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Molti anni fa, una “commissione Giannini” (dal nome del suo presidente, Massimo Severo Giannini), incaricata di proporre regole efficaci per la conduzione degli enti di ricerca, partì da una distinzione delle strutture in “Enti strumentali” ed “Enti non strumentali”, a seconda che il loro obiettivo fosse la ricerca finalizzata o quella fondamentale. Nel primo caso, l’importanza degli scienziati-manager era chiaramente riconosciuta, nel secondo caso sembrava più importante il prestigio scientifico.

Ma sarebbe riduttivo prendere in considerazione solo i presidenti. La commissione Giannini riconosceva che la formula dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) aveva meriti indiscussi: un organo collegiale di governo, costituito dai direttori, eletti localmente dal personale delle “sezioni”, dislocate presso le sedi universitarie, e dei laboratori nazionali, completato con rappresentanze minoritarie di ministeri ed altri enti competenti. Dunque, niente Consiglio di Amministrazione (CdA) con prevalenza di emissari di partiti e di sindacati, niente presidente di nomina governativa, riconoscimento di capacità di autogoverno alla comunità scientifica e inserimento in un ambiente scientifico allargato con diritto di partecipazione alla programmazione e all’attività. Effettivamente l’INFN sembrava funzionare in modo ideale: un presidente che risponde ai suoi “amministrati” e che, per rappresentarli degnamente nella comunità internazionale, deve avere un’indiscussa notorietà che tutti gli riconoscono per conoscenza diretta e senza bisogno di tabulati di agenzie, è il meglio che si possa desiderare. La responsabilità di un siffatto gestore è condivisa, per il modo in cui è scelto, da una larga maggioranza che, per ciò stesso, concorre ai migliori risultati dell’ente.

Ma l’INFN è un ente non strumentale, che riguarda una comunità scientifica omogenea ben quotata nel suo complesso. Gli enti strumentali sono più complicati da governare. Il compianto Antonio Ruberti, scienziato e manager, aveva le idee chiare, ma ci ha lasciati. Pure, la commissione Giannini in qualche modo sottolineava che un ente che svolge attività specialistiche di ricerca, di qualsiasi tipo, non può essere governato da un “commissario”, paracadutato dal Governo con un disegno concepito solo fuori dall’ente, per risponderne a un CdA che rappresenta solo parti politiche: questo, è governare con “conflittualità incorporata”. L’ente finisce con lo svolgere solo attività imposte dal commissario-presidente, che le concorda con il CdA, senza coinvolgere i ricercatori nelle scelte e nelle decisioni. Nessuna meraviglia che i ricercatori cambino nome e diventino “capi-commessa” (sic!).

(Dipartimento di Fisica, Università "La Sapienza", Roma)

Si veda sull'argomento, dello stesso autore, Incubi notturni di un professore (1° giugno 2002)

Non sappiamo ancora chi sarà nominato presidente della Repubblica dai grandi elettori riuniti alla Camera. Non lo sanno neanche loro. La tattica e la scelta sono decise, ora per ora, in una partita segreta fra pochi leaders. La figura istituzionale cardine della Repubblica non è neppure presentata in modo trasparente al paese, prassi niente affatto implicita nella Costituzione del 1948, che ne sancisce l'elezione in secondo grado.

Di queste poco limpide tattiche fanno parte sia la candidatura di D'Alema sia il suo ritiro a favore di Giorgio Napolitano. Mentre niente affatto nascosta è stata la mossa che Piero Fassino ha fatto verso Silvio Berlusconi, tramite o forse dietro suggerimento del berlusconiano Foglio. Qui non si tratta più di tattica ma di un mercato, e del tutto illecito. Il segretario dei Ds chiede infatti i voti della destra per il suo candidato offrendo in cambio quattro impegni programmatici che questi prenderebbe.

L'ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida ha già scritto che è una manifesta violazione delle regole, perché in Italia il capo dello stato non è eletto su un programma né può farlo: il suo ruolo è di garante della Costituzione, non di un indirizzo di governo; nell'offerta di Fassino si prefigura una dualità di poteri o una repubblica presidenziale. Sappiamo da tempo che questa è nell'animo di Berlusconi. Da ieri siamo informati che sarebbe anche nell'animo dei Democratici di sinistra, che la vanno negoziando nel modo più extraparlamentare possibile. Alla faccia del programma cui l'Unione ha chiamato gli elettori.

Ma chi ha autorizzato Fassino a farlo? Chi lo ha autorizzato, primo, a garantire alla destra che il «suo» presidente non permetterà interferenze fra giustizia e politica, che è come dire che queste ci sono state, tesi prediletta di Berlusconi e Previti? Chi l'ha autorizzato, secondo, a impegnare il nuovo presidente a operare alla più larga convergenza con il centrodestra in politica estera, dopo che l'Unione aveva assicurato di essere contraria alla guerra in Iraq e all'unilateralismo degli Stati Uniti, cari invece alla Casa della Libertà? Bush e Rumsfeld sono al massimo del dissenso con i loro stessi militari, la loro guerra e leminacce di interventi ulteriori hanno incancrenito il medio oriente e li hanno impantanati in una situazione dalla quale non sanno come uscire, Tony Blair sta pagando il suo codismo a Washington e il maggiore partito del centrosinistra, mentre si rimpatriano i corpi anche delle nostre inutili vittime, cerca una convergenza con questa banda di dementi? Che ne pensano gli iscritti ai Ds, gli eletti e gli elettori? Terzo e non meno sorprendente: Fassino promette una revisione della Costituzione «per completare la transizione italiana» assieme con la destra, la quale da parte sua fa sapere urbi et orbi che considera Massimo D'Alema fin dalla Bicamerale il suo più credibile interlocutore.

Davvero crede di mobilitare gli elettori al referendum del 25 giugno in modo da abbattere questa devolution perché i Ds ne trattino un'altra con l'accordo della Lega? Perché perfezionino il superpotere, oggi un po' volgare, dell'esecutivo? Ma chi andrà a votare in questo gioco delle tre carte? Infine, come ha già scritto Valerio Onida, come può impegnarsi il nuovo presidente della Repubblica a sciogliere le Camere in caso di crisi di governo, essendo lo scioglimento il solo ma assoluto atto del quale sta a lui decidere la convenienza e i tempi?

Non penso che sia stata una trovata del solo Fassino. Certo i ds non lo hanno né smentito né corretto. Vuol dire che quale che sia il presidente della Repubblica che uscirà eletto, salirà al Colle con questo mandato del maggior partito della sinistra. Prodi si è limitato a sorridere e non commentare. Non ci siamo mai illusi sulla democrazia rappresentativa, ma ci sono dei limiti di decenza che è pericoloso superare.

Una terribile frase italiana, che mi disorientava quando, da bambino, la sentivo dire da adulti che si guardavano prudentemente intorno è: «qui lo dico e qui lo nego». È una espressione intraducibile che rappresenta il peggio dell’opportunismo italiano.

È ciò che sta accadendo adesso, in questo Paese, sotto gli occhi del mondo, dopo la vittoria di Prodi. In alto e in basso, e persino a sinistra e non solo a destra, si dice o si nega, si afferma e si attende, si contano i numeri giusti ma poi si fa finta di non saperli, si usa l’esiguità del margine (ormai tipico di tutte le democrazie, e consacrato da ben due successive elezioni americane) per dire che la vittoria di Prodi forse è accaduta e forse no, e magari sarebbe meglio trattare.

Trattare che cosa, trattare con chi?

C’è infatti una variazione molto importante al modello nazionale di dire e negare che ha consentito tante decisioni ambigue nella storia italiana.

Berlusconi, il leader battuto (nel voto italiano in casa e nel voto italiano dall’estero) della Casa delle libertà non dice. Nega. In questo unico senso è più moderno. Nega risolutamente di avere perduto, nonostante l’evidenza e cogliendo lo spazio libero che gli viene offerto da un grande silenzio. Come in tanti suoi processi, Berlusconi nega tutto. Esattamente come in tribunale, accusa di broglio chi lo ha battuto. La stampa internazionale nota l’affinità fra processi e politica. La stampa nazionale appare affascinata dalla sua straordinaria capacità di negare. E benché la negazione sia sprezzante e deliberatamente provocatoria, intorno al leader che ha inventato il “sit in” dello sconfitto, una Valle di Susa delle elezioni perdute, si forma un capannello di interlocutori interessati a vedere che cosa si può mediare con lui.

Siamo in presenza di un paradossale abbaglio logico: l’idea che sia bene trattare e progettare scambi con chi ha rifiutato e continua a rifiutare di avere perso le elezioni, persino in presenza della ammissione (purtroppo tardiva) del ministro dell’Interno.

Per avere un resoconto attendibile e definitivo di ciò che è accaduto davvero in Italia, occorre rivolgersi non alla televisione, in cui Berlusconi continua ad apparire come il protagonista, non ai giornali, colmi di retroscena che coprono di cortine fumogene i fatti. Non ai politici, anche del centrosinistra, alcuni dei quali discutono volentieri di scenari di possibile collaborazione saltando il dato: chi ha vinto?

Occorre la voce di un cardinale. Sentite le parole di Mons. Severino Poletto, arcivescovo di Torino, raccolte ieri da La Stampa e dite se non sono l’unica cronaca attendibile di ciò che è appena accaduto in Italia. «C’è stato un evento che ha interessato non soltanto noi, ma l’Italia intera. Una lunga e non serena campagna elettorale, e poi le elezioni politiche di cui già conosciamo i risultati, che in una democrazia matura devono essere accettati e rispettati. I risultati dunque li conosciamo. Attendiamo ora che il nuovo Parlamento si insedi, che il Governo sia formato e si metta all’opera. Ora non è più tempo di parole ma di fatti per dimostrare che governare un Paese significa realizzare il bene comune non con strumentali finalità ma con sincerità di intenti. Bene comune vuol dire soprattutto il bene dei ceti più poveri e svantaggiati della nostra società».

Ciò che consola ma anche tormenta, in queste parole di un cardinale, è la chiarezza con cui la sequenza delle vicende italiane è descritta.

Provate a smentirle. Primo, le elezioni sono finite, sono state vinte, e la democrazia matura le accetta. Secondo, è evidente il messaggio del risultato delle elezioni: governare per il bene di tutti e non con strumentali finalità. Terzo, che cosa si aspetta a dare seguito ai risultati e mettere il Parlamento in condizione di riunirsi e il Governo in condizione di cominciare a governare? Si può essere più chiari?

È un testo (rileggete, vi prego, il virgolettato) che non nasconde l’ansia di un cittadino democratico per lo “stallo” che non esiste. Ma è stato creato con «strumentali finalità» e ci butta in un tempo vuoto e con un pericolo immenso.

Nell’ansia del cardinale c’è una domanda che è anche un ammonimento autorevole: «che cosa aspettate?».

Ma se le parole di Saverio Poletto sono chiare, non prendetele come la controprova che Silvio Berlusconi sia uno stravagante che, per autodifesa interiore, ha scelto di separarsi dalla realtà.

L’uomo è un calcolatore accorto che si muove fuori e lontano dalla «democrazia matura», continuamente mosso da «finalità strumentali».

Questa volta la finalità strumentale è non far finire la campagna elettorale. Se finisce, lui ha perso. Se non finisce, le sue probabilità di rivincita aumentano di giorno in giorno, a mano a mano che si espandono il silenzio istituzionale e il vuoto in cui sono stati lasciati gli italiani.

Ha teso una trappola: discutiamo di possibili accordi.

Deliberatamente butta sul tavolo questioni che hanno mobilitato l’opposizione democratica fino all’ultimo voto. La giustizia, per esempio, e l’umiliante precariato del lavoro.

Cadere nella trappola vuol dire sciogliere le fila di una grande mobilitazione civile, mandare a casa chi si è battuto per vincere anche senza Tv e senza miliardi.

Tutta la gente che non si lascia dire di aver dato l’anima per questa vittoria (senza neppure sapere i nomi di coloro per cui votava, a causa della «porcata» detta nuova legge elettorale) e poi sentirsi annunciare che «si può trattare» prima ancora di sapere che Romano Prodi ha ricevuto l’incarico.

Berlusconi, il candidato battuto, sa fare bene una cosa, con rabbia e dovizia di mezzi: la campagna elettorale. La sta facendo, proprio mentre alla sinistra giungono segnali, (per fortuna solo da parte di alcuni) di benevola smobilitazione. E mentre la vittoria, faticata, rischiata e conseguita, continua a non diventare un incarico di governo.

Berlusconi sta dimostrando di poter continuare a tenere sotto ferreo controllo mediatico la sua metà dell’Italia. Ha perso, ma non gli importa. Lui non è stupido come Al Gore o John Kerry, che hanno pensato prima di tutto alla pace istituzionale del loro Paese. Lui tiene tirata la corda dello scontro, tiene la tensione altissima. Lui stesso, e chi lo rappresenta, rifiutano ogni gesto di accettazione democratica. Fino al punto da fare in modo che manchi al legittimo risultato elettorale del nostro Paese il riconoscimento degli Stati Uniti. È un fatto su cui andrebbe concentrata tutta l’attenzione dei leader della coalizione vittoriosa. Chi sta mentendo all’America, Berlusconi o il suo ministro degli Esteri Fini? Non sarebbe il caso di chiedere un chiarimento all’ambasciatore degli Stati Uniti che è uomo esperto, buon conoscitore del nostro Paese e che certo ha a cuore la profonda amicizia fra i due Paesi, radicata nella storia della nostra libertà, del nostro diritto di decidere col voto?

È vero, la situazione è grottesca, ha venature di ridicolo. Ma una cosa occorre oggi riconoscere, una cosa che su questo giornale abbiamo detto fin dall’inizio. Berlusconi, che adora se stesso ed è davvero convinto di avere sempre ragione, è un pericolo per la democrazia.

In questi lunghi giorni di inspiegabile silenzio istituzionale, lui e i suoi stanno sbarrando la porta al verdetto del voto. Lui vede benissimo il rischio in cui sta buttando l’Italia. Lo calcola. Gli giova che tanti, che dovrebbero essere infaticabili e senza pace come lui, ma in senso opposto, in difesa della democrazia, sembrano non notare il pericolo.

Tre sono i risultati che Berlusconi sta incassando con la sua azione eversiva: tiene in ostaggio il Paese affinché, in un modo o nell’altro, la sua sconfitta venga annullata. Pone una minaccia pesante sul futuro italiano. Tiene i suoi mobilitati e pronti a nuove elezioni, che sono il suo vero progetto, contando sulla smobilitazione di chi ha votato per mandarlo a casa e ha vinto.

Non so rispondere, nelle frequenti interviste con le televisioni europee e americane, alla domanda: perché glielo lasciano fare? È vero, è ricco, è potente, controlla i media, possiede molti giornalisti, è senza scrupoli. Ma perché glielo lasciano fare, visto che ha perso? I colleghi della stampa internazionale notano che, a volte la fermezza di Prodi appare isolata. Lo si lascia a patire l’oltraggio del negato riconoscimento della vittoria (che è una offesa a una bella parte degli italiani). Una delle due campagne elettorali continua a svolgersi furiosamente, dopo avere provocato una spaccatura che si vuole a tutti i costi allargare.

Per mettere fine a questa situazione mai accaduta (un Paese ostaggio del premier battuto) alcuni esortano a “mediare”. Dicono per esempio che bisogna “mediare” sulla giustizia. Bene, da dove cominciamo, dai «giudici infami» o dai «giudici malati di mente»? Dal complotto delle toghe rosse con l’attività criminale delle cooperative, o della riforma Castelli che trasforma i magistrati in impiegati dello Stato sotto controllo del governo?

Ma il Cardinale ha detto bene. I risultati ci sono. Adesso gli italiani si aspettano che si formi il legittimo governo del Paese. Potrà chi deve proclamare ufficialmente i risultati continuare a non farlo? Potrà Prodi restare il vincitore senza incarico di formare il governo? Come racconteremo questi giorni, che dovrebbero essere di normale e civile alternanza democratica, nei nostri libri di Storia, fra qualche anno? Diremo che soltanto il Cardinale Poletto ha letto i risultati, ha constatato che il vincitore era Prodi e che era bene per il Paese consentirgli di cominciare subito a governare?

Possiamo continuare a dire e a negare i risultati delle elezioni politiche italiane del 9 e del 10 aprile 2006?

la Repubblica

L’uomo flessibile

di Gad Lerner

Da qualche giorno una malaugurata illusione ottica ha posto al centro del dibattito pubblico italiano lo scontro fra due opposti Paperon de’ Paperoni: il miliardario Silvio Berlusconi e il miliardario Diego Della Valle.

La realtà sociale pare quasi indietreggiare cedendo spazio ai due campioni rappresentativi di affascinanti storie di successo. Certo, permane evidente la distanza fra i comportamenti dell’uno e dell’altro patron. Ma la caricatura alla fine ci costringe a semplificare, a scegliere fra due primattori del capitalismo eletti a simbolo di opzioni politiche alternative. Ormai assuefatti come siamo alla crescita esponenziale delle disuguaglianze di reddito, si sono modificate anche le nostre nozioni di giustizia sociale e di rappresentanza dei conflitti.

Al contrario, in Francia sembra tornata la lotta di classe. Con un protagonista nuovo, impossibile da mortificare in una mera dimensione identitaria etnico-religiosa: è scoppiata infatti a Parigi la rivolta dell’uomo flessibile. Che può essere anche bianco, battezzato, insomma figlio nostro.

L’uomo flessibile è quello che più di ogni altro subisce l’apartheid che separa i lavori protetti da quelli che non lo sono, come scriveva ieri Barbara Spinelli su la Stampa. Segnalando la collera di chi vede spezzarsi uno dopo l’altro i fili che dovrebbero tener stretta la società.

In Francia come in Italia, l’uomo flessibile è innanzitutto il giovane condannato a una dimensione esistenziale precaria. Una condizione che secondo i dati resi noti dalla Banca d’Italia riguarda addirittura la metà dei nuovi entrati nel mondo del lavoro nel 2005. Rovesciando le aspettative fino al punto che i giovani laureati, almeno inizialmente, percepirebbero secondo l’Ires Cgil un reddito inferiore ai giovani lavoratori non laureati.

Sono anni che predichiamo a questi giovani la fine del posto fisso. Li incoraggiamo all’autoimprenditorialità. Spieghiamo loro che senza propensione al rischio, senza disponibilità al cambiamento – insomma senza flessibilità – non c’è futuro.

Alla metamorfosi dei sistemi produttivi, all’economia dei downsizing e delle ristrutturazioni, si è infine sommato il nuovo tempo di guerra che è per sua natura il tempo dell’incertezza.

Così il messaggio si fa ancor più confuso. Perché nella morale bellica e nel linguaggio comune un uomo inflessibile resta assai più ammirevole dell’uomo flessibile. Ma è invece dell’uomo flessibile che il sistema mostra di avere bisogno. Senza alcuna garanzia che l’incertezza si traduca in miglioramento. Al contrario.

La flessibilità come virtù è il contenuto prevalente di tutte le modifiche legislative introdotte nel diritto del lavoro e, ancor più, nell’esperienza quotidiana di chi è in cerca di primo impiego. La pretesa ideologica che accompagna tale innovazione è ambiziosissima: si tratterebbe di realizzare una rivoluzione antropologica vincendo un bisogno di sicurezza liquidato come retrogrado. Quasi che l’economia di mercato si incaricasse di realizzare il sogno totalitario in cui prima di lei aveva fallito il marxismo: plasmare finalmente l’uomo nuovo, cioè, appunto, l’uomo flessibile. Prima nel mondo povero, ma adesso pure in casa nostra.

Non voglio qui discutere le stringenti necessità che sospingono l’economia europea a riformare i meccanismi d’accesso e di tutela del lavoro subordinato. Anche se sarebbe meglio verificarne per tempo gli esiti pratici nella mecca del pensiero unico, cioè all’interno del modello sociale statunitense: dovremo pur riconoscere che neanche il prolungato ciclo economico di crescita degli Usa ha invertito la tendenza al peggioramento delle condizioni di vita ai gradini bassi della scala sociale.

Ma senza troppo fantasticare su possibili modelli alternativi, mi limiterei a segnalare una ragione forte che già accomuna i giovani francesi in rivolta e gli ancora fin troppo sottomessi giovani italiani nel respingere come ingiusta la flessibilità prospettata loro.

Da che pulpito viene la predica?

Voltiamoci un attimo indietro e guardiamo come si sono comportati negli ultimi vent’anni i teorici della flessibilità, a cominciare dagli imprenditori italiani e francesi.

Troppo facile elogiare la propensione al rischio quando si tratta di intaccare le garanzie dei soggetti sociali più deboli, e poi rifugiarsi al riparo della concorrenza quando si tratta di proteggersi dal rischio d’impresa.

Perché mai a rischiare dovrebbero essere per primi i nuovi venuti e i poveracci?

Davvero, a cominciare dal nostro monopolista presidente del Consiglio, si è predicato bene e razzolato male. Quanta parte dei profitti industriali viene reinvestita in rendite finanziarie? A quante illegittime spartizioni di mercato abbiamo assistito? Quanti grandi imprenditori si sono rifugiati nella cuccia calda delle concessioni governative? Quanti fallimenti aziendali abbiamo visto corrispondere alle centinaia di migliaia, ai milioni di fallimenti lavorativi individuali? Come ha scritto Richard Sennett ne "L’uomo flessibile" (Feltrinelli): «La manualistica popolare è piena di ricette per il successo, ma non dice molto su come affrontare un fallimento».

Ho sempre saputo che quando si deve incentivare la propensione al rischio e la rinuncia a garanzie di comodo, le élites sono chiamate per prime a dare il buon esempio. Se si deve cambiare, comincino i più forti a indicare la strada difficile, legittimando così i sacrifici richiesti ai più deboli…

Risultato: né i campioni nazionali del modello statalista francese, né tanto meno i protagonisti nostrani dei patti di sindacato e dell’economia di relazione, hanno i requisiti minimi per chiedere ai giovani di trasformarsi in uomini flessibili.

Questo è l’handicap che grava su ogni politica riformista in materia di diritto del lavoro, spiace dirlo a Pietro Ichino e agli altri studiosi che denunciano la plateale ingiustizia dei due mercati del lavoro subordinato: quello di serie A tutelato dai sindacati, e quello di serie B in cui i precari sono abbandonati a se stessi.

La rivolta dei giovani francesi e la silenziosa disillusione dei giovani italiani sono entrambe alimentate dalla scandalosa assenza di credibilità evidenziata dai rispettivi establishment.

La parola "rischio", ricorda Sennett, deriva dall’italiano rinascimentale risicare, cioè "osare". Ma quelle erano società giovani e aperte. I politici europei contemporanei misurano i loro consensi di fronte a un elettorato sempre più anziano, e dunque se non interverranno modifiche radicali nello stesso suffragio universale (per esempio l’assegnazione di più voti alle famiglie con figli minorenni) sarà ingenuo fare affidamento sulla loro lungimiranza.

Ecco allora puntuale riesplodere la tradizionale collera francese, anticipatrice di un moto destinato a spaccare anche la nostra società. I giovani sono David che fronteggiano il Golia della flessibilità, scrive ancora Sennett. Ma la rottura di solidarietà intergenerazionali rischia di avere effetti di lungo periodo non riducibili a un, per quanto biblico, duello. Perché, attenzione: «Un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni agli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità». Si prospetta nella rivolta contro il precariato una vera e propria crisi di sistema. Il capitalismo flessibile emana un’indifferenza agli sforzi umani e al destino delle persone senza precedenti nelle esperienze comunitarie del passato.

La pretesa di forgiare l’uomo flessibile rischia di rivelarsi per lo meno altrettanto nefasta della clonazione umana.

il manifesto

Italia, il paese dove il lavoro costa meno

di Francesco Piccioni

Kpmg mette a confronto i paesi più industrializzati e scopre che siamo un paese dove converrebbe investire, se non fosse per i costi di immobili e trasporti

Ce n'era, nell'aria, la convinzione. Ma serviva qualche dato ufficiale per confermarla. Ora quel dato c'è e l'ha fornito un «insospettabile» come Kpmg, la società americana di revisione dei conti che ha pubblicato i risultati della sua ricerca sul paese - tra quelli già ampiamente industrializzati, in Asia, America ed Europa - in cui «è più conveniente avviare un'attività imprenditoriale». L'Italia si è classificata «solo» al quinto posto, preceduta da Singapore, Canada, Francia e Olanda. Ma bisogna dire che l'indagine prendeva in considerazione ben 27 fattori (come imposizione fiscale, costo dei terreni e degli immobili, tariffe di trasporti e utilities, ecc). Un'agenzia di destra ha commentato entusiastica che «il nostro paese si colloca al quinto posto tra le nazioni con i minori costi e addirittura al primo tra i partner europei per il costo del lavoro». Riportando il dato con i piedi per terra, siamo costretti a dire che «siamo il paese europeo con il costo del lavoro più basso». E non si vede proprio cosa ci sia da festeggiare. Tanto più che, come precisa il rapporto Kpmg, gli elementi maggiormente «dinamici» restano i rapporti di cambio tra le diverse monete (e gli Usa, per esempio, hanno «migliorato» la propria posizione solo grazie alla sostanziosa svalutazione del dollaro) e al costo del lavoro, che «rimane la principale variabile di costo per le imprese» (una dele poche su cui possono agire direttamente, ndr ), sia nel settore manifatturiero che nel terziario e nei servizi». E' chiaro perciò che quei 27 indicatori configurano l'«indice di competitività» capitalistica dell'Italia, su cui tanto si affannano i centri studi di Confindustria et similia , nonché le «fabbriche del programma» di entrambi gli schieramenti politici. Anche così, appare evidente che siamo «mediamente competitivi» per una lunga serie di ragioni, ma tra queste non c'è davvero il costo del lavoro; e che, quindi, proporsi di ridurlo ulteriormente - soprattutto se non dovessero venir modificati altri fattori, come ad esempio il costo dei trasporti, degli immobili o delle utilities - non può migliorare più di tanto la «nostra» classifica. Eppure Prodi si propone di abbattere il «cuneo fiscale» di cinque punti percentuali (ma non si comprende bene se parte di questa fiscalità verrà tradotta anche in quote di salario per i lavoratori oppure andrà tutta a beneficio delle imprese), mentre Confindustria vorrebbe un taglio addirittura di 10 punti. Siamo anche - ma non serve Kpmg per saperlo - il paese con il più alto tasso di precarietà contrattuale, e questo contribuisce molto a deprimere il valore del lavoro (il costo, detto con linguaggio «imprenditoriale»). Pensare di recuperare competitività lungo questa china è una follia palese: dietro di noi, su questa voce di bilancio, ci sono ormai solo i paesi dell'Est europeo; poi, ma si stanno avvicinando a passo di carica, indiani e cinesi. Paesi, bisogna pur dirlo, che non hanno ancora sviluppato un mercato interno. E' questo il «futuro radioso» dell'Italia «competitiva»?

il manifesto

Il Mezzogiorno disoccupato

di R. T

I dati Istat confermano nuove flessioni di occupazione. E in Italia aumenta la precarietà Brutti dati: a fine 2005 il 13,4% dei dipendenti era part-time e il 12,7% con un impiego a tempo determinato. E per le donne, soprattutto nel Mezzogiorno, va ancora peggio

Nel quarto trimestre del 2005 la dinamica dell'occupazione ha registrato un forte rallentamento: +56 mila gli occupati rispetto all'ultimo trimestre del 2004. Secondo i dati Istat, la creazione di nuovi posti di lavoro interessa solamente il Centro-Nord. Al Sud, invece, l'occupazione seguita a diminuire: 38 mila gli occupati in meno, ma soprattutto si segnala la scomparsa di 118 mila persone dal numero delle forze di lavoro. Per quest'ultimo dato negativo possono essere date varie interpretazioni: a) i lavoratori scoraggiati si ritirano dal mercato del lavoro; b) è ripreso alla grande il fenomeno del lavoro nero; c) prosegue la tendenza all'emigrazione. Anche rispetto al trimestre precedente, l'occupazione (i dati questa volta sono destagionalizzati) registra un incremento di 56 mila unità e in questo caso va un po' meglio per il mezzogiorno con un incremento di 19 mila posti di lavoro. Il recupero congiunturale dell'occupazione nel quarto trimestre dell'anno (+0,2%) «appare diffuso a livello territoriale e settoriale - spiega l'Isae - ma risente ancora della spinta proveniente dalle regolarizzazioni dei cittadini stranieri». La regolarizzazione dei cittadini stranieri, aggiunge l'Isae, è riflessa dall'anomalo andamento degli occupati uomini e dalla lieve contrazione del rapporto tra occupati e popolazione. L'immigrazione, anche per la Cgil, è uno dei motivi che spiegano l'aumento dell'occupazione. Al netto dell'immigrazione, l'occupazione, secondo l'analisi della segretaria confederale Marigia Maulucci, sarebbe «a crescita zero». Anzi, correlando i dati diffusi da Bankitalia (sulle unità di lavoro) la Cgil stima che nel 2005 si siano persi «ulteriori 90 mila posti di lavoro. Ulteriori vuol dire in aggiunta a quelli persi negli anni precedenti, per un totale che si aggira intorno alle 200 mila unità». Insomma, per la Cgil, l'aumento dell'occupazione è solo una «perversione statistica». Anche dalla Cisl arrivano osservazioni critiche sui dati Istat. Per il segretario confederale Raffaele Bonanni «i dati testimoniano che il tasso di occupazione è più che mai fermo. Il saldo rimane negativo, come dimostra peraltro il dato sul Mezzogiorno. In un paese che ha una crescita vicina allo zero, con una produzione industriale che si riduce sempre più, i consumi rimangono fermi, non c'è da farsi illusioni che ci siano segnali di dinamismo sul fronte occupazionale». Tornando ai dati Istat, a fine 2005 gli occupati ammontavano a 22,685 milioni, dei quali circa il 50% al Nord. Un po' meno di 2 milioni i disoccupati collocati per oltre il 54% al Sud. Il tasso di disoccupazione all'8% totale, oscilla tra il 4,7% del Nord e il 14,2% del Sud (dove «misteriosamente» è diminuito dello 0,8% su base annua pure in presenza di diminuzione degli occupati). Come al solito il Sud è anche penalizzato sul fronte dei tassi di attività maschili, ma soprattutto femminili. Un solo dato: nel Nord-Est il tasso femminile si colloca al 59,3%, nel Mezzogiorno precipita a 38,4%. Altro dato interessante, ma preoccupante per la qualità del lavoro, è quello che riguarda gli occupati dipendenti a tempo parziale: alla fine dello scorso anno erano 2,233 milioni, 149 mila in più (+7,1%) rispetto al 2004. In totale il 13,4% dei dipendenti lavora part-time e la percentuale sfiora il 26% per le donne. La conferma di questi dati si ha dalle ore lavorate: il 18,3% degli occupati lavora meno di 30 ore settimanali e il 2,1 meno di dieci ore. Per le statistiche basta un'ora di lavoro per essere considerati occupati. In crescita anche il numero dei dipendenti precari, cioè a termine. In totale sono 2,121 milioni (1,01 milioni maschi e 1,2 milioni donne) 159 mila (+8,1%) in più rispetto al 2004. Il 12,7% di chi lavora ha contratti a termine (58,1% in agricoltura) e come al solito sono le donne (15,6% sul totale) anche se è in forte crescita (+11,2% nell'anno) la componente maschile che lavora a termine.

il manifesto

Occupazione, che gran confusione

di Aldo Carra

Il comunicato Istat sulle forze di lavoro di ieri ci ha informati che gli occupati nell'intero anno 2005, rispetto al 2004, sono aumentati di 158.000 . Il primo Marzo, cioè venti giorni fa, l'Istat ci aveva detto che le unità di lavoro occupate , tra 2004 e 2005, erano diminuite di 102.000. Viene da chiedere: l'occupazione diminuisce o aumenta? Come orientarsi nel mare delle statistiche? Questa domanda non ce la poniamo solo noi in Italia. Se l'è posta, nel numero di Marzo, anche la rivista francese «Alternatives Economiques» dedicando con un bel dossier di 15 pagine dal titolo "I numeri sono affidabili?" La risposta che trapela nella lunga carrellata della rivista è: bisogna torturarli, farli parlare, ma non pretendere che ci possano dire quello che non sanno. Purtroppo gli utilizzatori di statistiche sono sempre più costretti a ricorrere a questa pratica, naturalmente innocua se applicata a numeri. Proviamo ad applicarla per capire se la verità è quella del 1° Marzo o quella del 21 e facciamolo spulciando nei successivi documenti dell'Istat. Sui dati delle unità di lavoro la lettura è netta: meno 102.000 senza discussione. Ma le unità di lavoro sono una entità di non facile comprensione. Sono, come spiega l'Istat, una misura standard di occupazione omogenea che equivale al lavoro prestato nell'anno da un occupato a tempo pieno. In soldoni due lavoratori a metà tempo fanno un lavoratore a tempo pieno e, quindi, una unità di lavoro. Le unità di lavoro, perciò, non sono «teste»: se viene licenziato un lavoratore a tempo pieno ed al suo posto ne vengono assunti due a part-time, le teste aumentano, le unità di lavoro no. E' a questo che si era attaccato il governo contestando, il primo Marzo, i dati delle unità di lavoro che davano una flessione. Adesso naturalmente il governo gongola ed esalta i dati delle forze di lavoro perché essi, invece, misurando le teste, cioè il numero di persone occupate indipendentemente da quanto lavorano, ci mostrano un aumento di 158.000 occupati. Ma sarà poi vero che gli occupati delle forze di lavoro, cioè le teste, aumentano? Ripercorriamo brevemente quello che l'Istat ha detto. Secondo trimestre 2004: le forze di lavoro aumentano di +40.000, ma questo dato «sconta il forte aumento della popolazione residente tra 2003 e 2004». Primo trimestre 2005 : occupati +308.000, ma «ancora una volta tale risultato incorpora il forte aumento della popolazione residente determinato dall'incremento dei cittadini stranieri registrati in anagrafe». Terzo trimestre 2005: occupati +57.000 «un aumento in marcato rallentamento rispetto al passato. Il risultato sconta l'attenuazione degli effetti dovuti alla regolarizzazione dei cittadini stranieri registrati in anagrafe». Quarto trimestre 2005: gli occupati sono aumentati di 56.000, ma «il risultato risente ancora degli effetti della regolarizzazione dei cittadini stranieri». Insomma, l'Istat continua a ripetere che la rilevazione da un risultato (aumento), ma lascia intendere che la verità è un'altra. Il problema vero è che nel 2004 e 2005 sono entrati nella rilevazione i lavoratori stranieri che si sono regolarizzati ed iscritti all'anagrafe, che non sono nuovi occupati, perché lavoravano anche prima, ma solo lavoratori sommersi che sono emersi.Purtroppo, però, l'Istat continua a non quantificare questo effetto, non depura i suoi dati da esso e continua a fornire, così, un dato che non ci da una buona rappresentazione della realtà. Sia l'Ires-Cgil che la Banca d'Italia, invece, producono stime ormai da diversi mesi arrivando a risultati simili. Aggiornando ad oggi le stime Ires, poiché l'effetto regolarizzazione tra 2004-2005 è stimabile in 250.000 occupati, se ne ricava che nel 2005 le forze di lavoro hanno registrato non un incremento di 158.000, ma un decremento di circa 90.000 occupati. Quindi non solo sono diminuite le unità di lavoro, ma sono diminuite anche le «teste». Come si vede torturando i numeri con gli stessi strumenti che l'Istat fornisce, le spiegazioni si trovano. Insomma, tra 102.000 unità di lavoro in meno e 158.000 occupati in più c'è uno scarto di 260.000. Se esso è dovuto agli stranieri regolarizzati ed ai cassintegrati che gonfiano artificialmente le forze lavoro il dato di oggi si spiega, anche se non si giustifica: la verità rimane quella del primo marzo e l'Istat farebbe bene a chiarirlo. Resta in ogni caso una amarezza: non potrebbe l'Istat stesso fornire il dato esatto dei lavoratori stranieri regolarizzati o almeno una stima evitando così agli utilizzatori di torturare i numeri per trovare la verità e, soprattutto, evitando di fornire, nello stesso mese, due dati che si prestano a due letture contrapposte?

Ancora scontri e saccheggi a Bengasi per la maglietta di Calderoli. Trenta morti e duecentotrenta feriti in Nigeria, per le vignette su Maometto e per un atto di profanazione del corano in una scuola. Manifestazioni islamiche, chiese cristiane incendiate e arresti in Pakistan (altro seguirà, in occasione della visita di Bush) e in Afghanistan, con gli studenti che minacciano di arruolarsi in Al Quaeda. Fatwa di condanna a morte del vignettista danese emanata da un tribunale islamico in India. Il quotidiano saudita Shamschiuso dal ministro dell.informazione per aver riprodotto alcune vignette, il quotidiano russo Nash Reghionchiuso dalla proprietà per la stessa ragione. E non basta, perché se Atene piange Sparta non ride: in Nuova Zelanda a sentirsi offesa non è l’islam fondamentalista ma la chiesa cattolica, e la colpa non è delle vignette sul Profeta ma la serie tv di cartoni animati «South Park», già annullata negli Stati uniti su pressione di un gruppo cattolico, che fa satira (non granché fine) su una statua della Madonna sanguinante, donde l’invito dei vescovi a boicottare i prodotti pubblicizzati dall.emittente. Mentre poco più in là, in Australia, il primo ministro Howard dà alle stampe un libro in cui stigmatizza la diversità culturale degli immigrati musulmani definendola «antagonistica e inassimilabile», e assesta così l’ennesimo colpo al multiculturalismo australiano.

Non è lo scontro di civiltà, se non nei desideri di chi lo attizza, e anzi a saperla leggera distintamente è una mappa del conflitto diversificata, che spacca al suo interno il mondo islamico (e quello cristiano) e in cui giocano fattori sociali e politici locali di segno perfino opposto. Ma certo è una guerriglia globale in cui le religioni hanno ormai conquistato un ruolo simbolico e politico primario, e da comprimarie giocano sulla scena politica contrattando con i governi fatwe, libertà d’espressione, limiti etici ed estetici. Ed è - si badi - una guerriglia tutta interna al campo politico e culturale che nel lessico politico occidentale corrisponde alla destra, e che in termini globali sarebbe più preciso definire come il campo che ha per posta in gioco principale quella dell’identità. Per ragioni identitarie il quotidiano danese (di destra) pubblica le vignette anti-Maometto, per ragioni identitarie gli islamici fondamentalisti si sollevano per ogni dove. Per ragioni identitarie Howard stigmatizza gli immigrati islamici (inventandosi un.identità australiana che non c’è, essendo a sua volta una stratigrafia di identità ridisegnate e reimmaginate dalle immigrazioni di due secoli); per ragioni identitarie Calderoli brandisce la sua maglietta contro gli immigrati islamici in Italia come l’aglio contro le streghe, e lungi dal battersi il petto incassa il risultato dei morti di Bengasi per la campagna elettorale identitaria che la Lega si appresta a fare associando alla ricerca dell’identità perduta padana quella siciliana.

Quattro anni e mezzo dopo l’11 settembre ovunque nel mondo si va facendo chiaro che il conflitto non è fra due civiltà ma fra una politica dell’identità e una politica non identitaria, ovvero declinata sulla differenza e capace di mettere in relazione le differenze. Solo che mentre le destre e i fondamentalisti sull.identità hanno le idee chiare e le armi affilate, sulla/e differenza/e le sinistre e i laici hanno le idee confuse e l’argomento unico della tolleranza, che è un argomento dai confini incerti (chi e in base a che ne decide le soglie?) e sempre a rischio di sfumare o nell.indifferenza per l’altro o nell .assimilazione dell’altro. Senza affrontare questo problema che dà il timbro al mondo presente, è inutile sperare in qualsivoglia palingenesi elettorale. Com’è stato inutile affidarsi alla mitologia europeista, se sotto il sorriso delle vignette è pronta a riemergere del vecchio continente più la radice delle guerre di religione che quella del sincretismo etnico e culturale.

Titolo originale: A Big Government Fix-It Plan for New Orleans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

BATON ROUGE, Louisiana – Nel panorama di vuoto politico del post-Katrina, punteggiato dalle macerie di varie proposte, ricette che si sgretolano e iniziative alluvionate, un oscuro e molto conservatore membro del Congresso è entrato in campo con una soluzione finale decisamente statalista.

Il deputato Richard H. Baker, repubblicano eletto nei collegi suburbani di Baton Rouge, che deride i democratici perché non sufficientemente favorevoli al libero mercato, è l’improbabile campione di un piano di edilizia residenziale d’emergenza che farebbe dell’amministrazione federale il principale proprietario immobiliare di New Orleans: almeno per un po’. Baker ha proposto che la Louisiana Recovery Corporation stanzi ben 80 miliardi per estinguere mutui, ripristinare le opere pubbliche, acquisire enormi pezzi devastati di città, ripulire il tutto e rivenderlo ai costruttori.

Desperatamente alla ricerca di un intervento di grande scala all’enorme problema immobiliare della regione, rappresentanti politici e operatori economici della Louisiana di tutte le gradazioni – neri e bianchi, repubblicani e democratici – hanno adottato questo poco conosciuto uomo del Congresso e il suo grandioso progetto, definendolo un passaggio cruciale. Anche se la Casa Bianca deve ancora firmare, ci sono già segnali che alcuni alti esponenti del Congresso siano interessati a sostenerlo; Baker ha detto che i funzionari dell’amministrazione non l’hanno comunque respinto.

L’approvazione del disegno sta diventando sempre più importante per la Louisiana visto che lo stato ha perso la contesa col maggior peso politico del Mississippi lo scorso mese, quando il Congresso ha votato un pacchetto da 29 miliardi di dollari per la regione degli stati del Golfo. Lo stanziamento da’ al Mississippi circa cinque volte tanto per famiglia in aiuti all’abitazione di quanto non riceva la Louisiana: a riprova del peso del governatore Haley Barbour del Mississippi, ex presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, e del Senatore Thad Cochran, che presiede lo Appropriations Committee.

I rappresentanti della Louisiana affermano di essere stati obbligati a votare a favore, perché altrimenti avrebbero potuto anche non ricevere alcun aiuto. Ma ora si concentrano anche con più intensità sul piano di acquisizione di Baker; molti economisti qui sostengono che non ci sono alternative, per i proprietari che non riescono a pagare le ipoteche sulle proprietà devastate.

”È probabilmente una delle ultime speranze per chi ha avuto la casa allagata e non era coperto da un’assicurazione” sostiene Loren C. Scott, economista emerito alla Louisiana State University. “Senza questo tipo di sostegno, ci sarebbe un numero notevole di persone che potrebbero semplicemente affondare”.

James A. Richardson, direttore del Public Administration Institute alla stessa università, dice “È l’ultima scommessa possibile, per certi versi”.

L’oppositore politico a Baker nella delegazione della Louisiana al Congresso, William J. Jefferson, democratico di New Orleans, sostiene che l’approvazione del disegno è importante.

”Senza – dice – i proprietari hanno poche possibilità di recuperare il valore che hanno perso”.

Secondo il piano, la Louisiana Recovery Corporation entrerebbe in campo ad evitare inadempienze, in modo simile a quanto fatto dalla Resolution Trust Corporation attivata dal Congresso nel 1989 col settore del risparmio e prestiti. Si offrirebbe di rilevare dai proprietari, a non meno del 60% del valore prima dell’uragano Katrina. Agli erogatori del prestito sarebbe offerto sino al 60% di quanto loro dovuto.

Per finanziare la spesa, il governo emetterebbe obbligazioni legate in parte alle vendite di terreni ai costruttori.

I proprietari non dovrebbero necessariamente vendere, ma chi lo fa avrebbe un’opzione a ricomprare dall’ente. L’ente federale non avrebbe nulla a che vedere con gli interventi urbanistici sui terreni; questo spetterebbe alle amministrazioni locali e ai costruttori.

Per passare, la proposta richiederà alla fine il sostegno della Casa Bianca. E i segnali, secondo questo solido repubblicano che vanta un sostegno quasi totale dai gruppi conservatori, sono stati vari.

Il Presidente Bush, nel corso di un viaggio in auto insieme a Baker lo scorso settembre “ha capito”, come insiste Baker in un’intervista dal suo ufficio, nella città che rappresenta in modo discreto da due decenni a Washington. “È stato molto aperto a riguardo. Mi ha detto, ' lavoraci su e vai da Hubbard' “ ovvero il massimo consigliere economico di Bush, Allan B. Hubbard.

Quando il Congresso stava per riunirsi lo scorso mese, col piano in sospeso, Baker ha ricevuto una domenica mattina la visita di Donald E. Powell, vicerè del Presidente per la ricostruzione della Costa del Golfo. Baker racconta che Powell era “più a suo agio” con la proposta ma ancora non del tutto convinto dopo un’ora di discussione. Il disegno fu respinto, nonostante le manovre riuscite per compattare la variegata rappresentanza della Louisiana a sostegno e gli appelli del mondo economico. Eppure, fra promesse dei senatori di riprendere rapidamente il progetto quando il Congresso si riunirà, e segnali che la Casa Bianca non ha voltato le spalle, il prudente Baker pensa che le sue chances siano migliori che mai.

Sean Reilly, membro della Louisiana Recovery Authority, afferma che Powell gli ha riferito come la Casa Bianca fosse “entrata” nel concetto ma avesse bisogno di riguardare un po’ l’idea.

”Ci siamo andati molto vicino” dice Walter Isaacson, vicepresidente della Louisiana Recovery Authority, istituita dal governatore per sovrintendere la ricostruzione. I massimi consiglieri della Casa Bianca “fondamentalmente apprezzano il principio” sostiene. E hanno fatto promessa di “collaborare con voi, e metterlo nella corsia preferenziale” per le udienze a Senate Banking, Housing and Urban Affairs Committee, continua Isaacson.

I colleghi conservatori di Baker, dentro e fuori il Congresso, si preoccupano delle dimensioni enormi dell’intervento proposto. All’interno dello House Financial Services Committee, parecchi membri hanno tentato di limitare spesa e durata del provvedimento, o di mirare ad una gestione in pareggio. “È irresponsabile per il Congresso firmare un assegno in bianco, pescando dai contribuenti americani, guidati dalla sola immaginazione dei politici” ha dichiarato il deputato Jeb Hensarling, repubblicano del Texas. “Dobbiamo assicurarci che non venga chiesto di pagare di nuovo, fra due o tre anni, per la stessa calamità”

Ai suoi critici Baker risponde: “Se non questo, che altro? Le risposte non sono valide”.

Un realistico volo di primo impatto sui quartieri devastati di New Orleans l’ha convinto che soluzioni ordinarie non funzionerebbero. Qui c’era un problema che superava le possibilità dell’impresa privata. “In questo caso, è saltato tutto” dice Baker. “Eliminazione totale. Così ha pensato che ciò richiedesse un rimedio senza precedenti. Se non lo facciamo, cosa sarà della regione fra due anni?”.

Tranquillo, bene educato e con l’aria da chierichetto da figlio di un pastore, Baker ha trascorso anni misurandosi con gli arcani della regolamentazione dei servizi finanziari. Con la calma di un uomo abituato a riunirsi coi banchieri per ragionare sui documenti di bilancio, espone tutto: decine di migliaia di proprietari di casa esposti, che devono milioni di pagamenti ipotecari su proprietà di dubbio valore, a vari istituti di prestito.

Sforzo pieno di paradossi, il suo. Baker ha dedicato gran parte della sua carriera al Congresso tentando di imbrigliare i giganti semipubblici Fannie Mae e Freddie Mac, affermando che hanno troppo potere. Ora, “favorevole come sono al libero mercato” dice, vuole che il governo agisca in modo che non ha precedenti.

Un’altra stranezza di Baker è la sua quasi invisibilità, anche nel suo collegio, al punto che “la maggior parte delle persone a Baton Rouge non lo riconoscerebbero” sostiene Wayne Parent, professore di scienze politiche alla Louisiana State University. In uno stato che da’ un cento valore alla visibilità dei suoi politici “Non si sente molto parlare di lui” dice Parent. E pure, Baker è improvvisamente balzato all’avanguardia della classe politica della Louisiana, evidentemente povera di idee.

È stato eletto in un collegio suburbano principalmente bianco, una zone relativamente ricca per gli standards della Louisiana, storicamente ostile a quella che fu la grande città dell’est. Ma la sua iniziativa potrebbe risultare di grande beneficio soprattutto agli afroamericani di New Orleans.

In parlamento, la sua proposta è stata adottata dei liberals – “Credo sia una buona idea” ha detto il deputato Barney Frank, democratico del Massachusetts – e schivata da molti conservatori. La proposta è valida “quanto il modo in cui la si usa” dice Isaacson. “La mia sensazione è che possa rappresentare una verifica di quanto è sincera l’amministrazione quando afferma di volere un attento e intelligente sforzo di ricostruzione”.

here English version

SIA a sinistra sia a destra si cerca e si vuole un presidente della Repubblica gradito alle due parti in causa. Questo è bene. Il Capo dello Stato rappresenta la nazione nella sua unità e non può essere espressione d’una sola forza politica. Infatti, non appena eletto e quali che siano la sua biografia, la sua cultura, le sue convinzioni, egli si affretta a porsi al di sopra delle parti e proclamare la sua autonomia nei confronti di chiunque. Così è sempre stato, almeno a parole. Talvolta anche nei fatti.

Non è però quasi mai accaduto nei 60 anni della nostra storia repubblicana che al Quirinale sia andato un uomo scelto al di fuori del Parlamento e dei partiti che vi sono rappresentati. Gronchi era democristiano e leader d’una delle correnti di quel partito. Così pure Antonio Segni.

Così Cossiga. Leone fu utilizzato da tutti i democristiani che volevano bloccare l’ascesa di Moro. Saragat era fondatore e capo dei socialdemocratici e si contrappose a Nenni. Pertini, socialista e partigiano, fu di fatto candidato dal Pci. Scalfaro fu scelto per superare lo stallo tra Forlani e Andreotti. Dunque tutti uomini di partito e di lunga militanza.

Restano il primo e l’ultimo di questa cronologia: Einaudi e Ciampi. Provenienti entrambi dalla Banca d’Italia. Ma Einaudi era, con Benedetto Croce, uno dei massimi esponenti del liberalismo e del partito che ne era l’espressione. È rimasto celebre anche per aver nominato presidente del Consiglio Pella senza neppure aver consultato i presidenti delle Camere, attenendosi alla lettera della Costituzione ma scavalcando il rito delle consultazioni.

Perciò, a ben guardare, l’unico esempio d’un presidente scelto al di fuori dei partiti e dello stesso Parlamento è stato Carlo Azeglio Ciampi. Dal punto di vista dell’arbitro imparziale e garante della Costituzione, così come è concepito nella nostra architettura istituzionale, è stato certamente quello che meglio di tutti ha rappresentato la nostra massima autorità di garanzia.

Si è parlato molto in questi giorni a proposito dei modi della sua elezione, di metodo Ciampi. Se ne è parlato in maniera imprecisa e spesso con lingue biforcute. La sua candidatura fu proposta da Veltroni, allora segretario del Pds, a Fini il quale convinse Berlusconi mandando a gambe all’aria un’intesa precedentemente intercorsa tra D’Alema (allora presidente del Consiglio) Marini e lo stesso Berlusconi sul nome della Russo Iervolino. Da due manovre incrociate e condotte all’insaputa dell’interessato che a tutto pensava fuorché a ricoprire la massima carica dello Stato, nacque la migliore e oggi giustamente rimpianta presidenza che la Repubblica abbia avuto nei 60 anni della sua storia.

In questi sessant’anni le maggiori forze politiche hanno avuto accesso a quella carica, vi si sono anche succeduti cattolici professi e laici. Ma mai una donna e mai un comunista. Dal 1989, caduta del Muro e fine del Pci, sono passati diciassette anni e si sono succeduti tre presidenti della Repubblica ma ancora nessun ex o post comunista è mai stato insediato al Quirinale. Il presidente del Consiglio uscente ha condotto l’intera sua campagna elettorale all’insegna dell’anti-comunismo (che non c’è più) e ancora due giorni fa comiziando a Napoli ha confermato che mai e poi mai «un comunista» varcherà quella soglia. Si riferiva a D’Alema, proprio mentre molti dei suoi collaboratori e consiglieri si affrettavano a smentire ogni discriminazione e alcuni di essi tifavano e tifano in favore del leader dei Ds.

Qual è dunque, in questo guazzabuglio, la reale posizione di Silvio Berlusconi e del partito di sua proprietà che ha raccolto e quindi rappresenta il 24 per cento del corpo elettorale (9 milioni di italiani su 36 milioni di votanti)?

Se capisco bene (ma posso anche sbagliarmi) Berlusconi e Forza Italia si sono rassegnati a D’Alema presidente della Repubblica; alcuni di loro addirittura pensano che quella sia la soluzione ottimale. Però non sono in grado di votarla. Si augurano che il centrosinistra lo voti compattamente. Lo elegga con i propri voti che, dalla quarta votazione, sono - almeno sulla carta - ampiamente sufficienti: 547, quarantuno in più del quorum di 506 necessario per l’elezione.

Poi, una volta eletto, Forza Italia e Berlusconi lo riconosceranno e lanceranno più di un ponte nei suoi confronti. E la discriminazione anticomunista sarà superata una volta per tutte. Capitolo chiuso.

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A questo schema, allo stato attuale delle cose, si oppongono tenacemente Fini e soprattutto Casini. Casini punta alla fine del berlusconismo. Una presidenza D’Alema favorita o non ostacolata da Berlusconi avrebbe come effetto un consolidamento del Cavaliere alla guida dell’opposizione rinviando a babbo morto i progetti successori dei suoi alleati. La Lega viceversa è sulla scia berlusconiana o addirittura lo precede.

Andrà così? La cartina di tornasole, che dovrebbe rivelarci l’esito di questa complessa partita entro poche ore, sta nella risposta che Berlusconi darà alla candidatura D’Alema quando (e se) gli sarà ufficialmente proposta.

Se risponderà rifiutandola e controproponendo il nome di Letta o di un «esterno» tipo Mario Monti, vorrà dire che Berlusconi non ostacola l’elezione di D’Alema. Sembra un paradosso ma è esattamente così. Oppure il Cavaliere e tutti i suoi alleati sceglieranno un nome all’interno del centrosinistra, per esempio Giuliano Amato o Giorgio Napolitano. In quel caso ci sarà la «larga intesa» e il candidato potrebbe addirittura essere eletto in prima o seconda votazione.

Ma, dettaglio non piccolo, affinché questa evoluzione sia possibile è necessario che il centrosinistra presenti una rosa di candidature e non un solo nome.

Quanto all’ipotesi che la Cdl accetti la candidatura di D’Alema e la voti fin dall’inizio, si tratta d’una soluzione poco probabile ma non impossibile.

In fondo il Cavaliere è anche celebre per i suoi improvvisi capovolgimenti di fronte.

* * *

Fin qui ci siamo occupati di come si stanno predisponendo i pezzi sulla scacchiera del centrodestra. Ma vediamo che cosa avviene nel frattempo nell’opposto schieramento.

D’Alema. Vuole, per sé e per il suo partito, il Quirinale.

Non ne fa mistero. Ritiene che l’intera coalizione debba votarlo. Conosce la posizione di Berlusconi. Non dispera che qualche drappello di parlamentari berlusconiani nel segreto dell’urna si unisca alla sua maggioranza e serva a rimpiazzare qualche dissidente di casa propria (per esempio i radicali). Tutta la strategia, sua e di Fassino, è concentrata nell’evitare candidature plurime. In più, per vincere l’ostilità e la perplessità degli interlocutori, Fassino propone un programma di politica costituzionale condivisibile con il centrodestra.

Sarebbe una novità assoluta. In sessant’anni non c’è mai stato un candidato al Quirinale che abbia preventivamente (ma neppure successivamente) assunto impegni d’alcun genere salvo il rispetto della Costituzione.

Fassino ha dato atto (in un’intervista al Foglio, accanito sostenitore di D’Alema) che l’idea d’un programma di politica costituzionale sarebbe un fatto profondamente innovativo e anche traumatico ma lo ritiene giustificato dalla divisione in due metà del corpo elettorale e dal fatto che un sistema bipolare richiede profonde innovazioni istituzionali che finora non ci sono state.

Prodi. Segue con apparente distacco questa partita. Lo interessa soprattutto che essa non finisca per coinvolgere e sconvolgere la partita del governo, che avrebbe dovuto precedere e non seguire l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Preferirebbe avere D’Alema nel governo e non al Quirinale, ma non ne fa una tragedia. Fassino lo ha avvertito che comunque al Quirinale dovrà andare un Ds altrimenti liberi tutti. Siamo dunque, per quanto riguarda Prodi, nello stato di necessità.

Rutelli. Si è opposto all’ipotesi di più candidature ed è pronto a votare D’Alema se altri nomi fossero rifiutati o non fatti.

Le altre forze del centrosinistra attendono che la partita si sviluppi. Non hanno molto spazio per impostare un proprio gioco al di là di piccoli dispetti tattici.

* * *

Sia permesso chiudere questa analisi esprimendo un parere personale che deriva da quello che, secondo noi, è l’interesse generale degli italiani. Lo farò per punti per essere il più chiaro possibile.

1. Pensare che le divisioni del corpo elettorale siano ricucite o permangano secondo la persona che sarà eletta al Quirinale è un errore. La gara può affascinare la fantasia, ma ripartire insieme, come si augura Prodi, deriva da quella che sarà in concreto l’azione di governo, non dall’accordo o dal disaccordo tra il centrosinistra e Berlusconi sul nome del nuovo Capo dello Stato. Sono in gioco aspettative e interessi. Anche speranze, anche valori. In fondo il programma costituzionale proposto da Fassino è esattamente quello perseguito da Ciampi per sette anni, che purtroppo però non ha evitato la divisione in due metà del corpo elettorale.

2. È augurabile che al Quirinale sia eletta una personalità col maggior numero di consensi possibile. Dico possibile. Altrimenti bisognerà fare di necessità virtù e contentarsi di varcare la soglia dei 506 voti. E procedere alla formazione del governo.

3. Quello che certamente non si può fare (che purtroppo si è in parte già fatto, come risulta dalla grottesca sequenza di comunicati seguiti all’incontro tra Gianni Letta e Ricky Levi) è di abbozzare una sorta di patto segreto tra i due maggiori contraenti al di fuori di quella trasparenza che viene invocata a parole e regolarmente tradita nei fatti.

4. Una lotta intestina nel centrosinistra è ipotesi da scongiurare a tutti i costi. Dopo una brutta campagna elettorale dividersi nel finale sarebbe catastrofico.

5. Qualora l’ipotesi dovesse affacciarsi all’orizzonte occorrerebbe che i candidati in lizza facessero un passo indietro, come ha già fatto D’Alema di fronte alla candidatura di Bertinotti alla Camera. Passo indietro meritorio; non è detto che debba sempre esser lui a farlo anche se non è escluso che quest’onere ricada di nuovo sulle sue spalle. I veri statisti si vedono in queste occasioni, sia nel pretendere sia nel lasciare.

6. Ci vorrebbe un uomo come Ciampi. Ma non c’è. Mario Monti è sul mercato da troppo tempo e non somiglia affatto a Ciampi. Si sente en réserve de la République da almeno tre anni. Forse è meglio che ci resti. I terzisti non sono al di sopra delle parti, sono dalla parte propria. Non è la stessa cosa.

7. Quando finalmente Romano Prodi riceverà l’incarico è auspicabile che componga il ministero attuando pienamente il dettato costituzionale. Prenda nota delle aspettative dei partiti ma proceda decidendo da solo la composizione del suo governo. Certe inclusioni e certe esclusioni sussurrate nei giorni scorsi appartengono ai riti della lottizzazione e non sono più tollerabili. Vale per il governo, per la Rai, in generale per lo spoils system. Lo Stato è lo Stato ed è o dovrebbe essere degli italiani. Da questo punto di vista Prodi ha una grande responsabilità. Non si chiuda e non si faccia chiudere nell’orticello partitocratico. E neppure nell’orticello prodiano. Veda di mettere la persona giusta al posto giusto e su questo sarà giudicato.

La partita comincia domani. Speriamo che non sia lunga, sarebbe un pessimo segnale. A tutti noi spettatori auguro buona visione pur avendo scarse speranze sulla qualità della medesima.

Caduta, come era prevedibile, l'uscita sulle irregolarità del voto, Silvio Berlusconi continua a tenere su di sé l'attenzione della stampa. A torto. Oggi il paese ha davanti una sola procedura da adempiere: il capo dello stato deve chiamare Prodi per affidargli l'incarico. Sia adesso sia fra un mese, sia Ciampi o sia un altro, non c'è altra scelta possibile. La supposta reticenza del Quirinale a prendere una decisione in fase di scadenza, non muta la decisione. Semplicemente la rinvia. E prolunga il governo di Berlusconi, sia pure nella non pienezza dei poteri di almeno un mese, ma potrebbe essere di più, quando urgerebbe metter fine alle incertezze e passare ai primi famosi cento giorni della sinistra. Rinviarli a petto di una finanziaria e le successive vacanze non è né brillante né del tutto innocuo.

È curioso che la stampa sembri galleggiare fra banalità e gossip. Banale è stata l'uscita di Tremaglia. Banale, anche se indicativa del personaggio, è l'ultima proposta che Berlusconi ha mandato tramite il Corriere della sera alla banda di comunisti che fino a ieri deprecava: patteggiamo assieme un pacchetto essenziale di misure internazionali, interne, economiche, eccetera. Gossip aveva già sollevato ieri la proposta di D'Alema all'opposizione di incontrarsi sull'elezione del nuovo capo dello stato, solo incontro d'obbligo, perché lo si vota a maggioranza qualificata e se, come è probabile, non ci sarà accordo, attraverso più d'un defatigante passaggio. In Italia il presidente della repubblica non è eletto dai cittadini bensì dalle camere, ma (sia detto fra parentesi) non è una buona ragione che a un mese di distanza il paese nulla ne sappia e in nessun modo venga interpellato e tutto si decida in incontri di capigruppo e segreterie. Sta di fatto che si parla di tutto fuorché della sola cosa seria: quale Italia è uscita dalle elezioni, quale fisionomia concreta ha, quale giudizio ne diamo? Non numerico. I numeri sono chiari e denunciano il carattere malefico del maggioritario bipolare, perdipiù in vario modo manipolati, che fa sussultare chi creda ancora alla democrazia rappresentativa quando si contempli la distribuzione dei seggi alla Camera e al Senato.

La spartizione dell'Italia in due blocchi quasi equivalenti, ma che se ne dividono diversamente le spoglie nelle coalizioni oscura una realtà politicamente assai più complessa, tagliando fuori interi pezzi di bisogni e di culture. La riduzione al bipolarismo a) oscura l'evidenza che il paese è almeno tripolare b)non rispetta la Costituzione legittimando nel centrodestra forze che in nessun altro paese europeo si ammetterebbero. Noi siamo un paese che più d'una scelta di fondo divide non sulla linea fra le due coalizioni.

Lo divide la contraddizione sociale indotta dal neoliberismo, che unisce quasi tutta la destra a metà del centrosinistra, lo divide lo spirito della Costituzione, che è stato intaccato in diversi modi da tutte e due e renderà non così agevole il prossimo referendum, lo divide l'idea di laicità dello stato. Questioni che, oscurate dal voto, emergono di continuo come trasversalità grazie alle quali ne abbiamo viste negli ultimi anni di tutti i colori. Sul giudizio del paese del resto, mi lasciano perplessi anche le conclusioni di due stimati amici Pasquale Santomassimo sul nostro giornale e Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera. Il primo rimprovera a Prodi non solo e con ragione certe goffaggini e confusioni di linguaggio, ma il non essere andato incontro alla richiesta di diminuire le tasse.

Ma non è questo il cardine di quel privatismo che Santomassimo deplora? Con che altro si pagano i servizi pubblici? Davvero ci si deve limitare al recupero dell'evasione o non si dovrebbe andare a qualche ragionevole forma di redistribuzione? Davvero la proprietà della casa è sacrosanta? Davvero ogni casa è abitata da chi la acquista? Davvero farebbe fuggire i capitali una scure fiscale sulle rendite, immobiliari e non? Quanto al cuneo fiscale, che meglio sarebbe stato chiamare detassazione del lavoro, non è neppur chiaro se quel che i lavoratori riceveranno in più in busta paga corrisponderà a qualche perdita in assistenza, previdenza, scuola e sanità. Dietro al problema delle tasse, sono in ballo davvero due idee di società, privatistica o solidale, uguagliante o disuguagliante. Analogamente non mi persuade che il blocco di centrodestra esprima una realtà finora semplicemente sotto traccia. Non è la stessa cosa votare Alcide De Gasperi o Silvio Berlusconi. Il primo ha messo un argine a destra, il secondo lo ha tolto. E questa non è una differenza da poco.

D'altra parte, quando Giuseppe De Rita, il cui lavoro è sempre di grande interesse, osserva che Prodi non ha parlato al cuore profondo del profondo Nord, ha ragione. Una breve incursione nel medesimo mi ha fatto constatare come esso sia a sua volta diviso fra centri urbani e campagna. I primi più recettivi a qualche problematica progressista. Ma che sono le campagne del nord oggi? Non certo il sinonimo dei campi dai quali a sera rientra il contadino onusto di fatica. Sono il territorio di piccole imprese, il cui gene egoistico è più grosso quanto più piccole sono e nonché il luogo dove riparano sempre più gli abbienti dei centri urbani, in cerca di verde e di comuni fiscalmente meno esigenti. È ai bisogni di questi attori sociali che il centrosinistra doveva parlare? Doveva andare incontro agli umori della Lega? Già la sinistra, e non solo diessina, s'era troppo piegata sul cosiddetto malessere del nord e farebbe bene a interrogarsi perché non più di un anno fa s'era conquistata delle regioni oggi perdute. Converrebbe insomma dare i nomi alle cose, i volti alle persone, la vera natura ai bisogni. Per capirli. Non sempre per andarvi incontro.

Ennesima beffa scientifica, ennesimo sbrego istituzionale, ennesimo inquinamento politico del ministro contro l'ambiente. Domani mattina in pompa magna elettorale, 17 giorni prima del voto, a camere sciolte, il candidato deputato di An Altero Matteoli presenta una Relazione sullo stato dell'ambiente, la prima e l'unica dei governi Berlusconi, con 39 mesi di ritardo rispetto alla scadenza normativa. La legge istitutiva del ministero (luglio 1986) impone di presentare «al Parlamento» una relazione sullo stato dell'ambiente «ogni due anni». La prima risale all'aprile 1989, la seconda al marzo 1992, poi nulla nelle due brevi legislature fino al 1996. I governi del centrosinistra ripresero il ritmo, rispettando l'impegno: due relazioni nei cinque anni di legislatura, la prima a luglio 1997, la seconda a gennaio 2001, entrambe presentate «al parlamento», ovvero a camere operative, con aule aperte, commissioni funzionanti, ordinaria dialettica democratica.

L'attuale ministro contro l'ambiente non ha rispettato impegno e scadenza, nel gennaio 2003 non si è nemmeno scusato del ritardo, il suo capo di gabinetto ha dichiarato il falso in diretta in una trasmissione rai dell'aprile 2005 (citando una presentazione «pochi mesi or sono», mai avvenuta). Ora presenta non al parlamento, ma ad amici e complici, giornali e televisioni una relazione di propaganda elettorale, basata su dati Apat già noti, strutturata sui rapporti mancati del ministero (con l'energia, l'industria, i trasporti, l'agricoltura. il turismo, le aree urbane), con utili allegati purtroppo poco credibili (il governo commenta i protocolli della convenzione delle Alpi che non ha voluto ratificare e un nuovo codice dell'ambiente che non è in vigore!). Tipo lettera Berlusconi ai bimbi appena nati o autoencomio Martino ai giovani non di leva. Propaganda. Domani a Villa Madama. Nella lettera di invito si informa, in modo bizzarro e istituzionalmente sgarbato, che «il Presidente della Repubblica è stato invitato a presenziare la cerimonia»: queste cerimonie si concordano, non si improvvisano! A peggiorare le cose si intuisce una pressione sulla Presidenza che il 17 febbraio ha ricevuto lo schema di decreto legislativo che «terremota» tutta la legislazione ambientale italiana (accompagnata da minacciose dichiarazioni del capo di gabinetto Togni). Dovete sapere che è un testo di 318 articoli e 45 allegati, quasi 1000 pagine, complicate anche solo da pubblicare in un fascicolo della Gazzetta Ufficiale, prive di un essenziale requisito formale (il parere della Conferenza Unificata, quello delle regioni è contrario), prive di una parte essenziale delegata con legge (le aree protette), contestate da molte regioni (con annunciati ricorsi alla Corte Costituzionale), già denunciate dalla Commissione Europea con atto ufficiale del 13 dicembre (tenuto nascosto dal ministro alle istituzioni italiane), piene di impatti negativi sulla certezza del diritto e sul rispetto della natura.

Il Presidente della Repubblica ha chiesto inevitabili svariati chiarimenti. Difficile che si possa rispondere in breve tempo, senza modifiche, senza passaggi collegiali. L'emanazione del decreto ha una scadenza normativa: la legge 308/2004 di delega prevede l'adozione entro 18 mesi, dunque entro l'11 luglio 2006. Quella è la scadenza per l'eventuale firma. Prima ci saranno le elezioni e la legittimazione democratica di una nuova maggioranza parlamentare. Dovete sapere che il governo Berlusconi chiese al parlamento di riscrivere tutta la legislazione nell'agosto 2001, all'inizio della legislatura del centrodestra, come alibi per poter «abolire» di fatto ogni funzione del ministero dell'ambiente concepito come intralcio ai superponti e alle gallerie di Lunardi, ai condoni fiscali e edilizi di Tremonti, agli attacchi al paesaggio di Urbani, alle emissioni di Marzano e Scajola, alle alleanze con Bush contro il protocollo di Kyoto. Visto che la storia andava per le lunghe, nel maggio 2003 il ministro contro l'ambiente fece scrivere a tutti i dirigenti del ministero di «volersi astenere, discutere o anche solo impostare attività» connesse alle materie della delega (cioè tutte!), ribadendo dopo pochi giorni che era «inutile che gli uffici perdano tempo a lavorare sugli stessi temi che poi saranno esaminati nell'ambito della predisposizione dei testi previsti dalla delega».

Con tre voti di fiducia sia al Senato che alla Camera (voti sul governo, non sul provvedimento di merito), la delega è giunta solo a gennaio 2005, il decreto legislativo delegato solo ora, alibi per non aver fatto nulla per tutti i cinque anni. O, meglio, per aver fatto solo favori e danni: commissariato parchi, abolito domeniche ecologiche e città dei bambini, boicottato la strategia europea di riduzione delle emissioni, tagliato fondi e progetti di regioni e comuni su difesa del suolo o qualità dell'aria, favorito l'inquinamento elettromagnetico, e poi ovviamente promosso consulenze clientelari e lottizzazioni partitiche (da cui, fra l'altro, la laurea honoris causa, da ragioniere ad ingegnere!).

Tanto che ora non hanno nemmeno i soldi per il funzionamento ordinario, per l'affitto, per le pulizie. Forse in campagna elettorale dovremmo denunciare di più questo scandalo! E annunciare un patto ambientale con gli italiani, la riconversione ecologica dell'economia e nelle istituzioni, in ogni manifestazione, in ogni intervista, di ogni partito dell'Unione.

PADOVA. «E’ buonissima. E’ meno grassa di una normale mortadella». Romano Prodi si libera dalla «morsa» del telefonino e addenta di gusto una fetta di ocadella, la mortadella d’oca, subito bagnata da un buon bicchiere di prosecco. Sarà anche impegnato in una campagna elettorale estenuante, ma il professore non rinuncia ai piccoli piaceri della vita. Insieme alla moglie Flavia, che lo segue nei weekend, il candidato premier dell’Unione arriva al mattino , a piedi, dalla Fiera, dove ha ammirato orchidee. Al padiglione 7 c’è il tempo di un simpatico botta e risposta con il titolare di una ditta di Montichiari (Brescia). «Abbiamo 25 persone - puntualizza l’imprenditore - che mangiano e dormono in albergo». «Beh», ribatte Prodi, «non vorrà mica farli dormire all’aperto...». Prima di uscire fissa il manifesto del concerto di Joan Baez, in calendario il primo aprile: «Peccato, avrò altro da fare», dice.

Attorno al tavolo della redazione si accomodano anche il sindaco Flavio Zanonato, il vicesindaco Claudio Sinigaglia, il segretario regionale dei Ds Cesare De Piccoli, il segretario provinciale della Quercia Alessandro Naccarato e il segretario cittadino della Margherita Simone Dalla Libera. Un pezzettino di caciotta, due acini d’uva, un bicchier d’acqua e poi si parte con il forum: «Bene», afferma il Prof, «lavoriamo».

Economia, grandi opere, Tav e Mose, ricerca scientifica e innovazione. E poi federalismo e referendum: sono questi i temi del «Forum» nella nostra redazione.

Professor Prodi, partiamo da un tema spinoso: le grandi opere. Lei ha detto che la Tav va realizzata. E per il Mose di Venezia, che pensa di fare. A proposito, lo sa che il governatore Galan si è candidato per sostituire il ministro alle Infrastrutture Lunardi?

«Non lo sapevo. Ma non è faticoso fare meglio di Lunardi. Ci vuole poco, così avremo meno tunnel, meno gallerie. Ma non servirà, perderanno le elezioni...»

Presidente le Grandi Opere: cosa farete?

«Ricordate quella frase di Flaiano: quando si apre una parentesi va chiusa. Bene, lo stesso metodo ci vuole per le grandi opere. Cominciamo dall’alta velocità. Il corridoio Est-Ovest da Barcellona e Budapest-Kiev attraverserà tutta la pianura padana, dal Piemonte al Veneto. E’ un’opera assolutamente indispensabile, per due ragioni: trasportare più merci e liberare i binari attuali per potenziare i treni dei pendolari. Non è possibile che tutta l’area metropolitana veneta e lombarda sia bloccata da eterni disagi: chi si sposta in treno resta bloccato nelle stazioni con ritardi scandalosi. Va trovato un rimedio e senza l’alta velocità non è possibile far partire i treni delle metropolitane leggere. Lo stesso discorso vale anche per l’Emilia, siamo in forte ritardo. Quindi la Tav va realizzata, dopo aver costruito il consenso delle popolazioni coinvolte dal progetto».

Presidente, a Venezia c’è polemica per i lavori del Mose, che drenano tutte le risorse della legge speciale: lei ritiene che le opere vadano completate oppure bisogna cambiare progetto?

«Il Mose mi pare la proposta più forte per salvare Venezia dall’incubo dell’acqua alta. Ma bisogna evitare che la laguna sia abbandonata a se stessa: accanto al Mose vanno finanziati tutti gli interventi necessari a garantire la salvaguardia del complesso sistema lagunare. Il centrosinistra non è contro le grandi opere, ma pretendiamo che i lavori siano fatti come Dio comanda. Purtroppo abbiamo esempi pochi edificanti: la pianura padana è devastata dal cemento e la nostra economia vive non solo sui mega appalti, ma sulle manuntenzioni con cui si salva l’efficienza del Paese. C’è molto da fare: le periferie stanno diventando bombe ad orologeria».

Veniamo da un periodo di grande espansione, seguito poi da una grande depressione. In questi anni, in Veneto, abbiamo perso molto sul piano della competitività. Professore, cosa c’è nel suo programma per rilanciare l’economia?

«Il mio obiettivo principale è la ripresa della crescita. Questo è un Paese che si è fermato. Se non riprendiamo a crescere, non ce la fanno le famiglie e non ce la fa nemmeno lo Stato. La mia proposta concreta riguarda il costo del lavoro e il cuneo fiscale. Ma comprende anche un deciso intervento su ricerca, sviluppo e innovazione. Che non vuol dire, però, Archimede Pitagorico...».

Cosa avete pensato per le imprese?

«In passato abbiamo certamente vantato che piccolo è bello. Ora non è più sufficiente. Spesso le nostre imprese non hanno una dimensione adeguata. Bisogna prevedere incentivi alle fusioni, alle concentrazioni. E poi bisogna riporre una grande attenzione alle esportazioni e ai nuovi mercati».

Professore, la Cina è sempre più vicina...

«Beh, la Cina in casa ti arriva. Il problema è arrivare noi in Cina. Quando, da presidente della Commissione europea, sono andato in Cina, con Chirac e Schroeder, dietro a loro c’era tutto il Paese. Il nostro governo, invece, in cinque anni, non ha fatto una missione in Cina. Sì, è vero, ci è andato il presidente della Repubblica, ma non è la stessa cosa. Si è inaugurato, in questi giorni, l’anno dell’Italia in Cina: ci è andato solo Buttiglione, il teatro era mezzo vuoto. Io sono invece sono convinto che il rapporto con la Cina lo dobbiamo gestire noi. Dobbiamo essere severissimi con chi copia, con chi sfrutta il lavoro minorile. Dobbiamo chiedere controlli alla Pubblica amministrazione, che non ha sorvegliato sugli ingressi di macchinari non sicuri. Non avendo richiesto controlli e sicurezza, ci siamo autocastrati».

E l’immigrazione come la controlliamo?

«Noi dobbiamo avere un’immigrazione di alto livello, che non ha bisogno di essere controllata».

E per l’Università qual è la sua ricetta?

«Sia chiaro, ho tutto il rispetto per chi frequenta Scienze della comunicazione. Ma se gli iscritti a questa facoltà sono il triplo di tutti gli iscritti a Matematica, Fisica e Chimica, hai voglia a costruire lo sviluppo... Se vogliamo davvero rinnovare la nostra industria, servono più periti. Ma io voglio i periti del ventunesimo secolo che, dopo il diploma studiano altri tre anni».

Presidente, ci sono un sacco di giovani preparati che faticano a trovare un lavoro stabile...

«Come si diceva una volta, dobbiamo metterci una mano sul cuore. E’ vero, c’è gente che fa per anni l’apprendista. Ho visto laureati che fanno i fattorini. Se uno dice: “Studio, faccio un grande sacrificio”, poi dovrebbe avere un impiego adeguato a quello che ha studiato. Io credo sia necessario operare una scrostatura delle professioni. Se n’è parlato tanto, ma di vere riforme degli ordini non ce ne sono state. Invece bisogna aprire le porte. A questo proposito, ho avuto un’esperienza con alcuni miei colleghi, professori universitari, arrivati dagli Stati Uniti per una ricerca sul personale degli ospedali. Sono entrati in una struttura e hanno subito accertato che otto primari su undici sono figli di primari. “Qui, è tutto chiaro”, mi hanno detto, “non c’è proprio niente da ricercare”.

Parliamo di devolution ? L’impressione è che il popolo del Nord abbia investito sul federalismo. E’ proprio tutta da buttare la riforma costituzionale del centrodestra?

«Ci sono delle incongruenze che vanno assolutamente sistemate al più presto. Di sicuro ridiscuteremo le competenze regionali. Ad esempio, per quanto riguarda la politica estera delle Regioni, è sotto gli occhi di tutti che siamo di fronte a uno spreco enorme di risorse. E occorre intervenire anche nella politica del turismo. Se voi andate all’aeroporto di Abu Dhabi o Dakar, vedete la pubblicità di una regione italiana, non vi dirò quale, che è grande così (l’onorevole Prodi avvicina pollice e indice). Una propaganda del genere non serve proprio a niente. Ma, tornando alla domanda, andiamo verso una legge elettorale per ogni regionale. Questa sarebbe la fine del mondo...».

Intanto il governatore del Veneto, Giancarlo Galan, accusa il collega del Friuli-Venezia Giulia di alimentare uno smottamento istituzionale. Ci sono già tre-quattro Comuni di confine pronti a passare con il Friuli. Senza dimenticare che un altro Comune ha chiesto di passare con il Trentino-Alto Adige...

«Sul caso specifico non mi pronuncio. Non entro nella controversia perché non la conosco. Certo è che si rischia che prima passino quattro Comuni. E poi altri quattro... Va ribadito un concetto: le Regioni a statuto speciale non sono le Regioni più povere, ma quelle che sono diventate per alcune caratteristiche particolari: la Sicilia, la Valle d’Aosta, e via elencando. Ma quelle sono e quelle restano. Punto».

Lei parla spesso d’incentivi. In particolare, a quali sta pensando?

«Penso ai temi che sto affrontando in questi giorni: il cuneo fiscale e la detrazione per gli affitti. Per queste due proposte le risorse ci sono. D’altra parte, credo di essere credibile nell’uso delle cifre. Io ho fatto il più grande aggiustamento dei conti della storia d’Italia. Ho lasciato il governo (ottobre 1998, ndr) con il 6,5 di avanzo primario. Adesso siamo a zero. Credo ci sia una bella differenza tra 6,5 e zero. Allora, ogni mese, ci arrivava un introito fiscale superiore alle previsioni. La gente aveva capito che il ministro Visco le tasse le faceva pagare. E allora le pagava subito. Adesso, invece, è tutto un condono. Mettiamo che il “nero” sia il 30%. Se mettiamo in bianco, la metà del 30% di nero, il risanamento è già fatto. La prima riforma del governo Berlusconi è stata la rimozione del direttore del Dipartimento delle Entrate (Massimo Romano, ndr). Una sorta di messaggio ai commercialisti: “Ragazzi, alè”».

Torniamo ai temi della formazione e della ricerca. Padova ha un’università antica e prestigiosa, ma il Parco scientifico non riesce a decollare.

«Certo, questo non può avvenire se non c’è un rapporto stretto tra università e ricerca. La ricerca privata è addirittura nulla rispetto all’altra. Io credo sia necessario affrontare il problema della sburocratizzazione dell’università. Bisogna mettere in rete la ricerca con il mondo produttivo. Certo, se si fa archeologia o storia, non è facile fare fatturato. Ma non si può prendere in giro la gente: io m’impegno ad aumentare le risorse per l’università. Voglio anche dare un incentivo agli addetti alla ricerca».

Nel suo libro “Tempo scaduto” Luca Ricolfi ha analizzato il livello di realizzazione del programma elettorale di Berlusconi. Ora però si trova in difficoltà a misurare le 281 pagine del suo programma...

«Io lo sto presentando, giorno per giorno: prima il cuneo fiscale, poi gli affitti. Penso che Ricolfi potrà scrivere un altro libro, che potrà intitolare: “Che bel tempo”».

Allora Presidente, il «faccia a faccia» in tv con Berlusconi si farà sì o no o lei vuole sempre sfidare il tridente?

«Ma certo che si farà. Ho di fronte tre candidati al governo. Nella Casa della libertà non si sa chi sarà il primo ministro, loro dicono che lo farà chi ha più voti. Non a caso sui simboli dei partiti hanno messo i loro nomi: Fini, Casini, Berlusconi. Sia chiaro non mi interessa un confronto in cui si raccontano sogni, si fanno promesse o si parla di astrattezze.

Invece bisogna discutere di ciò che è stato fatto in questi cinque anni. Berlusconi, Fini e Casini non hanno mai governato insieme. Non voglio che Berlusconi possa dire agli italiani: sono stati gli altri che mi hanno impedito di governare. Se nel confronto tv ci saranno tutti e tre, non potranno sfuggire alle loro responsabilità».

A cura di CLAUDIO BACCARIN e ALBINO SALMASO

Titolo originale: Bolivia's new president is no Che Guevara – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

CITTÀ DEL MESSICO – Non si deve sottovalutare l’importanza della vittoria di Evo Morales alle elezioni presidenziali in Bolivia, a causa dei motivi simbolici e per le implicazioni che riguardano il resto dell’America Latina. In una regione dove è sempre esistita una scandalosa concentrazione di ricchezza e potere, avere un presidente che appartiene alla comunità indigena non è un fatto secondario.

La Bolivia è sempre stata un paese paradigmatico: la rivoluzione del 1952 è stata una delle sole quattro vere sollevazioni popolari dell’America latine nel XX secolo (insieme a quelle di Messico, Cuba e Nicaragua); fu tragicamente scelta e in modo sbagliato da Fidel Castro, Che Guevara e Régis Debray a metà anni ’60 come piattaforma di lancio per un movimento di guerriglia esteso a tutto il Sud America; e fu, insieme al Cile, il primo paese a sperimentare le “riforme strutturali” dette Reaganomics in the tropics già a metà anni ‘80.

In modo simile, le campagne antidroga USA spesso fanno riferimento o ripetono quello che da un certo punto di vista è stato considerato un enorme successo: la sostituzione delle colture e l’intervento militare nella regione di Chaparé vicino a Cochabamba, pure a partire dalla metà anni ‘80. In realtà, la coltivazione di coca fu semplicemente trasferita nella zona alta della valle Huallaga in Peru, lasciandosi dietro moltissimi coltivatori infuriati e impoveriti in Bolivia.

Fra questi, naturalmente, c’era Evo Morales, che domenica presterà giuramento come presidente della Bolivia dopo aver vinto le elezioni con 54% dei voti il 18 dicembre.

Oggi c’è uno spostamento a sinistra in America Latina, ma non è omogeneo. I partiti e rappresentanti che emergono dalla vecchia tradizione comunista, socialista o castrista (con l’eccezione dello stesso Castro) tendenzialmente hanno attraversato il Rubicone dell’economia di mercato, della democrazia rappresentativa, del rispetto dei diritti umani e di posizioni geopolitiche responsabili. Sono Ricardo Lago e Michelle Bachelet ch egli è succeduta in Cile, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, e forse anche Tabaré Vázquez in Uruguay.

Ma quelli le cui radici affondano più profondamente nella tradizione populista latinoamericana, come il venezuelano Hugo Chávez, l’argentino Nestor Kirchner e il boliviano Evo Morales, sono di una pasta diversa. Sono molto meno convinti degli imperativi della globalizzazione o dell’ortodossia economica, del valore intrinseco della democrazia e rispetto dei diritti umani, e non aspettano altro che di stuzzicare la Casa Bianca.

La “nuova sinistra” del Cile, Brasile o Uruguay ha una politica interna che sale dalle radici profonde dei problemi: combattere la povertà, ridurre le ineguaglianze, migliorare il sistema sanitario, della casa e dell’istruzione. La politica estera può portare a disaccordi con Washington, ma senza veri attriti.

D’altro canto la sinistra populista non ha molta politica interna, ma fa risplendere le proprie credenziali di sinistra col vecchio metodo: antiamericanismo e politica estera filo-cubana.

Molto probabilmente, questo è quanto farà Morales in Bolivia. Essere troppo radicale non solo gli alienerebbe il sostegno finanziario internazionale, ma potrebbe intensificare le forze centrifughe già presenti delle aree orientali e più ricche della Bolivia. Inoltre, si devono fare enormi sforzi per la lotta alla povertà estrema, ma anche in questo caso i risultati non saranno cosa spettacolare di breve termine.

Quindi Morales dovrà fare ciò che i populisti del suo genere fanno sempre: attaccare Washington e ingraziarsi il sostegno interno: i coltivatori di coca del Chaparé, dove ha cominciato la sua carriera politica anni fa. Ha cominciato in modo non ambiguo per quanto riguarda gli Stati Uniti: i suoi primi viaggi all’estero sono stati all’Avana e a Caracas, e farà tutto il possibile per partecipare al cosiddetto “asse del bene” di Castro e Chávez.

E non solo rifiutando di proseguire col programma di eliminazione della coltura di coca, ma annunciando che intende aumentare le superfici coltivate – visto che la coca è oggetto tradizionale di consumo nelle terre alte boliviane - Morales raggiunge due obiettivi in un colpo solo: imboccare una strada di collisione “ politically correct” con Washington, e usare le frange più estreme del suo sostegno di base, qualcosa che il Presidente George W. Bush capisce molto bene.

Ma in definitiva, è improbabile che Evo Morales diventi un Fidel Castro andino. La Bolivia è tragicamente povera, profondamente dipendente dall’aiuto esterno e ha una storia di instabilità senza paragoni in America Latina. Se gli Stati Uniti giocheranno freddamente la loro partita, e il Brasile entrerà a pieno titolo nel dibattito globale, Morales potrà far notizia, ma non certo la storia. Spero che tutti noteranno la differenza.

here English version

(Jorge Castañeda, ex ministro degli esteri in Messico, è autore di “Compañero”, una biografia di Che Guevara, e di “Utopia Disarmata”, sui fallimenti delle rivoluzioni in Sud America)

Chi andrà al Quirinale? Chi a palazzo Chigi? Chi al senato, chi alla camera, chi nei municipi delle città in cui si rinnovano i governi comunali, chi andrà con chi nei movimenti interni ai partiti e alle coalizioni? Anno elettorale, annus terribilis: rischiamo di non sentire parlar d'altro, già non si sente parlar d'altro. E quando il palco della rappresentanza occupa tutta la scena, con le sue luci abbaglianti nasconde sempre quello che rappresentato non è, e talvolta nemmeno rappresentabile. Tutta la politica che si fa fuori da quel palco, non per amore di quelle luci ma per amore del mondo, come diceva Hannah Arendt; e in Italia se ne fa tanta, e si deve non poco a questa politica irrappresentata e irrappresentabile se restiamo in piedi malgrado il declino e malgrado le crepe sempre più profonde nella crosta della politica istituzionale. Auguriamoci dunque che le luci abbaglianti del gioco del «chi» non nascondano troppe cose, fatti e persone più vitali e meno rugosi. Auguriamoci anche di poter restare al mondo e di poter continuare ad abitare lo spazio pubblico senza dover imparare per forza che significa aggiottaggio, insider trainer, plusvalenza, opa, scalata eccetera eccetera. Ci sono lingue che è bene imparare per comunicare con più mondi, e lingue che servono solo per entrare in mondi ristretti che hanno pochissimo da dire. Auguriamoci anche di non impararle, queste lingue ristrette, dalle intercettazioni telefoniche, che sono una schifezza sia che peschino a sinistra sia che peschino a destra. Un buon anno sarebbe un anno che facesse scendere l'Italia nella classifica dei paesi più spioni del mondo.

Un buon anno sarebbe anche un anno che, invece di far diventare pubblico il privato con le intercettazioni sulla stampa e il gossip in tv, facesse ridiventare politico il personale. Fra le due circostanze c'è un abisso, anche se sembra una differenza di dettaglio. Auguriamoci che le manifestazioni prossime venture a sostegno della 194 non si limitino a difendere un diritto ma servano a far uscire dal buco del privato quelle esperienze, ragioni, passioni personali che la politica dovrebbe ridiventare in grado di ascoltare e di raccogliere: che servano a parlare di sessualità e non solo di aborto, di desiderio e non solo di fecondità o sterilità, di amore e non solo di pacs, di relazioni e non solo di matrimoni etero e omosessuali. Auguriamoci anche che facciano tesoro del femminismo degli anni settanta, ma senza somigliargli troppo: c'è già Casini (Carlo) a incarnare l'eterno ritorno dell'uguale, alle donne - come sempre - conviene fare differenza, anche da se stesse.

E naturalmente da come gli altri le vorrebbero. Auguriamoci che le signore scandinave che dovranno per forza, quote rosa alla mano, entrare nei consigli d'amministrazione delle aziende se ne inventino qualcuna per smarcarsi dagli obblighi paritari. Auguriamoci che gli obblighi paritari non diventino un catechismo interiorizzato anche nei paesi come l'Italia, in cui di quote rosa non se ne parla né nei consigli d'amministrazione né nei parlamenti, e non per amore della differenza ma per zelo della misoginia. Auguriamoci che le donne al governo, in Germania in Cile e dovunque siano, mettano un segno di grazia in un mondo sgraziato. Un buon anno sarebbe un anno con la grazia, non quella divina ma quella di cui gli umani sanno essere capaci quando la posta non è lo scontro ma la cura della civiltà.

La tentazione presidenzialista

di Sergio Romano

Confesso di non avere capito se l'Unione abbia fatto un passo indietro per meglio rilanciare la candidatura di Massimo D'Alema o voglia effettivamente discutere con l'opposizione la scelta della persona che dovrà diventare presidente della Repubblica. Ma per il momento, dopo avere letto le dichiarazioni di Piero Fassino al Foglio, dobbiamo presumere che il suo partito non abbia rinunciato a sostenere la candidatura del suo presidente.

Il segretario dei Ds dice che è ora di chiudere la fase della «guerra». Si rende conto che una metà del Paese ha votato per l'opposizione e promette che il governo Prodi «si farà carico delle scelte di chi lo ha preceduto nel nome dell'interesse nazionale». Non vuole una repubblica presidenziale ma sostiene che il capo dello Stato debba essere il garante di una fase nuova e gli assegna quattro compiti. In primo luogo, se vi sarà crisi, dovrà sciogliere il Parlamento e chiedere al Paese di tornare alle urne. In secondo luogo, come presidente del Consiglio superiore della magistratura, dovrà «evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica». In terzo luogo dovrà favorire, sulle grandi questioni internazionali, «la massima intesa possibile». In quarto luogo dovrà vigilare dal Colle affinché, dopo la bocciatura del referendum confermativo sulla riforma del governo Berlusconi, si «porti a conclusione una transizione costituzionale da troppi anni incompiuta». Non è tutto. Per assumere pubblicamente questi impegni il candidato potrebbe presentare «ai mille grandi elettori, che da lunedì voteranno, una specie di programma presidenziale sul quale chiedere un consenso diffuso».

E' un progetto interessante in cui Fassino fa qualche implicita ammissione. Riconosce, senza dirlo espressamente, che vi sono stati cortocircuiti fra giustizia e politica, che la sinistra non può fare da sola la politica estera e che il centrodestra ha avuto il merito di mettere all'ordine del giorno la riforma della Costituzione. Ma contraddice la premessa delle sue dichiarazioni. Quella che il segretario dei Ds ha delineato non è forse una «repubblica presidenziale» ma prefigura uno Stato alquanto diverso da quello in cui, con qualche ipocrisia, abbiamo vissuto negli ultimi cinquant'anni. Nessun candidato al Quirinale, sinora, ha chiesto voti sulla base di un programma. E nessun candidato, in particolare, si è impegnato a sciogliere il Parlamento in una specifica circostanza. La «manovra antiribaltone», che il centrodestra vorrebbe inserire nella Costituzione, diventerebbe così parte integrante del programma presidenziale e darebbe al capo dello Stato un potere di controllo sul governo. Installato al Quirinale, infatti, D'Alema potrebbe aiutare Prodi a mantenere intatta la sua maggioranza (la prospettiva delle elezioni anticipate è un efficace deterrente contro i ricatti di palazzo) ma potrebbe anche orientare indirettamente la linea politica dell'esecutivo.

Quella che Fassino propone, quindi, è una sorta di diarchia, vale a dire una sostanziale modifica del sistema politico come si è andato formando, sulla base della Costituzione, nella storia della Repubblica. Il suo capo dello Stato sarebbe in alcuni casi il «presidente di tutti gli italiani» ma anche, contemporaneamente, il garante del governo in carica e il suo tutore (e tale sarebbe soprattutto se non venisse eletto con una larga maggioranza, ma dopo la terza votazione con il solo sostegno della sua parte). Insomma, quello di Fassino, che piaccia o meno, non è un programma politico: è una riforma costituzionale.

L'altolà della sinistra: no a baratti giustizia-Colle

di Francesco Battistini

ROMA — " Signor colonnello, sono il tenente Innocenzi. Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani" (Alberto Sordi in Tutti a casa, 1960).

Tutti a casa. Se la guerra con Berlusconi è finita, come dice Piero Fassino, c'è una trincea da svuotare subito. Riga 52 dell'intervista al Foglio, punto secondo del Manifesto Per D'Alema Presidente, programma di lavoro del settennato a venire: «Da capo del Csm — dice il segretario ds —, un presidente che eserciti la funzione di garanzia operando, come ha fatto Ciampi, per evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica».

Ventisei parole. Che a qualcuno sembrano il prezzo del Quirinale: «Il nuovo inciucio — commenta Marco Travaglio —. Il segnale l'ha dato Dell'Utri: ripartiamo dalla Bicamerale, arrivano a maturazione altri processi. Telecinco in Spagna, Mediaset e Mills a Milano... Questa è la risposta: se tratti con Berlusconi, sappi che le sole cose che gl'interessano sono le tv e la giustizia. Qualcuno che "garantisca" sui magistrati...».

Il Colle a D'Alema in cambio del collo di Silvio. La solita proposta indecente? I magistrati la prendono soft: «Le parole di Fassino mi sembrano talmente vaghe... Lasciamoli trattare», dice il neodeputato ds Gerardo D'Ambrosio: «Non vedo cortocircuiti, piuttosto delegittimazioni: l'altro giorno, una giornalista giapponese mi diceva stupita che da loro è inconcepibile un governo che attacca la magistratura». Asciutto Giuseppe Gennaro, presidente dell'Anm: «È giusto che il nuovo capo dello Stato prosegua sulla strada segnata da Ciampi. Ricordando che la magistratura, checché se ne dica, non pronuncia sentenze politiche». Ad Antonio Di Pietro, il passaggio di Fassino non piace: «Quest'idea che il futuro capo dello Stato debba garantire sui cortocircuiti, va oltre le sue funzioni. Se poi questo significa anche altro, cioè l'impunità a Berlusconi in cambio del Quirinale, siamo all'assurdo. Non credo che Fassino si presti al baratto: chiunque l'accetti, diventa complice d'un abuso».

«Per carità di Dio!», no, Fassino non può voler quello: ne è sicura Anna Finocchiaro, capogruppo ds al Senato, perché «quelle parole possono essere lette in due modi: o come un segnale di garanzia ai magistrati, o come un'attenzione alla politica che soffre l'autonomia delle toghe». In ogni caso, occorre ricomporre «un clima di conflitto e garantire autonomia tanto al potere giudiziario che a quello politico», superando «un clima di sospetto che non fa andare avanti il Paese».

I soliti sospetti. Con omissis che si notano, nell'intervista di Fassino: per esempio, il silenzio sul conflitto d'interessi. «Il tema va affrontato — dice D'Ambrosio — e su questo non si discute. Ci si è lamentati di non aver fatto abbastanza nella XIII legislatura e niente nella XIV: vogliamo ripeterci? Chi ci ha eletto, ci ha chiesto di risolverlo una volta per tutte». Sarcastico Travaglio: «Come può Fassino parlare di conflitto d'interessi, se va a lanciare il "manifesto" sul giornale della moglie di Berlusconi, diretto da un ex ministro di Berlusconi, il giorno dopo l'avvertimento di Dell'Utri e dopo aver zittito Bertinotti che, su Mediaset da ridimensionare, ha ripetuto soltanto quel che dice la Consulta?».

D'Alema quirinabile, inciucio inevitabile, pensa l'opinionista dell'Unità. Un pateracchio proprio sulla giustizia: «Che custode e garante potrebbe essere un D'Alema che, presidente della Bicamerale, accettò indecenti compromessi al ribasso sull'indipendenza della magistratura?». C'è «un fumus oggettivamente ricattatorio», sostiene Travaglio, e così si spiega quella riga 52: «Anche D'Alema ha interesse a "garantire" sui magistrati che, in passato, qualche problema gliel'hanno dato. Un capo dello Stato non solo non dev'essere ricattabile, ma neppure sembrarlo. Guardate Unipol: non furono i Ds a dire che Berlusconi ha ancora i cd delle famose telefonate? La partita è aperta, a luglio c'è da rifare il Csm e con le nuove regole i membri politici, quelli che controllano le toghe, saranno di più. In questi anni, c'è stata anche una Bicamerale degli affari: speriamo

Le Due Italie sono sempre esistite anche se non si erano mai materializzate con una evidenza così plastica e in sostanziale pareggio politico. E' cosiddetta «sinistra» (termine col quale ormai indichiamo uno schieramento che riassume quasi tutto ciò che era «arco costituzionale»), che ha raggiunto, in realtà, il suo massimo storico in questa elezione. Quella destra diffusa, «che non si dà confini neanche nei confronti del fascismo », di cui ha parlato Rossanda nel commento dei primi dati elettorali, esisteva già sottotraccia negli anni della prima Repubblica ma era compressa e disciplinata dalla mediazione democristiana che ne moderava istinti e stemperava paure. Il maggioritario barbarico imposto da Berlusconi in chiave di guerra civile «fredda», ma permanente ha fatto emergere e messo a nudo l'Italia profonda che non aveva una vera rappresentanza politica e che ha finalmente trovato qualcuno che la interpretasse senza scrupoli e mediazioni. Questa Italia esiste ed esisterà, bisogna farci i conti, non è pensabile che si dissolva nel breve e nel medio tempo. La volontà di governare tenendo conto di essa è un proposito di elementare civiltà istituzionale, anche se purtroppo unilaterale e in Italia non ricambiato. Ma soprattutto bisognerebbe cercare di capire e scomporre questo blocco, in realtà molto differenziato, individuando i punti critici su cui agire, e rinunciando serenamente a recuperare ciò che non è recuperabile. Infatti non è pensabile di inseguire il berlusconismo sul suo terreno, ma si possono dare risposte serie a domande fondate. Rinunciando ad analisi troppo semplificate, come quelle che per molto tempo la sinistra ha prodotto dopo l'emergere del fenomeno Berlusconi. Questa destra non è interpretabile in chiave di «modernità», ma contiene al suo interno pulsioni addirittura arcaiche che questa campagna elettorale ha fatto emergere. Non solo subcultura, non è solo «l'Italia che parcheggia in seconda fila» come si legge spesso, ma esprime ormai culture radicate e immaginario diffuso. Paradossalmente, è molto più «ideologico» il voto a destra di quanto non sia un voto a sinistra ormai realistico e disincantato. Il fenomeno dell'anticomunismo postumo, che è forse l'ideologia più fortunata e diffusa della nuova Italia, va decrittato al di là delle fantasie pulp del leader della destra su bambini bolliti e nipotini di Pol Pot (a cui non si crede fino in fondo, se è vero che ventiquattrore dopo si chiede una grande coalizione con questi mostri). Ma da tempo quando a destra dicono comunisti intendono in realtà lo Stato, le tasse, il rispetto delle leggi, per cui non è del tutto incoerente che perfino Oscar Luigi Scalfaro diventi «comunista» in questo immaginario. Proprio la questione delle tasse, che pare sia stata la molla decisiva della rimonta finale di Berlusconi, ci impone però una analisi critica autocritica del blocco sociale della destra, e in ultima analisi su cosa è diventata la società italiana. Se è vero che il problema della tassazione è uno dei problemi fondamentali di ogni democrazia, e lo è particolarmente in Italia dove esiste storicamente lo scandalo di un regime fiscale debole coi forti ma occhiuto inflessibile coi deboli, questo diventerà forse il terreno decisivo dell'acquisizione del consenso. E proprio su questo terreno la sinistra ha mostrato una deplorevole confusione che non si può ricondurre solo a «difetto di comunicazione», che pure c'è stata, con quel parlare di «abbattimento di cinque punti del cuneo fiscale », progetto giusto e ambiziosissimo, che rivela però nella formulazione l'abitudine a parlare a imprenditori e redattori delle pagine economiche anziché al popolo (era così difficile parlare di tasse sul lavoro?)

Non ci si può rassegnare a consegnare definitivamente alla destra la rappresentanza delle regioni più ricche e produttive del Nord, e neppure accettare la situazione che vede ampliarsi in molte realtà il voto popolare delle periferie alla destra. In una situazione, come quella italiana, dove l'intreccio tra stipendi, pensioni familiari, piccole rendite e piccolo risparmio è ormai costitutiva dei bilanci delle famiglie e costituisce fattore di sopravvivenza e di rifugio precario sotto i colpi della crisi ci vuole la massima precisione nelle indicazioni e nelle proposte. Da fare, possibilmente, all'inizio e non alla fine delle campagne elettorali, e mettendosi d'accordo su cosa dire. Avere trascurato il tema fiscale, riproponendo nelle pieghe della campagna il ritorno di una tassa di successione sulla prima casa che nei suoi termini avarissimi era anacronistica già cinque anni fa in un paese dove oltre l'ottanta per cento dei cittadini possiede la casa dove abita è non solo un errore tattico ma strategico, che rivela categorie di analisi della società italiana ferme alla visione di una Italia povera che è ormai fotografia ingiallita di un paese che non esiste più, senza cogliere ancora del tutto la realtà di un paese a ricchezza diffusa ma ormai precaria e minacciata. Non si può, neppure per sbaglio, trovarsi nella condizione per cui la proposta, sacrosanta, della redistribuzione del reddito a favore dei ceti più deboli o di quelle fasce di società impoverite dalla mano libera che l'ex-premier ha dato al suo elettorato specifico di raddoppiare i prezzi negli ultimi anni, possa rischiare di venire intesa come spoliazione di chi ha poco e a maggior ragione difende quel poco che ha. Una pratica, finalmente introdotta, di tassazione equa e progressiva, come la Costituzione e ancor più la decenza imporrebbero a questo paese, può anche essere apprezzata alla fine da quei settori della società italiana che hanno risposto al richiamo della foresta di Berlusconi ma che non sono costituzionalmente evasori fiscali; ma che chiedono una rassicurazione attorno a una selva di tasse spesso incoerente e persecutoria per gli onesti. La questione di una revisione dell'Ici sulla prima casa, che aveva proposto per primo Bertinotti, è stata poi abbandonata colpevolmente alle improvvisazioni demagogiche dell'ex- premier, accompagnata per giunta dal proposito di revisioni catastali che giuste in sé hanno assunto inevitabilmente il significato di un inasprimento di una tassa fondamentalmente ingiusta e avvertita come tale. Per inciso, la stessa idea che circola da tempo di candidare alla presidenza della repubblica un politico come Giuliano Amato, il più impopolare nell'immaginario collettivo degli italiani in quanto percepito come uomo dell'Ici e delle mani nei conti correnti dei cittadini, mostra quanta trascuratezza vi sia di fronte a un senso comune di larga parte del paese, giusto o sbagliato che sia, ma col quale è doveroso fare i conti. Però va anche fatta una notazione comparativa rispetto al passato su questo voto imponente di metà degli italiani a destra, e che è forse l'unica nota ottimistica che si può ricavare. Nel 2001 il popolo di destra che aveva votato Berlusconi esprimeva ottimismo, vitalità ingenua ma reale, voglia di arricchimento facile. Oggi esprime solo paura. Che è un sentimento importante e che sarebbe colpevole ignorare, ma è anche una base su cui la destra non può costruire molto. Qui mi pare si registri la svolta e l'avvio del declino di Berlusconi, non più uomo dei sogni ma degli incubi, non solo degli italiani che lo detestano ma anche di quelli speculari e contrapposti degli italiani che lo votano.

Non se ne farà nulla, ma il solo fatto che sia stato posto il problema di spostare la data del secondo confronto fra Prodi e Berlusconi per evitare la concomitanza di data con la fiction di Mediaset su papa Wojtyla la dice lunga sullo stato dell’arte: il religioso batte il politico, o almeno ci prova, e il televisivo batte tutti i due. I sondaggi danno l’Unione in testa, Berlusconi perde punti ogni volta che tenta di guadagnarne con le sue performance, ma l’agenda teledemocratica è ancora quella dettata da lui con la scesa in campo del ‘94: è la tv la scena della politica. La differenza, rispetto al ‘94, è che adesso questa scena è satura e c’è un prim’attore che ha stancato e sbaglia il copione. Un’altra scena, però, non si vede: l’Unione si avvantaggia dell’eccesso autolesionista dell’avversario, più che brillare di creatività politica propria. Il berlusconismo finirà per autoimplosione?

L’incursione di Berlusconi a Vicenza lascia aperto l’interrogativo, cui i sondaggi non bastano a dare risposta. L’eccesso di violenza è probabile che gli abbia nuociuto, confermando appunto la saturazione - in atto già da tempo - dei dispositivi di identificazione nelle sue miracolistiche promesse, nel suo ottimismo, nel suo narcisismo. Però la sceneggiata resta carica di segnali che non si possono liquidare con l’argomento consolatorio della saturazione. Perché resta il fatto che un presidente del consiglio si presenta a un convegno di un’associazione con quella arroganza monarchica, ostenta un disprezzo assoluto per qualunque regola - del galateo, dell’economia, della democrazia -,aggredisce volgarmente uno che si permette di non pensarla (più) come lui, arringa il popolo televisivo e il popolo degli industriali contro le élite della politica e degli industriali; e comunque qualcosa porta a casa, almeno nel suo campo che è poi il destinatario della sua strategia di galvanizzazione. Il che significa che Berlusconi probabilmente perderà le elezioni, ma il berlusconismo è ancora in circolo, e i suoi ingredienti di arroganza, populismo, disprezzo delle procedure sono tutt’altro che un ricordo del passato.

A proposito di élite. Nell’intervista di ieri al Messaggero, intitolata per l’appunto «Addio al berlusconismo», Massimo D’Alema ha osservato che «nelle élite del paese c’è la percezione che Berlusconi ha perso». Il che è vero e va incassato con soddisfazione, a patto di completare il quadro con almeno una domanda sulla percezione della situazione in coloro che élite non sono. È certo che una parte - solo una parte - delle élite del paese nel 2001 stava con Berlusconi oggi sta con Prodi. Ma è altrettanto certo che è stato il voto popolare, non quello d.élite, a premiare Berlusconi nel 2001 come nel .94. E va ricordato che altre élite, ad esempio gli studiosi del populismo e della post-democrazia, non hanno smesso di sottolineare in questi anni che il populismo di destra vince quando e dove il popolo scompare dalle attenzioni della sinistra. E per ora non pare che sia granché ricomparso nella campagna elettorale dell’Unione.

Si dà il caso che nel frattempo popolo ed élite si ripresentino in nuove, o antiche, combinazioni. Sta accadendo ad esempio a Parigi, contro la riduzione del lavoro a schiavitù flessibile e precaria che affligge l’Italia più della Francia. Aspettiamo con fiducia che il fatto si conquisti l’attenzione che merita nel discorso elettorale della sinistra italiana: non foss’altro perché c’è da giurare che è il futuro, prossimo, che l’aspetta. Per dare l’addio al berlusconismo stavolta non basterà una gestione più decente del quadro politico e istituzionale.

gi, giorno dello scioglimento delle camere - alle 10,30, al teatro Eliseo di Roma, l’Unione presenterà il suo definitivo programma per le elezioni del 9 e 10 aprile. Il teatro Eliseo di Roma è sede storica di impegnative iniziative del Pci e della sinistra italiana, se ne potrebbe fare un elenco di date storiche. Quindi grande attesa per l’evento di stamane. Però, però, sulla base di quel che si è potuto leggere e sapere la condizione mia, e di tanti compagni, è quella della delusione preventiva. Meno peggio della guerra preventiva, ma che certamente non aiuta chi è convinto che l’obiettivo assoluto, anche contro le peggiori delusioni, sia quello di liberarci di Berlusconi e della sua eteroclita banda.

Spero fortemente di essere smentito stamani all’Eliseo, ma da quel che finora mi è dato di conoscere non credo proprio. Non c’è un punto, dall’Iraq alla scuola, dal lavoro all’economia, dalla politica interna a quella estera sul quale si possa leggere un’opzione chiara e netta e visto che siamo in campagna elettorale una posizione che si possa tradurre in slogan (qualcuno si ricorda della «terra a chi la lavora» o della «legge truffa» o delle «riforme di struttura»?).

In questo programma (salvo felici smentite di stamani) non c’è nulla di preciso e netto, nulla che possa mobilitare gli elettori, anche quelli che di Berlusconi non ne possono proprio più. Questo programma, nella migliore delle ipotesi, appare come una delega ai gruppi dirigenti perché trattino nel modo migliore. Mancano del tutto proposte nette e precise sulle quali mobilitarsi o dividersi. L’abuso dei verbi al condizionale preoccupa.

Se questo mio timore non sarà smentito stamani, e temo che non lo sarà, allora dobbiamo preoccuparci seriamente. Per almeno due o tre ragioni. La prima è che questa scarsa chiarezza, questo volere e non volere, incoraggia l’astensionismo di sinistra, incoraggia anche un qualunquismo suicida (sono tutti uguali: litigano tra loro solo per chi deve andare al governo). La seconda ragione è che questa cauta accortezza porta acqua al berlusconismo che è presente nella nostra società e che ha consentito la vittoria del cavaliere che non è extraterrestre (come Croce aveva detto di Mussolini). La terza ragione è che queste elezioni si vincono come vogliamo che sia su questa piattaforma di indeterminati, la gestione del futuro governo di centrosinistra sarà terribile e difficilissima. Ciascuna delle componenti sarà autorizzata a tirare la coperta dalla sua parte e non solo strapperanno la coperta, ma manderanno a pezzi anche il letto. C’è ancora tempo per evitare questo slittamento. SSO

Appello, ecco perché si viola la Costituzione

Il grande giurista, reduce e vincitore del duello contro la coppia Ferrara-Armeni, racconta perchè la nuoba legge salva-Berlusconi sarà cancellata. La Repubblica del 18 gennaio 2006

L´AVVOCATO-legislatore forzaitaliota celebra i mirabilia della sua creatura: taglia i tempi processuali, garantisce l´imputato, promuove la «cultura giuridica». Non bestemmiamola, povera cultura. Studio la procedura penale da mezzo secolo: fino al 1938 costituiva appendice vile del corso penalistico; qualche suo cultore stava al giurista come i flebotomi al medico; niente da spartire con le materie nobili.

Da allora varie cose sono cambiate in meglio ma i ritardi culturali pesano: l´ignoranza figlia errori.

fioriscono pericolose sgrammaticature. Abbiamo sotto gli occhi un caso-monstre, l´inappellabilità dei proscioglimenti.

L´argomento dei guastatori suona così: assolto l´imputato, affare chiuso; non ha più senso insistervi. Sarebbe vero se come avviene altrove (anche in Italia, al tempo delle vecchie corti d´assise) decidesse una giuria. Le giurie nascono nell´Inghilterra normanna, XIII secolo, colmando il vuoto aperto dalla desuetudine degli iudicia Dei, la cui impronta irrazionale conservano: i dodici giurati sono l´organo vocale d´una infallibile anima comunitaria; ovvio che i verdetti non siano ripetibili, come non lo erano i duelli, ordalie, giuramenti purgatori. Qui invece i giudizi sono sapere tecnico, prodotti razionali, quindi criticabili: al vaglio provvede l´appello, un bis chiesto dal soccombente; ce n´è sempre uno; e soccombono entrambi quando le rispettive domande siano accolte in parte. Nello scenario romano al culmine sta l´imperatore: tale struttura verticale sviluppa i due gradi; il processo non è più evento singolo, né l´atto finale nasce irrevocabile; lo diventa se nessuno impugna. L´appello, insomma, ripara l´«iniquitas» o «imperitia» degli «iudicantes», sebbene qualche volta guasti decisioni giuste, potendo sbagliare anche il secondo giudice (Ulpiano, D. 49.1.1s.).

La Convenzione europea (art. 2 del protocollo aggiuntivo n. 7, 22 novembre 1984) contempla un diritto del condannato al secondo giudizio. Da noi l´aveva: il soccombente appella, se vuole; e i possibili soccombenti sono due, imputato e pubblico ministero; quando l´appellante vinca, sopravviene una riforma. Chi giudica è fallibile nei due sensi, assolva o condanni: giudizi ripetuti riducono i rischi d´errore; era così da duemila anni. I guastatori invocano quel protocollo. L´assolto in primo grado e condannato nel secondo ha diritto alla terza chance? Risponde l´art. 2, c. 2: solo se i singoli legislatori glielo concedono; l´appello è arma a due tagli; l´appellante vince o perde; nel primo caso va male all´avversario. L´unico argomento addotto, dunque, vale zero. Lo leggano tutto il protocollo n. 7. Qui l´ignaro rimane perplesso: dei filantropi temono inique riforme in peius, benissimo; allestiscano un terzo grado. No, vogliono impedire gli appelli del pubblico ministero, tale essendo la congiuntura in cui versa l´augusto committente. Déja vu: quante leggi gli avevano cucito addosso; siamo alla settima, salve omissioni (falso in bilancio, rogatorie, legittimo sospetto, conflitto d´interessi, immunità, prescrizione); lui comanda, i suoi avvocati unti dal popolo studiano la formula (a volte sbagliando), gli onorevoli yes-men votano.

Veniamo al punto, grosso come una casa: garantendo pari risorse alle parti, l´art. 111 Cost., c. 2, esclude proscioglimenti inappellabili; è contraddittorio monco quello dove l´imputato soccombente può appellare e l´accusatore no. Ogni sillaba in più sarebbe superflua: l´art. 593 nasce morto e tale sarà dichiarato; storpia il processo con un´assurda presunzione d´infallibilità dell´assolutore, nemmeno gli soffiasse nell´orecchio lo Spirito santo. I legislatori seri calcolano le regole in chiave pessimistica, presupponendo circostanze avverse e operatori talvolta ignoranti, distratti, negligenti, non equanimi, persino corrotti (ipotesi nient´affatto irreale, visti i casi de quibus); l´appello limita i rischi. Costoro l´aboliscono ogniqualvolta un tribunale assolva, bene o male. Inutile dire quante saranno le pressioni, se l´en plein chiude la partita. La parità dei contraddittori ammette varianti: la revisione del giudicato, ad esempio, non è esperibile contra reum; ma sono disparità nel sistema, mentre questa riforma lo devasta. Senza appello, l´organo dell´accusa perde un braccio e una gamba. Insomma, finché vigano gli art. 111, c. 2, e 112 Cost., è follia che solo l´imputato disponga del doppio grado. Né valgono i due precedenti costituzionali 24 giugno 1992 n. 305 e 24 marzo 1994 n. 98: nel rito abbreviato l´art. 443, c. 3, impone limiti marginali all´appello del pubblico ministero; l´art. 593 lo amputa.

Così risultano irrimediabili gli errori sul fatto, perché alla Cassazione manca lo strumentario d´una seconda decisione nel merito e se l´avesse, non sarebbe la Corte importata dalla Francia due secoli fa. Anche gli orbi vedono perché B. scateni il pandemonio nelle Camere moribonde: una sentenza milanese ritiene imperfetta (semipiena, scrivevano i vecchi dottori) la prova che abbia corrotto dei giudici, e applicando le attenuanti generiche, dichiara estinti dal tempo analoghi episodi delittuosi; pende l´appello; siccome la prospettiva d´una riforma lo disturba, con disinvoltura piratesca fracassa la macchina attraverso una servile mano d´opera parlamentare. I mimi lo servono raccontando che nella giustizia penale vi fossero residui barbari, e lui, sovrano benefico, la epuri. L´arte leguleia perversa è famoso tema satirico ma qui non citerei tanto Rabelais quanto Molière, quello del «Tartuffe», la commedia d´una ipocrisia sorda e cupa. L´ideologia della Cdl ha un nome, criminofilia. Avevo indicato otto esempi. Questa legge fornisce il nono. E le vittime? Al diavolo, i signori non tollerano piagnistei né rogne.

Post scriptum

Lunedì mattina 16 gennaio annuncia querela l´avvocato Gaetano Pecorella, difensore dell´Unico, nonché deputato e presidente della commissione giustizia (honni soit qui mal y pense): secondo lui, è diffamatorio dire che questa legge serva al committente. Argomento interessante, lo discuteremo in tribunale. Noto solo come G.P. abbia una curiosa idea della verità storica: deve averlo stregato B., mago del virtuale; nella loro loquela i fatti fluttuano; alla sera non sono più quelli della mattina. In poche righe l´intervista al «Corriere», 13 u.s., accumula quattro insigni esempi. È falso che, annullando la condanna inflitta ad Andreotti, la Cassazione raccomandasse d´abolire l´appello contro i proscioglimenti: quell´obiter dictum (nome latino-anglosassone degli argomenti ridondanti dalla «ratio decidendi») auspicava riforme a effetto rescindente, seguite da una terza decisione. Altrettanto falso, l´abbiamo visto, il riferimento alla Convenzione europea. E che questa sua proposta risalga al 2002, sviluppando idee formulate in un convegno di magistrati. Fanno fede gli atti parlamentari: «Proposta di legge d´iniziativa del deputato Pecorella, Modifiche al codice di procedura penale in materia d´inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, presentata il 13 gennaio 2004»; e in quel convegno nessuno s´era sognata l´inappellabilità dei proscioglimenti. Ridicolmente falso, infine, che la nuova formula riproduca quella del codice 1930: G.P. pensa davvero che Alfredo Rocco, molosso della «pretesa punitiva», negasse l´appello al pubblico ministero, suo enfant gâté?; se è così, ignora storia e procedura.

Adesso che l´Italia si trova nuovamente investita dallo scandalo – le indagini sui manager di Antonveneta, Unipol e Banca d´Italia, l´inchiesta sulla possibile tangente data da Berlusconi a un importante testimone in uno dei suoi processi – apprendiamo da alcuni autorevoli editorialisti del Corriere della Sera che la colpa non è di quanti hanno commesso quei reati, bensì di coloro che hanno osato indagare su di loro o denunciarli (ufficialmente).

Nel suo ultimo articolo intitolato "La Sinistra e il moralismo" Angelo Panebianco ha espresso la preoccupazione che l´Italia, e in particolare la sinistra, stia riprendendo il "vizio nazionale" di moraleggiare sulla corruzione e di demonizzare Berlusconi, facendo ritorno ai tempi di Tangentopoli, quando le indagini dei giudici non erano altro che "una caccia alle streghe…un regolamento di conti fra bande, mascherato da lotta tra la Virtù e il Vizio".

Bisogna ammettere che Panebianco fa notare qualcosa di molto intelligente su cui vale la pena riflettere, e specificatamente che la corruzione in Italia è sistemica per sua natura, ed è dovuta al fatto che in Italia politica ed economia sono profondamente saldate tra loro. «Per ragioni storiche il capitalismo italiano vive in simbiosi con lo Stato e la politica», scrive Panebianco, con ciò significando che coloro che detengono il potere politico - siano essi di destra o di sinistra - inevitabilmente saranno tentati di agevolare gli interessi cui essi guardano con simpatia e di ostacolare coloro che dovessero ritenere sfavorevoli. Qualcosa del genere può essere accaduto su entrambi i fronti dell´attuale scandalo bancario, con i leader Ds che hanno appoggiato Unipol, e il centrodestra che ha lavorato dietro le quinte a favore di Fiorani e di Antonveneta.

Quando trae le sue conclusioni – affermando che la colpa è dello spirito anticapitalista moraleggiante della sinistra italiana - Panebianco esce malamente fuori rotta. «Per giunta, se in Italia non cambiano gli atteggiamenti diffusi (non solo a sinistra) sul mercato, non sarà mai possibile disciplinare i conflitti di interesse, da quello palese di Berlusconi a quelli occulti dei suoi avversari. Per la sinistra, soprattutto, sbarazzarsi del moralismo è difficile. Anche perché è stato uno strumento di lotta contro Berlusconi. Ma è un´arma controproducente».

È una vecchia, deprecabile storia il fatto che le più autorevoli voci del Corriere, nei momenti cruciali, paiano sempre e inevitabilmente dare una mano, conforto morale e giustificazioni intellettuali alle anomalie estreme del fenomeno Berlusconi. Da dieci anni ormai Panebianco, Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia sembrano sempre trovare un maggior numero di colpe nei magistrati che portano alla luce la corruzione, rispetto a coloro che hanno infranto la legge, e sdrammatizzano l´importanza dei conflitti di interesse di Berlusconi con un migliaio di "distinguo" e di cavilli.

Dopo aver dato in origine il suo appoggio all´indagine di Mani Pulite, Galli della Loggia avanzò poi la curiosa tesi secondo cui i magistrati non avevano il diritto di perseguire i crimini di corruzione politica perché in precedenza non l´avevano mai fatto: «Ancora una volta, una domanda: perché, con l´eccezione di pochi casi, gli inquirenti in Italia prima del 1992 non hanno perseguito i reati di corruzione politica?» scrisse nel settembre del 2002. Oppure: «E perché dopo quella data la procura di Milano e a volte quella di Napoli e alcune della Sicilia sono le uniche ad avere condotto indagini accurate e penetranti in quella direzione? (…) È possibile esprimere un´ipotesi ideologico-politica? (…) Che la personalità, l´amicizia, la visione del mondo, il punto di vista di questo o quel magistrato ne abbia influenzato la condotta?». In altre parole, poiché soltanto un´esigua minoranza di magistrati italiani si era presa la briga di perseguire i reati di corruzione politica, devono aver agito per qualche profonda animosità politica, ideologica o personale.

Questa posizione era tanto sbagliata sul piano fattuale quanto sul piano razionale. L´ufficio del procuratore di Milano, in particolare, aveva avviato numerose indagini su importanti casi di corruzione – il caso Sindona, il caso della P2, i fondi neri dell´Iri, il caso della corruzione nella metropolitana di Milano, per citare soltanto quelli più importanti: poi però o erano stati riassegnati a Roma, dove erano stati "insabbiati", oppure il Parlamento italiano aveva negato il diritto di portare avanti le indagini. Così, stando a quanto afferma Galli della Loggia, i procuratori di Milano in qualche modo hanno fatto qualcosa di male cercando di applicare la legge, perché spesso in passato era stato loro impedito di farlo. Pertanto oggi è disdicevole che i procuratori di Milano, di Napoli e della Sicilia cerchino di portare avanti le indagini (che si ammette essere "accurate e penetranti") sulla corruzione, perché alcuni loro colleghi di altre sedi non sono riusciti a farlo. Tutto ciò è particolarmente assurdo alla luce del fatto che i procuratori milanesi hanno ormai dimostrato che corrompere i giudici era una prassi usuale a Roma; ma sono stati i magistrati che hanno scoperto i casi di corruzione a buscarsi tutto il disprezzo di Galli della Loggia.

Analogamente, anche Sergio Romano si è schierato pressoché inevitabilmente con Berlusconi contro i suoi accusatori. Quando Cesare Previti è stato incriminato per aver corrotto i giudici di Roma, Romano ha deciso di indignarsi non tanto per il fatto che l´avvocato personale del primo ministro era stato giudicato colpevole di aver scritto i nomi dei giudici nel suo libro paga, bensì per le parole adoperate dalla Corte nella sentenza che descrive la spirale di corruzione che ha invaso il Palazzo di Giustizia di Roma: «Una gigantesca opera di corruzione…Il più grande caso di corruzione nella storia, non solo d´Italia…".

Focalizzandosi su alcune frasi estrapolate dalla sentenza, Romano ha cercato di trasformare lo scandalo della corruzione dilagante nella cerchia romana degli intimi di Berlusconi nello scandalo dei procuratori di Milano. Insieme agli incessanti attacchi ai procuratori sugli organi di stampa di proprietà di Berlusconi, questi editoriali – che apparivano regolarmente ogni qualvolta i problemi legali di Berlusconi venivano in primo piano – hanno avuto il risultato di sdrammatizzare l´effetto del crescente accumularsi di prove sulle colpe del premier e dei suoi intimi. La colpa, se mai c´era, era dei procuratori: quante più prove di attività criminale essi trovavano, tanto più esse erano semplicemente indice della malvagità e dell´animosità ideologica e personale da essi riservata a Berlusconi.

Ricorrendo a ragionamenti al tempo stesso eruditi e tortuosi, essi hanno usato la loro considerevole intelligenza per rendere complicato ciò che di fatto è assai semplice: la persona proprietaria della più grande società privata del Paese non dovrebbe avere l´incarico di guidare il governo; il più importante proprietario di mezzi di comunicazione in Italia non dovrebbe altresì controllare il sistema dell´emittenza radiotelevisiva statale; e un uomo la cui azienda è indagata per qualche reato – prima che egli entrasse in politica – non dovrebbe essere responsabile del sistema della giustizia penale.

Il Corriere, in quanto voce della borghesia illuminata del nord, avrebbe potuto rivestire un ruolo assai importante costringendo Berlusconi ad attenersi alle più elementari leggi democratiche. Avrebbe potuto spiegare, con credibilità (come spesso ha fatto Giovanni Sartori, una voce isolata), che il conflitto di interessi non è un problema ideologico tra sinistra e destra, ma soltanto una regola di base della governance democratica.

Panebianco ha ragione quando afferma che il problema italiano è strutturale e non morale; ma sbaglia non vedendo che il conflitto di interessi è profondamente strutturale, che peggiora esponenzialmente e legittima la già grave simbiosi tra politica e business. Consentire all´uomo più ricco del Paese di guidare il governo è un´alterazione strutturale del sistema, nella direzione sbagliata. Panebianco e i suoi colleghi dovrebbero chiedersi che cosa sarebbe stato dell´attuale scandalo bancario – che al momento essi lodano come gestito in modo altamente professionale e imparziale –, se i tentativi del governo di Berlusconi di mettere la magistratura sotto il controllo politico diretto fossero andati in porto. Avremmo mai saputo niente delle malefatte di Antonveneta, Unipol e Banca d´Italia se fosse stato coronato da successo il tentativo del governo di abolire le intercettazioni telefoniche della polizia e di limitarle soltanto ai crimini più violenti?

(Traduzione di Anna Bissanti)

Quanto c’è della prima Repubblica nei primi, incerti passi di questa legislatura? Poco, a nostro avviso. E, comunque, poco di buono. Certo, è difficile non venire risucchiati nella spirale del remake, ripercorrendo i nomi e le vicende degli ultimi giorni. Ex e neo comunisti alla ricerca dell’assoluzione definitiva dal loro peccato d’origine. E tanti democristiani. Mai pentiti. Anzi, mai come oggi orgogliosi di dichiararsi tali. Si pensi alla faticosa elezione del presidente del Senato. Quale migliore esempio dell’immortalità dello spirito democristiano, che permea la nostra cultura politica? Andreotti e Marini. Personaggi esemplari dell’epopea democristiana. Di cui hanno interpretato riferimenti diversi e complementari.

La destra e la sinistra riunite al centro. Insomma: la Dc. La mediazione. Per definizione e per necessità. Perché il Centro della prima Repubblica, come ha insegnato Giovanni Sartori, costituiva una "rendita di posizione". O una "posizione di rendita". L’unico possibile luogo di governo, in un sistema politico altamente polarizzato. Dove le alternative erano impossibili per la presenza di partiti antisistema. L’Msi, neofascista; e il Pci, comunista. Per cui al centro convergevano e coabitavano interessi e identità differenti. E la mediazione diventava quasi un’abitudine. Andreotti e Marini. Rivederli di nuovo, accompagnati da altre icone democristiane della prima Repubblica: Cossiga e Scalfaro in primo luogo. Ha evocato l’eterno ritorno dell’uguale. In questa Repubblica, dove ogni "divisione" viene percepita come una "drammatica spaccatura", di fronte a una alternativa istituzionale incerta, le due parti si sono affidate ai mediatori per definizione. I democristiani. Opponendo un novizio di oltre 65 anni a un navigato navigatore di quasi novanta. "Democristiani" (nell’accezione deteriore) appaiono anche i giochetti che hanno allungato e complicato l’elezione di Marini. I "franceschi tiratori". Che suggeriscono un retroscena di scambi e pressioni di piccolo cabotaggio. Democristiano, infine, anche il candidato proposto da Berlusconi alla Presidenza della Repubblica. Gianni Letta. Per evitare «l’occupazione sistematica del potere» da parte della sinistra.

Eppure, in mezzo a tanti segni democristiani, mai come oggi, mai come in questa occasione, la Dc è apparsa tanto lontana. Irripetibile. I due democristiani. A interpretare non la mediazione, l’accordo fra due coalizioni, fra due Italie: ma la loro contrapposizione irriducibile. In un clima parlamentare acceso. Punteggiato di polemiche, minacce, intimidazioni. Quando la Dc era la camera iperbarica. Dove le minacce e le tensioni venivano sterilizzate all’interno. E Andreotti: l’immobilità e il silenzio del potere (che "logora chi non ce l’ha"). Usato come un ariete, da "altri": il centrodestra. Per scardinare le difese dei nemici. Per sbrecciare le fragili mura del centrosinistra. Catturare qualche voto. Qualche anima. "In virtù delle diaboliche virtù" che la mitologia politica italiana gli attribuisce. Quanto di più lontano dalla Dc: madre di ogni mediazione. Mentre nei giorni scorso, al Senato, ogni scrutinio marcava l’esistenza di due settori quasi impermeabili. Senza transumanze. Almeno per ora. Difficile imbattersi in una raffigurazione altrettanto plastica ed espressiva del bipolarismo maggioritario. A cui si sono piegati – per rassegnazione o per costrizione – anche coloro che, fino ad oggi, lo hanno guardato con avversione o scetticismo. Giulio Andreotti, che ancora nel 2001 aveva partecipato attivamente al progetto neodemocristiano di Democrazia Europea, promosso da Sergio D’Antoni (il segretario della Cisl succeduto a Marini). Affondato immediatamente dall’insuccesso elettorale. Franco Marini: il leader della Margherita più ostile all’ipotesi dell’Ulivo-partito. Del soggetto unitario di centrosinistra. E, per questo, sostenitore della Margherita di centro. Partito moderato che si rivolge non solo agli elettori, ma anche ai partiti moderati di destra. Quasi un viatico al neocentrismo proporzionalista.

Andreotti e Marini: si sono affrontati all’interno di uno schema bipolare. Ne hanno accettato e recitato la parte. Senza dubbi né esitazioni. Proclamando, entrambi, che la loro elezione avrebbe garantito cittadinanza a tutti. Alla destra e alla sinistra. Oltre le divisioni. Come avviene nei sistemi bipolari a democrazia responsabile e matura. Dove chi vince, anche con un solo voto in più, governa e rappresenta tutti. La differenza, semmai, è che il nostro bipolarismo risulta ancora povero di significato e di fondamenti. Ricco solo di fazioni e di partiti (ni). Diversamente dalla prima Repubblica. Baricentrica per necessità, ma profondamente bipolare dal punto di vista politico, dei valori, delle identità. (Oltre che, al fondo, bipartitica). La "centralità del centro". Rifletteva la "frattura anticomunista". E, al tempo stesso, la "questione cattolica". In altri termini: la Dc costituiva il riferimento politico obbligato – e senza alternative – di fronte al maggior partito comunista presente in un paese occidentale. Al tempo stesso, rappresentava i cattolici. O meglio: garantiva la rappresentanza dei cattolici in politica, di fronte alla Chiesa. Ma il comunismo, come blocco geopolitico, non c’è più. Da tempo. È crollato, insieme all’Urss; e al muro di Berlino. Nel 1989. Così i cattolici, anche per questo, oggi non hanno più fedeltà politiche. I partiti che si riferiscono direttamente ed esplicitamente alla tradizione democristiana sono piccoli. Perché i cattolici oggi non hanno partiti né coalizioni di riferimento. La Chiesa, il clero, per questo, agiscono in proprio. Autonomamente. Come una lobby influente. A tutela dei valori (Chiesa, vita, solidarietà) e degli interessi (scuola, associazionismo) del mondo cattolico. Il nostro bipolarismo, invece, si regge su fratture diverse. Certamente più povere di significato e di contenuti, anche se altrettanto profonde. Anzitutto, il "berlusconismo". Quell’insieme di modelli di valore, comunicazione, espressione interpretati da Berlusconi e dal suo partito. (L’impresa, la deregolazione, la televisione, la personalizzazione). A cui si sono piegati, per amore o per forza, gli alleati. A cui si sono adeguati – per necessità e, in parte, per scelta – gli avversari. Poi, il "nuovo anticomunismo". Un prodotto e un artefatto del berlusconismo. L’anticomunismo senza il comunismo. Sinonimo di tutto ciò che è "altro" dal berlusconismo. Una confusa nebulosa di significati, che evoca la regolazione, il pubblico, lo Stato, il sindacato, la grande stampa e i grandi imprenditori, la magistratura…

Ecco: la precarietà del nostro bipolarismo non riflette solo il processo di riforme preterintenzionali e malintenzionate che l’ha accompagnato. Ma, in misura maggiore, la miseria dei riferimenti – politici e di valore – su cui si è fondato. L’incapacità, fin qui, di andare oltre Berlusconi. E l’anticomunismo di maniera che egli evoca. Dipende, inoltre, dall’ambiguità dei progetti e dei soggetti politici che hanno partecipato a costruire questa Repubblica.

Da cui il rischio vero. Peggiore, a nostro avviso, del clima di "divisione" sociale prodotto dal sistema politico. L’affermarsi di un bipolarismo meccanico. Adattivo. Che non aggrega e non divide sulla base di valori, disegni, interessi di grande (o anche medio) raggio. Ma di pallide idee mascherate da ideologie. Rispecchia logiche di potere; o ancora: piccoli calcoli particolaristici. Un bipolarismo che non si sviluppa su grandi soggetti e progetti politici. Ma su collage frastagliati di partiti (ni). La cui coesione parlamentare si fonda sulla sfiducia reciproca; ed è garantita da tecniche di reciproco controllo fra i gruppi (come si è già visto, in occasione del voto al Senato; dove il diverso modo di scrivere il nome dei candidati è servito a dichiararne la provenienza).

Un bipolarismo dove il residuo dell’eredità democristiana – oltre che da una folla di ex, più o meno anziani, più o meno autorevoli – sia costituito dalle furbizie. Dai "franceschi tiratori".

In questa "Repubblica degli ex" io non esiterei a dichiararmi "ex cittadino".

Titolo originale: Italian vote, American echoes – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Le elezioni italiane una volta non erano così – combattute in modo tanto ravvicinato, ideologicamente polarizzate – in breve, tanto simili alle presidenziali americane del 2004 e del 2000. Ma questo succedeva prima dell’era di Silvio Berlusconi, il politico di centrodestra, uomo di spettacolo e miliardario self-made arrivato alle elezioni di questa settimana dopo il più lungo periodo in carica di un primo ministro dopo la seconda guerra mondiale.

Dopo una lunga notte di risultati altalenanti, gli italiani hanno appreso che Berlusconi probabilmente ha perso, per un margine strettissimo, a favore di Romano Prodi, esponente di centrosinistra ed economista. Prodi è l’opposto di Berlusconi quasi su tutto, dal suo atteggiamento del tutto poco appariscente alla piattaforma di governo. Su quasi 40 milioni di voti espressi, appena 25.000 separano i due schieramenti. Berlusconi deve ancora riconoscere la sconfitta, e chiede un ulteriore conteggio.

Quindi l’Italia ora è condannata a cinque anni di immobilità paralizzante? Probabilmente no. Se si confermano le cifre attuali, Prodi appare sicuro di costruire una maggioranza legislativa, posto che riesca a tenere insieme la sua composita coalizione di centrosinistra. Ma l’esiguità di questa maggioranza renderà più difficile al nuovi governo imporre le riforme fiscali, del mercato del lavoro e delle regole di cui l’Italia ha urgente bisogno per riavviare l’economia stagnante e servire la popolazione invecchiata.

Il fatto che Berlusconi non abbia mantenuto le sue promesse, di tradurre il proprio successo negli affari in una rinascita economica nazionale, gli è costato la rielezione. Prodi capisce bene cosa è necessario fare. Quello che resta da vedere è se riuscirà a convincere i suoi alleati politici, specie quelli della sinistra tradizionale, a dargli il sostegno parlamentare di cui ha bisogno.

Nota: da confrontare, questa ipotesi del NYT tutta razionalizzatrice "interna al sistema" con il più aperto approccio dell'articolo di Jonathan Freedland sul Guardian sullo sfondo dello scenario economico e politico globale (f.b.)

here English version

Il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al Ministro dell'Ambiente perché chiarisca alcuni punti del decreto legislativo di attuazione della delega ambientale (Testo unico ambiente).

Per oggi pomeriggio e' previsto un incontro a Palazzo Chigi tra Matteoli e lo staff legislativo del Ministero e della presidenza del Consiglio dei Ministri. I chiarimenti richiesti dal Quirinale riguarderebbero i rilievi già mossi dalle regioni che hanno preannunciato ricorso alla Corte costituzionale. Un altro aspetto riguarderebbe il mancato passaggio del testo al Consiglio di Stato. Il provvedimento, che è un decreto legislativo e non una legge, non può essere rispedito alle Camere, ne' vale, ai fini della decadenza del testo, il periodo di 30 giorni per la sua promulgazione. Il Quirinale dunque potrà scegliere di recepire le indicazioni del ministero dell'ambiente promulgando il testo anche in un termine successivo a quello prescritto per le leggi o, nell'ipotesi contraria, non firmare il provvedimento attendendo la sua scadenza naturale prevista per luglio prossimo.

In questi mesi le osservazioni della Legambiente e delle altre associazioni Ambientaliste sono state sistematicamente ignorate dal Parlamento e dal Governo.

Ad ora non si conoscono ancora le motivazioni con cui il Capo dello Stato ha sostanziato l'atto di rinvio ma questo può avvenire per motivi di ordine costituzionale, intendendo con questo anche il problema delle competenze tra Stato e Regioni, di obblighi internazionali che il nostro Paese ha (e quindi anche il corretto recepimento delle direttive comunitarie) e la copertura finanziaria. Quindi quantomeno uno di questi elementi ha pregiudicato la firma della legge delega sull'ambiente da parte del Capo dello Stato.

Infatti riteniamo che le scelte nei vari comparti siano viziate da un'impostazione sbagliata che viola le direttive comunitarie che si dichiara di voler recepire. La legge Delega di fatto sottrae milioni di tonnellate di rifiuti alla disciplina comunitaria che diventano facilmente smaltiti in modo illegale, indebolisce la procedura di danno ambientale e annulla la partecipazione delle associazioni ambientaliste ai processi per i reati ambientali; rende meno certi e cogenti gli interventi di bonifica dei siti industriali inquinati; stabilisce procedure che rendono impossibile il raggiungimento degli obiettivi di qualità per le acque stabilite dall'Unione Europea; crea un procedimento di valutazione ambientale strategica (Vas) a valle dei piani o dei programmi e non, come richiesto contestuale alla decisione di questi e trasforma la Via in un passaggio burocratico svuotandola di ogni potere di controllo e diniego.

Tutto questo senza considerare il conflitto di competenze che le Regioni hanno eccepito o le carenti coperture economiche che sono state da più parti osservate, su tutti questi temi il Governo era stato avvisato, non solo dalle associazioni ambientaliste, ma anche dalla Conferenza Stato-Regioni da numerosi organi istituzionali, non ultimi gli uffici del ministero dell'Economia.

Il Governo però ha scelto di andare avanti contro tutto e contro tutti, anche contro il mondo scientifico che si era mobilitato con centinaia di docenti indirizzando proprio al Governo e al Capo dello Stato un accorato appello che vedeva fra i primi firmatari Rita Levi Montalcini e Salvatore Settis.

Probabilmente la rabbia spontanea o manovrata dell'opinione pubblica in alcuni stati islamici per le famigerate «vignette» prima o poi si spegnerà. Giuste intanto le deplorazioni per una reazione sproporzionata auna pubblicazione certamente indebita e irriverente che non si capisce perché qualche «libertario» di casa nostra vorrebbe addirittura replicare o generalizzare. E giusta soprattutto la condanna per gli atti di violenza contro le persone e le cose (molti dei morti sembrano caduti però nella repressione). L'esplosione di questi giorni è un segno preoccupante di una tensione che trascende e travalica l'episodio in sé, per quanto grave. I crimini della piazza o di chi ha manipolato la piazza non possono far dimenticare le responsabilità di chi si atteggia sempre e solo a vindice di un ordine che per suo conto ha contribuito a deteriorare e piegare ai propri interessi e alla propria lettura della storia introducendo o evidenziando una spaccatura sempre più insanabile.

Spiegare tutto con l'odio inestinguibile dell'Islam per la libertà di cui gode e che diffonde l'Occidente, o con l'incompatibilità assoluta dei due sistemi di valori, non spiega nulla. Paradossalmente, se non c'è una prospettiva su cui lavorare per un futuro migliore riducendo le distanze mediante il progresso e la diversificazione sociale (dei paesi che vivono di rendita o dei popoli che vivono di Islam?), le guerre dell'Occidente - dall'Afghanistan all'Iraq, andata e ritorno - diventano guerre di pura conquista con il petrolio come unica posta. E' come se l'orientalismo bollato da Edward Said e riproposto da Bernard Lewis come strumento conoscitivo di una realtà con sue proprie regole di identità e di aggregazione si riappropriasse della sua materia di studio espungendo il Medio Oriente dal flusso della storia. Non è la Fallaci ad aver ragione. E' il pregiudizio di massa di cui la Fallaci si è fatta portavoce immaginando di essere un rompighiaccio che ha guadagnato tutto il campo della politica costringendo la controparte a recitare il copione che le è stato ritagliato su misura per l'egemonia e la superiorità dell'Occidente in un momento di oggettivo disorientamento davanti all'orrore del divario a cui in qualche modo le punte più avanzate dello stesso Occidente si sentono in dovere di metter mano. Finché, prendendo a caso dal mazzo, fatti sulla cui illiceità non possono sussistere dubbi come la guerra anglo-americana in Iraq o l'occupazione israeliana della Palestina non saranno sanzionati a livello mondiale - e cioè da tutti in tutti i paesi del mondo e da tutte le organizzazioni internazionali come avviene per gli attentati terroristici o il vandalismo contro le chiese e le ambasciate - la cosiddetta comunità internazionale, l'Occidente, i governi europei di destra o di sinistra non avranno la legittimità morale e la credibilità politica per svolgere la funzione regolatrice che in un altro contesto di comportamenti potrebbe effettivamente risultare proficua. Parlare di Voltaire è gratificante e forse pertinente, ma è con le politiche di Bush e Sharon (e al limite di Mubarak) che bisogna fare i conti per stabilire o ristabilire un ordinamento condiviso. Anche se le intenzioni fossero state buone, ma si sa che erano cattive e basate su una serie di falsità orchestrate ad hoc, la guerra contro Saddam ha provocato un numero inaccettabile di vittime e ha sconquassato un'intera nazione chissà per quanto tempo. Gli invasori e gli occupanti non si fanno scrupolo di disporre degli uomini, delle confessioni e delle istituzioni come se fossero res nullius. Nessun addobbo idealistico può far dimenticare agli interlocutori-antagonisti, moderati o fanatici che siano, che le logiche sono le stesse messe in atto in epoca coloniale con la civiltà, il libero commercio e la sicurezza dei coloni europei al posto che hanno oggi l'esportazione della democrazia e la difesa del mercato. Non si può nemmeno parlare di «esperimento» perché i precedenti appunto del colonialismo e dell'improvvisata decolonizzazione dimostrano a sufficienza che il passaggio di un governo europeo o occidentale non corrisponde necessariamente al trapianto riuscito e imparziale dei modelli di cui europei e occidentali vanno giustamente fieri. Visto il riferimento all'esperienza coloniale, si può ricordare incidentalmente che l'occupazione della West Bank da parte dello stato ebraico è già durata più dell'occupazione italiana della Libia. In Francia, adattandosi al fatto compiuto, non è chiaro se per iniziativa di Chirac o di Sarkozy, hanno sentito il bisogno di depotenziare la «minaccia» rappresentata dagli immigrati maghrebini riscoprendo il carattere «positivo» della presenza francese oltremare, in specie nel Nord Africa, a massimo disdoro della laicità della ricerca o a massimo incoraggiamento dei più pavidi per non dare respiro ai beur di seconda o terza generazione.

E' inutile ripetere che l'agitazione, i tumulti e il ribellismo possono non essere spontanei e non hanno obiettivi politici degni di essere registrati perché non ci sono ideologie, leaderships e alternative o che la Palestina è un falso problema. E' vero, può essere vero, ma non basta. Le cause della crisi del mondo arabo-islamico o più in grande della «periferia» - a cui, come scriveva Angela Pascucci nel bell'editoriale di domenica, fa da contraltare parallelo e configgente la crisi del «centro» - sono complesse e vanno a segno in tutte le direzioni possibili. C'è un incontro, una reciproca interazione, fra le ambizioni degli uni e le frustrazioni degli altri. Di sicuro, nel movimento di contrasto, di per sé ambiguo se non informe, si riconoscono sia i gruppi che detengono il potere o che aspirano ad esso sia le classi oppresse, il lumpen pronto a tutto per disperazione, i poveri. E' proprio il formarsi di quel tipo di coalizione di fatto a rendere il tutto così esplosivo e incontrollabile.

Eppure la politica è fatta apposta per opporre i mezzi di cui dispone al trionfo dell'irrazionalità e al senso di impotenza che ne deriva. Le forze politiche o le autorità nazionali o internazionali che non credono ai vantaggi malgrado tutto dello «scontro di civiltà» hanno il compito di intervenire. Se l'Europa ha espresso dissenso per la guerra in Iraq non può accontentarsi di una spolverata di legalismo votata obtorto collo da qualche istanza dell'Onu per ignorare la sostanza del vulnus e le conseguenze di lungo periodo che quella violazione del diritto ha innescato. Dispiace che D'Alema non si sia pentito del contributo che il centro-sinistra diede a suo tempo in Italia alla guerra della Nato contro la Jugoslavia. Non ci si può sbarazzare di ciò che significa la vittoria degli islamisti nei territori occupati intimando a Hamas di riconoscere Israele. A furia di temere di essere troppo dogmatici sui principi che appartengono dopo tutto al patrimonio della parte occidentale o di fingere di essere «equidistanti», si smarrisce per strada ogni criterio per giudicare i fenomeni della tormentata e faticosa transizione in tutta quella vasta area che si estende fra l'Ovest e l'Est dei tempi della guerra fredda e fra il Nord e il Sud della tipologia terzomondista vecchia maniera e sempre attuale per merito o per colpa di quelli che non vogliono più dare per scontata la fine del colonialismo. Senonché, togliendo anche il bonus della sovranità al mondo che ha molti motivi stringenti per sentirsi deluso dai risultati della decolonizzazione, il cerchio si chiude senza lasciare più alcun margine. Non per niente, stando alle analisi che utilizzano i documenti fatti circolare dai servizi delle maggiori potenze, la consegna che sovrintende alla «guerra al terrore» è di non prendere nemmeno in considerazione le cause che alimentano lo scontento e la protesta perché sono troppo diversificate e, allo stato attuale delle relazioni internazionali, insolubili.

Giornali a lui vicini come "Libero" e "Il Foglio" hanno appioppato due nomignoli appropriati alla sua deposizione di «persona informata dei fatti»: "Detective Silvio" e "Ispettore Roc". Il "Corriere della Sera" di ieri ha richiamato l´ombra del Sifar e dei suoi illegali fascicoli di spionaggio. Ma la più pertinente delle definizioni (chiedendone scusa all´autore) mi sembra piuttosto "Dagospia", un sito Internet specializzato in gossip.

Il nostro "Dagospia" si è recato l´altro ieri pomeriggio in Procura accompagnato dall´avvocato Ghedini che aveva organizzato l´incontro con il Procuratore capo e con i due sostituti incaricati dell´inchiesta Unipol e per venticinque minuti li ha intrattenuti sui gossip dei quali era stato informato da un tunisino suo socio in affari: chi dei dirigenti diessini ha cenato con il presidente delle Generali e qual è stato il contenuto di quell´incontro.

Forse anche il menù della cena e i vini serviti a tavola.

Reati? Certo che no, ha detto Berlusconi ai suoi amici di Forza Italia ed ha ripetuto nell´ennesima trasmissione televisiva cui ha partecipato subito dopo (da Anna La Rosa).

Ieri pomeriggio ha ripetuto il concetto in una conferenza stampa appositamente convocata. Risulta evidente che il nostro Dagospia sente incombere il reato di calunnia e mette le mani avanti. Ma sente anche montare intorno a sé il disagio dei suoi alleati e la disapprovazione generale dell´opinione pubblica, non soltanto di quella di centrosinistra.

Un passo falso di estrema gravità, improvvidamente preparato dal suo avvocato di fiducia che in fatto di relazioni esterne non dev´essere proprio una cima.

La deposizione di Berlusconi ha avuto come effetto l´uscita di scena del caso Unipol, sostituito dal caso d´un presidente del Consiglio che, in piena campagna elettorale, consegna ai magistrati inquirenti un dossier di gossip politici compilato da un suo socio in affari, con il chiaro intento di attivare un ventilatore giudiziario per meglio schizzare fango sui suoi avversari, ma si accorge nel bel mezzo di questa fraudolenta operazione che il ventilatore funziona controvento rigettando il fango (o peggio) su di lui.

Qui nasce una questione della massima serietà, sollevata ieri nell´editoriale di Ezio Mauro; una questione politica e istituzionale che mette in discussione la natura stessa di questo governo.

Le iniziative calunniose e spionistiche del suo presidente turbano lo svolgimento ordinato delle elezioni politiche, cioè il momento culminante di ogni democrazia, tentando di manipolare il voto degli elettori e suscitando reazioni e tensioni. Si tratta dunque di iniziative di stampo eversivo, mentre non a caso il presidente della Repubblica, ben consapevole dei rischi indotti che possono derivarne, batte da tre giorni sul tasto del pericolo di inquinamento elettorale.

Mentre tutto ciò accade sotto gli occhi allibiti dei nostri partners europei, un Parlamento arrivato al termine del suo mandato approva a colpi di maggioranza una legge palesemente illegale (insisto sull´avverbio "palesemente") che abolisce la possibilità del Pubblico ministero di appellarsi contro le sentenze di assoluzione e con ciò discrimina la pubblica accusa e le parti civili rispetto alla difesa dell´imputato, violando gli articoli 110 e 112 della Costituzione che stabiliscono la parità delle parti in processo, con l´evidente intento di bloccare il processo Sme che vede imputato lo stesso presidente del Consiglio per corruzione in atti giudiziari.

Contemporaneamente lo stesso presidente del Consiglio, attraverso il capo del gruppo parlamentare del suo partito, fa bloccare a tempo indefinito la riforma della legge sulla contrattazione dei diritti televisivi delle partite di calcio e regala un bel pacco di denaro al Milan, alla Juventus e all´Inter a spese di tutte le altre squadre del campionato.

* * *

Questi sono i fatti accaduti nell´ultima settimana e ne mancano ancora una dozzina prima della giornata elettorale. Aggiungerei l´occupazione totale degli spazi televisivi dai quali campeggia ininterrottamente la faccia inceronata del presidente del Consiglio, concionante senza limiti di tempo di fronte a conduttori compiacenti o ammutoliti.

I dirigenti del centrosinistra hanno preannunciato un passo formale presso il capo dello Stato affinché questa invereconda deriva antidemocratica abbia termine e si recuperino condizioni di normalità democratica. Se questo obiettivo non si realizzasse e dovesse continuare l´attuale scompiglio, la situazione potrebbe arrivare a decisioni estreme.

Gli alleati di Forza Italia vanno per una volta aldilà del mugugno. Per Casini l´iniziativa del premier in Procura equivale a una seduta di «avanspettacolo», mentre per Maroni si è trattato di «una nota stonata, da evitare». Tuttavia è evidente che una radicalizzazione dello scontro elettorale ha anche loro come bersaglio. Fini e il presidente della Camera si stanno facendo schiacciare dal radicalismo berlusconiano. Saranno loro ed i loro propositi alternativisti le prime vittime di quanto accade.

***

Come se questi guasti inflitti alla democrazia dal massimo rappresentante del potere esecutivo non bastassero a suscitare stupore e preoccupazione, un´altra grave interferenza è stata compiuta tre giorni fa dalla più alta autorità religiosa. Dal palazzo Vaticano il Papa Benedetto XVI, ricevendo gli auguri del sindaco di Roma, del presidente della Regione Lazio e del presidente della Provincia, si è rivolto direttamente ad essi affinché si oppongano all´attuazione dei Pacs e alla somministrazione della pillola abortiva negli ospedali pubblici. E affinché si dichiarassero contrari alle manifestazioni popolari indette ieri a Roma e a Milano per rivendicare i diritti delle donne e degli omosessuali.

Il Papa e i vescovi – l´abbiamo ripetuto più volte da queste pagine – sono liberissimi di testimoniare la fede e l´etica che ne deriva. Ormai sono andati molto più in là e intervengono dando giudizi e indicazioni anche su temi strettamente politici sebbene i Patti Lateranensi delimitino con assoluta chiarezza che la materia politica non riguarda le autorità religiose.

Ma tre giorni fa Papa Ratzinger ha varcato un´altra frontiera che finora era stata rispettata. Non si è rivolto soltanto ai cattolici e a tutti i cittadini nella sua lotta contro l´aborto e contro gli omosessuali. Ha fatto di più.

Si è rivolto perentoriamente alle autorità civili in sua presenza e ne ha prescritto pubblicamente i comportamenti che il Papa si attende da loro.

Un fatto del genere non sarebbe certamente concepibile nei riguardi del sindaco di Parigi o di Londra o di Berlino o di Madrid. Wojtyla non si è mai spinto così oltre, neppure nella sua amata Polonia dove, proprio durante il suo pontificato, furono varate le prime leggi laiche di quel paese.

Benedetto XVI si è dichiarato addirittura ferito e offeso da due libere manifestazioni popolari che non avevano certo lui né la religione cattolica come bersaglio.

La nostra campagna elettorale non riguarda certo il Papa, ma anche lui e i suoi consiglieri, come pure il giornale che si pubblica in Vaticano con il "placet" della Segreteria di Stato, dovrebbero sentire l´elementare responsabilità di evitare interventi plateali indirizzati ad autorità civili che soltanto per un senso, esso si responsabile, di rispetto non hanno replicato come forse avrebbero voluto (e dovuto) richiamando "l´incipit" del Concordato che stabilisce l´esclusiva sovranità della Chiesa in materia religiosa e l´altrettanto esclusiva sovranità delle autorità civili in materia temporale.

Auspichiamo che il Papa dopo questo spiacevole episodio, abbia modo di riflettere con attenzione sul peso e sugli effetti delle sue esternazioni nonché sulle reazioni di chi lo ascolta con rispetto ma con libertà di spirito e autonoma dignità di coscienza.

Se nella campagna elettorale si fosse parlato dell'essenziale - della legalità tenuta in spregio da anni, del conflitto d'interessi, della legge che in Italia non ha più maestà - forse non ci sarebbe stato il caos che abbiamo visto l’altra notte quando si è trattato di nominare il presidente del Senato. Non ci sarebbe stato questo nuovo manifestarsi d'un tumore che affligge gran parte della classe politica, che non accenna a mitigarsi nonostante la sconfitta di Berlusconi, e che può esser riassunto nelle seguenti malformazioni: il prevalere dell'interesse particolare o personale su quello collettivo, il primato dell'emozione vendicativa sulla valutazione razionale dell'utile per l'Italia, la sistematica preferenza data alla divisione, al disfacimento di quel che si potrebbe fare, al ricatto, al voto di scambio, all'avvertimento che promette e non promette, insinua e impaura.

Adesso Marini è stato eletto presidente e Prodi ha l'inconfutabile diritto a governare con il sostegno di ambedue le camere, ma i miasmi delle ultime ore converrà tenerseli accanto come ammonimenti, per capire quel che sta davanti al futuro governo e agli italiani. In particolare converrà avere accanto il ricordo di come Andreotti, candidandosi, ha contribuito a tale inquinamento. A partire dal momento in cui su suggerimento di Berlusconi è sceso in campo per contrastare la candidatura di Marini, a partire dal momento in cui s'è ostinato a restare in gara pur essendosi accorto che l'imparziale spirito d'unità che pretendeva incarnare era una menzogna, si poteva infatti prevedere la massima confusione. Diabolus, che vuol dire divisore, è lo spirito maligno che imprigiona l'Italia politica e non stupisce che questo sia il nome attribuito al senatore: Belzebù. Se nella campagna elettorale si fosse parlato di legalità da restaurare non ci sarebbe stato spazio per un rientro di Andreotti all'insegna di questo epiteto, e per quel che s'è accompagnato a tale rientro: i voti sbagliati per Marini denominati pizzini, il vocabolario della mafia che entra in Parlamento e l'infanga, le parole eversive dette dall'ex maggioranza contro Scalfaro.

Quest'ultima avventura di Andreotti resta come una ferita, uno sgarro. Una ferita che oscura le non poche sue condotte benefiche, e anche integre: la battaglia per l’Europa, la scelta di difendersi nei processi e non contro i processi. Ha detto il senatore che voleva apparire come uomo sopra le parti, un tipico esponente del centro che rifiuta l'aspro conflitto bipolare: ma come tale non si è comportato, seminando piuttosto divisione. La nozione stessa di centrismo esce devastata dall'esperienza, perché ancora una volta ad affiorare è stato l'estremismo del centro, che si dilania sulle persone avendo perso cognizione del conflitto di idee. Da questo punto di vista è più super partes Bertinotti, che alla Camera non ha esitato a dire: «Sono un uomo di parte che per questo motivo, però, non teme il conflitto. (....) Ma non bisogna lasciar scivolare la politica nella coppia amico-nemico».

Altri dicono più verosimilmente che Andreotti voleva levarsi un sassolino dalla scarpa (nel frattempo se n'è tolti tanti, troppi: fin da quando si augurò, nell'agosto 2005: «Meglio sarebbe che Violante e Caselli non fossero mai esistiti». O quando equiparò il proprio processo al calvario di Gesù), e ha fallito prestandosi a un'impresa disgregante anziché unitaria. Quest'idea di adoperare la politica per levarsi sassolini, strappar poltrone, è un'usanza che rischia di fare tanti più proseliti, quanto più viene considerata normale. Quando Andreotti sostiene che il potere logora chi non ce l'ha, è a quest'usanza che sembra pensare. È la convinzione che il politico sia autentico solo se è costantemente ai comandi e non, come in Plutarco, «governante per breve tempo, e governato per tutta la vita». Una convinzione non fugata dalla vittoria di Prodi.

È l'usanza di chi nella politica vede un mezzo per propri calcoli o rivincite e neppure sa cosa sia, dare uno scopo a sé e anche alla pòlis. Il sassolino di cui Andreotti voleva disfarsi è un macigno, ed è gravissimo che nessuno glielo abbia fatto capire, a cominciare dalle gerarchie ecclesiastiche. La giustizia lo ha assolto solo in apparenza, perché nella motivazione della sentenza la sua contiguità con la mafia fino all'80 è attestata: se non ha pagato per questo reato è perché esso fu prescritto, non perché non fu commesso. I giudici d'appello hanno emesso a Palermo una chiara sentenza nel 2003, resa definitiva dalla Cassazione nel 2004, quando hanno evocato: «un'autentica, stabile e amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi» fino alla «primavera del 1980». Se la legalità italiana non fosse da tempo e in misura crescente qualcosa di opinabile, Andreotti non avrebbe potuto osare esporsi così, e offrire un pessimo esempio ai politici dei due campi.

Da questa patologia il centro sinistra dovrà prima o poi ripartire, perché essa permette il continuo riemergere di personaggi che con la legalità hanno rapporti distorti: personaggi che Sylos Labini chiama i neomachiavellici, presenti a destra come a sinistra e sempre pronti non a distinguere la politica dalla morale, ma a contrapporre l'una all'altra (Sylos Labini, Ahi serva Italia). La caratteristica di simili personalità è l'indifferenza all'etica pubblica, la disinvoltura con cui minacciano slealtà, mercanteggiano lealtà, usano parlare di gioco politico per dissolvere nella levità dei vocabolari infantili la distruttività. Sono chiamati spesso simpatici per il modo in cui esibiscono la spregiudicatezza come un pennacchio (lo osservava con acutezza Thomas Mann, poco dopo l'ascesa di Mussolini, nel racconto Mario e il Mago: «Quello strano tipo di uomo, che gli italiani chiamano simpatico, confonde singolarmente il giudizio morale con quello estetico»). Altri attributi estetizzanti si sono nel frattempo aggiunti: geniale, coraggioso, intelligente, addirittura intelligentissimo. L'imperturbabilità nelle tempeste è scambiata automaticamente col coraggio, il cinismo è preso per acume: qui fiorisce spesso l'estremismo del centro.

La morale, con tutti questi attributi, non ha rapporto alcuno. La morale del geniale è quella tartufesca di chi ininterrottamente chiede un qualche risarcimento per i sacrifici fatti, una compensazione per la lealtà che in politica si dovrebbe dare gratuitamente. Andreotti abilitato a togliersi sassolini diventa modello, anche se sconfitto: ognuno ritiene di poter rivendicare un indennizzo sotto forma di promozione, in cambio della propria fedeltà. Nel dizionario Battaglia il risarcimento è «la riparazione di danni causati ingiustamente, l'ottenere soddisfazione a seguito di un danno morale, un'offesa, un'ingiustizia». Tutto a questo punto può divenire illecita offesa, danno morale: perdere la maggioranza nel voto, subire indagini, processi: tutti - da Berlusconi a Andreotti - devono esser pacificati con risarcimenti. Se così stanno le cose, son soprattutto le parole ad ammalarsi e a dover esser ripulite. Questa non è la seconda repubblica di cui si parla, né stiamo entrando nella terza. Siamo tuttora immersi nelle escrescenze della prima, che l'hanno appestata.

Stiamo tuttora cercando il gancio che ci riconnetta con l'Italia quando fu davvero coraggiosa: nel Risorgimento, nella Resistenza, nel dopoguerra. Certo siamo in emergenza, e ogni emergenza richiede larghe intese per fronteggiare ingovernabilità e maggioranze esigue. Ma larghe intese su cosa precisamente, su quali requisiti personali, pubblici? Se il terreno comune non ha come base la maestà della legge e la moralità da restaurare, le larghe intese sono un complice patto che perpetua il fango e rende grotteschi i paragoni con la grande coalizione tedesca. Se non si cerca un altro tipo d'accordo, l'insolente distruttività delle ultime ore si ripeterà per l'elezione del Capo dello Stato, e vorrà dire che dalle notti di aprile si è appreso poco. Il centrosinistra potrebbe forse proporre queste intese all'opposizione: su legalità, etica pubblica, imparzialità vera delle nomine. Se Berlusconi e alleati dissentiranno, vorrà dire che ben altro vogliono: non intese ma cosiddetti inciuci. Un vocabolo che dissolve ogni cosa - civile coerenza, divisione tra destra e sinistra - nei miasmi del pateracchio, del pettegolezzo e dell'intrigo.

Per Andreotti questi non sono stati giorni di riscatto, proprio perché da essi si era aspettato non già giustizia ma risarcimento. Questi sono stati giorni in cui la terribile profezia di Aldo Moro, pronunciata in una lettera dalla prigionia brigatista («Lei uscirà dalla Storia e passerà alla triste cronaca che le si addice»), si è in parte avverata e non è stata contraddetta da una vera conoscenza di sé, oltre che delle proprie responsabilità.

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