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Superare oppure abrogare la legge 30, correggerla o lasciarla intatta, come vorrebbero Confindustria e centrodestra? In realtà, se si guarda alla situazione attuale del mondo del lavoro, il quesito appare di limitata rilevanza. Per quattro motivi.

Primo. Oltre tre milioni di persone hanno un´occupazione precaria, nel senso che sanno con certezza che a una certa data si troveranno senza lavoro, ma non sanno affatto se e quando ne troveranno un altro. Circa 2,1 milioni di essi sono lavoratori dipendenti con un contratto a termine.

Un altro milione e passa è formato da varie figure contrattuali atipiche: co.co.co. (che ancora esistono nel pubblico impiego, grande fabbricante di lavoro precario); collaboratori a progetto (come la legge 30 ha rietichettato i co.co.co.); lavoratori in affitto ovvero in somministrazione; persone che svolgono lavori occasionali, apprendisti e altre figure, incluse le partite Iva imposte dal datore di lavoro.

Molti di essi hanno un reddito annuo inferiore alla media, perché tra una occupazione e l´altra non ricevono alcun salario, oppure percepiscono solamente la cosiddetta indennità di disponibilità, che equivale a meno di un terzo del salario medio. A parte la carenza di altre tutele e diritti (sanità, maternità, ferie), la maggior parte di questi lavoratori va incontro a una pensione miseranda, dell´ordine del 30 per cento o meno di un salario medio.

Secondo. Almeno altri tre milioni di persone lavorano in nero. Per circa la metà si tratta di persone fisiche, che lavorano regolarmente in una situazione del tutto irregolare. L´altra metà è formata dalle cosiddette "unità di lavoro assimilate": cinque milioni di persone che svolgono, a tempo parziale ma sempre in nero, una massa di secondi e terzi lavori equivalenti ad almeno un milione e mezzo di lavoratori a tempo pieno. Una parte di coloro che lavorano in nero lo fanno sicuramente per convenienza. Ma una parte rilevante lo fa perché questo è il lavoro che propongono le aziende, piccole e grandi, oppure perché dinanzi all´offerta di retribuzioni che sono sì regolate da un contratto, e però non superano i cinque euro l´ora, l´interessato preferisce riceverne dieci in nero.

Terzo. I salari italiani sono i più bassi tra i grandi Paesi dell´Unione europea. Inoltre, diversamente da quanto è avvenuto in Francia, Germania e Regno Unito, essi sono quasi fermi, in termini reali, da una decina d´anni. Alla stagnazione dei salari in Italia hanno concorso parecchi fattori, il principale dei quali è la scarsa produttività del lavoro. A sua volta ciò è dovuto al limitato contenuto tecnologico della produzione, ma in misura non minore a un´organizzazione del lavoro che fu concepita in passato, ma è tuttora dominante nelle aziende. Essa è caratterizzata dall´intento di non utilizzare qualifiche professionali elevate, e meno che mai è idonea a sollecitare o a lasciare spazi sul lavoro per forme diffuse di formazione permanente.

Quarto. Le aziende in difficoltà tendono a licenziare, mettere in mobilità lunga o avviare al prepensionamento soprattutto i lavoratori e le lavoratrici quarantenni. Al tempo stesso le aziende in sviluppo preferiscono non assumerli. I giovani, si sa, costano meno e sono freschi di studi. Chiunque abbia superato i quarant´anni è oggi consapevole che ai primi segni di crisi il suo posto di lavoro è a rischio, e che in caso di licenziamento sarà molto difficile trovarne un altro di pari livello professionale e a parità di retribuzione. L´allungamento in atto dell´età pensionabile rende particolarmente critica la condizione di tale fascia delle forze di lavoro.

Allo scopo di porre riparo a una simile situazione occorre una legge sul lavoro di vasto respiro. Più probabilmente, un complesso di leggi tra loro correlate. Gli obiettivi dovrebbero essere molteplici: ridare visibilmente centralità al lavoro produttivo; semplificare drasticamente la presente giungla contrattuale tanto nel privato che nel pubblico impiego; regolare attivamente i passaggi dal bacino dei contratti a tempo determinato, che possono continuare a svolgere funzioni utili per le persone come per le aziende, al bacino del tempo indeterminato, in modo da evitare la trappola della precarietà senza fine; favorire il passaggio dal bacino del lavoro nero ai due bacini del lavoro regolare, senza ignorare gli stretti legami che esistono tra economia formale ed economia informale; sviluppare, per mezzo di adeguati incentivi a nuovi tipi di organizzazione del lavoro, la formazione continua per tutto l´arco della vita attiva. Un processo, questo, indispensabile per assicurare alle aziende personale provvisto di elevate competenze professionali e organizzative, e al tempo stesso per evitare che i quarantenni si sentano dire, da un giorno all´altro, che sono diventati tecnologicamente obsoleti.

Il nuovo governo è dunque dinanzi a un compito grande e oneroso, da svolgere mediante la necessaria discussione con le parti sociali. Nel corso della quale le eventuali modificazioni del decreto attuativo della legge 30 apparirebbero, è dato presumere, come le naturali e circoscritte conseguenze di un disegno sostanzialmente più ampio.

In vista di un tale disegno meritano attenzione le proposte avanzate di recente da lavoce.info. Anch´esse partono dalla necessità di riformare la legge 30, ma, pur nella varietà delle posizioni, vanno molto al di là di essa. Riconoscono l´importanza di estendere a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica la protezione offerta dal diritto del lavoro. Prevedono la costruzione di sentieri verso la stabilità dell´occupazione, fondata su un rapporto di lavoro unico a tempo indeterminato. Prospettano una limitazione dell´uso e della ripetibilità dei contratti a tempo determinato, mirata principalmente a fare di essi meccanismi davvero efficaci di accumulazione di esperienze professionali da parte delle persone e di verifica delle competenze dei neo-assunti da parte delle aziende.

Queste proposte non toccano, peraltro, il problema dei problemi, ossia il fatto che il mercato del lavoro italiano è non solo bipartito, bensì tripartito. Accanto alle due quote visibili dei lavoratori che sono regolarmente protetti e di quelli non protetti, esiste infatti la quota dei lavoratori invisibili, gli irregolari, che è di gran lunga la più alta registrata nei Paesi sviluppati. Se si può definire basso il grado di protezione dei lavoratori atipici, quello degli irregolari è sicuramente sotto zero. Non si può certo ignorare che su questo fronte i governi sono stati finora sconfitti. Ma la causa prima stava nell´errore di concepire il lavoro irregolare come se fosse un fenomeno collaterale, invece che un elemento strettamente intrecciato all´economia contemporanea; visto, tra l´altro, che produce almeno il 15 per cento del Pil.

Per questa ragione una legge complessiva per il lavoro che, insieme con gli altri problemi delineati, non affrontasse in una prospettiva e con metodi innovativi anche la necessità di far passare il maggior numero di persone dal bacino del lavoro irregolare ai bacini del lavoro regolare, porterebbe in sé il germe della propria inefficacia.

Nel gioco di società che va sotto il nome di "toto-ministri", i Beni Culturali sono relegati (c’era da aspettarselo) a un ruolo marginale. Ma prima che si cominci a disputare se la scomoda poltrona del Collegio Romano debba andare "in quota" a questo o a quel partito, sarebbe il caso di riflettere sulla miglior collocazione di questo dicastero nella mappa istituzionale. Sempre più chiaro è infatti che il patrimonio culturale può e deve avere una posizione-chiave nello sviluppo del Paese. La sua vera "redditività" non è negli introiti diretti e nemmeno nel turismo e nell’indotto che esso genera, bensì nel profondo senso di identificazione, di appartenenza, di cittadinanza che stimola la creatività delle generazioni presenti e future con la presenza e la memoria del passato. Qualità della vita, identità culturale, solidarietà sociale, sono (lo ripetono sempre più spesso economisti e sociologi in tutto il mondo) fattori di produttività ed economicità non dei musei o dell’industria culturale, bensì della società nel suo insieme. Questo tema è nuovo solo in apparenza: con grande lungimiranza, già lo indicava l’art. 9 della nostra Costituzione, che prescrive la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione», in stretta correlazione con lo «sviluppo della cultura scientifica e tecnica» e con «il pieno sviluppo della persona umana» richiamato all’art. 3. Come ha detto il presidente Ciampi in un lucido discorso (Mantova, novembre 2002), «gli insigni monumenti ereditati dai padri, le bellezze artistiche e ambientali, protette, riscoperte e restaurate, non sono soltanto una sorgente di rinnovata fiducia nella propria identità e nelle proprie capacità, ma sono risorse che costituiscono patrimonio e stimolo per la stessa crescita economica».

Questa risorsa straordinaria, che nessun Paese al mondo possiede nella stessa misura del nostro, non è appannaggio di nessuna parte politica, ma richiede una strategia condivisa, purtroppo mortificata negli ultimi anni da efferati tagli di bilancio e dall’irresponsabile blocco delle assunzioni. Ma quale è la corretta collocazione istituzionale dei "beni culturali"? In principio fu il ministero della Pubblica Istruzione, con varie direzioni generali, fra cui quella per l’Università e quella per le Antichità e Belle Arti. Ma "antichità" e "belle arti" parvero espressioni antiquate, e la creazione di un nuovo ministero (1975) introdusse la nuova etichetta, vagamente mercantile, di "beni culturali". Le intenzioni erano ottime: puntare sul valore monetario del patrimonio culturale per ottenere più finanziamenti per la tutela. Mancò tuttavia da subito ai Beni Culturali una sufficiente consapevolezza istituzionale della loro centralità nelle strategie di sviluppo del Paese, e dunque una mirata crescita e gestione degli investimenti nel settore. I Beni Culturali nacquero come un dicastero "minore", affidato quasi sempre a figure deboli e inadeguate, di corta visione istituzionale, con scarsa o nulla capacità di iniziativa, ansiose di spostarsi su un ministero più importante. A questa dannosa marginalità volle porre rimedio Veltroni, che da ministro e vicepresidente del Consiglio trasformò profondamente il suo ministero accorpandolo con Sport e Spettacolo e rinominandolo "dei Beni e delle Attività Culturali" (1998). Esperimento generoso, ma che (otto anni dopo) appare molto mal riuscito: se già grande è la distanza fra, poniamo, il cinema e gli archivi di Stato, proprio niente hanno di comune fra loro i musei e il calcio, i circhi equestri e le aree archeologiche. Affidare ambiti tanto difformi alle cure di un solo ministro ha avuto effetti negativi, ha accentuato anziché diminuire la marginalità del patrimonio culturale e dei suoi problemi.

Come altri accorpamenti ministeriali della riforma Bassanini messi alla prova durante il governo di centrodestra (per esempio quello di Tesoro, Bilancio e Finanze), anche questo andrebbe dunque ripensato. Della riforma Veltroni va salvaguardata l’idea centrale, fortificare i Beni Culturali mediante l’accorpamento non con sport e spettacolo, ma con altre competenze. Assai più appropriato e costruttivo sarebbe congiungere i Beni Culturali con Università e Ricerca, riprendendo una vecchia proposta di Giulio Carlo Argan e Giuseppe Chiarante. Si darebbe in tal modo un gran segno: che la ricerca conoscitiva è l’asse portante, la vera e sostanziale «attività» che dev’essere il cuore della tutela e della gestione del patrimonio culturale. L’intersezione fra campi del sapere, fra strutture della tutela e università potrebbe diventare la spina dorsale di un progetto vincente, lo stesso che dovrebbe informare l’organizzazione della ricerca in generale (si pensi alle interazioni fra fisici, medici, ingegneri). Si recupererebbe il nesso vitale fra l’università con le sue istanze di ricerca e il valore educativo del patrimonio culturale; si potrebbe favorire la mutua permeabilità fra ricerca sul campo e didattica (per esempio del restauro), fra strutture pubbliche della tutela e università. È questo un nuovo esperimento, che varrebbe la pena di tentare, tanto più che l’accorpamento di Università e Ricerca alla Pubblica Istruzione è anch’esso fra i meno riusciti nell’ultima legislatura.

Rispondendo sul "Corriere della Sera" del 29 marzo a un appello del Fai, Romano Prodi ha impegnato il suo governo a riportare il bilancio dei Beni Culturali al livello del 2001, «approntando un piano di recupero del patrimonio, con allocazione di risorse adeguate, anche ricorrendo a misure di incentivazione fiscale e tax shelter. L’obiettivo sarà quello di raggiungere nel medio-lungo periodo la destinazione di una quota pari all’1 % del Pil alla Cultura». È una dichiarazione importante, ma non basta: se tale quota dovesse esser destinata in prevalenza allo sport e allo spettacolo, lo stato di acuta sofferenza dei nostri beni culturali non ne risulterebbe alleviato. La crescita ragionata delle risorse deve accompagnarsi a una ripresa delle assunzioni, che miri all’altissima professionalità degli addetti sottraendoli al ricatto delle pressioni politiche esercitato con lo spoils system; al ripensamento dei ruoli di Stato, regioni, enti locali, privati mettendo ordine nella confusione generata dalla sciatta distinzione di tutela e valorizzazione inserita purtroppo nel nuovo Titolo V della Costituzione; all’organico collegamento delle tematiche della tutela con quelle della ricerca e dell’ambiente.

Un ultimo punto resta da chiarire. Per realizzare un programma come questo (se Prodi e il suo governo vorranno farlo) è preferibile un ministro tecnico o un ministro politico? Non ho alcun dubbio che un ministro politico, che abbia statura culturale e rispetto per il parere dei tecnici (e il ministero ne ha ancora di ottimi) sia la soluzione vincente, anzi l’unica. Quello dei Beni Culturali non deve, non può essere scenario per discorsi teorici o per un qualche apprendistato politico, ma esige un’azione immediata, forte e mirata, non marginale bensì collocata nel cuore stesso dell’azione di governo. Senza cedimenti a superficiali economicismi, ma con grande attenzione ai problemi della gestione del patrimonio. Solo un politico di provata esperienza può metterli adeguatamente a fuoco, con l’aiuto dei suoi tecnici, e segnare quel riscatto del nostro patrimonio culturale che i cittadini hanno il diritto di aspettarsi.

I commenti a Corriere.it: «Noi siamo un fenomeno nuovo, siamo liberali progressisti, mica pizza e mandolino»

Scrive Giacomo da Londra: «È inutile che il centrodestra s'arrabbi con Tremaglia. La realtà è che Berlusconi ci ha fatto fare figure meschine in Europa e nel mondo. Figure che ci hanno messo in imbarazzo. E questo imbarazzo credo sia stato determinante nell’andamento del voto estero». Scrive Emanuela da Washington: «Non potete neppure immaginare quante volte ho sentito commenti dopo una gaffe di Berlusconi».

Uno stillicidio quotidiano— continua Emanuela—che porta all’esasperazione e alla fine non se ne può più! E questo dev’essere successo a TUTTI gli italiani all’estero, non solo a me». Scrive Michele da Bruxelles: «Noi siamo un fenomeno nuovo, diverso dall'emigrazione tradizionale. Siamo liberali progressisti, anche perché confrontati con mondi politici meno stantii. Che dite: se ne saranno accorti, adesso, o dobbiamo continuare a sorbirci pizza & mandolino?». I commenti sono arrivati ieri pomeriggio: un’email e due tra i 18.000 (!) messaggi giunti alle dirette-video post-elettorali su www.corriere.it. Come questi, altri.

È vero: nel IV Referendum su Berlusconi, questi italiani hanno votato «no», scegliendo la sinistra. Ma qualcuno, a destra, dovrebbe chiedersi: perché? Un’ipotesi. Anzi, un’impressione: molti connazionali all’estero hanno usato quest’elezione 2006 per regolare un piccolo conto personale. E poiché gli italiani all’estero hanno, di fatto, deciso l’esito del voto, val la pena cercare di capire. Qual è l’accusa al presidente del Consiglio? D’essere un «detonatore di stereotipi»: di cui l’Italia —ci piaccia o no— è produttrice instancabile. Lo stereotipo nazionale è un esplosivo che, maneggiato con delicatezza, risulta inoffensivo. Meglio non scuoterlo, però: altrimenti esplode e può far male. Silvio Berlusconi non se n’è curato. La decisione di essere un «politico antipolitico», un primo ministro popolare e populista, l’ha portato a utilizzare all’estero gli stessi codici che gli hanno garantito il successo in Italia (e l’hanno portato, anche stavolta, a sfiorare una clamorosa riconferma).

La passione per il calcio, d’accordo; ma un premier proprietario della Tv, nelle democrazie del mondo, non piace. Va bene la mano sulla spalla dell’amico George e del caro Vladimir; vanno male —molto male— le battute sessuali sulle colleghe capo di governo, e le allusioni sulle disponibili segretarie italiane. Si può essere anticonvenzionali; non si possono fare battute sul nazismo nel Parlamento europeo, mostrare le corna nelle foto, ricevere i premier stranieri con la bandana, paragonarsi a Napoleone e Gesù Cristo. O meglio: si può, ma c’è un prezzo da pagare. E l’hanno pagato i connazionali all'estero. Per chi, nel mondo, ha pregiudizi sul nostro Paese, queste sono occasioni ghiotte: infatti, non se le è fatte sfuggire. Conduco dal 1998, su Corriere.it, un forum che si chiama Italians, ed è frequentato da questa nuova emigrazione professionale. Li conosco bene, questi nomadi che hanno patria: so quanto sono orgogliosi, sensibili, forti e fragili. Posso dire che il risultato del voto all’estero non mi ha stupito per niente?

Qual è il consuntivo del Parlamento che si è chiuso, quale la speranza per quello che si apre? Il consuntivo è purtroppo quello di una legislatura violenta. Tale da augurare agli italiani che una legislatura così non si veda mai più. Il parlamento è, infatti, una istituzione di pace civile. "Parlamentare" come "negoziare". "Parlamentarizzazione" come continua acquisizione al sistema democratico di movimenti politici e pulsioni che nascono con caratteristiche antisistema. La nostra lingua, come le altre lingue, riconduce alle radici della parola "Parlamento" significati di dialogo, di apertura, di inclusione.

Gli anni appena trascorsi dal 2001 ad oggi saranno segnati, invece, come una stagione in cui si è perduto, con il senso dell’autonomia del parlamento, anche il senso del suo nome.

Certo, ovunque, nel mondo delle democrazie, il parlamento ha ceduto peso a favore del governo per le decisioni legislative che attuano il programma elettorale della coalizione che ha vinto. E l’Italia ha partecipato sia pure con squilibri e incertezze agli inevitabili fenomeni di delocalizzazione della legge: dalle Camere al governo, alla pubblica amministrazione. Ma il fatto è che mentre la legislazione se ne esce sostanzialmente dal Parlamento, questo è stato occupato da bandi governativi emanati per privati scopi, personali o proprietari, che non meritano neppure lo stesso nome di legge. La parola legge, nel suo significato originario di «legame» tra chi decide e la comunità politica, appare per essi impropria e quasi impudica. Quegli atti, infatti, con il popolo sovrano non hanno avuto nulla a che fare. Con quel popolo che ha eletto un Parlamento e investito un governo su un programma che di quegli affari non parlava affatto.

Come non parlava di stravolgimento delle regole fondamentali della politica. C’è stato, invece, il prolungato attacco all’intero impianto della Costituzione utilizzando una procedura (l’art. 138) che la prassi repubblicana aveva sempre scartato, tutte le volte che con intenti condivisi si era tentata la riscrittura della intera organizzazione costituzionale. La prassi aveva infatti registrato un punto fermo con la legge costituzionale 24 gennaio 1997 n. 1 per la istituzione della «Bicamerale»: incaricata, appunto, di «elaborare progetti di revisione della parte II della Costituzione» da approvare poi con speciali procedure delle Assemblee.

Neppure era nel contratto di programma il cambio unilaterale delle regole elettorali dell’ultima ora, contro il codice di buona condotta elettorale europeo. E con questa lacerazione si è accompagnata anche la rottura del rapporto di prossimità territoriale tra elettori ed eletti. Un esempio di «democrazia negata al popolo» che i cittadini stanno in questi giorni mettendo a fuoco a poco a poco, sbalorditi per l’enormità della cosa. Mentre è già diffuso il timore che incostituzionali aggiunte di seggi nei risultati regionali possano addirittura «falsificare», per norma di legge, il risultato elettorale...

Ma la legislatura non è stata violenta solo per i suoi contenuti. Lo è stata anche per le sue procedure di schiacciamento dell’opposizione. Una maggioranza numerica senza precedenti nel nostro Paese non è bastata infatti al governo per far passare le sue leggi. Ha avuto bisogno di ricorrere a tutte le forzature del parlamentarismo di emergenza ora non più giustificate dalle ristrettezza dei numeri: salti di istruttoria, questioni di fiducia, maxi-emendamenti, contingentamento dei tempi, decreti-legge zeppi di cose eterogenee. Cinque anni di stress che si è ripercosso anche sulle istituzioni di garanzia. Così abbiamo avuto le finte-correzioni delle leggi rinviate dal Presidente della Repubblica perché palesemente viziate di incostituzionalità. Abbiamo avuto le leggi contro la magistratura (e quelle che hanno mutato la sorte dei "processi della casa", sono state più offensive per la funzione giurisdizionale di quella stessa che ha varato la controriforma finale dell’ordinamento giudiziario).

C’era possibilità per i presidenti delle Camere, il senatore Pera e l’onorevole Casini, di porre un qualche freno a queste truculenti manifestazioni di tirannia della maggioranza? Noi pensiamo di sì. E pensiamo anche che con la legislatura che muore i presidenti abbiano mancato una straordinaria occasione per temperare la ferocia del muro contro muro parlamentare. Il modello dello speaker d’Assemblea sopra le parti, come a Westminster, il modello dell’uomo della Costituzione che cancellava il suo nome dalla "chiama" delle votazioni perché votando non parteggiasse: modelli vanificati, come "mestieri che scompaiono".

Al Senato, la sola riforma regolamentare promossa dal presidente è stata quella di introdurre il principio maggioritario nel consiglio di amministrazione di Palazzo Madama: da sempre concepito come punto di pacifica convivenza, luogo di gestione consensuale della casa Parlamento e dove la contrapposizione maggioritaria era estranea al principio di corretto governo del condominio. Non è più così. Come non c’è più il principio antichissimo che voleva intangibile, salvo che per decisione unanime dell’Assemblea, l’ordine del giorno prefissato per la seduta in corso. Ora una grossolana interpretazione ha consentito che una nuova programmazione, decisa a maggioranza, possa cambiare senza preavviso, il lavoro della giornata parlamentare già iniziata.

Se poi, dall’ordine interno d’Assemblea, si passa al delicatissimo rapporto con il governo, si scopre che un’altra assurda decisione ha consentito che un semplice sottosegretario potesse mutare a suo piacimento, l’oggetto, sinora "sacro e inviolabile", su cui il Consiglio dei ministri aveva chiesto formalmente la fiducia del Parlamento. Inventando così l’istituto della fiducia "scorrevole", per "oggetto da precisare". Un mandato in bianco: in un regime parlamentare che ha smarrito così uno dei suoi "fondamentali".

Al presidente della Camera non si possono imputare devianze di questo tipo, destinate a restare incise nel legno storto del diritto parlamentare. Egli rimane però pur sempre associato al presidente del Senato per certe assai discusse nomine congiunte ad Autorità di garanzia. La joint venture tra i presidenti di Assemblea fu in altri tempi escogitata per garantire la caratura bipartisan di quelle nomine. Leggi concepite quando, per convenzione parlamentare della Prima Repubblica, una delle presidenze spettava alla maggioranza e l’altra all’opposizione. Ma leggi diventate illogiche, e da usare dunque con immensa cautela, quando i due presidenti vengono fuori dalla stessa covata maggioritaria.

I presidenti avrebbero potuto poi contenere, se non accortamente impedire, il fenomeno che ha avuto la sua prima apparizione in questa legislatura, delle "commissioni-canaglia". La commissione d’inchiesta delle Camere, che ancora oggi nelle grandi democrazie, è espressione alta del parlamentarismo dell’Occidente (la grande inchiesta sull’11 settembre è una gloria del Congresso Usa) è degenerata da noi in rozzo strumento di propaganda disegnato e usato contro l’opposizione. Volto a sostenere tesi di accusa più che ad accertare le verità dei fatti.

Ma la responsabilità più pesante delle presidenze delle Camere è stata di ordine costituzionale. Ad essi si imputa infatti l’ostruzionismo all’ingresso in Parlamento di rappresentanti di regioni, province, comuni. Ingresso previsto dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3: ad integrazione della commissione bicamerale per le questioni regionali. Si sono così perduti cinque anni. Perché si è impedita una sperimentazione utilissima sia per capire come dovrebbe funzionare una Camera delle regioni, sia per stabilire un serio filtro preliminare e pregiudiziale delle inevitabili liti tra governo centrale e governi territoriali, sia per arricchire il Parlamento di apporti diretti della periferia istituzionale alla funzione legislativa centrale. Le anomalie di "governatori" che si candidano al Senato mentre sono in carica, si sarebbero forse evitate se i presidenti delle Assemblee si fossero preoccupati di fare attuare quella legge costituzionale.

Mancata ogni risorsa di moderazione, la cultura dello scontro è dilagata. Per questo il consuntivo della legislatura è quello di una partita violenta. Difficile fare di peggio. La speranza è che da questa triste esperienza venga fuori la volontà di fare, anche con l’argine di regole diverse, del nuovo Parlamento un Parlamento vero.

Postilla

Se il buongiorno si vede dal mattino, e se il giorno del nuovo Parlamento è annunciato dal mattino delle liste elettorali, allora bisogna temere che le speranze del bravo parlamentarista sono molto esili. Grazie alla indecente legge elettorale fatta approvare al pessimo Parlamento da Berlusconi, le liste sono “bloccate”: ciò significa che i membri del Parlamento sono stati scelti dai partiti, tutti in profonda crisi di legittimità, i quali hanno scelto – in grande maggioranza – persone capaci di garantire fedeltà e obbedienza più che competenza e rigore istituzionale. E gli elettori non hanno nessuna voce in capitolo. Quale miracolo potrà trasformare un così brutto mattino in una luminosa giornata, professor Manzella?

SÌ, HA RAGIONE Pietro Citati, dobbiamo andare a firmare per il referendum contro la loro "Mala Costituzione" (Giovanni Sartori), per sostenere la nostra "Costituzione aggredita" (Leopoldo Elia). Certo, il referendum si farà in ogni caso perché l’hanno già richiesto 13 regioni. Perché l’hanno già richiesto 359 parlamentari. Ma sarebbe importante che lo richiedessero anche 500 mila cittadini.

Ognuna di queste richieste costituzionali ha infatti una sua propria motivazione. Le regioni ci dicono che è possibile un altro regionalismo, un altro processo federativo secondo le comuni logiche europee. Logiche lontane dal progetto costituzionale del centrodestra che disgrega la stessa idea di un sistema italiano di governo coordinato e coerente ai vari livelli territoriali. L’opposizione parlamentare ci dice un’altra cosa: che non si cambia così una Costituzione. Forzando la procedura, prevista per singole modifiche, per travolgerne l’intero impianto; negando in Parlamento i tempi necessari per riflettere, dialogare, parlare sulla legge fondamentale del Paese.

La richiesta del cittadini ci dovrà dire invece che la cittadinanza vuole riappropriarsi della sua Costituzione. Non solo per difenderla ma per proiettarla come stella polare anche del suo futuro. I banchetti delle firme non sono banchetti di conservazione, ma garanzia per l’avvenire. Proprio nel momento in cui la cupa atmosfera da Oratore Unico, che viene giù da ogni televisione, ci spiega qual è la concezione di potere oppressivo che ci tocca contrastare ed allontanare.

2006: sono 50 anni dall’entrata in funzione della Corte costituzionale. Ci fu un ritardo di 8 anni causato da quello che allora si chiamò «ostruzionismo di maggioranza». E quando la Corte entrò in funzione, subito si accese una grande battaglia giuridica tra di essa e la Cassazione, tra «progressisti» e «conservatori». Una battaglia proprio sui valori costituzionali. Da un lato, si disse che le norme valoriali erano norme programmatiche che, per entrare in vigore, avevano bisogno di leggi attuative. Dall’altro lato, si disse invece che tutte le norme costituzionali di sostanza valoriale potevano e dovevano trovare immediata attuazione senza bisogno di leggi esecutive. La Corte costituzionale fece prevalere questa seconda tesi.

E, tuttavia, oggi vediamo con più chiarezza, con più serenità le cose. E capiamo, così, che la tesi delle norme programmatiche era infondata per quel presente. Ma coglieva e preservava per il futuro una preziosa proprietà dei valori costituzionali. Questa proprietà è la loro capacità di sviluppo, di progressivo adattamento ai tempi e ai fatti nuovi, insomma alla maturazione di una diversa modernità istituzionale. Ma se questo è vero, allora una severa autocritica si impone.

Oggi ci troviamo a rischiare la secessione dei diritti e la frattura fiscale tra nord e sud del Paese. È irresponsabile minimizzare. Competenze regionali esclusive più federalismo fiscale, significano proprio questo, nella impostazione leghista, finora sempre prevaricante. Vi è poi addirittura, nel progetto, una norma che facilita la frammentazione territoriale di regioni e comuni. Vi è ancora il rifiuto di un’Assemblea di confronto e di composizione tra governo centrale e governi territoriali per continuare l’esperienza partecipativa della Conferenza Stato-regioni. Vi è infine – come regalo per i suoi cinquantanni – l’inquinamento politico della Corte costituzionale.

Ebbene se tutto questo e molto altro ancora accade, è perché per troppi anni ci siamo addormentati sulla Costituzione. Perché non abbiamo sviluppato sino in fondo quel suo programma originario di vita e valori. Perché abbiamo messo la Costituzione sotto il mattone e non abbiamo investito i suoi valori come risorsa permanente di rinnovamento organizzativo della democrazia, nella maturazione dei tempi. Vogliamo qualche breve esempio?

Ecco, quando la Costituzione parla con le parole delle origini, all’art. 3, di «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», quell’aggettivo «effettivo», quel sostantivo «partecipazione» significavano che l’organizzazione concreta dei partiti, del parlamento, dei sindacati non potevano restare immobili per sempre, come furono concepiti nell’800. E che si dovevano cambiare per tempo i rapporti e le procedure tra eletti e rappresentanti, tra iscritti e delegati, da sindacalisti e lavoratori. Ma i regolamenti parlamentari, gli statuti dei partiti, le strutture dei sindacati non si sono mai veramente aperti e aggiornati secondo questo programma fondato sul valore della partecipazione. Lo scossone del 16 ottobre scorso ce l’ha ricordato con la forza sbalorditiva della spontaneità delle elezioni «primarie» per il centrosinistra. Ma le primarie sono solo un aspetto della necessità di partecipazione per ristrutturare le istituzioni della politica.

Ancora. Quando la Costituzione all’art. 5 dice che la Repubblica adegua i «metodi» della sua legislazione alle esigenze delle autonomie territoriali, dice qualcosa di diverso dalla semplice separazione delle competenze. Indica una maniera di fare le leggi che già prefigurava una compartecipazione legislativa. Quella che oggi viene rinnegata con l’idea di legislazione «esclusiva»: una legislazione di separazione tra le regioni, e per le imprese, da regione a regione. Questo mentre la più matura esperienza federalista tedesca tenta, con gli accordi della Grosse Koalition, una via completamente nuova.

Ancora. La Costituzione, all’art. 11, nello stesso contesto del principio pacifista - e non è un caso - consente limiti alla sovranità dello Stato. Era la prima volta al mondo che una Costituzione statale prevedeva questo. Ebbene, quando questo avvenne, significava non solo che l’ordinamento sovranazionale non poteva fermarsi ai confini statali. Significava, positivamente, una Costituzione aperta che si proponeva una compartecipazione con le Costituzioni degli altri europei, con un superamento radicale della stessa idea federalista. Abbiamo fatto tutto quello che si doveva fare in questo senso per costruire una vera cittadinanza europea?

Infine, quando la Costituzione all’art. 2 dice che la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e del cittadino, significa che i diritti fondamentali non possono essere disciplinati con le stesse regole delle comuni situazioni giuridiche. Ma che quei valori devono essere tutelati con un progressivo adeguamento dei procedimenti di garanzie alle nuove mutanti minacce di tirannie.

Si potrebbe continuare. Ma bastano questi quattro esempi per confermare due cose. La prima è che è stato trascurato un programma vasto e intenso di attuazione, manutenzione, adeguamento della Costituzione, che è cosa ben diversa dal concetto di riforme secondo astratte ingegnerie costituzionali. La seconda cosa è che nessuna difesa della Costituzione può esaurirsi nella logica conservativa. E questo perché ogni difesa di valori costituzionali è naturalmente collegata a quel programma originario di sviluppo e progresso e che ora si deve riprendere: per democratizzare la Costituzione, per costituzionalizzare la democrazia.

Hegel una volta dette la più bella definizione del Parlamento che si conosca. È il porticato, scrisse, tra le istituzioni e la società civile. Il porticato, né strada, né palazzo. Ma strada e palazzo insieme. Ecco: il compito del costituzionalismo del nostro tempo è quello di fare di ogni istituzione un porticato, di connettere la democrazia diretta con la democrazia rappresentativa, di democratizzare – con la partecipazione, con la concertazione – ogni procedura di decisione. Forse questo è proprio il nucleo portante del programma per modernizzare veramente l’Italia.

È dunque, in questa fedeltà dinamica al piano delle origini la specifica modernità dei valori costituzionali. Accanto ai banchetti per le firme, in questi giorni si moltiplicano i «comitati Dossetti» per la difesa della Costituzione, per il no al referendum. Ebbene, non dobbiamo mai dimenticare che la sentinella biblica evocata da don Dossetti non aveva nulla di conservatore, vigilava ma guardava all’avvenire. Alla domanda: «Che cosa vedi nella notte profonda?» rispondeva: «Vedo brillare le prime luci dell’alba».

Una volta accertato dalla magistratura che non esiste reato, non si capisce perché infuri su pagine e pagine la campagna sulla temperatura morale e politica dei Ds. Oppure si capisce troppo: la destra tenta lo slogan «siamo tutti ugualmente sporchi», la coalizione di centrosinistra tenta di ridurre il peso interno dei Ds. A costo di perdere fiducia e voti. Mi permetto infatti di non essere d'accordo quasi su niente. A partire dalle intercettazioni, sulle quali non mi persuadono né Parlato, né Pirani, né Rodotà. E non solo perché nessuno, neanche un politico, è tenuto a essere ascoltato 24 ore su 24 senza saperlo ed essere quindi inevitabilmente passato ai giornali, ma perché non è molto decente una giustizia che si mette la cuffia all'orecchio per captare indizi che non ha. Se li ha, usi quelli, e se mai il telefono con relativo avviso di garanzia. Chiamatela omertà, io la chiamo libertà minima.

Non capisco poi l'errore morale e politico. Un leader della sinistra non deve telefonare a nessuno, previo informarsi se non è sotto inchiesta? Non deve interessarsi a nessuna operazione che avviene sulla piazza economica? Nei primi giorni s'è detto addirittura che la politica deve stare alla larga dall'economia. Ma davvero? E la Commissione europea di che si occupa, di storia e filosofia? Ha deciso, e per di più senza consultare le popolazioni cui cambiava lo statuto dei rapporti, di demolire il modello sociale europeo e di imporre, come soli parametri della comunità, la competitività e la concorrenza, perché l'ineguaglianza è motore della crescita. Così sono state decise le regole di Maastricht e il Patto di stabilita (e ci si meraviglia se dalla gente arriva un sonoro No ai trattati). Il governo e il parlamento erogano soldi alle imprese e decidono di fragilizzare il lavoro, spendere meno in scuola, previdenza e sanità, esigendo e imponendo i fondi pensione come cassa per le imprese. La politica è inseparabile dall'economia.

Ma, si dice, questa è economia, quelli sono affari. Quali? Se si tratta di malversazioni, si ricorre al codice penale. Se no, non si dica che non è lecito a un politico o un gruppo politico di fare affari. Io preferirei di no, ma fino ad oggi è sì, si permette a qualsiasi soggetto, purché dichiarato, salvo che ci sia conflitto di interessi, perché alla Lega delle cooperative no? Ma, obiettano Scalfari e Ruffolo, la sinistra non è la stessa cosa. Se sembra occuparsi di finanza, la sua gente entra in allarme e sospetto. Certo non si può dire che Repubblica la rassicuri. Anzi ne accresce i timori che il solo interessarsene la farebbe mancare alla sua fisionomia, perdere l'anima.

Qui ti voglio: alla sinistra è stato chiesto, pena l'accusa di arcaismo e irrealismo, di dismettere la sua idea non dico di rivoluzione ma perfino riformista (la parola ha cambiato segno), di stare a un sistema di rapporti di mercato basato sul profitto, sulla riduzione dei salari, sul trasferimento incontrollato dei capitali, sull'erogazione a pioggia di denaro pubblico alle imprese, sulla tassazione derisoria dei capital gains, sulle privatizzazioni, sulla speculazione edilizia - (salvo che ci si metta gentucola come Ricucci) - e non ha sofferto molto ad adeguarvisi. Sono tutte misure che implicano un passaggio o una redistribuzione di risorse ingenti, che arricchiscono gli uni e penalizzano gli altri, quelli che a rigor di logica sarebbero la sua base? Tutto questo non fa problema né politico né morale, mentre lo fa che Fassino abbia telefonato a Consorte, per sapere quello che, evidentemente, non sapeva?

Non capisco perché chi ha fatto di tutto perché diventassimo «un paese normale», e si facesse normale soprattutto l'ex Pci, cosa di cui D'Alema si è convinto, non ammette che le Coop che del Pci non sono mai state ma gli erano vicine, si comportino da soggetto economico normale, e magari possano farsi una banca. Amato osservava che devono averne i mezzi e non stornarli da altri loro compiti. Giusto. Ma se così fosse, perché non potrebbe esistere una banca di proprietà condivisa, come i loro supermercati, cosa che con l'alternativa al capitalismo non c'entra affatto? Parlato pensa che una finanza «rossa» non debba esistere, e così anche io. Ma lui ed io siamo due vecchi comunisti, mentre i diesse non lo sono affatto, si vogliono clintoniani, e lo scandalizzato Ulivo sostiene ardentemente la proprietà, finanziaria inclusa. Oppure la ex sinistra deve stare nello stesso universo ma non competere? Se no perde l'anima? Gliene è stata chiesta una larghissima parte. L'ha data. Sta al gioco. Fino a prova contraria non bara. A che mira dunque questo starnazzare? A non disturbare qualche manovratore? A favorire la Margherita nella coalizione? A rischio di far rivincere Berlusconi? Bel colpo.

FIRENZE - «Centodue al governo? Probabilmente abbiamo battuto un record europeo. Il segnale è negativo, non c´è dubbio. Ed è giusto criticarlo e spingere per un cambiamento della politica. Ma dobbiamo stare attenti a non indebolire Prodi, che ha bisogno di tutto il nostro sostegno in questa fase». E´ un tono di rimprovero più che di condanna quello usato dallo storico Paul Ginsborg, a suo tempo uno dei promotori più attivi dei "girotondi" anti-Berlusconi, per commentare l´overdose di ministri e sottosegretari. Proprio in questi giorni sta finendo di scrivere nella sua casa dell´Oltrarno fiorentino un volume per Einaudi, La democrazia elusiva.

Un governo ipertrofico si addice a un paese con i conti in rosso?

«Non c´è dubbio che un governo ipertrofico sia un messaggio sbagliato e Prodi stesso nel suo primo mandato aveva cercato di limitare la pesantezza dell´esecutivo. Non ci può essere dubbio sul fatto che questo sia il risultato delle pressioni dei partiti, che hanno preteso una moltiplicazione di posti».

Prodi non poteva sfuggire alle richieste, insomma.

«La mia impressione è che Prodi non volesse questo ma che lo abbia dovuto subire. Poi ha fatto di necessità virtù dicendo che "c´è lavoro per tutti". Ma il numero 102 è un´esagerazione».

E´ un segnale di debolezza del premier aver ceduto alle richieste?

«Prodi è una combinazione di debolezza e di forza. Da una parte non è il leader di un partito, dall´altra è riconosciuto come l´unico possibile leader della coalizione. Ha vinto le elezioni e ha fatto altre cose buone, già nei primi giorni».

Se nascerà il Partito Democratico Prodi ne dovrà essere il leader? Questo darebbe a lui maggiore forza rispetto ad ora?

«Senz´altro. Ma non credo che ambizioni e appetiti spariscano nel corso di una notte o attraverso un cambio di nome».

Esistono governi altrettanto sovraffollati in Europa?

«Francamente non mi sorprenderebbe scoprire che il governo Prodi ha battuto una specie di record. Ma quello che vediamo nel nostro microcosmo fa parte di un trend generale che ha a che fare con la crisi della democrazia rappresentativa. Una parte di questa crisi emerge dal ruolo attuale dei partiti, che hanno molto bisogno di chiedere posti e distribuire incarichi perché non hanno più una forte base dentro la società. Si vedono molto meno gli scopi nobili, una volontà di "servire" il cittadino. La politica sembra diventata una mangiatoia».

Non le viene la tentazione di organizzare un girotondo intorno a Palazzo Chigi? Qualche anno fa lo avrebbe fatto.

«No, nessun girotondo invece. Dobbiamo far notare la negatività di certi segnali e premere per la riforma della politica. Ma Prodi non deve essere indebolito, perché il rischio è che si torni rapidamente al governo Berlusconi e questo sarebbe un disastro per l´Italia. Ho scritto un articolo per il Financial Times - che aveva espresso dubbi sulla tenuta dell´Unione - spiegando che invece Prodi sarebbe stato in grado di prendere iniziative importanti. Non vorrei essere smentito dai fatti. Noi rinunciamo ai girotondi, ma anche loro dovrebbero capire la necessità di un cambiamento e fare la loro parte».

La constatazione di un Italia «spaccata in due» fa parte dell'inconsistenza del dibattito politico; un sistema bipolare fornisce in genere risultati risicati (se ne hanno esempi numerosi), il che sollecita l'accusa di brogli, errori, irregolarità ecc. Qualora fornisse risultati molti distanti (da 60 a 40 per cento, come per esempio in Toscana) si ripeterebbero le accuse di brogli, errori e irregolarità per un «risultato coreano» (l'insulto politico si aggiorna, prima la Bulgaria ora la Corea). Ma lasciamo stare queste vacuità e guardiamo ai risultati.

Il Polo ha perso per pochissimo, un dato di fatto non discutibile. Come mai una sconfitta di misura mentre era annunziato un tracollo? Come mai una divergenza così forte tra il convincimento generale di una vittoria certa e consistente per l'Unione e il misero risultato? Come mai una differenza così marcata tra i risultati amministrativi e quelli politici?

Ciascuno ha da portare qualche punto di riflessione poiché si tratta di questione non priva di implicazioni sulla tenuta del governo e sulla possibilità di portare avanti il programma dell'Unione (e non ci si riferisce agli scarsi margini del Senato, ma al rapporto con la società).

Il risultato è tutto attribuibile alla grande capacità di Berlusconi? Ma Prodi non ha sempre vinto nei confronti? E poi l'errore madornale dei «coglioni per chi vota l'Unione», dove lo mettiamo? Sono gli astenuti che hanno determinato il risultato? Non credo. Tutta colpa di una sbagliata e non coordinata comunicazione dell'Unione agli elettori? Certo la questione delle tasse così maldestramente gestita ha influito. Ma la questione credo sia ancora un'altra.

Il convincimento di una vittoria ampia e secca nasceva da un errore di fondo: la non percezione della mutazione antropologica che ha investito il paese; ci siamo voluti illudere che il berlusconismo fosse argomento di sociologia politica e non radicamento nelle coscienze della gente. Il veleno sociale seminato dal Polo ha inquinato le coscienze di molti e un po' di tutti. Un paese che ragiona con lo stomaco; che si sente colpito quando sente parlare di aumento delle tasse, coinvolto o meno che sia; che ha sentito «giustificata» l'evasione fiscale; premiato chi non rispetta le regole; spinto a negare ogni valenza di convivenza regolata. Un paese corrotto dalla televisione in attesa del colpo di fortuna spacciata per abilità (quale è la principale città del Giappone tra Tokyo, Mosca e Sidney? Mmm... Tokyo. Bene ha vinto 100 mila euro), abbrutito da spettacoli che fanno della volgarità e dell'aggressività lo loro cifra di successo. Un paese clericale e, ovviamente, satanista, ma si crogiola nei peccati e vizi privati e pubblici, tanto un perdono e un condono non si nega a nessuno. Un paese così non può votare a sinistra.

In un paese così il Polo ha fatto il miracolo di perdere e l'Unione quello di vincere. È solo il malgoverno portato all'eccesso della destra, l'impoverimento di fasce consistenti di popolazione, la mancanza di prospettiva dei giovani, l'emergere che la "flessibilità" non era un'opportunità ma una fregatura, cioè il rifiuto di Berlusconi non l'adesione al centro sinistra e una certa e sempre più risicata fedeltà politica, hanno spinto un po' le vele dell'Unione, con pochi meriti dell'equipaggio. E questo senza dimenticare dell'appoggio di cui ha goduto l'Unione da parte dell'intellighenzia (ma chi l'ascolta), dei maggiori giornali (ma chi li legge), di settori consistenti del potere economico (ma quale potere). In una paese immerso in questo brodo di coltura la sinistra (anche se di centro) non avrebbe dovuto vincere, a meno che non si aiutasse la gente a riflettere, a svegliarsi dal sonno della ragione. La gente è avvelenata, frastornata, ma può tornare a ragionare, può tornare con i piedi per terra, può tornare ad aspirare al meglio come costruzione faticosa, può smitizzare speranze infondate. Ma come? Questo è il punto.

È possibile partire dallo scarto tra i risultati delle elezioni amministrative e politiche; si tratta di un indizio importante. Si rifletta che la differenza più rilevante tra la campagna elettorale delle amministrative e quella delle politiche sta tutta nell'uso della tv e nel coinvolgimento delle persone. Gli aspiranti sindaci si sono mossi nel tessuto sociale, hanno dialogato con le persone, hanno cercato di convincere i singoli, i partiti sono stati costretti a curare gli elettori, i singoli elettori, non solo i convinti. Insomma, per le elezioni amministrative, per lo più, si è fatto quello che un tempo si chiamava lavoro politico di base. L'intervento attraverso la tv è stato modesto, per ovvie ragioni. Insomma la campagna per le amministrative è stata radicata tra la gente, partecipata; il confronto ravvicinato è stato lo strumento per svelenire le coscienze, per aiutare a ragionare a guardare la realtà.

Tutto diverso per le elezioni politiche dove la tv è stata non lo strumento principale, ma l'unico strumento. Le riunioni pubbliche, poche, sono state tra i convinti; nessun lavoro politico di base. Con la tv vincono gli ideali, si fa per dire, di Berlusconi. E adesso siamo a fare i conti con una risicata maggioranza, non tanto in parlamento, ma, e la cosa è più preoccupante, tra la gente.

Se si volesse che il «programma del centro sinistra» trovasse un tessuto sociale di accettazione (anche se non unanime) allora bisognerebbe rimboccarsi le maniche e ricominciare a fare lavoro politico di base, il che non esclude l'utilizzo parsimonioso della tv. Solo con un radicamento nel tessuto delle città, tra le diverse categorie sociali, tra i giovani e gli anziani, sarebbe possibile ricostruire un ambito di riflessione comune, non tanto un'omologazione, quanto una disponibilità raziocinante, il rifiuto delle mitologie, la presa di coscienza che l'impegno collettivo è il fondamento di una società sana e la possibilità di affermare l'individualità. Ci arrovella il dubbio che i partiti non siano più in grado di un lavoro politico di base, che non ripeta i riti antichi, ma rinnovi le modalità di un'esperienza fondamentale.

DUNQUE, cos´è successo? Per capirlo, guardiamo prima di tutto alla sostanza delle cose: se si confermeranno i risultati diffusi dal Viminale, Silvio Berlusconi non sarà più Capo del governo, e dovrà scendere le scale di Palazzo Chigi dov´era salito trionfante cinque anni fa. Non andrà nemmeno al Quirinale, dove pensava di trasferirsi per sette lunghi anni in caso di vittoria del Polo, dominando dal Colle tutta la visuale della politica italiana. La stagione del Cavaliere alla guida del Paese sembra dunque finita, mentre comincia la seconda era Prodi, con una prospettiva di governo esile nei numeri, faticosa nell´eterogeneità della coalizione, debole e incerta nella sua cultura politica: e tuttavia pienamente legittima. Perché il centrosinistra – stando ai numeri fino ad oggi ufficiali – alla fine ha vinto, dopo la battaglia elettorale più difficile di tutta la storia repubblicana.

Diciamo subito che se nell´ipotesi notturna di un pareggio (una Camera alla destra, l´altra alla sinistra) si discuteva del diritto della sinistra di provare a governare, nel momento in cui ha conquistato la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento l´Unione ha il dovere di provarci. Un dovere costituzionale, ma anche morale, perché Prodi si è presentato agli elettori chiedendo di mandare a casa Berlusconi e di cambiare governo, per aiutare l´Italia a ripartire voltando pagina. Siamo tutti sotto l´effetto di una doccia scozzese che non ha precedenti: prima il tam tam continuo che nel silenzio elettorale dà un vantaggio molto netto all´Unione, poi i primi exit poll che annunciano una vittoria sicura, quindi la correzione di rotta, le regioni conquistate un anno fa dalla sinistra che se ne vanno a destra, il Cavaliere che recupera, l´annuncio della sua vittoria al Senato per un voto, una vittoria che sembra estendersi anche alla Camera: infine il rovesciamento, prima parziale, poi totale, fino alla festa notturna per la vittoria, già insidiata dall´annuncio berlusconiano del ricorso per la verifica delle schede.

La moderna religione dei sondaggi si è svelata per quel che è, una superstizione a bassa tecnologia che punta a soggiogare la politica, determinandola o sostituendola, mentre compulsa il popolo invece di mobilitare i cittadini.

Squarciato il velo della falsa profezia, emerge la doppia realtà di un Paese spaccato a metà, irriducibile nelle sue divisioni frutto di culture divaricate, interessi legittimi separati e distinti, valori contrapposti e inconciliabili. Non è un risultato da poco per il centrosinistra prevalere nel discorso pubblico di un Paese sordo a turno per metà, dove oggettivamente le parole d´ordine della solidarietà, dell´uguaglianza, dei diritti e della giustizia fanno più fatica a passare, trasversali come sono nella loro natura politica. E invece l´Unione ha infine prevalso, di misura strettissima e tuttavia chiara, come se la saggezza superstite e residua di un Paese stremato vedesse nella sinistra più che nella destra l´unica possibilità di tenere insieme le due Italie.

Perché allora questo sentimento diffuso di vittoria mutilata, con un amaro sapore del successo? A mio parere la risposta è chiara: per la scoperta che anche nella vittoria dell´Ulivo Berlusconi "morde" su metà del Paese. C´è una metà dell´Italia che dopo dodici anni di avventura, dopo cinque di malgoverno, dopo una campagna elettorale esagerata e forsennata (che dovrebbe spaventare i moderati) sceglie ancora Berlusconi, e non importa se il sogno del ´94 è oggi bucato. Vuole Berlusconi non più per ciò che promette, ma per ciò che è, ormai apertamente svelato. Sceglie la sua natura nel momento in cui più diventa radicale, la sua proposta quando coincide con la sua figura e poco più, la sua politica quando è rivoluzionaria e tecnicamente sovversiva ad ogni regola, la sua figura come paradigma ingigantito e obbligatorio di una moderna destra.

È senz´altro possibile, anzi sicuro, che una parte di questi elettori voti Berlusconi per i suoi interessi, seguendo l´invito del Cavaliere a badare al portafoglio. Ma un´altra parte, con ogni evidenza, vota Berlusconi "contro" i suoi interessi, visti i cattivi risultati del suo governo, l´incapacità di fare le riforme, la crescita zero. E infine – ed è ciò che più conta – c´è un pezzo d´Italia che vota Berlusconi comunque e a dispetto di chiunque, per vero e proprio ideologismo. Berlusconi come ultima ideologia, anzi, come ideologia che cammina. Solo così si spiega il recupero impetuoso del Cavaliere: nella sua capacità di trasformare la sua base sociale fatta di piccola borghesia antiliberale, di proprietà minuta, larga e diffusa, di intellettualità radicale e "rivoluzionaria" non solo in un blocco sociale, ma in una specie di vera e propria nuova "classe", pronta a muoversi omogeneamente in politica. Se quella classe oltre al portafoglio ha un´anima, come ha, Berlusconi ne è oggi il signore incontrastato. E non solo. Paradossalmente, nel momento in cui finisce di essere premier, Berlusconi comincia ad essere una politica.

L´adesione ideologica al berlusconismo, il dirsi e il diventare di destra attraverso Berlusconi, consente al Cavaliere l´uso politico più libero e spregiudicato della sua base di manovra. Così ieri con una mano ha delegittimato e post-datato la vittoria della sinistra, alludendo a piccoli brogli, pasticci nei seggi da verificare, con una manovra d´interdizione. E con l´altra mano ha lanciato a sorpresa la proposta di una grande coalizione capace di governare la divisione italiana, anche con la sua personale fuoruscita dall´orizzonte del governo. Per l´alterità dei due schieramenti nella scena italiana, e per i toni dell´ultima campagna, è una sorta di compromesso storico berlusconiano, inedito, suggestivo nell´impianto europeo, ma poco credibile nel tradimento definitivo di ogni spirito maggioritario, ma soprattutto del vero spirito del Cavaliere. La destra ha vinto nel 2001 e ha governato. Se la sinistra ha vinto, è giusto che governi, o almeno che ci provi. Così dicono le regole, che hanno però anche un corollario: se Berlusconi ha perso, è giusto che vada all´opposizione, dismetta il ruolo di deus ex machina, passi la mano. Ieri, la sua proposta sembrava il tentativo ansioso e troppo precipitoso di tenere comunque in mano il mazzo delle carte e fare il gioco, almeno dentro la destra: dove già si smarca la Lega.

Per governare davvero, e non provarci soltanto, che cosa serve alla sinistra italiana? Verrebbe da rispondere: ciò che non ha (e dunque ciò che gli elettori non hanno potuto trovare nei seggi): un´identità chiara e risolta, quindi una coscienza di sé. La controprova è nel buon risultato dei partiti con una ragione sociale netta, come Rifondazione, ma anche come i Verdi e i Comunisti italiani, persino Di Pietro. I guai cominciano con la Margherita, che non vede l´onda lunga, e soprattutto con i Ds, rimpiccioliti nelle ambizioni al 17,5 per cento, dopo essere stati l´asse centrale della coalizione per cinque anni. Verrebbe da dire: se per troppo tempo non sai chi sei, prima o poi gli elettori se ne accorgono. Dove si va con quel 17, dove si va col 10,7 della Margherita? Da nessuna parte, com´è evidente.

Se prima il partito democratico era un´opportunità per Rutelli e Fassino, oggi è una necessità. Guai però se lo concepiscono come un assemblaggio di apparati, un piccolo meccano di classe dirigenti e un dòmino organizzativo. Deve avere e trasmettere un´impronta di modernità europea, di apertura e di inclusione (a partire dai socialisti, dai radicali, dalla società), di identità nuova, di necessità riformista, di cultura di governo, forte e radicale. Deve essere l´occasione per rinnovare le classi dirigenti, a partire dal vertice, senza paure e senza riserve. Insomma, deve essere una cosa nuova, da fare subito, credendoci, senza furbizie. Solo così, cambiando la natura della sinistra, può cambiare il suo destino. E solo così può funzionare da perno e baricentro per il governo Prodi in questa stagione complicata.

Tutto ciò dà a Prodi un compito in più, un compito doppio. Deve provare a governare, in una situazione difficilissima, non solo per i numeri, ma per l´eterogeneità di una coalizione da trasformare in forza di governo, e per la debolezza di una cultura riformista ancora incapace di dispiegarsi. Ma nello stesso tempo, deve essere alla testa di questo processo di fondazione di un nuovo Ulivo, che si chiamerà partito democratico. Il Professore sa che la sua è una vittoria debole, fragile. Se parte per galleggiare, va a fondo. Ha bisogno di strappare, di pensare in grande. Cominci dal suo governo, indicando subito i ministri, fuori dai giochi e dai condizionamenti, sentendo i partiti, ma senza farsi ingabbiare. La sua debolezza è la sua forza: la usi, come se il partito democratico ci fosse già.

La vera risposta alla mossa berlusconiana della grande coalizione sta nella capacità di Prodi di parlare al Paese, a tutto il Paese. Ci provi, cominciando da quel Nord che per la prima volta nella storia italiana si contrappone politicamente al Centro, diventando il nuovo scrigno ideologico del Cavaliere, le regioni berlusconiane contro le regioni rosse, con la destra che acquista un territorio, espropriando la Lega. L´altra risposta a Berlusconi, sta nella capacità del centrosinistra di indicare una soluzione limpida ma condivisibile per il Quirinale. Oggi il nome possibile è uno solo, quello di Carlo Azeglio Ciampi, che vuole lasciare il Colle ma che rappresenta un punto d´incontro forte e sicuro. Da qui bisogna partire.

Come si vede, e per fortuna, dopo il voto la parola torna alla politica. La sinistra mostri di averne una, dopo l´antiberlusconismo. La politica è l´unico modo per far vivere un governo Prodi, se nascerà dopo la vittoria. Ed è anche l´unico modo per battere davvero Berlusconi, dopo averlo disarcionato.

Alcuni giorni fa Andrea Camilleri e Giovanni Sartori hanno presentato il libro-testamento di Paolo Sylos Labini «Ahi serva Italia, appello ai miei concittadini».

C’era una grande folla nelle stanze della Casa Editrice Laterza di Roma. Tutta quella gente non era venuta soltanto per l’immensa stima e l’immenso affetto che Sylos Labini si era meritato nella sua vita di maestro.

Camilleri, Sartori e tutti gli altri sono venuti per dire che ci impegniamo anche in condizioni di totale controllo mediatico e di esclusive notizie di regime a fare in modo che tutti sappiano di quell’appello.

È l’impegno di tanti che non hanno mai rotto il patto.

Il patto era di dire e di ripetere e di far sapere in Italia ciò che di noi dice il mondo: l’Italia è umiliata e soffocata da un gigantesco conflitto di interessi che non si ferma o non si modera con l’espediente di parlarne con gentilezza. Oggi quel conflitto è molto più grande del primo giorno del triste governo Berlusconi. Diventa ogni giorno più incompatibile con la democrazia. Può essere rimosso, salvando il Paese, solo col voto. Sylos Labini è stato voce alta, limpida, autorevole di questo giornale, una voce che non si è mai placata perché non c’era ragione di placarsi. Nella presentazione del suo libro-appello, Camilleri e Sartori (certo difficilmente definibili “radicali” e “girotondini”) hanno voluto unire le proprie voci a quella di Sylos Labini per dire ai disorientati e agli incerti secondo l’ammonizione di Umberto Eco: «Non siete matti, voi che parlate di dittatura mediatica. Siete i cittadini che non si rassegnano a consegnare i propri diritti democratici al governo della famiglia Berlusconi e dei suoi scrupolosi dipendenti. Ora diremo basta col voto».

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Si chiama “endorsement” negli Stati Uniti la dichiarazione con cui alcuni grandi giornali prendono posizione sui partiti contrapposti e sui loro leader prima di ogni elezione politica. Poiché, in quel Paese gli elettori hanno il privilegio democratico di scegliere una per una le persone da eleggere alla Camera o al Senato, i quotidiani come il New York Times, fanno seguire alla dichiarazione di voto per lo schieramento (Repubblicani, Democratici, Kerry o Bush) una serie di editoriali brevi dedicati ai singoli candidati, con le ragioni specifiche di sostegno o di rigetto.

L’«Editorial Board» di quei giornali (che è composto dall’editore, dal direttore e dai capi dei vari settori del giornale) ama sentirsi libero e vuole dimostrarlo. Perciò non è raro che l’indicazione di voto per singoli candidati incroci le linee dei due schieramenti. Questo impegno è allo stesso tempo politico e pedagogico.

Ciò che viene ritenuto improprio e pericoloso in una democrazia è il silenzio, è la finzione di equidistanza, che il più delle volte copre l’imbroglio. L’oscura e cieca legge elettorale che è stata gettata sull’Italia, ultimo contributo di Berlusconi al peggioramento della nostra vita, impedisce di seguire questo percorso di civiltà.

Ma per questa ragione, il dramma del peggioramento progressivo in cui sta cadendo l’Italia, in ogni campo e settore della sua vita, della sua attività, e a causa della paurosa crisi di credibilità, perduta dal Paese verso il resto del mondo, e dalle istituzioni nei confronti dei cittadini, si deve apprezzare l’iniziativa del Corriere della Sera. Mercoledì 8 marzo, con un editoriale del suo direttore Paolo Mieli, quel giornale ha indicato la scelta di voto, ovvero lo “endorsement”, come avviene nella vita democratica di altri Paesi. Il direttore del Corriere della Sera ha spiegato con chiarezza perché è bene votare per l’Unione e per Prodi.

Mi domando se apparirà credibile ciò che sto per scrivere: quel gesto mi sarebbe sembrato altrettanto importante e civile anche nel caso che lo “endorsement” fosse andato in senso contrario, a favore di Berlusconi. Avrei detto con vigore il mio dissenso. Ma avrei ugualmente considerato essenziale al costume e al confronto democratico la aperta dichiarazione di voto. Il nostro Paese, infatti, come ci dimostra ogni sera la televisione di Stato, è pervaso dalla malattia del giornalista o conduttore che si considera, in modo fatuo e impossibile, “al di sopra delle parti”, come se, nel mestiere di informare, un simile atteggiamento fosse desiderabile, umano e possibile.

Il danno recato dall’impasto di finta estraneità - qualcosa di profondamente diverso dal giornalismo libero nel mondo (basti ricordare gli editoriali del New York Times sul governare di George W. Bush) - lo abbiamo constatato per anni nei silenzi, nelle notizie mancanti, nelle citazioni senza commento di frasi false o insultanti o assurde dette dal presidente del Consiglio o da alcuni suoi Ministri, o per l’immensa tolleranza che ha quasi sempre coperto il comportamento osceno di esponenti della Lega Nord.

L’importanza dell’editoriale di Paolo Mieli rompe il gioco del professionismo equidistante, molto adatto a coprire la complicità, in un momento particolarmente grave della vita italiana.

Questo gioco, ripeto, sarebbe stato rotto anche da una dichiarazione di segno opposto. Felice come sono che il Corriere della Sera indichi Prodi e il Centrosinistra come degni di essere votati, mi sento di dire che l’avere scelto e proclamato il valore democratico di quella scelta, è il vero senso dell’evento.

Questo spiega la povertà imbarazzante delle dichiarazioni con cui ha reagito la Casa delle libertà. E se Mantovano, Fini e Calderoli si comportano come maschere fisse di una malandata commedia dell’arte, fanno effetto le seguenti battute di Pier Ferdinando Casini, che sta dimenticando troppo in fretta la sua dignità di Presidente della Camera.

Ha detto Casini con una memorabile sbandata: «Nel referendum sulla fecondazione il Corriere della Sera scese in campo invitando gli italiani ad andare a votare. Gli italiani però non andarono a votare. Spero che non lo facciano neanche questa volta». Curiosa svista. L’abile uomo politico a cui si attribuiscono effervescenti disegni centristi nel caso che fosse necessario mettere insieme una “grande coalizione”, non si accorge di invocare e celebrare il peggior pericolo per la sua parte.

Casini ostenta, inoltre, una disinformazione sorprendente per uno che è alla testa della associazione dei parlamentari democristiani del mondo. Dice che «è inconsueto per un giornale indipendente prendere posizione prima delle elezioni». Tutti sanno che farlo è normale e tipico in tanti Paesi democratici e negli Usa è considerato doveroso. Ma a Casini non manca neppure il cattivo gusto: «invece delle leggi ad personam, che ad personam non sono, adesso siamo arrivati alla campagna elettorale ad personam».

E nella stessa frase nega ciò che ha fatto come presidente di una Camera che quelle leggi le ha votate a una a una con la procedura oscura del voto di fiducia. E definisce “ad personam” una pubblica e democratica dichiarazione di voto.

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Come in una pista d’atterraggio nella giungla, si vedono, nell’editoriale di Mieli, alcune luci che indicano il passaggio. Una è quando il direttore del Corriere della Sera dice che «il governo ha dato l’impressione di essersi dedicato più alla soluzione delle proprie controversie interne e di avere badato più alle sorti personali del presidente del Consiglio che non a quelle del Paese». L’altra è un accenno, rapido ma chiarissimo. Definisce ciò che è accaduto nel mondo finanziario italiano la scorsa estate «la battaglia sulle scalate bancarie ed editoriali».

Il direttore del Corriere ha notato il pericolo, e ha dato all’opinione pubblica italiana il segnale d’allarme. Se il conflitto di interessi resta incastrato nella nostra vita collettiva, non può che crescere e travolgere tutti, in una sorta di guerra contro tutti, non solo contro la sinistra.

È accaduto questo: le parole di Mieli ricordano ciò che aveva scritto Eugenio Scalfari nel suo editoriale del 26 febbraio, dopo che Berlusconi si era prodotto nel suo elogio di Fiorani: «Finalmente viene fuori con tutta evidenza chi era l’amico di Fiorani, anche nella scalata dei furbetti” al Corriere della Sera. Il tempo è galantuomo. Paolo Mieli era ancora incerto sugli dei protettori di quella scalata. Adesso ne ha finalmente l’indicazione davanti agli occhi».

Il povero ministro Giovanardi crede di essere draconiano con la sua condanna: «Finalmente il Corriere si è ufficialmente affiancato all’ Unità». È una affermazione che ci rende fieri in questo giornale. A noi è sembrato molto presto di scorgere nel conflitto di interessi e di legalità un pericolo per l’integrità della Repubblica, della sua vita, dei suoi costumi, della sua libertà. L’appello del Corriere della Sera è contro un profondo processo di corruzione, divisione e guerra permanente che continua e dilaga. Chiede agli italiani che venga risparmiato al Paese un periodo di spaventosa stagnazione. La causa è nella descrizione del lavoro di governo fatta da Mieli: lavora per sé soltanto per sé. Lavora per proteggere interessi personali. Ma nel giro degli interessi personali c’è una ragnatela di legami che richiede l’agevolazione di altri interessi personali. Casi come Parmalat e Fiorani diventano - anche di fronte al mondo , il cui interesse a investire in Italia crolla - patologia cronica e inevitabile. L’inquinamento fermenta sotto la calotta del conflitto di interessi, l’abolizione del falso in bilancio, le leggi che esimono dal rispondere in tribunale. Ma ciò che ha provocato il segnale d’allarme alla borghesia italiana, lanciato dal Corriere della Sera va collegato al segnale d’allarme lanciato dalla Confindustria.

***

Il problema appare, con evidenza, molto più grave di una pur tumultuosa campagna elettorale.

È vero, Berlusconi sta conducendo questa campagna con un tipo di violenza che tende a suscitare lo scontro. Ma è pur sempre una campagna elettorale, e la paura di perdere può giocare brutti scherzi.

Più grave è ciò che si è appreso giorno per giorno dal modo di governare di Berlusconi. I cinque anni che abbiamo vissuto sono stati cinque anni di estenuante campagna elettorale, comprese le bandiere, le accuse, le mitragliate di cifre false e di dati deliberatamente formati per dare annunci, un impegno ininterrotto ad attaccare secondo un veemente modello di opposizione. Ma qui, la veemenza, l’attacco, le continue imputazioni agli avversari, il tentativo di mettere gli avversari a tacere, vengono dal governo e puntano febbrilmente contro ogni dissenso e ogni tentativo di opposizione. La colonizzazione della Rai, il livellamento della Rai con Mediaset, il lavoro forzato delle Camere per approvare subito e con il voto di fiducia le leggi speciali per persone e interessi speciali, non hanno mai placato l’opposizione continua di questo governo e della sua maggioranza, che ha creato e mantenuto una profonda spaccatura nel Paese.

Opposizione a chi, visto che Berlusconi e i suoi sono (erano) al governo? Non resta che una risposta, che sembrerà un po’ retorica, ma viene dalla constatazione dei fatti. È opposizione all’Italia. Viene freneticamente e ripetutamente descritta un’Italia tutta comunista, una spirale di manovre malevole scatenate dalle cooperative rosse, dai sindacati rossi, dalle giunte rosse, dai magistrati rossi, dai giornalisti rossi, dalle televisioni rosse, dal cinema rosso, dalle professioni succubi del comunismo. E dalla Confindustria.

Il messaggio continuo è che si deve avere paura della sinistra. Nel penoso “Porta a Porta” dell’8 marzo, Berlusconi, per tutta una sera, durante ore di monologo, ha detto al “dottor Vespa” che il “signor Prodi” si prepara a fare il prestanome di un governo che imporrà il modello comunista in tutti gli aspetti, stadi e settori della vita.

L’Italia ha raggiunto quota zero di sviluppo, unica democrazia occidentale al mondo, dopo avere attraversato cinque anni di continua campagna elettorale, senza alcuna attività legislativa che possa essere ricordata. Solo distruzione delle procedure democratiche, delle regole comuni, della Costituzione. L’Italia ha raggiunto l’impoverimento delle famiglie, la perdita di posti di lavoro, la caduta del commercio con l’estero, l’aumento drammatico dell’abbandono della scuola dell’obbligo, lo svilimento dell’immagine italiana e della sua credibilità sia politica che imprenditoriale. Ma Berlusconi sta ancora accusando il complotto della sinistra.

La campagna elettorale che dura per anni distrugge il tessuto sociale, i rapporti fra gruppi, le possibilità di cooperazione su cui si basa la vita democratica. Impedisce di lavorare, di comprare, di vendere, di investire. Ogni problema - e tutti si rendono conto della complessità dei problemi con cui ogni governo e ogni Paese si devono confrontare - diventa uno spot pubblicitario e un podio per lanciare l’accusa contro qualunque dissenso, per sviare o eliminare ogni punto di vista diverso, offrendo solo autoesaltazione e connivenze private. La sindrome di corruzione italiana diventa internazionale, come sembra dimostrare il nuovo processo di Milano appena aperto contro Silvio Berlusconi e il suo avvocato inglese Mills.

C’è in tutto questo l’evidente e serio problema caratteriale di una persona. Ma è anche tragedia, se quella persona è in grado di sovrapporre una immensa ricchezza agli interessi di tutto il Paese. Aggrava il quadro la volontà di gettare lo Stato e il paese contro la Magistratura. Il conflitto di potere si somma al conflitto di interessi, l’impegno dichiarato è di abolire uno dei tre poteri della democrazia.

A questo gioco il Corriere della Sera e la Confindustria hanno dichiarato di non volersi prestare. Nella lunga scenata di Berlusconi non c’è lavoro, non c’è futuro, non c’è garanzia in alcun campo, in alcun senso, per nessuno.

Dopo ore di monologo a Porta a porta, nel cuore della notte, Berlusconi ha detto ai suoi interlocutori stremati: «Ah se potessi andare a dire queste cose in televisione». Che si confronti una buona volta con Prodi secondo regole di normale civiltà democratica. E poi voltiamo pagina.

furiocolombo@unita.it

Nel gioco delle parti era il turno dell’estrema destra danese, e gli Sms che quella aveva messo in circolazione promettevano uno spettacolo ghiotto alla troupe di Al Jazeera: in tarda mattinata, davanti al Municipio, alcuni giovani ariani avrebbero bruciato un paio di Corani. Poche ore dopo, nei telegiornali arabi, quei venti idioti avrebbero personificato 350 milioni di europei, così come i pochi forsennati che da giorni incendiano bandiere danesi da Gaza a Giacarta giganteggiano nel nostro immaginario, come fossero i 1300 milioni di musulmani.

E’ il Noi contro Loro, la menzogna che s’autoavvera, il losco equivoco, insomma l’imbroglio chiamato "scontro tra civiltà". Però alle due gli ariani non s’erano palesati e i quattrocento giovani musulmani convenuti per salvare il Libro si chiedevano se seguire Al Jazeera a Hillerod, venti chilometri da Copenaghen, dove altri Sms garantivano un secondo raduno incendiario. Le tv ci speravano, la giornata aveva offerto poco: un incontro in Parlamento di quei musulmani laici che detestano tanto la destra ariana quanto «gli auto-proclamati poliziotti di Allah», gli imam; e una dimostrazione mista, danesi e immigrati musulmani, tra i pattinatori della piazza Blagards. Ma questa roba non interessa, non si vende, non fa paura, non sta dentro lo schema Noi contro Loro. E poi gli imbelli di piazza Blagards arrivavano a sostenere che i media europei hanno frainteso: la grande maggioranza dei musulmani danesi non solo non avrebbe proprio nulla contro le nostre democrazie liberali, ma al contrario, vorrebbe che ne siano applicati i principi. Che i Nostri Valori non siano poi così nostri?

Allora proviamo a riscrivere da capo questa storia che nessuno riesce più a circoscrivere, non Kofi Annan, non i premier europei, tantomeno la piccola Danimarca, la cui placidità borghese ormai nasconde a fatica lo spavento per la sfida lanciata dalle caste religiose islamiche con manifestazioni sempre più aggressive, con boicottaggi commerciali sempre più estesi. L’inizio: il 30 settembre 2005 un giornale della destra danese, il Jillands Posten, secondo nel Paese per diffusione, pubblica 12 vignette su Maometto. Alcune blande, altre insulse, due sprezzanti. Una in particolare lo mostra col turbante disegnato in forma di bomba. Molti di questi cartoon sono stati ripubblicati in questi giorni da quotidiani europei, per riaffermare un principio sacrosanto, questo: in Occidente la libertà d’opinione non può essere sottomessa a divieti religiosi.

Ma qui c’è un equivoco: alla grande maggioranza dei musulmani danesi, e forse dei musulmani nel mondo, importa un accidenti se la penna d’un disegnatore dà un volto a Maometto. Raffigurarlo come un terrorista è un’altra cosa. Beninteso, che esista un unico islam e che la sua natura sia terroristica è un’opinione particolarmente stupida, però del tutto legittima. Con lo stessa logica potremmo sostenere che la vocazione del cristianesimo è il genocidio, dato che passi della Bibbia incitano apertamente alla strage e alcune Chiese slave furono in buoni rapporti con il nazismo. Sarebbe anche questa un’idiozia: però altrettanto legittima. Se però un giornale italiano pubblicasse una vignetta in cui Gesù è raffigurato con un ghigno mentre spinge un bambino dentro un forno crematorio, forse non la guarderemmo con la stessa flemma con cui osserviamo il Maometto con la bomba.

Ma perfino quel Maometto sarebbe stato condonato se non fossimo in Danimarca. Qui un emigrato musulmano legge immediatamente la vignetta del Jillands Posten come l’esatta trasposizione della frase «Fin dal suo inizio l’islam è stato un movimento terrorista», apparsa nel sito web di Martin Henriksen, portavoce di quel Partito del Popolo (DF) che ha costruito le proprie fortune sull’aggressività verso l’islam. Nelle ultime elezioni il DF è balzato al 13 per cento, i sondaggi lo danno in crescita, e il suo appoggio esterno è così indispensabile alla destra di governo che questa nicchia quando un deputato del DF definisce musulmani «un cancro» in un discorso in Parlamento.

In seguito alle proteste Henriksen ha sostituito «movimento terrorista» con «ideologia di conquista». Ma la sostanza non cambia. Per partiti che rappresentano un quinto dell’elettorato danese, gli immigrati da Paesi musulmani sono un pericolo, una minaccia: «L’immigrazione è il modo con cui i Musulmani cercano di conquistare l’Europa», ripete Soren Krarup, leader del DF. Corollario implicito: diamoci da fare per sottomettere il nemico, oppure per scacciarlo (magari mediante un’applicazione sbrigativa della nuova legge sull’immigrazione). Questo c’era nella vignetta. E pubblicarla è stata - secondo Bjorn Moller, ricercatore dell’Istituto di studi internazionali - «un’azione deliberata per provocare i musulmani restando dentro i confini della legge». Però il Posten s’è appellato ad un ideale alto, non farsi intimidire dall’islamismo radicale.

Secondo il giornale, non bisogna cedere al clima di paura costruito dall’assassinio di Theo Van Gogh. E certo anche questo è parte del problema. Ma se vogliamo trovare martiri del libero pensiero, in quel ruolo migliaia di musulmani funzionano assai meglio del regista olandese. Prima di scoprire che era più conveniente prendersela con Maometto, Van Gogh aveva scritto di Gesù come «il pesce marcio di Nazareth»; d’una storica ebrea, che faceva sogni erotici sul dottore Mengele, il medico di Auschwitz noto per i suoi mostruosi esperimenti; e d’un odore dolciastro nell’aria, che probabilmente stavano bruciando ebrei diabetici.

L’espressione artistica non può essere compressa dentro i limiti del buon gusto o del politically correct: però se la vostra famiglia fosse stata sterminata in un lager forse trovereste intollerabile che un cialtrone vi rida in faccia. A molti immigrati musulmani risultò intollerabile che l’islam fosse equiparato ad una setta d’assassini. Ad altri sembrò solo molto sgradevole: per esempio al medico d’origine irachena Mohammad Hashimy. Lo incontro in Parlamento, è tra i duecento musulmani convenuti per dare visibilità, mi dice, «a quanti di noi, e siamo la maggioranza, ritiene il diritto d’opinione un fondamento della democrazia». Eppure anche Hashimy e i musulmani come lui, molto più liberali di tanti danesi, oggi si sentono a disagio. Da quando governa la destra, dice il medico, «ogni musulmano è considerato un estremista finché non prova il contrario».

Le vignette provocarono le reazioni più disparate tra gli immigrati musulmani. Rassegnazione, scontento, perfino indifferenza. E ira. «Però non sono state l’origine della nostra reazione: semmai il detonatore», mi dice una danese d’origine pakistana, Lubna Ehai, per 16 anni consigliere comunale a Copenaghen. Alcuni religiosi islamici, imam autoproclamati e in genere non radicali, chiesero al Jillands Posten le scuse: non ottenendole si rivolsero alla magistratura; infine bussarono alle ambasciate arabe. A fine ottobre una decina d’ambasciatori di Paesi sunniti sollecita un incontro con il primo ministro Rasmussen per lamentare «la campagna denigratoria» nei media contro i musulmani. Il premier rifiuta: in una democrazia liberale, fa sapere, la stampa è libera. Gli ambasciatori si irritano ma sembrano disponibili a dimenticare. Nel frattempo gli imam compiono il passo che risulterà decisivo: delusi dalla diplomazia, volano al Cairo e a Beirut. Incontrano teologi e leader fondamentalisti, incluso il capo di Hezbollah. E trovano sostegno. Le prime manifestazioni, il boicottaggio delle merci danesi in Arabia saudita: l’inizio della valanga. A quel punto anche i regimi arabi escono dall’indifferenza. Sono troppo deboli per opporsi ai mullah. E capiscono d’avere un buon pretesto per sottrarsi alle pressioni, interne e internazionali, che vorrebbero spingerli a riforme vere. Ora possono dire: ecco dove conduce la democrazia, quest’invenzione d’una civiltà che ci odia.

Autocrazie sunnite e opposizioni fondamentaliste siglano così l’alleanza anti-danese, cui si unisce presto Teheran. Ai contraenti probabilmente risulta gradita la scelta di ripubblicare le vignette del Jillands Posten compiuta da alcuni quotidiani europei, e ancor più lo schema di riferimento, i Nostri Valori contro i Loro, la libertà d’opinione contro la sottomissione ai precetti della fede. Invece s’infuria la stampa araba d’indirizzo liberale, giornalisti che rischiano non poco sfidando i mullah con prose audaci (scriveva l’anno scorso il saudita Al Watan: quell’Occidente che vogliamo immaginarci come decadente «ha valori più islamici e morali che tutti i paesi musulmani»). Le redazioni si sentono tradite. Non faticano a immaginare quel che accadrà: regimi e mullah profitteranno del risentimento verso l’Europa per aumentare la pressione sul dissenso.

Ai regimi arabi non conviene affatto chiudere un contrasto così proficuo. Così non s’accontentano delle mezze scuse del Jillands Posten, tardive ma reiterate. E neppure della correzione di rotta del premier Rasmussen, che incontra gli ambasciatori e si spiega con la tv saudita Al Arabiya. Anche a molta destra europea è utile questa commedia dello "scontro tra civiltà": potrebbe rendere ai più furbi quanto finora ha reso alla destra danese.

Però c’è anche un’Europa in controtendenza, finalmente consapevole che nel continente si diffonde una pericolosa "islamofobia". Parola fino a ieri bandita dal lessico politico, adesso appare nel rapporto 2005 della Helsinki Federation for Human Rights. E a Bruxelles Franco Frattini, certo non un bolscevico, parla d’una «crescente islamofobia». La stampa europea in questi giorni percorsa da pulsioni eroiche potrebbe dare una prova inusuale di coraggio misurandosi con questo tema. Se per una volta raccontasse quel che accade a Loro come se accadesse a un Noi, non mancherebbero le sorprese.

Le vicende bancarie che hanno investito in questi mesi la vita politica ed economica del Paese hanno suscitato sconcerto e preoccupazione nell’opinione pubblica.

In particolare nell’elettorato di centrosinistra il profilo e i contorni assunti dalla vicenda Unipol/Bnl hanno suscitato profondo turbamento.

Partire da questi sentimenti, raccogliere le critiche, individuare con onestà e umiltà errori o contraddizioni è non solo doveroso, ma è anche il modo più giusto per respingere la vergognosa aggressione con cui si tenta la delegittimazione morale e politica dei Democratici di Sinistra e dei suoi dirigenti.

La sovraesposizione dei DS sulla vicenda Unipol/Bnl – su cui non ci sottraiamo ad una riflessione critica – non può giustificare in alcun modo la violenta aggressione contro il nostro partito.

La destra – reiterando la campagna scandalistica di Telekom Serbia – vuole minare la credibilità della principale forza politica dell’Unione per colpire l’intero centrosinistra.

Berlusconi e la sua maggioranza tentano così, con un ultimo disperato assalto, di occultare il fallimento di cinque anni di governo e di evitare una possibile sconfitta elettorale.

E, al tempo stesso, tentano di occultare l’evidente coinvolgimento di significativi esponenti del governo e della maggioranza nelle trame illecite di Fiorani.

Proprio per questo respingiamo nel modo più fermo ogni illazione calunniosa e denigratoria. Non esiste alcuna questione morale che riguardi i DS.

I DS sono un partito sano, di gente per bene, che ispira la propria azione politica a quei principi etici e a quei valori morali che sono tratto irrinunciabile della nostra identità di partito di sinistra. E della nostra concezione del riformismo.

I rapporti tra i DS e il movimento cooperativo sono stati e sono di natura esclusivamente politica e imperniati a principi di autonomia e di trasparenza.

E tali devono continuare a essere.

Il movimento cooperativo è parte essenziale dell’economia italiana: 1 milione di lavoratori di migliaia di imprese che spesso assolvono a ruoli di punta nei loro settori di attività.

Non è una convenienza di parte, ma un interesse del Paese che ci ha sollecitato a batterci perchè all’impresa cooperativa siano assicurate le stesse opportunità e gli stessi diritti riconosciuti a qualsiasi impresa.

E naturalmente a stessi diritti devono corrispondere da parte del movimento cooperativo stessi doveri e stesse responsabilità.

Sono queste le ragioni per cui i DS hanno affermato la legittimità della scelta di Unipol di acquisire Bnl per dare vita ad un polo bancario-assicurativo, ribadendo ogni volta che tale scelta doveva essere gestita nel pieno e continuo rispetto delle leggi e delle regole di mercato.

L’evolvere della vicenda, invece, ha via via assunto contorni molto diversi.

Non conforme ai principi di imparzialità e trasparenza è stato il ruolo di Bankitalia, che troppo spesso è parsa mossa da logiche protezionistiche. Sottovalutate sono state le decisioni e le contrarietà espresse da più parti sulla strategia e sulle modalità dell’acquisizione di Bnl da parte di Unipol. Eccessivo è via via divenuto il ruolo di soggetti radicati prevalentemente nella rendita. Si sono determinati intrecci tra diverse scalate che hanno ulteriormente accresciuto ostilità e diffidenze e su cui era necessario un più tempestivo giudizio politico.

Le indagini della magistratura hanno poi fatto emergere atti e comportamenti che, al di là del profilo giudiziario che solo alla magistratura spetta valutare, sono inaccettabili sul piano politico e etico perchè violano fondamentali norme di trasparenza e correttezza a cui deve ispirarsi chiunque abbia responsabilità.

Comportamenti inaccettabili in ogni caso per la sinistra, i suoi valori e i suoi principi etici.

Per noi la politica deve sempre ispirarsi ai valori dell’etica.

Così come irrinunciabili principi etici devono vivere anche nel mercato e nell’economia.

E quando essi sono negati e violati è nostro dovere essere severi e prendere le distanze in modo assoluto.

Le vicende bancarie di questi mesi sollevano altri nodi culturali e politici, evocati anche da Romano Prodi, su cui è dovere di tutti – istituzioni, partiti, imprese – riflettere e agire.

Emerge, in primo luogo, la necessità di una riflessione sull’identità del movimento cooperativo e su quali caratteri debba assumere il rapporto tra i valori di solidarismo per cui nasce e vive un’impresa cooperativa e le regole del mercato a cui anche un soggetto cooperativo non può sottrarsi. Così come appare necessaria una più visibile e forte valorizzazione delle finalità mutualistiche e di tutte le forme di impresa sociale, di terzo settore e no-profit.

Tutto ciò sollecita a un profondo aggiornamento del quadro legislativo e normativo che presiede alle attività della cooperazione in ragione da corrispondere in modo più adeguato ad un sistema di imprese sociali e cooperative che per finalità, dimensioni, strutture appare oggi molto più complesso e diversificato di un tempo.

Di non minore importanza è affrontare il cruciale tema della governance di impresa.

Il prevalere – nell’assetto proprietario e gestionale di molte grandi imprese private – dei patti di sindacato e del controllo tramite “relazioni” tra ristretti gruppi di protagonisti del sistema finanziario, è una delle fondamentali cause del carattere asfittico, poco dinamico e poco competitivo del capitalismo italiano.

L’apertura alla concorrenza e al protagonismo di nuovi soggetti – la cooperazione, i fondi pensione, il sistema delle medie imprese, il sistema del risparmio gestito e dei fondi di investimento da separare e distinguere dalle banche – costituisce un primario interesse nazionale. E’ indispensabile un compiuto progetto di apertura e modernizzazione del sistema e un impegno – in sede nazionale e comunitaria – nella definizione delle sue nuove regole di funzionamento.

Proprio le vicende bancarie hanno fatto emergere quanto gli strumenti attuali siano esposti a rischi di degenerazione e inquinamento di quei criteri di trasparente e buona amministrazione essenziali perchè un sistema economico sia sano e efficiente. Le riforme del diritto societario e fallimentare hanno solo parzialmente dato soluzione a questi temi. Così come la legge sul risparmio approvata nelle scorse settimane non solo appare insufficiente nel rafforzamento dei poteri delle istituzioni di vigilanza, ma consolida la sciagurata decisione dell’abolizione de facto del reato di falso in bilancio.

In tale contesto non appare soddisfatta la esigenza di una compiuta riforma della Banca d’Italia, gravemente minata nella sua imparzialità e nella sua autorevolezza dalla conduzione di questi mesi.

Alla nomina del nuovo Governatore, deve seguire ora una effettiva riforma di Bankitalia, del suo assetto proprietario e delle sue funzioni, contestualmente a un vero e netto rafforzamento dei poteri di Consob e dell’Authority Antitrust.

Anche le vicende di questi mesi ripropongono la necessità di una effettiva ed efficace regolazione dei conflitti di interesse, in particolare nei rapporti tra banche e imprese, così come nei rapporti tra imprese e mezzi di comunicazione.

Più in generale si propone la necessità di restituire trasparenza e linearità ai rapporti tra soggetti della politica – istituzioni pubbliche e partiti – e imprese.

Spetta alla politica definire norme e regole entro cui ogni impresa possa agire con certezza, nonché promuovere politiche e contesti favorevoli alle attività delle imprese.

Mentre è irrinunciabile prerogativa di ogni impresa la scelta delle proprie attività finanziarie, produttive e commerciali. Quanto più questa distinzione sarà netta e visibile, tanto più sarà possibile richiamare ciascuno ad attendere alle proprie responsabilità.

Da questo quadro emerge la necessità di una forte visione critica sugli assetti del capitalismo italiano e l’urgenza ineludibile di affrontare uno strutturale intervento sul piano economico e politico che riduca il primato della rendita a vantaggio del capitale di rischio e del lavoro e corregga gli effetti distorsivi di una accumulazione affidata sempre più spesso solo a meccanismi di finanziarizzazione.

Peraltro si è visto in questi anni come una esasperata finanziarizzazione acuisca le sperequazioni nella distribuzione del reddito e approfondisca le disuguaglianze economiche e sociali, blocchi l’innovazione, mini la qualità sociale e ambientale dello sviluppo.

In tale contesto non è rinviabile un bilancio delle politiche di privatizzazione realizzate in questi anni, sapendo che la scelta di quando e come adottare privatizzazioni deve essere ancorata a verificabili valutazioni dei benefici sia di costo, sia sociali. Così come l’esperienza di questi anni ci dice che le privatizzazioni determinano un mercato più aperto e libero solo se accompagnate da effettive misure di liberalizzazione che favoriscano l’aumento del numero degli operatori e promuovano un’ effettiva maggiore concorrenza a parità di condizioni.

Vi è, infine, anche un nodo relativo alla regolazione a alla vita democratica dei soggetti politici.

L’autonomia della politica è data dall’effettiva trasparenza della sua attività e del suo finanziamento.

Se è vero che per chi è investito di una responsabilità politica o istituzionale non è sufficiente il rispetto della legge, servono codici etici che consentano di ispirare ogni comportamento a principi morali e condivisi.

Proponiamo inoltre di verificare la possibilità di introdurre nella legge sul finanziamento pubblico dei partito l’istituzione di un’Autorità indipendente – fondato su rigorosi criteri di neutralità e professionalità – a cui ogni forza politica sottoponga i propri bilanci e le proprie attività patrimoniali e finanziarie.

Più in generale appare matura una legge di integrazione dell’art. 49 della Costituzione relativa al regime giuridico del partiti, volta a valorizzare il carattere democratico dei partiti, la loro funzione insostituibile per il sistema democratico e a garantire un serio riconoscimento giuridico per quei soggetti cui si richiede una contribuzione economica.

Sono questi, e altri ancora, temi di moralizzazione e di riforme che proponiamo di portare all’attenzione del Parlamento fin dai primi atti della prossima legislatura.

Sono la dimostrazione della serietà con cui vogliamo affrontare i tanti problemi irrisolti evidenziati dalle vicende bancarie di queste settimane.

L’aspetto cruciale rimane comunque la grave crisi del paese e il vuoto politico dell’attuale governo. Il nostro sforzo deve essere teso a far si che la politica ritrovi le forze per dettare nuove regole affinché il paese non si ritrovi in una situazione di sbando irreversibile. Il nostro impegno deve essere quello di saper offrire ai cittadini uno Stato di diritto che si faccia garante di tutti gli interessi generali. Solo in questo modo potremmo creare un economia nuova, più competitiva che sappia guardare al futuro con quella fiducia che appartiene a chi ha dietro le spalle un progetto autentico di guida del paese.

Questo si potrà fare solo se i DS sapranno essere una forza trainante della coalizione di centrosinistra. E a questo fine siamo impegnati ad un rafforzamento della democrazia interna, anche attraverso uno sviluppo di responsabilità comune e di collegialità.

Nell’avanzare queste proposte siamo naturalmente consapevoli che leggi, norme, regole, codici possono vivere ed e essere efficaci in quanto chiunque abbia responsabilità pubbliche e sociali sia capace di ispirare i propri comportamenti a forte rigore morale e coerenza etica.

È stato ed è nostro impegno far vivere ogni giorno la lezione morale e politica di Enrico Berlinguer: non già per una ragione genetica, perchè di DS sono in partito di donne e uomini, non infallibile, come chiunque, esposti quotidianamente al rischio dell’errore.

Quella lezione sentiamo la responsabilità di farla vivere nella nostra concezione della politica, nei nostri comportamenti quotidiani, nella generosità e nella passione dei nostri militanti e delle nostre organizzazioni, nella trasparenza e nella capacità di governo dei nostri pubblici amministratori, nel rapporto di condivisione e fiducia che ogni giorno costruiamo con i cittadini del nostro Paese.

Una politica ispirata da rigore morale e coerenza etica è per noi tratto fondamentale di una identità riformista.

Siamo di fronte ad un complesso di grandi questioni economiche, sociali, politiche, culturali che meritano seri approfondimenti e la ricerca di analisi e soluzioni innovative. E per questo obiettivo intendiamo chiamare a raccolta le migliori energie della sinistra e della società italiana.

E’ con questa determinazione che ci rivolgiamo alle donne e agli uomini del nostro Paese, volendo sviluppare con loro e con le loro domande il più ampio e concreto confronto.

Il 9 aprile sta nelle mai degli italiani il voto decisivo per aprire una strada nuova: nei 90 giorni che ci separano da quell’appuntamento intendiamo – insieme a Romano Prodi, ai partiti dell’Unione e alle forze con cui condividiamo il progetto dell’Ulivo – rivolgerci alla società italiana con l’unico obiettivo di restituire all’Italia e agli italiani le speranze e le certezze che la destra ha promesso e non ha saputo realizzare.

Bertinotti è l´ossimoro materializzato in una persona, anzi in un´istituzione. Va alla parata militare del 2 giugno con una spilla arcobaleno (colori del pacifismo) appuntata sulla giacca e l´accarezza ostentatamente mentre assiste in piedi, alla sfilata dei paracadutisti, degli incursori, dei bersaglieri, dei carabinieri, con le loro bandiere di guerra. Irrita i militari che rappresentano la patria e irrita i movimentisti che sfilano per conto loro in un´altra zona della città. Francesco Merlo ne ha fatto ieri su queste pagine un bellissimo ritratto, il ritratto delle contraddizioni.

Ma – ci tengo a dirlo – l´intera civiltà moderna (e non soltanto quella occidentale) è una foresta di contraddizioni, una grammatica irta di ossimori. Bisognerebbe dedicare un libro, e non basterebbe, a questa nuova modalità del linguaggio, a questa rottura della forma e quindi del pensiero. In politica, nell´arte, in filosofia.

Non si tratta d´un fenomeno di questi ultimi anni; è venuto in superficie da quando la verità assoluta è stata messa in discussione e con essa i canoni che la sostenevano. Picasso ha mandato in pezzi gli ideali classici della bellezza.

Nietzsche quelli del sistema filosofico. Joyce l´unità dell´io. Il Leopold Bloom del suo Ulisse è un ossimoro fatto personaggio, ben più radicale di Bertinotti. Questa è la debolezza e insieme la forza della modernità (ecco un altro ossimoro): di essere contraddittoria, aperta all´imprevisto, magmatica, pragmatica. Infine, priva di senso e quindi piena di paura ma ricca di avventure. Non emendabile, almeno per ora. Priva di valori egemoni. Forse priva di valori "tout court".

Leggevo in questi giorni i commenti di alcuni studiosi di economia e i loro rimbrotti verso quei governi che danno troppo spago alla disparità di opinioni cercando di conciliarle con compromessi al ribasso. Leggevo anche analoghi giudizi da parte di imprenditori: vorrebbero governi capaci di decisioni impopolari, purché naturalmente l´impopolarità fosse a senso unico e privilegiasse gli interessi della categoria.

Faccio osservare che il presidente della Confindustria di fronte all´insorgenza della platea di Vicenza demagogicamente stimolata dall´empito appassionato di Berlusconi, ha modificato la rotta e il linguaggio, ha preso le distanze dal nuovo governo e dalle organizzazioni sindacali, ha insomma visibilmente spostato la barra del suo timone.

Cioè ha tenuto conto di Vicenza, ha dovuto tenerne conto, ha dovuto riconquistare credibilità e popolarità tra i suoi associati. La democrazia non può prescindere dal consenso. La classe dirigente democratica deve essere sostenuta dal consenso.

Deve cercare di spostarlo a proprio favore e allo stesso tempo ne risulta essa stessa spostata. La civiltà dell´ossimoro è obbligata a compiere questi diuturni esercizi.

Sapete chi meglio rappresenta quella forma retorica da almeno sessant´anni? Giulio Andreotti. A me non piace neanche un po´, ma se c´è un ossimoro puro, personificato, è lui. Intramontabile, inaffondabile, di tutte le stagioni, scherza coi fanti ma anche con i santi, stringe alleanze a destra e a sinistra, prega e si comunica, il suo cinismo è talmente rivoltante da essere diventato un´opera d´arte. Petrolini non gli sarebbe piaciuto ma Pippo Franco e il Bagaglino lo incantano.

Sempreverde, Giulio Andreotti. Infatti a 87 anni è ancora l´uomo del giorno. Non siede al Quirinale per puro caso. Io dico per fortunato accidente. Ce ne siamo salvati per il rotto della cuffia.

* * * *

Il problema politico di oggi parrebbe quello del disgelo tra le due coalizioni. Gettare ponti transitabili tra l´una e l´altra. Che si parlino e si riconoscano reciprocamente. Tutti ne sarebbero contenti o almeno la maggior parte, salvo alcuni manipoli di irriducibili.

Questa è l´apparenza. Mi domando se sia anche la sostanza. In proposito qualche dubbio ce l´ho.

Per esempio Berlusconi. Per lui rinunciare al muro contro muro è un rischio molto alto. Se allenta la presa aumenta lo spazio al gioco libero dei suoi alleati e anche di alcuni forzisti di eccellenza: Tremonti, Scajola, Dell´Utri, tanto per dire. Perfino Bossi e qualcuno dei colonnelli leghisti. Ha detto che il referendum non sarà più considerato il giorno della rivincita e della spallata al governo. Che altro poteva dire? Il referendum costituzionale non ha «quorum»: chi vota vota, chi vince vince. Sarà molto se il 25 giugno, con mezza Italia già in vacanza, andrà alle urne il 50 per cento degli elettori. Mettiamo il caso che vincano i "sì". Vinceranno per un pelo e così pure se vinceranno i "no". Una spallata col 25 per cento di consensi?

Quindi niente rivincita. Ma il muro contro muro, per Berlusconi, deve continuare. Quanto agli alleati, tenterà di imbrigliarli nel partito unico dei "popolari" o moderati che dir si voglia. Grosso problema. Sarà un partito con altrettante correnti. Ogni corrente parlerà il suo linguaggio come prima e più di prima. Quanto alla base, il disgelo avrà come naturale effetto il formarsi di molti "iceberg" che navigheranno in preda alle correnti. Alle convenienze. Agli interessi.

Follini (e forse Tabacci) prenderanno il largo. Una zona franca, un ponte percorribile tra i ghiacci dell´Islanda e la corrente del Golfo. Condizione pessima per il Capo dei capi, ma ideale per negoziare i salvacondotti in favore del proprietario di Fininvest-Mediaset.

A sinistra la situazione non è meno complicata. La fine del muro contro muro conviene certamente alla Margherita, più libera di muoversi verso il centro. Ma non per liberarsi di Prodi. Se Prodi dovesse cedere prima dei cinque anni, a succedergli ci sono già numerose prenotazioni cominciando da Walter Veltroni, da Fassino, da Bersani. La Margherita potrebbe fare piccolo cabotaggio ma non molto di più. L´idea di scomporre e ricomporre i poli mi sembra molto improbabile. Quella di spostare al centro l´asse sociale, altrettanto.

Nelle ultime pagine di Guerra e pace Tolstoj espose la teoria del pendolo: la società, scrisse, pendola tra l´Est e l´Ovest; i grandi uomini non guidano ma seguono questi movimenti che si svolgono nel profondo. Napoleone seguì il moto dall´Ovest verso Est, lo zar Alessandro pochi anni dopo seguì il moto contrario.

Se dovessimo applicare la teoria del pendolo, che non è priva di una sua saggezza statistica, dovremmo dire che la società di questi anni (quella italiana, ma non soltanto) si sta spostando dall´ubriacatura liberista dello Stato supplente, ad una posizione di interventi pubblici mirati a proteggere i diritti: diritto alla previdenza, diritto alla salute, diritto al salario minimo garantito, diritto ad un lavoro flessibile ma non precario. Diritto delle donne di guidare la realizzazione del bene comune. Diritto delle piccole imprese d´esser assistite a sopravvivere modernizzandosi.

Questi diritti e altri ancora consimili non sono né di destra né di sinistra ma nemmeno di centro. Sfuggono a queste classificazioni, ma una cosa è certa: hanno lo Stato e le istituzioni pubbliche come interlocutori.

La fase del liberismo e del mercato senza regole è passata. Non ha lasciato molte tracce positive. Non ha smantellato le corporazioni. Ha disastrato il bilancio del Paese. Non ha realizzato le infrastrutture. Ci ha allontanato dall´Europa. Non ha liberato i ceti medi dalle loro paure.

Certo ha premiato molta gente. Ha consentito un trasferimento di ricchezza formidabile a vantaggio di una consistente minoranza. Proprio perché consistente non la si può ignorare, ma neppure subirne il ricatto.

La modernizzazione del Paese viene agitata come una bandiera e come un programma soprattutto nei confronti dei sindacati. Capisco le buone intenzioni, capisco il peso dell´invecchiamento della popolazione e la necessità di porvi riparo, capisco l´accento sulla flessibilità del lavoro.

Ma c´è un altro immenso settore della società che va anch´esso accompagnato e indotto alla modernizzazione ed è quello della piccola e piccolissima impresa. Il miracolo del Nordest (e non solo del Nordest) ha avuto come fondamento il lavoro personale dell´imprenditore (e dei lavoratori immigrati), l´innovazione dei processi (ma quasi mai dei prodotti) e l´evasione fiscale e contributiva rimpiazzate dall´aumento del debito pubblico. Alcuni di questi fattori del miracolo sono finiti o stanno per finire o addirittura debbono finire.

Se è vero, ed è purtroppo vero, che il reddito sommerso ammonta al 25-30 per cento del Pil, evidentemente è in quel bacino che vanno trovate le risorse delle quali c´è bisogno per rilanciare l´economia e raddrizzare i conti dello Stato. Padoa Schioppa e Visco lo sanno. Prodi ne ha fatto uno dei perni della sua campagna elettorale. Lo sa benissimo anche Draghi e mi ha stupito che la parola "sommerso" non sia comparsa affatto nella sua pregevole relazione del 31 maggio. Un quarto e forse un terzo del Pil non contribuiscono alle risorse comuni e il governatore non ne fa cenno? Dove sta questa massa enorme di risorse fuori controllo?

Mi ha altresì stupito la notizia delle proteste che Rutelli avrebbe sollevato nell´ultimo Consiglio dei ministri nei confronti di Padoa Schioppa per aver concesso al viceministro Visco eccessive deleghe per la gestione dell´entrate. Visco è una delle vere risorse tecniche di cui dispone il governo. Ha accettato un ruolo di vice essendo stato per anni ministro titolare delle Finanze e poi di tutta l´Economia. Merita lode per quell´accettazione e merita lode Padoa Schioppa per averlo delegato alla gestione delle entrate. Sicché le proteste di Rutelli riescono incomprensibili.

* * *

Rimane da capire ragioni e interessi di quella "consistente minoranza" che del convegno confindustriale di Vicenza fece la sua "Pallacorda" (quando nacque il Terzo Stato alla Costituente francese del 1789) e che si è spellato le mani nell´applauso a Gianni Letta in occasione della recente assemblea della Confindustria.

A quella che ho definito «borghesia produttiva e moderata» ho dedicato domenica scorsa un articolo intitolato Che cosa vuole la borghesia italiana? Ho ricevuto molte lettere di consenso e di dissenso. Assai massimalistiche da entrambe le parti. I consenzienti hanno rincarato le mie tesi sostenendo che quella borghesia non merita alcun riguardo; i dissenzienti mi hanno dato semplicemente del fazioso para-comunista. Mi sembrano, tutte e due, reazioni sbagliate.

In realtà la borghesia cui mi rivolgevo è certamente produttiva nel senso che produce reddito, ma nella sua maggior parte non è affatto moderata. Per certi aspetti è fortemente innovatrice, assume rischi, conquista mercati, lavora a corpo morto insieme alla propria famiglia. Da questo punto di vista si potrebbe addirittura definire progressista.

Ma è anche una borghesia fortemente ideologizzata. La sua ideologia è la fabbrichetta. La sua fabbrichetta. Quella è la fonte dei suoi guadagni, il luogo del suo lavoro e della realizzazione di sé, insomma la sua vita. E lì comincia e lì si conclude. È totalizzante. Tutto ciò che accade fuori da quell´orizzonte mentale viene giudicato secondo che sia utile alla fabbrichetta oppure no.

L´aumento delle dimensioni dell´impresa facendovi entrare nuovi azionisti non è utile, perciò non si fa. I condoni sono utili e perciò si approvano. La mancanza di regole è utile. La ricerca, a quelle dimensioni aziendali, è impossibile. Le infrastrutture sono necessarie. La previdenza non è necessaria, è troppo costosa. Le tasse sono insostenibili.

Mi guardo bene dall´affermare che l´intera platea delle imprese piccole e piccolissime sia schiava di questa ideologia. Ve ne sono con quattro, dieci, quindici dipendenti che lavorano a prodotti di alta ed altissima tecnologia. Ma la grande maggioranza è ferma ad un miracolo (ex) di cui ho già accennato i fondamenti. In gran parte un miracolo sommerso.

Questa è la «consistente minoranza» sicuramente produttiva ma con scarso valore aggiunto, fiscalmente e contributivamente assente almeno per il 70 per cento.

Pretendere di mandarla a gambe all´aria sarebbe pura follia. Proporle un piano di rientro graduale ma non scandito sull´eternità è necessario. Tentare di de – ideologizzarla è arduo ma non impossibile. Finora quella «consistente minoran za» se ne è infischiata dei guai della finanza pubblica. Ha chiesto prestazioni (doverose) senza responsabilizzarsi dei costi. È evidente che così non si può continuare. Bisogna spiegarlo e dargli in contropartita i servizi efficienti che vengono richiesti.

Questa è la scommessa. Che significa governare governare governare.

Non ho votato Rifondazione perché Fausto Bertinotti diventasse presidente della Camera. E' un suo diritto, l'elettore delega, ma può sperare. E io non lo speravo nei panni di speaker della discussione parlamentare, ché altro non potrà fare: anche le sortite pubbliche dovranno essere contenute. Lo speravo come sollecitatore continuo del governo e nel governo di una scelta, per quanto mediata, esplicitamente di sinistra. Bertinotti dice di ispirarsi a Pietro Ingrao. Ma Ingrao fu spedito alla presidenza della Camera perché dava fastidio a Botteghe Oscure, promoveatur ut amoveatur. La Cdl è in perfetta malafede quando si agita perché il più radicale dei leader di sinistra si contenta di discutere e governare l'agenda dei lavori a Montecitorio. Ed è ancora più strano che tanti di Rc si sentano da questa nomina sdoganati. Ma da che? E da chi?

Non mi impressiona tanto il metodo. Se tutto il problema si riduceva agli equilibri nell'Unione - a me questo a te quello - cinque persone dovevano riunirsi, parlarsi, sbrigarsela tra loro e riaffacciarsi uniti, senza lettere di Fassino, silenzi di Prodi, ritiri di D'Alema, incursioni di Cossiga e Andreotti. Mi impressiona che dal 10 aprile siamo costretti soltanto a questo spettacolo. Se la Cdl ci sguazza, è che gliene è stato offerto il destro. Se ha da essere un mercato, tenetelo fra voi, viene da dire. Anche se colpisce che per la presidenza della Repubblica nessuno del ceto politico sembra pensare a una personalità che non faccia parte del giro più prossimo: non a un Gustavo Zagrebelski, non a una Tullia Zevi, non a uno Stefano Rodotà, non a una Tina Anselmi - i primi che mi vengono in mente fra coloro che esistono non soltanto per virtù di qualche segreteria.

Il tutto sarebbe fastidioso ma meno grave se non nascondesse un generale scansarsi dal guardare in faccia lo strappo avvenuto fra centrosinistra e paese, che le primarie avevano occultato. Sembra che nessuno se ne accorga e ne tenga conto. Neanche nell'imminenza delle amministrative e del referendum sulla Costituzione che, se dovesse fallire, sarebbe la peggiore sconfitta, e per decenni: se lo si tiene basso, chi indurrà l'elettore, già malmostoso, a infilarsi per la terza volta in meno di tre mesi in una cabina elettorale?

Se è vero, come credo, che a mettere assieme le molte anime del centrosinistra è stata l'urgenza di finirla con un degrado della democrazia come in Italia dopo il fascismo non s'era mai visto, questa dovrebbe essere la preoccupazione principale. Il degrado non è una parentesi, dilaga, allaga, fa marcire. Prodi e Scalfari si danno più pensiero dei conti pubblici: ma neanche questi sono una questione contabile. E' una questione pesantemente politica, l'elettorato poco ne sa e molto teme dai diktat del Fmi e di Almunia. Chi è meno abbiente teme come la peste le «riforme strutturali» cui il nuovo governo è pressato ancora prima di formarsi, salvo la scelta prodiana di Padoa Schioppa. Sa solo che finora esse hanno significato tagli alle pensioni, riduzione della spesa pubblica per scuola e sanità, stretta del potere d'acquisto. Potrebbe non esser così? Forse. Ma lo si spieghi e in chiaro. Non si dimentichi che dopo i famosi sacrifici per entrare nell'euro doveva venire una fase più confortevole che non arrivò mai, mentre i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi, i precari più precari.

E passiamo sulle molte altre divisioni trasversali sulle quali il centrosinistra si ostina a tacere: dalla laicità alle questioni che ormai la tecnologia propone sul corpo, delle donne e non solo, sulle quali ha da finire la bufala della «libertà di coscienza», premurosamente avanzata dopo un inchino di passaggio alle virtù della buona religione. Certo nulla sarà facile. Per questo ci si aspettava un impegno prioritario, senza tracheggiamenti, della coalizione passata per miracolo o almeno dalla sua sinistra. Sembra sfuggire a tutti in quale confusione di idee, interessi, incertezze e paure il paese è aggrovigliato. E questo fa più paura delle convulsioni del Cavaliere.

COMUNQUE vada a finire, la vera sorpresa di queste elezioni è che l'Italia non cambia mai. O forse a essere stupefacente è solo il nostro stupore, alimentato da anni di sondaggi ed elezioni locali a senso unico. A furia di leggere e scrivere che il popolo del centrodestra non ne poteva più di Berlusconi, avevamo finito col sottovalutare un particolare decisivo: che qualsiasi nausea e delusione sarebbero sempre state inferiori alla paura procurata dal pronostico di una vittoria altrui. E quel popolo detesta i valori della sinistra e ne teme l'attuazione pratica al punto da essere disposto a turarsi ogni volta il naso, pur di non mandarla comodamente al potere. Berlusconi non è la democrazia cristiana, ma i suoi elettori sì, e non averlo mai voluto capire è la colpa strategica dei partiti dell'Ulivo. I berluscones sono l'Italia che si sente all'opposizione dai tempi «di quel comunista di Fanfani», tranne aver sempre continuato a votare per chi stava al governo, lamentandosene. L'Italia dissimulatrice che mente agli exit polls perché non vuol far sapere in giro per chi vota: mica per vergogna, ma per disinteresse, non considerandolo un motivo particolare di orgoglio. La maggioranza silenziosa che non ha una passione speciale per la politica e se avesse un Moretti o una Guzzanti di centrodestra non andrebbe nemmeno a vederli, perché preferisce le commedie romantiche e i giochi a premi. Un fiume carsico che scorre sotto traccia per badare agli affari propri e riappare in superficie solo il giorno delle elezioni nazionali, quando bisogna sbarrare il passo ai «cattivi» che vogliono portargli via «la roba».

Sono quelli che preferiscono l'America all'Europa, le barzellette agli appelli e i libri della Fallaci a quelli di Terzani. Sullo Stato hanno idee chiare: non lo considerano un amico, ma un padrone che vogliono affamare con la riduzione delle tasse, e pazienza se all'inizio a rimetterci non saranno le autoblu dei ministri ma i servizi, perché «è come nelle diete, prima di arrivare a perdere la pancetta devi rassegnarti a dimagrire anche dove non vuoi».

L'unica speranza che l'Unione aveva di ammansirli era mettere in pista il suo finto democristiano: l'ipnotizzatore di masse variegate Walter Veltroni. Invece ha insistito col voler schierare quello vero, Romano Prodi. Ora, se c'è una categoria che gli elettori democristiani detestano con tutta l'anima sono i cattolici rossi o almeno rosè. Già il cuore piccolo borghese della democrazia cristiana era convinto che i propri voti difensivi servissero ai vertici del partito per promuovere politiche progressiste e candidati molto più a sinistra del loro elettori. Prodi rappresenta la sintesi di ciò che essi detestavano e detestano: don Camillo che va a pranzo da Peppone. Più prosaicamente, il sindacato rosso che si mette d'accordo con la Confindustria sulla pelle del ceto medio dei piccoli produttori.

Nessuno, a sinistra, ha provato sul serio a esorcizzare queste antiche paure, pensando che il fallimento del governo Berlusconi avrebbe influito sugli esiti del voto più di qualsiasi pregiudizio contrario nei loro confronti. Non è così. Non nel Nord industriale del Paese. Quello che ha eletto a suo filosofo di riferimento un commercialista, Giulio Tremonti, e almeno a parole vorrebbe riforme liberali, ma in ogni caso preferisce tenersi stretto il suo monopolista preferito che affidare la dichiarazione dei redditi agli amici del compagno Visco.

Nulla riesce a smuoverli dalle certezze dell'esperienza e il sentirsi perennemente descritti dagli intellettuali come uomini ignoranti e allergici alle regole non fa che alimentare la convinzione di essere nel giusto. Dopo dodici anni si tengono ancora stretto Berlusconi: è diventato una ossessione, ma sempre meno che per gli altri, «i comunisti».

Se aveva ragione Borges, e la democrazia perfetta è quella in cui i cittadini non ricordano come si chiama il loro presidente, l'Italia di questi anni è stata di un'imperfezione assoluta. Riesce ormai difficile persino immaginare che sia esistito un tempo in cui i giornali potevano uscire la mattina senza avere sulla prima pagina il marchio di quelle quattro sillabe, Ber-lu-sco-ni, abbinato a qualche dichiarazione dirompente: «Scendo in campo!», «Magistrati comunisti!», «Farò l'Italia come il Milan!», «Giornalisti stalinisti!», «Meno tasse per tutti!», «Bollitori di bambini maoisti!», «Sì, avete capito bene, a-bo-li-rò l'Ici!», «Chi non vota per i propri interessi è un coglione!» e ogni punto esclamativo era il profilo della sua dentatura, sorridente o digrignante a seconda del copione. Ma risulta altrettanto improbo ricordarsi un film, un libro, un monologo satirico, un'inchiesta giornalistica e finanche una conversazione privata su un oggetto politico, calcistico o televisivo che non andassero prima o poi a sbattere lì, addosso a Sua Invadenza. Lui che se fosse un elemento del creato, non sarebbe fuoco che brucia ma acqua che sommerge, occupando ogni spazio vuoto aggirabile o non ostruito da una diga.

Eppure i berluscones continuano a sopportarlo, a considerarlo uno di loro. Qualche sua bizza ha il potere di imbarazzarli, ma nessuna veramente di sconvolgerli. Lo accettano come il fratello un po' troppo disinibito che avrebbero voluto avere e, in fondo, essere. Li accomuna la stessa visione utilitaristica delle istituzioni e l'idea assolutamente rivoluzionaria che lo Stato e la politica debbano essere gestite da un padrone, proprio come le aziende. Che la democrazia non sia partecipazione diffusa e continua, ma consista nel trovare 5 minuti ogni 5 anni per andare a votare, delegando per il tempo rimanente qualcuno che abbia non solo la voglia bizzarra di occuparsene, ma anche un interesse personale nel farlo, perché «se Berlusconi non avesse le tv e tutto il resto, non avrebbe alcun tornaconto a far andare bene l'Italia, diventerebbe un politico e si metterebbe a rubare come gli altri», mi ha spiegato un idraulico romano che lo vota da una vita: immaginarlo a colloquio con un girotondino dà la misura della incomunicabilità delle due Italie che non hanno più un linguaggio di valori condivisi con cui parlarsi o almeno capirsi. Ognuna delle due addossa all'altra i mali della modernità: l'immobilismo delle gerarchie, l'impoverimento del ceto medio, la diminuzione delle garanzie, la superficialità delle emozioni, l'orgoglio dell'ignoranza, il sadismo dei reality show. Si guardano in cagnesco, mentre la barca affonda. Senza nemmeno più rendersi conto che è la stessa barca.

GIORNATA nerissima quella di venerdì per Berlusconi e per tutta la Casa delle Libertà. Cominciata a metà mattina con le dimissioni di Storace e finita alle 2 dopo mezzanotte con la conclusione del "match" con Diliberto, aggiudicato per unanime verdetto al segretario dei Comunisti italiani per 3-0 se non addirittura per ko. Una gradevole sorpresa per quanti temevano pericolose intemperanze verbali e politiche da parte dello sfidante (io tra questi e me ne pento) e si sono invece trovati davanti un roccioso e calmo rappresentante di tutta l’Unione che colpiva con precisa regolarità un Berlusconi sfasato e inutilmente ripetitivo di lunghe filastrocche anticomuniste e anti-magistratura.

Un match rovinoso e pieno di insegnamenti per successive disfide e in particolare per l’atteso duello con Romano Prodi. Si è visto infatti che il campione del centrodestra non ha una sola idea né uno straccio di programma per la prossima legislatura. Segue lo schema che i suoi consulenti gli hanno preparato: descrivere l’Italia come un paese al colmo del benessere, plagiato dal potere diffuso dei comunisti annidati in tutti i gangli del potere e dedito alla menzogna; raccontare la bravura e i miracoli compiuti dalla sua squadra di governo e soprattutto da lui stesso, che è riuscito a superare l’avversa congiuntura, le diavolerie messe in campo dai comunisti nonché la pochezza e la malizia dei suoi alleati; infine presentarsi come una vittima della cattiveria altrui, un agnello nelle grinfie d’un branco allupato di magistrati faziosi e di politici sciagurati. Con in tasca tuttavia la vittoria e il trionfo finale, novello San Giorgio in lotta contro il drago che lui e lui soltanto riuscirà a trafiggere mortalmente in quelle che saranno le radiose giornate del 9 e 10 aprile.

Portato fuori da questo schema che ormai recita a memoria tanto l’ha ripetuto in due mesi di invasioni barbariche di tutte le televisioni nazionali e locali, il "premier" si smarrisce, perde il controllo di sé, sfugge le risposte, si rivela incapace di incalzare l’avversario con domande ficcanti e risposte pertinenti. Hai la sensazione che il mattatore indiscusso e temuto sia diventato un robot programmato per recitare una parte che non prevede varianti e dà l’impressione d’un disco rotto più che d’un discorso compiuto. Il più sofferente durante il match con Diliberto sembrava Enrico Mentana che ad un certo punto è arrivato ad apostrofarlo e quasi a redarguirlo per la sua assenza mentale.

«Presidente, si sta forse annoiando?» gli ha chiesto mentre Diliberto continuava a colpire con pacata durezza. «No», ha risposto il premier scuotendosi con fatica evidente «No, stavo riflettendo».

Mai riflettere troppo a lungo quando sei sotto l’occhio implacabile della macchina da presa, ce l’ha insegnato lui. Mai fuggire, mai indugiare in "melina", per far passare il tempo e salvarsi almeno con uno stentato pareggio.

Ma Mentana era preoccupato anche per un’altra ragione: il match di venerdì sera condanna infatti la formula fin qui seguita di incontri senza regole chiare e nette. Consente di evitare il dibattito sui temi di fondo, favorisce la rissa anziché il confronto su programmi e su valori. Ha quindi ragione Prodi a voler stabilire regole precise perché con competitor come Berlusconi non si esce dal "trash" della tv-immondizia. Di quella ce n’è già tanta in circolazione ed è inutile propinarne una dose aggiuntiva.

* * *

Sul caso Storace ha già scritto ieri Ezio Mauro delineando compiutamente la natura scandalosa di quanto è avvenuto e il gravissimo "vulnus" inferto al funzionamento delle istituzioni democratiche. Alla sua diagnosi giustamente impietosa non c’è molto da aggiungere se non ricordare che la guerra per bande di cui il caso Storace rappresenta l’esempio più recente, è un connotato ricorrente nella storia italiana tutte le volte che lo Stato e le istituzioni cadono nelle mani di gruppi di avventura, privi di cultura politica e avidi di potere senza altro scopo che il potere e il gusto di esercitarlo.

Dalle trame del Sifar negli anni ‘60 allo stragismo degli anni ‘70, agli "opposti estremismi", alla P2, agli anni di piombo delle Br, c’è una storia parallela che incrocia gli apparati deviati, la manovalanza terrorista nera e rossa, la criminalità mafiosa e camorristica in un intreccio perverso che ha comunque avuto come obiettivo fisso e comune quello di inquinare e infine sopprimere il funzionamento della democrazia, dello stato di diritto e della legalità.

La magistratura accerterà, speriamo con rapida chiarezza, se l’ex ministro della Sanità sia direttamente e consapevolmente coinvolto nello spionaggio politico organizzato in suo favore dai suoi più intimi collaboratori. Ma resta il fatto che una banda di investigatori privati, ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza, nonché dell’ "intelligence" e di operatori della Telecom ha violato la vita privata e pubblica di persone che contrastavano i progetti di Storace, ha manomesso e invalidato documenti pubblici nell’intento di alterare gli esiti di elezioni democratiche per procacciarsi denaro e potere.

Queste metastasi attecchiscono quando un corpo sano è invaso da cellule degenerate mentre gli anticorpi che dovrebbero eliminarle sono stati prostrati e resi inoperanti. Per fortuna questo processo degenerativo ha trovato ostacoli, per fortuna il sistema immunitario è ancora largamente operante, per fortuna la magistratura è ancora in grado di esercitare il controllo di legalità che la Costituzione le assegna.

Il caso Storace è un campanello di allarme ma anche la prova che le difese democratiche funzionano. Per merito di gran parte della società civile, dei partiti democratici, della libera stampa e della giurisdizione.

* * *

Non starò ad analizzare gli altri eventi che hanno reso nerissima per il centrodestra la giornata di venerdì. Mi basterà elencarli: la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione in atti giudiziari inoltrata dalla Procura di Milano al giudice dell’udienza preliminare nelle persone di Berlusconi e dell’avvocato inglese Mills; l’intervento dell’industriale Della Valle di aspra critica della politica economica del governo; la dichiarazione di Bossi che, in caso di sconfitta nelle prossime elezioni, la Lega uscirà dall’alleanza di centrodestra.

Prodi, alla fine di quella giornata, ne ha sintetizzato il senso con quattro parole: la legislatura finisce con una catastrofe del governo. La nostra bravissima Ellekappa non è stata da meno sul piano della satira: «Schizzi di fango su Storace? Tranquillo, si confondono con tutto il resto». A volte anche una vignetta ha la forza d’un articolo di fondo.

Ma resta il problema dei programmi e della loro fattibilità. Alla resa dei conti s’è visto che il centrodestra un programma non ce l’ha. O meglio, il suo è quello di portare a compimento il programma del 2001 a conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che il famoso contratto con gli italiani è stato onorato in piccola parte o per nulla.

Il fatto è che - a parte la sua mancata realizzazione - quel programma nelle sue linee maestre era profondamente sbagliato. Presupponeva una crescita del reddito nazionale in una fase di ristagno della congiuntura mondiale; si basava sulla drastica riduzione della pressione fiscale attraverso il taglio delle aliquote dell’Irpef e dell’Irpeg allo scopo di rilanciare la domanda languente; tendeva a favorire i ceti più abbienti sperando che reinvestissero i profitti nelle attività produttive.

Queste erano le linee maestre del programma 2001, realizzate minimalmente e per di più sbagliate nella scelta degli strumenti poiché per far crescere l’economia bisognava puntare sul rilancio dell’offerta piuttosto che sulla domanda e quindi sul taglio del cuneo fiscale invece che su quello delle imposte sul reddito.

Per nulla ammaestrato dall’esperienza negativa, Berlusconi propone per la legislatura 2006-2011 il completamento di quanto non fatto nel 2001-2005. Che dire?

Sbagliare è umano, perseverare nell’errore è diabolico. Per di più in una fase in cui il nostro paese non riesce a intercettare la ripresa europea già in atto mentre la politica dei bassi tassi di interesse si è interrotta, sostituita in Europa, in Usa, in Asia da un «trend» di tassi al rialzo e di prosciugamento della liquidità internazionale.

* * *

Il programma del centrosinistra c’è ed è ben chiaro nonostante le geremiadi sul numero delle pagine e sui compromessi necessari a tenere unita la "lunga coalizione".

C’è il taglio di 5 punti del cuneo fiscale nel primo anno e di altri 5 nei restanti della legislatura, programma condiviso sia dai sindacati sia dalla Confindustria.

C’è l’indicazione delle coperture: abolizione degli altri incentivi alle imprese, destinazione d’una parte del taglio alla fascia dei bassi salari, stretti rapporti tra benefici al potere d’acquisto e incremento della produttività.

Tassazione delle rendite e delle plusvalenze speculative, allineandola allo standard europeo. Emersione del lavoro nero e dell’economia sommersa attraverso un piano di recupero graduale e opportunamente incentivato.

Revisione degli studi di settore per il lavoro autonomo e le partite Iva al di sopra di una certa dimensione.

Crescita degli stanziamenti per la ricerca pubblica.

Investimenti nell’alta velocità, nei porti, nella rete viaria e autostradale, completamento delle reti ferroviarie europee. Politica energetica di risparmi, energie alternative, partecipazione a produzioni estere.

Lotta al precariato, revisione della legge Biagi, incentivazione fiscale alla trasformazione delle flessibilità d’ingresso in contratti a tempo indeterminato.

Queste cose stanno nel programma di Prodi. Queste cose dirà nel duello televisivo con Berlusconi se il premier accetterà di misurarsi sui programmi del futuro anziché sulle battute e sul comunismo staliniano di due generazioni fa.

Mancano un po’ meno di quattro settimane al 9 aprile.

Vale la pena di cominciare il conto alla rovescia.

ROMA —Un atto d'indirizzo, per precisare i limiti che tivù pubbliche e privatedovranno rispettare prima della par condicio. Il presidente dell'Autorità per le comunicazioni Corrado Calabrò lo potrebbe firmare mercoledì, per porre fine alle polemiche sull'offensiva mediatica di Silvio Berlusconi e tradurre in concreto il suggerimento del capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. Un semplice atto d'indirizzo. Ma che secondo il presidente dell'Authority imporrebbe regole certe a tutte le televisioni e servirebbe a mettere in chiaro un fatto: «Ci sono principi che si applicano tutto l'anno, anche prima della convocazione del comizi elettorali. Forse a qualcuno era sfuggito».

Qualcuno chi?

«Non posso anticipare cose che sono in corso di valutazione. Ma è certo che qualcuno ha pensato che in questo periodo ci fosse assenza di regole. Adesso, dopo il richiamo di Ciampi, con cui sono perfettamente d'accordo, è ancora più evidente che non può essere così».

Berlusconi insiste che la legge sulla par condicio non è ancora operativa. Lei che dice?

«È un abbaglio, quello che non ci fossero regole, nel quale sono caduti in molti. Faccio il magistrato da 45 anni e posso assicurare che la mia interpretazione è giusta, come hanno riconosciuto anche i rappresentanti delle televisioni pubbliche e private nell'incontro che abbiamo avuto con loro la scorsa settimana. Rai e Mediaset ci hanno addirittura consegnato un documento con le istruzioni date ai capistruttura».

Ma poi le hanno rispettate?

«Non c'è dubbio che sia opportuno un chiarimento. La legge prevede che la tutela del pluralismo è compito dell'Agcom. E la legge ci dà competenza a dettare disposizioni applicative».

Disposizioni applicative?

«Un atto d'indirizzo. Mercoledì valuteremo, alla luce del comportamento delle televisioni, se ci sarà o meno la necessità di emanarlo.»

Che cosa ci sarà scritto?

«Saranno precisati i comportamenti che tutte le televisioni dovranno tenere in base a principi sempre stati chiari, ma che in quanto principi, possono anche sfumare nell'indeterminatezza».

Quali sarebbero?

«La legge parla chiaro: obiettività, completezza dell'informazione, lealtà, apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche».

E lei sostiene che vanno rispettati anche prima che scatti la par condicio.

«Non io. La legge. Tenga presente che il periodo precedente la campagna elettorale è ancora più delicato, perché l'apparizione del politico nei programmi non espressamente dedicati alla propaganda, come quelli di informazione e intrattenimento, può essere ancora più suggestiva».

Il premier è intervenuto anche a Isoradio. E c'è chi ipotizza la violazione del contratto di servizio fra Rai e Stato. Ipotesi corretta?

«Isoradio può trasmettere solo informazioni di pubblico interesse e repliche di programmi già andati in onda. Valuteremo se esistono presupposti per un'eventuale sanzione».

Ecco, le sanzioni. Che si rischia?

«Una multa da 10 mila a 258 mila euro. Mentre per la Rai, che è servizio pubblico, si arriva fino al 3% del fatturato. Tutte le volte che riscontreremo una violazione dei principi d'imparzialità scatteranno le sanzioni. A questo punto ognuno si dia una regolata».

Se è tutto qui, regolarsi è fin troppo facile...

«Sottolineo che è in corso un procedimento penale nel quale si è arrivati alla determinazione che chi non obbedisce alle decisioni dell'autorità rischia pure d'incorrere nel reato d'omissione d'atti d'ufficio».

Sa che spavento.

«Faccio presente che è un reato. Ma soprattutto confido che dopo l'intervento di Ciampi tutti staranno molto più attenti».

Sia sincero: le sanzioni non sono inadeguate?

«Per la Rai no. Per i privati sono troppo lievi».

A proposito, è vero che in questo periodo la Rai ha commesso più violazioni di Mediaset?

«No comment. Qui parlo solo di regole. I giudizi si discutono in sede sanzionatoria».

Dove al massimo si può dare uno scapaccione.

«Per questo stiamo facendo una segnalazione molto articolata al Parlamento. Nel complesso il sistema sanzionatorio è insoddisfacente».

C’era ancora qualcosa che mancava alla restaurazione in corso. Azzerato con la nuova legge elettorale il bipolarismo italiano, ricostituite le condizioni per una grande palude al centro del prossimo parlamento, vi era ancora un muro che vi avrebbe impedito il libero scolo delle acque. Era il muro della "diversità" del berlusconismo, il fattore impediente di ogni cambio, intreccio, pasticcio, compromesso per la legislatura futura.

Che fare? La fortuna ha aiutato i restauratori, senza bisogno di complotti né di cavalli di Troia. Le telefonate dalla cooperativa rossa e il "tifo" di chi si informava sono stati distorti e rimontati in una colossale opa sulla credibilità etico-politica del partito-pilastro della opposizione. Ma il vero obiettivo dell’operazione non era, e non è, questo. Era, ed è, quello di togliere l’ipoteca morale che grava, con insistenza planetaria, sulla anomala destra italiana. Insomma: negare la "diversità" della sinistra per negare la "diversità" del berlusconismo. "Sdoganare" il berlusconismo senza pagare neppure il dazio di una parvenza di revisionismo. Ma soltanto con l’argomento che l’"altro", l’opposizione, i "comunisti" gli sono diventati "uguali". Lo slogan che corre è: "niente più superiorità morale".

E’ un tentativo certo assai curioso ma pericoloso. Curioso perché ammette che l’opposizione possa essere considerata sullo stesso piano del berlusconismo solo quando ne condividesse il livello etico-politico. Tentativo pericoloso, perché fa appello, neppure nascosto, a quel certo immoralismo italiano diffuso, al "così fan tutti", al "sono tutti uguali" che è la giustificazione di ogni rifiuto qualunquista e di ogni astensione politica.

C’è però una cosa che rende difficile il successo di tale insidioso tentativo. L’impasto di vari partiti e zone sociali che si chiama "berlusconismo" non è più solo la questione politica-affari. Il fatto nuovo è che, negli ultimi cinque anni, nella legislatura dominata con 150 parlamentari di maggioranza, la questione morale del berlusconismo è venuta a coincidere, senza residui, con la questione istituzionale. Questa coincidenza l’ha, per così dire, indurito, l’ha pietrificato e l’ha reso irriducibile allo spazio della politica repubblicana dove sono sempre possibili i negoziati e le larghe intese.

Il marchio della legislatura che sta per finire, e del berlusconismo che l’ha padroneggiata, è stato il negazionismo dello Stato costituzionale e delle sue origini (appena ieri al Senato è caduto il tentativo di equiparazione della "repubblica di Salò" allo Stato della liberazione nazionale....). E’ il negazionismo del diritto come regola generale (anche negli ultimi giorni il Senato sarà costretto ad occuparsi di norme processuali personalizzate che disarmano i pubblici ministeri e snaturano la Corte di Cassazione...).

A chiusura di questa legislatura, insomma, il berlusconismo è diventato un’altra cosa. E’ un blocco politico che, senza rinunciare all’originario impasto affaristico, cerca di imporre un altro Stato, con un mutato racconto delle origini; con diversi rapporti costituzionali; con una differente visione dei rapporti internazionali e comunitari e addirittura della pace e della guerra; perfino con un’altra idea della libertà di religione degli italiani.

In queste condizioni il tentativo di "sdoganarlo", per conseguita omogeneità, non può riuscire: neppure se si sollevasse contro l’opposizione una "questione morale" cento volte più grande e, soprattutto, cento volte meno infondata dell’attuale. Non può riuscire perché il berlusconismo non è più una questione di soldi, che ci sono sempre stati, ma è una questione infinitamente più grave e di altra qualità: l’onestà verso la Repubblica e la sua storia.

Oggi che la legislatura sta per finire nel modo che si è detto, la valutazione del comportamento etico della maggioranza e di ciascuno dei suoi componenti non può essere dissociata da quello che per cinque anni hanno fatto contro le istituzioni.

Prendiamo, ancora, la questione dei processi. Non possono essere giudicati moralmente a posto coloro che hanno inventato un letto di Procuste alla rovescia: per adeguare le leggi ai processi in corso e ai loro imputati e non, come accade nel mondo dove civiltà giuridica regna, i processi alle leggi.

Ma se, al di là della sempre scivolosa materia dei processi penali, si andasse a guardare come nella legislatura siano state regolate delicatissime questioni istituzionali, i dubbi morali si fanno più forti e stringenti. E’ possibile che fior di galantuomini abbiano approvato una legge-burla come quella sul conflitto di interessi, quella che - appunto - dovrebbe segnare il confine tra politica e affari? Una legge che certo ha regole meno vincolanti per il presidente del consiglio di quelle che disciplinano il gioco delle tre carte (dal momento che, secondo un primo parere di Authority, il premier è considerato estraneo ai benefici di una legge del suo governo perfino quando su di essa abbia posto la questione di fiducia)? E’ possibile che onesti patrioti abbiamo approvato un progetto di Costituzione che cerca di fare avanzare l’idea di più "nazioni" nella Repubblica; di diritti fondamentali ineguali per regioni ricche e per regioni povere; di più frammentazioni burocratico-territoriali? E, ancora, è possibile che uomini con qualche scrupolo etico-democratico abbiano potuto far passare una legge elettorale che abolisce, senza le preferenze e senza i collegi uninominali, lo storico legame di responsabilità e di rappresentanza tra parlamentari e territorio e che, lacerando la Costituzione, falsifica la base elettorale del Senato (così mettendo a rischio certo la governabilità del Paese)? No, non è possibile: la supremazia del numero è stata adoperata per scopi diversi da quelle virtù repubblicane. Non c’è stata onestà, né lealtà nazionale, né scrupoli democratici nel concepire e approvare leggi così dirompenti per il comune senso delle istituzioni, per le stesse tradizioni popolari poste alla loro base.

Ma all’azione si è congiunta, forse più grave, l’omissione. Quando quella stessa enorme maggioranza parlamentare, pur capace di tali rivolgimenti, ha preferito invece far marcire, fra gli scandali, contro la norma costituzionale sulla tutela del risparmio, le regole di governo dei mercati finanziari, delle società, delle banche. E alla fine, quando è diventata insopportabile la situazione, ha imposto, per muoversi, un’ultima mancia per allentare le norme sul falso in bilancio...

E’ in tutto questo che la questione istituzionale ha coinciso rovinosamente con la questione morale. E’ tutto questo che oggi rende irreparabile la "diversità" del berlusconismo.

Dice un grande giurista tedesco che la essenza dello Stato costituzionale è nel "principio di speranza". A chi affidare allora la speranza che tanto disordine sia corretto se non a chi l’ha combattuto giorno dopo giorno per cinque lunghi anni, dimostrando così nei fatti di non essere come gli altri, di essere anzi simmetricamente "diverso" da essi? La speranza dell’alternanza alle prossime elezioni è dunque soprattutto la speranza di un nuovo ordine che ricominci con l’onestà repubblicana verso le istituzioni.

Certo: non è questione di superiorità morale. L’opposizione che ha contrastato, per una intera legislatura, e ancora dovrà contrastare in queste ultime settimane, norme ripugnanti per l’etica pubblica, ha fatto solo il suo dovere civico. Ma ha mantenuto viva, con questo quotidiano impegno che ha coinvolto partiti, associazioni, piazze e parlamento, la più grande delle questioni morali: la questione della democrazia. La bussola infallibile da tenere d’occhio quan

La rivincita non c'è stata. Berlusconi ha riperso le elezioni, in maniera ancor più netta di quanto sia avvenuto lo scorso 9 aprile.Un paese un po' stanco non l'ha seguito nella sua crociata «contro l'invadenza della sinistra». In molti hanno disertato i seggi elettorali: a sinistra convinti che con il voto politico il più era ormai fatto, a destra pensando che nessun risultato amministrativo sarebbe suonato comeunannuncio di sfratto per Prodi.Valutazioni entrambe sbagliate, ma comprensibili. Anche perché nonè stata una campagna elettorale vibrante: sugli autobus e nei bar l'attesa era per i mondiali di calcio e per la sorte di Juve eMilan, le preoccupazioni per i tagli di bilancio che il rosso dei conti pubblici annuncia. Privato delle pubbliche passioni il Cavaliere ne è uscito dimezzato, anche se conferma che il centrodestra non può prescindere da lui. Il risultato è coerente, da nord a sud: il centrosinistra guadagna ovunque e recupera anche dove perde. Gli stenti milanesi della Moratti e la vittoria contenuta di Cuffaro in Sicilia valgono più dello scontato trionfo dell'Unione a Torino e Roma. Mentre Napoli, su cui il centrodestra aveva puntato tutto, conferma la Jervolino nonostante le disillusioni del suo elettorato.

Ora Berlusconi e i suoi alleati punteranno tutto sul referendum costituzionale: per salvare la pelle, visto che una nuova sconfitta sulla ragione sociale leghista della devolution avrebbe conseguenze esplosive sulla tenuta di una coalizione già profondamente divisa. Ed è proprio questo l'obiettivo che il centrosinistra dovrebbe ora perseguire.Non solo per ragioni tattiche: vincere il referendum significa salvare il paese da una controriforma devastante. Ma il voto di ieri consegna al centrosinistra una grande responsabilità, dà un mandato che pretende rapido rispetto. Il governo che esce rafforzato dalle elezioni amministrative a questo punto non ha più alibi per dare un segnale di discontinuità rispetto al berlusconismo: dalle scelte internazionali (Iraq, Medio oriente e Afghanistan) a quelle economiche e sociali (risorse finanziarie, lavoro e welfare). Gli elettori hanno chiesto per la seconda volta un chiaro cambio di direzione: essere l'opposto di ciò che ha rappresentato il centrodestra, fare il contrario di ciò che il precedente governo ha fatto.

Care amiche, cari amici,

il 25 aprile che festeggiamo nelle piazze del nostro Paese ci rammenta, a 61 anni di distanza, il prezzo e il valore della libertà. Ci consegna il compito di mantenere viva la memoria dei fatti nella loro verità e delle migliaia di persone che, combattendo la buona battaglia, hanno aperto un’epoca nuova della nostra storia.

Tra le città liberate il 25 aprile 1945 c’è anche Milano, dove io pure sarò domani a ricordare la nostra rinascita di popolo libero e unito. E’ nell’unità nazionale che festeggiamo, proprio come allora, il bene supremo della democrazia. Per questo occorre una memoria che unisca e non divida. Una memoria che guarda al futuro, non alle recriminazioni e agli odii del passato.

E’ questo il significato di una festa che, come tante volte ci ha ricordato il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, scandisce e scandirà per sempre la vita della Repubblica nata dalla lotta di Resistenza. Quel 25 aprile del 1945 le numerose forze partigiane e comuni che variamente operavano sul territorio nazionale si unirono nell’abbraccio forte della vittoria, dopo la battaglia congiunta e sanguinosa contro l’occupazione nazista.

In quella lotta decisivo fu il contributo delle truppe degli eserciti alleati con l’apporto di alcune divisioni dell’esercito italiano, ai quali dobbiamo e vogliamo rendere onore e merito. Ma in quella lotta decisivo fu anche il contributo di popolo: delle donne e degli uomini che con coraggio, con eroismo, con generosità seppero mettere al primo posto il bene della propria Patria, la dignità dell’uomo, i propri ideali di libertà e giustizia. In loro c’era la speranza e la volontà di vivere essi stessi e di far vivere i propri figli in un Paese libero e giusto.

E’ ricordando quelle donne e quegli uomini che oggi penso ai nostri giovani. Ai quali rivolgo, con affetto, una raccomandazione. Non lasciatevi portare via la storia. Essa vi appartiene. Non lasciate che il sacrificio di chi ha vissuto prima di voi pensando anche a voi, venga dimenticato. Ricordiamo insieme i momenti che hanno fatto grande il nostro Paese; ricordiamo chi ha saputo sacrificare se stesso per farci vivere in questa Italia, uniti e liberi. Abituatevi a pensare all’Italia come alla Patria, leggete la costituzione repubblicana nella sua forza e nella sua indiscutibile attualità, scoprite il valore delle istituzioni democratiche che tutelano i nostri doveri e i nostri diritti, la libertà nostra e quella degli altri, anche di coloro che a quella lotta di liberazione non presero parte.

Ma questo 25 aprile rammenta a tutti noi anche l’urgenza di difendere la nostra Costituzione. La riforma costituzionale che la destra ha portato a conclusione senza un confronto parlamentare stravolge il senso del lavoro della Costituente del 1947 che seppe far prevalere l’interesse generale su quello delle parti e il bene di tutti sulle divisioni ideologiche. Per questo è importante ricordare in questa giornata che la partecipazione popolare al prossimo referendum sia la più ampia possibile e che il no a questa sbagliata riforma costituzionale arrivi da ogni parte d’Italia.

La coalizione di centrosinistra non ce l'ha fatta. Prodi non ha vinto, Berlusconi non ha vinto, si va verso un pareggio, aggravato dal pessimo meccanismo della legge elettorale. Si apre uno scenario incerto, ma sicuramente politicamente negativo. Siamo davanti a un voto molto partecipato e riflettuto sul quale ha pesato l'aggressività di Berlusconi, giocando sulle viscere più torbide del paese, e spuntandola per meno di poco quando pareva aver già perduto. Non stavano più con lui infatti né la grande stampa né la Confindustria, né le banche. Stava con lui soltanto la chiesa di Ratzinger. E stava il portafoglio di una proprietà diffusa, alta media e bassa che egli aveva sfacciatamente protetto e che si è difesa a denti stretti. Il pareggio non è solo nei numeri: all'interno delle coalizioni non è avvenuto nessun grande spostamento. Berlusconi resta di gran lunga il leader più forte del centrodestra. L'agitazione dei Follini e Casini non gli ha recato gran danno, anzi, in conclusione lo ha favorito. Nella coalizione di centrosinistra il solo successo evidente è quello di Rifondazione, ma in un quadro generale che non ne moltiplica la valenza. La Rosa nel pugno, anche se puntava su un'affermazione maggiore, dimostra - ed è meglio che niente - che neppure in Italia si può andare oltre un certo limite nell'ossequio al Vaticano. E questo è tutto.

Il problema più grave, e del quale sarebbe folle tenere poco conto, è che a differenza di solo venti anni fa, su cento italiani che incontri per strada, in autobus e in treno, quarantotto votano una destra illimitata che non si da confini neanche nei confronti del fascismo. Questo non accade in nessun altro paese dell'occidente europeo. Questa destra si è radicata nella cosiddetta società civile. Anche per la flebilissima condanna che ha incontrato nelle istituzioni, a cominciare dal Quirinale che non ha difeso con forza quei principi fondanti della Repubblica dei quali doveva essere garante. Neanche l'opposizione ha capito che cosa era in gioco quando ha scelto la bonarietà: che Berlusconi andasse oltre ogni limite di decenza non comportava che non si dovesse condannarne in termini più secchi l'oltranzismo e il disprezzo per qualsiasi principio di una democrazia non formale. C'è in ogni paese, come in ciascuno di noi, un fondo di impaurito e pauroso egoismo che non va accettato - una democrazia non è tenuta a rappresentare qualsiasi cosa, la Costituzione non è un optional. E anche chi ha seminato, supponendosi più a sinistra, l'antipolitica, oggi ci deve riflettere. Non è detto che ci sia molto tempo. Un paese che è profondamente diviso non, come si è andati cianciando, dalle ideologie, ma da contraddizioni sociali di fondo, non può darsi una maggioranza che abbia, non dico un abbastanza ampio consenso, ma consenta uno spazio di mediazione. Nel nostro paese è così ogni volta che la destra si consolida: essa porta in sé un connotato eversivo. Quale che sia il risultato che ci aspetta nelle prossimo ore – stiamo scrivendo ancora sull'orlo dell'incertezza - l'Italia è ammalata. Faremo di tutto perché non lo si dimentichi.

E’stato coraggioso Paolo Mieli a scrivere l’editoriale, pubblicato ieri sul Corriere della Sera, nel quale esprime l’appoggio del suo giornale all’Unione. In inglese - o più precisamente in “americano” - si dice endorsement, che vuol dire approvazione, ed è un passaggio importante - negli Stati Uniti - di tutte le campagne elettorali. C’è un momento, cioè - in genere molto atteso dall’opinione pubblica - nel quale i grandi giornali (Il New York Times, il Washington Post, il Los Angeles Times, il Boston Globe eccetera) annunciano agli elettori quale sarà il candidato che loro sosterranno in vista delle elezioni. Nelle democrazie anglosassoni il “rito” dell’ endorsement è un passaggio importante, perché garantisce “trasparenza” nei rapporti tra stampa e politica e aiuta i lettori a capire le questioni essenziali della partita elettorale.

Da noi il rapporto tra giornali e politica non è mai stato molto trasparente. Per un milione di motivi. Forse il più chiaro ed evidente è un motivo storico: nel secolo scorso il nostro paese ha vissuto sotto due regimi, uno illiberale (il fascismo) che aveva del tutto abolito i giornali indipendenti, e uno liberale (nel dopoguerra) dominato dal potere democristiano e dal cosiddetto fattore “K” (cioè l’impossibilità dell’opposizione, comunista, di accedere al governo). In questo secondo, lungo, periodo, cioè il cinquantennio della prima repubblica, la grande stampa - tutta la grande stampa - è sempre stata subalterna ai partiti governativi e in particolare alla Dc: in qualche modo ne è stata l’emanazione. Questo non ha permesso all’Italia di avere un giornalismo indipendente forte e sviluppato come quello di altri paesi occidentali.

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Paolo Mieli ha scritto un editoriale molto lucido, nel quale ha chiarito il motivo per il quale il Corriere sceglie Prodi. Perché il governo uscente, e i gruppi dirigenti espressi dal centro destra - e specialmente dal partito di maggioranza relativa, e cioè Forza Italia - non sono in grado di governare il paese, e cioè di farsi carico di un qualche interesse generale. E’ questa la ragione del loro fallimento. Naturalmente si può discutere finché si vuole sull’interesse generale, ed è assolutamente evidente che l’idea di interesse generale che può avere qualunque lettore di questo giornale è assai diversa dall’idea di Paolo Mieli, o dei lettori del Corriere, o dei gruppi intellettuali, politici, economici, che sono vicini al direttore del Corriere della Sera. Il fatto è che Paolo Mieli, nel suo editoriale, sostiene che il governo di centrodestra non ha saputo porsi al servizio di nessun tipo di interesse generale, ma ha lavorato solo per l’interesse specialissimo del premier e dei gruppi che fanno parte del suo sistema economico, finanziario, politico. Ha privatizzato lo Stato.

A me è sembrato che più che un endorsement verso Prodi, Paolo Mieli abbia espresso la più netta e irreversibile sfiducia al premier uscente. Tanto che - rivolgendosi agli elettori di destra - li ha consigliati di votare eventualmente per Casini, o per An, o per chi vogliono, ma mai e poi mai per Forza Italia.

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Paolo Mieli, scrivendo l’editoriale, ha dimostrato anche quanto sia insidiosa l’ipoteca che una parte ampia e molto forte delle classi dominanti italiane (la “grande borghesia”, nel vecchio gergo, i “poteri forti”, se vogliamo usare un linguaggio più moderno) pone sul futuro governo di centrosinistra. Quel pezzo consistente di borghesia, che dopo un decennio si è smarcata nettamente da Berlusconi e ha deciso di non seguirlo più, ci dice: «noi investiamo sul centrosinistra, noi aiuteremo il centrosinistra a vincere, ma tutto ciò non sarà gratis».

Già, non sarà gratis. Una alleanza politica e sociale impone dei prezzi. E’ giusto. Purché sia chiaro che i prezzi li pagano tutti - il centro, la sinistra, la borghesia, i ceti popolari - e che il punto di equilibrio politico che va trovato non può essere una semplice riproposizione - più colta ed educata - delle vecchie politiche della destra. Per capirci: il futuro governo di centrosinistra - usiamo uno slogan - non può essere un governo “Prodi- Montezemolo”, né può essere una alleanza nella quale viene delegato alla sinistra il compito di occuparsi del “teatro” (cioè le regole del gioco, i diritti in Tv, le par condicio e quelle cose lì, le varie norme e limitazioni o esaltazioni del ceto politico) e ai rappresentanti dei “poteri veri” resta il compito di decidere le politiche economiche e statuali. Questo - e Mieli lo sa - non sta nelle cose. Per un motivo, in fondo, semplicissimo: che dentro la coalizione, stavolta, avranno un peso consistente le forze della sinistra radicale guidate da Rifondazione.

ROMA, 26 gennaio – Ora è ufficialmente impossibile evitare il viso confidenziale, sorridente e lisciato dal chirurgo di Silvio Berlusconi. Negli ultimi tempi è apparso in televisione quasi ogni sera, parlando di sua madre, delle sue idee sulla morale, dei suoi nemici, del suo giardino (smisurato: 100 ettari, come sottolinea), e anche di Erasmo.

”Erasmo diceva: Le migliori idee non vengono dalla ragione, ma da una lucida follia visionaria” ha dichiarato Berlusconi, primo ministro italiano, nel corso di un’intervista di un’ora e mezza trasmessa questa settimana da una delle tre reti televisive di sua proprietà.

Visionario o tendente alla follia, Berlusconi si è lanciato con l’abituale energia in un inconsueto blitz sui mezzi di comunicazione: una prolungata televendita rivolta agli elettori italiani, che i sondaggi mostrano stanchi di lui dopo cinque anni di governo. “Ciclone Silvio” ha strombazzato sulla copertina dell’ultimo numero il settimanale Panorama, pure di sua proprietà.

A poco più di due mesi dalle elezioni nazionali, questo teatro politico rappresenta, secondo molti, la lotta dell’uomo più ricco d’Italia, presidente del consiglio in carica per il periodo più lungo, per la propria sopravvivenza politica. Il copione prevede l’attacco.

Vigoroso sessantanovenne, dall’aspetto più giovane e con più capelli di quando è entrato in carica, grazie alla chirurgia estetica che ha discusso in pubblico, ha iniziato due settimane fa accusando il principale partito dell’opposizione di centrosinistra di affari poco trasparenti. Poi Berlusconi, più volte processato per corruzione ma mai arrestato, ha fatto una visita ai magistrati a questo proposito.

Immediatamente coi suoi alleati del centro destra – uno dei quali ha definito la visita in procura “di cattivo gusto” –sono ripresi i periodici battibecchi. Questa settimana Berlusconi si è impegnato in un altro bisticcio, stavolta col presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sul desiderio da parte di Berlusconi di prolungare la durata del parlamento di due settimane oltre la data del 29 gennaio originariamente fissata da Ciampi per lo scioglimento delle camere. “Solo contro tutti” ha dichiarato il primo ministro settimana scorsa.

La questione è se, spingendo via tutti gli altri, Berlusconi possa guadagnarsi l’ammirazione – e i voti – degli italiani alle elezioni previste per il 9 aprile.

”Sta conducendo una campagna elettorale che dimostra leadership” dice Carlo Pelanda, professore di relazioni internazionali e collaboratore di due quotidiani conservatori italiani. “Se si analizzano le tendenze elettorali, non è vero che la sinistra stia crescendo. È vero che alcuni elettori di centro destra hanno perso un po’ di interesse per Forza Italia, e Berlusconi deve sollecitare l’entusiasmo della gente che gli ha dato il voto nel 2001”.

Almeno, anche i suoi molti nemici concedono che Berlusconi, a capo del partito Forza Italia, sta dominando il dibattito, e insieme a televisione, radio, giornali e riviste ci sono pure i manifesti per le strade. La sua accusa che il principale partito di opposizione, i Democratici di Sinistra, abbiano avuto un ruolo in una oscura acquisizione, sembra essere riuscito a mettere l’opposizione, non certo famosa per la sua unità anche nei tempi migliori, in ulteriore disagio.

Secondo alcuni esperti, questa offensiva potrebbe essere il colpo da maestro di un esperto tattico, che rivela speranze di rielezione migliori di quanto non mostrino i sondaggi. “È un uomo d’affari troppo realista: se avvertisse davvero che la situazione è disperata, o irrecuperabile, probabilmente cercherebbe una strategia d’uscita” dice Franco Pavoncello, analista politico alla John Cabot University di Roma. “Agire così è significativo, secondo me, del fatto che sente di poter probabilmente modificare la situazione”.

Nicola Piepoli, presidente dell’Istituto Piepoli, specializzato in sondaggi, dice che anche lui non considera Berlusconi fuori gara, e crede che stia riuscendo a infondere energia nella base dei voti più conservatori. Però, aggiunge, i dati dei sondaggi non mostrano ancora uno spostamento a suo favore. “Aveva il 46% prima, e ha il 46% adesso” dice Piepoli, sottolineando come Berlusconi affermi di star superando la differenza rispetto all coalizione di centrosinistra guidata dall’ex primo ministro Romano Prodi.

In un paese tradizionalmente dominato dai partiti, e non dalle singole personalità, la campagna mediatica in stile americano di Berlusconi è tanto nuova quanto ubiqua. I critici sostengono che sta usando in modo scorretto la sua posizioni di capo del governo, che controlla la televisione pubblica, e di magnate della comunicazione che controlla le proprie reti. Secondo uno studio comparso sui giornali italiani, ha avuto più di tre ore di tempo televisivo in due settimane, mentre Prodi appariva per soli otto minuti.

Il tono della campagna è apparso chiaro sin dall’inizio, quando Berlusconi è comparso in un popolare talk show politico, attaccando a testa bassa il suo elemento di maggior debolezza politica: l’idea, diffusa anche fra molti alleati, di aver usato il governo per tener lontani i magistrati. Nel corso della trasmissione, è riuscito a ricordare agli italiani che alcuni degli scandali principali sono accaduti all’epoca dei governi di centrosinistra. Ma è andato anche oltre: si è definito un esempio vivente di “come politica e affari devono rimanere separati”.

”La politica” ha dichiarato di fronte a un interlocutore esterrefatto, “non mi ha mai aiutato negli affari”. Per attenuare i colpi sferrati nel primo spettacolo, più tardi è comparso in un programma dedicato al calcio (è proprietario non solo della rete che lo trasmetteva, ma anche della squadra di calcio del Milan). Mentre la sinistra annaspava per rispondere all’attacco, Berlusconi diventava una presenza quasi quotidiana per gli spettatori televisivi, dibattendo col capo dei Comunisti, Fausto Bertinotti, e con Francesco Rutelli, che guida il partito di centro sinistra della Margherita.

Lunedì, ha risposto alla più gentile delle interviste possibili da parte di uno dei più popolari personaggi della televisione italiana, Paolo Bonolis, mostrando immagini della famiglia, e di sé insieme a tre presidenti americani. “Ho fatto visita a Bush 20 volte” ha detto, mettendo se stesso – e così l’Italia – al centro del palcoscenico mondiale.

La sua battaglia col Presidente Ciampi sulla data di scioglimento delle camere è stata anche determinata, sostengono i critici, dal desiderio di rimanere visibile. Anche se ha sostenuto che il parlamento aveva lavori fondamentali da concludere prima delle elezioni, la campagna elettorale comincerà ufficialmente al momento in cui le camere vengono sciolte, e per legge i tempi televisivi saranno distribuiti equamente fra i due schieramenti sino alla data delle elezioni.

Prodi ha dichiarato che la battaglia di Berlusconi con Ciampi mostra come il primo ministro abbia bisogno di tempo televisivo extra per ribaltare “il giudizio degli elettori” su di lui. “Non vogliono regole” ha dichiarato lunedì riferendosi a Berlusconi e ai suoi sostenitori. “Vogliono un Far West dove l’unica cosa che conta è la possibilità di spendere denaro e comparire in televisione”. Berlusconi ha vinto la sua battaglia: Ciampi ha consentito di sciogliere le camere l’11 febbraio.

here English version

LE ELEZIONI amministrative di oggi e di domani sono un’altra cosa dalle elezioni politiche di un mese e mezzo fa. Non rappresentano una conferma o una rivincita di quel risultato. Così pure il referendum costituzionale del 25 giugno: non è in gioco il governo ma una proposta di riforma da alcuni considerata mirabile e da altri esecrata.

Così sostengono Prodi e i partiti dell’Ulivo.

Berlusconi (ma non lui soltanto, anche Bossi, Fini e Casini) sostengono stentoreamente l’esatto contrario: il voto di oggi (venti milioni di italiani alle urne) e quello referendario del 25 giugno serviranno in primo luogo a stabilire da che parte sta la vera maggioranza, il paese reale. Serviranno ad uscire dall’incertezza su chi deve comandare. Perciò tutti alle urne e se la spallata sarà confermata dai voti, allora tutti in piazza, tutti a Roma per imporre all’imbalsamato Napolitano lo scioglimento delle Camere e il ritorno al potere dell’Uomo della Provvidenza.

Del resto lui, quell’Uomo, non ha forse scritto una lettera personale a tutti i capi di Stato e di governo d’Europa per informarli che le elezioni del 9 aprile le ha vinte lui e che ritornerà al potere entro poche settimane dopo che alcuni controlli burocratici saranno stati adempiuti? Un fatto simile non si era mai verificato. Non era mai accaduto che un candidato sconfitto si rivolgesse alle cancellerie straniere per comunicare che lui è ancora lì, presente e vittorioso.

L’altro ieri Giuliano Ferrara nella sua ultima trasmissione "Otto e mezzo", ha chiesto a Massimo D’Alema con una buona dose di malizia se sarebbe stato permesso al centrodestra di organizzare pacifiche manifestazioni di piazza.

Ovviamente D’Alema ha risposto sì. «Vogliamo metterlo per iscritto?» ha proposto Ferrara mellifluo, «un patto tra gentiluomini, non si sa mai...».

Un patto scritto tra un vicepresidente del Consiglio e un conduttore televisivo de La7? Veramente il comune senso del pudore ha fatto fagotto. Del resto nelle stesse ore Berlusconi (con Fini e Casini che si spellavano le mani con applausi entusiastici) apostrofava il suo pubblico a Milano e subito dopo a Roma adottando la retorica mussoliniana: «Siete pieni di rabbia contro questo governo?». «Sì» urlava la platea. «Siete favorevoli a non trattare su niente con quella gente?». «Sì» rispondeva il coro. «Siete pronti a muovervi senza paura? Siete pronti a venire tutti a Roma al mio primo richiamo?». «Sì, a Roma». «Non ho sentito bene, ripetete ancora». «Sì, a Roma, senza paura».

Nel frattempo alcune camionette gremite di giovanotti in camicia nera, stendardi con fiamma tricolore e fasci littori, percorrevano le vie di Roma cantando inni e minacciando vendette.

Questo è il clima. Forse sarebbe utile rasserenare l’atmosfera, distinguere i diversi appuntamenti elettorali, avviare un riconoscimento reciproco dei diversi ruoli costituzionali e politici, ma per arrivare a questo risultato bisogna essere in due come nei matrimoni.

Berlusconi ha preso un’altra strada. I suoi alleati lo seguono senza alcun distinguo. In questa situazione il rasserenamento è una favola.

Sandro Viola, in un gustoso articolo di qualche giorno fa su queste pagine, prevedeva che i giornalisti italiani, avvezzi da anni alle sciabolate antiberlusconiane dovessero ora morire di noia dopo l’uscita di scena del Cavaliere.

Purtroppo non potremo goderci questa noia riposante perché il nostro uomo è sempre lì, più vociante e aggressivo che mai. Più demagogo ed eversivo di prima. Il finale del Caimano ripreso alla lettera. Altro che annoiarsi, caro Sandro...

* * *

Avevo pregato un mio amico imprenditore di raccontarmi il «matinée» della Confindustria dell’altro giorno nella grande sala dell’Auditorium di via dell’Architettura gremita in ogni ordine di posti. Secondo il suo resoconto (del resto confermato da tutti i giornali) il momento di maggior rilievo è stato il lunghissimo applauso, anzi la «standing ovation» tributata a Gianni Letta. Più lungo e più intenso del battimano a Montezemolo. Più che al nome di Ciampi. Più di quello alla memoria di Biagi e della intoccabile legge ribattezzata con il suo nome.

Il mio amico mi ha proposto alcune e diverse interpretazioni di quell’applauso. 1. Hanno applaudito Letta per la sua candidatura al Quirinale, poi ritirata in corso d’opera. Quasi un applauso polemico nei confronti di Napolitano. 2. Un applauso al "factotum" di Silvio Berlusconi indirizzato dunque a quest’ultimo per interposta persona. 3. Un applauso a Letta mediatore per eccellenza, contro la linea dura e avventurosa che Berlusconi sta portando avanti e che non si sa dove ci porterà.

Tu - gli ho chiesto - quale interpretazione dai? Mi ha risposto «Le prime due, la terza è fuori discussione». E credo che le cose stiano esattamente così. Ma se stanno così la questione merita attenta riflessione perché quei duemilasettecento plaudenti, anzi osannanti, non sono persone qualunque. Sono i delegati delle associazioni territoriali e di categoria degli industriali di tutta Italia; imprenditori piccoli, medi, grandi; del Nord, del Centro, del Sud; gente che sa leggere i bilanci, conosce il mercato nazionale e quello internazionale; gente che viaggia, esporta, importa, conosce i congegni del credito e delle Borse, lavora e dà lavoro, discute con la pubblica amministrazione, paga le tasse, i contributi, assume e licenzia lavoratori.

Insomma rappresenta l’Italia produttiva. Il «business». Il fatturato. Infine la borghesia, quale che sia il significato che si voglia dare a questa parola.

La borghesia produttiva.

Ebbene, questa borghesia sa le seguenti cose:

1. Il governo per il quale Letta è stato il grande e ascoltato consigliere, ricevette dal governo precedente una pubblica finanza con un deficit di 3.1 sul Pil. Leggermente al di sopra dei parametri di Maastricht; nei mesi pre-elettorali del 2001 aveva un po’ allargato i cordoni della spesa. Dopo cinque anni d’un governo munito d’una schiacciante maggioranza parlamentare il deficit nel 2006 è certificato dalle autorità europee a 4.2; la Ragioneria dello Stato lo posiziona a 4.4; il nuovo ministro dell’Economia teme che arriverà ancora più in su (4.8?) quando saranno stimati con esattezza i disavanzi delle Ferrovie, delle Poste e dell’Anas.

2. Nel 2001 l’avanzo primario del bilancio ammontava a 4.5, più di 50 miliardi di euro in cifra assoluta. Dopo cinque anni si colloca mezzo punto sotto allo zero.

3. Il debito pubblico negli ultimi due esercizi è aumentato di oltre 2 punti; si prevede un aumento ulteriore nel 2007.

La conseguenza è che le agenzie di rating minacciano di declassarlo. La Banca centrale europea ci chiede una manovra bis di 7 miliardi entro giugno per rassicurare i mercati e ci fa notare che il debito pubblico espresso in euro riguarda l’intera Eurolandia.

4. La spesa pubblica corrente è aumentata nel quinquennio di circa 3 punti di Pil.

5. Le infrastrutture, cavallo di battaglia del Cavaliere, sono ferme al palo per mancanza di fondi e la loro insufficienza è strettamente inerente alla declinante competitività del sistema imprenditoriale.

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Mi limito a ricordare questi cinque indiscutibili dati di fatto come consuntivo dei cinque anni del trascorso governo, ma dovrei ancora aggiungere le mancate liberalizzazioni dei mercati, il mancato snellimento dei processi civili e penali ed anzi il loro ulteriore appesantimento, il fallimento della politica dell’immigrazione, nonché il completo fallimento della riforma fiscale a pioggia attraverso la riduzione priva di risultati delle aliquote Irpef.

Sulla base di questo consuntivo si vorrebbe capire quali siano le ragioni di nostalgia del passato governo da parte dell’Italia produttiva, borghese, moderata, pragmatica.

Esiste una questione settentrionale? Sì, esiste. È nata dopo il voto di due mesi fa? Non direi proprio, ci vogliono anni se non decenni per far nascere problemi di quella portata. Questa questione è stata affrontata negli ultimi cinque anni? Non sembrerebbe. Però avete nostalgia del Cavaliere.

Poiché manca ogni spiegazione logica, ogni rapporto causale, ogni riscontro economico che possa spiegare quella nostalgia, mentre tutti i dati a consuntivo dovrebbero suscitare un senso di liberazione; allora bisogna cercarla, quella spiegazione, in qualche cosa di irrazionale, in un sentimento, in una ideologia, ma quale?

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Il governo di centrodestra non è stato né liberale né liberista, su questo punto sono tutti d’accordo a cominciare da Tremonti. Ha abbassato la pressione fiscale dello 0.7 per cento in cinque anni. Cioè nulla.

Però non ha regolato il mercato. Ha condonato ogni sorta di elusione o di evasione fiscale e contributiva. Ha vellicato l’antiparlamentarismo e l’antipolitica, ma poi, d’un colpo solo, ha varato una legge elettorale che riportava gli apparati di partito al vertice del sistema. Avete nostalgia di tutto questo?

Oppure vi piace il Berlusconi di oggi (che poi non è diverso da quello di sempre, con la differenza per lui non piccola di non essere più a Palazzo Chigi)? Vi piace il Berlusconi eversivo che mima una sorta di marcia su Roma per riconquistare il Palazzo? Di questo avete voglia? Sembrerebbe impossibile che i rappresentanti della borghesia produttiva, moderata, pragmatica, siano disposti a seguire l’avventurismo d’un demagogo che vuole tornare in sella subito. Rifare subito le elezioni.

Subito. Vuol dire sospendere per almeno altri sei mesi ogni possibilità di governare. Niente politica economica, Camere di nuovo latitanti, congelamento dell’Italia all’interno dell’Unione europea, rating sul debito ai minimi termini.

Sapete bene che gli effetti di quell’avventura sarebbero questi. Ed è questo che volete?

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Post Scriptum. I voti della Val d’Aosta e gli italiani all’estero non entrano nel computo per l’attribuzione del premio di maggioranza, ma fanno parte dei voti di schieramento politico. Ne consegue che la maggioranza di centrosinistra non è di 24 mila voti come finora si è detto ma di 130 mila.

Non saranno moltissimi ma nemmeno tanto pochi.

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