In un passo della Storia d´Italia dal 1871 al 1915 Croce - a commento delle clamorose vicende a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 dell´Ottocento legate allo scandalo della Banca Romana e ai suoi molteplici sviluppi politici e giudiziari che avevano profondamente turbato l´opinione pubblica, rivelando una vasta trama corruttiva la quale, una volta messo in luce il coinvolgimento di ambienti finanziari, uomini di governo, parlamentari, funzionari, giornalisti, si era conclusa con la riforma del disordinato sistema bancario grazie alla creazione della Banca d´Italia nel 1893 - scriveva quanto segue. Che i fenomeni corruttivi sono «cose di tutti i tempi e di tutti i paesi», che «in certi tempi e in certi paesi si addensano e scoppiano in modo grave», e che «il male vero si ha» quando essi «non danno luogo alla reazione della coscienza onesta, e al castigo e alla correzione». Croce riteneva che lo scandalo romano si fosse chiuso infine positivamente con la riforma bancaria, senza però mostrare sensibilità per il fatto che la magistratura, soggiacendo alle pressioni politiche, avesse ridotto l´opera della giustizia a un colabrodo. Il che aveva invece ben colto, proprio nel corso di quegli eventi, Giolitti, trascinato anch´egli nel ciclone. Il quale in un lettera rivolta al re Umberto I usò parole di amara lucidità, che sembrano davvero valere oggi come ieri, e che avrebbero potuto e dovuto essere riscritte pressoché ad ogni tornata degli scandali che hanno segnato la storia d´Italia: «L´assolutoria scandalosa di ladri di milioni ha fatto pur troppo una triste reputazione al nostro paese, e ha dimostrato alle classi povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i grossi delinquenti. Ora si aggiungerà la prova che i grossi delinquenti in Italia, oltre ad essere assolti, possono con i milioni rubati far processare coloro che li avevano scoperti, denunciati e messi in carcere». Dal canto suo Cavallotti con la Lettera agli onesti di tutti i partiti del giugno 1895, denunciando quella che definiva l´apertura di una vera e propria "questione morale", apriva il primo capitolo di un libro destinato a non chiudersi più. Non poteva egli allora immaginare con il suo appello al fascio degli onesti di essere il precursore di un altro grande bardo della questione morale ovvero di Berlinguer, il quale quasi un secolo dopo, reagendo agli inizi degli anni ‘80 a quelle ondate devastanti e maleodoranti costituite dall´"affare Sindona", dalla bancarotta dei Caltagirone, dalla faccenda dell´Italcasse, dalle truffe dei petrolieri, dal bubbone della P2, avrebbe preso a invocare il governo degli "uomini capaci e onesti dei vari partiti e anche al di fuori di essi".
Ora a dichiarare che ci troviamo di fronte per l´ennesima volta alla questione morale è in prima linea il Presidente della Camera. Ciò che sta alle spalle di questa ultima denuncia è la fitta serie di scandali aventi per oggetto negli ultimi anni, per nominare solo le punte dell´iceberg, le vicende della Cirio, della Parmalat, del gruppo Previti, degli assalti alle banche da parte della compagnia dei "furbetti" con relative complicità in Banca d´Italia, delle società di calcio, della Rai, per arrivare alla tragicommedia degli ultimi Savoia. Tutto ciò avvenuto dopo i grandi atti di corruzione che Tangentopoli aveva portato alla luce: quella Tangentopoli che aveva rotto la tradizionale subalternità della maggior parte della magistratura al mondo dei mali affari, aveva fatto sperare in un profondo risanamento il quale è risultato nulla più se non una breve tregua prima che, dissipatasi l´illusione e superata la paura degli affaristi nel favorevole clima politico del centrodestra al governo, il fiume melmoso riprendesse il suo corso. Unico elemento controcorrente, bisogna dire, è stato il dato di grande significato che i giudici non hanno piegato la schiena, affrontando una lotta frontale con i potenti pronti sempre a seminare la corruzione e a pescare nel torbido.
Dunque, la "questione morale" si presenta come il filo rosso di un´irrisolta questione nazionale. Le scene del teatro cambiano con lo scorrere del tempo, si aggiornano, ma lo sfondo, la sostanza è sempre la stessa. È l´intreccio tra affari e politica, tra dilagante mancanza del senso della legalità e disprezzo dell´etica pubblica, tra l´inesausta e patologica avidità di danaro comunque acquisito e l´uso di qualunque mezzo per ottenerlo. Ma alle spalle di tutto ciò sta, proprio come affermava Giolitti, la convinzione dei delinquenti di poter contare su una diffusa rete di complicità, di essere in grado di far valere gli opportuni ricatti in forza di grandi complicità e chiamate di correo, di riuscire a sfuggire alle giuste pene o comunque, quando inevitabile, di sottostare a pene modeste, lanciando il perverso messaggio che esiste una giustizia per i ricchi e una per i poveri. Così stando le cose, si vede bene che la questione morale è nella sua essenza una questione politica, che l´appello agli onesti è tanto necessario quanto insufficiente, che la piaga della corruzione la si può combattere unicamente per mezzo delle leggi, che le leggi non bastano se non vengono applicate con la forza capace di costituire davvero un deterrente.
Il rinvigorirsi dell´etica privata e pubblica non sarà mai perseguibile senza gli esempi di giustizia che danno credibilità ai buoni propositi. E per questo ci pare di dover dire, in relazione ai progetti di amnistia, che un´amnistia a larghe intese che comprendesse anche i reati di corruzione, di saccheggio delle risorse comuni, rappresenterebbe un messaggio ulteriormente inquinante. Ci pensi il nuovo Guardasigilli, e ci pensi con lui la nuova maggioranza di governo.
Mancanza di chiarezza
Luciano Gallino - la Repubblica, 8 dicembre 2006
Quasi certamente non saremmo qui a discuterne se l´evento non si fosse verificato a Mirafiori, luogo simbolo del movimento sindacale. Ma le voci di dissenso che in modo civile, benché non per questo meno netto, gli operai hanno levato ieri nei confronti dei "loro" segretari generali Angeletti, Bonanni ed Epifani, sono risuonate precisamente in quel luogo, dove le tre confederazioni hanno gli iscritti su cui possono maggiormente contare. Dunque è bene parlarne.
E a parte le contestazioni verbali, che possono essere dettate a caso dagli umori del momento, val la pena di soffermarsi su un passo dell´ordine del giorno, che si può supporre meglio meditato, presentato nelle assemblee degli operai tenutesi a Mirafiori: "Noi lavoratori… riteniamo questo silenzio del sindacato sulla Finanziaria incomprensibile. E chiediamo che eventuali accordi su pensioni e Tfr siano sottoposti al nostro giudizio". Con questo odg i lavoratori esprimono il timore che la Finanziaria abbia ricadute impreviste, conseguenze forse negative, in merito alla loro condizione sul lavoro, al di fuori di esso, e dopo di esso. E si stupiscono che i sindacati non si siano fatti maggiormente sentire dal governo per ottenerne assicurazioni precise, se non anzi mutamenti di impostazione della legge.
I segretari generali hanno risposto con la grinta e la competenza che tutti gli riconoscono. Però quel passo dell´odg operaio un paio di problemi ai sindacati li pone. E anche al governo. Anzitutto, se i lavoratori trovano incomprensibile il silenzio del sindacato sulla Finanziaria, la spiegazione più plausibile è che in prima battuta sia questa ad apparire incomprensibile alle persone comuni. Di certo le segreterie generali posseggono mezzi adeguati per decodificare la Finanziaria e prevederne le conseguenze a medio e lungo termine sulle persone. Quasi tutti, tra il centinaio di articoli che compongono la legge, rinviano ad altri articoli di altre leggi, che per essere letti e compresi, risalendo volta per volta alle fonti, richiedono il lavoro di buon numero di esperti. Per il singolo che di tali mezzi non dispone essa rimane un messaggio cifrato. La conseguenza è che il sindacato si trova sospinto nella situazione di dover parlare pressappoco come il governo, ricorrendo ad analoghe formule generiche e reiterate all´infinito per giustificare il fatto di non essere intervenuto con decisione nella formulazione della Finanziaria, quali la necessità di rimettere ordine nei conti pubblici, promuovere lo sviluppo e l´equità, e recuperare fondi da destinare a investimenti. Mentre le domande che girano nella mente delle persone sono se avrò qualche euro in più o in meno sul foglio dello stipendio, rispetto ai soliti 1200 o giù di lì, a quanto ammonterà la mia pensione, quando potrò andarci (in pensione), e che fine farà il mio Tfr.
E´ qui che affiora l´altro problema prospettato dall´odg delle assemblee di Mirafiori. Nella lunghissima discussione intorno alla Finanziaria è venuto fuori che il capitale rappresentato dal Tfr non optato, ossia non esplicitamente destinato a un fondo pensione, potrebbe venir gestito prima dall´Inps e poi dal Tesoro, per essere alla fine investito in opere pubbliche. Anche su questo punto occorre riconoscere che, a fronte di tali intenzioni del governo, i sindacati non hanno esattamente battuto i pugni sul tavolo per ribadire un principio: il Tfr è una parte differita ma integrante del salario, quindi rappresenta una proprietà esclusiva del lavoratore. Il quale può anche pensare di destinarlo a qualche forma di investimento, ma conservando il diritto di decidere dove indirizzarlo, in quale misura, e fino a quando. Così come potrebbe pensare di lasciarlo per intero all´Inps, però non per effettuare investimenti, bensì per accrescere la quota pubblica della propria pensione, anziché affidarlo a un fondo pensione privato.
Ci sarebbero stati insomma diversi motivi per indurre i sindacati a prendere posizione in modo più determinato allo scopo di ottenere dal governo modifiche della Finanziaria che fossero, a un tempo, un po´ più favorevoli ai lavoratori, almeno in tema di pensioni e mercato del lavoro, e un po´ meno criptiche circa i loro possibili effetti. La chiarezza delle leggi agli occhi dei cittadini non è un ornamento della democrazia; è una parte integrale di essa. In modo nemmeno troppo indiretto, i lavoratori di Fiat Mirafiori si sono permessi di ricordarlo ai sindacati per cui in massa votano.
La rimozione delle tute blu
Ilvo Diamanti - la Repubblica, 10 dicembre 2006
Hanno sollevato sorpresa le critiche espresse, in modo civile e misurato, dagli operai della Fiat a Mirafiori nei confronti dei segretari delle confederazioni sindacali. Perché segnalano un contrasto fra il sindacato e la sua base "storica". Perché rivelano incomprensioni da parte degli stessi ceti che, nelle intenzioni del governo, dovrebbero beneficiare maggiormente della finanziaria. Ma soprattutto perché abbiamo assistito al "ritorno degli operai". Se ne erano perse le tracce, da tempo, nel dibattito pubblico. E, poi, sui media, come nella ricerca e nella riflessione economica e sociale. Parevano scomparsi. Lo stupore sollevato dall´episodio di Mirafiori costringe a riflettere.
Prima ancora che sui contenuti della protesta, sui motivi del nostro stupore. Perché gli operai non fanno più notizia?
Si potrebbe rispondere, in primo luogo, che la loro immagine si è sbiadita perché essi sono effettivamente in declino, come categoria professionale. Soprattutto quelli della grande impresa. A Mirafiori, ad esempio, l´occupazione è calata dei due terzi dopo la "mitica" marcia dei quadri, che decretò la sconfitta del sindacato "operaio", nell´autunno del 1980. Da circa 60mila a poco più di 14mila.
Tuttavia, gli "operai", nel 2005, secondo l´Istat erano ancora otto milioni. Un terzo degli occupati complessivi, la metà dei lavoratori dipendenti. Anche limitandoci alla sola industria manifatturiera, si tratta di circa 3 milioni di persone. Molti, comunque.
Se non li vediamo, se sono stati "rimossi" dalla scena pubblica, i motivi sono altri.
1. In primo luogo, la loro crescente dispersione, in una struttura produttiva diffusa, fatta di piccole e piccolissime aziende. Gran parte dei nuovi occupati, peraltro, accede attraverso lavori intermittenti, a tempo. Le attività più usuranti, più faticose, sono svolte dagli stranieri. I legami di solidarietà, ma anche di "comunità", dunque, si sono persi. O meglio, dispersi.
2. Ne consegue un evidente deficit di rappresentanza. Ormai nessuno più parla di sindacati "operai". D´altra parte, i caratteri dell´occupazione operaia rendono sempre più difficile, al sindacato, il compito del reclutamento. Il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti, nell´industria e nell´impiego privato, infatti, è progressivamente sceso. Oggi si colloca intorno al 35%. Ciò vale anche per la Fiat e per Mirafiori, dove il grado di adesione sindacale non è mai stato elevatissimo. Oggi, nel sindacato è divenuta maggioritaria la componente dei pensionati. Anche così si spiega la reattività sul tema delle pensioni. Mentre la vertenza sul contratto dei metalmeccanici è durata anni, senza produrre pari coinvolgimento.
3. Gli operai hanno minore visibilità di un tempo anche perché le loro tradizionali forme rivendicative hanno perduto efficacia. Gli scioperi aziendali e/o generali non "danneggiano" più come un tempo le grandi aziende (nelle piccole, perlopiù, non si fanno). Che hanno largamente delocalizzato il loro tessuto produttivo in altri Paesi. L´azione di protesta, invece, si è progressivamente "terziarizzata" (come ha osservato Aris Accornero). Non solo perché si è spostata nel settore "terziario", ma perché, insieme, tende a scaricare i propri effetti sui "terzi". Sui cittadini. Sugli utenti. Gli scioperi più efficaci, infatti, riguardano i trasporti urbani, ferroviari, aerei. I taxi oppure le banche, le poste. Perché generano disagio collettivo.
Ed entrano nel circuito "mediatico". Un elemento decisivo, ai fini dell´efficacia della protesta, perché influenza negativamente l´opinione pubblica. Alimenta la sfiducia e il dissenso. Esercita, per questo, pressione politica.
Per cui, i controllori di volo o i tassisti (romani), che sono pochi, di numero, ma agiscono in punti nevralgici della comunicazione (in senso lato), ottengono più ascolto degli operai metalmeccanici. Ai quali, per farsi vedere e sentire, non resta che uscire dalla fabbrica e adottare forme di lotta "non convenzionali". Occupare stazioni ferroviarie, attuare blocchi autostradali.
4. Tuttavia, tutto questo non basta, ancora, a spiegare la scomparsa degli operai, dalla scena e dall´immagine pubblica. Importante, a questo fine, pare il declino della loro identità sociale. Negli anni Settanta, dirsi operai - meglio: classe operaia - era motivo di orgoglio. Il segno che gli ultimi non erano più tali. Uscivano dalla solitudine e dalla loro marginalità sociale. Ottenevano un riconoscimento, una immagine comune. Oggi non è più vero. Per vent´anni, fino agli anni Novanta, abbiamo assistito al trionfo del mito dell´imprenditore. Nel quale si identificavano tutti i lavoratori autonomi indipendenti. I non-dipendenti. Negli ultimi mesi, è riesplosa la questione dei ceti medi. A differenza di quando, oltre trent´anni fa, Paolo Sylos-Labini, fornì loro definizione e misura, oggi i ceti medi appaiono quanto mai in-definiti e vaghi. Una formula usata, spesso, con finalità polemiche e di propaganda. In cui confluiscono figure diverse. Lavoratori autonomi, piccoli proprietari, partite IVA, impiegati. Un po´ alla rinfusa. Associati, nel linguaggio comune, alla "protesta" e alla "delusione".
Così, gli operai sono finiti ai margini. Anzi: fuori scena. La "classe operaia": una parola vecchia. Sostituita dai "nuovi ceti popolari" (ne hanno scritto, di recente, Magatti e De Benedettis). Che riassumono flessibilità nel lavoro, incertezza e vulnerabilità sociale. Cococo, contrattisti a progetto, lavoratori part-time e intermittenti, reclutati per telefono. Un´area che cresce, forse, più nella percezione che nella realtà. Al contrario degli operai.
Eppure, questa sottovalutazione, secondo noi, più della loro invisibilità, riflette la cecità nostra e di chi dovrebbe "rappresentarli". Gli operai, infatti, non sono solamente una "categoria" ampia del nostro sistema produttivo (tra i pochi che ancora "producono"…), ma:
a) forniscono ancora una identità condivisa. Visto che il 34% degli italiani, per definire la propria posizione parla, appunto, di "classe operaia" (Osservatorio Demos-Coop, maggio 2006). Mentre solo il 6% richiama i "ceti popolari".
b) pesano in modo rilevante, sugli orientamenti elettorali. Il recupero del centrosinistra nel 2006, rispetto al 2001, è avvenuto, infatti, soprattutto grazie allo spostamento elettorale, a suo favore, dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (come rileva Roberto Biorcio, nel recente volume di Itanes, Dov´è la vittoria?, Il Mulino).
c) e soprattutto, "rappresentano" una parte della società ampia. A cui il programma dell´Unione ha dedicato grande attenzione. L´80% dei lavoratori dipendenti in Italia, nel 2004, dichiarava un reddito complessivo (inclusivo di abitazione etc.) inferiore a 25.000 euro annui lordi. Dunque, sotto i 1.500 euro mensili (inclusi premi ecc., per tredici mensilità). Gli "operai" (ai gradini bassi del lavoro dipendente) rappresentano (come ha suggerito l´economista Bruno Anastasia) il "popolo di quelli che guadagnano 1.200 euro al mese". Poco più, ma anche (spesso) poco meno. E, per sopravvivere, sono costretti a praticare lavori e lavoretti. Quando è loro possibile. (Non tutti hanno il privilegio del "nero"). Oppure, se non dispongono di altre entrate in famiglia, se non hanno casa di proprietà, procedono navigando a vista.
L´insoddisfazione degli operai di Mirafiori nei confronti del sindacato riflette la precarietà di questa parte della società, più ampia di quanto non si immagini. Esprime, inoltre, una domanda di rappresentanza, particolarmente esplicita, verso un governo considerato "amico". Perché il problema non è solo di "recuperare", dalla revisione della curva dell´Irpef, qualche decina di euro, che rischia di venire riassorbita dalla pressione di altre tasse, in ambito locale. Più importante, forse, è evitare che le loro voci risuonino come echi di un passato che non si rassegna a passare. Per non rimuovere, insieme agli operai, anche le questioni che essi sollevano.
Napoli, Napoli, Napoli. Parlano tutti. La camorra uccide. La città ha paura e si interroga. Lo Stato corre ai ripari. Mentre due vecchi viceré dei disastri andati tentano un’operazione impossibile. Un mostruoso lifting della loro storia di uomini che a Napoli hanno gestito il potere per un ventennio e più. In un colpo solo quei due uomini provano a far dimenticare ad una Italia smemorata cosa furono «i loro anni». «Questo qui è peggio di noi» hanno sentenziato Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino ai cronisti che gli hanno chiesto lumi e giudizi su Bassolino.
«Quando a Napoli c’eravamo noi», è il ritornello recitato in questi giorni con patetica nostalgia da don Antonio e da Paolo «’o ministro». I cronisti annotano, si compiacciono dell’innocente «ciciniello» (l’abnorme anello infilato sul dito di Gava gioia e dolore delle tumide labbra dei fedelissimi) e della colorita parlata di Pomicino e passano oltre. «Scurdammece ‘o passato».
Anni Ottanta. Il terremoto. Anni Novanta. Il sacco di Napoli. 24 giugno 1993, la giunta comunale della città dichiara lo stato di dissesto del Comune. 12 agosto, il Capo dello Stato accoglie la richiesta del ministro dell’Interno di sciogliere il Consiglio. Il sindaco della città, Tagliamonte: «Siamo decisi ad assicurare la governabilità...». Su 80 consiglieri comunali del consiglio eletto nel ‘92, 18 sono raggiunti da ordini di cattura. Sette del Psi, 5 Dc, 2 repubblicani, 2 liberali, 1 a testa per Pds e Msi. Nel calderone della Napoli bollente di quell’anno finiscono anche 2 consiglieri provinciali (un liberale e un Dc), 13 consiglieri regionali (7 Dc, 5 Psi, 1 Pli). «Tutti questi amministratori - si legge nella relazione sulla camorra della Commissione parlamentare antimafia del 21 dicembre 1993 - sono stati coinvolti in vicende giudiziarie connesse alla loro attività di governo e spesso in concorso con elementi della camorra». Questo accadeva nei tempi d’oro dell’«eravamo meglio noi».
Era la Napoli di Gava e Pomicino, dove la camorra era fortissima. Organizzata. Politica. Violentissima: 2621 omicidi, il 21% degli assassinii di tutto il territorio nazionale, dal 1981 al 1990. I clan sono 111 nel ‘93 e gli affiliati 6700. In città 25 sono i gruppi dominanti. Nel decennio la camorra si è ingrassata col terremoto e le grandi opere pubbliche. Una torta da 60mila miliardi di vecchie lire dell’epoca. «L’attività di ricostruzione - si legge nella relazione dell’Antimafia - è caduta quasi interamente nelle mani della camorra che controllava capillarmente il territorio». Ma il passato va «scordato». E così nel 2005, venticinque anni dopo la tragedia, gli amministratori pubblici della Campania - questa volta tutti di centrosinistra - il terremoto lo ricordano tra fiumi di lacrime e litri di champagne. Si distribuiscono medaglie, onorificenze. La retorica seppellisce gli scandali del passato. «’O ministro» e don Antonio sono raggianti.
Cemento, appalti, rapporti con le grandi imprese del Nord e legami con la politica: la ricetta era questa. Eppure, in un freddo pomeriggio di febbraio del 1992, Paolo Cirino Pomicino lancia la grande idea per la città. Appalti pubblici per migliaia di miliardi. «Neonapoli», la chiama e il gioco è fatto. A quel tempo «’o ministro» non conta moltissimo nella Dc napoletana: appena il 25%, poco rispetto al 60 dei suoi due rivali storici, Gava e Scotti. Come risollevarsi? Semplice, proponendo un nuovo ciclo del cemento: 7227 miliardi di lire per rifare il volto della città. Nuovi quartieri, 150mila vani, speculazioni edilizie su Bagnoli e Napoli Est. La città degli affari applaude. «Perché questa - spiega all’epoca Mirella Barracco - è una realtà dove è possibile ogni fondazione e ogni rifondazione. Qui si è costantemente all’anno zero». Pomicino è un occasionista, si fa moderno Principe, parla a quei ceti che aspirano ad un diverso sviluppo della città. Il progetto muove tanto fumo. Poi si ferma. La storia prende un’altra piega.
Aprile 1981. Sulla carne di Napoli e della Campania le ferite del terremoto sanguinano ancora. La città è sconvolta dall’irrompere sulla scena della follia brigatista. L’azione più eclatante è il sequestro di Ciro Cirillo, braccio destro di Antonio Gava. Lo tengono prigioniero per 90 giorni. Tre mesi e succede di tutto. Imprenditori napoletani vicini al partito di Gava raccolgono fondi, la Dc e i servizi segreti trattano con Raffaele Cutolo e le Br per la liberazione del notabile di Torre Del Greco. Quello che non era stato fatto per Aldo Moro viene fatto per Ciro Cirillo. Alla fine viene pagato un riscatto: 1miliardo e mezzo alle Br, quasi il doppio a Cutolo. Il resto della storia è una lunga catena di morti, almeno 12 possibili testimoni. Depistaggi. Uccisioni per fermare la verità. Antonio Ammaturo, capo della Squadra Mobile di Napoli, aveva scritto un dossier sui retroscena di quel sequestro, viene ucciso dalle Br nell’82. Il commando gode dell’appoggio di uomini della camorra. Quando sei anni dopo il giudice istruttore Carlo Alemi consegna la sua inchiesta sul sequestro Cirillo, viene attaccato in Parlamento e definito dal capo del governo «un giudice che si è posto al di fuori del circuito istituzionale». Presidente del Consiglio era Ciriaco De Mita, ministro dell’Interno Antonio Gava. Alemi fu messo sotto inchiesta dal Csm. Aprile 2001, Ciro Cirillo viene intervistato da Giuseppe D’Avanzo de «La Repubblica». «Signore mio - dice - la verità sul mio sequestro la tengo per me. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte si vedrà». Accadeva a Napoli, ai bei tempi di quelli che «eravamo meglio noi».
«Definire storicamente cosa sia il ceto medio non è difficile; decisamente più complicato è intrecciare questa definizione con i redditi che vengono denunciati al fisco italiano: le denunce dei redditi presentate dai contribuenti sono una caricatura del paese reale. Quello che è certo è che questa finanziaria non è fatta contro il ceto medio e trovo ridicolo chi fa affermazioni di questo contenuto. Mentre trovo positivo che per la prima volta un governo affermi apertamente che la finanziaria è stata concepita per operare una redistribuzione del reddito a favore delle classi che in questi anni sono state fortemente penalizzate». Luciano Gallino dà giudizi netti sulla manovra economica del governo anche se i 217 articoli della legge e le oltre 250 pagine di testo non sono una lettura agevole. «Piena com'è - sostiene - anche di molti aspetti tecnici».
Professore, l'opposizione di destra attacca il governo Prodi sostenendo che la finanziaria è un duro colpo ai ceti medi. Possiamo provare a definire che cos'è il ceto medio?
Il ceto medio è una definizione che nasce un paio di secoli fa. Oggi come allora con questo termine definiamo coloro che dispongono di mezzi e anche competenze per poter lavorare e guadagnare. Semplificando: imprenditori, commercianti, professionisti, avvocati. Questo è un po' il nucleo classico del ceto medio. Al quale dobbiamo aggiungere i dirigenti, i tecnici, i funzionari della Pubblica amministrazione, i professori universitari.
Ma esiste ancora un ceto medio? Non ritiene che la tendenza sia quella di una proletarizzazione, anche in forme diverse dal passato? O meglio ancora: secondo studi recenti quella cui stiamo assistendo appare come una polarizzazione verso le classi estreme.
Non sono d'accordo con l'affermazione che il ceto medio stia scomparendo e che ci sia un forte aumento della proletarizzazione. Mi sembra eccessivo dirlo. Sono invece d'accordo con chi parla di una polarizzazione: la piramide sociale sembra avere un vertice più ristretto e i passaggi tra le varie classi sono meno frequenti. Polarizzazione è un concetto più aderente alla realtà.
Banalizzando, mi sembra che lei affermi che chi è già ricco tende a essere ancora più ricco, mentre per tutti gli altri è difficile fare passi avanti, risalire la piramide.
La distanza tra il 10-20 per cento della popolazione più ricca e il 10-20 di quella più povera è aumentata. E non solo in Italia.
Da un punto di vista delle statistiche del reddito e del patrimonio è possibile fissare chi oggi in Italia è «ceto medio»?
Se parliamo dell'Italia ci scontriamo con una straordinaria povertà delle statistiche. Negli Stati uniti è sufficiente collegarsi con il sito del Congresso o con quello del Census bureau, tanto per citarne solo un paio, per sapere tutto o quasi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Certo, anche negli Usa c'è evasione fiscale e come sempre una reticenza dei più ricchi a far sapere quanto sono effettivamente ricchi. Però i dati complessivamente sono significativi ed è sicuro che tra i poveri non si nascondono i falsi poveri, cioè gli evasori fiscali. In Italia, purtroppo, le statistiche non sono altrettanto soddisfacenti: le indagini campionarie dell'Istat e della Banca d'Italia forniscono sono una parziale approssimazione. I dati dei bilanci delle famiglie, quelli sui consumi e sulla distribuzione della ricchezza sono molto approssimati. Prima di tutto perché le indagine sono campionarie e un campione anche se ben fatto è sempre una rappresentazione approssimata dell'universo. E poi perché l'approssimazione cresce al crescere dei redditi. Queste indagini, anche se recentemente hanno rilevato la dicotomia nella crescita dei vari redditi, non possono essere la base per cercare di definire la soglia reddituale del ceto medio.
Insomma c'è una sorta di omertà, anche se l'indagine è anonima e non vale a fini fiscali.
Decisamente. Ma va anche peggio se utilizziamo i dati sulle denunce fiscali per cercare di capire quale sia la vera distribuzione dei redditi in Italia: dalla configurazione della piramide dei redditi quella che emerge è una caricatura del paese reale.
Fare stime dell'evasione fiscale non è facile: i dati sul reddito nazionale stimano però un prodotto interno lordo di un 25-30 per cento superiore a quello che emerge dai dati fiscali.
Non c'è solo l'evasione, ma anche l'elusione e l'erosione. Si stima che il lavoro nero equivalga all'occupazione di almeno altri 5 milioni di persone. In parte anche lavoro dipendente, di chi svolge un doppio lavoro. In realtà l'area dell'evasione si nasconde soprattutto nel lavoro autonomo, nelle imprese. Fa cascare le braccia apprendere che in base ai dati delle denunce dei redditi al fisco solo l'1,59% dei contribuenti denuncia più di 70mila euro l'anno.
I dati sul patrimonio mobiliare (712mila persone con oltre 500mila euro, un miliardo di lire) dei quali più volte recentemente abbiamo scritto sul manifesto mi sembrano confermare che gli italiani non sono molto sinceri con il fisco. Ma torniamo al problema politico: questa finanziaria può essere etichettata - come fa la destra - come «contro il ceto medio»?
E' una forzatura politica: se le dichiarazioni dei redditi fossero corrispondenti o vagamente vicine alla realtà ci potrebbe essere qualche appiglio, anche se questa finanziaria a quanto mi sembra tende a far pagare qualche centinaia di euro in più solo agli alti redditi. Ovvero i contribuenti che denunciano più di 75mila euro l'anno. Tutti gli altri, almeno fino alla soglia dei 40mila euro, che sulla base delle dichiarazioni sembrano costituire il ceto medio, avranno invece dei benefici fiscali che crescono al diminuire dei reddito. E questo mi spinge a pensare che la finanziaria operi un passo, magari piccolo, verso una politica di redistribuzione del reddito. La prima finanziaria se non sbaglio, è del 1978 e questa è la prima volta che sento parlare un governo di redistribuzione del reddito. Non è poco.
Non c'è il rischio che la redistribuzione del reddito privilegi chi è un evasore fiscale?
Nel ceto medio non c'è solo chi denuncia più di 40mila euro l'anno, ma anche i gioiellieri che, se non ricordo male, denunciano circa 20mila euro di ricavi al fisco. Il problema quindi è la spaccatura tra l'appartenenza al ceto medio e il reddito che viene denunciato. E' evidente che il vero problema è la lotta all'evasione fiscale, che consente di determinare il vero livello di reddito.
Fra chi più si lamenta di questa finanziaria sembra esserci la reale classe media, secondo la definizione che ne ha dato, che è anche quella che denuncia al fisco quanto realmente guadagno. Insomma, i lavoratori dipendenti, i manager, i professori universitari che saranno costretti a pagare più tasse solo perché denunciano più di 70mila euro lordi l'anno.
E' vero. In Italia esistono molte persone che non possono sfuggire al fisco. Non so quante siano esattamente. Tra loro per esempio vi sono i professori universitari i quali - parlo per esperienza personale - ai 70mila euro non arrivano. E credo che non sia piacevole per loro vedersi continuamente inseriti in una classe di privilegiati, mentre i veri privilegiati sono quelli che hanno redditi reali simili ai loro che però sfuggono a qualsiasi tipo di tassazione.
L'unica vera «persecuzione» al ceto medio sarebbe fare un lotta seria all'evasione fiscale.
Non c'è dubbio, visto che per molti appartenenti al ceto medio siamo a livello di dichiarazione dei redditi al disotto della decenza fiscale.
Che giudizio dà complessivamente di questa finanziaria?
Salvo le piccole distorsioni alle quali accennavo, cioè alcune migliaia di contribuenti che si sentono presi in giro, direi che è un notevole passo in avanti, per quanto sostenevo prima: ovvero la redistribuzione del reddito. E' un fatto politico di rilievo.
I quaresimalisti lavoravano sulle midolla, vedi Paolo Segneri a proposito d’inferno, morte improvvisa, sorti dell’anima. La forma moderna del sermone è l’editoriale. Ad esempio: viviamo nel rischio d’attentati; in ogni istante può scatenarsi il diavolo; esplosioni, gas tossico, peste manufatta; e quando la posta sia enorme, avrebbe senso rifiutare espedienti forse utili, quali la tortura, in ossequio all’etica inerme? Shock nel pubblico. L’autore se ne compiace: voleva scuoterlo; il problema, capitale nel pensiero politico, è se la tutela assoluta delle libertà sia compatibile con una guerra endemica, fuori d’ogni regola. No, l’apparato pacifico non ferma i kamikaze. Fortunatamente esiste la via d’uscita: un «compromesso tacito» dove lo Stato conservi l’aspetto virtuoso, mantenendo acque grigie tra legalità e delitto, dove nuotino tranquilli i pesci dell’agenzia che combatte l’alieno; lì non vigono norme; lo Stato in maschera virtuosa s’arresta sulla soglia; vi mette piede solo nei casi straordinari, «con la massima cautela», senza disturbare gli addetti al lavoro talvolta sporco. E i possibili effetti degenerativi? Vigilerà il governo ma sia chiaro: l’affare nasce e muore nella sfera politica; il diritto non c’entra. Spira aria burlesca (vengono in mente Voltaire, Candide ou l’optimisme, e sul versante fosco, Molière, Tartuffe), ma vuol essere un sermone serio, terribilmente serio. Vediamo dove porta.
Se ho capito bene, l’oratore non invoca arnesi legali d’eccezione quali gli stati d’assedio, martial law, i pieni poteri d’Hitler votati dal Reichstag a salvaguardia «del popolo e dello Stato», 23 marzo 1933, o il «Patriot Act» Usa 26 ottobre 2001 (misure interinali a carico dello straniero sospetto) o gli assai più incisivi «Military Commission Orders» del Presidente, 21 marzo e 21 giugno 2003, nonché le otto «Military Instructions» che li attuano: niente d’analogo; e finché esista l’attuale Carta, nascerebbe invalida ogni previsione d’impunità. Né versiamo nel contesto del romano iustitium, dal verbo «sistere», fermare corpi o fluidi in moto: tale è metaforicamente lo ius, macchina del diritto (succede anche al sole, «sol-stitium»); un senatoconsulto l’arresta perché incombono pericoli letali (Annibale alle porte, Catilina complotta, tumulti); fuori delle solite competenze, qualcuno salva la res publica; talvolta germinano poteri spontanei; capita che il privato agisca quasi fosse console. Stasi breve. L’atto cade in spazi legalmente vuoti: è valutabile poi, appena l’astro riprenda il corso interrotto; mettere a morte i catilinari era decisione dubbia, infatti Cicerone subisce un breve esilio. Tutto chiaro invece nell’affare Roehm. Questo turbolento capo delle SA, guardia armata nazista, guasta l’armonia con le gerarchie militari ed economiche: Hitler è solo cancelliere, in attesa che il decrepito Hindenburg passi a miglior vita cedendogli la presidenza, acquisita la quale, diventerà Führer, e non ci pensa due volte; sabato 30 giugno 1934 matta i dissidenti, inclusi vari estranei. Due settimane dopo, racconta al Reichstag d’avere operato da supremo giustiziere. Gli canta un inno Carl Schmitt, politologo troppo intellettuale, quindi senza fortuna nella birreria nazista (le sue piccole e vaghe idee in brodo ornato riscuotono ancora un culto trasversale): Adolf Hitler è Führer; ordinata da lui, la carneficina diventa pura giurisdizione. Su scala minore era avvenuto in casa nostra. Bologna, domenica 31 ottobre 1926: qualcuno spara a Mussolini; gli squadristi linciano Anteo Zamboni, 15 anni; l’indomani il «Popolo d’Italia» chiama fulmini sui mandanti; sarebbe «un’onta» seguire le «procedure ordinarie».
L’oratore, dunque, non chiede leggi speciali né contempla stasi del diritto quali sopravvenivano nello iustitium: liquidare i catilinari o le SA era affare d’uno o due giorni, mentre il pericolo d’attentati permane; tra qualche anno forse sarà peggio, Iddio non voglia. E allora? L’ha detto, ci vuole uno stato equivoco in cui vigano le norme consuete, purché gli angeli abbiano mano libera, sotto un misterioso controllo politico: e calca l’accento sul qualificativo; è roba segreta; i giusdicenti non vi mettano becco. Come dire «piove ma non piove». Diritto e logica esauriscono l’universo: nei sistemi a due qualificatori, l’atto è x o non-x; ha mai letto Wittgenstein? Supponiamo che gli operatori della cosiddetta sicurezza sequestrino dei sospetti, li tengano in prigioni occulte, li torchino ad eruendam veritatem, e la cosa trapeli. Il pubblico ministero indaga, indi agisce: tribunali o corti competenti accertano l’accaduto; risultando vera l’accusa, possono solo condannare. L’unica alternativa è un illegalismo delittuoso: che il magistrato requirente chiuda gli occhi, complice del potere esecutivo la cui sfera non tollera sguardi profani (obbligo d’agire e pubblico ministero indipendente stanno sullo stomaco ai quaresimalisti): o se una testa storta lo instaura, il processo finisca in mano a giudici duttili, dallo stomaco forte, sicché i serventi segreti escano indenni; bella prospettiva, inquinare organicamente la giustizia. Nelle monarchie assolute circolavano lettere col sigillo reale. Qui avverrebbe tutto nelle anticamere, a bisbigli. Poteri occulti sicuri dell’impunità sviluppano una versatile delinquenza, dai traffici lucrosi al colpo di Stato. Così vuol difendere un paese moralmente debole, nella cui storia le collusioni politico-militari mischiano inettitudine, avventurismo, fantasia negromantica, sciagure? Vedi Luigi Cadorna, comandante supremo 1915-17: dissangua l’esercito in undici stupide offensive, finché poche divisioni prestate dai tedeschi rompono l’assurdo schieramento italiano, allora diventa falsario; incolpa i soldati e la mano molle governativa, rammollita dall’ideologia democratica, quindi tollerante del «nemico interno»; opportunisticamente riabilitato, proclama che mai vi sarebbe stata Caporetto sotto il timone mussoliniano. Ancora più nefasti i successori nella seconda guerra mondiale. Giolitti memorialista, abitualmente cauto, usa parole dure sulla clique militare politicante.
ROMA - Alle sei del pomeriggio il deputato dimissionario Paolo Cacciari, barba grigia molto curata, fratello "massimalista" del sindaco riformista di Venezia, è nel suo studio al quarto piano di palazzo Marini. Su una scrivania lo scatolone pieno a metà di cartelle e fascicoli dei suoi due mesi di vita parlamentare. Il cellulare squilla in continuazione. In tivù Franco Giordano, il segretario del suo partito, sta spiegando in aula le ragioni del sì al decreto che rifinanzia le missioni militari.
Onorevole Cacciari, Giordano sta dicendo che la pace è qualcosa che in politica si costruisce giorno per giorno, a piccoli passi. Perché non ha condiviso questa linea e si è dimesso, all’improvviso?
«Mi spiace molto aver spiazzato i compagni. Giudico però questo dibattito parlamentare inadeguato e insufficiente. Si è avvitato su un carro armato in più e un fucile in meno. Io vengo dalla scuola della non violenza, sono promotore di quel convegno che ogni anno sull’isola di San Servolo a Venezia mette insieme e cerca di contaminare il movimento operaio con le posizioni anarchiche e le pratiche pacifiste e non violente. Bertinotti mi ha scelto per questo. E io cosa faccio? Vengo qui e rinnego tutto? Non è possibile. Così ho raccolto l’invito avanzato da Sofri sulle pagine di Repubblica e lascio libero il mio seggio(l’articolo è sulla scrivania sottolineato in rosso e blu, ndr)».
Si è dimesso per un problema etico e di coscienza? La politica non sempre ha queste priorità...
«Io credevo, e lo credo ancora, che Rifondazione sia il partito che mette fine alla divisione tra etica e politica. Ho iniziato così il mio intervento stamani: "Questa volta la politica non mi aiuta a tenere insieme ragionamento e convinzione". E ho citato Bobbio: "L’etica della responsabilità è quella della coscienza"».
Nel discorso con cui ha spiegato le dimissioni, lei però riconosce che la mozione parlamentare e il disegno di legge sono "le migliori possibili nelle condizioni date".
«Ma la coscienza mi dice anche che le carneficine in corso in Medio oriente avrebbero bisogno di una rottura netta e immediata con le pratiche e le scelte fatte finora dall’Italia e dall’Occidente».
E’ consapevole che la sua scelta apre la strada a una sconfitta della maggioranza al Senato?
«Sia chiaro che io, al contrario di Strada, non brindo se cade questo governo. Ma sono anche tristissimo se da questo governo non arriva un contributo alla crescita di una cultura non violenta e di pace. Ho cercato di fare la cosa più indolore per la maggioranza».
Cosa doveva fare, secondo lei, il governo per segnare la discontinuità in politica?
«Io riconosco una discontinuità in politica estera a questo governo. Ma i contingenti Onu in Libano e Palestina e le missioni militari di pace sono un’abdicazione della politica. Ed è un’illusione suicida credere che siano la soluzione del problema».
Quindi?
«Quindi penso ai corpi di pace, alla diplomazia dal basso, alla cooperazione, alla confidence building, alla costruzione del consenso. Ma tutto questo sembra politica di serie b».
A chi ha rassegnato le dimissioni?
«Al Presidente della Camera».
Cosa dice ai vertici di Rifondazione?
«Che ho rotto un mandato politico che il partito ci ha chiesto ripetutamente di non tradire. Per questo restituisco il mio mandato».
La partita più bella l'Italia non l'ha vinta in Germania con un rigore all'ultimo minuto, l'ha vinta in casa, con un punteggio straordinario, dopo svariati ed estenuanti anni di gioco. Quel perentorio 61,7% di No alla controriforma costituzionale che avrebbe dovuto suggellare l'era berlusconiana acquista tanto più valore con quell'inatteso 53,6% di partecipanti al voto, che dopo dieci anni di quorum mancato riabilita, proprio sulla Carta fondamentale, l'istituto referendario e la vigilanza popolare sulle scelte politiche. Il No c'era il rischio che perdesse, ma c'era anche il rischio che vincesse di misura, con una partecipazione svogliata che avrebbe indirettamente autorizzato il ceto politico, di destra e di sinistra, a continuare a trattare la Costituzione come cosa propria, disponibile allo scambio politico. Così non è stato e i numeri parlano chiaro: la Costituzione è di tutti, e nel momento di massimo rischio i suoi titolari se la sono presa in mano per presidiarla e confermarla.
L'inatteso e non necessario quorum raggiunto oggi riporta alla mente il mancato quorum, altrettanto inatteso ma necessario, del referendum del '99 sull'abolizione della quota proporzionale dal «Mattarellum». Quel quorum mancato di allora pose fine alla favola bella del maggioritario come panacea di tutti i mali che aveva accompagnato i primi dieci anni della transizione italiana. Il quorum raggiunto di oggi mette fine alla favola bella della riforma costituzionale come protesi indispensabile di una modernizzazione senza qualità che ha accompagnato anche gli anni successivi. Allora come oggi ne viene travolto e sepolto lo schema semplificato vecchio-nuovo di cui si accontenta una politica immiserita negli obiettivi e nelle pratiche.
Posto di fronte a un quesito fondamentale sulla legge fondamentale, il paese «spaccato in due» della retorica postelettorale di poche settimane fa ha ritrovato una sua fondamentale unità, irrispettosa del bipolarismo coatto. Ha detto No all'egoismo sociale, al mito del Capo e alla servitù volontaria che nelle intenzioni dei riformatori avrebbero dovuto sostituire i principi della solidarietà, dell'uguaglianza, della rappresentanza scritti in Costituzione. Anche la divisione territoriale artatamente costruita fra un'Italia moderna e produttiva e un'Italia passatista e dipendente ne esce ridimensionata: trionfante al Sud il No alla devolution vince anche al Nord, e il 51,8% che conquista a Milano parla chiaro quanto e più del 68,4% che incassa a Palermo o dell' 82,5% in Calabria. Spiace per Bossi e per Speroni,ma se andranno in Svizzera pochi li seguiranno. Spiace per Berlusconi e Fini, ma tre sconfitte in tre mesi, e quest'ultima più di tutte, dicono che il vento del '94 ha smesso di soffiare. Sulla posta in gioco cruciale e ultimativa, quella del sovversivismo costituzionale della destra estranea al patto del '48, il paese ha messo l'alt.
Ma l'ha messo anche sul vizio di giocare col fuoco della revisione che incanta al centro e a sinistra anche gli eredi di quel patto. Che i loro leader provassero a incassare la vittoria del No come un'autorizzazione a procedere sulla strada delle riforme perseguita in passato era del tutto scontato; e tuttavia suona oggi del tutto stonato. Quel No ha un altro suono. Rilegittima una Costituzione che anche loro hanno colpevolmente contribuito a delegittimare. E obbliga anche loro a sottostare alla sua autorità. Come tutte le leggi umane, la Carta del '48 non è intoccabile, ma nell'ambito dei suoi principi e delle sue procedure. Dopo il voto di ieri, fantomatiche commissioni, convenzioni e assemblee costituenti sono diventate improponibili, come pure ipotetiche riscritture complessive. La revisione costituzionale possibile torna a essere puntuale, affidata al parlamento, sottratta al capriccio delle maggioranze e, si spera, assicurata a un 138 al più presto riformulato.
Due anni prima di morire mio padre mi consegnò un valigetta piena di suoi scritti, manoscritti e taccuini. Assumendo la sua solita espressione ironica e scherzosa mi disse che voleva che li leggessi dopo che se n´era andato, intendendo con ciò dopo la sua morte.
«Dai un´occhiata», disse con aria di lieve imbarazzo. «Guarda se c´è dentro qualcosa che ti può servire. Forse, dopo che me ne sarò andato, potrai fare una cernita e pubblicare il materiale».
Eravamo nel mio studio, circondati da libri. Mio padre cercava un posto dove posare la valigetta andando avanti e indietro come chi voglia liberarsi di un penoso fardello. Infine la depose con discrezione in un angolo dove non avrebbe dato fastidio. Una volta passato questo momento un po´ imbarazzante ma indimenticabile, riprendemmo la leggerezza tranquilla dei nostri soliti ruoli, le nostre personalità sarcastiche e disinvolte. Parlammo come sempre facevamo delle piccole cose della vita quotidiana, degli infiniti problemi politici della Turchia e delle avventure imprenditoriali di mio padre, per lo più fallimentari. Ne discorremmo senza troppo rammarico.
Ricordo che, andato via mio padre, per giorni passai accanto alla valigetta senza neppure sfiorarla. Conoscevo dalla mia infanzia quella piccola borsa di pelle nera, la sua serratura, gli angoli arrotondati. Mio padre la teneva sempre con sé nei brevi spostamenti e talvolta la usava per portare documenti al lavoro. Ricordo che, da bambino, quando tornava da un viaggio aprivo quella valigetta e frugavo tra le sue cose, beandomi del profumo di colonia e di paesi stranieri. Quella valigetta era una presenza amica e familiare, mi ricordava intensamente l´infanzia, il mio passato, ma ora non riuscivo neppure a toccarla. Perché? Senza dubbio dipendeva dal peso misterioso del suo contenuto.
Parlerò ora del senso di questo peso. È il senso del lavoro di un uomo che si chiude in una stanza, che, seduto a un tavolo o in un angolo, si esprime per mezzo di carta e penna, vale a dire il senso della letteratura. Nel momento in cui toccai la valigia di mio padre pur senza riuscire ad aprirla, sapevo che cosa contenevano alcuni di quei taccuini. Avevo visto mio padre intento a scrivere su alcuni di essi. Non era la prima volta che avevo sentito parlare del pesante carico contenuto nella valigia. Mio padre aveva un´ampia biblioteca. Da giovane, alla fine degli anni ‘40, aveva aspirato a diventare poeta, a Istanbul, e aveva tradotto Valery in turco, ma non aveva voluto vivere la vita riservata a chi scriveva poesie in un paese povero con pochi lettori. Il padre di mio padre, mio nonno, era stato un ricco uomo d´affari, suo figlio aveva vissuto una vita agiata da bambino e da ragazzo e non aveva intenzione di cadere in ristrettezze in nome della letteratura. Amava la vita e tutte le sue piacevolezze, e lo capivo.
La prima cosa che mi tenne lontano dal contenuto della valigetta di mio padre era, ovviamente, il timore di non gradire ciò che avrei letto. Mio padre lo sapeva, e per questo si era preoccupato di far finta di non prendere troppo sul serio il contenuto della borsa. Ne fui addolorato, dopo 25 anni passati a scrivere, ma non volevo neppure irritarmi con lui perché non prendeva la letteratura abbastanza sul serio...
Il mio vero timore, la cosa essenziale che non volevo sapere o scoprire era la possibilità che mio padre fosse un bravo scrittore. Non riuscivo ad aprire la valigetta di mio padre perché temevo questo. Peggio ancora, non riuscivo neppure a confessarlo a me stesso. Se dalla valigetta di mio padre fosse emersa della vera, grande letteratura, avrei dovuto ammettere che dentro mio padre esisteva un uomo del tutto diverso. Era una possibilità che mi spaventava. Perché anche alla mia non più tenera età volevo che lui fosse soltanto mio padre, non uno scrittore.
Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca del secondo essere al suo interno, e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrivere, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o una tradizione letteraria, è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e, da solo, si concentra su se stesso, tra le sue ombre costruisce un mondo nuovo con le parole.
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Avevo timore ad aprire la valigetta di mio padre e a leggere i suoi taccuini perché sapevo che non avrebbe tollerato le difficoltà che avevo sopportato io, che non era la solitudine che lui amava, bensì mescolarsi agli amici, la folla, i salotti, gli scherzi, la compagnia. Ma poi i miei pensieri presero una direzione diversa. Queste idee, questi sogni di rinuncia e pazienza, erano pregiudizi che avevo tratto dalla mia vita e dalla mia personale esperienza di scrittore. C´erano moltissimi scrittori geniali che conducevano una vivace, brillante vita sociale e familiare fatta di compagnia e allegre conversazioni. Inoltre mio padre quando eravamo piccoli, stanco della monotonia della vita familiare, ci lasciò per andarsene a Parigi, dove, come tanti autori, sedeva nella sua stanza d´albergo a riempire taccuini. Sapevo anche che alcuni di quei taccuini si trovavano nella valigetta perché qualche anno prima di portarmela egli aveva finalmente iniziato a parlarmi di quel periodo della sua vita. Raccontava di quegli anni anche quando ero bambino ma senza far cenno alle sue debolezze, ai suoi sogni di diventare scrittore, o alle crisi di identità che lo avevano afflitto nella sua stanza d´albergo. Mi parlava invece delle volte che aveva visto Sartre per le strade di Parigi, dei libri letti, dei film visti, con il sincero trasporto di chi comunica notizie importantissime. Divenuto scrittore, non dimenticai mai ciò che accadde grazie a quel padre che parlava degli scrittori di fama mondiale molto più che di pascià e grandi autorità religiose. Forse allora dovevo leggere i suoi appunti con questa consapevolezza e ricordare quanto fossi in debito con la sua vasta biblioteca. Dovevo tenere a mente che, quando viveva con noi, come me, amava star solo in compagnia dei suoi libri e dei suoi pensieri e non prestava troppa attenzione al valore letterario dei suoi scritti.
Ma mentre fissavo con apprensione la valigetta lasciatami in eredità sentivo anche che era proprio questo che non sarei riuscito a fare. Mio padre talvolta si allungava sul divano davanti ai suoi libri, lasciava cadere il volume o la rivista che aveva in mano e si perdeva in un sogno, sprofondato a lungo nei suoi pensieri. Vedendogli sul viso un´espressione così diversa da quella che aveva nell´atmosfera scherzosa e allegra dei battibecchi familiari, scoprendo in lui i primi accenni di introspezione, pensavo, soprattutto da bambino e nella prima giovinezza, con trepidazione che non fosse contento. Oggi, a distanza di tanti anni, so che questa insoddisfazione è la caratteristica fondamentale che fa di un individuo uno scrittore. Per diventare scrittore pazienza e fatica non bastano: dobbiamo innanzitutto sentire l´impulso irresistibile a fuggire la gente, la compagnia, la consuetudine, la quotidianità e a chiuderci in una stanza. Aspiriamo alla pazienza e speriamo di riuscire così a creare un mondo intenso nei nostri scritti. Ma è il desiderio di chiuderci in una stanza che ci spinge all´azione. Il precursore di questo genere di scrittore indipendente, che legge i suoi libri per soddisfare il suo cuore e che ascoltando esclusivamente la voce della propria coscienza, discute con le parole altrui, che conversando con i suoi libri sviluppa i suoi pensieri e il suo mondo personale, fu senza dubbio Montaigne, agli albori della letteratura moderna. Montaigne era un autore cui mio padre tornava spesso, un autore che mi raccomandava. Mi piacerebbe considerarmi parte della tradizione di scrittori che ovunque si trovino nel mondo, in Oriente o in Occidente, si tagliano fuori dalla società rinchiudendosi con i loro libri nella loro stanza. La vera letteratura parte dall´uomo che si chiude nella sua stanza con i suoi libri.
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Fu questo a spingermi ad aprire la valigetta di mio padre. Aveva forse un segreto, un´infelicità che ignoravo, qualcosa che riusciva a sopportare solo riversandola nei suoi scritti? Non appena aprii la valigetta ritrovai il profumo di viaggi, riconobbi vari taccuini e notai che mio padre me li aveva mostrati anni addietro senza però soffermarvisi molto a lungo. La maggior parte dei taccuini che ora avevo tra le mani li aveva riempiti quando ci aveva lasciato per recarsi a Parigi, da giovane. Il mio desiderio era sapere che cosa avesse scritto e che cosa avesse pensato mio padre alla mia stessa età. Non mi ci volle molto a capire che non avrei trovato nulla del genere là dentro. A turbarmi particolarmente fu l´imbattermi qui e là, nei taccuini di mio padre, in una voce narrante. Non era la voce di mio padre, dissi a me stesso, non era la sua voce originale, o meglio, non quella dell´uomo che conoscevo come mio padre. Al di là del timore che mio padre non fosse più mio padre nel momento in cui scriveva, c´era un timore più profondo: la paura di non trovare nulla di buono negli scritti di mio padre, di scoprire che si era fatto eccessivamente influenzare da altri autori, e sprofondai nella disperazione che mi aveva afflitto da ragazzo tanto da porre in discussione la mia vita, la mia stessa esistenza, il mio desiderio di scrivere e la mia opera. Durante i miei primi dieci anni da scrittore avvertii quest´ansia più profondamente, e pur respingendola, talvolta temevo che un giorno avrei dovuto ammettere la sconfitta, come avevo fatto con la pittura e soccombere all´inquietudine, abbandonando anche l´attività di romanziere.
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Un autore parla di cose che tutti sanno senza averne consapevolezza. Esplorare questo sapere e vederlo crescere dà al lettore il piacere di visitare un mondo al contempo familiare e miracoloso. Quando un autore si chiude per anni in una stanza per affinare la sua arte, quella di creare un mondo, se usa le sue ferite segrete come punto di partenza ripone, che lo sappia o no, una grande fede nell´umanità. La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie, e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli individui si somiglino. Quando uno scrittore si chiude per anni in una stanza, evoca col suo gesto un´umanità unica, un mondo privo di centro. Ma come si può vedere dalla valigetta di mio padre e dalle nostre vite sbiadite a Istanbul, il mondo aveva un centro ed era lontanissimo da noi. Nei miei libri ho descritto in dettaglio come questa realtà evocasse un provincialismo cechoviano e come, per altra via, mi spingesse a porre in discussione la mia autenticità. Sapevo per esperienza che la gran maggioranza delle persone su questa terra condividono le stesse sensazioni e che molti sono afflitti da un senso ancor più profondo di inadeguatezza, insicurezza e abbrutimento rispetto a me. Sì, i maggiori dilemmi che l´umanità si trova ad affrontare sono ancora la povertà, la mancanza di un tetto, e la fame... Ma oggi la televisione e i giornali ci informano su questi fondamentali problemi più rapidamente e più semplicemente di quanto possa mai fare la letteratura. Oggi l´oggetto dell´indagine della letteratura devono essere soprattutto le paure dell´umanità: la paura di essere esclusi, la paura di non contare nulla e il senso di nullità che le accompagna. Le umiliazioni collettive, le vulnerabilità, gli affronti, i torti, le suscettibilità, gli insulti immaginati, e i vanti e la retorica nazionalista... Ogniqualvolta mi confronto con questi sentimenti e con il linguaggio irrazionale, eccessivo con cui vengono generalmente espressi, so che toccano un punto oscuro al mio interno. Abbiamo spesso visto popoli, società e nazioni esterni al mondo occidentale, e mi è facile identificarmi con essi, soccombere a timori che li conducono a commettere idiozie, tutto per paura di subire umiliazioni e a motivo delle loro suscettibilità. So anche che in Occidente, un mondo con cui mi è altrettanto facile identificarmi, nazioni e popoli eccessivamente fieri della loro ricchezza e del fatto di averci portato il Rinascimento, l´Illuminismo il Modernismo, di tanto in tanto hanno ceduto a un autocompiacimento quasi altrettanto idiota.
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Significa che mio padre non era l´unico, che tutti diamo eccessiva importanza all´idea di un mondo con un centro. Ciò che invece ci spinge a chiuderci nelle nostre stanze a scrivere per anni e anni è la convinzione opposta, quella che un giorno i nostri scritti saranno letti e compresi perché tutta la gente del mondo si somiglia. Ma questo, lo so dai miei scritti e da quelli di mio padre, è un ottimismo inquieto, segnato dalla rabbia di essere relegato ai margini, escluso. L´amore e l´odio che Dostoevskij provò per tutta la vita nei confronti dell´Occidente l´ho provato anch´io, in numerose occasioni. Ma se ho afferrato una verità essenziale, se ho motivo di essere ottimista è perché ho viaggiato assieme a questo grande scrittore attraverso il suo rapporto di amore-odio con l´Occidente, per contemplare l´altro mondo che egli ha costruito dall´altra parte.
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Mio padre avrà magari scoperto questo genere di felicità durante gli anni passati a scrivere, pensavo fissando la sua valigetta: non dovevo giudicarlo a priori. Gli ero così grato, dopo tutto. Non era mai stato un padre qualunque, autoritario soffocante, punitivo, ma un padre che mi ha sempre lasciato libero, che ha sempre dimostrato nei miei confronti il massimo rispetto. Avevo pensato spesso che se, di tanto in tanto, ero stato capace di attingere alla mia immaginazione, come un bambino, era perché a differenza di tanti miei amici dell´infanzia e della giovinezza, non avevo paura di mio padre e talvolta ero profondamente convinto che sarei riuscito diventare scrittore perché anche mio padre, da giovane, lo aveva desiderato. Dovevo leggere i suoi scritti con spirito di tolleranza, cercare di capire che cosa aveva scritto in quelle stanze d´albergo.
Animato di ottimismo mi avvicinai alla valigetta che giaceva ancora dove mio padre l´aveva lasciata. Facendo appello a tutta la mia forza di volontà ho letto qualche manoscritto e qualche taccuino. Che cosa scriveva mio padre? Ricordo qualche scorcio dalle finestre degli hotel di Parigi, poesie, paradossi, analisi... Mi sento ora come chi è appena stato vittima di un incidente stradale e si sforza di ricordare come è successo mentre al contempo trema alla prospettiva di ricordare troppo. Da bambino quando i miei genitori erano sul punto di litigare e tra loro calava un silenzio letale, mio padre accendeva sempre la radio, per cambiare atmosfera e la musica ci aiutava a dimenticare tutto più in fretta.
Permettetemi di cambiare atmosfera con qualche parola che, mi auguro, abbia l´effetto della musica. Come sapete la domanda che più spesso viene posta a noi scrittori, la domanda preferita è: perché scrive? Io scrivo perché sento il bisogno innato di scrivere! Scrivo perché non posso fare un lavoro normale, come gli altri. Scrivo perché voglio leggere libri come quelli che scrivo. Scrivo perché ce l´ho con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace stare seduto in una stanza a scrivere tutto il giorno. Scrivo perché posso prender parte alla vita reale solo trasformandola. Scrivo perché voglio che gli altri, tutti noi, il mondo intero, sappia che tipo di vita viviamo e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia. Scrivo perché amo l´odore della carta, della penna e dell´inchiostro. Scrivo perché credo nella letteratura, nell´arte del romanzo, più di quanto io creda in qualunque altra cosa. Scrivo per abitudine, per passione. Scrivo perché ho paura di essere dimenticato. Scrivo perché apprezzo la fama e l´interesse che ne derivano. Scrivo per star solo. Forse scrivo perché spero di capire il motivo per cui ce l´ho così con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace essere letto. Scrivo perché una volta che ho iniziato un romanzo, un saggio, una pagina, voglio finirli. Scrivo perché tutti se lo aspettano da me. Scrivo perché come un bambino credo nell´immortalità delle biblioteche e nella posizione che i miei libri occupano sugli scaffali. Scrivo perché è esaltante trasformare in parole tutte le bellezze e le ricchezze della vita. Scrivo non per raccontare una storia ma per costruirla. Scrivo per sfuggire al presagio che esiste un posto cui sono destinato ma che, proprio come in un sogno, non riesco a raggiungere. Scrivo perché non sono mai riuscito ad essere felice. Scrivo per essere felice.
Una settimana dopo avermi lasciato la valigia, mio padre mi fece ancora visita. Come sempre mi portò una tavoletta di cioccolata (aveva dimenticato i miei 48 anni). Come sempre chiacchierammo e ridemmo della vita, della politica e dei pettegolezzi di famiglia. A un certo punto mio padre andò con lo sguardo all´angolo in cui aveva lasciato la valigetta e vide che l´avevo spostata. Ci guardammo negli occhi. Seguì un silenzio imbarazzato. Non gli dissi che l´avevo aperta e avevo tentato di leggere ciò che conteneva, ma distolsi lo sguardo. Capì lo stesso. Come io capii che aveva capito. Come lui capiì che avevo capito che aveva capito. Ma tutta questa comprensione durò solo lo spazio di pochi secondi. Perché mio padre era un uomo accomodante, sicuro di sé: mi sorrise come faceva sempre. E andandosene mi ripeté tutte le frasi affettuose e incoraggianti che mi diceva sempre, da padre.
Come sempre lo guardai andar via, invidiando la sua serenità, la sua spensieratezza, la sua imperturbabilità. Ma ricordo che quel giorno avvertii dentro di me anche un lampo di gioia di cui mi vergognai. Veniva dal pensiero che magari non mi sentivo a suo agio come lui nella vita, magari non avevo condotto una vita felice e libera come la sua, ma io l´avevo dedicata alla scrittura - avete capito... mi vergognavo di pensare quelle cose a scapito di mio padre. Di tutte le persone proprio mio padre, che non mi aveva mai fatto soffrire, che mi aveva lasciato libero. Tutto questo dovrebbe ricordarci che la scrittura e la letteratura sono intimamente connesse a un vuoto, al centro di tutte le nostre vite, e a un senso di felicità e di colpa.
Ma la mia storia ha un´altra componente, simmetrica, che immediatamente mi riporta alla mente un altro aspetto di quel giorno e acuisce il mio senso di colpa. Ventitré anni prima che mio padre mi lasciasse la sua valigetta e quattro anni dopo aver deciso, all´età di 22 anni, di diventare romanziere e, abbandonando tutto, di chiudermi in una stanza, terminai il mio primo romanzo, Cevdet Bey and Sons. Consegnai a mio padre con mano tremante il dattiloscritto del romanzo ancora non pubblicato perché lo leggesse e mi desse il suo giudizio. Questo non solo perché avevo fiducia nel suo gusto e nella sua intelligenza: la sua opinione contava moltissimo per me perché lui, a differenza di mia madre, non si era opposto al mio desiderio di diventare scrittore. In quel periodo mio padre non era con noi, ma molto lontano. Attesi con impazienza il suo ritorno. Quando arrivò, due settimane dopo, corsi ad aprigli la porta. Non disse nulla, ma ad un tratto mi abbracciò in un modo che esprimeva che il libro gli era piaciuto moltissimo. Per un attimo sprofondammo in quel silenzio imbarazzato che accompagna spesso i momenti di grande emozione. Quando ci calmammo e iniziammo a parlare mio padre ricorse a parole cariche ed esagerate per esprimere la fiducia che riponeva in me e nel mio primo romanzo: mi disse che un giorno avrei vinto il premio che mi accingo a ricevere oggi con tanta gioia.
Lo disse non per cercare di convincermi che apprezzava il mio libro né per pormi l´obbiettivo di questo premio. Lo disse come un padre turco dice a un figlio a mo´ di incoraggiamento «un giorno diventerai un pascià!». Per anni, ogni volta che mi vedeva, ripeteva quelle parole per incoraggiarmi.
Mio padre è morto nel dicembre 2002.
(traduzione di Emilia Benghi)
© The Nobel Foundation 2006
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Stangata fiscale, grida la destra (e il centro). Poche riforme e nessun serio recupero strutturale della spesa, affermano sentenziosi gli economisti indipendenti.
Berlusconi, Tremonti, Bossi e Fini chiamano la piazza a scendere in piazza. Casini forse in piazza non ci andrà ma sicuramente applaudirà dalla finestra.
Il circo mediatico dal canto suo (con pochissime eccezioni) piange sulle sorti del ceto medio tartassato. Quanto al governo, difetta di efficaci strumenti di comunicazione e quando ne ha li usa male per difetto di comunicativa.
Sicché l´impressione generale, l´apparenza, è che questa Finanziaria con i suoi annessi e connessi sia nel migliore dei casi mediocre e segni comunque la vittoria politica della sinistra massimalista che avrebbe Prodi come portabandiera.
Personalmente non condivido affatto questa «apparenza».
Personalmente ritengo in tutta onestà che questa sia una buona Finanziaria. Con alcuni difetti, ma con un saldo positivo rispetto agli obiettivi che erano stati sostenuti in campagna elettorale.
Quegli obiettivi, ricordiamolo, erano tre: raddrizzamento dei conti pubblici rispetto ai parametri europei, sviluppo dell´economia, equità sociale. Padoa-Schioppa aveva aggiunto l´impegno di economizzare sulla previdenza, sugli sprechi della pubblica amministrazione centrale e locale, sulla sanità. Prodi infine aveva più volte ripetuto che non avrebbe gravato la mano sui contribuenti specificando però che avrebbe spostato il carico dalle spalle deboli a spalle meno deboli.
Dopo essermi studiato per quanto possibile la foresta dei numeri (sciopero dei giornali permettendo) io penso che gli impegni assunti con gli elettori e con l´Europa siano stati adempiuti almeno in buona misura. Ho l´impressione d´essere tra i pochi a sostenere questa tesi, ma poiché mi capita spesso, questa probabile solitudine non mi sconforta.
Cercherò di essere chiaro nella dimostrazione di questa tesi.
* * *
La manovra ammonta complessivamente a 33,4 miliardi di euro. Manovra imponente, su questo non mi pare ci possano esser dubbi. Nonostante il netto miglioramento delle entrate del 2006 che si valuta attualmente – a legislazione vigente – in oltre 10 miliardi.
Faccio osservare a questo proposito che la sinistra massimalista aveva chiesto perentoriamente di ridurre la manovra prima a 30 e poi 26 miliardi e di spalmare la parte destinata al raddrizzamento dei conti pubblici su due anni anziché sul solo 2007. Questi suggerimenti avrebbero creato più danni che vantaggi e il governo non li ha accolti. Vuol dire che il cosiddetto timone riformista ha tenuto.
Il governo sostiene che i 33,4 miliardi si ripartiscono in 15 destinati al raddrizzamento e 18,4 alla crescita e all´equità. Sostiene anche che 13 miliardi proverranno da entrate e 20 da economie.
L´opposizione naturalmente contesta, cifre alla mano.
Purtroppo quelle cifre, nove volte su dieci, sono dei falsi palesi. Dico purtroppo perché a me piacerebbe che almeno sui numeri non si discutesse, ma basta consultare i giornali della destra usciti per due giorni senza concorrenza nelle edicole per avere la dimostrazione di quei falsi.
Vediamo dunque quei numeri più da vicino, a cominciare dall´operazione equitativa con la quale il governo, e Visco in particolare, ha modificato il peso fiscale spostandolo da spalle deboli a spalle meno deboli.
* * *
Il ceto medio è un termine che designa realtà diverse. Si va dalle fasce di reddito intorno ai 15 mila euro annui ai 60 mila, cioè da 1.200 euro netti mensili a 3.500. Questa platea coinvolge più dell´80 per cento dei contribuenti. Il resto è formato da fasce esenti o da ricchi-ricchissimi. Il sommerso è un mondo a sé che secondo calcoli aggiornati supera il 20 per cento del Pil «visibile».
Tra le fasce da 15 mila e quelle da 60 mila di reddito ci sono quattro lunghezze di distacco, 60 mila è infatti di quattro volte superiore a 15 mila. Il governo ha fissato la linea di discrimine a 40 mila euro di reddito. Vuol dire che da 40 mila cominciano i ricchi? Ovviamente no, tanto più che 40 mila sono lordi. Al netto dell´imposta ne restano poco più di 30 mila, vuol dire 2.300 euro mensili per tredici mensilità. Non c´è affatto da scialare.
I redditi da 60 mila arrivano ad un netto mensile di circa 3.000 euro. Non si sciala neanche lì, ma si respira.
L´operazione redistributiva premia le fasce di reddito fino a 40 mila in modo abbastanza consistente. La spesa totale destinata al miglioramento di questi cittadini lavoratori e contribuenti è di 7,3 miliardi. Dalle fasce superiori il fisco preleverà complessivamente 6,7 miliardi. La differenza di 600 milioni la metterà lo Stato.
Un economista indipendente (di quelli che simpatizzano col centrosinistra e danno sempre ragione alla destra) ha sostenuto che i contribuenti beneficiari percepiranno un vantaggio di 6 euro a testa all´anno. Mentre - ha detto - tutto il peso si scaricherà sui redditi da 75 mila euro in su e lì sarà macelleria.
Naturalmente queste simulazioni sono sbagliate. I redditi dei ceti medi inferiori avranno benefici del 3 per cento attraverso detrazioni e tagli alle imposte sul lavoro. I ceti medio-alti subiranno aggravi molto modesti fino a 60 mila euro di reddito. Ho calcolato la penalità d´un reddito di 80 mila (55 mila netti). Pagherà in più 66 euro al mese, una discreta cena per un coperto e una cena magra per due coperti al ristorante. Macelleria sociale? È un po´ forte.
Gli esenti dalle imposte sono i redditi fino a 8 mila euro per un singolo. Per un contribuente con moglie e un figlio l´esenzione arriva a 13 mila euro, con due figli a 15 mila. Di fatto l´asticella dell´esenzione media si colloca sui redditi da 15 mila. Non è poco.* * *
Mi pare che la vituperata macelleria si riduce a tirare il collo ad un pollo al mese. E passo perciò ad un altro argomento, quello delle tasse tasse tasse. Tutte pagate dal Nord. In particolare dal lombardo-veneto.
Che il lombardo-veneto sia la zona più produttiva d´Italia è un dato reale che fa onore a quelle regioni. Che essendo la zona più produttiva e quindi più ricca sia anche quella che contribuisce di più, mi pare altrettanto ovvio.
Che debba avere i servizi ai quali ha diritto e che su questo punto vi sia un deficit drammatico è lapalissiano e di quel deficit sono responsabili i governi degli ultimi vent´anni, a terminare col quinquennio berlusconiano.
L´opposizione, in nome del Nord, si ribella. Vuole che a pagare siano gli evasori e non i contribuenti che fanno il dover loro. Lo dice Formigoni, lo dice Cesa, lo dice perfino La Russa, il d´Artagnan dei poveri. E lo dice anche Silvio Berlusconi.
Ora a questo punto io voglio tributare un caloroso applauso a questi convertiti. Veramente. Era tempo che si convertissero e vanno accolti come altrettanti figlioli prodighi. Sia dunque ucciso il vitello grasso in onore di questi professionisti del condono fiscale.
Ciò detto, perché protestano? Di che cosa si dolgono?
Nella Finanziaria in questione ci sono 7 miliardi di entrate provenienti dal recupero dell´evasione. Sette miliardi su un´entrata tributaria stimata in Finanziaria a 13 miliardi. In dodici mesi un risultato così è un esercizio per il quale Visco meriterebbe una promozione. Si tratta di previsioni, perciò gli ho chiesto ieri se è sicuro dell´esito. E ha risposto che ne è certo. Mi auguro che porti a casa quel risultato e che prosegua su quella strada. Se nei cinque anni di legislatura si arrivasse gradualmente a recuperare il 15 per cento dell´evasione, il fisco incasserebbe annualmente niente meno che 30 miliardi da questa voce. I 7 miliardi del 2007 sono (saranno, sarebbero) un ottimo inizio perché recuperare l´evasione comporta tempi lunghi. Perciò trovo assai strano che nessuno fin qui abbia messo l´accento su quest´aspetto della Finanziaria.
Debbo aggiungere che l´evasione non è quasi mai totale. Molto spesso l´evasore paga almeno il 30 per cento del suo debito fiscale. È oltraggioso pensare alla struttura delle aziende grandi e piccole? Private e pubbliche? Ai professionisti? Agli artigiani che non ti danno una fattura nemmeno se li impicchi? Ai lavoratori dipendenti che hanno un secondo lavoro (nero)?
Non è oltraggioso, è la realtà. L´evasione, parziale ma consistente, è la frangia di ogni tappeto. Il guaio italiano consiste nell´entità della frangia che occupa a dir poco un quarto del tappeto.
* * *
I paletti di Padoa-Schioppa. Nei numeri della Finanziaria le risorse provenienti dalla sanità sono di circa 3 miliardi, dalla previdenza più di 5, dagli enti locali 4,3, dalla pubblica amministrazione (al netto dei contratti) altri 3. Per di più in queste cifre non entrano i risultati a più lungo termine che proverranno dalla riforma pensionistica di cui si comincerà a discutere dal prossimo gennaio.
Poteva far di più il tecnico Padoa-Schioppa? Forse sì, difficile dirlo, bisognerebbe star seduti su quella sedia per saperlo. Di una cosa però sono certo: il ministro del Tesoro che è un uomo politico per definizione, non poteva fare di più. Secondo me il risultato che ha raggiunto merita 110 con la lode. La mia pagella non conta, ma io comunque gliela do. E la do anche, anzi «in primis», al presidente del Consiglio al quale però mi permetto di attribuire un voto di insufficienza per la sua «performance» a Montecitorio sulla questione Telecom. Lì è andata male, lui non è tagliato per i dibattiti parlamentari. Ma sulla Finanziaria è stato bravo ed era il passaggio più tosto.
***
Resta da dire sui cinque miliardi del Tfr, punto dolentissimo per la Confindustria. E sul cuneo fiscale.
Su questo secondo aspetto non c´è che rallegrarsi: era un impegno, è stato mantenuto. Attenzione però: dà un po´ di ossigeno alla competitività e sostiene i consumi del ceto medio-basso. Ma il problema dell´imprenditoria italiana o, se volete del capitalismo italiano non si risolve certo tagliando il cuneo di cinque punti (fossero anche dieci non cambierebbe).
Non si risolve da fuori ma da dentro il capitalismo. Si risolve valorizzando gli imprenditori che innovano il prodotto e non solo il modo di produrlo; che cambiano i gusti del mercato; che modificano i termini dell´offerta, non quelli che seguono passivamente la domanda.
Ho detto prima dell´insufficienza di Prodi nel dibattito su Telecom, ma aggiungo che quell´insufficienza ha toccato il culmine negli interventi dell´opposizione. La quale si è avventata sul tema Rovati senza spendere neppure un minuto di tempo sull´assetto di Telecom, dei mancati investimenti, dell´assetto del capitale. Insomma della sostanza della questione. Prodi almeno su quell´aspetto qualcosa ha detto.
I suoi interlocutori neppure una sillaba. Un dibattito, voglio dirlo, d´una povertà intellettuale inaudita.
Il Tfr. Quei soldi, diciamolo ancora una volta, non sono delle imprese ma dei lavoratori. Se i lavoratori optano per lasciarli alla previdenza pubblica, hanno pieno diritto di farlo. Alle imprese resta comunque lo stock perché il passaggio all´Inps si esercita su una parte dell´accantonamento annuale.
Certo le imprese ne sono penalizzate. Dovranno ricorrere di più all´autofinanziamento e alle banche. In questo secondo caso spenderanno un 3 per cento in più. Saranno indotte ad essere più competitive. L´operazione si limiterà ad essere una «una tantum»? Dipende dai recuperi dell´evasione.
Intanto l´avanzo primario salirà dallo zero lasciato da Tremonti al 2 per cento. Questa è la migliore premessa per la riduzione del debito pubblico, altra meta che l´Europa richiede e che è nel nostro precipuo interesse raggiungere.
Sembra che nessuno si ricordi più del lascito che è stato ereditato dalla trascorsa legislatura. Un lascito disastroso. Con le casse vuote, l´avanzo primario azzerato, il debito in ascesa, il deficit al 4 e mezzo per cento, i cantieri delle imprese pubbliche allo sbando, la previdenza integrativa rinviata al 2008, i contratti non rinnovati.
Dopo di noi il diluvio e chi se ne frega, questa sembrò essere la filosofia di quei cinque anni.
Il diluvio per fortuna non c´è stato, la Finanziaria va ora in Parlamento col voto unanime di tutte le componenti governative.
Io vedo questo e questo scrivo. Ora comincia il passaggio parlamentare. Qualche modifica migliorativa si potrà fare ma i paletti sono stati messi e non potranno essere divelti. Il domani è in gran parte figlio dell´oggi. Oggi la giornata è stata buona.
RACCONTANO le cronache che l’altro ieri, al «meeting» riminese di Comunione e liberazione, l’ospite d’onore fosse impacciato. Trattandosi di Silvio Berlusconi l’aggettivo impacciato stupisce. Se c’è un personaggio totalmente disinibito, uno «showman» a prova di bomba, un professionista del video e dei bagni di folla, è lui. Una platea come quella di Cl, settemila allievi di Don Giussani, il crocifisso brandito come una clava e la Compagnia delle Opere come un salvacondotto sulla strada del paradiso, equivale per lui ad una flebo di adrenalina. Dunque come mai impacciato? Nonostante che un terzo di quei settemila fosse composto dalla «claque» mobilitata da Forza Italia? Io lo capisco Berlusconi, pensava d’essere insostituibile alla guida dell’Italia. Pensava d’aver creato un rapporto di ferro con Putin, con Blair, soprattutto con Bush e Condoleezza Rice. Pensava che i soldati italiani a Nassiriya fossero il pegno la garanzia e il pilastro della sua politica estera. Pensava che il governo d’Israele avrebbe buttato fuori a calci D’Alema e Prodi semmai avessero osato farsi vedere dalle parti di Gerusalemme. E infine pensava che sulla missione militare in Libano il centrosinistra si sarebbe sfarinato e dissolto come nebbia al sole.
Invece è accaduto tutto il contrario. L’Italia di Prodi, D’Alema e Parisi è diventata il partner più affidabile per Bush. Il ritiro dall’Iraq del nostro contingente militare non ha provocato neppure un battito di ciglia né al Pentagono né alla Casa Bianca. L’unità europea si è ricostruita proprio sulla questione libanese e l’embrione di una struttura militare ha fatto la sua comparsa per la prima volta proprio in seguito all’iniziativa italiana. Lo credo bene che fosse impacciato. Tanto più che, al punto in cui sono le cose, gli toccherà perfino di dover dare i voti di Forza Italia, graditi ma non determinanti, alla strategia dell’odiato Prodi.
E chi aveva a fianco come ospite d’onore al raduno di Cl? Roberto Formigoni, uno dei suoi concorrenti, il benamato, lui sì, di Don Giussani, il vero padrone della Lombardia teocon, la sua bestia nera dopo Casini o forse perfino prima di lui. Sicché dire impacciato è dir poco. In realtà chi lo conosce riferisce che fosse furibondo, ammalato di malinconia, appannato nella postura e nell’eloquio non più fluente come un tempo. Non avendo molti argomenti da offrire al pubblico, ha ritirato fuori la delicata questione dell’uomo della provvidenza aggiungendo che metà dell’Italia lo odia ma un’altra metà lo ama e lo costringe a restare in politica.
Francamente è raro che un uomo politico si vanti d’aver spaccato il Paese in due e lo consideri un merito storico. Forse qualcuno dei suoi consiglieri dovrebbe avvertirlo che quella spaccatura da lui considerata il segno del suo successo rappresenta invece una pietra tombale sui sogni di rivincita. Se avesse dei consiglieri. Ma non li ha. Ha avuto una corte e dei cortigiani. Scomparso il potere scomparsi i cortigiani. Forse Apicella, ma anche sul chitarrista non ci giurerei.
* * *
Tuttavia, lasciando da parte il ciarpame, la claque, il trapianto dei capelli e l’uomo della provvidenza, qualche cosa di serio è venuto fuori nell’incontro tra Berlusconi e Cl. Riguarda una certa idea dell’Italia, una certa idea del cattolicesimo italiano e una certa idea dell’Occidente nei suoi rapporti con le altre culture.
Avesse affrontato temi di questa importanza in una riunione di Forza Italia non varrebbe neppure la pena di parlarne; ma li ha affrontati davanti al popolo di Comunione e liberazione e allora la faccenda cambia aspetto. L’importanza non deriva da chi ha posto il tema ma da chi lo ha ascoltato.
Da come lo ha ricevuto. Dal peso che quel tema ha su una comunità di giovani cattolici cari a papa Wojtyla e al suo successore, cari a Ruini e al patriarca di Venezia che probabilmente ne prenderà il posto, cari ad Andreotti.
Gli invitati ai raduni di Cl ci vanno per essere accettati. Ciò che viene detto a Rimini, chiunque lo dica, serve a guadagnarsi il favore della platea, non a scontentarla e a farla infuriare. Alcuni ci riescono altri no e ne escono scornati e rancorosi. Bocciati. Resta da capire perché tanta gente delle più varie estrazioni voglia farsi esaminare dai giovanotti di Cl. Ecco un punto che va approfondito.
Berlusconi l’esame l’ha superato in alcune materie, ma in altre no.
Sull’invito finale a far nascere da Cl un partito moderato e liberale è stato bocciato, i ciellini non sono né liberali né moderati e lo sanno benissimo. Invece è stato promosso sulla sua idea di scuola e di cattolicesimo. Semplicemente perché non ha fatto che ripetere le cose che i ciellini vogliono sentirsi dire.
Ma quelle cose corrispondono alla realtà italiana? Agli interessi del paese? A un rapporto equilibrato tra il cattolicesimo e la modernità?
* * *
I giovani di Cl rappresentano una militanza credente. Un Cristo operativo. Pregano e operano. Si comunicano e operano. Organizzano e operano. La solitudine non è il loro forte. La contemplazione meno che mai. Li vedo molto più vicini a Giovanni Bosco che a Francesco d’Assisi. A Teresa di Calcutta che a Giovanni della Croce. Fosse tempo di crociate forse sarebbero crociati. Credo che abbiano un briciolo d’invidia verso l’Opus Dei perché il suo fondatore è già santo e quella comunità è stata elevata a prelatura. Anche Cl vorrebbe diventare prelatura e vedere il suo fondatore sugli altari, ma questi salti di qualità, purtroppo per loro, non sembrano far parte dell’agenda vaticana.
Comunque in Italia sono abbastanza potenti, sempre per via delle opere. Fuori d’Italia li conoscono poco, anzi non li conoscono affatto.
Della scuola hanno un’idea che piace molto a papa Ratzinger e a Ruini. Vogliono che lo Stato finanzi le scuole cattoliche e che queste siano equiparate a quelle pubbliche. L’idea fa breccia. Nel polo berlusconiano è condivisa da quasi tutti. Anche nel centrosinistra non mancano i consensi. Però c’è un problema: bisognerà finanziare anche le scuole musulmane, senza parlare di eventuali scuole protestanti, ortodosse, ebraiche. E poi c’è un altro problema: come si forma una coscienza della cittadinanza interetnica e interculturale se si finanziano le scuole delle varie comunità religiose? In un’Europa e in un’Italia dove la diaspora musulmana è già – e più ancora sarà – una minoranza sempre più numerosa? Con tassi di natalità crescenti?
Infine c’è un terzo problema: se lo Stato finanzia scuole religiose e le parifica alla scuola pubblica avrà ben il diritto di controllare gli standard educativi e formativi con specifica attenzione ai principi della cittadinanza. E un quarto problema ancora: di fronte al moltiplicarsi di scuole religiose quella pubblica dovrà inevitabilmente accentuare le sue caratteristiche laiche. L’insegnamento della religione cattolica, tanto per dire, cadrà per non diventare un duplicato di quanto si insegna nelle scuole cattoliche. Senza parlare delle scuole private non religiose che diventerebbero (già sono) un meccanismo finalizzato all’ottenimento del titolo di studio.
L’idea di scuola di Cl, rilanciata l’altro ieri da Berlusconi, è in realtà un nonsenso, non incrocia nessuno dei problemi del presente e del futuro. Incrocia soltanto lo slogan: «L’Italia è cattolica e deve essere degli italiani».
Il fatto che l’Italia debba essere degli italiani è ovvio. Dev’essere dei cittadini italiani, quelli che hanno cittadinanza italiana, che lavorano, che pagano le tasse, che usufruiscono dei diritti civili e politici. Quindi anche degli ebrei italiani, dei musulmani italiani, dei valdesi italiani e dei non credenti italiani. Insomma di tutti.
Ma c’è l’altra parte di quello slogan, assai meno ovvia, che afferma: l’Italia è cattolica. Chi l’ha detto? Non esiste nella nostra Costituzione. Anzi c’era nel Concordato del ‘29 ma è stato abolito. Questo in punto di diritto.
In punto di fatto ha risposto Andreotti. Alla domanda che gli è stata fatta se i musulmani dovrebbero andare a messa, ha risposto sorridendo: sono molti di più i cattolici che non ci vanno. Se lo dice lui...
Per fortuna questi meeting di Cl non contano poi granché. Servono agli sponsor e alla Compagnia delle opere. Ai giovani che ci vanno per stare insieme. Ai politici e agli imprenditori che si guadagnano un titolo sui giornali. Come alle feste dell’Amicizia di questo e di quello e ai festival dell’Unità.
Tanto il presidente del Consiglio che il ministro dell’Economia hanno detto di scorgere nel Dpef in gestazione uno strumento da utilizzare anche allo scopo di contrastare, in nome d’una maggior equità, le disuguaglianze economiche nel nostro paese. La semplice menzione di queste ultime, in rapporto a un documento governativo, rappresenta di per sé una novità di cospicuo rilievo. Sono infatti decenni che il tema delle disuguaglianze è stato escluso non solo dall’agenda, ma perfino dal linguaggio della politica. Che lo abbiano fatto le destre è comprensibile. Per le destre le disuguaglianze di reddito e di ricchezza, siano moderate o abissali, sono semplicemente l’esito, inevitabile quanto giusto, delle differenze di talento e di impegno sul lavoro che esistono tra le persone. Chi possiede il primo e si profonde nel secondo si ritrova naturalmente ai piani alti della piramide sociale. Tutti gli altri debbono accomodarsi ai piani bassi. Un po’ meno comprensibile è che pure il centrosinistra, il quale dovrebbe contare tra le sue idee ispiratrici la convinzione che la suddetta visione della società è politicamente e moralmente insostenibile, si sia parimenti tenuto per anni alla larga dal tema delle disuguaglianze. Rischiando in tal modo di farsi bypassare a sinistra, per lo meno sotto il profilo del lessico concettuale e politico, perfino da quel bastione del capitalismo moderno che è la Banca Mondiale. Nel recente rapporto di questa sullo sviluppo del mondo, per dire, la parola disuguaglianza ricorre 831 volte.
Una volta che sia accolto con interesse e apprezzamento l’ingresso del tema delle disuguaglianze nel Dpef, si tratta di vedere come il governo procederà al fine di passare dall’intento dichiarato a interventi capaci di ridurle in modo stabile. Di certo il compito è difficile. Contribuiscono a renderlo tale sia la entità delle disuguaglianze rilevabili in Italia, sia le loro profonde, e tutt’altro che recenti, radici strutturali. Quanto all’entità, è noto da tempo che l’Italia condivide con il Regno Unito e gli Usa il primato di essere, tra i grandi paesi sviluppati, uno dei più disuguali del mondo, in termini sia di reddito che di ricchezza. Nel 2004, il 10 per cento di famiglie italiane con i redditi più elevati ha percepito il 26,7 per cento del totale dei redditi prodotti, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi previdenziali e assistenziali; al 10 per cento delle famiglie con il reddito più basso è toccato solamente il 2,6 per cento, ossia oltre dieci volte di meno. La ricchezza netta totale, incluse quindi sia la proprietà dell’abitazione e di altre proprietà immobiliari, sia le attività finanziarie, appare ancora più concentrata verso l’alto. Il 10 per cento delle famiglie più ricche risulta infatti possedere il 43 per cento dell’intera ricchezza netta delle famiglie italiane; meno dell’1 per cento di questa risulta posseduto dal 10 per cento più povero (fonte Banca d’Italia). Si noti che sia il reddito sia, in maggior misura, la ricchezza degli strati superiori sono sicuramente sottostimati. Accade infatti che nei confronti di tali strati i ricercatori abbiano maggiori difficoltà sia nell’includere un tot proporzionale di famiglie nel campione osservato, sia nell’ottenere dai rispondenti dichiarazioni fedeli. La distanza reale tra chi ha poco e chi ha molto è quindi maggiore, da noi, di quanto le statistiche disponibili non dicano.
Le disuguaglianze di reddito si sono fortemente approfondite in Italia non da ieri, bensì tra la metà degli anni ‘80 e la metà degli anni ‘90. In seguito sono rimaste relativamente stabili. Anche le disuguaglianze di ricchezza sono esplose in tale periodo, ma anziché stabilizzarsi hanno continuato ad inasprirsi sino ad oggi, con una concentrazione crescente di essa non solo nelle mani del 10 per cento delle famiglie più ricche, ma addirittura del 5 per cento, che già nel 2000 disponeva di oltre il 36 per cento della ricchezza familiare netta. Ad approfondire il fossato delle disuguaglianze economiche in Italia hanno contribuito diversi fattori. Anzitutto, se si guarda verso il basso, si è avuta una stagnazione delle retribuzioni reali che per entità e durata non trova paragoni negli altri maggiori paesi europei. Tra il 1995 e il 2005, le retribuzioni reali dei dipendenti del settore manifatturiero, calcolate cioè al netto dell’inflazione, sono aumentate di oltre il 25 per cento nel Regno Unito, di oltre il 14 in Francia, e di oltre il 9 in Germania. In Italia, l’aumento è stato di un misero 1,5 per cento (dati Ocse). Ciò significa che un operaio che guadagnava l’equivalente di 1.000 euro mensili nel 1995 ne guadagna oggi 1.250 se è inglese, 1.140 se è francese, e 1.090 se è tedesco. Se è italiano, si deve invece accontentare di 15 euro d’aumento, un paio di biglietti del cinema in più al mese.
Verso l’alto, il fossato appare essere stato scavato prevalentemente dalla crescita della quota degli attivi finanziari presenti nel patrimonio delle famiglie, soprattutto nel 10 per cento e ancor più nel 5 per cento costituito dalle famiglie più ricche. Il valore complessivo di tali attivi è stato accresciuto vuoi dal rilevantissimo incremento del loro corso borsistico, ad onta del rallentamento di questo verificatosi nei primi anni 2000, vuoi dai dividendi percepiti: l’accumulazione degli uni e degli altri essendo favorita anche da un trattamento fiscale eccezionalmente favorevole, con un’aliquota fissa del 12,5 per cento sui guadagni di borsa, giusto la metà di quel che pagano le famiglie e gli operatori americani. Oltre che dall’andamento dei redditi e della ricchezza rilevati dalle indagini dirette sui bilanci familiari, l’ampliamento del fossato tra chi ha e chi non ha trova un perentorio riscontro in un dato macroeconomico. Tra la metà degli anni ‘70 e i primi anni 2000, la quota di reddito da lavoro dipendente in rapporto al valore aggiunto è scesa di ben dieci punti, dal 48 al 38 per cento, mentre la quota dei profitti nel settore privato saliva di sei-sette punti già a metà degli anni ‘90 e si manteneva stabile dopo d’allora (dati Ocse e Fmi).
Questo insieme di dati sulle disuguaglianze economiche, sulla loro entità e sulla loro storia, attestano che al fine di ridurle stabilmente, almeno in qualche misura, la leva fiscale può essere utile ma non è sufficiente. Occorrerà pensare ad altri strumenti redistributivi, convergenti – a partire da un aumento del salario reale – in una crescita del reddito effettivamente disponibile quanto meno al 20 per cento delle famiglie a reddito più basso. Prendiamo atto, in attesa di vedere concretate le sue misure, che per la prima volta il Dpef di quest’anno sembra essersi fatto carico della questione. Con una (nostra) nota finale per i possibili obiettori: i paesi che presentano indici di disuguaglianza nettamente minori rispetto all’Italia pagano salari più elevati, ed offrono alla collettività servizi sociali migliori, mentre hanno tassi di produttività superiori e ci superano abbondantemente in tema di tecnologie ed esportazioni.
E' anomalo che un'anomalia duri da più di trentacinque anni, ma la difficile esistenza de il manifesto è tutta qui. Siamo un mostro. Da salvare, perché se muore non si riproduce più. Perché proprio adesso rischiamo di chiudere, perché abbiamo difficoltà a pagarci gli stipendi da febbraio: è una storia singolare da giornale libero e di mercato, un'anomalia mondiale. E che vuole risanarsi per ripartire. Più o meno la stessa missione - fatte le dovute proporzioni - del ministro Tommaso Padoa Schioppa.
L'attuale pericolosissima crisi nasce da lontano. Su un fatturato di 17,5 milioni di euro e 121 dipendenti, il contributo della legge per l'editoria alla nostra cooperativa vale il 25% mentre quello da incassi pubblicitari il 9,6% contro circa il 50% degli altri giornali. Il resto delle entrate sono da vendite da edicola e dalle poche promozioni che siamo in grado di fare - perché le promozioni necessitano di investimenti importanti - e comunque tutte rigorosamente in utile. Dai libri alla musica dei cd, dove il manifesto ha affermato in poco più di dieci anni un vero marchio di qualità.
Nonostante abbiamo ridotto gli oneri degli interessi passivi dal 10 al 5% fin dagli inizi del millennio, il peso del debito ci sta stritolando. Pure a fronte di un risanamento patrimoniale cominciato nel 2001 che ha portato a una secca riduzione del debito oneroso e a fronte di bilanci che, tra alti e bassi, non producono più da anni voragini nel conto economico e indicano anzi un certo equilibrio di gestione. Il 2005 abbiamo chiuso con una buona media di 29.000 copie vendute, a causa però di eventi eccezionali come la vicenda del sequestro della nostra Giuliana e la morte di Nicola Calipari. O addirittura per la scomparsa di Giovanni Paolo II.
Quel che ci sta spingendo sull'orlo del baratro è però il peso del debito, che sacrifica le risorse finanziarie correnti e azzera ogni possibilità di investimento. Quel che incassiamo serve a far fronte al piano di ammortamento del debito a breve e medio termine. Ogni volta che discutiamo una nuova possibile iniziativa ci chiediamo: e il budget? E' sempre zero, facciamo qualche miracolo, certamente si può e si deve provare a far meglio, ma la situazione è questa. La campagna che lanciamo oggi sta nell'esigenza di trovare subito risorse straordinarie per equilibrare i flussi finanziari, per stare contemporaneamente dietro al debito pregresso e avere denari per investire.
Dove? Sul giornale innanzitutto, il cuore del mostro; su nuove iniziative editoriali che abbiano un peso sul mercato culturale e politico, come è successo con il nostro supplemento dei trentacinque anni; sul web, strumento principe per crescere nella comunicazione mentre è in atto una crisi mondiale della forma quotidiano, come evidenzia l'erosione di copie vendute dal New Yok Times a Le Monde e Libération per arrivare fino al nostro piccolo, grande manifesto. Internet e carta, connessioni e concorrenza, il futuro prossimo. E' di pochi mesi fa uno studio del Washington Post su se stesso che poneva due domande oggi ineludibili per chi fa informazione: quanto perdiamo con il giornale on line? E quanti soldi avremmo perso se non avessimo fatto l'edizione on line?
Questa erosione globale delle vendite dei quotidiani (complice anche la crescita della diffusione free press) ci ha investito all'inizio del 2006. Sicuramente ci abbiamo messo del nostro, con molti errori. Abbiamo provato a rispondere con il nuovo giornale messo in edicola il 28 aprile scorso. Addio all'elegante formato americano, ecco il giornale che state leggendo più compatto nella formato, per tagliare i costi di carta e stampa (nel 2006 il prezzo della carta è aumentato principalmente per il caro-petrolio dell'8,5% e rischia di salire oltre l'11% entro dicembre), e più soggettivo nei contenuti, in particolare con la pagina 2 riservata agli editoriali e ai contributi dei lettori. Una scelta che scarta con il resto del panorama editoriale italiano.
Un giornale che ha dato nel primo mese segnali positivi, ma che non bastano più. Come non bastano più i 5.892 abbonamenti in essere tra postali, coupon e web, un record nella storia della nostra impresa ma al di sotto dell'obiettivo dei 7.000 indicato da Valentino Parlato all'inizio della campagna 2005-2006, nello scorso novembre. Un obiettivo mostruoso, verrebbe da dire.
Salviamo il mostro. Perché sappiate che questo nostro esperimento antimercato rischia di chiudere. Noi ce la mettiamo tutta ma la risposta spetta a voi lettori de il manifesto e ai non lettori che tuttavia pensano che questo giornale sia un utile personaggio nella commedia, o tragedia, che stiamo vivendo.
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Sono chiuso in casa da tre settimane per terminare un romanzo, senz´altra compagnia se non quella del mio cane Zarko e del mare, felice tra i miei personaggi, ma dalle prime ore di domenica, ho cominciato a ricevere delle telefonate dei miei amici e amiche del Cile.
«Prepara i calici», mi dicono dal mio lontano paese. Ho pronta una bottiglia di Dom Perignon in frigorifero. È un riserva speciale e me la regalò a questo fine il mio caro amico Vittorio Gassman una sera a Trieste. «Spero che la berremo insieme», mi disse in quell´occasione e sarà così, perché a casa mia c´è un calice che porta inciso il suo nome.
Alla radio, una voce dice che il tiranno sta davvero male e che, a quanto pare, stavolta la Parca se lo porterà all´inferno degli indegni, anche se noi cileni non ci fidiamo mai delle repentine malattie che lo colpiscono ogni volta che deve affrontare la giustizia.
Vorrei essere in Cile tra i miei cari e condividere con loro la spumeggiante allegria di sapere che finalmente finisce l´odiosa presenza del vile che ha mutilato le nostre vite, che ci ha riempito di assenze e di cicatrici. Pinochet non solo ha tradito il legittimo governo guidato da Salvador Allende, ha tradito un modello di paese e una tradizione democratica che era il nostro orgoglio, ma in più ha tradito anche i suoi stessi compagni d´armi negando che gli ordini di assassinare, torturare e far scomparire migliaia di cileni li dava lui personalmente, giorno dopo giorno. E come se non bastasse, ha tradito i suoi seguaci della destra cilena rubando a dismisura e arricchendosi insieme al suo mafioso clan familiare.
L´ex dittatore paraguayano, Alfredo Stroessner, è morto poco tempo fa nel suo esilio brasiliano, pazzo come un cavallo, dichiarando persone non gradite in Paraguay cento persone al giorno i cui nomi estraeva dall´elenco del telefono di Sau Paulo. Pinochet, invece, muore simulando una follia che gli permette fino all´ultimo minuto di fare assegni e transazioni internazionali per nascondere la fortuna che ha rubato ai cileni. Muore amministrando il suo bottino di guerra con la complicità di una giustizia cilena sospettosamente lenta.
Smette di respirare un´aria che non gli appartiene, di abitare in un paese che non merita, tra cittadini che per lui non provano altro che schifo e disprezzo. Ma muore, e questo è quello che importa.
La sua immagine prepotente di "Capitán General Benemérito", titolo di ridicola magniloquenza che si autoconcesse, svanisce nella figura dell´anziano ladro che nasconde il suo ultimo furto tra i cuscini della sedia a rotelle. Ma muore, e questo è quello che importa.
Prima di tornare al mio romanzo, apro il frigorifero e palpo il freddo della bottiglia. Poi dispongo i calici con i nomi dei miei amici che non ci sono, dei miei fratelli che difesero La Moneda, di quelli che passarono nei labirinti dell´orrore e non parlarono, di quelli che crebbero nell´esilio, di quelli che fecero tutte le battaglie fino a sconfiggere il miserabile che ha gettato un´ombra sulla nostra vita per sedici anni ma non ci ha tolto la luce dei nostri diritti. Con tutti loro brinderò con gioia alla morte del tiranno.
(traduzione di Luis E. Moriones)
Nel programma di governo 2006-2011, con cui l’Unione ha vinto le elezioni, sta scritto: «Noi siamo contrari ai contenuti della legge n. 30 e dei decreti legislativi n. 276 e 360 che moltiplicano le tipologie precarizzanti. Per noi la forma normale di occupazione è il lavoro a tempo indeterminato». Di fronte a un impegno così esplicito, sono tanti gli elettori dell’Unione, ed i lavoratori precari, ad aver l’impressione che nei sei mesi trascorsi il governo su questo tema non si sia speso a sufficienza. Sembra che nella finanziaria alcuni provvedimenti anti-precarietà vi siano, ma a parte il fatto che la legge cambia ogni ventiquattr’ore, i loro possibili effetti, sepolti in un testo di insondabile complessità, appaiono incomprensibili alla gran maggioranza degli interessati.
E bisogna dar atto al ministro del Lavoro Cesare Damiano, cui sono state rivolte critiche sicuramente ingenerose, di avere utilizzato la normativa vigente per temperare da subito gli aspetti più negativi della legge 30. Però dal governo di cui è membro molti si aspettavano che ponesse subito mano, più che ad una serie di correttivi della legge vigente, alla elaborazione d’una nuova legge complessiva sul lavoro che ne sappia cogliere le novità ma tuteli anche alcune fondamentali acquisizioni che la precedente generazione di lavoratori, sindacalisti e giuristi ci avevano consegnato.
Se si pone mente allo scarto che gli elettori, compresi quelli precari, avvertono tra il programma dell’Unione e le realizzazioni da essa compiute finora per migliorare la situazione del mercato del lavoro, non dovrebbe apparire poi così scandaloso che alcuni esponenti del governo abbiano partecipato ad una manifestazione il cui senso sta nell’invitare l’insieme del governo a darsi una mossa per affrontare di petto, e presto, la questione del lavoro precario. Una legge generale per il lavoro, e contro la precarietà, sarebbe stato a ben vedere un impegno da affrontare nei primi cento giorni di governo. Ne sono trascorsi ormai più del doppio, ma se non si cambia marcia, in tema di legislazione sul lavoro, si rischia di finire per affrontare la questione a metà 2007 se non più avanti. Centomila precari in piazza mandano a dire che non si può più aspettare tanto nel mettere in pratica quelle quattro righe del programma dell’Unione.
È arcinoto che nel governo vi sono al riguardo posizioni differenti. Da un lato coloro che credono sia possibile e utile mantenere la flessibilità dell’occupazione mirando a evitare, per mezzo di più efficaci ammortizzatori sociali (termine e concetto orrendi, ma tant’è), che essa si trasformi in precarietà del lavoro e della vita. Dall’altro quelli che credono invece che l’occupazione con data di scadenza a breve appuntata sul petto della persona al lavoro - poiché a questo equivalgono i contratti atipici e i contratti a tempo indeterminato - si configuri implacabilmente come un’anticamera della precarietà. Al fine di ridurre le distanze tra gli uni e gli altri potrebbero forse servire un paio di considerazioni che traggono anch’esse lo spunto dalla manifestazione di Roma.
La prima è che le dimensioni del problema lo hanno ormai trasformato da circoscritto problema del mercato del lavoro a vasto problema sociale e politico. Per quanto sia arduo valutarne con precisione il numero - come si fa, per dire, a contare quelli che hanno una partita Iva imposta da un padrone che poi li fa lavorare come dipendenti? - si può stimare che il numero complessivo dei lavoratori che a vario titolo hanno un’occupazione con data di scadenza, per lo più a breve termine, si aggiri sui tre milioni e mezzo-quattro milioni. Inclusi i familiari, le persone direttamente toccate sono quindi almeno il doppio, sette od otto milioni. Almeno un terzo dei precari lo sono da lustri o decenni. Tutti vanno incontro, e per parecchi l’evento non è lontanissimo, a pensioni miserande, dell’ordine del 30% o meno di un salario medio. Siamo dinanzi, in altre parole, a un gigantesco processo di esclusione ed emarginazione sociale che riguarda almeno il 15 per cento della popolazione italiana. Senza contare coloro che hanno un lavoro stabile, ma che l’ansia trasmessa dalla visibilità e diffusione dell’occupazione precaria sta ponendo in stato di forte disagio. In ambito politico simili processi preparano la strada a due scenari: un massiccio astensionismo elettorale, o il successo di qualche rinnovato pifferaio di Hamelin.
Chi non abbia orecchio per il tasto politico, dentro l’Unione, potrebbe forse ascoltare quello economico. La diffusione dell’occupazione precaria equivale a scaricare ogni giorno migliaia di camion di ghiaia nei complessi ingranaggi dell’economia contemporanea, ovvero, per chi preferisca metafore high tech, a introdurre gran copia di virus devastanti nelle sue reti informatiche. L’economia richiede oggi più che mai formazione continua; sviluppo di culture del lavoro e dell’impresa condivise; assunzione di responsabilità del lavoratore in tema di tempi e qualità del prodotto; motivazione personale a lavorare con scrupolo e lealtà derivante dalla sicurezza dell’occupazione, del reddito, dei propri diritti sul lavoro. Giusto le sicurezze, tangibili e misurabili, che secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro definiscono il lavoro decente. Se si offre ad alcuni milioni di persone un lavoro indecente, ossia precario, perché viola tutte o quasi le suddette sicurezze, non ci si lamenti poi che la produttività del lavoro è troppo bassa, e la competitività delle imprese è scarsa.
Lo stesso giorno della manifestazione di Roma è stato raggiunto l’accordo tra governo e sindacati per il rinnovo del contratto per il pubblico impiego. È una buona notizia. Era un accordo atteso e necessario. Tuttavia, data la concomitanza dei due eventi, qualche precario potrebbe magari pensare che il governo un minimo di attenzione in più poteva riservarla anche a lui (o lei). E qualche solerte critico dei sindacati potrebbe per una volta aver ragione - una soltanto - se si affrettasse a ripetere, come suole, che i sindacati sono forti nel difendere le istanze di chi ha un lavoro stabile, e alquanto fiacchi quando si tratta di sostenere coloro che un lavoro stabile se lo sognano.
Se leggete i grandi giornali italiani vi convincete di questo: l’Italia è sull’orlo del comunismo. I riformisti hanno ceduto di schianto, la sinistra radicale detta legge, e così si afferma quel principio di “vendetta sociale” - o almeno, come dicono i più moderati, di “rivincita sociale” - che è l’esatto contrario del riformismo e porterà il paese alla rovina perché fermerà lo sviluppo e la produzione della ricchezza.
Queste cose le dice Berlusconi? Non solo lui, le dicono i commentatori del “Corriere della Sera” e della “Stampa” (ma anche di “Repubblica” e, ovviamente, di tutti i giornali di destra), lo dicono prestigiosi e seri intellettuali, anche di centrosinistra, lo dice - per esempio - un sofisticato e serio analista dell’economia italiana come Mario Deaglio. E’ proprio lui ad usare questa formulazione sfumata (“rivincita sociale”) per correggere appena la più cruda “vendetta sociale” denunciata da Berlusconi. In che consiste questa rivincita o vendetta? Nell’idea idea - che effettivamente è stata sommessamente avanzata dalla sinistra - di prevedere alcuni modesti meccanismi di redistribuzione della ricchezza - usando lo strumento fiscale - dopo un quindicennio che ha visto un massiccio spostamento di denaro dai salari ai profitti e alle rendite. Volete qualche cifra? Eccole qui. Negli ultimi venti anni è successo questo: i salari e gli stipendi, che costituivano il 60 per cento della ricchezza nazionale ai primi anni ’80, ora sono poco più del 40 per cento. Profitti e rendite, che erano circa il 40 per cento, ora sono circa il 60 per cento. Che vuol dire? Che profitti e rendite si sono mangiati, più o meno, la metà del monte salari. Una enormità, uno spostamento gigantesco, un rovesciamento degli equilibri sociali. La sinistra ora ha proposto una piccola - minuscola - correzione fiscale (che sta dentro l’idea liberale, non comunista, della progressività del prelievo fiscale, cioè di una proporzionalità tra ricchezza e tasse da pagare) e la correzione consiste in questo: chi guadagna più di 70 mila euro all’anno - e quindi non fa la fame - dovrà pagare di tasse (solo sugli euro che guadagna in più rispetto ali 70 mila) una tassa più alta (del 10 per cento) rispetto a quella che tocca a chi guadagna trenta o quaranta mila euro. Quali saranno le conseguenze? Che chi guadagna 80 mila euro dovrà pagare, ogni mese, una trentina di euro in più di tasse, chi guadagna 90 mila euro dovrà pagare circa 60 euro in più di tasse al mese, chi guadagna più di 150 mila euro all’anno dovrà pagare 100 euro in più al mese. Secondo voi un signore che guadagna 150 mila euro all’anno se ne accorge di quei cento euro di tasse in più?
Rifondazione comunista ha affisso ai muri un manifesto molto spiritoso, mi pare, che dice: “anche i ricchi piangano”. Piangano: al congiuntivo “esortativo”. Io però non credo, francamente, che nessuno piangerà per quei cento euro...
Ieri la Guardia di finanza ha scoperto, nel foggiano, un giro di immigrati clandestini che lavorava per dieci ore al giorno a raccogliere pomodori per uno stipendio lordo, più o meno, di 500 euro al mese. Cercate bene la notizia sui giornali di oggi, da qualche parte la troverete, senza grandi toni di indignazione, perché le possibilità di indignazione sono state tutte già esaurite nelle 10 o 15 pagine precedenti, per denunciare questa assurda pretesa del governo di “punire” i ricchi col salasso da 50 o 100 euro ( e pare che mettano anche una odiosa tassa sui gipponi di lusso...).
Il bello è che tutta questa indignazione è sostenuta da una considerazione politica: la presa d’atto della resa dei riformisti. Dicono i giornali che i riformisti hanno alzato bandiera bianca di fronte ai radicali e hanno rinunciato alla politica di rigore, che invece dovrebbe essere una loro caratteristica. Ma cos’è una politica di rigore? Facile da spiegare: è una politica che invece di imboccare la “facile strada” di prendere i soldi ai ricchi, sceglie la via coraggiosa di ridurre lo stato sociale e di peggiorare la condizione di vita dei poveri. Questo è rigore, questo è riformismo vero. Lo dice anche Deaglio. Non si illudano gli operai di poter continuare a usufruire dei loro privilegi (non è uno scherzo: dice proprio così...). Io penso che se un tipo come Turati (ve lo ricordate Turati, quello con la barba lunghissima e il cilindro, il padre del riformismo italiano) sentisse che oggi i veri riformisti sono quelli che vogliono smantellare lo stato sociale, poveretto, gli prenderebbe una sincope e morrebbe un’altra volta.
Mi chiedo: dove sta scritto che rafforzare anziché smantellare lo stato sociale, e redistribuire (assai modestamente, per altro) le ricchezze, riducendo magari un pochino la povertà, sia la tomba dello sviluppo? Negli anni ’30 non fu Stalin ma un presidente americano, un certo Franklin Roosevelt, che decise - di fronte alla depressione e alla recessione - di dare un impulso poderoso al welfare e di tentare delle politiche di redistribuzione. Non era mica un allievo di Bertinotti e di Giordano, e non aveva Ferrero tra i suoi ministri....
Se non si è embedded, coperti e rincalzati dall'esercito americano, non ci si muove da casa, può essere pericoloso. Se si è embedded, tutte le cause sono buone per muoversi. Siccome gli Usa avevano invaso l'Afghanistan e l'Iraq, siamo volati in ambedue i paesi, che fosse una aggressione o no, che sia una occupazione o no, che ne sia venuta una guerra civile o no. Siccome al confine fra Israele e Libano gli Usa non vanno, si scopre che interporsi fra due paesi in conflitto può essere pericoloso e chi ce lo fa fare? Questa sarebbe guerra e quelle sono missioni di pace.
Le persone e i partiti più curiosi si scoprono adepti di quel pacifismo che hanno dileggiato fino a ieri. E anche qualche pacifista trova che è meglio non mettersi in mezzo: il solo rispettabile, a parer mio, è Gino Strada, che preferirebbe una folla disarmata a quindicimila soldati, perché lui sta in mezzo sempre, ad aggiustare ossa rotte e cicatrizzare ferite e cercare di salvare le vite (e perciò è considerato un eversivo). E avrebbe anche ragione, ma una forza civile di interposizione non c'è.
C'è per una volta la disponibilità dell'Onu, c'è una accettazione di principio delle due parti, Libano e Israele, il primo, demolito dal secondo, la chiede con urgenza - e si continua a traccheggiare? E si ignora che in Libano gli Hetzbollah stanno alla tregua mentre Israele continua raid e bombardamenti finché la forza multinazionale non ci sarà, e qualsiasi rimprovero le venga dal Palazzo di vetro non lo sente?
Siamo stati accusati di essere antieuropei perché abbiamo giudicato indecoroso il trattato che doveva essere la base costituzionale del nostro continente. Oggi siamo noi sbalorditi della sua incapacità di metter assieme la forza di interposizione proposta dall'Onu. La Francia che se ne pretendeva l'alfiere e doveva impegnare 2.000 uomini sui 15.000 giudicati necessari, s'è ricordata che sta entrando in campagna elettorale per le presidenziali e senza arrossire ne manda duecento.
La Spagna più di 700 non ne mette, e fanno 900. La Germania non ne mette nessuno per un certo comprensibile pudore che un soldato tedesco si trovi di fronte, anche per un semplice controllo, un soldato israeliano. La Gran Bretagna di Blair manda i suoi sempre e solo dietro gli Usa. L'Italia s'è impegnata per 3.500 uomini, a certe condizioni che apparentemente sono garantite. Ma ci staremmo, noi gli spagnoli e i duecento francesi soli soletti? D'Alema si dà da fare. Nessun altro, anzi Rutelli mette il bastone fra le già fragili ruote. Quale stupenda prova di solidarietà e saggezza l'Europa sta dando! Come sospettavamo essa esiste soltanto come Banca centrale, moneta unica, libero mercato e coordinamento di polizie. Il resto è nulla.
Peggio, quel che da cancellerie e media stiamo sentendo sono argomentazioni invereconde, a coprire il fatto che chi se ne frega se il Libano è fatto a pezzi. In ogni caso Beirut ha la colpa di albergare i terroristi di Hetzbollah. Noi che difenderemmo l'esistenza di Israele, se fosse messa in causa, con le nostre persone - perché la libertà degli ebrei è un valore nostro - siamo convinti che gli Hetzbollah sono stati creati dalla infausta invasione israeliana del Libano nel 1982.
Senza questa e senza l'occupazione della Palestina dal 1967 ad oggi, non avremmo due forze islamiche e islamiste elette dai due popoli fino al governo, perché sono le sole a costruirne e reggerne la rete civile e sociale. Essi riempiono un vuoto che è stato colpevolmente creato. Israele sembra non rendersi conto ancora dei guasti che ha fatto in Medio Oriente, essa che poteva esserne un lievito. E continua a farne: quale altro paese potrebbe sequestrare la metà d'un governo democraticamente eletto? Chi altro sta da quaranta anni fuori dai propri confini?
La politica di Israele semina odio e poi lo teme. Il tutto senza che il mondo batta ciglio perché tanto, se lo batte, Tel Aviv resta indifferente, convinta come è di avere il più forte esercito di tutto il Medio Oriente e alle sue spalle quello più forte del mondo, cioè il Pentagono? È bene che una presenza internazionale sconsigli alla resistenza armata di Hetzbollah di lanciare missili e razzi, cosa che già adesso ha cessato di fare - dico con intenzione resistenza armata perché Hamas e Hetzbollah non c'entrano affatto con Al Qaida - ed è bene che il solo fatto di esserci, impedisca a Israele di fare raid nel Libano del sud come sta ancora continuando a fare, non senza minacciare un secondo round. Bisognerebbe interporsi anche fra Israele e Palestina, altro che muri. Finché le Nazioni Unite non riusciranno a impedire i conflitti e sanzionarli, conteranno sempre meno. E quanto all'Europa, non si capisce perché dovrebbe essere presa sul serio.
Due notizie piuttosto sconvolgenti. La prima. In un lontano sistema solare, in una sperduta galassia, su un piccolo pianetino, c'è un ministro della giustizia che si compiace e si complimenta perché un condannato ha saputo «spaventare i giudici». È un inedito in tutto l'universo che unministro della giustizia si rallegri perché i giudici sono stati intimiditi. La seconda notizia: quel lontano sistema solare è il nostro, la galassia, il pianetino, e persino il povero paese è il nostro. E si capisce che anche il ministro della giustizia è «nostro», Clemente Mastella: forse dovremmo farcene una ragione. Commentando le sentenze della giustizia sportiva, il famoso ministro della giustizia premette che parla «da tifoso», e già questa è una scemenza grossa (può un ministro della giustizia parlare da tifoso? O da alpinista? O da caciocavallaro?). Poi, commentando la sentenza - un po' più leggera con la squadra di Berlusconi che con le altre coinvolte - dice, papale-papale: «Berlusconi alla fine è stato bravo perché l'hamessa sul piano politico. E, forse i giudici si sono trattenuti. Magari si sono anche spaventati un po'». Naturalmente la libertà di parola comprende l'eventualità che si pronuncino solenni puttanate, e nessuno può farci nulla.Ma che un ministro della giustizia applauda il condannato perché se l'è mezza cavata spaventando i giudici rischia di aprire scenari imprevedibili e interessanti. In sostanza lo si può leggere come un accorato appello: imputati, condannati, indagati (purché potenti, s'intende), il consiglio del guardasigilli della nazione è di buttarla in politica e spaventare i giudici. È vero che il precedente ministro della giustizia era un «padano rinato» e i giudici li intimoriva lui in prima persona, cosa che era altrettanto enorme.Ma non si era cambiato segno? Non si erano vinte le elezioni? Non si era riportata in auge la «questione morale» con annessi e connessi, tra i quali - credevo - la regola aurea di non spaventare, intimidire, imbavagliare o delegittimare i giudici? C'è di peggio. Dice Mastella: «Parlo da tifoso. Dico quello che penso». Insomma, non solo lo dice, che sarebbe il meno, ma lo pensa pure! Mi sembra evidente che su quel povero pianetino il governo «di sinistra» abbia un piccolo problema. Come chiamare sennò il capo del pollaio che si complimenta col lupo perché intimidisce le galline?
Tito Boeri, docente ordinario alla Bocconi di Milano, direttore della Fondazione Rodolfo De Benedetti e fondatore del sito di informazione economica lavoce.info, non ha dubbi: se si dovesse disegnare una nuova mappa dei poteri economici in Italia bisognerebbe partire dai «futuri ex monopolisti, i managers a capo di società privatizzate in settori che dovevano essere liberalizzati, ma che sono rimasti in condizioni di monopolio». Sono i padroni dell'energia, del gas e dei trasporti, per certi aspetti anche quelli delle telecomunicazioni. «E' inutile nascondersi - dice Tito Boeri - gruppi come Eni, Enel, Snam rete gas e Autostrade, pur di mantenere le loro posizioni di monopolio, impongono costi molto elevati all'intero sistema economico. Si spera che il governo Prodi riesca a farli diventare ex-monopolisti perché il governo guidato da Silvio Berlusconi è stato molto accondiscendente nei loro confronti».
Un giudizio molto netto il tuo.
Non potrebbe essere altrimenti. I gruppi di cui stiamo parlando sono figli di una trasformazione incompiuta. Alle (parziali o totali) privatizzazioni dovevano seguire le liberalizzazioni dei settori chiave dell'economia, ma queste non sono mai avvenute o non si sono istituite autorità forti di regolazione dei mercati.
Che cosa dà così tanto potere ai futuri ex monopolisti?
In alcuni casi è la presenza dello Stato nell'azionariato. La timidezza con la quale i governi hanno gestito la liberalizzazione è determinata anche dal fatto che lo Stato incassa lauti dividendi dalle società partecipate. In altri casi sono gli azionisti privati ad essere fortemente rappresentati nel processo politico, a differenza degli utenti.
Mi puoi fare un esempio?
Prendiamo il caso del gas, da cui poi derivano anche i costi della bolletta elettrica, perché l'elettricità è generata in gran parte bruciando il gas. Il gruppo Eni sembra opporsi in tutti i modi ai tentativi di aumentare la capacità di importazione di gas. Questo fa lievitare i costi, ma nessuno si attiva per impedire che i proprietari e gestori della rete remino contro il paese. Non lo fa il Tesoro, che potrebbe intervenire, dato che controlla l'impresa. Non lo fa Confindustria, di cui Eni è grande contribuente. Si limita a tuonare contro i prezzi dell'energia, ma non usa fino in fondo il proprio potere cogente nei confronti di un associato.
Secondo te il governo Prodi ha qualche possibilità di cambiare rotta?
Lo spero. Il disegno di legge Bersani, il cosiddetto Bersani 2, chiede una delega per, me lo auguro, attuare vere liberalizzazioni in questo settore. Utile che ci fossero segnali in questa direzione nel Dpef. Negli ultimi Dpef di liberalizzazioni proprio non si parlava. Misura evidente dell'importanza attribuita al problema dal Governo Berlusconi.
E gli altri futuri ex-monopolisti?
Autostrade Spa continua a operare potendo imporre agli utenti pedaggi molto elevati. Nel libro «Oltre il Declino», di cui sono curatore assieme a Riccardo Faini, Andrea Ichino, Giuseppe Pisauro e Carlo Scarpa, abbiamo ricordato che nel 2002 i Nars, un gruppo tecnico di valutazione del Cipe, aveva espresso parere favorevole all'abbassamento delle tariffe autostradali, ma alla fine si sono accettate pressoché in toto le proposte di aumento dei pedaggi formulate da Autostrade Spa. E il titolo in borsa è balzato alle stelle
Da dove nasce questa anomalia?
Dalla liberalizzazione sono nati soggetti economici che hanno il potere economico e la forza politica per bloccare i passi successivi. Questi gruppi hanno una forte influenza sul potere politico.
Vi è poi una seconda anomalia, legata alla devolution all'italiana. Il decentramento ha dato molti poteri alle Regioni e ai Comuni e questo trasferimento di poteri ha rafforzato i poteri economici locali che, dalle società municipalizzate al commercio, sono in grado di bloccare le liberalizzazioni.
Noterai che non ho inserito tra i grandi poteri economici, molti grandi gruppi industriali. Questi, dopo l'introduzione dell'euro, non essendo più protetti dalle svalutazioni competitive, sono impegnati in una lotta di sopravvivenza che, peraltro, è una battaglia competitiva dell'intero paese. E' un esempio del fatto che, quando cambia il contesto in cui le imprese operano, queste possono diventare forza motrice anziché palla al piede del Paese. Sempre che lo stato non ceda alle richieste di aiuti, ma il potere di contrattazione di questi gruppi si è molto affievolito
Come ha agito il governo Berlusconi verso i nuovi poteri?
Come dicevo, il governo Berlusconi non ha fatto nulla per la liberalizzazione dei mercati. L'ex presidente del consiglio forse non ha voluto rischiare di perdere coesione nella sua maggioranza (i cui parlamentari erano nella maggioranza avvocati, notai, commercianti e liberi professionisti) e ha sempre agito con orizzonti molto brevi, non realizzando i grandi vantaggi che sarebbero derivati per l'economia del paese dalla liberalizzazione di questi settori.
E il governo Prodi quante possibilità ha di riuscire a scalfire il potere dei nuovi monopoli?
Direi che il governo Prodi ha più possibilità di lavorare in direzione di una liberalizzazione delle professioni e, spero, abbia la lungimiranza di intervenire nell'energia. A differenza del governo Berlusconi, legato a doppio filo ai lavoratori autonomi, Prodi rappresenta maggiormente il lavoro dipendente, un'area sociale che è meno ostile a una maggiore concorrenza nei servizi e nelle professioni.
Un'ultima domanda che esula dall'argomento di questa intervista ma che ha molto a che fare con i temi di cui ti occupi da sempre: il mercato del lavoro. Che cosa si deve fare con la legge Biagi, abolirla, rifarla, modificarla?
E' un tema delicato. In un articolo comparso su lavoce.info Pietro Garibaldi ed io abbiamo proposto un «sentiero verso la stabilità» che faciliti l'ingresso nel mercato senza creare precarietà e segregazione. I problemi strutturali del nostro mercato del lavoro sono tutti legati all'ingresso. Difficile entrare nel mercato del lavoro formale per giovani in cerca del loro primo impiego e per donne dopo la maternità o lunghi periodi passati a lavorare a casa. Ma è difficile rientrare anche per chi è costretto a uscirne durante una fase di una vita che diventa sempre più lunga. Il rientro è difficile anche per chi sceglie di stare per un po' fuori dal mercato, cosa che avverrà in modo sempre più frequente. Per non fare deprezzare il nostro capitale umano in un percorso lavorativo che non può che allungarsi assieme alla vita vissuta, si può avere bisogno di prendere, ogni tanto, dei «periodi sabbatici». Deve essere possibile entrare prima, uscire e poi rientrare, senza trovarsi di fronte a ostacoli insormontabili.
Non è stata e non poteva essere - come pure Berlusconi si augurava - la marcia dei 40.000 quadri Fiat del 1980: ma è stata una manifestazione che sarebbe un grave errore sottovalutare. Non erano due milioni, ma erano comunque moltissimi e poi, la cosa a mio parere più importante, rappresentavano una parte rilevante dell'attuale società italiana.
Non bisogna dimenticare che nelle ultime elezioni politiche lo scarto tra centrosinistra e centrodestra è stato modesto; dobbiamo avere sempre presente che nella società italiana di oggi il berlusconismo è una cultura diffusa; e tanto meno si deve dimenticare che nell'elettorato di centrosinistra è cresciuta la tentazione dell'astensionismo. Certo, c'è stato lo sforzo organizzativo e ci sono stati i soldi di Forza Italia, ma sarebbe assolutamente erroneo e controproducente definire «vacanze romane» la giornata di ieri.
L'adunata in piazza San Giovanni è stata una cosa seria. Molto presente e vivace (anche con Gianfranco Fini in motocicletta) era Alleanza nazionale, ma poi c'erano - più numerose e preoccupanti - le famiglie di Forza Italia (nel suo discorso Berlusconi ci ha ubriacati di familismo).
Il discorso di Berlusconi, protagonista e «santo» della giornata, è stato assolutamente vuoto. Non ha osato avanzare nessuna proposta appena credibile di politica: solo slogan dopo slogan. Ma è stato un discorso dichiaratamente eversivo. L'attuale governo - ha detto - non solo è contro il popolo, ma non ha più la maggioranza e si fonda sulla «barbarie comunista»; addirittura, in un impegno di demagogia, Berlusconi ha chiesto la riconta dei voti delle ultime elezioni politiche. Sempre nei giochi della politica, che ci sono stati anche a piazza San Giovanni, Fini ha insistito, per alzarne il prezzo, sulla sua fedeltà. Ma poi Berlusconi lo ha costretto a far pace con Alessandra Mussolini. I soliti giochi - nei quali Casini subisce un insuccesso.
E il centrosinistra, accusato di essere il borseggiatore dei cittadini, che dice? Debbo confessare che mi viene il sospetto - certamente cattivo e spero sbagliato - che, così come Prodi si regge su Berlusconi, anche Berlusconi si regga su Prodi. Se così fosse, povera Italia.
Ma torniamo al centrosinistra. Non può prendere sottogamba - come mi pare abbia fatto Prodi - la giornata di ieri e le centinaia di migliaia di persone che erano a Roma. Ma non può neppure mettersi a far concorrenza a Berlusconi. Dovrebbe avere - e può ancora riuscirci - delle posizioni nette: sull'economia, sul fisco, sul lavoro, sulla scuola e su tutto il resto. E dovrebbe avere anche la forza di mandare un messaggio di moralizzazione della politica.
Conterà poco dal punto di vista della contabilità nazionale, ma sarebbe pur sempre un messaggio di fuoriuscita dalla cultura berlusconiana che in questa fase infetta il paese. Le persone che affollavano ieri piazza San Giovanni - mosse certamente dagli egoismi della cultura berlusconiana - a un messaggio forte di moralizzazione, credo, sarebbero sensibili.
Non è facile capire cosa sta succedendo di questi tempi a Napoli. Non è facile neanche trovare il bandolo della matassa: l'origine del malessere che sta avendo la sua tragica espressione negli ammazzamenti di giovani da parte di giovani e altri fatti di sangue. Ma c'è di peggio: comincio ad avere il dubbio che non ci sia neanche tanta voglia di capire. E questo non solo per l'alternativa davvero insensata tra invio dell'esercito o rafforzamento della polizia. L'esistenza stessa di questa alternativa implica l'assunto che si tratti solo ed esclusivamente di una questione di repressione. Questo è al contempo sbagliato e crudele. D'altro canto né un giovane poliziotto inesperto, né un ragazzetto militare, per quanto bullo (io preferisco quelli spaventati), possono agire con efficacia in un contesto a loro estraneo, in situazione in cui la strada o il vicolo sono sotto il controllo di criminali.
Ho misurato le parole e non ho parlato di «controllo del territorio da parte della criminalità organizzata», come fanno solitamente non solo i giornalisti sbruffoni,ma anche spesso le autorità statali e amministrative (e almeno queste ultime per coerenza dovrebbero dimettersi per manifesta incapacità).
Una sorta di comodo «cupio dissolvi» va ora di moda a Napoli. Sembra di rileggere La pelle di Malaparte. Tutto è camorra e la camorra fa tutto: esporta cadaveri cinesi, produce prodotti contraffatti per miliardi in Campania e li vende in tutto il mondo, organizza le elezioni e fa le stragi. Su questo sono tutti d'accordo. Viene perciò da chiedersi che ci stiano a fare il governatore o i dirigenti della dogana o quelli della guardia di finanza. E con questo non voglio neanche dire che «c'è una parte sana della città». Già ce lo racconta tutta la stampa ma la cosa è in parte ovvia in parte neanche del tutto vera. Cos'è la parte sana della città? Quella che abita al Vomero( e ha mostrato di essere seccata perché il quartiere è raggiungibile con la Metropolitana da Scampia) o a Posillipo e si limita a praticare il crimine in colletto bianco? O i berlusconiani per bene collusi con gli ambienti camorristi?
Un altro fondamentale elemento di confusione riguarda il discorso sulla cultura e la mentalità. Essa discende dalla distinzione tra parte sana (quella borghese, la parte per bene) e parte corrotta: parte legata alla camorra e soprattutto lontana dallo stato. Le chiacchiere sullo spirito di clan contrapposto alla civicness di Putnam (che mancherebbe a Scampia) hanno anch'esse invaso i giornali nazionali. A Napoli avrebbe vinto la cultura della camorra, la cultura dell'antistato (dimenticando gli stretti nessi tra camorra e stato).
Che ci sia una perdita di fiducia nelle istituzioni a Napoli mi sembra fin troppo ovvio ed evidente. La fiducia è durata fin troppo con i tassi di disoccupazione registrati in città. E per quel che riguarda un giovane o una donna di Scampia non si può certo imputare alla loro mentalità il fatto che non trovino lavoro. La cosa non ha neanche a che fare genericamente con la «latitanza delle istituzioni», ma con l'assenza di uno straccio di politica economica e per l'occupazione in una città devastata dalle dismissioni (così bene descritte da Ermanno Rea). E ancora per quel che riguarda i giovani, anziché raccontare i record nei tassi di abbandono scolastico nei quartieri - come si dice ora - «a rischio » bisognerebbe da subito investire sulla scuola e sul doposcuola. Mentre ora sta per saltare (per colpa delle beghe nelle clientele locali) il progetto chance. Altro che esercito. Bisognerebbe inviare maestri. O perlomeno permettere di lavorare a quelli che già ci sono. Prima che di ordine pubblico, l’emergenza è sociale.
Intervista a cura di Tommaso Rondinella e Duccio Zola
Quando inizia a parlare Vandana Shiva le sue parole hanno il tono pacato dell'argomentazione. Ma quando arriva al cuore della sua riflessione, il timbro di voce diventa più imperioso, come chi è talmente sicura di ciò che sta sostenendo che deve dirlo con forza e foga. Laureata in fisica quantistica e in economia, ricercatrice per molti anni, Vandana Shiva fa parte di quegli «scienziati dai piedi scalzi» che a un certo della loro vita hanno lasciato i laboratori per verificare gli «effetti collaterali», cioè le conseguenze delle loro ricerche e scoperte. Per questa indiana nata in uno stato nel nord dell'india, il punto di svolta è stato quando si è imbattuta in un progetto della Banca mondiale che aveva distrutto l'economia locale di una regione indiana.
Da allora, infatti, ha abbandonato la ricerca scientifica per dare vita nel 1982, assieme ad altri ricercatori, al «Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali». Il primo risultato della sua nuova attività di studiosa è condensato dal libro Sopravvivere allo sviluppo (Isedi). Da allora ha pubblicato molti saggi, tutti estremamente critici verso la «globalizzazione neoliberista», di cui vanno ricordati Biodiversità, biotecnologie e agricoltura scientifica (Bollati Boringhieri), Biopirateria. Il saccheggio della natura e saperi locali (Cuen), Vacche sacre e mucche pazze (DeriveApprodi), Il mondo sotto brevetto (Feltrinelli) e Le guerre dell'acqua (Feltrinelli).
In Italia per un ciclo di conferenze - è stata ospite del forum della campagna Sbilianciamoci e ha partecipato alla rassegna Torino Spiritualità - abbiamo incontrato Vandana Shiva e con lei abbiamo parlato del suo ultimo libro Il bene comune della Terra, da poco uscito per Feltrinelli .
Nel tuo libro descrivi la relazione tra questo modello di globalizzazione economica e il diffondersi di terrorismi e fondamentalismi. Puoi illustrarci questo legame?
Ciò che cerco di evidenziare sono i percorsi che generano una cultura di «sfruttabilità», basata sul poter disporre di tutto e tutti perché a ogni cosa e a ognuno è assegnato un prezzo. Questa condizione, economica e culturale allo stesso tempo, cambia il modo in cui pensiamo l'uno all'altro e in cui ci mettiamo reciprocamente in relazione, ed è all'origine di innumerevoli conflitti. Essa favorisce l'affermazione di «identità in negativo», basate su un atteggiamento escludente, che rifiuta l'altro.
Questo modello di sviluppo che nega diritti, marginalizza ed espropria è alla radice di fondamentalismo e terrorismo. Innesca una processo che non è insito in nessuna cultura, ma che si alimenta quando vengono create persone «usa e getta». Per fare un esempio, la crescita indiana che si legge sui giornali di tutto il mondo nasconde espropri di terra mai visti prima. E la terra sequestrata è quella dei piccoli contadini, dei più poveri. Le terre vengono poi acquistate a prezzi irrisori dalle grandi compagnie transnazionali, che così possono produrre a prezzi stracciati. Questo sta causando massicce migrazioni verso le città, dove le popolazioni sradicate, senza terra né lavoro, si aggiungono alle masse di disperati che affollano le periferie, causando un aumento dell'instabilità.
Da tempo sostieni la necessità di un controllo diretto sulle risorse e sui beni comuni attraverso una «localizzazione dell'economia» e una ridefinizione dei confini della democrazia. Cosa implica sul piano politico questa concezione?
Rispetto alla mia idea di democrazia, il modello neoliberista di globalizzazione non è altro che il dominio di istituzioni sovranazionali non democratiche e ostaggio di poche, potentissime multinazionali. La distanza è un fattore che isola. Ecco perché la pratica della localizzazione, del mettere al centro gli interessi e le legislazioni locali, riveste un'importanza fondamentale. La localizzazione permette di assicurare giustizia e sostenibilità. Ciò non significa che ogni decisione debba essere presa a livello locale, ma che debba essere discussa e approvata anche a livello locale: le decisioni migliori si prendono laddove il loro effetto può essere percepito più chiaramente.
E' importante sottolineare che questo principio costituisce un imperativo ecologico. Le crisi ambientali che affliggono il nostro pianeta derivano da un disconoscimento del ruolo delle risorse naturali. Per risolvere queste crisi è necessario che le comunità locali recuperino il controllo delle proprie risorse per costruire un'economia sostenibile. Riconquistare i beni comuni comporta dunque la necessità di poter esercitare un controllo sulla gestione statale delle risorse, delle decisioni e delle politiche di sviluppo economico. Ma al tempo stesso è necessario riprendere possesso delle risorse privatizzate dalle multinazionali attraverso gli accordi del Wto e i programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario.
Nel tuo ultimo libro denunci l'esistenza di un genocidio ai danni di donne e piccoli agricoltori...
In India mancano all'appello 36 milioni di donne a causa dell'aborto selettivo praticato sui feti femminili. Nel mondo la cifra raggiunge i sessanta milioni. Il feticidio è la diretta conseguenza dell'esclusione delle donne da un sistema produttivo basato sull'agricoltura industriale, sul consumismo, sulla mercificazione di ogni aspetto della vita umana. Questo avviene nelle regioni agricole, ma soprattutto nelle zone urbane o suburbane. A Dehli troviamo il più alto tasso di alfabetizzazione e i redditi più elevati di tutta l'India, e allo stesso tempo il maggior numero di violenze sulle donne, a partire da stupri, molestie sessuali e morti per dote. Il censimento del 2001 registra a Dehli 140 mila bambine sotto i sei anni in meno rispetto alle tendenze demografiche.
Parallelamente, lo sviluppo dell'agricoltura industriale, basata su costosissime tecnologie, sul massiccio impiego di fertilizzanti e pesticidi chimici, e sull'imposizione delle sementi geneticamente modificate, causa il fallimento dei piccoli agricoltori incapaci di sostenere i costi e la concorrenza di questi metodi. Solo nel 2004, 16.000 contadini si sono tolti la vita in India. I suicidi dei contadini poveri derivano dall'indebitamento, provocato dall'aumento dei costi di produzione e dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli. I suicidi sono l'esito inevitabile di una politica agricola che protegge gli interessi del capitalismo globale e ignora quelli dei piccoli agricoltori. Per questo io non parlo di suicidi, ma di genocidio.
La rete contadina Navdanya, che hai fondato e che coordini, si propone come un'alternativa per i piccoli contadini indiani minacciati dalle multinazionali del settore agroalimentare. Quali sono le vostre pratiche e i vostri obiettivi?
Navdanya significa «nove semi», un nome che evoca la ricchezza della diversità e il dovere di difenderla di fronte all'invasione delle biotecnologie e delle monoculture dell'agricoltura industriale. Insieme ai brevetti che monopolizzano i diritti sulla proprietà intellettuale introdotti dal Wto, dalla convenzione sulla biodiversità e da altri accordi commerciali, le biotecnologie riducono la diversità delle forme di vita al ruolo di materie prime per l'industria e i profitti. I semi geneticamente modificati intrappolano i piccoli agricoltori in una gabbia di debiti e menzogne. Per questo li chiamo «semi del suicidio». Essi sono resi sterili in modo tale che non possano riprodursi e debbano venire acquistati dai contadini ogni anno a caro prezzo. I brevetti dei semi sono di proprietà di multinazionali come la Monsanto, che in questo modo si appropriano della fonte di vita e dei diritti di due terzi dell'umanità.
Per far fronte a questa situazione Navdanya, che oggi conta quasi 300 mila agricoltori, ha creato delle economie locali alternative che controllano i processi di produzione e distribuzione degli alimenti e tutelano i produttori locali. I contadini della rete adottano coltivazioni biologiche differenziate che proteggono la fertilità dei terreni e la biodiversità, evitando l'uso di fertilizzanti chimici e pesticidi. In questo modo si migliora la produttività e l'apporto nutritivo dei raccolti, recuperando anche il 90% dei costi di produzione. Le entrate sono tre volte superiori a quelle degli agricoltori che si servono di prodotti chimici, non vengono prodotti rifiuti tossici e danni alla biodiversità. Inoltre, il sistema di commercio equo che regola la distribuzione dei prodotti ci protegge dalla insicurezza dei mercati e delle speculazioni finanziarie. Coltivazione organica e commercio equo offrono invece sicurezza sul piano delle scelte alimentari, della salute e della stabilità. In questo modo tutti - agricoltori, ambiente e consumatori - ricavano un grande beneficio.
Di fronte a una situazione così grave, riesci a indicare una possibile via d'uscita?
Cento anni fa in Sudafrica, Gandhi rifiutò la segregazione razziale, affermando il diritto di non obbedire a leggi ingiuste. La disobbedienza civile implica la scelta della nonviolenza e della non cooperazione pacifica. Credo che anche oggi questa sia la strada da seguire, a cominciare dalla resistenza alla brevettazione dei semi indiani. In India è in discussione una legge che potrebbe portare alla proibizione dell'utilizzo di sementi proprie da parte dei contadini. Sementi che da migliaia di anni vengono conservate e trasmesse - di generazione in generazione e di raccolto in raccolto - verrebbero così bandite per far posto alla commercializzazione di semi prodotti nei laboratori di multinazionali come la Monsanto, e venduti a caro prezzo. Noi sappiamo che le varietà di sementi indigene, conservate e selezionate localmente, rappresentano la nostra garanzia ecologica ed economica, perché sono in grado di adattarsi perfettamente alle condizioni climatiche e geologiche delle diverse regioni indiane. Non si possono criminalizzare centinaia di milioni di piccoli agricoltori che non sono disposti a sottomettersi al modello agricolo imposto dalle multinazionali. Per conquistare la nostra libertà economica e politica è necessario guardare ancora una volta a Gandhi, alle sue idee di autogoverno e autoproduzione locale.
Nei tuoi interventi dimostri sempre come sia possibile rimpossessarsi dei beni comuni, attraverso degli esempi concreti. Come quello della mobilitazione contro la Coca Cola in Kerala...
Un esempio che dimostra le possibilità di vittoria da parte del movimento democratico globale. La lotta ha avuto inizio nel 2000 dalle donne di Plachimada, un piccolo villaggio del Kerala sede di uno stabilimento della Coca Cola. Uno stabilimento che era arrivato a consumare un milione e mezzo di litri d'acqua al giorno e a produrre siccità in tutta l'area circostante, da sempre ricca di acqua. A questo si deve aggiungere l'inquinamento prodotto dagli scarti produttivi e la contaminazione dei terreni. Le donne hanno cominciato ad assediare i cancelli dello stabilimento, a organizzare manifestazioni e sit-in, coinvolgendo tutte le comunità della regione. Si è così deciso di ricorrere all'Alta Corte di Giustizia del Kerala. Che ha dato ragione alle donne di Plachimada, con una storica sentenza che sostiene il carattere di bene pubblico dell'acqua: nel 2004 il governo regionale è stato costretto a chiudere lo stabilimento. Questo ha prodotto una moltiplicazione delle lotte in tutta l'India, e la formazione di una campagna nazionale di boicottaggio nei confronti di Coca Cola e Pepsi. Ad oggi più di cinquecento tra villaggi, scuole e università e si sono dichiarate «Coca Cola e Pepsi Free». Questa vicenda dimostra ciò che Gandhi ci ha insegnato: solo prendendo coscienza delle nostre responsabilità si possono ottenere i diritti, solo iniziando a vivere liberamente si può ottenere la libertà.
C'è un dato di fatto da cui bisogna partire per fare il punto sulla crisi libanese ed è il rapporto tra il governo di Beirut e Hezbollah, il partito di Dio: non si tratta di un rapporto conflittuale. Il Libano è un'entità statale debolissima, frazionata in diverse etnie e soprattutto in diverse comunità religiose (e tribali): maroniti, drusi, sunniti, sciiti. Hezbollah è molte cose insieme: un partito politico, una struttura assistenziale, un'associazione di previdenza e di mutuo soccorso, un centro di iniziative economico-industriali ed anche un'organizzazione militare. Infine un insediamento territoriale. La sua base popolare è sciita e rappresenta il quaranta per cento della popolazione, cioè la maggioranza relativa del paese. Fa parte del governo di Beirut ed ha la presidenza del Parlamento. Nel territorio che sta tra il fiume Litani e il confine tra il Libano e Israele tutti i comuni di città e di villaggi sono amministrati da sindaci di Hezbollah.
Quel lembo di terreno fu per molti anni la sede dell'Olp e dei palestinesi profughi dalla valle del Giordano dopo la guerra dei Sei giorni. Nell'82 furono espulsi e da allora, cioè da ventiquattr'anni, al loro posto ci sono gli sciiti di Hezbollah. Uno Stato nello Stato? O una marca di confine di un'entità geografica in cui perfino Beirut è divisa rigidamente in quartieri separati tra loro in lotta?
Il rapporto tra governo nazionale e Hezbollah ricorda per molti aspetti quello tra i curdi del Kurdistan iracheno e il governo di Baghdad: entità separate ma interconnesse attraverso la finzione d'un governo nazionale "democraticamente" eletto. Scrivo democraticamente tra virgolette. Di fatto nell'Iraq post-Saddam Hussein, così come in Libano, le elezioni sono avvenute su base religiosa e tribale. Con una differenza fondamentale: dietro il governo iracheno ci sono centoquarantamila soldati americani, dietro quello di Beirut c'è il nulla. Ma dietro Hezbollah c'è la Siria e, più lontano, l'Iran sciita. La Siria non è sciita. I suoi rapporti con l'Iran non sono affatto idilliaci. Ma i due paesi hanno un nemico comune: l'America e Israele, visti come un'unica entità. Anche Hezbollah ha quello stesso nemico. Se vogliamo allargare il quadro, anche Hamas considera Israele e America come il suo nemico.
Hamas non è un movimento sciita, i palestinesi non sono sciiti e fino a qualche tempo fa erano la popolazione araba meno coinvolta in dispute religiose. Ma ora il cemento islamico è diventato un punto d'appoggio e di consenso.
La struttura di Hamas ricorda per molti aspetti quella di Hezbollah: è un partito politico, una struttura educativa e assistenziale ed ha un braccio armato. Da un anno ha conquistato attraverso libere elezioni la maggioranza del Parlamento ed ha formato un governo. Un governo senza Stato, se si esclude Ramallah e la striscia di Gaza. Questo è lo stato dei fatti. E per tornare alla crisi libanese, il governo e l'esercito non hanno alcuna intenzione e alcuna possibilità di disarmare Hezbollah. Nelle medesime condizioni si trovano l'Unifil, i caschi blu dell'Onu presenti nel sud del Libano; e altrettanto si dica quando i caschi blu saranno quindicimila anziché duemila come ora: nei loro compiti non c'è quello di disarmare il partito di Dio.
La soluzione, ha detto Kofi Annan, non è militare ma politica. La stessa cosa hanno detto Chirac, Prodi e con lui D'Alema e Parisi.
Che cosa significa?
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Israele e Bush hanno iscritto Hezbollah tra i gruppi terroristi censiti dalle loro "intelligence" ma questa rappresentazione non sembra corrispondere alla realtà. Non risulta infatti che il partito di Dio educhi le milizie al terrorismo e alla cultura kamikaze. Né che nelle file di Hezbollah ci siano infiltrazioni di Al Qaeda che tra l'altro è di confessione sunnita. Le milizie del partito di Dio sono una forza di guerriglia, bene addestrata e armata per la guerriglia. Con un'arma in più: i razzi a corta gittata e a scarsa precisione di puntamento. Forniti ovviamente dall'esterno.
La scommessa politica è quella di "legalizzare" le milizie di Hezbollah facendo loro indossare le spalline dell'esercito regolare libanese. Formalmente questo sarebbe il disarmo politico: quelle milizie, entrando a far parte dell'esercito regolare, metterebbero le loro armi al servizio del governo di Beirut e del comando militare libanese. Insomma sarebbero "assorbite" dalle strutture legali di quel paese. A questa soluzione stanno lavorando le Nazioni Unite, l'Italia, la Francia, i paesi arabi "moderati" e il governo di Beirut. Nella sostanza non ci sarebbe alcun assorbimento ma una partecipazione di Hezbollah al potere militare di Beirut, attualmente in mano ai maroniti.
Comunque Hezbollah - che già fa parte del governo Siniora - vi sarebbe inserito assai più profondamente. Acquisterebbe più potere ma insieme anche maggiori responsabilità. Interne e internazionali. La scommessa dei trattativisti è insomma di costituzionalizzare Hezbollah, come è stata quella di costituzionalizzare Hamas. Questa seconda scommessa per ora è fallita per responsabilità congiunte di Hamas e di Israele. Ma per costituzionalizzare veramente Hezbollah è necessario ottenere che il partito di Dio rinunci alla protezione siriana oppure che la Siria sia d'accordo e a sua volta allenti i suoi legami con l'Iran.
Chi deve trattare con Hezbollah o con la Siria o con tutti e due? Bush? Olmert? L'Europa?
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La struttura portante del governo italiano, e cioè Prodi D'Alema Parisi, è perfettamente al corrente di questi dati di fatto, dei rischi della missione libanese, del pericolo che i caschi blu restino intrappolati da una rottura della tregua che avvenga sulle loro teste obbligandoli a un frettoloso quanto catastrofico rientro oppure ad un intervento armato contro entrambi i contendenti. Francamente impensabile.
Nonostante tutto ciò e nonostante il ridimensionamento della presenza francese nella spedizione dei caschi blu, il governo italiano sembra ormai deciso a contribuire alla forza Onu con un robusto contingente militare. Di più: sembra orientato ad assumere il comando di quella forza quando a febbraio scadrà il turno di comando francese dell'attuale forza Unifil.
Le regole d'ingaggio trasmesse ieri dall'Onu ai governi interessati sono state giudicate positivamente da Prodi. La pressione sulla Francia affinché superi la fase di marcia indietro dei giorni scorsi, continuerà nelle prossime ore. Si spera che Chirac superi l'opposizione dei suoi generali. Ma se ciò non avvenisse che farà il governo italiano? I nostri soldati partiranno egualmente per Tiro?
Sotto comando francese o, fin da subito, sotto comando italiano? Che cosa avverrà nel nostro Parlamento quando alla vigilia dell'ipotetica partenza il governo presenterà il decreto che autorizzi e finanzi l'operazione?
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Al momento il nostro ministro della Difesa è il più prudente. E' comprensibile. Le cautele dei militari si scaricano soprattutto su di lui. Prodi e D'Alema puntano sulla scommessa politica che si riassume in tre condizioni:
1. La disponibilità di Nasrallah a fare indossare alle sue milizie le spalline dell'esercito regolare.
2. La disponibilità del governo d'Israele ad accettare come disarmo di Hezbollah questo passaggio formale.
3. L'apertura d'un serio negoziato tra Israele, Usa, Europa da una parte e il governo siriano di Assad dall'altra.
La prima di queste tre condizioni è la più facile (o la meno difficile) da risolvere, ma le altre due sono difficilissime anche perché la loro connessione con la questione palestinese è evidente. Trattare con gli Hezbollah continuando a guerreggiare con Hamas è una chimera. A questo punto il problema libanese e quello palestinese sono strettamente intrecciati. L'accordo tra Hamas e Abu Mazen di formare un governo palestinese di unità nazionale potrebbe essere un passo positivo, ma la decisione di Israele di rinviare "sine die" il ritiro dalla Cisgiordania va nella direzione opposta.
La crisi incombente sul governo Olmert sposta la situazione interna israeliana più verso destra che verso sinistra, più verso la guerra che verso la pace. Tony Blair è completamente afasico, mentre questo sarebbe per lui il momento di ridare al suo paese un ruolo decisivo. Quanto al Parlamento italiano, l'opposizione e una parte della maggioranza sono ancora ossessionate dall'idea che spetti all'Onu di disarmare Hezbollah.
Conclusione: Prodi, D'Alema, Parisi, hanno tra le mani una patata non bollente ma addirittura incandescente. Se almeno la Francia tornasse in campo... se Damasco trattasse con l'Europa...
Chi la pensa come noi dichiara di essere un vero amico d'Israele e un vero amico dell'America. Ma da molto tempo in qua sia Israele sia l'America diffidano dei loro veri amici. E' disperante ma è così. Senza di loro la pace è in un vicolo cieco nel quale è estremamente rischioso infilarsi.
QUANDO l’amministrazione Bush decise di rispondere con due guerre all’attentato terrorista dell’11 settembre, non furono pochi in America coloro che pensarono, attraverso le scelte del Presidente, di rifare in pochi anni il Medio Oriente e tutta l’area circostante cui venne dato il nome di Grande Medio Oriente. Immaginarono di poterlo finalmente democratizzare, e dunque pacificare in maniera stabile. Immaginarono un’ampia zona composta di Stati amici dell’America e in pace con Israele: una zona che dalla Palestina s’estendeva fino agli Stati petroliferi, nel Golfo; e fino ai margini dell’Asia centrale, in Afghanistan. Ci furono momenti in cui sembrò che un vecchio sogno abitasse le menti del governo Usa: il sogno di far rivivere il Patto di Baghdad (l’organizzazione denominata Cento), che Washington stipulò nel 1955 con Iraq, Turchia, Pakistan, Iran, ai fini di contenere l’espansione sovietica e di creare in Asia centrale una Nato parallela. Il patto si rivelò futile, anche perché concepito senza ripensamento alcuno sui colonialismi passati: tre anni dopo fallì - quando il partito Baath rovesciò la monarchia irachena - e nel ’79 venne definitivamente sepolto dalla rivoluzione iraniana. Quel che accadde dopo, gli Stati Uniti non solo non l’hanno mai accettato. Non l’hanno neppure capito, non hanno intuito l’emergere degli integralismi islamici, e di conseguenza non hanno saputo edificare una politica verso i nuovi attori di Medio Oriente e Golfo. Le loro sole armi furono, lungo i decenni, prima il corteggiamento di dittatori come Saddam poi la guerra distruttiva contro lo stesso Saddam. Una guerra che doveva appunto ricostruire il Grande Medio Oriente e garantire la potenza amica che è lo Stato d’Israele, forte dell’atomica ma incapsulato in uno spazio arabo sempre più islamizzato e radicale.
Quel che sta accadendo in questi giorni, con le truppe israeliane che si trovano a dover bombardare e occupare di nuovo il Libano per fronteggiare le aggressioni di Hezbollah contro il proprio territorio, è segno che il nuovo Grande Gioco Usa è fallito, trasformandosi in dannazione per Israele stesso. Due guerre e l’assenza di politica statunitense hanno avuto come risultato il radicalizzarsi del mondo arabo, la creazione in Iraq di una vasta base terrorista, l’ascesa di Hamas in Palestina, la decisione di Hamas e Hezbollah di unire le forze e stringere Israele in una tenaglia. Sullo sfondo, infine, hanno facilitato l’emergere impavido della Siria e quello mortifero di Ahmadinejad in Iran. La stessa rivoluzione dei cedri in Libano, che Washington e gli europei hanno tanto caldeggiato senza avere una sola idea su come farla riuscire, ha partorito uno Stato inetto, fintamente indipendente da Siria e Iran, incapace di esercitare sul proprio territorio il monopolio della violenza: il potere di Hezbollah nel Sud libanese è stato tollerato dagli occidentali e dagli europei che le rivoluzioni magari le favoriscono, ma non sanno comprenderle né gestirle, anche quando l’Onu impone risoluzioni e ordina, come in Libano, il disarmo di milizie incontrollate.
Il risultato - pessimo per gli Stati Uniti - è catastrofico per Israele. Il suo esercito resta il più potente nel Grande Medio Oriente, e si sente protetto in extremis dall’atomica. Ma la sua forza di dissuasione è compromessa gravemente e i suoi punti deboli son conosciuti e sfruttati dall’avversario. La guerra mondiale contro il terrore ha rafforzato i nemici di Israele, ha acutizzato il loro estremismo, ha liberato la loro parola, le loro provocazioni. È quello che molti amici di Israele, anche in Italia, sottovalutano. Non vedono come sia stato esiziale puntare tutto sulla strategia antiterrorista Usa. Non vedono i compiti immani che ha davanti Israele: il tempo oggi davvero lavora contro di lui, il ritiro da tutti i territori e un negoziato con Hamas diventano sempre più urgenti. Non vedono neppure quel che l’Europa può fare, per darsi una politica alternativa a quell’americana senza però abbandonare a se stesso Israele. Chi accusa Israele di avere una reazione sproporzionata (lo sostiene la maggioranza del centrosinistra in Italia) giudica assennatamente ma non guarda lontano e soprattutto non ripercorre con spirito critico quel che è successo negli ultimi anni: uno Stato così accerchiato, con la dissuasione a pezzi, ha poche alternative quando vede che perfino le azioni ragionevoli - ritiro dal Libano nel 2000, ritiro da Gaza nel 2005, volontà sia pur ambigua di ritirarsi da parte della Cisgiordania - non calmano l’avversario ma ne eccitano i trionfalismi distruttivi.
La dissuasione israeliana è pericolante perché il suo alleato, l’America, è al suo fianco solo verbalmente e chissà per quanto tempo ancora. L’America di Bush non esce rafforzata ma indebolita dalla lotta globale al terrore: non può fare politica, in questa zona che per l’Occidente è essenziale per motivi storici ed economici. Non può aiutare Israele a uscire dal pantano, non può inviare emissari-mediatori capaci di convincere gli avversari di Israele, perché gli Stati Uniti sono invisi nel mondo arabo come di rado in passato. Non può neppure contare su Egitto e Giordania, due moderati oggi impotenti. Al suo stesso interno, infine, cresce l’insofferenza verso una politica che negli ultimi anni si è alleata senza discernimento a Israele, condividendone gli errori e permettendo che si diffondesse in America stessa la paura di una lobby ebraica troppo influente, esigente. La voce di Bush in queste ore è forte nel difendere il diritto di Israele a esistere e difendersi. È flebile, drammaticamente non dissuasiva, sul piano dell’azione politica e diplomatica.
Anche la voce degli Europei è flebile, nonostante il loro prestigio sia più forte nell’area araba e nonostante le pressioni esercitate da anni su Israele, perché negozi più speditamente il ritiro completo dai territori. Ma anche essi non hanno fatto politica. In particolare, hanno fatto pochissimo per stabilizzare il Sud del Libano e permettere al governo di Beirut di liberarsi delle milizie terroriste. Anche la Chiesa ha pesanti responsabilità. Quando Benedetto XVI critica la natura sproporzionata del contrattacco israeliano e denuncia la violazione della sovranità libanese, nasconde una verità che pure conosce: non è sovrano uno Stato che governa i propri confini attraverso una milizia terrorista, manovrata e finanziata da Siria e Iran. I cristiani libanesi che in cambio di potere hanno stretto patti con Hezbollah, accettando che governasse le frontiere e le trasformasse in una ferita purulenta, sono partecipi delle odierne derive.
C’è qualcuno che guarda ai recenti avvenimenti con palese soddisfazione, o comunque con la certezza di poter profittare del presente vuoto di potere. Questo qualcuno, corteggiato nelle ultime ore a San Pietroburgo, è l’anfitrione del vertice dei Paesi industrializzati Vladimir Putin. Il Presidente russo ha in mano molte armi. Ha scommesso sul fallimento del Grande Gioco americano, coltivando al contempo rapporti con radicali e integralisti: con Hamas, Hezbollah, Siria, Iran. Può parlare con loro, cosa che Bush non può e che gli Europei non tentano: non è lontano il giorno in cui il Cremlino diverrà il nostro rappresentante-garante nel Golfo e Medio Oriente. Ma soprattutto, Putin ha in mano l’arma assoluta: il petrolio e il gas, di cui può divenire fornitore esclusivo, alternativo, tanto più capriccioso politicamente. I prezzi alti del greggio non son dovuti solo alla crisi nel Medio Oriente ma non sono senza rapporti con le sue patologie, e il petrolio venduto a carissimo prezzo è nell’interesse non solo economico ma strategico e politico di Mosca. È attraverso il petrolio che la Russia di Putin sta ridiventando superpotenza, in un’epoca che vede scricchiolare la dissuasione nucleare e politica degli occidentali.
Con questa Russia l’Europa dovrà ora trattare, ma essendo cosciente che i disegni del Cremlino non puntano necessariamente alla stabilità: né economica, né politica. Dovrà trattare sapendo che non basta sposare le tesi di Putin in ogni circostanza, a cominciare da quel che Mosca dice sulle reazioni sproporzionate di Israele in Libano. Sapendo che la lotta al terrorismo è stata brutale e fallimentare anche in Russia, come dimostra la Cecenia. Avere Mosca come garante della stabilità internazionale è una tentazione forte, per il nostro continente. Ma non è un’alternativa rassicurante, finché gli europei continueranno a cercare con il Cremlino speciali rapporti bilaterali, e rinvieranno il momento in cui l’Unione si dà una politica estera, militare ed energetica comune. È stata Washington a far uscire il mondo fuori dai cardini, ma per gli europei la consolazione è magra. Spetta a loro cominciare ora a far politica, senza aspettare che sia un’altra potenza come quella moscovita, non ancora democratica e esistenzialmente interessata agli odierni sconquassi, a far politica al posto nostro e in nostro nome.