’occupazione? Può bastare una fattura non pagata per mandarle in rovina.
Ascoltiamo come ragionano, quelle considerate di maggior successo, quelle del settore moda, tessile-abbigliamento, 43 miliardi di euro di fatturato, punto di forza della nostra economia, punta più alta della nostra «creatività». «La mission è e sarà quella di vestire con prodotti di eccellenza "i nuovi ricchi del mondo"... nazioni in cui il Pil aumenta oltre il 3% all’anno, quali la Russia, i paesi Peco, la Cina» - parole del Presidente della Camera della Moda Italiana, qualche mese fa a Milano. Vestire dei tessuti più raffinati i lardosi corpi di tycoons e mafiosi, ingioiellare le sudaticce membra delle loro amanti - a quest’alta missione giovani «creativi» italiani siete chiamati!
Dieci anni di lotte operaie, macchiati di agguati e azioni sanguinose delle Brigate Rosse, di Prima Linea ed altri gruppi armati, hanno tormentato la Fiat dall’estate 1969 all’ottobre 1980. Ne è uscita più forte di prima, agli inizi degli Anni 80 nell’auto era all’avanguardia nel mondo per la robotica e l’automazione. Seguirono 22 anni di pace sociale, 22 anni di un potere incontrastato. Ne è uscita sull’orlo del fallimento. I politologi dovrebbero spiegare una dinamica unica nella storia.
Per dire che l’Italia ha iniziato il suo declino quando il conflitto sociale è scomparso, quando le generazioni hanno perduto il gusto ed il senso di «farsi sentire». Quando il lavoro ha perso il suo prestigio sociale è iniziato il declino della nostra industria. Quando la Sinistra ha messo il tema «lavoro» nel cassetto, rinunciando a seguirne le rapidissime e profonde mutazioni, ed è rimasta incollata a una visione Anni 60, i giovani hanno smarrito l’orientamento essenziale della loro cittadinanza. Sono rimaste in piedi, a difendere i loro privilegi, piccole corporazioni prepotenti.
Se nessuno raccoglierà il messaggio francese, per questo Paese non ci sarà futuro. Con o senza Berlusconi.
La chiave non è stata trovata subito. Il padrone della Kts Textile Mills di Chittagong, Bangladesh, l'aveva messa al sicuro, al contrario dei 500 operai del turno di notte che al sicuro non ci stavano affatto. Anche le finestre erano chiuse per impedire che qualcuno lasciasse il lavoro. Così ieri sono morti in 65 (bilancio provvisorio, centinaia i feriti), la maggioranza donne, ma l'odore di bruciato non è arrivato fino a noi, tanto che i Tg hanno ignorato la notizia nei titoli di testa. Quella fabbrica è lontana, dove sta Chittagong sulla cartina geografica? Così lontana anche per le condizioni disumane, ottocentesce, anti-sindacali in cui vivono i lavoratori che hanno visto i rotoli di stoffa sparsi qua e là avvampare per lo scoppio di un radiatore elettrico, e provocare un rogo improvviso, senza via di fuga, senza scampo. Erano le 5.30 del mattino e le fiamme si sono propagate rapidamente in tutto il fabbricato tanto che i vigili del fuoco dopo 12 ore parlavano di numerosi corpi da recuperare sotto le macerie. Molti operai sono rimasti bloccati da ondate di fuoco e di fumo, alcuni hanno sfondato le finestre e si sono gettati dal terzo piano.
L'immagine del disastro riporta indietro fino al 1908 quando 129 operaie tessili - in sciopero per ottenere orari e condizioni decenti di lavoro - bruciarono nello stabilimento della Cotton di New York, chiuse a chiave dalla proprietà. E l'episodio, accaduto l'8 marzo, si vuole all'origine della Festa della donna. Una tragedia persa nell'immaginario che dà ancor di più un'aura da «leggenda» a quella successa ieri. Eppure abbiamo i loro abiti negli armadi.
Sei miliardi di dollari annui, infatti, sono il fatturato dell'esportazione dei prodotti tessili del Bangladesh, dove le donne sono le più utilizzate e prendono stipendi più bassi degli uomini per turni massacranti, spesso di notte, sicurezza zero.
Nell'aprile del 2005 più di 70 persone sono state schiacciate dal crollo di una fabbrica tessile illegale costruita abusivamente su un terrono paludoso a Palash Bari, distante pochi chilometri da Dacca. Nel 2000, 48 operai sono morti in un altro incendio sempre vicino alla capitale, l'uscita di sicurezza era chiusa. E il conto sale fino a 350 morti e 2500 feriti negli ultimi anni in quei baracconi che si chiamano «fabbriche delocalizzate», lontane. Vicinissime. È dietro l'angolo la Kts Textile Mills con i suoi marchi occidentali che troneggiano nelle nostre vetrine, e che non vogliono sapere delle ditte in franchising dove le porte sono chiuse. Non c'è né tempo né distanza che ci separi da Chittagong e dalle operaie prigioniere - fantasmi che ardono dietro finestre sbarrate - i cui nomi non sapremo mai. Di quella chiave che non si trova, qui, molti ne hanno una copia in tasca.
Titolo originale: Rebuilding the American dream machine – Traduzione per Eddyburg di fabrizio Bottini
PER ogni college d’America gennaio è un mese di bilanci. La maggior parte delle richieste per il prossimo anno accademico che inizia in autunno devono essere fatte entro la fine di dicembre, e così la popolarità di un’università si calcola con un criterio obiettivo: quanta gente vuole frequentarla. Uno degli uffici che meno probabilmente sarà inondato di posta è quello della City University of New York (CUNY), college pubblico che non ha tra le altre cose una squadra sportiva famosa, un campus bucolico o feste scatenate (non ha nemmeno gli spazi), e sino a tempi recenti neppure credibilità accademica.
Un elemento di attrattiva alla CUNY è il programma per studenti particolarmente dotati, attivato nel 2001. Circa 1.100 dei 60.000 studenti delle cinque scuole superiori della CUNY, ricevono una cosa rara nel mondo costoso dei colleges americani: istruzione gratuita. Chi è ammesso al programma di sostegno della CUNY non paga tasse; riceve invece uno stipendio di 7.500 dollari (a contributo delle spese generali) e un computer portatile. Le richieste di ammissione ai corsi del prossimo anno sono oltre il 70%.
Essere ammessi poi non ha particolari rapporti con l’essere un atleta, o figlio di un ex alunno, o dotati di sponsor influente, o appartenere a un gruppo etnico particolarmente discriminato, tutti criteri sempre più importanti nelle università di élite d’America. La maggior parte degli studenti che fanno richiesta per lo honours programme vengono da famiglie relativamente povere, molte di immigrati. Tutto quello che si chiede, alla CUNY, è che questi studenti siano dotati e diligenti.
Lo scorso anno, la media realizzata nei test di ammissione per questo gruppo è stata nel 7% più elevato del paese. Fra il resto degli studenti CUNY le medie sono più basse, ma stanno quasi entrando nel terzo superiore (erano in quello più basso nel 1997). La CUNY non compare insieme a Harvard o Stanford nell’elenco delle università di punta americane, ma la sua recente trasformazione offre un’efficace parabola di meritocrazia rivisitata.
Fino agli anni ‘60, si poteva anche sostenere che la miglior qualità nell’educazione superiore in America non si trovasse a Cambridge o a Palo Alto, ma a Harlem, in una piccola scuola pubblica chiamata City College, nucleo centrale della CUNY. Prima libera università municipale d’America, fondata nel 1847, offriva i suoi servizi a chiunque fosse abbastanza brillante secondo i propri selettivi criteri.
L’età d’oro del City fu nel secolo scorso, quando i colleges più conosciuti d’America limitavano il numero di studenti ebrei ammessi, esattamente nel momento in cui New York pullulava dei brillanti figli degli immigrati poveri ebrei. Fra il 1933 e il 1954 il City laureò nove futuri premi Nobel, fra cui il vincitore del 2005 per l’economia, Robert Aumann (laureato nel 1950); la Hunter, ex college femminile affiliato, ne ha prodotti due, e una sede di Brooklyn un altro. Il City ha formato Felix Frankfurter, figura chiave della Corte Suprema (classe 1902), Ira Gershwin (1918), Jonas Salk, inventore del vaccino antipolio (1934) e Robert Kahn, uno degli artefici di internet (1960). Ambiente di sinistra negli anni ’30 e ‘40, il City ha figliato molti degli intellettuali neo-conservatori poi passati alla destra, come Irving Kristol (classe 1940, attività extrascolastica: gruppo pacifista), Daniel Bell e Nathan Glazer.
Dove si è sbagliato? Detto in parole semplici, il City ha lasciato cadere i propri criteri qualitativi. Ciò si deve in parte a questioni demografiche, in parte a impegnata confusione mentale. Negli anni ‘60, le università di tutto il paese subivano un’intensa pressione per ammettere studenti delle minoranze. Anche se il City era aperto a tutte le etnie, solo un piccolo numero di neri e ispanici superava i rigidi test di ammissione (come un futuro segretario di stato, Colin Powell). Questo, decisero i critici, non poteva essere coerente alla missione del City di “servire tutti i cittadini di New York”. In un primo tempo i criteri vennero allargati, ma non era ancora abbastanza, e nel 1969 una massiccia protesta studentesca fece chiudere il campus per due settimane. Di fronte alla sollevazione, il City abolì del tutto i criteri di ammissione. Nel 1970, quasi ogni studente diplomato alle superiori di New York poteva frequentare.
La qualità dell’insegnamento precipitò. Dapprima, senza alcuna barriera d’ingresso, aumentarono le iscrizioni, ma nel 1976 la municipalità di New York, allora in bancarotta, obbligò la CUNY a imporre tasse universitarie. Era finita l’epoca dell’istruzione gratuita, e un’università che aveva servito uno scopo tanto alto scivolava nell’opacità dei ranghi inferiori del sistema educativo americano.
Al 1997, sette su dieci studenti del primo anno alla CUNY non riuscivano a superare una prova di base di lettura, scrittura o matematica a livello di scuola superiore. Un rapporto commissionato dalla municipalità nel 1999 concludeva che “ Elemento centrale della missione storica della CUNY è l’impegno a offrire un ampio accesso, ma l’alto livello di abbandono e i bassi standard di laurea pongono il problema: accesso a cosa?”
Utilizzando questo rapporto come arma, furono imposte profonde riforme dall’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani, e da un altro ex alunno, Herman Badillo (1951), primo eletto portoricano al Congresso. A capo del CUNY fu nominato Matthew Goldstein, un matematico (1963), che ha poi riportato il centro dell’attenzione sugli alti livelli formativi, fra notevoli contrasti.
Per esempio, nel 2001, tutti gli 11 senior college della CUNY (quelli ad esempio che offrono corsi di quattro anni) non offrivano più una formazione di base. Ciò ha provocato clamori da parte del corpo docente che sosteneva come si sarebbero “create separazioni e ghetti fra i vari livelli delle scuole”, tenendo studenti neri e ispanici fuori dalle migliori. In realtà, la composizione razziale delle senior schools, esaminata in modo ossessivo dai critici, è restata in gran parte la stessa: uno studente su quattro è nero, uno su cinque è latino. Un terzo è legato alle comunità portoricana, giamaicana, cinese o dominicana.
I criteri di ammissione sono stati elevati. Gli studenti che chiedono di entrare nei senior college della CUNY devono avere valutazioni di buon livello nazionale, statale, o della CUNY, e i criteri di ammissione ai programmi di sostegno economico sono i più rigidi nella storia dell’università. Al contrario di quanto avevano previsto i critici di Goldstein, gli standards più elevati attirano più studenti, non di meno: quest’anno le iscrizioni hanno fatto segnare un record. Ci sono anche segnali più informali che la CUNY stia di nuovo raccogliendo i soggetti locali più brillanti, soprattutto nelle scienze. Una delle classi avanzate di biologia al City ora ha il doppio degli studenti che aveva alla fine degli anni ‘90. L’anno scorso, due studenti entrambi nati nell’Unione Sovietica hanno ottenuto il titolo Rhodes, e uno nato nel Bronx dopo aver vinto l’ambito Intel Science Prize è nel programma di sostegno.
Tutto questo non significa che la CUNY è fuori dai guai. Gran parte appare degradata. Il bilancio annuale di 1,7 miliardi di dollari è restato identico, anche se il numero di studenti è aumentato. Con le finanze di New York City ancora in uno stato di precarietà, il sostegno municipale e statale all’università in termini reali è diminuito di oltre un terzo rispetto al 1991. Ma sono cominciati a entrare soldi privati.
In autunno aprirà una nuova scuola di giornalismo, sostenuta da una donazione di 4 milioni della famiglia Sulzberger, che controlla il New York Times, e guidata dall’ex direttore di Business Week, Steve Shepard (classe 1961). I tentativi di raccogliere una donazione di 1,2 miliardi hanno superato la mezza strada, con l’aiuto (prima assente) degli ex alunni. L’ex presidente Intel, Andrew Grove, laureato al City nel 1960 come immigrato ungherese senza un centesimo, ha donato 26 milioni (circa il 30% del bilancio esecutivo del City) alla scuola di ingegneria, definendo la sua alma mater “una vera macchina del Sogno Americano”.
C’è qualcosa in più da imparare dalla vicenda della CUNY, in particolare per quanto riguarda la creazione di opportunità di istruzione superiore per i poveri. Attualmente, solo il 3% degli studenti americani nei colleges di punta viene da famiglie a basso reddito, e solo il 10% da famiglie a reddito medio-basso, secondo una ricerca di Anthony Carnevale e Stephen Rose per la Century Foundation. La maggior parte degli studenti sono senza problemi economici, e c’è abbondanza di minoranze etniche, che ricevono un trattamento preferenziale indipendentemente dalla loro situazione economica.
Con tutte le imperfezioni, il modello CUNY di tasse ridotte e alti livelli formativi propone un approccio diverso. E la sua storia recente può contribuire a sfatare il mito secondo cui gli alti livelli accademici scoraggiano studenti e donazioni. “Elitarismo”, sostiene Goldstein, “non è una parolaccia”.
Molti anni fa, una “commissione Giannini” (dal nome del suo presidente, Massimo Severo Giannini), incaricata di proporre regole efficaci per la conduzione degli enti di ricerca, partì da una distinzione delle strutture in “Enti strumentali” ed “Enti non strumentali”, a seconda che il loro obiettivo fosse la ricerca finalizzata o quella fondamentale. Nel primo caso, l’importanza degli scienziati-manager era chiaramente riconosciuta, nel secondo caso sembrava più importante il prestigio scientifico.
Ma sarebbe riduttivo prendere in considerazione solo i presidenti. La commissione Giannini riconosceva che la formula dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) aveva meriti indiscussi: un organo collegiale di governo, costituito dai direttori, eletti localmente dal personale delle “sezioni”, dislocate presso le sedi universitarie, e dei laboratori nazionali, completato con rappresentanze minoritarie di ministeri ed altri enti competenti. Dunque, niente Consiglio di Amministrazione (CdA) con prevalenza di emissari di partiti e di sindacati, niente presidente di nomina governativa, riconoscimento di capacità di autogoverno alla comunità scientifica e inserimento in un ambiente scientifico allargato con diritto di partecipazione alla programmazione e all’attività. Effettivamente l’INFN sembrava funzionare in modo ideale: un presidente che risponde ai suoi “amministrati” e che, per rappresentarli degnamente nella comunità internazionale, deve avere un’indiscussa notorietà che tutti gli riconoscono per conoscenza diretta e senza bisogno di tabulati di agenzie, è il meglio che si possa desiderare. La responsabilità di un siffatto gestore è condivisa, per il modo in cui è scelto, da una larga maggioranza che, per ciò stesso, concorre ai migliori risultati dell’ente.
Ma l’INFN è un ente non strumentale, che riguarda una comunità scientifica omogenea ben quotata nel suo complesso. Gli enti strumentali sono più complicati da governare. Il compianto Antonio Ruberti, scienziato e manager, aveva le idee chiare, ma ci ha lasciati. Pure, la commissione Giannini in qualche modo sottolineava che un ente che svolge attività specialistiche di ricerca, di qualsiasi tipo, non può essere governato da un “commissario”, paracadutato dal Governo con un disegno concepito solo fuori dall’ente, per risponderne a un CdA che rappresenta solo parti politiche: questo, è governare con “conflittualità incorporata”. L’ente finisce con lo svolgere solo attività imposte dal commissario-presidente, che le concorda con il CdA, senza coinvolgere i ricercatori nelle scelte e nelle decisioni. Nessuna meraviglia che i ricercatori cambino nome e diventino “capi-commessa” (sic!).
(Dipartimento di Fisica, Università "La Sapienza", Roma)
Si veda sull'argomento, dello stesso autore, Incubi notturni di un professore (1° giugno 2002)
Non sappiamo ancora chi sarà nominato presidente della Repubblica dai grandi elettori riuniti alla Camera. Non lo sanno neanche loro. La tattica e la scelta sono decise, ora per ora, in una partita segreta fra pochi leaders. La figura istituzionale cardine della Repubblica non è neppure presentata in modo trasparente al paese, prassi niente affatto implicita nella Costituzione del 1948, che ne sancisce l'elezione in secondo grado.
Di queste poco limpide tattiche fanno parte sia la candidatura di D'Alema sia il suo ritiro a favore di Giorgio Napolitano. Mentre niente affatto nascosta è stata la mossa che Piero Fassino ha fatto verso Silvio Berlusconi, tramite o forse dietro suggerimento del berlusconiano Foglio. Qui non si tratta più di tattica ma di un mercato, e del tutto illecito. Il segretario dei Ds chiede infatti i voti della destra per il suo candidato offrendo in cambio quattro impegni programmatici che questi prenderebbe.
L'ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida ha già scritto che è una manifesta violazione delle regole, perché in Italia il capo dello stato non è eletto su un programma né può farlo: il suo ruolo è di garante della Costituzione, non di un indirizzo di governo; nell'offerta di Fassino si prefigura una dualità di poteri o una repubblica presidenziale. Sappiamo da tempo che questa è nell'animo di Berlusconi. Da ieri siamo informati che sarebbe anche nell'animo dei Democratici di sinistra, che la vanno negoziando nel modo più extraparlamentare possibile. Alla faccia del programma cui l'Unione ha chiamato gli elettori.
Ma chi ha autorizzato Fassino a farlo? Chi lo ha autorizzato, primo, a garantire alla destra che il «suo» presidente non permetterà interferenze fra giustizia e politica, che è come dire che queste ci sono state, tesi prediletta di Berlusconi e Previti? Chi l'ha autorizzato, secondo, a impegnare il nuovo presidente a operare alla più larga convergenza con il centrodestra in politica estera, dopo che l'Unione aveva assicurato di essere contraria alla guerra in Iraq e all'unilateralismo degli Stati Uniti, cari invece alla Casa della Libertà? Bush e Rumsfeld sono al massimo del dissenso con i loro stessi militari, la loro guerra e leminacce di interventi ulteriori hanno incancrenito il medio oriente e li hanno impantanati in una situazione dalla quale non sanno come uscire, Tony Blair sta pagando il suo codismo a Washington e il maggiore partito del centrosinistra, mentre si rimpatriano i corpi anche delle nostre inutili vittime, cerca una convergenza con questa banda di dementi? Che ne pensano gli iscritti ai Ds, gli eletti e gli elettori? Terzo e non meno sorprendente: Fassino promette una revisione della Costituzione «per completare la transizione italiana» assieme con la destra, la quale da parte sua fa sapere urbi et orbi che considera Massimo D'Alema fin dalla Bicamerale il suo più credibile interlocutore.
Davvero crede di mobilitare gli elettori al referendum del 25 giugno in modo da abbattere questa devolution perché i Ds ne trattino un'altra con l'accordo della Lega? Perché perfezionino il superpotere, oggi un po' volgare, dell'esecutivo? Ma chi andrà a votare in questo gioco delle tre carte? Infine, come ha già scritto Valerio Onida, come può impegnarsi il nuovo presidente della Repubblica a sciogliere le Camere in caso di crisi di governo, essendo lo scioglimento il solo ma assoluto atto del quale sta a lui decidere la convenienza e i tempi?
Non penso che sia stata una trovata del solo Fassino. Certo i ds non lo hanno né smentito né corretto. Vuol dire che quale che sia il presidente della Repubblica che uscirà eletto, salirà al Colle con questo mandato del maggior partito della sinistra. Prodi si è limitato a sorridere e non commentare. Non ci siamo mai illusi sulla democrazia rappresentativa, ma ci sono dei limiti di decenza che è pericoloso superare.
Una terribile frase italiana, che mi disorientava quando, da bambino, la sentivo dire da adulti che si guardavano prudentemente intorno è: «qui lo dico e qui lo nego». È una espressione intraducibile che rappresenta il peggio dell’opportunismo italiano.
È ciò che sta accadendo adesso, in questo Paese, sotto gli occhi del mondo, dopo la vittoria di Prodi. In alto e in basso, e persino a sinistra e non solo a destra, si dice o si nega, si afferma e si attende, si contano i numeri giusti ma poi si fa finta di non saperli, si usa l’esiguità del margine (ormai tipico di tutte le democrazie, e consacrato da ben due successive elezioni americane) per dire che la vittoria di Prodi forse è accaduta e forse no, e magari sarebbe meglio trattare.
Trattare che cosa, trattare con chi?
C’è infatti una variazione molto importante al modello nazionale di dire e negare che ha consentito tante decisioni ambigue nella storia italiana.
Berlusconi, il leader battuto (nel voto italiano in casa e nel voto italiano dall’estero) della Casa delle libertà non dice. Nega. In questo unico senso è più moderno. Nega risolutamente di avere perduto, nonostante l’evidenza e cogliendo lo spazio libero che gli viene offerto da un grande silenzio. Come in tanti suoi processi, Berlusconi nega tutto. Esattamente come in tribunale, accusa di broglio chi lo ha battuto. La stampa internazionale nota l’affinità fra processi e politica. La stampa nazionale appare affascinata dalla sua straordinaria capacità di negare. E benché la negazione sia sprezzante e deliberatamente provocatoria, intorno al leader che ha inventato il “sit in” dello sconfitto, una Valle di Susa delle elezioni perdute, si forma un capannello di interlocutori interessati a vedere che cosa si può mediare con lui.
Siamo in presenza di un paradossale abbaglio logico: l’idea che sia bene trattare e progettare scambi con chi ha rifiutato e continua a rifiutare di avere perso le elezioni, persino in presenza della ammissione (purtroppo tardiva) del ministro dell’Interno.
Per avere un resoconto attendibile e definitivo di ciò che è accaduto davvero in Italia, occorre rivolgersi non alla televisione, in cui Berlusconi continua ad apparire come il protagonista, non ai giornali, colmi di retroscena che coprono di cortine fumogene i fatti. Non ai politici, anche del centrosinistra, alcuni dei quali discutono volentieri di scenari di possibile collaborazione saltando il dato: chi ha vinto?
Occorre la voce di un cardinale. Sentite le parole di Mons. Severino Poletto, arcivescovo di Torino, raccolte ieri da La Stampa e dite se non sono l’unica cronaca attendibile di ciò che è appena accaduto in Italia. «C’è stato un evento che ha interessato non soltanto noi, ma l’Italia intera. Una lunga e non serena campagna elettorale, e poi le elezioni politiche di cui già conosciamo i risultati, che in una democrazia matura devono essere accettati e rispettati. I risultati dunque li conosciamo. Attendiamo ora che il nuovo Parlamento si insedi, che il Governo sia formato e si metta all’opera. Ora non è più tempo di parole ma di fatti per dimostrare che governare un Paese significa realizzare il bene comune non con strumentali finalità ma con sincerità di intenti. Bene comune vuol dire soprattutto il bene dei ceti più poveri e svantaggiati della nostra società».
Ciò che consola ma anche tormenta, in queste parole di un cardinale, è la chiarezza con cui la sequenza delle vicende italiane è descritta.
Provate a smentirle. Primo, le elezioni sono finite, sono state vinte, e la democrazia matura le accetta. Secondo, è evidente il messaggio del risultato delle elezioni: governare per il bene di tutti e non con strumentali finalità. Terzo, che cosa si aspetta a dare seguito ai risultati e mettere il Parlamento in condizione di riunirsi e il Governo in condizione di cominciare a governare? Si può essere più chiari?
È un testo (rileggete, vi prego, il virgolettato) che non nasconde l’ansia di un cittadino democratico per lo “stallo” che non esiste. Ma è stato creato con «strumentali finalità» e ci butta in un tempo vuoto e con un pericolo immenso.
Nell’ansia del cardinale c’è una domanda che è anche un ammonimento autorevole: «che cosa aspettate?».
Ma se le parole di Saverio Poletto sono chiare, non prendetele come la controprova che Silvio Berlusconi sia uno stravagante che, per autodifesa interiore, ha scelto di separarsi dalla realtà.
L’uomo è un calcolatore accorto che si muove fuori e lontano dalla «democrazia matura», continuamente mosso da «finalità strumentali».
Questa volta la finalità strumentale è non far finire la campagna elettorale. Se finisce, lui ha perso. Se non finisce, le sue probabilità di rivincita aumentano di giorno in giorno, a mano a mano che si espandono il silenzio istituzionale e il vuoto in cui sono stati lasciati gli italiani.
Ha teso una trappola: discutiamo di possibili accordi.
Deliberatamente butta sul tavolo questioni che hanno mobilitato l’opposizione democratica fino all’ultimo voto. La giustizia, per esempio, e l’umiliante precariato del lavoro.
Cadere nella trappola vuol dire sciogliere le fila di una grande mobilitazione civile, mandare a casa chi si è battuto per vincere anche senza Tv e senza miliardi.
Tutta la gente che non si lascia dire di aver dato l’anima per questa vittoria (senza neppure sapere i nomi di coloro per cui votava, a causa della «porcata» detta nuova legge elettorale) e poi sentirsi annunciare che «si può trattare» prima ancora di sapere che Romano Prodi ha ricevuto l’incarico.
Berlusconi, il candidato battuto, sa fare bene una cosa, con rabbia e dovizia di mezzi: la campagna elettorale. La sta facendo, proprio mentre alla sinistra giungono segnali, (per fortuna solo da parte di alcuni) di benevola smobilitazione. E mentre la vittoria, faticata, rischiata e conseguita, continua a non diventare un incarico di governo.
Berlusconi sta dimostrando di poter continuare a tenere sotto ferreo controllo mediatico la sua metà dell’Italia. Ha perso, ma non gli importa. Lui non è stupido come Al Gore o John Kerry, che hanno pensato prima di tutto alla pace istituzionale del loro Paese. Lui tiene tirata la corda dello scontro, tiene la tensione altissima. Lui stesso, e chi lo rappresenta, rifiutano ogni gesto di accettazione democratica. Fino al punto da fare in modo che manchi al legittimo risultato elettorale del nostro Paese il riconoscimento degli Stati Uniti. È un fatto su cui andrebbe concentrata tutta l’attenzione dei leader della coalizione vittoriosa. Chi sta mentendo all’America, Berlusconi o il suo ministro degli Esteri Fini? Non sarebbe il caso di chiedere un chiarimento all’ambasciatore degli Stati Uniti che è uomo esperto, buon conoscitore del nostro Paese e che certo ha a cuore la profonda amicizia fra i due Paesi, radicata nella storia della nostra libertà, del nostro diritto di decidere col voto?
È vero, la situazione è grottesca, ha venature di ridicolo. Ma una cosa occorre oggi riconoscere, una cosa che su questo giornale abbiamo detto fin dall’inizio. Berlusconi, che adora se stesso ed è davvero convinto di avere sempre ragione, è un pericolo per la democrazia.
In questi lunghi giorni di inspiegabile silenzio istituzionale, lui e i suoi stanno sbarrando la porta al verdetto del voto. Lui vede benissimo il rischio in cui sta buttando l’Italia. Lo calcola. Gli giova che tanti, che dovrebbero essere infaticabili e senza pace come lui, ma in senso opposto, in difesa della democrazia, sembrano non notare il pericolo.
Tre sono i risultati che Berlusconi sta incassando con la sua azione eversiva: tiene in ostaggio il Paese affinché, in un modo o nell’altro, la sua sconfitta venga annullata. Pone una minaccia pesante sul futuro italiano. Tiene i suoi mobilitati e pronti a nuove elezioni, che sono il suo vero progetto, contando sulla smobilitazione di chi ha votato per mandarlo a casa e ha vinto.
Non so rispondere, nelle frequenti interviste con le televisioni europee e americane, alla domanda: perché glielo lasciano fare? È vero, è ricco, è potente, controlla i media, possiede molti giornalisti, è senza scrupoli. Ma perché glielo lasciano fare, visto che ha perso? I colleghi della stampa internazionale notano che, a volte la fermezza di Prodi appare isolata. Lo si lascia a patire l’oltraggio del negato riconoscimento della vittoria (che è una offesa a una bella parte degli italiani). Una delle due campagne elettorali continua a svolgersi furiosamente, dopo avere provocato una spaccatura che si vuole a tutti i costi allargare.
Per mettere fine a questa situazione mai accaduta (un Paese ostaggio del premier battuto) alcuni esortano a “mediare”. Dicono per esempio che bisogna “mediare” sulla giustizia. Bene, da dove cominciamo, dai «giudici infami» o dai «giudici malati di mente»? Dal complotto delle toghe rosse con l’attività criminale delle cooperative, o della riforma Castelli che trasforma i magistrati in impiegati dello Stato sotto controllo del governo?
Ma il Cardinale ha detto bene. I risultati ci sono. Adesso gli italiani si aspettano che si formi il legittimo governo del Paese. Potrà chi deve proclamare ufficialmente i risultati continuare a non farlo? Potrà Prodi restare il vincitore senza incarico di formare il governo? Come racconteremo questi giorni, che dovrebbero essere di normale e civile alternanza democratica, nei nostri libri di Storia, fra qualche anno? Diremo che soltanto il Cardinale Poletto ha letto i risultati, ha constatato che il vincitore era Prodi e che era bene per il Paese consentirgli di cominciare subito a governare?
Possiamo continuare a dire e a negare i risultati delle elezioni politiche italiane del 9 e del 10 aprile 2006?
la Repubblica
L’uomo flessibile
di Gad Lerner
Da qualche giorno una malaugurata illusione ottica ha posto al centro del dibattito pubblico italiano lo scontro fra due opposti Paperon de’ Paperoni: il miliardario Silvio Berlusconi e il miliardario Diego Della Valle.
La realtà sociale pare quasi indietreggiare cedendo spazio ai due campioni rappresentativi di affascinanti storie di successo. Certo, permane evidente la distanza fra i comportamenti dell’uno e dell’altro patron. Ma la caricatura alla fine ci costringe a semplificare, a scegliere fra due primattori del capitalismo eletti a simbolo di opzioni politiche alternative. Ormai assuefatti come siamo alla crescita esponenziale delle disuguaglianze di reddito, si sono modificate anche le nostre nozioni di giustizia sociale e di rappresentanza dei conflitti.
Al contrario, in Francia sembra tornata la lotta di classe. Con un protagonista nuovo, impossibile da mortificare in una mera dimensione identitaria etnico-religiosa: è scoppiata infatti a Parigi la rivolta dell’uomo flessibile. Che può essere anche bianco, battezzato, insomma figlio nostro.
L’uomo flessibile è quello che più di ogni altro subisce l’apartheid che separa i lavori protetti da quelli che non lo sono, come scriveva ieri Barbara Spinelli su la Stampa. Segnalando la collera di chi vede spezzarsi uno dopo l’altro i fili che dovrebbero tener stretta la società.
In Francia come in Italia, l’uomo flessibile è innanzitutto il giovane condannato a una dimensione esistenziale precaria. Una condizione che secondo i dati resi noti dalla Banca d’Italia riguarda addirittura la metà dei nuovi entrati nel mondo del lavoro nel 2005. Rovesciando le aspettative fino al punto che i giovani laureati, almeno inizialmente, percepirebbero secondo l’Ires Cgil un reddito inferiore ai giovani lavoratori non laureati.
Sono anni che predichiamo a questi giovani la fine del posto fisso. Li incoraggiamo all’autoimprenditorialità. Spieghiamo loro che senza propensione al rischio, senza disponibilità al cambiamento – insomma senza flessibilità – non c’è futuro.
Alla metamorfosi dei sistemi produttivi, all’economia dei downsizing e delle ristrutturazioni, si è infine sommato il nuovo tempo di guerra che è per sua natura il tempo dell’incertezza.
Così il messaggio si fa ancor più confuso. Perché nella morale bellica e nel linguaggio comune un uomo inflessibile resta assai più ammirevole dell’uomo flessibile. Ma è invece dell’uomo flessibile che il sistema mostra di avere bisogno. Senza alcuna garanzia che l’incertezza si traduca in miglioramento. Al contrario.
La flessibilità come virtù è il contenuto prevalente di tutte le modifiche legislative introdotte nel diritto del lavoro e, ancor più, nell’esperienza quotidiana di chi è in cerca di primo impiego. La pretesa ideologica che accompagna tale innovazione è ambiziosissima: si tratterebbe di realizzare una rivoluzione antropologica vincendo un bisogno di sicurezza liquidato come retrogrado. Quasi che l’economia di mercato si incaricasse di realizzare il sogno totalitario in cui prima di lei aveva fallito il marxismo: plasmare finalmente l’uomo nuovo, cioè, appunto, l’uomo flessibile. Prima nel mondo povero, ma adesso pure in casa nostra.
Non voglio qui discutere le stringenti necessità che sospingono l’economia europea a riformare i meccanismi d’accesso e di tutela del lavoro subordinato. Anche se sarebbe meglio verificarne per tempo gli esiti pratici nella mecca del pensiero unico, cioè all’interno del modello sociale statunitense: dovremo pur riconoscere che neanche il prolungato ciclo economico di crescita degli Usa ha invertito la tendenza al peggioramento delle condizioni di vita ai gradini bassi della scala sociale.
Ma senza troppo fantasticare su possibili modelli alternativi, mi limiterei a segnalare una ragione forte che già accomuna i giovani francesi in rivolta e gli ancora fin troppo sottomessi giovani italiani nel respingere come ingiusta la flessibilità prospettata loro.
Da che pulpito viene la predica?
Voltiamoci un attimo indietro e guardiamo come si sono comportati negli ultimi vent’anni i teorici della flessibilità, a cominciare dagli imprenditori italiani e francesi.
Troppo facile elogiare la propensione al rischio quando si tratta di intaccare le garanzie dei soggetti sociali più deboli, e poi rifugiarsi al riparo della concorrenza quando si tratta di proteggersi dal rischio d’impresa.
Perché mai a rischiare dovrebbero essere per primi i nuovi venuti e i poveracci?
Davvero, a cominciare dal nostro monopolista presidente del Consiglio, si è predicato bene e razzolato male. Quanta parte dei profitti industriali viene reinvestita in rendite finanziarie? A quante illegittime spartizioni di mercato abbiamo assistito? Quanti grandi imprenditori si sono rifugiati nella cuccia calda delle concessioni governative? Quanti fallimenti aziendali abbiamo visto corrispondere alle centinaia di migliaia, ai milioni di fallimenti lavorativi individuali? Come ha scritto Richard Sennett ne "L’uomo flessibile" (Feltrinelli): «La manualistica popolare è piena di ricette per il successo, ma non dice molto su come affrontare un fallimento».
Ho sempre saputo che quando si deve incentivare la propensione al rischio e la rinuncia a garanzie di comodo, le élites sono chiamate per prime a dare il buon esempio. Se si deve cambiare, comincino i più forti a indicare la strada difficile, legittimando così i sacrifici richiesti ai più deboli…
Risultato: né i campioni nazionali del modello statalista francese, né tanto meno i protagonisti nostrani dei patti di sindacato e dell’economia di relazione, hanno i requisiti minimi per chiedere ai giovani di trasformarsi in uomini flessibili.
Questo è l’handicap che grava su ogni politica riformista in materia di diritto del lavoro, spiace dirlo a Pietro Ichino e agli altri studiosi che denunciano la plateale ingiustizia dei due mercati del lavoro subordinato: quello di serie A tutelato dai sindacati, e quello di serie B in cui i precari sono abbandonati a se stessi.
La rivolta dei giovani francesi e la silenziosa disillusione dei giovani italiani sono entrambe alimentate dalla scandalosa assenza di credibilità evidenziata dai rispettivi establishment.
La parola "rischio", ricorda Sennett, deriva dall’italiano rinascimentale risicare, cioè "osare". Ma quelle erano società giovani e aperte. I politici europei contemporanei misurano i loro consensi di fronte a un elettorato sempre più anziano, e dunque se non interverranno modifiche radicali nello stesso suffragio universale (per esempio l’assegnazione di più voti alle famiglie con figli minorenni) sarà ingenuo fare affidamento sulla loro lungimiranza.
Ecco allora puntuale riesplodere la tradizionale collera francese, anticipatrice di un moto destinato a spaccare anche la nostra società. I giovani sono David che fronteggiano il Golia della flessibilità, scrive ancora Sennett. Ma la rottura di solidarietà intergenerazionali rischia di avere effetti di lungo periodo non riducibili a un, per quanto biblico, duello. Perché, attenzione: «Un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni agli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità». Si prospetta nella rivolta contro il precariato una vera e propria crisi di sistema. Il capitalismo flessibile emana un’indifferenza agli sforzi umani e al destino delle persone senza precedenti nelle esperienze comunitarie del passato.
La pretesa di forgiare l’uomo flessibile rischia di rivelarsi per lo meno altrettanto nefasta della clonazione umana.
il manifesto
Italia, il paese dove il lavoro costa meno
di Francesco Piccioni
Kpmg mette a confronto i paesi più industrializzati e scopre che siamo un paese dove converrebbe investire, se non fosse per i costi di immobili e trasporti
Ce n'era, nell'aria, la convinzione. Ma serviva qualche dato ufficiale per confermarla. Ora quel dato c'è e l'ha fornito un «insospettabile» come Kpmg, la società americana di revisione dei conti che ha pubblicato i risultati della sua ricerca sul paese - tra quelli già ampiamente industrializzati, in Asia, America ed Europa - in cui «è più conveniente avviare un'attività imprenditoriale». L'Italia si è classificata «solo» al quinto posto, preceduta da Singapore, Canada, Francia e Olanda. Ma bisogna dire che l'indagine prendeva in considerazione ben 27 fattori (come imposizione fiscale, costo dei terreni e degli immobili, tariffe di trasporti e utilities, ecc). Un'agenzia di destra ha commentato entusiastica che «il nostro paese si colloca al quinto posto tra le nazioni con i minori costi e addirittura al primo tra i partner europei per il costo del lavoro». Riportando il dato con i piedi per terra, siamo costretti a dire che «siamo il paese europeo con il costo del lavoro più basso». E non si vede proprio cosa ci sia da festeggiare. Tanto più che, come precisa il rapporto Kpmg, gli elementi maggiormente «dinamici» restano i rapporti di cambio tra le diverse monete (e gli Usa, per esempio, hanno «migliorato» la propria posizione solo grazie alla sostanziosa svalutazione del dollaro) e al costo del lavoro, che «rimane la principale variabile di costo per le imprese» (una dele poche su cui possono agire direttamente, ndr ), sia nel settore manifatturiero che nel terziario e nei servizi». E' chiaro perciò che quei 27 indicatori configurano l'«indice di competitività» capitalistica dell'Italia, su cui tanto si affannano i centri studi di Confindustria et similia , nonché le «fabbriche del programma» di entrambi gli schieramenti politici. Anche così, appare evidente che siamo «mediamente competitivi» per una lunga serie di ragioni, ma tra queste non c'è davvero il costo del lavoro; e che, quindi, proporsi di ridurlo ulteriormente - soprattutto se non dovessero venir modificati altri fattori, come ad esempio il costo dei trasporti, degli immobili o delle utilities - non può migliorare più di tanto la «nostra» classifica. Eppure Prodi si propone di abbattere il «cuneo fiscale» di cinque punti percentuali (ma non si comprende bene se parte di questa fiscalità verrà tradotta anche in quote di salario per i lavoratori oppure andrà tutta a beneficio delle imprese), mentre Confindustria vorrebbe un taglio addirittura di 10 punti. Siamo anche - ma non serve Kpmg per saperlo - il paese con il più alto tasso di precarietà contrattuale, e questo contribuisce molto a deprimere il valore del lavoro (il costo, detto con linguaggio «imprenditoriale»). Pensare di recuperare competitività lungo questa china è una follia palese: dietro di noi, su questa voce di bilancio, ci sono ormai solo i paesi dell'Est europeo; poi, ma si stanno avvicinando a passo di carica, indiani e cinesi. Paesi, bisogna pur dirlo, che non hanno ancora sviluppato un mercato interno. E' questo il «futuro radioso» dell'Italia «competitiva»?
il manifesto
Il Mezzogiorno disoccupato
di R. T
I dati Istat confermano nuove flessioni di occupazione. E in Italia aumenta la precarietà Brutti dati: a fine 2005 il 13,4% dei dipendenti era part-time e il 12,7% con un impiego a tempo determinato. E per le donne, soprattutto nel Mezzogiorno, va ancora peggio
Nel quarto trimestre del 2005 la dinamica dell'occupazione ha registrato un forte rallentamento: +56 mila gli occupati rispetto all'ultimo trimestre del 2004. Secondo i dati Istat, la creazione di nuovi posti di lavoro interessa solamente il Centro-Nord. Al Sud, invece, l'occupazione seguita a diminuire: 38 mila gli occupati in meno, ma soprattutto si segnala la scomparsa di 118 mila persone dal numero delle forze di lavoro. Per quest'ultimo dato negativo possono essere date varie interpretazioni: a) i lavoratori scoraggiati si ritirano dal mercato del lavoro; b) è ripreso alla grande il fenomeno del lavoro nero; c) prosegue la tendenza all'emigrazione. Anche rispetto al trimestre precedente, l'occupazione (i dati questa volta sono destagionalizzati) registra un incremento di 56 mila unità e in questo caso va un po' meglio per il mezzogiorno con un incremento di 19 mila posti di lavoro. Il recupero congiunturale dell'occupazione nel quarto trimestre dell'anno (+0,2%) «appare diffuso a livello territoriale e settoriale - spiega l'Isae - ma risente ancora della spinta proveniente dalle regolarizzazioni dei cittadini stranieri». La regolarizzazione dei cittadini stranieri, aggiunge l'Isae, è riflessa dall'anomalo andamento degli occupati uomini e dalla lieve contrazione del rapporto tra occupati e popolazione. L'immigrazione, anche per la Cgil, è uno dei motivi che spiegano l'aumento dell'occupazione. Al netto dell'immigrazione, l'occupazione, secondo l'analisi della segretaria confederale Marigia Maulucci, sarebbe «a crescita zero». Anzi, correlando i dati diffusi da Bankitalia (sulle unità di lavoro) la Cgil stima che nel 2005 si siano persi «ulteriori 90 mila posti di lavoro. Ulteriori vuol dire in aggiunta a quelli persi negli anni precedenti, per un totale che si aggira intorno alle 200 mila unità». Insomma, per la Cgil, l'aumento dell'occupazione è solo una «perversione statistica». Anche dalla Cisl arrivano osservazioni critiche sui dati Istat. Per il segretario confederale Raffaele Bonanni «i dati testimoniano che il tasso di occupazione è più che mai fermo. Il saldo rimane negativo, come dimostra peraltro il dato sul Mezzogiorno. In un paese che ha una crescita vicina allo zero, con una produzione industriale che si riduce sempre più, i consumi rimangono fermi, non c'è da farsi illusioni che ci siano segnali di dinamismo sul fronte occupazionale». Tornando ai dati Istat, a fine 2005 gli occupati ammontavano a 22,685 milioni, dei quali circa il 50% al Nord. Un po' meno di 2 milioni i disoccupati collocati per oltre il 54% al Sud. Il tasso di disoccupazione all'8% totale, oscilla tra il 4,7% del Nord e il 14,2% del Sud (dove «misteriosamente» è diminuito dello 0,8% su base annua pure in presenza di diminuzione degli occupati). Come al solito il Sud è anche penalizzato sul fronte dei tassi di attività maschili, ma soprattutto femminili. Un solo dato: nel Nord-Est il tasso femminile si colloca al 59,3%, nel Mezzogiorno precipita a 38,4%. Altro dato interessante, ma preoccupante per la qualità del lavoro, è quello che riguarda gli occupati dipendenti a tempo parziale: alla fine dello scorso anno erano 2,233 milioni, 149 mila in più (+7,1%) rispetto al 2004. In totale il 13,4% dei dipendenti lavora part-time e la percentuale sfiora il 26% per le donne. La conferma di questi dati si ha dalle ore lavorate: il 18,3% degli occupati lavora meno di 30 ore settimanali e il 2,1 meno di dieci ore. Per le statistiche basta un'ora di lavoro per essere considerati occupati. In crescita anche il numero dei dipendenti precari, cioè a termine. In totale sono 2,121 milioni (1,01 milioni maschi e 1,2 milioni donne) 159 mila (+8,1%) in più rispetto al 2004. Il 12,7% di chi lavora ha contratti a termine (58,1% in agricoltura) e come al solito sono le donne (15,6% sul totale) anche se è in forte crescita (+11,2% nell'anno) la componente maschile che lavora a termine.
il manifesto
Occupazione, che gran confusione
di Aldo Carra
Il comunicato Istat sulle forze di lavoro di ieri ci ha informati che gli occupati nell'intero anno 2005, rispetto al 2004, sono aumentati di 158.000 . Il primo Marzo, cioè venti giorni fa, l'Istat ci aveva detto che le unità di lavoro occupate , tra 2004 e 2005, erano diminuite di 102.000. Viene da chiedere: l'occupazione diminuisce o aumenta? Come orientarsi nel mare delle statistiche? Questa domanda non ce la poniamo solo noi in Italia. Se l'è posta, nel numero di Marzo, anche la rivista francese «Alternatives Economiques» dedicando con un bel dossier di 15 pagine dal titolo "I numeri sono affidabili?" La risposta che trapela nella lunga carrellata della rivista è: bisogna torturarli, farli parlare, ma non pretendere che ci possano dire quello che non sanno. Purtroppo gli utilizzatori di statistiche sono sempre più costretti a ricorrere a questa pratica, naturalmente innocua se applicata a numeri. Proviamo ad applicarla per capire se la verità è quella del 1° Marzo o quella del 21 e facciamolo spulciando nei successivi documenti dell'Istat. Sui dati delle unità di lavoro la lettura è netta: meno 102.000 senza discussione. Ma le unità di lavoro sono una entità di non facile comprensione. Sono, come spiega l'Istat, una misura standard di occupazione omogenea che equivale al lavoro prestato nell'anno da un occupato a tempo pieno. In soldoni due lavoratori a metà tempo fanno un lavoratore a tempo pieno e, quindi, una unità di lavoro. Le unità di lavoro, perciò, non sono «teste»: se viene licenziato un lavoratore a tempo pieno ed al suo posto ne vengono assunti due a part-time, le teste aumentano, le unità di lavoro no. E' a questo che si era attaccato il governo contestando, il primo Marzo, i dati delle unità di lavoro che davano una flessione. Adesso naturalmente il governo gongola ed esalta i dati delle forze di lavoro perché essi, invece, misurando le teste, cioè il numero di persone occupate indipendentemente da quanto lavorano, ci mostrano un aumento di 158.000 occupati. Ma sarà poi vero che gli occupati delle forze di lavoro, cioè le teste, aumentano? Ripercorriamo brevemente quello che l'Istat ha detto. Secondo trimestre 2004: le forze di lavoro aumentano di +40.000, ma questo dato «sconta il forte aumento della popolazione residente tra 2003 e 2004». Primo trimestre 2005 : occupati +308.000, ma «ancora una volta tale risultato incorpora il forte aumento della popolazione residente determinato dall'incremento dei cittadini stranieri registrati in anagrafe». Terzo trimestre 2005: occupati +57.000 «un aumento in marcato rallentamento rispetto al passato. Il risultato sconta l'attenuazione degli effetti dovuti alla regolarizzazione dei cittadini stranieri registrati in anagrafe». Quarto trimestre 2005: gli occupati sono aumentati di 56.000, ma «il risultato risente ancora degli effetti della regolarizzazione dei cittadini stranieri». Insomma, l'Istat continua a ripetere che la rilevazione da un risultato (aumento), ma lascia intendere che la verità è un'altra. Il problema vero è che nel 2004 e 2005 sono entrati nella rilevazione i lavoratori stranieri che si sono regolarizzati ed iscritti all'anagrafe, che non sono nuovi occupati, perché lavoravano anche prima, ma solo lavoratori sommersi che sono emersi.Purtroppo, però, l'Istat continua a non quantificare questo effetto, non depura i suoi dati da esso e continua a fornire, così, un dato che non ci da una buona rappresentazione della realtà. Sia l'Ires-Cgil che la Banca d'Italia, invece, producono stime ormai da diversi mesi arrivando a risultati simili. Aggiornando ad oggi le stime Ires, poiché l'effetto regolarizzazione tra 2004-2005 è stimabile in 250.000 occupati, se ne ricava che nel 2005 le forze di lavoro hanno registrato non un incremento di 158.000, ma un decremento di circa 90.000 occupati. Quindi non solo sono diminuite le unità di lavoro, ma sono diminuite anche le «teste». Come si vede torturando i numeri con gli stessi strumenti che l'Istat fornisce, le spiegazioni si trovano. Insomma, tra 102.000 unità di lavoro in meno e 158.000 occupati in più c'è uno scarto di 260.000. Se esso è dovuto agli stranieri regolarizzati ed ai cassintegrati che gonfiano artificialmente le forze lavoro il dato di oggi si spiega, anche se non si giustifica: la verità rimane quella del primo marzo e l'Istat farebbe bene a chiarirlo. Resta in ogni caso una amarezza: non potrebbe l'Istat stesso fornire il dato esatto dei lavoratori stranieri regolarizzati o almeno una stima evitando così agli utilizzatori di torturare i numeri per trovare la verità e, soprattutto, evitando di fornire, nello stesso mese, due dati che si prestano a due letture contrapposte?
Ancora scontri e saccheggi a Bengasi per la maglietta di Calderoli. Trenta morti e duecentotrenta feriti in Nigeria, per le vignette su Maometto e per un atto di profanazione del corano in una scuola. Manifestazioni islamiche, chiese cristiane incendiate e arresti in Pakistan (altro seguirà, in occasione della visita di Bush) e in Afghanistan, con gli studenti che minacciano di arruolarsi in Al Quaeda. Fatwa di condanna a morte del vignettista danese emanata da un tribunale islamico in India. Il quotidiano saudita Shamschiuso dal ministro dell.informazione per aver riprodotto alcune vignette, il quotidiano russo Nash Reghionchiuso dalla proprietà per la stessa ragione. E non basta, perché se Atene piange Sparta non ride: in Nuova Zelanda a sentirsi offesa non è l’islam fondamentalista ma la chiesa cattolica, e la colpa non è delle vignette sul Profeta ma la serie tv di cartoni animati «South Park», già annullata negli Stati uniti su pressione di un gruppo cattolico, che fa satira (non granché fine) su una statua della Madonna sanguinante, donde l’invito dei vescovi a boicottare i prodotti pubblicizzati dall.emittente. Mentre poco più in là, in Australia, il primo ministro Howard dà alle stampe un libro in cui stigmatizza la diversità culturale degli immigrati musulmani definendola «antagonistica e inassimilabile», e assesta così l’ennesimo colpo al multiculturalismo australiano.
Non è lo scontro di civiltà, se non nei desideri di chi lo attizza, e anzi a saperla leggera distintamente è una mappa del conflitto diversificata, che spacca al suo interno il mondo islamico (e quello cristiano) e in cui giocano fattori sociali e politici locali di segno perfino opposto. Ma certo è una guerriglia globale in cui le religioni hanno ormai conquistato un ruolo simbolico e politico primario, e da comprimarie giocano sulla scena politica contrattando con i governi fatwe, libertà d’espressione, limiti etici ed estetici. Ed è - si badi - una guerriglia tutta interna al campo politico e culturale che nel lessico politico occidentale corrisponde alla destra, e che in termini globali sarebbe più preciso definire come il campo che ha per posta in gioco principale quella dell’identità. Per ragioni identitarie il quotidiano danese (di destra) pubblica le vignette anti-Maometto, per ragioni identitarie gli islamici fondamentalisti si sollevano per ogni dove. Per ragioni identitarie Howard stigmatizza gli immigrati islamici (inventandosi un.identità australiana che non c’è, essendo a sua volta una stratigrafia di identità ridisegnate e reimmaginate dalle immigrazioni di due secoli); per ragioni identitarie Calderoli brandisce la sua maglietta contro gli immigrati islamici in Italia come l’aglio contro le streghe, e lungi dal battersi il petto incassa il risultato dei morti di Bengasi per la campagna elettorale identitaria che la Lega si appresta a fare associando alla ricerca dell’identità perduta padana quella siciliana.
Quattro anni e mezzo dopo l’11 settembre ovunque nel mondo si va facendo chiaro che il conflitto non è fra due civiltà ma fra una politica dell’identità e una politica non identitaria, ovvero declinata sulla differenza e capace di mettere in relazione le differenze. Solo che mentre le destre e i fondamentalisti sull.identità hanno le idee chiare e le armi affilate, sulla/e differenza/e le sinistre e i laici hanno le idee confuse e l’argomento unico della tolleranza, che è un argomento dai confini incerti (chi e in base a che ne decide le soglie?) e sempre a rischio di sfumare o nell.indifferenza per l’altro o nell .assimilazione dell’altro. Senza affrontare questo problema che dà il timbro al mondo presente, è inutile sperare in qualsivoglia palingenesi elettorale. Com’è stato inutile affidarsi alla mitologia europeista, se sotto il sorriso delle vignette è pronta a riemergere del vecchio continente più la radice delle guerre di religione che quella del sincretismo etnico e culturale.
Titolo originale: A Big Government Fix-It Plan for New Orleans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
BATON ROUGE, Louisiana – Nel panorama di vuoto politico del post-Katrina, punteggiato dalle macerie di varie proposte, ricette che si sgretolano e iniziative alluvionate, un oscuro e molto conservatore membro del Congresso è entrato in campo con una soluzione finale decisamente statalista.
Il deputato Richard H. Baker, repubblicano eletto nei collegi suburbani di Baton Rouge, che deride i democratici perché non sufficientemente favorevoli al libero mercato, è l’improbabile campione di un piano di edilizia residenziale d’emergenza che farebbe dell’amministrazione federale il principale proprietario immobiliare di New Orleans: almeno per un po’. Baker ha proposto che la Louisiana Recovery Corporation stanzi ben 80 miliardi per estinguere mutui, ripristinare le opere pubbliche, acquisire enormi pezzi devastati di città, ripulire il tutto e rivenderlo ai costruttori.
Desperatamente alla ricerca di un intervento di grande scala all’enorme problema immobiliare della regione, rappresentanti politici e operatori economici della Louisiana di tutte le gradazioni – neri e bianchi, repubblicani e democratici – hanno adottato questo poco conosciuto uomo del Congresso e il suo grandioso progetto, definendolo un passaggio cruciale. Anche se la Casa Bianca deve ancora firmare, ci sono già segnali che alcuni alti esponenti del Congresso siano interessati a sostenerlo; Baker ha detto che i funzionari dell’amministrazione non l’hanno comunque respinto.
L’approvazione del disegno sta diventando sempre più importante per la Louisiana visto che lo stato ha perso la contesa col maggior peso politico del Mississippi lo scorso mese, quando il Congresso ha votato un pacchetto da 29 miliardi di dollari per la regione degli stati del Golfo. Lo stanziamento da’ al Mississippi circa cinque volte tanto per famiglia in aiuti all’abitazione di quanto non riceva la Louisiana: a riprova del peso del governatore Haley Barbour del Mississippi, ex presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, e del Senatore Thad Cochran, che presiede lo Appropriations Committee.
I rappresentanti della Louisiana affermano di essere stati obbligati a votare a favore, perché altrimenti avrebbero potuto anche non ricevere alcun aiuto. Ma ora si concentrano anche con più intensità sul piano di acquisizione di Baker; molti economisti qui sostengono che non ci sono alternative, per i proprietari che non riescono a pagare le ipoteche sulle proprietà devastate.
”È probabilmente una delle ultime speranze per chi ha avuto la casa allagata e non era coperto da un’assicurazione” sostiene Loren C. Scott, economista emerito alla Louisiana State University. “Senza questo tipo di sostegno, ci sarebbe un numero notevole di persone che potrebbero semplicemente affondare”.
James A. Richardson, direttore del Public Administration Institute alla stessa università, dice “È l’ultima scommessa possibile, per certi versi”.
L’oppositore politico a Baker nella delegazione della Louisiana al Congresso, William J. Jefferson, democratico di New Orleans, sostiene che l’approvazione del disegno è importante.
”Senza – dice – i proprietari hanno poche possibilità di recuperare il valore che hanno perso”.
Secondo il piano, la Louisiana Recovery Corporation entrerebbe in campo ad evitare inadempienze, in modo simile a quanto fatto dalla Resolution Trust Corporation attivata dal Congresso nel 1989 col settore del risparmio e prestiti. Si offrirebbe di rilevare dai proprietari, a non meno del 60% del valore prima dell’uragano Katrina. Agli erogatori del prestito sarebbe offerto sino al 60% di quanto loro dovuto.
Per finanziare la spesa, il governo emetterebbe obbligazioni legate in parte alle vendite di terreni ai costruttori.
I proprietari non dovrebbero necessariamente vendere, ma chi lo fa avrebbe un’opzione a ricomprare dall’ente. L’ente federale non avrebbe nulla a che vedere con gli interventi urbanistici sui terreni; questo spetterebbe alle amministrazioni locali e ai costruttori.
Per passare, la proposta richiederà alla fine il sostegno della Casa Bianca. E i segnali, secondo questo solido repubblicano che vanta un sostegno quasi totale dai gruppi conservatori, sono stati vari.
Il Presidente Bush, nel corso di un viaggio in auto insieme a Baker lo scorso settembre “ha capito”, come insiste Baker in un’intervista dal suo ufficio, nella città che rappresenta in modo discreto da due decenni a Washington. “È stato molto aperto a riguardo. Mi ha detto, ' lavoraci su e vai da Hubbard' “ ovvero il massimo consigliere economico di Bush, Allan B. Hubbard.
Quando il Congresso stava per riunirsi lo scorso mese, col piano in sospeso, Baker ha ricevuto una domenica mattina la visita di Donald E. Powell, vicerè del Presidente per la ricostruzione della Costa del Golfo. Baker racconta che Powell era “più a suo agio” con la proposta ma ancora non del tutto convinto dopo un’ora di discussione. Il disegno fu respinto, nonostante le manovre riuscite per compattare la variegata rappresentanza della Louisiana a sostegno e gli appelli del mondo economico. Eppure, fra promesse dei senatori di riprendere rapidamente il progetto quando il Congresso si riunirà, e segnali che la Casa Bianca non ha voltato le spalle, il prudente Baker pensa che le sue chances siano migliori che mai.
Sean Reilly, membro della Louisiana Recovery Authority, afferma che Powell gli ha riferito come la Casa Bianca fosse “entrata” nel concetto ma avesse bisogno di riguardare un po’ l’idea.
”Ci siamo andati molto vicino” dice Walter Isaacson, vicepresidente della Louisiana Recovery Authority, istituita dal governatore per sovrintendere la ricostruzione. I massimi consiglieri della Casa Bianca “fondamentalmente apprezzano il principio” sostiene. E hanno fatto promessa di “collaborare con voi, e metterlo nella corsia preferenziale” per le udienze a Senate Banking, Housing and Urban Affairs Committee, continua Isaacson.
I colleghi conservatori di Baker, dentro e fuori il Congresso, si preoccupano delle dimensioni enormi dell’intervento proposto. All’interno dello House Financial Services Committee, parecchi membri hanno tentato di limitare spesa e durata del provvedimento, o di mirare ad una gestione in pareggio. “È irresponsabile per il Congresso firmare un assegno in bianco, pescando dai contribuenti americani, guidati dalla sola immaginazione dei politici” ha dichiarato il deputato Jeb Hensarling, repubblicano del Texas. “Dobbiamo assicurarci che non venga chiesto di pagare di nuovo, fra due o tre anni, per la stessa calamità”
Ai suoi critici Baker risponde: “Se non questo, che altro? Le risposte non sono valide”.
Un realistico volo di primo impatto sui quartieri devastati di New Orleans l’ha convinto che soluzioni ordinarie non funzionerebbero. Qui c’era un problema che superava le possibilità dell’impresa privata. “In questo caso, è saltato tutto” dice Baker. “Eliminazione totale. Così ha pensato che ciò richiedesse un rimedio senza precedenti. Se non lo facciamo, cosa sarà della regione fra due anni?”.
Tranquillo, bene educato e con l’aria da chierichetto da figlio di un pastore, Baker ha trascorso anni misurandosi con gli arcani della regolamentazione dei servizi finanziari. Con la calma di un uomo abituato a riunirsi coi banchieri per ragionare sui documenti di bilancio, espone tutto: decine di migliaia di proprietari di casa esposti, che devono milioni di pagamenti ipotecari su proprietà di dubbio valore, a vari istituti di prestito.
Sforzo pieno di paradossi, il suo. Baker ha dedicato gran parte della sua carriera al Congresso tentando di imbrigliare i giganti semipubblici Fannie Mae e Freddie Mac, affermando che hanno troppo potere. Ora, “favorevole come sono al libero mercato” dice, vuole che il governo agisca in modo che non ha precedenti.
Un’altra stranezza di Baker è la sua quasi invisibilità, anche nel suo collegio, al punto che “la maggior parte delle persone a Baton Rouge non lo riconoscerebbero” sostiene Wayne Parent, professore di scienze politiche alla Louisiana State University. In uno stato che da’ un cento valore alla visibilità dei suoi politici “Non si sente molto parlare di lui” dice Parent. E pure, Baker è improvvisamente balzato all’avanguardia della classe politica della Louisiana, evidentemente povera di idee.
È stato eletto in un collegio suburbano principalmente bianco, una zone relativamente ricca per gli standards della Louisiana, storicamente ostile a quella che fu la grande città dell’est. Ma la sua iniziativa potrebbe risultare di grande beneficio soprattutto agli afroamericani di New Orleans.
In parlamento, la sua proposta è stata adottata dei liberals – “Credo sia una buona idea” ha detto il deputato Barney Frank, democratico del Massachusetts – e schivata da molti conservatori. La proposta è valida “quanto il modo in cui la si usa” dice Isaacson. “La mia sensazione è che possa rappresentare una verifica di quanto è sincera l’amministrazione quando afferma di volere un attento e intelligente sforzo di ricostruzione”.
SIA a sinistra sia a destra si cerca e si vuole un presidente della Repubblica gradito alle due parti in causa. Questo è bene. Il Capo dello Stato rappresenta la nazione nella sua unità e non può essere espressione d’una sola forza politica. Infatti, non appena eletto e quali che siano la sua biografia, la sua cultura, le sue convinzioni, egli si affretta a porsi al di sopra delle parti e proclamare la sua autonomia nei confronti di chiunque. Così è sempre stato, almeno a parole. Talvolta anche nei fatti.
Non è però quasi mai accaduto nei 60 anni della nostra storia repubblicana che al Quirinale sia andato un uomo scelto al di fuori del Parlamento e dei partiti che vi sono rappresentati. Gronchi era democristiano e leader d’una delle correnti di quel partito. Così pure Antonio Segni.
Così Cossiga. Leone fu utilizzato da tutti i democristiani che volevano bloccare l’ascesa di Moro. Saragat era fondatore e capo dei socialdemocratici e si contrappose a Nenni. Pertini, socialista e partigiano, fu di fatto candidato dal Pci. Scalfaro fu scelto per superare lo stallo tra Forlani e Andreotti. Dunque tutti uomini di partito e di lunga militanza.
Restano il primo e l’ultimo di questa cronologia: Einaudi e Ciampi. Provenienti entrambi dalla Banca d’Italia. Ma Einaudi era, con Benedetto Croce, uno dei massimi esponenti del liberalismo e del partito che ne era l’espressione. È rimasto celebre anche per aver nominato presidente del Consiglio Pella senza neppure aver consultato i presidenti delle Camere, attenendosi alla lettera della Costituzione ma scavalcando il rito delle consultazioni.
Perciò, a ben guardare, l’unico esempio d’un presidente scelto al di fuori dei partiti e dello stesso Parlamento è stato Carlo Azeglio Ciampi. Dal punto di vista dell’arbitro imparziale e garante della Costituzione, così come è concepito nella nostra architettura istituzionale, è stato certamente quello che meglio di tutti ha rappresentato la nostra massima autorità di garanzia.
Si è parlato molto in questi giorni a proposito dei modi della sua elezione, di metodo Ciampi. Se ne è parlato in maniera imprecisa e spesso con lingue biforcute. La sua candidatura fu proposta da Veltroni, allora segretario del Pds, a Fini il quale convinse Berlusconi mandando a gambe all’aria un’intesa precedentemente intercorsa tra D’Alema (allora presidente del Consiglio) Marini e lo stesso Berlusconi sul nome della Russo Iervolino. Da due manovre incrociate e condotte all’insaputa dell’interessato che a tutto pensava fuorché a ricoprire la massima carica dello Stato, nacque la migliore e oggi giustamente rimpianta presidenza che la Repubblica abbia avuto nei 60 anni della sua storia.
In questi sessant’anni le maggiori forze politiche hanno avuto accesso a quella carica, vi si sono anche succeduti cattolici professi e laici. Ma mai una donna e mai un comunista. Dal 1989, caduta del Muro e fine del Pci, sono passati diciassette anni e si sono succeduti tre presidenti della Repubblica ma ancora nessun ex o post comunista è mai stato insediato al Quirinale. Il presidente del Consiglio uscente ha condotto l’intera sua campagna elettorale all’insegna dell’anti-comunismo (che non c’è più) e ancora due giorni fa comiziando a Napoli ha confermato che mai e poi mai «un comunista» varcherà quella soglia. Si riferiva a D’Alema, proprio mentre molti dei suoi collaboratori e consiglieri si affrettavano a smentire ogni discriminazione e alcuni di essi tifavano e tifano in favore del leader dei Ds.
Qual è dunque, in questo guazzabuglio, la reale posizione di Silvio Berlusconi e del partito di sua proprietà che ha raccolto e quindi rappresenta il 24 per cento del corpo elettorale (9 milioni di italiani su 36 milioni di votanti)?
Se capisco bene (ma posso anche sbagliarmi) Berlusconi e Forza Italia si sono rassegnati a D’Alema presidente della Repubblica; alcuni di loro addirittura pensano che quella sia la soluzione ottimale. Però non sono in grado di votarla. Si augurano che il centrosinistra lo voti compattamente. Lo elegga con i propri voti che, dalla quarta votazione, sono - almeno sulla carta - ampiamente sufficienti: 547, quarantuno in più del quorum di 506 necessario per l’elezione.
Poi, una volta eletto, Forza Italia e Berlusconi lo riconosceranno e lanceranno più di un ponte nei suoi confronti. E la discriminazione anticomunista sarà superata una volta per tutte. Capitolo chiuso.
* * *
A questo schema, allo stato attuale delle cose, si oppongono tenacemente Fini e soprattutto Casini. Casini punta alla fine del berlusconismo. Una presidenza D’Alema favorita o non ostacolata da Berlusconi avrebbe come effetto un consolidamento del Cavaliere alla guida dell’opposizione rinviando a babbo morto i progetti successori dei suoi alleati. La Lega viceversa è sulla scia berlusconiana o addirittura lo precede.
Andrà così? La cartina di tornasole, che dovrebbe rivelarci l’esito di questa complessa partita entro poche ore, sta nella risposta che Berlusconi darà alla candidatura D’Alema quando (e se) gli sarà ufficialmente proposta.
Se risponderà rifiutandola e controproponendo il nome di Letta o di un «esterno» tipo Mario Monti, vorrà dire che Berlusconi non ostacola l’elezione di D’Alema. Sembra un paradosso ma è esattamente così. Oppure il Cavaliere e tutti i suoi alleati sceglieranno un nome all’interno del centrosinistra, per esempio Giuliano Amato o Giorgio Napolitano. In quel caso ci sarà la «larga intesa» e il candidato potrebbe addirittura essere eletto in prima o seconda votazione.
Ma, dettaglio non piccolo, affinché questa evoluzione sia possibile è necessario che il centrosinistra presenti una rosa di candidature e non un solo nome.
Quanto all’ipotesi che la Cdl accetti la candidatura di D’Alema e la voti fin dall’inizio, si tratta d’una soluzione poco probabile ma non impossibile.
In fondo il Cavaliere è anche celebre per i suoi improvvisi capovolgimenti di fronte.
* * *
Fin qui ci siamo occupati di come si stanno predisponendo i pezzi sulla scacchiera del centrodestra. Ma vediamo che cosa avviene nel frattempo nell’opposto schieramento.
D’Alema. Vuole, per sé e per il suo partito, il Quirinale.
Non ne fa mistero. Ritiene che l’intera coalizione debba votarlo. Conosce la posizione di Berlusconi. Non dispera che qualche drappello di parlamentari berlusconiani nel segreto dell’urna si unisca alla sua maggioranza e serva a rimpiazzare qualche dissidente di casa propria (per esempio i radicali). Tutta la strategia, sua e di Fassino, è concentrata nell’evitare candidature plurime. In più, per vincere l’ostilità e la perplessità degli interlocutori, Fassino propone un programma di politica costituzionale condivisibile con il centrodestra.
Sarebbe una novità assoluta. In sessant’anni non c’è mai stato un candidato al Quirinale che abbia preventivamente (ma neppure successivamente) assunto impegni d’alcun genere salvo il rispetto della Costituzione.
Fassino ha dato atto (in un’intervista al Foglio, accanito sostenitore di D’Alema) che l’idea d’un programma di politica costituzionale sarebbe un fatto profondamente innovativo e anche traumatico ma lo ritiene giustificato dalla divisione in due metà del corpo elettorale e dal fatto che un sistema bipolare richiede profonde innovazioni istituzionali che finora non ci sono state.
Prodi. Segue con apparente distacco questa partita. Lo interessa soprattutto che essa non finisca per coinvolgere e sconvolgere la partita del governo, che avrebbe dovuto precedere e non seguire l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Preferirebbe avere D’Alema nel governo e non al Quirinale, ma non ne fa una tragedia. Fassino lo ha avvertito che comunque al Quirinale dovrà andare un Ds altrimenti liberi tutti. Siamo dunque, per quanto riguarda Prodi, nello stato di necessità.
Rutelli. Si è opposto all’ipotesi di più candidature ed è pronto a votare D’Alema se altri nomi fossero rifiutati o non fatti.
Le altre forze del centrosinistra attendono che la partita si sviluppi. Non hanno molto spazio per impostare un proprio gioco al di là di piccoli dispetti tattici.
* * *
Sia permesso chiudere questa analisi esprimendo un parere personale che deriva da quello che, secondo noi, è l’interesse generale degli italiani. Lo farò per punti per essere il più chiaro possibile.
1. Pensare che le divisioni del corpo elettorale siano ricucite o permangano secondo la persona che sarà eletta al Quirinale è un errore. La gara può affascinare la fantasia, ma ripartire insieme, come si augura Prodi, deriva da quella che sarà in concreto l’azione di governo, non dall’accordo o dal disaccordo tra il centrosinistra e Berlusconi sul nome del nuovo Capo dello Stato. Sono in gioco aspettative e interessi. Anche speranze, anche valori. In fondo il programma costituzionale proposto da Fassino è esattamente quello perseguito da Ciampi per sette anni, che purtroppo però non ha evitato la divisione in due metà del corpo elettorale.
2. È augurabile che al Quirinale sia eletta una personalità col maggior numero di consensi possibile. Dico possibile. Altrimenti bisognerà fare di necessità virtù e contentarsi di varcare la soglia dei 506 voti. E procedere alla formazione del governo.
3. Quello che certamente non si può fare (che purtroppo si è in parte già fatto, come risulta dalla grottesca sequenza di comunicati seguiti all’incontro tra Gianni Letta e Ricky Levi) è di abbozzare una sorta di patto segreto tra i due maggiori contraenti al di fuori di quella trasparenza che viene invocata a parole e regolarmente tradita nei fatti.
4. Una lotta intestina nel centrosinistra è ipotesi da scongiurare a tutti i costi. Dopo una brutta campagna elettorale dividersi nel finale sarebbe catastrofico.
5. Qualora l’ipotesi dovesse affacciarsi all’orizzonte occorrerebbe che i candidati in lizza facessero un passo indietro, come ha già fatto D’Alema di fronte alla candidatura di Bertinotti alla Camera. Passo indietro meritorio; non è detto che debba sempre esser lui a farlo anche se non è escluso che quest’onere ricada di nuovo sulle sue spalle. I veri statisti si vedono in queste occasioni, sia nel pretendere sia nel lasciare.
6. Ci vorrebbe un uomo come Ciampi. Ma non c’è. Mario Monti è sul mercato da troppo tempo e non somiglia affatto a Ciampi. Si sente en réserve de la République da almeno tre anni. Forse è meglio che ci resti. I terzisti non sono al di sopra delle parti, sono dalla parte propria. Non è la stessa cosa.
7. Quando finalmente Romano Prodi riceverà l’incarico è auspicabile che componga il ministero attuando pienamente il dettato costituzionale. Prenda nota delle aspettative dei partiti ma proceda decidendo da solo la composizione del suo governo. Certe inclusioni e certe esclusioni sussurrate nei giorni scorsi appartengono ai riti della lottizzazione e non sono più tollerabili. Vale per il governo, per la Rai, in generale per lo spoils system. Lo Stato è lo Stato ed è o dovrebbe essere degli italiani. Da questo punto di vista Prodi ha una grande responsabilità. Non si chiuda e non si faccia chiudere nell’orticello partitocratico. E neppure nell’orticello prodiano. Veda di mettere la persona giusta al posto giusto e su questo sarà giudicato.
La partita comincia domani. Speriamo che non sia lunga, sarebbe un pessimo segnale. A tutti noi spettatori auguro buona visione pur avendo scarse speranze sulla qualità della medesima.
Caduta, come era prevedibile, l'uscita sulle irregolarità del voto, Silvio Berlusconi continua a tenere su di sé l'attenzione della stampa. A torto. Oggi il paese ha davanti una sola procedura da adempiere: il capo dello stato deve chiamare Prodi per affidargli l'incarico. Sia adesso sia fra un mese, sia Ciampi o sia un altro, non c'è altra scelta possibile. La supposta reticenza del Quirinale a prendere una decisione in fase di scadenza, non muta la decisione. Semplicemente la rinvia. E prolunga il governo di Berlusconi, sia pure nella non pienezza dei poteri di almeno un mese, ma potrebbe essere di più, quando urgerebbe metter fine alle incertezze e passare ai primi famosi cento giorni della sinistra. Rinviarli a petto di una finanziaria e le successive vacanze non è né brillante né del tutto innocuo.
È curioso che la stampa sembri galleggiare fra banalità e gossip. Banale è stata l'uscita di Tremaglia. Banale, anche se indicativa del personaggio, è l'ultima proposta che Berlusconi ha mandato tramite il Corriere della sera alla banda di comunisti che fino a ieri deprecava: patteggiamo assieme un pacchetto essenziale di misure internazionali, interne, economiche, eccetera. Gossip aveva già sollevato ieri la proposta di D'Alema all'opposizione di incontrarsi sull'elezione del nuovo capo dello stato, solo incontro d'obbligo, perché lo si vota a maggioranza qualificata e se, come è probabile, non ci sarà accordo, attraverso più d'un defatigante passaggio. In Italia il presidente della repubblica non è eletto dai cittadini bensì dalle camere, ma (sia detto fra parentesi) non è una buona ragione che a un mese di distanza il paese nulla ne sappia e in nessun modo venga interpellato e tutto si decida in incontri di capigruppo e segreterie. Sta di fatto che si parla di tutto fuorché della sola cosa seria: quale Italia è uscita dalle elezioni, quale fisionomia concreta ha, quale giudizio ne diamo? Non numerico. I numeri sono chiari e denunciano il carattere malefico del maggioritario bipolare, perdipiù in vario modo manipolati, che fa sussultare chi creda ancora alla democrazia rappresentativa quando si contempli la distribuzione dei seggi alla Camera e al Senato.
La spartizione dell'Italia in due blocchi quasi equivalenti, ma che se ne dividono diversamente le spoglie nelle coalizioni oscura una realtà politicamente assai più complessa, tagliando fuori interi pezzi di bisogni e di culture. La riduzione al bipolarismo a) oscura l'evidenza che il paese è almeno tripolare b)non rispetta la Costituzione legittimando nel centrodestra forze che in nessun altro paese europeo si ammetterebbero. Noi siamo un paese che più d'una scelta di fondo divide non sulla linea fra le due coalizioni.
Lo divide la contraddizione sociale indotta dal neoliberismo, che unisce quasi tutta la destra a metà del centrosinistra, lo divide lo spirito della Costituzione, che è stato intaccato in diversi modi da tutte e due e renderà non così agevole il prossimo referendum, lo divide l'idea di laicità dello stato. Questioni che, oscurate dal voto, emergono di continuo come trasversalità grazie alle quali ne abbiamo viste negli ultimi anni di tutti i colori. Sul giudizio del paese del resto, mi lasciano perplessi anche le conclusioni di due stimati amici Pasquale Santomassimo sul nostro giornale e Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera. Il primo rimprovera a Prodi non solo e con ragione certe goffaggini e confusioni di linguaggio, ma il non essere andato incontro alla richiesta di diminuire le tasse.
Ma non è questo il cardine di quel privatismo che Santomassimo deplora? Con che altro si pagano i servizi pubblici? Davvero ci si deve limitare al recupero dell'evasione o non si dovrebbe andare a qualche ragionevole forma di redistribuzione? Davvero la proprietà della casa è sacrosanta? Davvero ogni casa è abitata da chi la acquista? Davvero farebbe fuggire i capitali una scure fiscale sulle rendite, immobiliari e non? Quanto al cuneo fiscale, che meglio sarebbe stato chiamare detassazione del lavoro, non è neppur chiaro se quel che i lavoratori riceveranno in più in busta paga corrisponderà a qualche perdita in assistenza, previdenza, scuola e sanità. Dietro al problema delle tasse, sono in ballo davvero due idee di società, privatistica o solidale, uguagliante o disuguagliante. Analogamente non mi persuade che il blocco di centrodestra esprima una realtà finora semplicemente sotto traccia. Non è la stessa cosa votare Alcide De Gasperi o Silvio Berlusconi. Il primo ha messo un argine a destra, il secondo lo ha tolto. E questa non è una differenza da poco.
D'altra parte, quando Giuseppe De Rita, il cui lavoro è sempre di grande interesse, osserva che Prodi non ha parlato al cuore profondo del profondo Nord, ha ragione. Una breve incursione nel medesimo mi ha fatto constatare come esso sia a sua volta diviso fra centri urbani e campagna. I primi più recettivi a qualche problematica progressista. Ma che sono le campagne del nord oggi? Non certo il sinonimo dei campi dai quali a sera rientra il contadino onusto di fatica. Sono il territorio di piccole imprese, il cui gene egoistico è più grosso quanto più piccole sono e nonché il luogo dove riparano sempre più gli abbienti dei centri urbani, in cerca di verde e di comuni fiscalmente meno esigenti. È ai bisogni di questi attori sociali che il centrosinistra doveva parlare? Doveva andare incontro agli umori della Lega? Già la sinistra, e non solo diessina, s'era troppo piegata sul cosiddetto malessere del nord e farebbe bene a interrogarsi perché non più di un anno fa s'era conquistata delle regioni oggi perdute. Converrebbe insomma dare i nomi alle cose, i volti alle persone, la vera natura ai bisogni. Per capirli. Non sempre per andarvi incontro.
Ennesima beffa scientifica, ennesimo sbrego istituzionale, ennesimo inquinamento politico del ministro contro l'ambiente. Domani mattina in pompa magna elettorale, 17 giorni prima del voto, a camere sciolte, il candidato deputato di An Altero Matteoli presenta una Relazione sullo stato dell'ambiente, la prima e l'unica dei governi Berlusconi, con 39 mesi di ritardo rispetto alla scadenza normativa. La legge istitutiva del ministero (luglio 1986) impone di presentare «al Parlamento» una relazione sullo stato dell'ambiente «ogni due anni». La prima risale all'aprile 1989, la seconda al marzo 1992, poi nulla nelle due brevi legislature fino al 1996. I governi del centrosinistra ripresero il ritmo, rispettando l'impegno: due relazioni nei cinque anni di legislatura, la prima a luglio 1997, la seconda a gennaio 2001, entrambe presentate «al parlamento», ovvero a camere operative, con aule aperte, commissioni funzionanti, ordinaria dialettica democratica.
L'attuale ministro contro l'ambiente non ha rispettato impegno e scadenza, nel gennaio 2003 non si è nemmeno scusato del ritardo, il suo capo di gabinetto ha dichiarato il falso in diretta in una trasmissione rai dell'aprile 2005 (citando una presentazione «pochi mesi or sono», mai avvenuta). Ora presenta non al parlamento, ma ad amici e complici, giornali e televisioni una relazione di propaganda elettorale, basata su dati Apat già noti, strutturata sui rapporti mancati del ministero (con l'energia, l'industria, i trasporti, l'agricoltura. il turismo, le aree urbane), con utili allegati purtroppo poco credibili (il governo commenta i protocolli della convenzione delle Alpi che non ha voluto ratificare e un nuovo codice dell'ambiente che non è in vigore!). Tipo lettera Berlusconi ai bimbi appena nati o autoencomio Martino ai giovani non di leva. Propaganda. Domani a Villa Madama. Nella lettera di invito si informa, in modo bizzarro e istituzionalmente sgarbato, che «il Presidente della Repubblica è stato invitato a presenziare la cerimonia»: queste cerimonie si concordano, non si improvvisano! A peggiorare le cose si intuisce una pressione sulla Presidenza che il 17 febbraio ha ricevuto lo schema di decreto legislativo che «terremota» tutta la legislazione ambientale italiana (accompagnata da minacciose dichiarazioni del capo di gabinetto Togni). Dovete sapere che è un testo di 318 articoli e 45 allegati, quasi 1000 pagine, complicate anche solo da pubblicare in un fascicolo della Gazzetta Ufficiale, prive di un essenziale requisito formale (il parere della Conferenza Unificata, quello delle regioni è contrario), prive di una parte essenziale delegata con legge (le aree protette), contestate da molte regioni (con annunciati ricorsi alla Corte Costituzionale), già denunciate dalla Commissione Europea con atto ufficiale del 13 dicembre (tenuto nascosto dal ministro alle istituzioni italiane), piene di impatti negativi sulla certezza del diritto e sul rispetto della natura.
Il Presidente della Repubblica ha chiesto inevitabili svariati chiarimenti. Difficile che si possa rispondere in breve tempo, senza modifiche, senza passaggi collegiali. L'emanazione del decreto ha una scadenza normativa: la legge 308/2004 di delega prevede l'adozione entro 18 mesi, dunque entro l'11 luglio 2006. Quella è la scadenza per l'eventuale firma. Prima ci saranno le elezioni e la legittimazione democratica di una nuova maggioranza parlamentare. Dovete sapere che il governo Berlusconi chiese al parlamento di riscrivere tutta la legislazione nell'agosto 2001, all'inizio della legislatura del centrodestra, come alibi per poter «abolire» di fatto ogni funzione del ministero dell'ambiente concepito come intralcio ai superponti e alle gallerie di Lunardi, ai condoni fiscali e edilizi di Tremonti, agli attacchi al paesaggio di Urbani, alle emissioni di Marzano e Scajola, alle alleanze con Bush contro il protocollo di Kyoto. Visto che la storia andava per le lunghe, nel maggio 2003 il ministro contro l'ambiente fece scrivere a tutti i dirigenti del ministero di «volersi astenere, discutere o anche solo impostare attività» connesse alle materie della delega (cioè tutte!), ribadendo dopo pochi giorni che era «inutile che gli uffici perdano tempo a lavorare sugli stessi temi che poi saranno esaminati nell'ambito della predisposizione dei testi previsti dalla delega».
Con tre voti di fiducia sia al Senato che alla Camera (voti sul governo, non sul provvedimento di merito), la delega è giunta solo a gennaio 2005, il decreto legislativo delegato solo ora, alibi per non aver fatto nulla per tutti i cinque anni. O, meglio, per aver fatto solo favori e danni: commissariato parchi, abolito domeniche ecologiche e città dei bambini, boicottato la strategia europea di riduzione delle emissioni, tagliato fondi e progetti di regioni e comuni su difesa del suolo o qualità dell'aria, favorito l'inquinamento elettromagnetico, e poi ovviamente promosso consulenze clientelari e lottizzazioni partitiche (da cui, fra l'altro, la laurea honoris causa, da ragioniere ad ingegnere!).
Tanto che ora non hanno nemmeno i soldi per il funzionamento ordinario, per l'affitto, per le pulizie. Forse in campagna elettorale dovremmo denunciare di più questo scandalo! E annunciare un patto ambientale con gli italiani, la riconversione ecologica dell'economia e nelle istituzioni, in ogni manifestazione, in ogni intervista, di ogni partito dell'Unione.
PADOVA. «E’ buonissima. E’ meno grassa di una normale mortadella». Romano Prodi si libera dalla «morsa» del telefonino e addenta di gusto una fetta di ocadella, la mortadella d’oca, subito bagnata da un buon bicchiere di prosecco. Sarà anche impegnato in una campagna elettorale estenuante, ma il professore non rinuncia ai piccoli piaceri della vita. Insieme alla moglie Flavia, che lo segue nei weekend, il candidato premier dell’Unione arriva al mattino , a piedi, dalla Fiera, dove ha ammirato orchidee. Al padiglione 7 c’è il tempo di un simpatico botta e risposta con il titolare di una ditta di Montichiari (Brescia). «Abbiamo 25 persone - puntualizza l’imprenditore - che mangiano e dormono in albergo». «Beh», ribatte Prodi, «non vorrà mica farli dormire all’aperto...». Prima di uscire fissa il manifesto del concerto di Joan Baez, in calendario il primo aprile: «Peccato, avrò altro da fare», dice.
Attorno al tavolo della redazione si accomodano anche il sindaco Flavio Zanonato, il vicesindaco Claudio Sinigaglia, il segretario regionale dei Ds Cesare De Piccoli, il segretario provinciale della Quercia Alessandro Naccarato e il segretario cittadino della Margherita Simone Dalla Libera. Un pezzettino di caciotta, due acini d’uva, un bicchier d’acqua e poi si parte con il forum: «Bene», afferma il Prof, «lavoriamo».
Economia, grandi opere, Tav e Mose, ricerca scientifica e innovazione. E poi federalismo e referendum: sono questi i temi del «Forum» nella nostra redazione.
Professor Prodi, partiamo da un tema spinoso: le grandi opere. Lei ha detto che la Tav va realizzata. E per il Mose di Venezia, che pensa di fare. A proposito, lo sa che il governatore Galan si è candidato per sostituire il ministro alle Infrastrutture Lunardi?
«Non lo sapevo. Ma non è faticoso fare meglio di Lunardi. Ci vuole poco, così avremo meno tunnel, meno gallerie. Ma non servirà, perderanno le elezioni...»
Presidente le Grandi Opere: cosa farete?
«Ricordate quella frase di Flaiano: quando si apre una parentesi va chiusa. Bene, lo stesso metodo ci vuole per le grandi opere. Cominciamo dall’alta velocità. Il corridoio Est-Ovest da Barcellona e Budapest-Kiev attraverserà tutta la pianura padana, dal Piemonte al Veneto. E’ un’opera assolutamente indispensabile, per due ragioni: trasportare più merci e liberare i binari attuali per potenziare i treni dei pendolari. Non è possibile che tutta l’area metropolitana veneta e lombarda sia bloccata da eterni disagi: chi si sposta in treno resta bloccato nelle stazioni con ritardi scandalosi. Va trovato un rimedio e senza l’alta velocità non è possibile far partire i treni delle metropolitane leggere. Lo stesso discorso vale anche per l’Emilia, siamo in forte ritardo. Quindi la Tav va realizzata, dopo aver costruito il consenso delle popolazioni coinvolte dal progetto».
Presidente, a Venezia c’è polemica per i lavori del Mose, che drenano tutte le risorse della legge speciale: lei ritiene che le opere vadano completate oppure bisogna cambiare progetto?
«Il Mose mi pare la proposta più forte per salvare Venezia dall’incubo dell’acqua alta. Ma bisogna evitare che la laguna sia abbandonata a se stessa: accanto al Mose vanno finanziati tutti gli interventi necessari a garantire la salvaguardia del complesso sistema lagunare. Il centrosinistra non è contro le grandi opere, ma pretendiamo che i lavori siano fatti come Dio comanda. Purtroppo abbiamo esempi pochi edificanti: la pianura padana è devastata dal cemento e la nostra economia vive non solo sui mega appalti, ma sulle manuntenzioni con cui si salva l’efficienza del Paese. C’è molto da fare: le periferie stanno diventando bombe ad orologeria».
Veniamo da un periodo di grande espansione, seguito poi da una grande depressione. In questi anni, in Veneto, abbiamo perso molto sul piano della competitività. Professore, cosa c’è nel suo programma per rilanciare l’economia?
«Il mio obiettivo principale è la ripresa della crescita. Questo è un Paese che si è fermato. Se non riprendiamo a crescere, non ce la fanno le famiglie e non ce la fa nemmeno lo Stato. La mia proposta concreta riguarda il costo del lavoro e il cuneo fiscale. Ma comprende anche un deciso intervento su ricerca, sviluppo e innovazione. Che non vuol dire, però, Archimede Pitagorico...».
Cosa avete pensato per le imprese?
«In passato abbiamo certamente vantato che piccolo è bello. Ora non è più sufficiente. Spesso le nostre imprese non hanno una dimensione adeguata. Bisogna prevedere incentivi alle fusioni, alle concentrazioni. E poi bisogna riporre una grande attenzione alle esportazioni e ai nuovi mercati».
Professore, la Cina è sempre più vicina...
«Beh, la Cina in casa ti arriva. Il problema è arrivare noi in Cina. Quando, da presidente della Commissione europea, sono andato in Cina, con Chirac e Schroeder, dietro a loro c’era tutto il Paese. Il nostro governo, invece, in cinque anni, non ha fatto una missione in Cina. Sì, è vero, ci è andato il presidente della Repubblica, ma non è la stessa cosa. Si è inaugurato, in questi giorni, l’anno dell’Italia in Cina: ci è andato solo Buttiglione, il teatro era mezzo vuoto. Io sono invece sono convinto che il rapporto con la Cina lo dobbiamo gestire noi. Dobbiamo essere severissimi con chi copia, con chi sfrutta il lavoro minorile. Dobbiamo chiedere controlli alla Pubblica amministrazione, che non ha sorvegliato sugli ingressi di macchinari non sicuri. Non avendo richiesto controlli e sicurezza, ci siamo autocastrati».
E l’immigrazione come la controlliamo?
«Noi dobbiamo avere un’immigrazione di alto livello, che non ha bisogno di essere controllata».
E per l’Università qual è la sua ricetta?
«Sia chiaro, ho tutto il rispetto per chi frequenta Scienze della comunicazione. Ma se gli iscritti a questa facoltà sono il triplo di tutti gli iscritti a Matematica, Fisica e Chimica, hai voglia a costruire lo sviluppo... Se vogliamo davvero rinnovare la nostra industria, servono più periti. Ma io voglio i periti del ventunesimo secolo che, dopo il diploma studiano altri tre anni».
Presidente, ci sono un sacco di giovani preparati che faticano a trovare un lavoro stabile...
«Come si diceva una volta, dobbiamo metterci una mano sul cuore. E’ vero, c’è gente che fa per anni l’apprendista. Ho visto laureati che fanno i fattorini. Se uno dice: “Studio, faccio un grande sacrificio”, poi dovrebbe avere un impiego adeguato a quello che ha studiato. Io credo sia necessario operare una scrostatura delle professioni. Se n’è parlato tanto, ma di vere riforme degli ordini non ce ne sono state. Invece bisogna aprire le porte. A questo proposito, ho avuto un’esperienza con alcuni miei colleghi, professori universitari, arrivati dagli Stati Uniti per una ricerca sul personale degli ospedali. Sono entrati in una struttura e hanno subito accertato che otto primari su undici sono figli di primari. “Qui, è tutto chiaro”, mi hanno detto, “non c’è proprio niente da ricercare”.
Parliamo di devolution ? L’impressione è che il popolo del Nord abbia investito sul federalismo. E’ proprio tutta da buttare la riforma costituzionale del centrodestra?
«Ci sono delle incongruenze che vanno assolutamente sistemate al più presto. Di sicuro ridiscuteremo le competenze regionali. Ad esempio, per quanto riguarda la politica estera delle Regioni, è sotto gli occhi di tutti che siamo di fronte a uno spreco enorme di risorse. E occorre intervenire anche nella politica del turismo. Se voi andate all’aeroporto di Abu Dhabi o Dakar, vedete la pubblicità di una regione italiana, non vi dirò quale, che è grande così (l’onorevole Prodi avvicina pollice e indice). Una propaganda del genere non serve proprio a niente. Ma, tornando alla domanda, andiamo verso una legge elettorale per ogni regionale. Questa sarebbe la fine del mondo...».
Intanto il governatore del Veneto, Giancarlo Galan, accusa il collega del Friuli-Venezia Giulia di alimentare uno smottamento istituzionale. Ci sono già tre-quattro Comuni di confine pronti a passare con il Friuli. Senza dimenticare che un altro Comune ha chiesto di passare con il Trentino-Alto Adige...
«Sul caso specifico non mi pronuncio. Non entro nella controversia perché non la conosco. Certo è che si rischia che prima passino quattro Comuni. E poi altri quattro... Va ribadito un concetto: le Regioni a statuto speciale non sono le Regioni più povere, ma quelle che sono diventate per alcune caratteristiche particolari: la Sicilia, la Valle d’Aosta, e via elencando. Ma quelle sono e quelle restano. Punto».
Lei parla spesso d’incentivi. In particolare, a quali sta pensando?
«Penso ai temi che sto affrontando in questi giorni: il cuneo fiscale e la detrazione per gli affitti. Per queste due proposte le risorse ci sono. D’altra parte, credo di essere credibile nell’uso delle cifre. Io ho fatto il più grande aggiustamento dei conti della storia d’Italia. Ho lasciato il governo (ottobre 1998, ndr) con il 6,5 di avanzo primario. Adesso siamo a zero. Credo ci sia una bella differenza tra 6,5 e zero. Allora, ogni mese, ci arrivava un introito fiscale superiore alle previsioni. La gente aveva capito che il ministro Visco le tasse le faceva pagare. E allora le pagava subito. Adesso, invece, è tutto un condono. Mettiamo che il “nero” sia il 30%. Se mettiamo in bianco, la metà del 30% di nero, il risanamento è già fatto. La prima riforma del governo Berlusconi è stata la rimozione del direttore del Dipartimento delle Entrate (Massimo Romano, ndr). Una sorta di messaggio ai commercialisti: “Ragazzi, alè”».
Torniamo ai temi della formazione e della ricerca. Padova ha un’università antica e prestigiosa, ma il Parco scientifico non riesce a decollare.
«Certo, questo non può avvenire se non c’è un rapporto stretto tra università e ricerca. La ricerca privata è addirittura nulla rispetto all’altra. Io credo sia necessario affrontare il problema della sburocratizzazione dell’università. Bisogna mettere in rete la ricerca con il mondo produttivo. Certo, se si fa archeologia o storia, non è facile fare fatturato. Ma non si può prendere in giro la gente: io m’impegno ad aumentare le risorse per l’università. Voglio anche dare un incentivo agli addetti alla ricerca».
Nel suo libro “Tempo scaduto” Luca Ricolfi ha analizzato il livello di realizzazione del programma elettorale di Berlusconi. Ora però si trova in difficoltà a misurare le 281 pagine del suo programma...
«Io lo sto presentando, giorno per giorno: prima il cuneo fiscale, poi gli affitti. Penso che Ricolfi potrà scrivere un altro libro, che potrà intitolare: “Che bel tempo”».
Allora Presidente, il «faccia a faccia» in tv con Berlusconi si farà sì o no o lei vuole sempre sfidare il tridente?
«Ma certo che si farà. Ho di fronte tre candidati al governo. Nella Casa della libertà non si sa chi sarà il primo ministro, loro dicono che lo farà chi ha più voti. Non a caso sui simboli dei partiti hanno messo i loro nomi: Fini, Casini, Berlusconi. Sia chiaro non mi interessa un confronto in cui si raccontano sogni, si fanno promesse o si parla di astrattezze.
Invece bisogna discutere di ciò che è stato fatto in questi cinque anni. Berlusconi, Fini e Casini non hanno mai governato insieme. Non voglio che Berlusconi possa dire agli italiani: sono stati gli altri che mi hanno impedito di governare. Se nel confronto tv ci saranno tutti e tre, non potranno sfuggire alle loro responsabilità».
A cura di CLAUDIO BACCARIN e ALBINO SALMASO
Titolo originale: Bolivia's new president is no Che Guevara – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
CITTÀ DEL MESSICO – Non si deve sottovalutare l’importanza della vittoria di Evo Morales alle elezioni presidenziali in Bolivia, a causa dei motivi simbolici e per le implicazioni che riguardano il resto dell’America Latina. In una regione dove è sempre esistita una scandalosa concentrazione di ricchezza e potere, avere un presidente che appartiene alla comunità indigena non è un fatto secondario.
La Bolivia è sempre stata un paese paradigmatico: la rivoluzione del 1952 è stata una delle sole quattro vere sollevazioni popolari dell’America latine nel XX secolo (insieme a quelle di Messico, Cuba e Nicaragua); fu tragicamente scelta e in modo sbagliato da Fidel Castro, Che Guevara e Régis Debray a metà anni ’60 come piattaforma di lancio per un movimento di guerriglia esteso a tutto il Sud America; e fu, insieme al Cile, il primo paese a sperimentare le “riforme strutturali” dette Reaganomics in the tropics già a metà anni ‘80.
In modo simile, le campagne antidroga USA spesso fanno riferimento o ripetono quello che da un certo punto di vista è stato considerato un enorme successo: la sostituzione delle colture e l’intervento militare nella regione di Chaparé vicino a Cochabamba, pure a partire dalla metà anni ‘80. In realtà, la coltivazione di coca fu semplicemente trasferita nella zona alta della valle Huallaga in Peru, lasciandosi dietro moltissimi coltivatori infuriati e impoveriti in Bolivia.
Fra questi, naturalmente, c’era Evo Morales, che domenica presterà giuramento come presidente della Bolivia dopo aver vinto le elezioni con 54% dei voti il 18 dicembre.
Oggi c’è uno spostamento a sinistra in America Latina, ma non è omogeneo. I partiti e rappresentanti che emergono dalla vecchia tradizione comunista, socialista o castrista (con l’eccezione dello stesso Castro) tendenzialmente hanno attraversato il Rubicone dell’economia di mercato, della democrazia rappresentativa, del rispetto dei diritti umani e di posizioni geopolitiche responsabili. Sono Ricardo Lago e Michelle Bachelet ch egli è succeduta in Cile, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, e forse anche Tabaré Vázquez in Uruguay.
Ma quelli le cui radici affondano più profondamente nella tradizione populista latinoamericana, come il venezuelano Hugo Chávez, l’argentino Nestor Kirchner e il boliviano Evo Morales, sono di una pasta diversa. Sono molto meno convinti degli imperativi della globalizzazione o dell’ortodossia economica, del valore intrinseco della democrazia e rispetto dei diritti umani, e non aspettano altro che di stuzzicare la Casa Bianca.
La “nuova sinistra” del Cile, Brasile o Uruguay ha una politica interna che sale dalle radici profonde dei problemi: combattere la povertà, ridurre le ineguaglianze, migliorare il sistema sanitario, della casa e dell’istruzione. La politica estera può portare a disaccordi con Washington, ma senza veri attriti.
D’altro canto la sinistra populista non ha molta politica interna, ma fa risplendere le proprie credenziali di sinistra col vecchio metodo: antiamericanismo e politica estera filo-cubana.
Molto probabilmente, questo è quanto farà Morales in Bolivia. Essere troppo radicale non solo gli alienerebbe il sostegno finanziario internazionale, ma potrebbe intensificare le forze centrifughe già presenti delle aree orientali e più ricche della Bolivia. Inoltre, si devono fare enormi sforzi per la lotta alla povertà estrema, ma anche in questo caso i risultati non saranno cosa spettacolare di breve termine.
Quindi Morales dovrà fare ciò che i populisti del suo genere fanno sempre: attaccare Washington e ingraziarsi il sostegno interno: i coltivatori di coca del Chaparé, dove ha cominciato la sua carriera politica anni fa. Ha cominciato in modo non ambiguo per quanto riguarda gli Stati Uniti: i suoi primi viaggi all’estero sono stati all’Avana e a Caracas, e farà tutto il possibile per partecipare al cosiddetto “asse del bene” di Castro e Chávez.
E non solo rifiutando di proseguire col programma di eliminazione della coltura di coca, ma annunciando che intende aumentare le superfici coltivate – visto che la coca è oggetto tradizionale di consumo nelle terre alte boliviane - Morales raggiunge due obiettivi in un colpo solo: imboccare una strada di collisione “ politically correct” con Washington, e usare le frange più estreme del suo sostegno di base, qualcosa che il Presidente George W. Bush capisce molto bene.
Ma in definitiva, è improbabile che Evo Morales diventi un Fidel Castro andino. La Bolivia è tragicamente povera, profondamente dipendente dall’aiuto esterno e ha una storia di instabilità senza paragoni in America Latina. Se gli Stati Uniti giocheranno freddamente la loro partita, e il Brasile entrerà a pieno titolo nel dibattito globale, Morales potrà far notizia, ma non certo la storia. Spero che tutti noteranno la differenza.
(Jorge Castañeda, ex ministro degli esteri in Messico, è autore di “Compañero”, una biografia di Che Guevara, e di “Utopia Disarmata”, sui fallimenti delle rivoluzioni in Sud America)
Chi andrà al Quirinale? Chi a palazzo Chigi? Chi al senato, chi alla camera, chi nei municipi delle città in cui si rinnovano i governi comunali, chi andrà con chi nei movimenti interni ai partiti e alle coalizioni? Anno elettorale, annus terribilis: rischiamo di non sentire parlar d'altro, già non si sente parlar d'altro. E quando il palco della rappresentanza occupa tutta la scena, con le sue luci abbaglianti nasconde sempre quello che rappresentato non è, e talvolta nemmeno rappresentabile. Tutta la politica che si fa fuori da quel palco, non per amore di quelle luci ma per amore del mondo, come diceva Hannah Arendt; e in Italia se ne fa tanta, e si deve non poco a questa politica irrappresentata e irrappresentabile se restiamo in piedi malgrado il declino e malgrado le crepe sempre più profonde nella crosta della politica istituzionale. Auguriamoci dunque che le luci abbaglianti del gioco del «chi» non nascondano troppe cose, fatti e persone più vitali e meno rugosi. Auguriamoci anche di poter restare al mondo e di poter continuare ad abitare lo spazio pubblico senza dover imparare per forza che significa aggiottaggio, insider trainer, plusvalenza, opa, scalata eccetera eccetera. Ci sono lingue che è bene imparare per comunicare con più mondi, e lingue che servono solo per entrare in mondi ristretti che hanno pochissimo da dire. Auguriamoci anche di non impararle, queste lingue ristrette, dalle intercettazioni telefoniche, che sono una schifezza sia che peschino a sinistra sia che peschino a destra. Un buon anno sarebbe un anno che facesse scendere l'Italia nella classifica dei paesi più spioni del mondo.
Un buon anno sarebbe anche un anno che, invece di far diventare pubblico il privato con le intercettazioni sulla stampa e il gossip in tv, facesse ridiventare politico il personale. Fra le due circostanze c'è un abisso, anche se sembra una differenza di dettaglio. Auguriamoci che le manifestazioni prossime venture a sostegno della 194 non si limitino a difendere un diritto ma servano a far uscire dal buco del privato quelle esperienze, ragioni, passioni personali che la politica dovrebbe ridiventare in grado di ascoltare e di raccogliere: che servano a parlare di sessualità e non solo di aborto, di desiderio e non solo di fecondità o sterilità, di amore e non solo di pacs, di relazioni e non solo di matrimoni etero e omosessuali. Auguriamoci anche che facciano tesoro del femminismo degli anni settanta, ma senza somigliargli troppo: c'è già Casini (Carlo) a incarnare l'eterno ritorno dell'uguale, alle donne - come sempre - conviene fare differenza, anche da se stesse.
E naturalmente da come gli altri le vorrebbero. Auguriamoci che le signore scandinave che dovranno per forza, quote rosa alla mano, entrare nei consigli d'amministrazione delle aziende se ne inventino qualcuna per smarcarsi dagli obblighi paritari. Auguriamoci che gli obblighi paritari non diventino un catechismo interiorizzato anche nei paesi come l'Italia, in cui di quote rosa non se ne parla né nei consigli d'amministrazione né nei parlamenti, e non per amore della differenza ma per zelo della misoginia. Auguriamoci che le donne al governo, in Germania in Cile e dovunque siano, mettano un segno di grazia in un mondo sgraziato. Un buon anno sarebbe un anno con la grazia, non quella divina ma quella di cui gli umani sanno essere capaci quando la posta non è lo scontro ma la cura della civiltà.
La tentazione presidenzialista
di Sergio Romano
Confesso di non avere capito se l'Unione abbia fatto un passo indietro per meglio rilanciare la candidatura di Massimo D'Alema o voglia effettivamente discutere con l'opposizione la scelta della persona che dovrà diventare presidente della Repubblica. Ma per il momento, dopo avere letto le dichiarazioni di Piero Fassino al Foglio, dobbiamo presumere che il suo partito non abbia rinunciato a sostenere la candidatura del suo presidente.
Il segretario dei Ds dice che è ora di chiudere la fase della «guerra». Si rende conto che una metà del Paese ha votato per l'opposizione e promette che il governo Prodi «si farà carico delle scelte di chi lo ha preceduto nel nome dell'interesse nazionale». Non vuole una repubblica presidenziale ma sostiene che il capo dello Stato debba essere il garante di una fase nuova e gli assegna quattro compiti. In primo luogo, se vi sarà crisi, dovrà sciogliere il Parlamento e chiedere al Paese di tornare alle urne. In secondo luogo, come presidente del Consiglio superiore della magistratura, dovrà «evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica». In terzo luogo dovrà favorire, sulle grandi questioni internazionali, «la massima intesa possibile». In quarto luogo dovrà vigilare dal Colle affinché, dopo la bocciatura del referendum confermativo sulla riforma del governo Berlusconi, si «porti a conclusione una transizione costituzionale da troppi anni incompiuta». Non è tutto. Per assumere pubblicamente questi impegni il candidato potrebbe presentare «ai mille grandi elettori, che da lunedì voteranno, una specie di programma presidenziale sul quale chiedere un consenso diffuso».
E' un progetto interessante in cui Fassino fa qualche implicita ammissione. Riconosce, senza dirlo espressamente, che vi sono stati cortocircuiti fra giustizia e politica, che la sinistra non può fare da sola la politica estera e che il centrodestra ha avuto il merito di mettere all'ordine del giorno la riforma della Costituzione. Ma contraddice la premessa delle sue dichiarazioni. Quella che il segretario dei Ds ha delineato non è forse una «repubblica presidenziale» ma prefigura uno Stato alquanto diverso da quello in cui, con qualche ipocrisia, abbiamo vissuto negli ultimi cinquant'anni. Nessun candidato al Quirinale, sinora, ha chiesto voti sulla base di un programma. E nessun candidato, in particolare, si è impegnato a sciogliere il Parlamento in una specifica circostanza. La «manovra antiribaltone», che il centrodestra vorrebbe inserire nella Costituzione, diventerebbe così parte integrante del programma presidenziale e darebbe al capo dello Stato un potere di controllo sul governo. Installato al Quirinale, infatti, D'Alema potrebbe aiutare Prodi a mantenere intatta la sua maggioranza (la prospettiva delle elezioni anticipate è un efficace deterrente contro i ricatti di palazzo) ma potrebbe anche orientare indirettamente la linea politica dell'esecutivo.
Quella che Fassino propone, quindi, è una sorta di diarchia, vale a dire una sostanziale modifica del sistema politico come si è andato formando, sulla base della Costituzione, nella storia della Repubblica. Il suo capo dello Stato sarebbe in alcuni casi il «presidente di tutti gli italiani» ma anche, contemporaneamente, il garante del governo in carica e il suo tutore (e tale sarebbe soprattutto se non venisse eletto con una larga maggioranza, ma dopo la terza votazione con il solo sostegno della sua parte). Insomma, quello di Fassino, che piaccia o meno, non è un programma politico: è una riforma costituzionale.
L'altolà della sinistra: no a baratti giustizia-Colle
di Francesco Battistini
ROMA — " Signor colonnello, sono il tenente Innocenzi. Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani" (Alberto Sordi in Tutti a casa, 1960).
Tutti a casa. Se la guerra con Berlusconi è finita, come dice Piero Fassino, c'è una trincea da svuotare subito. Riga 52 dell'intervista al Foglio, punto secondo del Manifesto Per D'Alema Presidente, programma di lavoro del settennato a venire: «Da capo del Csm — dice il segretario ds —, un presidente che eserciti la funzione di garanzia operando, come ha fatto Ciampi, per evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica».
Ventisei parole. Che a qualcuno sembrano il prezzo del Quirinale: «Il nuovo inciucio — commenta Marco Travaglio —. Il segnale l'ha dato Dell'Utri: ripartiamo dalla Bicamerale, arrivano a maturazione altri processi. Telecinco in Spagna, Mediaset e Mills a Milano... Questa è la risposta: se tratti con Berlusconi, sappi che le sole cose che gl'interessano sono le tv e la giustizia. Qualcuno che "garantisca" sui magistrati...».
Il Colle a D'Alema in cambio del collo di Silvio. La solita proposta indecente? I magistrati la prendono soft: «Le parole di Fassino mi sembrano talmente vaghe... Lasciamoli trattare», dice il neodeputato ds Gerardo D'Ambrosio: «Non vedo cortocircuiti, piuttosto delegittimazioni: l'altro giorno, una giornalista giapponese mi diceva stupita che da loro è inconcepibile un governo che attacca la magistratura». Asciutto Giuseppe Gennaro, presidente dell'Anm: «È giusto che il nuovo capo dello Stato prosegua sulla strada segnata da Ciampi. Ricordando che la magistratura, checché se ne dica, non pronuncia sentenze politiche». Ad Antonio Di Pietro, il passaggio di Fassino non piace: «Quest'idea che il futuro capo dello Stato debba garantire sui cortocircuiti, va oltre le sue funzioni. Se poi questo significa anche altro, cioè l'impunità a Berlusconi in cambio del Quirinale, siamo all'assurdo. Non credo che Fassino si presti al baratto: chiunque l'accetti, diventa complice d'un abuso».
«Per carità di Dio!», no, Fassino non può voler quello: ne è sicura Anna Finocchiaro, capogruppo ds al Senato, perché «quelle parole possono essere lette in due modi: o come un segnale di garanzia ai magistrati, o come un'attenzione alla politica che soffre l'autonomia delle toghe». In ogni caso, occorre ricomporre «un clima di conflitto e garantire autonomia tanto al potere giudiziario che a quello politico», superando «un clima di sospetto che non fa andare avanti il Paese».
I soliti sospetti. Con omissis che si notano, nell'intervista di Fassino: per esempio, il silenzio sul conflitto d'interessi. «Il tema va affrontato — dice D'Ambrosio — e su questo non si discute. Ci si è lamentati di non aver fatto abbastanza nella XIII legislatura e niente nella XIV: vogliamo ripeterci? Chi ci ha eletto, ci ha chiesto di risolverlo una volta per tutte». Sarcastico Travaglio: «Come può Fassino parlare di conflitto d'interessi, se va a lanciare il "manifesto" sul giornale della moglie di Berlusconi, diretto da un ex ministro di Berlusconi, il giorno dopo l'avvertimento di Dell'Utri e dopo aver zittito Bertinotti che, su Mediaset da ridimensionare, ha ripetuto soltanto quel che dice la Consulta?».
D'Alema quirinabile, inciucio inevitabile, pensa l'opinionista dell'Unità. Un pateracchio proprio sulla giustizia: «Che custode e garante potrebbe essere un D'Alema che, presidente della Bicamerale, accettò indecenti compromessi al ribasso sull'indipendenza della magistratura?». C'è «un fumus oggettivamente ricattatorio», sostiene Travaglio, e così si spiega quella riga 52: «Anche D'Alema ha interesse a "garantire" sui magistrati che, in passato, qualche problema gliel'hanno dato. Un capo dello Stato non solo non dev'essere ricattabile, ma neppure sembrarlo. Guardate Unipol: non furono i Ds a dire che Berlusconi ha ancora i cd delle famose telefonate? La partita è aperta, a luglio c'è da rifare il Csm e con le nuove regole i membri politici, quelli che controllano le toghe, saranno di più. In questi anni, c'è stata anche una Bicamerale degli affari: speriamo
Le Due Italie sono sempre esistite anche se non si erano mai materializzate con una evidenza così plastica e in sostanziale pareggio politico. E' cosiddetta «sinistra» (termine col quale ormai indichiamo uno schieramento che riassume quasi tutto ciò che era «arco costituzionale»), che ha raggiunto, in realtà, il suo massimo storico in questa elezione. Quella destra diffusa, «che non si dà confini neanche nei confronti del fascismo », di cui ha parlato Rossanda nel commento dei primi dati elettorali, esisteva già sottotraccia negli anni della prima Repubblica ma era compressa e disciplinata dalla mediazione democristiana che ne moderava istinti e stemperava paure. Il maggioritario barbarico imposto da Berlusconi in chiave di guerra civile «fredda», ma permanente ha fatto emergere e messo a nudo l'Italia profonda che non aveva una vera rappresentanza politica e che ha finalmente trovato qualcuno che la interpretasse senza scrupoli e mediazioni. Questa Italia esiste ed esisterà, bisogna farci i conti, non è pensabile che si dissolva nel breve e nel medio tempo. La volontà di governare tenendo conto di essa è un proposito di elementare civiltà istituzionale, anche se purtroppo unilaterale e in Italia non ricambiato. Ma soprattutto bisognerebbe cercare di capire e scomporre questo blocco, in realtà molto differenziato, individuando i punti critici su cui agire, e rinunciando serenamente a recuperare ciò che non è recuperabile. Infatti non è pensabile di inseguire il berlusconismo sul suo terreno, ma si possono dare risposte serie a domande fondate. Rinunciando ad analisi troppo semplificate, come quelle che per molto tempo la sinistra ha prodotto dopo l'emergere del fenomeno Berlusconi. Questa destra non è interpretabile in chiave di «modernità», ma contiene al suo interno pulsioni addirittura arcaiche che questa campagna elettorale ha fatto emergere. Non solo subcultura, non è solo «l'Italia che parcheggia in seconda fila» come si legge spesso, ma esprime ormai culture radicate e immaginario diffuso. Paradossalmente, è molto più «ideologico» il voto a destra di quanto non sia un voto a sinistra ormai realistico e disincantato. Il fenomeno dell'anticomunismo postumo, che è forse l'ideologia più fortunata e diffusa della nuova Italia, va decrittato al di là delle fantasie pulp del leader della destra su bambini bolliti e nipotini di Pol Pot (a cui non si crede fino in fondo, se è vero che ventiquattrore dopo si chiede una grande coalizione con questi mostri). Ma da tempo quando a destra dicono comunisti intendono in realtà lo Stato, le tasse, il rispetto delle leggi, per cui non è del tutto incoerente che perfino Oscar Luigi Scalfaro diventi «comunista» in questo immaginario. Proprio la questione delle tasse, che pare sia stata la molla decisiva della rimonta finale di Berlusconi, ci impone però una analisi critica autocritica del blocco sociale della destra, e in ultima analisi su cosa è diventata la società italiana. Se è vero che il problema della tassazione è uno dei problemi fondamentali di ogni democrazia, e lo è particolarmente in Italia dove esiste storicamente lo scandalo di un regime fiscale debole coi forti ma occhiuto inflessibile coi deboli, questo diventerà forse il terreno decisivo dell'acquisizione del consenso. E proprio su questo terreno la sinistra ha mostrato una deplorevole confusione che non si può ricondurre solo a «difetto di comunicazione», che pure c'è stata, con quel parlare di «abbattimento di cinque punti del cuneo fiscale », progetto giusto e ambiziosissimo, che rivela però nella formulazione l'abitudine a parlare a imprenditori e redattori delle pagine economiche anziché al popolo (era così difficile parlare di tasse sul lavoro?)
Non ci si può rassegnare a consegnare definitivamente alla destra la rappresentanza delle regioni più ricche e produttive del Nord, e neppure accettare la situazione che vede ampliarsi in molte realtà il voto popolare delle periferie alla destra. In una situazione, come quella italiana, dove l'intreccio tra stipendi, pensioni familiari, piccole rendite e piccolo risparmio è ormai costitutiva dei bilanci delle famiglie e costituisce fattore di sopravvivenza e di rifugio precario sotto i colpi della crisi ci vuole la massima precisione nelle indicazioni e nelle proposte. Da fare, possibilmente, all'inizio e non alla fine delle campagne elettorali, e mettendosi d'accordo su cosa dire. Avere trascurato il tema fiscale, riproponendo nelle pieghe della campagna il ritorno di una tassa di successione sulla prima casa che nei suoi termini avarissimi era anacronistica già cinque anni fa in un paese dove oltre l'ottanta per cento dei cittadini possiede la casa dove abita è non solo un errore tattico ma strategico, che rivela categorie di analisi della società italiana ferme alla visione di una Italia povera che è ormai fotografia ingiallita di un paese che non esiste più, senza cogliere ancora del tutto la realtà di un paese a ricchezza diffusa ma ormai precaria e minacciata. Non si può, neppure per sbaglio, trovarsi nella condizione per cui la proposta, sacrosanta, della redistribuzione del reddito a favore dei ceti più deboli o di quelle fasce di società impoverite dalla mano libera che l'ex-premier ha dato al suo elettorato specifico di raddoppiare i prezzi negli ultimi anni, possa rischiare di venire intesa come spoliazione di chi ha poco e a maggior ragione difende quel poco che ha. Una pratica, finalmente introdotta, di tassazione equa e progressiva, come la Costituzione e ancor più la decenza imporrebbero a questo paese, può anche essere apprezzata alla fine da quei settori della società italiana che hanno risposto al richiamo della foresta di Berlusconi ma che non sono costituzionalmente evasori fiscali; ma che chiedono una rassicurazione attorno a una selva di tasse spesso incoerente e persecutoria per gli onesti. La questione di una revisione dell'Ici sulla prima casa, che aveva proposto per primo Bertinotti, è stata poi abbandonata colpevolmente alle improvvisazioni demagogiche dell'ex- premier, accompagnata per giunta dal proposito di revisioni catastali che giuste in sé hanno assunto inevitabilmente il significato di un inasprimento di una tassa fondamentalmente ingiusta e avvertita come tale. Per inciso, la stessa idea che circola da tempo di candidare alla presidenza della repubblica un politico come Giuliano Amato, il più impopolare nell'immaginario collettivo degli italiani in quanto percepito come uomo dell'Ici e delle mani nei conti correnti dei cittadini, mostra quanta trascuratezza vi sia di fronte a un senso comune di larga parte del paese, giusto o sbagliato che sia, ma col quale è doveroso fare i conti. Però va anche fatta una notazione comparativa rispetto al passato su questo voto imponente di metà degli italiani a destra, e che è forse l'unica nota ottimistica che si può ricavare. Nel 2001 il popolo di destra che aveva votato Berlusconi esprimeva ottimismo, vitalità ingenua ma reale, voglia di arricchimento facile. Oggi esprime solo paura. Che è un sentimento importante e che sarebbe colpevole ignorare, ma è anche una base su cui la destra non può costruire molto. Qui mi pare si registri la svolta e l'avvio del declino di Berlusconi, non più uomo dei sogni ma degli incubi, non solo degli italiani che lo detestano ma anche di quelli speculari e contrapposti degli italiani che lo votano.