loader
menu
© 2025 Eddyburg

Alberto Asor Rosa

Questa Italia di cemento

Dunque siamo tutti d’accordo. Ad un recente, e utile, Convegno di Legambiente sul paesaggio italiano (di cui ha dato notizia su queste colonne Francesco Erbani), Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme, ha illustrato, con dovizia di cifre e di grafici, lo stupefacente incremento edilizio in Italia nello scorso decennio (53 metri cubi per ogni cittadino di questa Repubblica!). Nessuno ha opposto le «immarcescibili e irrinunciabili ragioni dello sviluppo» (con le quali politici e amministratori ci hanno sfondato le orecchie anche in un recente passato) a questo quadro impietoso. Anzi. A parte, ovviamente, gli organizzatori del Convegno, che proprio questo risultato, penso, si proponevano di ottenere, e Salvatore Settis, che ha presieduto nei mesi scorsi la Commissione ministeriale incaricata di stendere il nuovo Codice del paesaggio (dal quale molto ci aspettiamo) ed ha avuto parole durissime contro inadempienze, furbizie e falsità degli amministratori, sia periferici sia centrali, tutti gli altri, - sindaci, assessori, uomini di governo, - si sono puntualmente allineati. Parole dure sono venute anche dal Ministro dei Beni culturali, Francesco Rutelli, il quale ha la battuta buona e ha coniato per il decennio passato l’eloquente definizione di «alluvione cementizia».

Bene, anzi, benissimo. Non avremmo mai creduto di riuscire a passare così facilmente, dopo le durezze dei mesi passati, dalla «fase uno», - quella della discussione, - alla «fase due», - quella dei fatti. Qualche dubbio retrospettivo tuttavia ci ha assalito, ascoltando tali criticissime diagnosi e considerazioni. Nel decennio passato abbiamo avuto governi di centrosinistra e governi di centrodestra, e amministrazioni locali di centrodestra e di centrosinistra. Abbiamo cercato di capire se nelle fasi del governo di centrosinistra la poderosa curva ascensionale dello sviluppo edilizio si fosse arrestata o almeno attenuata e se nei territori localmente governati dal centrosinistra tale sviluppo fosse stato meno intenso che altrove. Siamo arrivati alla conclusione che, almeno da questo punto di vista, le differenze nel colore degli schieramenti politici hanno contato quasi nulla (vero è che su altri punti del programma di governo si potrebbe dire la stessa cosa, ma intanto concentriamoci su questo).

Insomma: non c’è nulla che sia stato bipartisan in Italia quanto l’ «alluvione cementizia». Venute meno le grandi distinzioni ideologiche, come da più parti si lamenta soprattutto da coloro che più hanno contribuito a cancellarle, il ceto politico italiano, centrale o locale, ha ritrovato una sua inedita unità identitaria e d’intenti, abbracciando un’unica, corposa ideologia di nuovo stampo: quella del mattone.

Se dunque, da parte di un nucleo consistente e significativo del ceto politico di centrosinistra, ci si spiega ora che si vuole abbandonare l’ideologia del mattone, che si vuole uscire dalla pratica bipartisan dell’«alluvione cementizia», vorremmo vedere più chiaramente come questo possa accadere e con quali strumenti. Farò, il più possibile schematicamente, tre riflessioni.

1. Esiste un pregresso, gigantesco, che teoricamente dovrebbe rappresentare la coda estrema (e ultima nelle parole dei neoconvertiti), della fase precedente, quella dell’«alluvione cementizia». Cosa ne facciamo? Comincia a esser noto che in Toscana, ad esempio, una miriade di comitati per la difesa del territorio si sono federati per dare maggiore rilievo a ciascuna delle loro richieste e un diverso e più ampio orizzonte politico e culturale all’insieme di esse. Le decine e decine di decisioni abnormi e sbagliate di amministrazioni comunali e provinciali, e della stessa amministrazione regionale, che essi denunciano, - dovranno rimanere in atto come la pesante e irragionevole eredità del passato, destinata a sporcare e distruggere almeno per ancora un decennio il territorio di questa Regione?

Faccio un solo esempio, ma particolarmente clamoroso: il cosiddetto «corridoio tirrenico», - ovvero sia l’affiancamento ad una via nazionale a quattro corsie, l’Aurelia, emendabile e migliorabile, di una vera e propria autostrada, il cui effetto sarà lo sventramento di tutta la costa fra Civitavecchia e Livorno, rappresenta un perdurante e contraddittorio oltraggio al paesaggio, un vero e proprio insulto al buonsenso e insieme l’accondiscendente e politicistico ossequio a quegli interessi (sovente poco chiari) che stanno dietro avventure di questo genere. Se il governo regionale e, ancor più, quello nazionale non capiscono questo, vuol dire che siamo ancora, non ai fatti, ma alle chiacchiere. Bisogna che sia chiaro che la partita non è chiusa, checché qualcuno ne pensi.

Di esempi del genere in Toscana, - da Fiesole a Capalbio, dalla Versilia alla martoriata periferia senese alla Val d’Arbia alla Val d’Orcia, se ne possono fare a decine. Se si fa sul serio, bisogna accettare di ricontrattare anche gli «scempi» già decisi.

2. La novità è che a questo stato di cose la risposta è ormai molecolare: e cioè viene da mille parti e assume mille forme. Suggerirei ai politici ben intenzionati di prestare attenzione a questa fenomenologia. La crisi della politica non è, prevalentemente, il suo aspetto corruttivo e corruttibile (che, certo, conta). La crisi della politica è, fondamentalmente e strutturalmente, la perdita di fiducia dei cittadini nell’operato dei politici, nazionali, periferici, locali e localissimi.

La nascita di una miriade di comitati per la difesa del territorio e dell’ambiente fa parte di questa fenomenologia. Non prevede il rifiuto del sistema democratico-rappresentativo, che, anzi, cerchiamo nei limiti delle nostre forze di proteggere dai danni prodotti dal ceto politico più strettamente professionistico, che abitualmente lo frequenta e innerva. Prevede bensì il ritiro della delega, che invece politici e amministratori vorrebbero esercitare illimitatamente e arrogantemente.

Ecco perché «il fai da te», il non aspettare un deus ex machina qualsiasi, persino il guardare all’inizio solo dentro il proprio ristretto orizzonte, fanno parte geneticamente di questo nuovo tipo d’esperienza democratica. C’è anche, secondo me e l’ho già detto, un che di sanamente «privatistico» in questo modo di ragionare e di agire: se il pubblico non funziona e qualche volta fa schifo, mi batto io per i miei beni, per vivere meglio, per avere una visuale più bella, per dare ai miei figli l’orizzonte garantito di una vivibilità condivisa.

3. Se però i «fai da te», la difesa dell’«angolo sotto casa», la protezione della città e del territorio in cui si è vissuti fin da bambini o in cui si è scelto di vivere a preferenza di cento altri possibili, si accostano, si associano e si riconoscono simili, allora qualcosa di nuovo può forse ancora accadere.

L’«alluvione cementizia» ha invaso la penisola intera. A qualcuno viene in mente di trivellare in Val di Noto; a qualcun altro di costruire un orribile villaggio turistico in Val d’Orcia. Però a qualcuno viene in mente di organizzare la risposta popolare in Val di Noto; a qualcun altro viene in mente di farlo in Val d’Orcia. Il fenomeno non può più essere considerato o residuale (secondo alcuni) o intellettualoide-elitario (secondo altri). I nomi coinvolti - Zanzotto, l’appena scomparso Meneghello, Camilleri e, perché no, Clooney, - dovrebbero sconsigliare chiunque di resistere alla tentazione di sbarazzarsene, facendo spallucce.

Invece di enfatizzare la portata organizzativa e potenziamento elettoralistico di un tale schieramento, - errore commesso tante volte in passato, - bisogna valorizzarne il senso culturale e ideale, la forza di persuasione contenuta in quelle tante battaglie. Insomma: molto semplicemente: ci sono italiani, per i quali alcuni beni comuni fondamentali (la «forma del paese», le sue eredità culturali, la sua, diciamolo pure - tradizione identitaria), non sono né contrattabili né commerciabili.

Se questi italiani sono molti, se diventano ancora di più, il fenomeno da regionale diviene nazionale. Questo è, mi pare, il punto in cui siamo.

Francesco Erbani

Come si devasta e come si difende la regione Toscana

Erano settantacinque in marzo, quando a Firenze fu varato il coordinamento presieduto da Alberto Asor Rosa. Ora, a pochi giorni dall’assemblea che si terrà sabato sempre nel capoluogo toscano, i comitati sorti a tutela di un paesaggio o di un centro storico minacciati sono diventati più di cento. E altri potrebbero aggiungersene, mentre proseguono i contatti con i comitati di altre regioni - il Veneto, la Liguria o l’Umbria.

Finora il coordinamento ha provveduto a censire i comitati e le locali sezioni delle associazioni nazionali, da Italia Nostra al Wwf e a Legambiente. Ed ha messo insieme un poderoso dossier con tutti i conflitti ambientali che si manifestano nella regione Toscana, diventata la punta di questo esperimento di partecipazione popolare. Il dossier è formato di tante schede.

Ogni gruppo ha elaborato una brevissima descrizione di sé, della propria storia, del perché e quando è stato formato, di quanti sono i suoi componenti. E ha poi descritto le vertenze in corso.

Ne viene fuori una mappa di tutte le manomissioni del territorio, delle insensatezze urbanistiche in una regione fra le più ricche di valori paesaggistici e per questo fra le più appetite da chi investe nel mattone. Secondo i dati Istat citati dal Comitato per la bellezza, presieduto da Vittorio Emiliani, dal 1999 al 2003 la Toscana ha perso 169 mila ettari di territorio a causa del cemento per case, stabilimenti industriali e infrastrutture, con un’erosione del 10,2 per cento della sua superficie, un’erosione superiore alla media italiana (9,5 per cento) e persino a quella di regioni come il Lazio che, pur comprendendo Roma dove l’edificazione galoppa, si ferma al 9,2.

La mappa delle cementificazioni contestate comprende tutte le province toscane. In quella di Siena spiccano le lottizzazioni a San Severo, a Le Vigne e a Bagnaia; l’ampliamento dell’aeroporto di Ampugnano e della cava di Malintoppo a San Quirico d’Orcia.

L’intera Val d’Orcia è minacciata da insediamenti di seconde case (oltre Monticchiello, Contignano, Campiglia e Montalcino) e di grandi alberghi (Bagno Vignoni, Montalcino e Pienza). Sotto accusa un’area industriale a Monteriggioni e un’altra che potrebbe sorgere a Gaiole in Chianti, dove molte proteste suscitano anche le enormi cave di Montegrossi. Molte anche le tensioni a Siena, dove Italia Nostra si oppone al parcheggio interrato di via Garibaldi e alla costruzione di una bretella tangenziale davanti alla Basilica dell’Osservanza.

Tantissimi i conflitti a Firenze, dove i comitati hanno dato vita da tempo a un coordinamento che alle ultime elezioni comunali ha sostenuto un proprio candidato, Ornella De Zordo, il cui 12 per cento ha costretto il sindaco uscente, il diessino Leonardo Domenici, ad andare al ballottaggio con un esponente del centrodestra. Fra le ultime iniziative dei comitati fiorentini un voluminoso Studio di Impatto Ambientale, elaborato da docenti dell’università, contro il tunnel che dovrebbe consentire ai treni ad alta velocità di attraversare il sottosuolo di Firenze.

A Pistoia è accaduta una vicenda analoga a quella di Firenze. Alle recenti elezioni comunali i comitati hanno appoggiato il verde Giovanni Capecchi, che ha collezionato un buon 13 per cento, costringendo anche qui il sindaco Renzo Berti a vedersela nel ballottaggio con il candidato del centrodestra, battuto poi di misura. Il conflitto più duro fra i comitati e l’amministrazione si è verificato sulla costruzione di un ospedale in un’area giudicata non idonea perché, fra le altre cose, depressa rispetto ai corsi d’acqua e a rischio di esondazione.

A Prato un comitato lotta contro un parcheggio da novecento posti sotto Piazza Mercatale. A Pisa è attivissima un’associazione contro la costruzione di un porto turistico e un villaggio da 170 mila metri cubi a Boccadarno, ai bordi del parco di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli. Nella Val di Magra, fra Toscana e Liguria, ci si batte contro il «Progetto Marinella», un enorme insediamento turistico. Fittissimo il contenzioso a Lucca, dove Italia Nostra fronteggia l’edificazione nel parco di Villa storica a Coselli, le costruzioni a Capannori, la trasformazione di serre in appartamenti a San Macario. La speculazione edilizia, denuncia un comitato, incombe su Impruneta, mentre a San Casciano uno stabilimento della Laika minaccia il fondovalle della Pesa.

Pericoli gravano a Bagno a Ripoli e a Fiesole. A Fucecchio, infine, un comitato protesta contro l’imponente edificio che sostituirà il teatro Pacini, nella piazza dedicata a un illustre figlio di questo paese toscano, Indro Montanelli.

«È difficile accettare che un paesaggio unico che americani e giapponesi difenderebbero come un tesoro prezioso, venga rovinato per sempre. Il nostro territorio è l’unica vera fonte di ricchezza e va tutelato».

Non è il solito grillo parlante ambientalista, o paesaggista, ad esprimersi così, bensì uno dei maggiori imprenditori del settore trainante della nostra agricoltura, quello dei vini di alta qualità. Le parole, amare, sono infatti di Jacopo Biondi Santi. Le ha dedicate al paesaggio collinare di Scansano in Maremma, patria del Morellino.

Il bersaglio: un parco eolico piazzato proprio sopra la rocca di Scansano, a poco più di un Km dai vigneti, occupando oltre 5 Kmq di territorio e paesaggio. Senza alcuna valutazione di impatto ambientale regionale. Senza alcuna partecipazione della Soprintendenza competente alla conferenza dei servizi (essa ne venne esonerata dalla Provincia di Grosseto). Senza alcuna - aggiungiamo noi - valutazione di impatto socio-economico: è più utile alla Toscana e alla Maremma produrre un po’ di energia eolica, o non è più utile (a tutti) puntare sul risparmio energetico e difendere il «tesoro prezioso» del paesaggio italiano, toscano, maremmano che tanti miliardi di euro porta, e porterà, nelle nostre casse? Produttori illuminati e moderni come Jacopo Biondi Santi hanno capito benissimo che i loro vini di pregio vanno tanto più forte sui mercati internazionali ricchi quanto più possono fruire, alle spalle, di quell’inimitabile paesaggio che gli stranieri amano e apprezzano più di noi, imbarbariti dall’inseguimento di false modernità e da una incultura di base sempre più allarmante.

Ora il TAR della Toscana ha dato ragione all’imprenditore vinicolo toscano e a Italia Nostra, assistiti dall’avvocato Gianluigi Ceruti, e torto alla Regione Toscana e alla Provincia di Grosseto (e a Legambiente che la sosteneva), responsabili del pastrocchio, bloccando il parco eolico inaugurato, incautamente, una decina di giorni fa. Una decisione a posteriori che si poteva, che si doveva evitare con la misura preventiva di una VIA regionale e di una Conferenza dei servizi adeguate. Le motivazioni del TAR? Le pale del vento, così vicine, provocano inquinamento acustico, non rispettano le specie animali protette, danneggiano un ecosistema molto delicato. L’indice accusatorio del TAR è puntato contro la Giunta regionale toscana che a suo tempo decise che il parco eolico di Scansano non aveva bisogno di una Valutazione di impatto regionale. Eppure - dice la sentenza - «nell’area circostante il parco eolico sono localizzati 3 Siti di importanza comunitaria» per aspetti naturalistici «e 4 Siti di importanza regionale» ricchi di avifauna piuttosto rara.

Ora, io non sono pregiudizialmente contrario alle «pale» eoliche. Ma ascolto anche scienziati come Carlo Rubbia il quale attesta che l’Italia deve puntare assai più sul solare e su altre fonti rinnovabili perché, fra l’altro, decisamente meno ventosa della Spagna o della Danimarca. Da noi, inoltre, non ci sono le zone desertiche della penisola iberica e il paesaggio - naturale, storico e agrario - è un patrimonio «anche» economico di straordinario e crescente valore. Quindi, produrre una quota modesta di energia eolica ha «costi» in realtà elevatissimi in termini di paesaggio e di attività ad esso connesse, come il turismo, in specie quello culturale, come l’agriturismo, come l’agricoltura tipica di qualità. Questa analisi costi/benefici viene fatta man mano che si installano impianti eolici nelle zone collinari e montane dell’Appennino? Purtroppo no. Si allettano Comuni poveri di risorse. Gli si danno un po’ di euro, e magari si compromette per chissà quanto tempo un paesaggio intatto che sarà, sempre più, una formidabile attrattiva. Penso, ad esempio, ai 2 milioni di visitatori annui del Parco Nazionale d’Abruzzo. Disgraziatamente sono in pericolo persino ambienti paesaggistici di eccezionale valore (anche turistico, ripeto) quali la piana di Saepinum, la stupenda città romana vicino a Campobasso scoperta e valorizzata anni or sono da Adriano La Regina. Visitarla è una delle emozioni della vita.

Allora, no all’eolico? Sì invece e però caso per caso, dopo una attenta Valutazione di impatto ambientale, coi limiti oggettivi sottolineati da Carlo Rubbia. Non si tratta di scegliere fra un ambientalismo «ragionevole» (o arrendevole?) e un ambientalismo "fondamentalista". Si tratta di essere seri, attenti, informati, competenti nel valutare cosa conviene di più fare in questo delicato e, nonostante tutto, splendido Paese. In relazione alla sua storia, alle sue vocazioni territoriali, alle attività agricole, turistiche, artigianali, fonti infinite, queste sì, di introiti, al di là del valore culturale e sociale "in sé" rappresentato dal benessere delle popolazioni locali.

E’ ancora viva l’eco delle polemiche suscitate dallo scrittore Andrea Camilleri contro le trivellazioni petrolifere nella zona straordinaria di Noto. E, subito dopo, la denuncia dell’agenzia Dire su analoghe concessioni rilasciate, "distrattamente", in Toscana, proprio nel cuore del Chianti. Fra pentimenti e ripiegamenti, e fra le proteste che, guarda caso, vedono spesso in prima fila i produttori agricoli, in particolare (anche per Saepinum) la Coldiretti oggi attenta a questi valori, all’intreccio fra prodotti tipici e paesaggio tipico. Un potente valore aggiunto sui mercati.

I Comitati costituitisi in Toscana su casi a volte clamorosi di scempi e di manomissioni con conseguenze "anche" giudiziarie (Campi Bisenzio, Monticchiello, Casole d’Elsa, ecc.) assommano ormai ad un centinaio. In una regione meno devastata, sicuramente, del Veneto, sovente irriconoscibile, di Parise, di Piovene, di Meneghello, del poeta Andrea Zanzotto impegnato a difendere strenuamente gli ultimi lembi di paesaggio trevigiano. O meno devastata della derelitta e suicida Campania invasa dalle discariche e dalle cave, legali e illegali, che certamente - va detto con forza - sono un flagello molto più grande di alcuni ben collocati e ben studiati termovalorizzatori, per esempio. Sintomo, quei Comitati, di un profondo disagio sociale, di una sempre più debole rappresentatività delle amministrazioni locali, in Comuni che hanno avuto dalla Regione la delega a controllare se stessi (sono loro a concedere lucrose autorizzazioni edilizie e sempre loro a tutelare il paesaggio…) e che con la nuova legge comunale possono far passare quasi tutto dalla Giunta e non più dai Consigli, dalle assemblee elettive. Perché stupirsi poi se i cittadini vanno a votare meno di prima e si allontanano dalla politica, anche da quella locale?

La sentenza del TAR della Toscana che boccia l’impianto eolico di Scansano andrebbe pubblicata integralmente. Farebbe capire meglio quanta disattenzione, sbrigatività, trasandatezza sottoculturale circondino, e assedino, ormai quel paesaggio che pure la Costituzione repubblicana volle tutelare, all’articolo 9, in modo forte e democratico, assieme al patrimonio storico e artistico, facendone, giustamente, un tutt’uno.

Ci rivolgiamo al ministro delle infrastrutture, perché per noi Antonio Di Pietro resta l'uomo di «mani pulite», simbolo di una stagione che si caricò per tanti della speranza di comportamenti limpidi della pubblica amministrazione, della politica e chiedergli se, per qualche mese, può provare a rifare «mani pulite» nelle infrastrutture.

Prendiamo due esempi emblematici - il Mose e il corridoio Tirrenico - per osservare che le motivazioni addotte dal ministro non ci sembra che dovrebbero bastare per guardare dentro queste due «opache» vicende. Dice infatti Di Pietro per il Mose: «Io non sono un tecnico ed i tecnici del ministero (ma non solo) hanno fatto la loro scelta che io devo rispettare». Quanto all'autostrada che dovrebbe scorrere accanto alla Via Aurelia: «Per l'adozione di scelte che soddisfino l'interesse generale, nel rispetto della sicurezza e della salvaguardia ambientale, di questo si fa carico la Regione, formalmente competente». Queste serene risposte non ci paiono sufficienti.

Il Mose: che valutazione dà il ministro dei tecnici e dei rapporti predisposti per le sedi istituzionali attorno al «Modello predittivo dell'andamento della morfodinamica dei fondali in conseguenza dell'apertura e chiusura delle paratie mobili»? Cioè uno studio di importanza fondamentale per la sicurezza di Venezia, che non è stato mai effettuato, perché - fu detto - non c'erano le competenze appropriate nella commissione del Consiglio superiore dei LL.PP. che esaminò il progetto? Si comprenderà che lo studio è cruciale, perché valuta il rischio che l'opera possa risultare addirittura controproducente. Ne prende atto il governo Amato quando, il 15/3/2001, il ministro Nesi porta il Mose in consiglio dei ministri per passare al progetto esecutivo e il governo di allora, contrariamente a quanto si legge nella relazione predisposta per Di Pietro nel consiglio dei ministri il 10/11/2006, all'unanimità decide che bisognava procedere ad una fase di «approfondimento progettuale», in particolare sulla morfodinamica. Lo studio non è stato ancora effettuato e tuttavia, all'interrogazione dei parlamentari Bonelli e Zanella (22/3/2007), si risponde (a firma del ministro) che «gli ulteriori approfondimenti richiesti dal consiglio dei ministri del 15/3/2001 sono stati puntualmente programmati e svolti». Ma fonti del ministero fanno sapere che «la problematica della morfodinamica è stata affrontata per quanto riguarda gli effetti di tale fenomeno sulla progettazione delle paratie mobili, ma su questa complessa fenomenologia sono in corso studi scientifici, sulla base di programmi di ricerca internazionali finanziati dall'Unesco». Così il cantiere va avanti, e sempre in concessione al Consorzio Venezia Nuova, passato indenne attraverso la critica di mozioni parlamentari e di procedure di infrazione comunitarie: quando si dice i «poteri forti»! Così forti da aver messo in non cale le fondatissime critiche a tutti gli elementi deboli del progetto avanzate dai tecnici, dal comune, Cacciari in testa. Di fronte a questi fatti, la sicurezza di Venezia non richiede una robusta verifica?

L'autostrada. Da anni c'è chi vagheggia di stendere, a fianco dell'Aurelia altre sei corsie: non è sufficiente portare tutta l'Aurelia alla dimensione superstrada. Lo vuole l'Ue, bisogna dividere il traffico pesante da quello leggero, si farà nel rispetto del paesaggio, e non costerà soldi pubblici perché la concessionaria Sat lo farà ricorrendo al Project financing. Queste sono alcune delle motivazioni avanzate dalla regione Toscana, sostenitrice dell'autostrada. Ma il governo Amato sceglierà invece di inserire nel piano generale dei trasporti del marzo 2001 il potenziamento dell'Aurelia. Caduto Amato, lo zelo regionale spiana la strada a Lunardi nel rilancio dell'autostrada ed ora Di Pietro annuncia che il 4 luglio «per rispettare la volontà regionale» ci sarà l'accordo tra stato, regione e Sat.

Alla direzione generale trasporti della Ue, rispondono: «La rete stradale Ten (Trans Europe Network) - nella cui cartina è indicata la S.S.Aurelia - è composta di autostrade e di strade di elevato standard, esistenti, nuove o da adeguare e gli interventi possibili comprendono l'adeguamento di strade di elevato standard. Se le autorità italiane, per promuovere la costruzione di una nuova autostrada parallela alla S.S. esistente, si fondano sugli orientamenti Ten, ne fanno una lettura errata. I cofinanziamenti comunitari destinati alla rete stradale Ten non sono in alcun caso vincolati dalla necessità di realizzare un'infrastruttura autostradale a pedaggio». Va anzi osservato che il Consiglio europeo di Göteborg ha posto il riequilibrio fra i modi di trasporto al centro della strategia di sviluppo sostenibile: si tratta di trasferire verso modi alternativi una percentuale di merci pari al previsto tasso di crescita dei trasporti internazionali su strada; i cofinanziamenti comunitari dovranno essere riveduti e corretti per dare la priorità alla ferrovia e al trasporto marittimo e fluviale, in un quadro organico nel quale i trasporti stradali dovrebbero prevedere distanze di utenza più brevi.

Quanto al costo, è la stessa Sat a quantificare in quasi 2 miliardi di euro il maggior costo della realizzazione dell'autostrada rispetto all'ampliamento dell'Aurelia e la via del project financing è praticabile, per l'insufficiente volume di traffico, solo a condizione di forzarne le regole: garanzia di mezzo secolo per la durata della concessione, pedaggi abnormi, annualmente rivedibili.

C'è da chiedersi se vi sia solo danno ambientale o qualcosa non torni anche dal punto di vista dell'etica pubblica. Vuole Di Pietro andare a vedere coi suoi occhi a nome di tutti noi? E' un fatto che la legge finanziaria del '98 destinò qualche centinaio di miliardi alla Sat, a titolo di indennizzo per il parere negativo sul progetto di autostrada dato dal ministro dell'ambiente Giorgio Ruffolo nel '92. E' il sottosegretario dei LL.PP. Antonio Bargone a gestire la vicenda il quale, in modo assai poco british, è divenuto poi consulente della regione e ora presidente della Sat. Non siamo quei populisti che vedono dietro ogni opera pubblica il tintinnare di «mani pulite», ma chiediamo al ministro: vuol dirci, quali sono i veri motivi a favore di un'opera enormemente più costosa e che scempia quel paesaggio? E sappiamo che il ministro non ci ripeterà le fumisterie della regione, ma forse vorrà capire un po' meglio, anche lui, tutta la vicenda. Altrimenti, da chi dovremmo aspettarcelo?

Postilla

Molto ci sarebbe da aggiungere, sulle illegittimità del MoSE, a quanto accennano Mattioli e Scalia. Rinviamo all’amplissima documentazione raccolta nella cartella dedicata appunto al Mostro della Laguna di Venezia. Spendere montagne di soldi per opere inutili e dannose non sembra all’attuale governo (come a quelli che lo hanno preceduto) cosa indecente. Dire dei NO è diventato il peggiore degli errori, a prescindere dai contenuti e dalle ragioni. Da alcuni passaggio del discorso di Veltroni sembra che il nuovo partito che forse guiderà voglia essere l’alfiere di questa linea.

Anni fa, leggere Mike Davis e le sue "ecologie della paura" delle metropoli statunitensi era un'esperienza lisergica. Tra le righe del sociologo-camionista che ha studiato le periferie e gli slum di mezzo mondo, si trovavano le utopie negative di George Orwell e Jack London, la fantascienza paranoica e inquietante di James Ballard e Phili K. Dick.

Sgranavamo gli occhi, perché sapevamo che non si trattava di fiction: era tutto vero. I confini immateriali e le barriere di cemento armato, le guardie private e l'urbanistica del controllo che Mike Davis ci faceva scoprire ricostruendo i Piani regolatori della tolleranza zero, raccontavano l'evolversi della società statunitense, l'esplodere delle fobie di una società che andava impoverendosi ma preferiva prendersela con i più deboli invece che puntare il dito verso l'alto. Pensavamo che vivere in Europa, il continente del welfare state e delle garanzie sociali, fosse ancora una fortuna.

Adesso scopriamo che il tema della sicurezza, in tempi di insicurezza sociale e crisi della politica, è il tratto distintivo dello stile flessibile e ambiguo della governance. Per paradosso, come ha fatto notare qualche giorno fa Massimo Ilardi, anche chi governa deve "fare società", costruire un blocco sociale per garantirsi il consenso, deve "stabilire gerarchie, poteri ed esclusioni".

Per questo i sindaci gridano all'emergenza. Ovviamente lo fanno quelli di destra, in fondo è il loro mestiere. Non è stata forse Letizia Moratti, con la sua marcia per la sicurezza del 26 marzo scorso, a sollevare per prima il problema? Ma sbraitano anche quelli di sinistra. La lista è lunga. Walter Veltroni, il leader in pectore del Partito democratico organizza i "villaggi della solidarietà", cioè i campi rom fuori dal Raccordo anulare a Roma. Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati intima ai centri sociali di non vendere bibite perché "non hanno l'autorizzazione". Qualcuno dei suoi collaboratori dovrebbe spiegargli che è la stessa scusa che usava negli anni cinquanta il ministro democristiano Mario "Manganello-facile" Scelba, per sgomberare le case del popolo. Lo stesso Cofferati beneficia di una pagina intera del secondo quotidiano nazionale per affermare genericamente che "c'è un clima di consenso" attorno al terrorismo ri-nascente, e il vice-direttore di quel quotidiano non ha il buonsenso di chiedere "Mi scusi, signor sindaco, può spiegarci a chi si riferisce, precisamente?". Così, il delirio di onnipotenza di un manipolo di rivoluzionari da operetta diventa la scusa per lanciare anatemi generici e ingiustificati a chi disturba il manovratore alla luce del sole. Il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, dopo aver costruito un muro e dei check-point attorno a un isolato "a rischio", ha deciso che il problema principale della città che amministra sono le prostitute. Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ha affermato a chiare lettere che è ora di "ammettere che chi si droga compie un reato", gettando nel panico parte del parlamento italiano e magari le migliaia di coltivatori di cannabis, di sicuro non impensierendo la mafia e i narcotrafficanti.

Il governo asseconda questa paura, questo clima immotivato e alimentato ad arte dai mass-media, come ha riconosciuto lo stesso capo della polizia Gianni De Gennaro nella voluminosa relazione sulla sicurezza che ha consegnato al parlamento qualche mese fa. Il ministro dell'interno Giuliano Amato decide di conferire poteri straordinari ai prefetti, crea "forze d'intervento speciale" per controllare le strade delle nostre città, come se fossero davvero in balia di mostri urbani assetati di sangue, ambulanti che spacciano portafogli di cartone o ragazzini dalla bomboletta facile. Sono i Patti per la sicurezza, di cui ci occupiamo nel numero di Carta in edicola da sabato 26 maggio.

Viene voglia di dire, per una volta dando ragione a De Gennaro, che non c'è nessuna "emergenza". I reati sono stabili e la stragrande maggioranza dei migranti presenti sul sacro suolo italico lavorano in silenzio, contribuendo al Pil, e vivono la loro vita normalmente, nonostante le paghe da fame e i soldi da mandare a casa. Giornali e televisioni stanno giocando col fuoco. Lo fanno per pigrizia mentale, assuefazione allo scalpore e sottomissione alle esigenze della politica in crisi di legittimità, che in questi casi sembra il pugile suonato che mena fendenti a casaccio per mostrare di avere ancora il polso della situazione. Grande è la confusione sotto il cielo, insomma. E questa volta, al contrario di quanto afferma la vecchia massima rivoluzionaria, la situazione non pare eccellente.

MONZA - Ha fondato dal nulla il maggior partito italiano, ha fatto per due volte il presidente del Consiglio, possiede nell’anima e nei beni un gran pezzo d’Italia, è uno degli uomini più ricchi dell’orbe terracqueo, invoca ad ogni pie’ sospinto la cacciata di Romano Prodi da Palazzo Chigi, magari per tornarci lui. Ma il vero piccolo-grande sogno nel cassetto di Silvio Berlusconi è custodito a Monza nel capoluogo della nuova Provincia della Brianza. E’ qui, tra il Lambro e il Lambretto, che, nella sua perfezione, si dovrà chiudere la triade che farà impallidire il ricordo stesso del re dei Longobardi Autari e della di lui sposa Teodolinda.

In principio, fu Milano 2 in quel di Segrate, il quartiere a immagine e somiglianza di un pezzo d’Olanda che il giovane Berlusconi, allora ciuffo nero sulla fronte e giacche doppiopetto marrone, vendeva sulla carta alle amiche di mamma Rosa («Qui c’è la loggia, qui il garage») e alla media borghesia spaventata delle prime facce da «negher» che circolavano in città; poi venne Milano 3 per la borghesia appena un po’ più piccola, rassicurata dai vigilantes armati, dal laghetto coi cigni, dagli attici ceduti in comodato ai primi presentatori del Biscione e alle nonne delle odierne veline.

Sono passati un po’ di anni, proficuamente impegnati nella televisione e nel governo del paese, e adesso finalmente si spalancano destini luminosi per Milano 4, il gioiello prossimo venturo della Provincia di Monza e della Brianza. Se solo domenica prossima i monzesi chiamati ad eleggere il nuovo sindaco ricacceranno indietro i «rossi» che per cinque anni - la prima volta dai tempi di Teodolinda, salvo uno sbaglio di sette mesi negli anni Settanta - hanno «inquinato» la città con il sindaco Michele Faglia, per mettere al suo posto il leghista della prima ora Marco Maria Mariani, padano assai ben disposto ad oscurare le glorie longobarde in favore di quelle berlusconiane.

La perla di Milano 4, che non facendo giustizia alla raffinatezza dei progetti berlusconiani è denominata «Cascinazza», è a bagnomaria da un sacco di tempo, ma negli ultimi due anni Paolo Berlusconi, fratello del leader e titolare delle imprese ansiose di intraprendere la grande opera di cementificazione, ha fatto un lavoro sopraffino con il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni e con il suo assessore leghista Davide Boni, tanto che una legge, la «12-2005», articolo 25, comma 2, ha preso il nome di «berluschina» o di «monzina», stabilendo che solo due comuni nel mondo, Monza e Campione d’Italia, oltreconfine, non possono procedere con varianti al piano regolatore.

Una legge ad Berlusconem? Sappiamo che il tema delle leggi ad personam purtroppo annoia gli italiani, soprattutto tutti quelli che le leggi ad hoc vorrebbero farsele, ma la vicenda è talmente grottesca da sembrare un soggetto dell’assurdo di Feydeau: porte che si aprono, porte che si chiudono, porte che sbattono. Perciò cercheremo di raccontarvela in pillole.

Atto primo: Berlusconi (Silvio) compra un’area alla periferia est della città di Monza, 723.467 metri quadri, grande quasi come il parco reale. Sulla proprietà, detta «Cascinazza», che arriva fino a Brugherio e che era della famiglia Ramazzotti, quella dell’amaro, vuole costruire, sulla base di una convenzione del 1962, epoca democristiana ben precedente a «Mani Pulite», quasi 400 mila metri cubi, circa 60 palazzi per contenere una popolazione di alcune decine di migliaia di persone, un’altra Milano 2 o Milano 3, realizzazioni per le quali in epoca craxiana Berlusconi riuscì persino a far modificare le rotte degli aerei diretti all’aeroporto di Linate.

Tra alterne vicende, negli ultimi anni Novanta, con le amministrazioni di destra, il progetto «Cascinazza» viene salvato più volte con doppi salti mortali, nonostante il piano regolatore firmato Leonardo Benevolo. Atto secondo: il sindaco «rosso» Faglia e il suo assessore all’Urbanistica, l’architetto Alfredo Viganò, incidenti della storia in una città moderata e di destra come Monza, varano il nuovo piano regolatore generale, che prevede l’inserimento della «Cascinazza» nel Parco del Medio Lambro. «Cascinazza» così è blindata, non si costruisce più. Atto terzo: Paolo Berlusconi fa una pioggia di ricorsi legali, perde, ma Formigoni gli dà una mano con la «berluschina», altrimenti detta la «monzina», che blocca le varianti. Faglia e Viganò sono messi all’angolo.

Ma la storia non finisce qui, dal momento che il Lambro, con il suo socio Lambretto, sono un po’ birichini, secondo l’aggettivo che l’ex premier usa per se stesso, spesso esondano e la «Cascinazza» finisce sott’acqua. Tanto che il Pai, Piano di assetto idrogeologico, delimita l’area della «Cascinazza» come zona di assoluta inedificabilità. Che volete che sia. Il problema si può risolvere, basta fare un Canale scolmatore, un by-pass dalla settecentesca Villa Mirabello, più o meno delle dimensioni del Canale Villoresi, che attraversi la città di Monza, con ponti, ponticelli, svincoli e sovrappassi. E passa la paura.

Berlusconi (Silvio) nel 2004 siede a Palazzo Chigi e quando si prendono decisioni che riguardano gli interessi suoi e della sua famiglia, correttamente va a chiudersi nel salottino vicino a prendere il tè con Gianni Letta. Dev’essere stato allora, durante il tè, che il governo, a sua insaputa, ha favorito la progettazione del mega-canale scolmatore, anzi forse neanche glielo ha detto Berlusconi (Paolo), suo fratello. Costo iniziale dell’opera, già moltiplicato causa «aggiornamento costi», 168.294.491 euro, 300 miliardi di ex lire, o giù di lì.

Alfredo Viganò, architetto, assessore uscente della giunta di centrosinistra, mentre c’è lì a piazza Roma Walter Veltroni a spendersi per il sindaco Faglia, sostenendo che le città hanno un’anima, come diceva l’antico sindaco democristiano di Firenze Giorgio La Pira, ghigna amaro: «Pensavo che il Ponte di Messina fosse in Sicilia, ora so invece che comincia qui da noi in Brianza. E’ un lungo, infinito ponte che arriva da qui a unire Scilla e Cariddi. Con i soldi del canale scolmatore si restaurerebbe la Villa Reale e si farebbe la metropolitana. Perché hanno pagato l’assurdo studio di fattibilità? Ovviamente per ridurre la fascia di inedificabilità lungo il fiume e permettere di costruire alla "Cascinazza". Per gli interessi di chi? Faccia lei». Quali flussi, oltre a quello dell’acqua del Lambro, sono corsi? Viganò non lo dice, il sindaco Faglia meno che meno. Ma al comitato elettorale dello sfidante leghista chi comanda? Il boss è Fabio Saldini, responsabile delle politiche urbanistiche di Forza Italia e soprattutto coautore del piano di lottizzazione della «Cascinazza», per conto di Berlusconi (Paolo).

Berlusconi (Silvio) è venuto qui a piazza Trento e Trieste un sacco di volte prima del malore dell’Aquila. Il fratello (Paolo) deve avergli detto che, tutto sommato, è meglio che non venga, meglio Gianfranco Fini con le sue banalità sulla sicurezza da garantire contro immigrati e puttane, perché una delle ultime volte che era qui l’ex premier si è alienato in un colpo tutti gli elettori gay, con una delle solite battute: «A me Marco Mariani piace anche perché ha come secondo nome Maria, il che dimostra che ha un intuito femminile, simile a quello delle signore. Ma i gay sono tutti dall’altra parte». «Magari», gli ha risposto Franco Grillini. Mentre quella signora monzese che si è presentata sfidando le body-guard come «Maria» e che ha avuto come risposta «Vergine?» ha deciso che, facendosi violenza, voterà il candidato «rosso».

Marco Maria Mariani, medico, è un leghista atipico, che Umberto Bossi nel 2003 ha sospeso dal partito per otto mesi, come fosse uno scolaretto. Da giovane insegnava catechismo in parrocchia e ha fatto già il sindaco di Monza per un breve periodo tra il 1995 e il 1997, quando la Lega considerava Berlusconi (Silvio) un «bandito» e la speculazione di «Cascinazza» una vergogna. Ma il bello è come Mariani arrivò alla poltrona. Un capitolo gustoso della commedia monzese e di tutta la nuova, grande provincia brianzola, che comincia a insediarsi con i suoi palazzi, i suoi impiegati, i suoi poteri, che già costano una sessantina di milioni di euro. In breve, è sindaco Aldo Moltifiori, un leghista che si dichiarava ex vice di Achille Occhetto alla Federazione Giovanile Comunista. Moltifiori aveva il vizietto del vigile, cioè si metteva sotto il palazzo comunale con la sua auto rossa e multava personalmente tutti quelli che posteggiavano in divieto.

Un giorno è lì a fare la sua ronda, quando si ferma una macchina che parcheggia in divieto e lui scatta a multare i reprobi. Ma sono due carabinieri in borghese e in servizio, che lo denunciano per abuso d’ufficio. Condanna a 40 giorni, convertiti in tre milioni di multa e decadenza dalla carica. Destituito dal prefetto. Così arriva nella poltrona di sindaco Marco Maria, leghista tutto «cassoeula», quello che ora sfida l’architetto di buona famiglia e di centrosinistra.

Berlusconi, Fini, Bossi, quando arrivano qui all’ombra dell’Arengario parlano soprattutto della sicurezza, ma mai un accenno alla «Cascinazza», la perla della provincia di Monza e della Brianza, di cui, per la verità, nessuno conosce bene gli originari confini. L’Adda e il Seveso a Est e a Ovest e l’intero triangolo Lariano? Boh. Allarga oggi, allarga domani, nessuno sa più bene cos’è questa brianzolità. Ma tanti deputatini, tanti uffici, tanti soldi, tanto potere, piacciono a tutti. Fatta la grande provincia, domenica si decide se la famiglia Berlusconi (Silvio e Paolo) brinderà a champagne con Bossi per Milano 4, o se per la «Cascinazza» dovrà ingurgitare l’amaro Ramazzotti servito dal sindaco di centrosinistra Michele Faglia.

Sull'affare Cascinazza si veda e altri documenti nella cartella Padania

«La strada Fiorentina-Ghiaccioni non serve assolutamente alla viabilità ma apre il pascolo alle edificazioni sulle colline». Il severo giudizio non viene da un signore qualunque ma dall’architetto Vezio De Lucia, quello stesso urbanista di fama internazionale che ha firmato il piano strutturale dei tre comuni della Val di Cornia. De Lucia fu scelto sulla base del suo indiscutibile prestigio professionale. Autore di un centinaio di saggi sull’urbanistica, insegna alle Università di Roma e Palermo. Ha firmato diversi piani urbanistici di alcune delle più importanti città italiane, tra cui quello del comprensorio di Venezia. Ma soprattutto ha vissuto, come assessore all’urbanistica di Napoli, il processo di riconversione di Bagnoli dopo le dismissioni dello stabilimento siderurgico.

A Piombino ha fatto un lavoro che nel luglio dell’anno scorso, al momento dell’adozione del piano, non solo raccolse l’apprezzamento della maggioranza, ma anche quello di Rifondazione e Verdi. Tuttavia il rapporto tra il progettista e i tre Comuni (Piombino, Campiglia e San Vincenzo) s’interruppe bruscamente subito il primo voto in consiglio comunale.

Perché, chiediamo all’architetto De Lucia, questa improvvisa separazione?

«Formalmente scadeva l’incarico con l’adozione, non c’è stata nessun’interruzione forzata. L’eventuale proseguimento del lavoro poteva avvenire con un nuovo incarico, anche per procedere al riallineamento dei piani di San Vincenzo e Sassetta con quello degli altri Comuni. Questa seconda fase non c’è stata. È chiaro che nella sostanza affioravano però problemi. Il clima non era di intesa assoluta come in queste circostanze è indispensabile. Alla fine era stato un po’ complicato intendersi sulle scelte».

Durante il suo lavoro ha ricevuto pressioni?

«Nella fase iniziale tutto sembrava andar bene, con un’intesa che definirei totale. Naturalmente il piano adottato lo condivido fino in fondo. Però nell’ultima fase c’erano state discussioni che rendevano problematico, per quanto mi riguarda, continuare. L’urbanistica non si può fare in un clima di conflittualità, ci deve essere piena intesa tra chi opera e i politici. C’è sembrato opportuno, di comune accordo, sospendere il rapporto».

E quali sono stati gli elementi di maggior contrasto?

«Uno riguardava sicuramente la portualità, sia turistica che commerciale. Soprattutto l’eventuale utilizzazione dell’area palustre a Sud della fabbrica per l’espansione del porto commerciale, in una zona di circa 70 ettari rimasta miracolosamente intatta e sopravvissuta alle bonifiche. Mi sembrava una previsione eccessiva, anche rispetto alle reali esigenze di espansione del porto. Poi la portualità turistica, che per fortuna mi pare sia stata ridimesionata, ma che in quel momento era eccessiva».

E sulla Fiorentina-Ghiaccioni come è andata la discussione?

«Io ero assolutamente contrario. La strada non serve assolutamente ai fini della viabilità. Il compromesso trovato era quello di prenderla in esame dopo aver realizzato, non semplicemente progettato, i due tracciati della 398, quello che attraversa la fabbrica e quello più urbano per congiungere il Gagno col centro urbano. Solo allora, se ci fossero stati ancora problemi sul traffico si sarebbe preso in considerazione la Fiorentina-Ghiaccioni».

Sa che è stata accolta un’osservazione di partiti della maggioranza che elimina questa subordinazione della Fiorentina-Ghiaccioni alla 398?

«Lo ho appreso dalla stampa, perché quelle osservazioni e le controdeduzione non le conosco, nessuno me le ha mai fatte vedere».

Ma è normale che l’urbanista che ha progettato il piano non segua le osservazioni e cessi il suo lavoro tra l’adozione e la sua approvazione definitiva?

«Certo in linea generale è un’eccezione. Se avessero chiesto il mio parere sulle osservazioni lo avrei dato senza la pretesa di ricevere per questo un incarico».

Torniamo alla Fiorentina-Ghiaccioni. Se la strada non serve alla viabilità, a che serve allora?

«Secondo me apre i pascoli all’edificazione e a questo punto tutto può succedere. Insieme all’eliminazione del confine urbano, si stanno ponendo le premesse per scelte che contraddicono decenni di rigore urbanistico, soprattutto sul territorio collinare, che caratterizza la tradizione del territorio di Piombino e della Val di Cornia. In questo quadro credo sia legittimo preoccuparsi. E anche parecchio. Del resto la stessa Regione Toscana ha assunto normative per la tutela delle colline. Se si scardina questo, crolla uno dei punti fondamentali del sistema. Lei ricorderà la storia urbanistica di territorio. Tutto iniziò negli anni Settanta, quando il ministero dei Lavori pubblici e poi il Comune respinsero il tentativo di edificare un milione e mezzo di metri cubi sul promontorio. Quella divenne una specie di linea del Piave».

Sì però una strada non significa esattamente che ci si debba costruire intorno. Attraverserà una zona naturale protetta (Ampil) e ci sono molti vincoli da superare.

«Guardi, tutto si può mettere in discussione. Posso dirle che abbiamo un’esperienza in materia, c’è sempre una ragione in queste cose. Se ci fosse una reale esigenza di accessibilità alla città, potremo anche essere d’accordo, ma siccome non c’è...».

Ma c’è chi si domanda dove mettere la previsione di 1.200 nuovi alloggi previsti dal piano strutturale e che sostiene che, in fondo, meglio costruirli in una zona panoramica che vicino ai fumi della fabbrica.

«Ripeto, non conosco in modo preciso le osservazioni, ma se le cose stanno così mi sembra che tutto diventi più trasparente. Beninteso, tutto è assolutamente legittimo. L’indirizzo assunto nel piano strutturale nella fase di adozione era quello di non edificare sulle colline. Poi certo si può cambiare idea. L’hanno cambiata, benissimo, basta dirlo. Le previsioni di nuove costruzioni, non poche per la verità a Piombino, sono fatte per un lungo periodo. Una soglia da usare, come prevede la stessa Regione sulla base di almeno tre regolamenti urbanistici. Spero che non si realizzino in blocco le previsioni in attuazione del primo regolamento urbanistico, altrimenti si va verso un’accelerazione del suolo che sarebbe difficile da sostenere».

Messina Gli elementi per la più classica delle tangentopoli siciliane ci sono tutti: un collaboratore di giustizia, la speculazione edilizia sulle colline e un apparato politico-amministrativo compiacente. Così Messina ha «riscoperto» l'illegalità con l'inchiesta Oro Grigio condotta dagli agenti della Mobile dei pubblici ministeri Giuseppe Farinella e Angelo Cavallo: 9 su 14 indagati, le persone finite in carcere per le tangenti intascate e offerte per ottenere la variante urbanistica che ha portato alla realizzazione del complesso abitativo «Green Park» sul torrente Trapani di Messina.

In carcere nomi di spicco della politica e non. Umberto Bonanno, già ex presidente del consiglio comunale nato «politicamente» con il garofano e fedelissimo dell'ex viceministro nel governo Berlusconi, Nanni Ricevuto, entrambi oggi in Forza Italia. Giuseppe Fortino, l'avvocato che avrebbe avuto il «compito di individuare le operazioni immobiliari di rilevante valore da compiersi nella città», mediando con politici e funzionari pubblici incaricati a vario titolo di «condizionare» gli iter amministrativi. Antonino Ponzio, funzionario addetto alle politiche del territorio del comune di Messina, Antonio Gierotto, funzionario amministrativo della facoltà di scienze della formazione all'Università di Messina. Questi sarebbero stati al vertice del «gruppo di potere» che organizzava consulenze tecniche e legali, compravendite di immobili, individuava i gruppi imprenditoriali che avrebbero dovuto realizzare le lottizzazioni immobiliari. Nell'operazione Oro Grigio, inoltre, sono finiti in manette anche gli imprenditori Giovanni e Salvatore Arlotta, rappresentanti della Ar.Ge.Mo srl, società che sta curando insieme alla Samm Costruzioni srl la realizzazione del complesso abitativo «Green Park». Di quest'ultima società fanno parte gli altri tre arrestati, a cui sono stati concessi i domiciliari, Santi e Giovanni Magazzù e Antonino Smedile.

Il gip Mariangela Nastasi non ha concesso la custodia cautelare per tre funzionari regionali dell'assessorato al Territorio e Ambiente (Rosa Anna Liggio, Giuseppe Giacalone - già presidente del comitato regionale per l'Urbanistica all'epoca dell'esame del Prg di Messina - e Cesare Antonino Capitti). I tre sarebbero stati l'altro terminale nella pubblica amministrazione regionale incaricati di accelerare i tempi di approvazione dei progetti autorizzativi. Tra gli indagati ci sono anche altri due funzionari comunali di Messina, Manlio Minutoli, direttore del dipartimento politiche del territorio del Municipio, che ha ammesso di aver ricevuto pressioni sia da Bonanno che da Fortino, e Raffaele Cucinotta, direttore della sezione Prg di Palazzo Zanca. A svelare i retroscena dell'«affaire Green Park», che prevedeva una tangente complessiva di un milione e 550 mila euro da spartire tra i vari protagonisti e la cessione di vari appartamenti in fase di costruzione, con la sottoscrizione dei relativi contratti preliminari, è stato Antonino Giuliano, il «pentito alfa», un imprenditore edile vittima degli usurai che dal dicembre del 2004 collabora con la giustizia ed ha contribuito significativamente all'inchiesta madre della Procura della Repubblica sul piano regolatore generale della città. L'indagine madre da cui discende lo stralcio dell'operazione Oro grigio, che già nello scorso mese di settembre aveva prodotto una lista di indagati che contava almeno una settantina di personalità anche illustri. Fra cui lo stesso sindaco di Messina, esponente della Margherita Francantonio Genovese, scivolato nell'inchiesta per un presunto interessamento nella ricerca di voti in una tornata elettorale in cui non figurava neppure come candidato. O lo stesso governatore della Regione, Totò Cuffaro di cui il «pentito alfa» avrebbe parlato in quanto «interessato» insieme all'imprenditore della sanità Michele Aiello negli affari per la realizzazione di cliniche mediche nella zona nord della città. Aspetti dell'inchiesta che, come ha assicurato il procuratore capo di Messina Luigi Croce, non solo non hanno nulla a che fare con l'operazione Oro grigio ma che in alcuni casi (come per Cuffaro) sarebbero anche in una fase conclusiva senza rilievi penali.

Il falso mito della disciplina urbanistica

di Carlo Lottieri

C’è qualcosa di sorprendente nell'ultimo saggio di Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo, visto che si tratta di un volume sull'urbanistica che sposa una prospettiva liberale. Un dato caratteristico del nostro tempo, infatti, è il permanere in ambito urbanistico del mito del «piano», miseramente fallito in economia e anche nelle altre scienze sociali. Mentre oggi farebbe sorridere proporre piani di produzione quinquennali come quelli della Russia di Lenin o di Stalin, in larga parte dell'Occidente continuiamo a subire piani territoriali o paesaggistici comunque destinati a definire la gestione dei suoli: come se nulla fosse successo nell'ultimo secolo e come se il crollo delle società costruite dall'alto non avesse avuto luogo.

La forza della ricerca di Moroni muove dal suo voler essere un urbanista consapevole della complessità delle interazioni sociali. E non a caso nella sua riflessione egli riserva tanta attenzione a un economista come Friedrich von Hayek e a un filosofo del diritto come Bruno Leoni: entrambi assai netti nel rilevare che la vita produttiva e le relazioni sociali hanno certo bisogno di regole, ma che esse non devono essere il prodotto di una decisione calata dall'alto. Perché questo è l'argomento cruciale di chi, da liberale, si sforza di persuadere il proprio interlocutore della necessità di abbandonare le pretese totalitarie di quanti vogliono «governare la città» dimenticando che essa è veramente tale - lo spazio delle libertà e degli scambi - solo se non è governata da un sovrano o da un tecnocrate. Moroni non propone di abolire i piani regolatori, importando dagli Usa la cultura di quelle città americane (Houston è la più nota, ma ve ne sono molte altre) che non hanno mai accettato la logica della «zonizzazione». Eppure egli riformula la pianificazione delimitandone rigidamente i confini e, in sostanza, affermando che essa può servire «solo per realizzare qualcosa di particolare (servizi o infrastrutture) in un ambito o settore circoscritto, creando obblighi per l'amministrazione stessa piuttosto che per i cittadini». Essa dovrebbe quindi rinunciare alla pretesa di operare come una gabbia «nei confronti delle attività private, focalizzando la propria attenzione soprattutto sulla disciplina delle azioni pubbliche».

Tale riflessione nasce dalla frequentazione degli autori della cosiddetta «scuola austriaca» (da Menger a von Mises, a von Hayek) e dalla convinzione che la rappresentazione del mercato che ancora oggi prevale - quella neoclassica, basata sulla nozione di concorrenza «pura e perfetta» - sia assai deficitaria, soprattutto perché ignora il carattere dinamico (mai prevedibile e per nulla meccanicistico) delle relazioni che hanno luogo nei processi di adattamento spontaneo e interazione volontaria.

In un noto saggio degli anni '40, von Hayek rilevò che la dispersione delle conoscenze, a partire da quelle più «fattuali», è tale da rendere assai spericolato il progetto di una gestione centralizzata della vita economica. È interessante rilevare che oggi Moroni ci dice che esattamente la stessa cosa vale di fronte alle questioni urbanistiche.

Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo (CittàStudiEdizioni, pagg. 208, euro 16).

«Liberiamo la città dai piani regolatori»

di Domizia Carafoli

Quello della pianificazione urbana è uno dei dogmi ereditati dal '900. Intaccabile. La metropoli moderna va pianificata, dall'alto, in una concezione che vede predominante la funzione pubblica, preposta a incanalare tutte le forze attive e le componenti economiche della società verso una meta predefinita e astratta che configura la «città ideale». Il risultato è sotto gli occhi: le metropoli pianificate, lungi dall'essere ideali sono in realtà organismi ipertrofici e disomogenei, comprendono sacche di povertà ed emarginazione, sono farraginose e faticose. Oltre che brutte. Ma la maggior parte degli urbanisti insiste-, o la pianificazione o il caos.

E se provassimo a scegliere il caos? Stefano Moroni, urbanista e docente al Politecnico di Milano e all'Università di Pavia, butta lì la sua provocazione in un libretto smilzo ma esplosivo nel contenuto, La città del liberalismo attivo: «Attenti a pianificare - dice l'insegnante di Etica e Territorio - siamo già in difficoltà a pianificare le nostre vite, figuriamoci se riusciamo a pianificare una città...».

Ma viviamo già nel disordine edilizio, con i risultati che tutti conosciamo. Se aboliamo anche le regole...

«Non ho detto di abolire le regole. Mi esprimo contro un sistema di norme per guidare i comportamenti e le attività dei cittadini in una direzione predeterminata. I piani regolatori tradizionali nascono immaginando uno stato finale sulla base di previsioni: aumento o diminuzione del numero di abitanti, sviluppo di determinate attività economi-che e così via. Ma poi la realtà urbana evolve in tutt'altro modo. Ecco perché i piani regolatori nascono vecchi e necessitano di continue varianti, generando confusione e incertezza. L'Italia è piena di piani regolatori e di relative varianti, in una ressa di norme illeggibili dai cittadini, ma leggibilissime dagli "specialisti", vedi gli speculatori. Aggiungo che i molti tentativi recenti di rendere la pianificazione più flessibile non migliorano affatto la situazione, anzi aumentano la discrezionalità del potere pubblico e gli spazi speculativi. Non si tratta di innovare il piano, ma di metterlo definitivamente in discussione».

La sua città, secondo il titolo del libro, è quella «del liberalismo attivo». Che cosa significa?

«È un'evoluzione del liberalismo classico che, come noto, pone l'individuo al centro come un fine in sé, senza attribuire alcun valore intrinseco a gruppi, collettivi, comunità. In questa prospettiva solo gli individui contano e ogni individuo conta. Fra gli elementi costitutivi del liberalismo attivo, uno, fondamentale, è la ripresa della più netta distinzione tra la sfera del giusto e la sfera del bene. Diciamo che la sfera del giusto riguarda le regole di base universali, imposte dalle istituzioni, dallo Stato; la sfera del bene riguarda invece le insindacabili concezioni individuali relative a cosa sia una vita buona o desiderabile. Ciò che devono fare le istituzioni è garantire, attraverso le regole di base, le più ampie libertà individuali, perché ciascuno possa scegliere o. perseguire la concezione della vita buona che preferisce senza ledere pari diritti altrui. Il pluralismo delle concezioni del bene è provvidenziale per la società e la città».

Però le regole ci vogliono... «Certo, e chiare. Una delle basi del liberalismo attivo è l'ideale della rule of law che potremmo tradurre con l'espressione "supremazia del diritto" e che implica l'imparzialità più rigorosa delle norme nei confronti dei destina-tari e la certezza complessiva del sistema giuridico. Questo vale anche per la città. Poche regole, le più astratte e generali possibile, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinchè non siano lesi i diritti di alcuno. Il resto sia lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato. Non il mercato falsato che conosciamo, ma realmente concorrenziale».

Sì, ma vorrei tornare alla speculazione edilizia. Se non interviene la mano pubblica a stabilire dove e come costruire, dove non farlo, forse non avremmo nemmeno un giardinetto. A questo servono i piani regolatori.

«Le periferie più brutte sono figlie dei più bei piani regolatori. Non è detto che i piani d'uso del suolo, tradizionali o rinnovati, siano l'unica forma di regolazione dello sviluppo di una città. Non è detto che una maggiore libertà e concorrenza non potrebbe migliorare la città, una volta stabilite le già menzionate e inderogabili regole di base. Sa perché da noi leggi e regole non sono rispettate? Perché sono troppe, poco chiare e cambiano in continuazione. Il rispetto per il diritto è diminuito per il modo in cui i soggetti pubblici se ne sono serviti, ossia come strumento sempre modificabile al servizio della maggioranza del momento».

Una proposta concreta? «Un'ipotesi che potrebbe meritare attenzione è quella dell'indice unico di edificabilità».

Sarebbe?

«I piani regolatori tradizionalmente differenziano gli indici da area ad area e indicano appunto dove e come costruire o non costruire, e quanto. Ne consegue, tra l'altro, che molti cercano di influire sulle istituzioni pubbliche per ottenere un indice più alto; premono perché i loro terreni ottengano un trattamento privilegiato, si avvalgono della politica. Se invece si attribuisce un indice unico a tutti e si consente di scambiare liberamente le quote edificatorie - ossia di acquistare e vendere tali quote sul mercato - verrebbe a cadere uno dei motivi di corruzione, da cui nasce la speculazione edilizia. Inoltre l'edificazione si sposterebbe - stanti le regole di base da rispettare - ove di volta in volta più richiesta. Ovviamente l'applicazione concreta dell'indice unico richiederebbe vari correttivi e adeguamenti, ma il punto importante è se si è pronti ad accogliere l'idea dell'uguale trattamento di tutti i cittadini e a rinunciare all'assurda convinzione che qualcuno sia in grado di stabilire a priori, dove, come e quanto si debba costruire».

Ma se il pubblico collabora col privato, non si potrebbe avere una città migliore?

«Ritengo la commistione tra pubblico e privato uno dei mali del nostro tempo. Le amministrazioni svolgano il loro compito che è quello di garantire ai cittadini uguali condizioni di base. E basta. Il pubblico, cioè, badi alle regole e il privato lavori, costruisca, guadagni, se e quando ne è capace, senza chiedere continuamente al pubblico interventi di sostegno. In quest'ottica, se certe iniziative private - ad esempio certe trasformazioni urbane - sono possibili solo con la compartecipazione del pubblico, allora significa che non sono affatto richieste, altrimenti si sosterrebbero da sole».

Resta il fatto che, a parte qualche città medio-piccola o città del nord Europa, i grandi agglomerati urbani appaiono tutti infelici, sia dal punto di vista estetico, sia da quello della vivibilità. La città è in crisi.

«La città resta comunque il luogo dove la maggior parte delle persone vuole vivere e forse riusciremmo a renderla migliore se smettessimo di considerarla un insieme di edifici, strade e attrezzature da coordinare diligentemente tramite un disegno unitario che solo il pubblico dovrebbe essere in grado di concepire e garantire. La città è invece, prima di tutto, un insieme variegato e dinamico di individui, ossia di aspirazioni, competenze, iniziative, diritti, proprietà. È una realtà socio-economica viva, in continuo e imprevedibile mutamento. Le possiamo imporre una cornice giuridica, non una forma urbanistica. Una città desiderabile è quella formata da un insieme di persone con le più diverse concezioni di vita buona e con le più diverse idee su come liberamente ottenerle. L'unica cosa su cui possiamo cercare la convergenza collettiva è un "codice urbano", un elenco di regole di base che definiscano un'idea di giusta convivenza e stabiliscano solo la disciplina dell'uso dei mezzi, senza pretendere di stabilire anche i fini. Regole a cui eventualmente aggiungere pochi strumenti di "pianificazione di servizio" che vincolino la stessa amministrazione nella realizzazione di ben definite infrastrutture. Detto in una battuta: se proprio l'amministrazione vuole pianificare, pianifichi le proprie attività, non quelle dei cittadini».

Il commissario Montalbano contro i texani. Il rude e intraprendente poliziotto, partorito dalla fantasia dello scrittore Andrea Camilleri, alla scoperta dell´oro nero e dei traffici più o meno leciti che si svolgono nella terra in cui sono ambientate le riprese televisive delle sue gesta, riproposte da un tour operator locale in un itinerario di cinque giorni. Dalla fantasia alla realtà, servirebbe proprio un paladino come lui per fermare la dissennata ricerca del petrolio che minaccia di sconvolgere la Sicilia sud-orientale, l´equilibrio naturale del suo territorio, la sua vocazione turistica e culturale.

Le trivelle, fortunatamente, ancora non si vedono. Ma per grazia ricevuta i capolavori del Barocco si possono vedere e ammirare in tutto il Val di Noto - al maschile, da vallo - più o meno come furono costruiti, o meglio ricostruiti, dopo il terremoto del 1693. Sono lì da tre secoli, incastonati come gioielli in un´area pari a un terzo di tutta l´isola, distribuiti dalle prodighe mani dell´arte e della storia in un arco di otto Comuni: da Catania a Noto, Ragusa, Caltagirone, Militello, Modica, Scicli e Palazzolo Acreide. Un tesoro unico al mondo, irripetibile e inestimabile, dichiarato dall'Unesco patrimonio mondiale dell´umanità.

Oggi i palazzi e i monumenti del tardo Barocco siciliano non tremano per i movimenti della terra, ma per la minaccia delle ricerche petrolifere sottoterra che la società americana "Panther Eureka" è stata autorizzata a effettuare dalla Regione. O per l´esattezza, dall´ex assessore all´Industria, Marina Noè, in aperto conflitto con i suoi interessi imprenditoriali nei cantieri navali di Augusta, il porto del Petrolchimico. E il pericolo incombe nonostante che successivamente la stessa Giunta regionale, presieduta dal discusso governatore Totò Cuffaro, abbia deciso il 20 maggio 2005 di sospendere il rilascio dei permessi, su proposta dell´ex assessore ai Beni culturali, Fabio Granata, esponente di quella "nuova destra" che cresce sotto le insegne di Alleanza nazionale. Impugnata davanti al Tar, la delibera è stata poi annullata per un paradosso giudiziario, perché non recava la firma dell´assessore che aveva rilasciato "motu proprio" i permessi.

Eppure, il documento della Giunta regionale non lascia dubbi di sorta. Si parla, testualmente, di «straordinaria rilevanza del patrimonio ambientale, paesaggistico e monumentale» e per contro di «alto rischio che i progetti di prospezione, ricerca e sfruttamento degli idrocarburi possano arrecare danni irreversibili». La delibera ricorda inoltre che l´Unesco, per concedere il suo riconoscimento, ha chiesto come condizione imprescindibile un «piano di gestione» che vincoli il territorio e il suo sviluppo a «un uso compatibile e sostenibile». E infine, viene sancito esplicitamente che tutto ciò non è compatibile con lo «sfruttamento di eventuali giacimenti di idrocarburi liquidi e gassosi».

Respinti con voto segreto da un inedito asse trasversale Forza Italia-Ds i due articoli con cui Granata tendeva in extremis a vietare le trivellazioni petrolifere, durante un rimpasto della Giunta lo scomodo ex assessore ai Beni culturali venne trasferito - "promoveatur ut amoveatur", come si dice in linguaggio curiale - al Turismo e qui reso praticamente inoffensivo. Poi, pur avendo raccolto circa novemila preferenze alle ultime regionali, una maligna compilazione delle liste lo ha privato a sorpresa della rielezione. E così, Gianfranco Fini gli ha affidato la responsabilità del settore culturale di Alleanza nazionale, chiamandolo a Roma, dove si divide con l´incarico di vice-sindaco di Siracusa, la città di Archimede e del Teatro Greco.

Il fatto è che questa "guerra di Noto", per dire la contrapposizione fra chi vuol difendere le antiche ricchezze del Barocco in superficie e chi vuole cercarne invece altre nel sottosuolo, scaturisce da un´infausta legge regionale approvata nel 2000, sotto la presidenza di Angelo Capodicasa, oggi viceministro delle Infrastrutture, deputato dell´Ulivo. Fu quel provvedimento a liberalizzare le trivellazioni gas - petrolifere in nome della «pubblica utilità», aprendo la strada all´assalto del territorio in spregio alla normativa ambientale, nazionale e comunitaria. Tant´è che a luglio il ministro dell´Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, ha dovuto inviare un altolà all´attuale presidente della Regione siciliana per ricordargli che, in base alla "Direttiva Habitat", è lo Stato a rispondere di eventuali violazioni. E il 12 marzo scorso il Wwf ha chiesto ufficialmente al ministro la revoca delle autorizzazioni, perché prive di Valutazione di impatto ambientale e Valutazione di incidenza.

Al colmo del paradosso, come ricorda sconfortato l´ex assessore regionale Granata, c´è il dato che - tra il 2001 e il 2006 - l´Unione europea ha investito 380 milioni di euro in quest´area, per promuoverne la valorizzazione turistica e culturale. Un mare di soldi che ora rischia di essere inquinato dal petrolio, ammesso poi che si trovi veramente. Nel frattempo, il danno economico e d´immagine sarebbe comunque gravissimo: le trivelle e i pozzi di petrolio respingerebbero un flusso turistico in ripresa, invertirebbero una tendenza in atto e condannerebbero definitivamente questa parte della Sicilia a un destino estraneo alla sua storia e alla sua tradizione.

Poi - avverte il presidente del circolo locale di Legambiente, Nuccio Tiberi - c´è anche il problema dell´assetto idrogeologico. «Le perforazioni del terreno minacciano di inquinare le falde freatiche. E senz´acqua, i contadini abbandonerebbero presto le campagne, aumenterebbero i rischi di incendio e il degrado sarebbe inevitabile». Per quanto apocalittica possa apparire, non è certamente una prospettiva da trascurare.

È per tutte queste ragioni che, sabato 17 marzo, duemila persone sono scese in piazza armate di striscioni, bandiere, palloncini e tamburi, nel tentativo di mobilitare l´opinione pubblica locale contro l´invasione dei texani. Si chiama "No-Triv", per assonanza con il fronte "No-Tav" della Val di Susa, si chiama il comitato popolare guidato dal battagliero Vincenzo Moscuzza. Ma forse, come ha auspicato durante la manifestazione il vescovo di Noto, monsignor Giuseppe Malandrino, sarebbe meglio ribattezzarlo "Pro-Svil", cioè a favore dello sviluppo. O meglio ancora, "Sì-Cult", a favore della cultura, dell´ambiente e del turismo.

«A volte - confida Corrado Valvo, sindaco di Noto per Alleanza nazionale - abbiamo la sensazione di fare i donchisciotte. Ma questa non è una battaglia politica, va al di là degli schieramenti. È nell´interesse di tutta la popolazione». E perciò ha concesso uno spazio per un banchetto del comitato "No-Triv" nell´ingresso del Municipio, lo storico palazzo Ducezio, proprio di fronte alla maestosa Cattedrale che sta per essere riaperta al pubblico dopo un lungo restauro.

Certo, l´opposizione popolare è importante e può avere i suoi effetti. Ma evidentemente non basta per fermare l´avanzata delle trivelle: anche perché qui si tratta di un caso che travalica l´ambito locale, un caso d´interesse nazionale o addirittura internazionale, se è vero che la Sicilia è la regione con la più alta concentrazione di siti inseriti nella World Heritage List dell´Unesco, il più grande giacimento culturale dell´intero pianeta.

«A questo punto - sollecita Granata - spetta alle Sovrintendenze di Siracusa e di Ragusa intervenire per porre un vincolo paesaggistico». Poi, la partita passerà nelle mani del nuovo assessore ai Beni culturali, Nicola Leanza, esponente del movimento autonomista. E se la Sicilia non riesce a rivendicare e a salvaguardare la propria autonomia su questo fronte, non si vede proprio su quale altro potrà più difenderla.

Sul fronte del paesaggio, di continuo aggredito da cemento & asfalto, ci sono notizie buone e meno buone. A Mantova, dove il sindaco ds Fiorenza Brioni, è riuscita con grande fermezza e capacità amministrativa a cancellare una sciagurata lottizzazione da 200 villette, più due torri condominiali, in riva ai laghi virgiliani, la direzione regionale lombarda dei Beni culturali è intervenuta efficacemente: il direttore regionale Carla Di Francesco, affiancata dal soprintendente di settore, Luca Rinaldi, ha infatti proposto un vincolo generale sui laghi a loro futura tutela. Provvedimento che salva uno dei paesaggi “storici” più strepitosi: la zona preservata infatti è in faccia al Castello di San Giorgio e rappresenta la porta di ingresso della splendida città dei Gonzaga da est, cioè da Ferrara. Un ingresso che, vi assicuro, vale da solo un viaggio.

C’è voluta tuttavia una grande determinazione da parte del sindaco Fiorenza Brioni, venuta apposta al convegno di Monticchiello del 28 ottobre scorso a denunciare le minacce che stava subendo e la necessità di fare di quell’alt a “villettopoli” sui laghi virgiliani una questione nazionale. Operazione nella quale ha messo passione, competenza e amore («La bellezza del paesaggio è un bene di cui devono poter godere, un diritto quotidiano di cittadinanza», ha esultato il sindaco anti-cemento alla notizia del vincolo). L’ingegneria idraulica che ha così conformato il paesaggio e l’ambiente mantovano risale al 1190 e si è conservata nei secoli, malgrado gli insediamenti industriali degli anni del “boom” e l’interramento del quarto lago. La misura ora studiata e proposta dalle Soprintendenze e dalla loro direzione regionale va nella giusta direzione, grazie ad un sindaco (raro ormai) che non considera il passato una ingombrante anticaglia, né cemento&asfalto «la modernità con cui convivere», inesorabilmente. Essa realizza in pieno - alla fine di «un processo di governo virtuoso» (sono ancora parole del sindaco) - il dettato dell’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». La Repubblica, cioè Stato, Regioni, Province e Comuni, armonicamente cooperanti, e non i soli Comuni o le sole Regioni come vorrebbe qualche governatore e qualche suo assessore (neppure leghista peraltro). Con un preciso, ineludibile ruolo tecnico-scientifico, quindi, delle Soprintendenze, come ha riaffermato, di recente, il ministro Rutelli. Non possono essere i Comuni ad avere «l’ultima parola» in proposito di edilizia e paesaggio. Anche perché dal “boom” edilizio, tutto speculativo, essi traggono nell’immediato fondi più che cospicui. Non sono quindi per niente neutrali rispetto alla domanda inesausta dei costruttori, che sta divorando l’Italia e che ci è costata in mezzo secolo la cementificazione e l’asfaltatura di una dozzina di milioni di ettari di suoli liberi, una superficie enorme, grande come tutta l’Italia del Nord. Una follia che nessuno riesce ad arrestare e che vicino a Mantova ha, per esempio, ricoperto di cemento le colline del Garda, un tempo stupende. Cemento tutto legale, in teoria, tirato su nell’ambito dei piani regolatori (e loro varianti, naturalmente).

In questi giorni dunque Mantova splende di luce viva in un panorama nazionale per lo più grigio o buio. Ha ragione il suo preveggente sindaco a rivolgere un ringraziamento e una riconoscenza “senza confini” agli organismi della tutela dove si lavora in condizioni pressoché disperate: 13-14 tecnici appena nelle due Soprintendenze lombarde ai Beni architettonici per 30-35.000 progetti di trasformazione nelle sole zone già vincolate, vale a dire 2.500 pratiche a testa all’anno, e quindi una dozzina per ogni giornata lavorativa. Una lotta disperata contro lobby potenti e protette. Anche perché se il Pil, negli anni del berlusconismo, non ha avuto un segno negativo, lo si deve, nella sostanza, all’edilizia. La quale, ripeto, è quasi tutta di mercato e di speculazione, con le giovani coppie indotte, dalla mancanza di affitti abbordabili (e anche dai tassi di interesse ridotti), a svenarsi per comprare casa ed ora non più in grado di pagare le rate dei mutui. Con le grandi città dove è scoppiata - nonostante le mille e mille gru alzate - una vera e propria emergenza-alloggi. Si parla di oltre 800mila immigrati senza casa o con un tetto assolutamente precario, e poi ci si lamenta delle loro difficoltà ad integrarsi...

Una buona notizia è, in tanto dramma sociale, la crescente consapevolezza che stiamo saccheggiando definitivamente la risorsa primaria (di tutti, e anche del turismo più duraturo) del paesaggio a vantaggio di una minoranza di cementificatori e che, malgrado questo “boom” di cantieri, quella delle abitazioni sta ridiventando una questione nazionale. Una buona, anche se tardiva, notizia è pure il sequestro dei cantieri di Monticchiello (Pienza) da parte della magistratura per alcune difformità rispetto alle concessioni. La lottizzazione è lì, ischeletrita, più brutta che mai rispetto al delizioso borgo murato. Si poteva evitarla? Certamente sì, se Regione e Comune avessero pensato, alla maniera del sindaco di Mantova, che non c’è nulla che equivalga un “governo virtuoso” del paesaggio e del territorio. E se la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici di Siena non avesse chiuso entrambi gli occhi - come ha fatto per l'orrendo e per lo più vuoto mega-parcheggio sotto le mura medioevali di Capalbio - davanti a quella scadente progettazione. Basta una lottizzazione così a sfregiare tutto un panorama o una intera valle. Come sta accadendo, per esempio, a Casole d’Elsa o a Magliano in Toscana.

Non so se sia una buona notizia, ma in Toscana i comitati locali che denunciano scempi già realizzati, in arrivo o soltanto minacciati sono ormai 75 e quasi tutti pongono problemi assai gravi. L’assessore regionale all’urbanistica Riccardo Conti - che lanciò un anno fa una sua campagna non proprio fortunata «per la buona urbanistica» - ha parlato di questi sconci come di altrettanti «episodi sgradevoli». Sgradevoli, forse, è un po’ poco. Episodi, anche meno, visto che si è superata la settantina di casi e spesso si tratta di lottizzazioni per centinaia di alloggi, seconde e terze case per lo più. O di massicci interventi - in atto da anni disgraziatamente - nel cuore delle piazze storiche, come quella che sorge sul foro etrusco e poi romano di Fiesole. Del resto, ha aggiunto, è il prezzo che si paga “alla modernità”. Ne siamo proprio consolati e confortati.

Anche a Milano associazioni e comitati si sono mobilitati per difendere dalla distruzione l’ultimo lembo dei Navigli dove l’amministrazione di centrodestra, ieri Albertini, oggi Moratti, progetta di creare, sotto la Darsena, un vastissimo parcheggio in modo da continuare a convogliare sul centro della città la massa del traffico automobilistico. Una scelta ancora una volta distruttiva, da ogni punto di vista. Milano - anche qui la direttrice regionale Carla Di Francesco ascolti, almeno lei, la voce dei comitati e degli intellettuali - non può perdere un altro pezzo essenziale dell’identità (poca) che le è rimasta.

Qui una cava. Lì un parcheggio. Lì una strada. E poi, appena fuori dei suoi confini, una lottizzazione. Sono molte le nubi addensate sui Parchi della Val di Cornia, un sistema di sei parchi gestiti da un’unica società nell’alta Maremma toscana, trecentosessanta chilometri quadrati di testimonianze archeologiche, musei, sopravvivenze minerarie e poi boschi e dune sabbiose che scorrono fra le colline e il mare, di fronte all’Elba. Ma a render le nubi più minacciose ecco che si avvicina l’uscita di scena del presidente dei parchi, Massimo Zucconi, architetto di Piombino, che guida la struttura da quando essa è nata, nel 1993. Negli ultimi anni Zucconi ha denunciato le scelte di alcuni Comuni, che pure furono gli artefici dei parchi e tuttora ne sono gli azionisti al novanta per cento.

La Val di Cornia ha sperimentato una formula unica in Italia: è gestita da una società mista, pubblico e privato, che dà lavoro a settanta persone alimentando un’industria turistica che accumula profitti e offre un’alternativa alla crisi della siderurgia abbattutasi negli anni Ottanta. Infine, altro dato unico, nel 2006 la società ha raggiunto il pareggio di bilancio, con un fatturato di 2 milioni di euro. Però, nonostante questo rosario di successi, Zucconi andrà via. Lo stabilisce una norma, approvata dai Comuni nel 2004, che limita a tre i mandati per i presidenti di questo tipo di aziende. Ma c’è chi vi scorge l’ombra della rimozione.

Zucconi critica una caduta d’attenzione sui temi della tutela. O, meglio, il tentativo di far convivere la tutela con interessi tanto pressanti quanto poco compatibili con un parco. Il Comune di Piombino, per esempio, vuole ampliare il parcheggio per la spiaggia della Sterpaia. Ma il parcheggio ampliato, spiega l’architetto, significa tanti più bagnanti e tanti più bagnanti mettono in pericolo il sistema dunale e la sua vegetazione. Sono stati investiti finora 25 milioni di euro, ma i Comuni con una mano spendono tantissimo per il parco, con l’altra - succede a Campiglia marittima - consentono che prosegua e anzi si intensifichi l’attività di una cava che incombe sui luoghi protetti. Nel 2006 ci sono stati due incidenti gravi: è esplosa una mina che ha proiettato pietre in aree nelle quali passeggiavano i turisti. Poco dopo un camion che trasportava un carico di mille quintali è uscito di strada ed è precipitato dentro il parco, provocando la morte del guidatore. La cava dovrebbe chiudere nel 2018, ma intanto sono state chiuse alcune parti del parco per motivi di sicurezza. Il sindaco di Campiglia, Silvia Velo, deputata ds, assicura che «la cava è a termine e che fino ad allora parco e cava possono convivere». Per Zucconi, invece, «il fronte della cava da decenni si sta ampliando». In un primo tempo la cava serviva solo lo stabilimento siderurgico di Piombino. Da qualche anno, però, i materiali possono essere anche venduti all’esterno. Il presidente della società privata che gestisce la cava è l’ex sindaco diessino di Campiglia. Un altro progetto preoccupa Zucconi, quello di una strada che transiterebbe dietro il promontorio di Piombino in un’area boscata e protetta. Una strada in quella posizione scatena, teme Zucconi, la crescita dei valori fondiari e quindi appetiti edificatori.

«Per Zucconi non si tratta di rimozione», replica Silvia Velo, «abbiamo deciso che quel tipo di incarichi deve avere un limite: vale per lui, ma anche per altri». E aggiunge che Campiglia, Piombino e Suvereto hanno appena adottato un piano regolatore comune «che rafforza il sistema dei parchi». «Voglio tranquillizzare tutti», insiste Gianni Anselmi, primo cittadino di Piombino, «non sono arrivati dei barbari che vogliono chiudere la Società dei Parchi. Ma non possiamo accettare il messaggio che si vuol far passare, cioè che tutto il bene sia nella Parchi e tutto il male nei Comuni». Ma le preoccupazioni di Zucconi sono condivise da Legambiente, Wwf e Italia Nostra e da alcuni dei progettisti del parco, come il geologo Giuseppe Tanelli e Riccardo Francovich, l’archeologo morto due settimane fa precipitando in un burrone vicino a Fiesole. La sua morte ha suscitato una fortissima emozione. Francovich è stato il promotore del parco archeo-minerario di San Silvestro minacciato dalla cava. Nel 1984 portò alla luce un villaggio medievale, la Rocca di San Silvestro, abitato da minatori e fonditori. Le sue ricerche hanno poi individuato una rete di pozzi scavati fin dall’età etrusca e dai quali veniva estratto un prezioso minerale. La scoperta indusse il comune di Campiglia a prendere una decisione coraggiosa: venne annullata la concessione di numerose cave e fu acquisita un’area di 250 ettari da destinare a parco.

Arrivarono finanziamenti europei. Ma il punto di svolta fu un altro. Negli anni precedenti Piombino e San Vincenzo avevano scelto di tutelare i loro territori, cancellando previsioni edificatorie imponenti. A Piombino saltarono due milioni di metri cubi nel bosco della Sterpaia. E quando sorsero duemila villette abusive, il sindaco, Paolo Benesperi e Zucconi, allora dirigente comunale, le fecero demolire. A San Vincenzo vennero cassati edifici per trecentomila metri cubi lungo la costa, consentendo la nascita del Parco di Rimigliano, progettato da Italo Insolera e Luigi Gazzola. Nel frattempo Carlo Melograni realizzò un piano regolatore comune per Piombino, Campiglia, San Vincenzo e Suvereto.

Erano anni di violenta aggressione contro le coste italiane. Ma in questo lembo di Maremma si scelse la tutela di un patrimonio naturale come occasione alternativa alla siderurgia in crisi. Nel ‘93 nacque la Società Parchi Val di Cornia: molti albergatori, ristoratori, gestori di stabilimenti sono diventati azionisti del parco e sono sorte nuove attività (circa una trentina, con un fatturato di 4 milioni di euro). Nel 2006 ottantacinquemila persone hanno visitato i parchi, il museo archeologico, il sito di Populonia (che in questi giorni ha ingrandito il suo territorio: qui ha scavato a lungo Francovich).

Ma negli anni sono cresciute le tensioni fra Zucconi e i Comuni. Un altro fronte polemico si è aperto a Rimigliano, nella tenuta di settecento ettari di proprietà privata non gestita dalla Società Parchi, ma confinante con il suo territorio. Qui fino al 1998 era previsto un albergo di cinquantamila metri cubi. Poi il progetto fallì. Ma il Comune ritiene comunque sia nel diritto della proprietà di costruire qualcosa: al posto dell’hotel potrebbero sorgere residenze sparse. E questo nonostante un parere contrario della Soprintendenza. «Il guaio dell’Italia di oggi è che quando una previsione edificatoria è in un piano regolatore nessuno riesce più a eliminarla, anche se la si ritiene sbagliata», lamenta Zucconi. «Una previsione non è una concessione edilizia, quello sì che è un diritto acquisito. Appena qualche decennio fa in questa parte della Toscana sono state stralciate fior di lottizzazioni. Ma ormai anche qui l’interesse immobiliare è enorme, i valori sono cresciuti a dismisura. E le resistenze si sono affievolite».

Sui Parchi della Val di Cornia vedi questa nota e i file collegati. Sul desiderio dei comuni di "liberarsi" di Zucconi vedi questo appello. E sui “diritti acquisiti" leggi questo documento.

A UN CERTO punto mi assale l´angoscia dell´infortunio, e non mi mollerà più. Paura di finire schiacciato sotto un blocco di tavole di ferro, quelle imbracate da una corda consunta che dal cortile vedo piombare giù dal settimo piano del ponteggio, e se perdi l´attimo, o ti distrai, o se una di quelle lastre che devi afferrare prima che tocchino terra si ribella alla morsa del moschettone, rimani sotto. Il terrore di venire travolto da una betoniera. Stritolato da un cavo d´acciaio. Che le braccia cedano, o semplicemente di scivolare dall´impalcatura dove mi fanno arrampicare anche se sono nuovo del mestiere.

Anche se calzo dei banali scarponi da montagna. Niente a che vedere con quelli antinfortunio, obbligatori. Non indosso nemmeno il casco. Un caporale, un calabrese duro e silenzioso, mi dice di tenerlo a portata di mano: «Magari arriva qualche ispettore, ma stai tranquillo, non ti guarda nemmeno». Lascio riposare il guscio in cima a una pila di assi di legno. Dovrò caricarle su un camion, assieme a quintali di altro materiale.

Da buon manovale bado solo a lavorare, a guadagnarmi, in nero, i miei 3 o 4 euro l´ora. Per dieci ore fanno 30-40 euro. Pagamento dopo 50 giorni. La prima settimana di prova, spesso, è gratis. Inizi in cantiere alle sette dal mattino, finisci, sfatto, alle cinque, sei del pomeriggio. Un massacro. Niente documenti, sicurezza zero. Alla fine del mese devi pure pagare la mazzetta: 300 euro al caporale che ti ha dato lavoro. Per mantenere il posto. A Milano, in una settimana da operaio abusivo, caporali e capomastri conoscono a malapena il mio nome. In un caso solo perché me lo chiede un collega marocchino. Sulla trentina, magro, sdentato, quasi sempre alterato dall´alcol. Amil è uno dei pochi che in sette giorni si prenderà il disturbo di farmi coraggio. «Non è il massimo, ma è sempre meglio che rubare o spacciare», biascica in un italiano incerto mentre a bordo di un furgone raggiungiamo un cantiere alla periferia di Novara. Ne ho conosciuti tanti come Amil. Schiavi. Con loro ho condiviso e subìto il ricatto dei caporali. Gente spietata che nei cantieri della Lombardia spreme migliaia di braccia. In barba a ogni regola e a ogni diritto.

A Milano e provincia, dei 120 mila operai edili (il 42,3 per cento sono immigrati stranieri, nel 2000 erano solo il 7,1), 60 mila sono in nero: la metà. Tutti gestiti dai caporali. È manodopera fantasma, soprattutto straniera e clandestina. Ricattabile. Chi non è in regola col permesso di soggiorno, si deve accontentare. Fa cose da bestia, che gli italiani rifiutano. Sono albanesi, egiziani, marocchini, romeni, tunisini. E sudamericani. Italiani pochi: stanno quasi sempre in cima alla piramide. Impresari. O, appunto, mercanti di braccia. Ti reclutano all´alba e ti scaricano nei cantieri dove rischi la vita per pochi spiccioli, e se ti fai male ti lasciano lì in strada. Mai visto, mai conosciuto. Nemmeno al pronto soccorso puoi andare. Altrimenti metti nei guai chi ti ha assunto. E perdi il posto. «Tra il manovale e il caporale c´è un rapporto esclusivo. Tu devi parlare solo con lui, non fare domande sul dove e il come e per conto di quale impresa dovrai lavorare - spiega Marco Di Girolamo, della Fillea, il sindacato edile della Cgil - a fine mese gli devi dare la mazzetta, da 200 a 300 euro. La consegna del denaro avviene a cielo aperto. Oppure, in base all´accordo tra ditte e caporalato, il pizzo è trattenuto alla fonte: fai 250 ore, e te ne pagano solo 200».

Il mercato degli uomini inizia quando il sole sta ancora sotto la linea dell´orizzonte. Alle 5 del mattino siamo già tutti qui, in piazzale Lotto. Schiavi e padroni. Chi cerca lavoro nero, e chi lo offre. I primi sciamano sul prato, aspettano seduti sulle panchine, sotto le pensiline degli autobus. I volti stropicciati dal sonno, zainetti e sporte di plastica con dentro il rancio: pane egiziano, formaggi cremosi da spalmare, riso, kebab in scatola, bibite dolciastre, molto gassate, birra, bocconi di carne speziata. Gli scarponi induriti dalla calce, i camicioni larghi di lana, gli invisibili dell´edilizia attendono l´arrivo dei caporali. Piazzale Lotto è uno dei luoghi dove tutte le mattine all´alba si svolge la contrattazione per una giornata di lavoro in cantiere. Le altre filiali sono piazzale Corvetto, piazzale Maciacchini, piazzale Loreto, le fermate della metropolitana di Bisceglie, Famagosta, Inganni. La stazione Centrale, quella di Sesto Marelli. Per essere qui alle 5 centinaia di uomini scendono dal letto anche due ore prima. Sono giovani immigrati che l´inedia spinge a elemosinare un lavoro massacrante. Il contratto nazionale di categoria prevede 173 ore al mese, 8 ore al giorno per 5 giorni settimanali. I caporali te ne fanno fare in media 250, sabato compreso. Tutelato da niente e da nessuno.

Inserirsi nella filiera del caporalato non è difficile: bastano una modesta prova di recitazione, un paio di scarponi, jeans sdruciti, giubbotto e un cappellino con visiera. Ecco i primi gruppetti intorno all´edicola di piazzale Lotto. «Cerco lavoro, a chi posso chiedere?» Mi dirottano prima su un egiziano, poi su un marocchino, un albanese, infine un ucraino. Italiani, a quest´ora, neanche l´ombra. Arrivano più tardi, al volante di mezzi di ogni tipo. Utilitarie, station wagon, pick-up, monovolume. Vecchi e nuovi furgoni. L´unico sveglio è l´autista. «Fino a un mese fa facevo il magazziniere, poi la ditta ha chiuso. Chi è il capo?": mi faccio coraggio fendendo un cerchio umano a due passi dalla fermata della 91. «Intanto vai da quello là con il giaccone nero». È un calabrese, sulla quarantina. Viene da Buccinasco. Lancia Ypsilon sporca di fango. «Da dove vieni?». «Bergamo. Però vivo qui, a Bonola». «Che cosa fai?» «Magazziniere, qualche trasloco, ma adesso sono fermo». «Edilizia, mai?» «Mai». «Oggi ti va bene, ho uno malato che è rimasto a casa. Però ti dico subito... Lavorare duro senza fare storie, la paga è di 3,50 euro all´ora, finiamo alle cinque, e se succede qualcosa, affari tuoi». Il contratto si chiude con una pacca sulle spalle.

Un´ora dopo siamo a Monza. Lo scheletro ponteggiato di una palazzina. Salvatore ci scarica lì. Sta incollato al telefonino. Controlla. «Un lavoratore regolare per l´impresa ha un costo di 22 euro l´ora. La metà rimane tra l´impresa appaltatrice e quella subappaltante. La parte restante la intasca il caporale - spiega ancora Di Girolamo - La quantità di evasione fiscale contributiva ammonta a 6 miliardi di euro all´anno». Una bella fetta di Finanziaria.

Nel cantiere monzese ci sono nove operai: cinque noi (due soli in regola), quattro di un´altra squadra. Mentre all´ultimo piano un giovanissimo muratore albanese getta il calcestruzzo nelle casseforme e un collega marocchino lo assesta con un pestello, io ne trasporto dell´altro. Prima con una carriola, poi in secchi stracolmi, facendo acrobazie tra i correnti del ponteggio. Un piano è sprovvisto di parapiedi. Mancano anche le "mantovane", le barriere anti caduta sassi. Una pioggerella sottile ha reso scivolose le pedane d´acciaio e il rischio di cadere nel vuoto è altissimo. «Veloce! Veloce!», grida il caposquadra. Esige il minimo (per lui) rendimento. Che a me sembra l´impossibile. Alle 17, esausto, chiedo a Salvatore se per favore può anticiparmi la paga giornaliera. Lui temporeggia. Si capisce che la richiesta è inusuale. Eppure sono solo 35 euro, per dieci ore di lavoro. «Soldi? Fra 50 giorni - mi gela - nell´edilizia funziona così, bellooo!».

In Italia il settore edile dà lavoro a 1 milione e 200 mila operai. 600 mila sono regolari o mezzi regolari (in "grigio": su 250 ore mensili solo 80 vengono messe in busta paga); gli altri 600 mila sono in nero. Provo rabbia. Lo sfruttamento lo senti prima nella mente, poi nei muscoli. Vorresti scappare. Prima di scivolare da un´impalcatura e spaccarti la testa. Secondo le stime ufficiali Inail nel 2006 nei cantieri italiani sono morti 258 operai (la Lombardia conserva il triste primato con 46 vittime), il 35 per cento in più rispetto al 2005. Gli infortuni sono stati 98 mila. Ma il sommerso è enorme. I manovali clandestini, i "fantasmi", si fanno quasi sempre male in silenzio. Persino quando perdono la vita.

Ogni giorno della settimana, con il caporale prendo appuntamento per il giorno dopo. E puntualmente lo disattendo. Ricevo telefonate da altri a cui ho lasciato un numero di cellulare. «Allora ci vediamo domani alle 6 a Famagosta». «Porta guanti e tenaglia, alle 6.15 in piazzale Loreto». Lavoro ce n´è. Il secondo e il terzo giorno sono sotto un egiziano. Ponteggi. Cantiere tra Milano e Pavia. Freddo cane. Un collega tunisino, Aziz, è appena guarito dopo un ferita alla testa. «Mi hanno detto che se andavo in ospedale non dovevo farmi più vedere». Arriviamo in autobus in corso Lodi. Ci aspetta la monovolume del capo. Rashid, un marcantonio del Cairo. «Ti dò 3 euro, 4 se sei svelto.... « è la prima cosa che dice. Fino a qualche anno fa il caporalato edile era appannaggio esclusivo degli italiani. Oggi è diverso. Egiziani, albanesi, romeni stanno riproducendo tale e quale il meccanismo dello sfruttamento. Da schiavi sono diventati padroni. Godono tutti di una sostanziale impunità. In Italia lo schiavismo sui cantieri non è (ancora) reato. Il 16 novembre scorso il Consiglio dei ministri ha presentato un disegno di legge, che ora dovrà essere discusso da Camera e Senato, che introduce il reato di caporalato.

A giudicare dall´esito delle due giornate di cottimo a Rashid credo di non essergli sembrato troppo svelto. Non mi paga, se voglio continuare, lo farà, pure lui, tra cinquanta giorni. Eppure la mia parte l´ho fatta. Tre piani di ponteggio smontati. Tra cavalletti, tavole, botole, correnti di ogni foggia e dimensione, sono in tre, lassù, in cima all´edificio. Sgobbano come muli. Mi fanno scivolare giù la roba con corde e carrucole. A ritmo incessante. Il tempo di sganciare il materiale dall´imbracatura, impilarlo sul camion, e altro carico precipita dai piani alti. «Così non va», mi rimprovera il capo squadra, anche lui egiziano. Sa che sono un novizio. «Vai su, sgancia quei correnti e passali a lui». 17 anni, boliviano, le guance segnate dalla prima peluria. Niente casco, niente guanti. A quest´ora dovrebbe essere a scuola, invece è qui a giocarsi la vita per 40 euro. Non fiata, esegue. A mezzogiorno consumiamo un pranzo frugale dentro una baracca di lamiere. Riscaldata, per fortuna, da una stufa elettrica. Una bottiglia d´acqua passa di bocca in bocca. Poi ognuno addenta il suo rancio. «Un mese fa - racconta Aziz - mi è caduto un corrente del ponteggio sulla testa, sono sceso dal ponteggio tutto insanguinato. Ha visto anche la gente del palazzo. Adesso sto bene», sorride.

Mezz´ora e siamo di nuovo con la schiena piegata sulle passatoie di ferro. Sono le quattro del pomeriggio, ho già la mente all´alba del giorno dopo. Altro sfruttatore, altro viaggio, altro sudore, altri soldi che non vedrò mai. Altri clandestini che si spaccano le braccia per ingrossare il conto corrente dei caporali e delle imprese lombarde che vogliono tutto, e subito. Calpesterò fango a Lissone, a Novara, infine in quella valle Seriana nella bergamasca dove un tempo l´edilizia era considerata un´eccellenza. Tutto sarà uguale al primo giorno di lavoro. Anzi peggio. L´edilizia, oggi, è diventata terra di predoni e di oppressi ridotti in cattività. A volte lasciati morire in silenzio. Come scrive Andrea Camilleri ne "La Vampa d´agosto". «... è caduto dall´impalcatura del terzo piano... Alla fine del lavoro non si è visto, perciò hanno pensato che se n´era già andato via. Ce ne siamo accorti il lunedì, quando il cantiere ha ripreso il lavoro... Forse, pinsò Montalbano, abbisognerebbe fari un gran monumento, come il Vittoriano a Roma dedicato al Milite Ignoto, in memoria dei lavoratori clandestini ignorati morti sul lavoro per un tozzo di pane».

La ricetta: tutela e sviluppo. Fassino: Soprintendenze? Le decisioni finali ai comuni

Massimo Vanni – La Repubblica, ed. Firenze, 3 aprile 2007

Non è una semplice benedizione politica. Fassino approva la scelta toscana nel merito: «Le funzioni delle soprintendenze? Alla fine è il potere che risponde ai cittadini quello che deve avere la responsabilità delle decisioni urbanistiche», dice il leader Ds. I Comuni al centro dunque. Non solo. Fassino ricorda il caso Farmoplant del 1988, quando in Toscana si tenne un referendum per chiudere una fabbrica. E condivide la ricerca di una ricetta urbanistica che tenga insieme la tutela del paesaggio, che è un prodotto storico, e l´esigenza di un nuovo sviluppo: «Non è vero che il "non fare" preserva».

E´ la linea difesa dal presidente regionale Claudio Martini, che apre il seminario di Fiesole, ma anche dall´assessore all´urbanistica Riccardo Conti e dal segretario toscano dei Ds Andrea Manciulli. «Siamo tra le regioni con la popolazione più vecchia e con la rendita immobiliare più alta, progetti come quello dell´Alta velocità possono collegarci meglio con l´Europa e possono aiutarci a crescere», dice il segretario. «Se qui i Comitati sono decine e decine è anche perché c´è più partecipazione, più di 3mila persone hanno partecipato all´elaborazione del Pit», aggiunge Conti rispondendo al presidente di Italia Nostra Carlo Ripa di Meana che nel numero dei comitati vede la spia del malessere toscano.

Nessuna parola per Campi Bisenzio e le vicende giudiziarie che alle porte di Firenze s´intrecciano con quelle urbanistiche. Non ne parla Fassino, non ne parlano gli altri. Compresa la neosegretaria regionale della Margherita Caterina Bini, che Manciulli presenta a Fassino. Fuori della porta una trentina di persone dei Comitati, ma anche una Ornella De Zordo di «Unaltracittà» in trasferta, protesta con cartelli e striscioni: «Il solo ascolto non è dialogo», «La Toscana è insidiata e Campi non è Unica e sola». Si contesta che la Toscana sia un modello felice di urbanistica («Volete difendere l´ambiente e poi provocate code nel traffico», è la battuta che gli rivolge Fassino).

Il sindaco di Fiesole Fabio Incatasciato risponde ai comitati ricordando il caso delle villette nella valle del Sambre cancellate dal piano regolatore 30 anni fa e che adesso, per via dei contenziosi avviati dai proprietari, rischiano di dissestare il bilancio del Comune: «Ci si ricordi di questo quando si parla di Monticchiello e di piazza Mino», dice Incatasciato. Il professor Massimo Morisi, che ha collaborato all´elaborazione del Pit, insiste sulla «governance audace» inaugurata dalla Toscana: «Quella di una filiera decisionale, senza più rapporti gerarchici di governo». Senza cioè la Regione che controlla e approva i piani regolatori, come accadeva un tempo. Ma anche così, dice Morisi, non viene meno l´importanza di un «piano pubblico» che coordini gli interventi del futuro.

A nome dell´Inu, l´Istituto di urbanistica, Silvia Viviani parla di «un boom che è in corso e che preme sulle nostre colline»: un boom che deve essere fronteggiato con la tutela. Mentre la sottosegretaria ai beni culturali Danielle Mazzonis rileva con favore le nuove forme di collaborazione avviate tra Regione e ministero.

Non è una regione pattumiera

Alberto Ferrarese – Il Tirreno, 3 marzo 2007

«Non bisogna rappresentare la Toscana come una pattumiera: questo è uno dei posti in cui il territorio è stato valorizzato di più. Poi se ci sono dei problemi discutiamone perché è giusto che ai cittadini si diano risposte». Intervenendo ieri a Fiesole a un convegno sul tema della tutela del territorio organizzato dalla Fondazione ItalianiEuropei e dal Comune, presente il sindaco Fabio Incatasciato, il segretario dei Ds Fassino ha respinto le accuse di ‘scempio’ avanzate nei mesi scorsi da comitati cittadini contro le amministrazioni locali toscane, ma ha voluto anche richiamare alla necessità di un dialogo.

La distanza tra amministratori e cittadini, però, anche ieri è apparsa notevole: mentre all’interno della sala di FiesoleArte i politici discutevano, fuori decine di esponenti dei comitati manifestavano con cartelli con scritte come “Amministrare con e non contro i cittadini” e “Ascoltare non significa dialogare”. Proprio Fiesole, è uno dei ‘casi’ al centro delle più recenti polemiche, a causa di interventi urbanistici che hanno portato alla costituzione di un comitato contrario alle nuove edificazioni.

Secondo Fassino, però, la Toscana è pur sempre un’eccellenza. «Se tutta l’Italia fosse così - ha detto - saremmo più avanti. Ma proprio nei punti di eccellenza si avverte la necessità di andare oltre e la Toscana può costituire un traino, un esempio a livello nazionale per le politiche su questo tema». Il leader della Quercia ha anche evidenziato l’importanza della partecipazione, spiegando che non si può governare il territorio in modo decisionista. «Bisogna - ha osservato - ragionare con i cittadini e costruire le politiche sulla base della concertazione, anche perché così tutti si assumono le proprie responsabilità, sia i cittadini che le istituzioni». Fassino ha anche definito positiva l’esperienza dei comitati, perché segno di consapevolezza nei diritti e di volontà di partecipazione.

Anche il presidente della Regione Martini ha ribadito la necessità del confronto: «La discussione - ha detto - va fatta su un terreno di convergenza e non di scontri, perché sviluppo e tutela sono le due metà della stessa mela. E il nuovo nemico vero è la grande speculazione che vede nel paesaggio un motivo di business».

Qualche frecciata velenosa ad Alberto Asor Rosa è arrivata dall’assessore regionale Riccardo Conti che, senza mai citare l’intellettuale leader dei comitati, ha detto «no a chi viene qui con la penna rossa e blu a dire cosa va bene e cosa no, perché la Toscana non può essere fatta solo di vecchietti arzilli e progressisti». Anche Conti ha convenuto sull’importanza della discussione, spiegando però che «la partecipazione non è ginnastica, è un modo per arrivare a una decisione».

Postilla

L’iniziativa di Fiesole, senza contraddittorio, né previsto, né ammesso, trova forse la sua ragione prima nel tentativo, un po’ affannoso, di rinsaldare posizioni duramente incrinate dal quadro di corruttele che va emergendo attorno al caso Campi Bisenzio. A tale contingenza politica annettiamo qualche lacuna ‘organizzativa’ e qualche ineleganza oratoria da ascrivere ad una situazione poco felice. Complessivamente.

Se su molti aspetti del tema occorrerà comunque ritornare per la loro rilevanza ben oltre i confini toscani, in queste righe ci limitiamo a due commenti ‘a caldo’. A partire dall’ormai stucchevole binomio “tutela – sviluppo” in cui la coordinazione grammaticale fra i due termini che si pretendono equipollenti, sottointende, in realtà un’antinomia sentita come insanabile. Lungi dal risolversi in un’endiadi semantica (la tutela é sviluppo), l’espressione rivela, al di là delle dichiarazioni, peraltro troppo insistite, dei suoi utenti, che i due obiettivi rimangono alternativi in quanto appartenenti a due concezioni del territorio sentite come antinomiche, al più giustapponibili con concessioni dell’una a favore dell’altra. Quanto poi all’affermazione di Fassino secondo il quale, sul governo del territorio, debbano decidere gli eletti del popolo e non già un funzionario qualsiasi (nella fattispecie il soprintendente), costituisce, quanto a cultura politica, un arretramento cosi’ scopertamente demagogico da essere imputabile solo alla categoria del lapsus o infortunio verbale. Equiparare la funzione di alta competenza tecnica, quale é quella di un soprintendente che riveste quel ruolo perché riconosciuto per concorso pubblico detentore di un sapere specialistico, a quella di un amministratore che, soprattutto a livello locale ristretto, é incaricato, anche nel senso migliore, della mediazione fra esigenze diverse e spesso in contrasto, significa non solo equiparare, appunto, queste diverse istanze (tutela e sviluppo e rendita e speculazione e …), ma di fatto favorire gli interessi più forti, in quanto più capaci di opposizione e di autorappresentazione. Le istanze del territorio, al contrario, bene comune irriproducibile e fragilissimo, devono prima di tutto essere rappresentate da una conoscenza non superficiale né improvvisata, che si ponga l’obiettivo della sostenibilità, quella vera, di lungo, lunghissimo termine, ben al là, quindi, degli spazi temporali di un mandato elettorale.

La democrazia é tale non solo perché demanda scelte e decisioni ai propri rappresentanti eletti secondo il principio della maggioranza, ma anche quando sancisce, sempre a maggioranza, delle regole valide per tutti, a rispetto delle quali pone i propri rappresentanti eletti secondo il principio della competenza. (m.p.g.)

Dopo un'estate di polemiche che hanno investito l'entrata in vigore dei tributi regionali sardi (di cui alla Legge n. 4 del 2006), che nel linguaggio corrente vengono definiti “tasse sul lusso", ma che in realtà riguardano il turismo, sembra opportuno soffermarsi brevemente ad analizzare alcuni aspetti connessi a questi nuovi modelli impositivi.

Il primo punto verte sulla protesta innescatasi dopo l'istituzione di tali tributi.

Dissenso a dire il vero abbastanza singolare, giacché ha preso le mosse e poi è "montato" in un contesto dorato, o meglio, in una enclave del lusso in Costa Smeralda ove i "contestatori" hanno organizzato un gran galà e un battage mediatico, anche con inserzioni sui giornali, per esternare il loro rifiuto alle cosiddette “tasse Soru".

E' bene rimarcare — anche per stemperare gli animi — che si tratta di "sdegno fiscale" da ricondurre più nell'ambito del folclore che in quello dell'obiezione fiscale. Esso, infatti, ha avuto una notevole risonanza soprattutto nelle cronache mondane, sempre alla ricerca di gossip estivi, vista l'appartenenza dei protagonisti della contestazione al mondo dello star system.

Si ha, comunque, la sensazione che performances salottiere di questo genere vengano percepite, dalla generalità dei contribuenti, come uno snobistico rifiuto di un gruppo clanico — che, tra l'altro, si appalesa dotato di una notevole capacità contributiva - al pagamento dei tributi.

Il secondo aspetto, di natura dualistica, concerne, la possibilità e l'opportunità che la Sardegna istituisca imposte e tasse sul turismo e altri tributi propri in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato, così come prevede l'articolo 8, lettera I), dello Statuto regionale.

Per quanto attiene alla possibilità, vedremo se, nei prossimi mesi, la Corte costituzionale, investita dal Governo per un sindacato sulla legittimità dei tributi sardi (imposta sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, imposta sulle seconde case ad uso turistico e imposta su aeromobili ed unità da diporto), si pronuncerà sulla compatibilità, o meno, degli stessi con la Costituzione.

In attesa che sulla questione intervenga il giudizio della Consulta la problematica resta, tuttavia, aperta per eventuali modifiche al testo normativo vigente, finalizzate ad eliminare i contrasti denunciati nel ricorso del Governo, che la Regione Sardegna si accinge a varare con la Finanziaria 2007.

In tale angolo di visuale si pone, quindi, il problema, non solo per la nostra Regione, in ordine all'opportunità di emanare una disciplina fiscale che incida sul consumo di beni ambientali "scarsi", rapportata al turismo.

Questo argomento rappresenta ormai un punto ineludibile con il quale è indispensabile fare i conti.

La spinta ad introdurre forme di prelievo, in ambito locale, di natura parafiscale, come pedaggi, sovraprezzi — ticket d'ingresso per bus, auto e persone et similia — in località ad alta vocazione turistica comincia a diffondersi nel nostro Paese a macchia di leopardo (anche sull'esempio della congestion charge istituita dalla municipalità di Londra), come documentato in una ricerca effettuata da il Sole 24 Ore del 19 agosto 2006.

Il dibattito, semmai, può incentrarsi su quale formula impositiva sia più idonea per influire su fenomeni di natura turistica.

Le scelte al riguardo possono essere molteplici, ma, a nostro modo di vedere, si potrebbe pensare ad un sistema di tassazione ecologically correct, all'unisono con il federalismo fiscale ed anche con le linee guida espresse dalla Commissione europea.

A questo proposito, assume notevole rilievo, nello specifico caso della Sardegna, prendere in considerazione il consumo dei beni ambientali "scarsi", dovendo comprendersi fra questi, in virtù di quanto affermato dalla Corte costituzionale sin dal 1997, beni naturali, quali boschi, laghi, coste, fauna selvatica, oltre che quelli culturali. In tale ottica l'attenzione del legislatore fiscale, attraverso l'introduzione di green taxes, può ben porsi per la tutela delle bellezze naturali, prive spesso di ogni forma di protezione.

Data la "scarsità" del bene ambiente, tutti gli atti (o le attività) che cagionano un inquinamento o un consumo del bene medesimo, rappresentano il depauperamento di un patrimonio raro (l'ambiente) soggetto ad esaurimento e come tale suscettibile di una valutazione economica e, soprattutto, di manifestare una maggiore capacità contributiva rispetto agli atti (o alle attività) non inquinanti, ovvero che non comportano, in ogni caso, l'erosione di un habitat unico e di pregio.

Da ultimo, si deve sottolineare come in questa vicenda è di fondamentale importanza chiarire, attraverso una efficace comunicazione, che non ci troviamo di fronte a leges in privos latae, indirizzate cioè a colpire esclusivamente una limitata categoria di soggetti con effetto punitivo. Il nuovo assetto in materia di tributi dovrà, quindi, tener conto di questa componente negativa che ha accompagnato la nascita delle cosiddette “tasse sul lusso" al fine di sgomberare il campo da equivoci di questo genere.

Ora è del tutto scontato e anzi lapalissiano che l'istituzione di un tributo non venga accolta con manifestazioni di giubilo da parte dei contribuenti, ma un conto è la mancanza di entusiasmo e altro conto è l'“accettazione" dell'opinione pubblica al riguardo.

L'"accettazione" (cosiddetta tax compliance ) al pagamento dei tributi costituisce, infatti, un imprescindibile connotato dello Stato moderno la cui assenza conduce ad una perdita di funzionalità del sistema fiscale, perdita che non viene colmata con l'adozione di misure coercitive.

Concludendo è auspicabile che questi tributi siano avvertiti in relazione alle loro finalità ecologiche, e giammai percepiti come uno strumento di vessazione o di ostracismo in danno dei non sardi e dei non residenti.

L’autore è titolare della Cattedra di Diritto Tributario all'Università di Cagliari

Abbiamo assistito ad una cadenzata serie di bordate verso l’Imposta Comunale sugli Immobili (Ici). Di riflesso si è ovviamente messa in discussione la spesa coperta dall’entrata tributaria di competenza comunale. Il gettito aggregato dell’Ici ammonta circa ad una decina di miliardi di euro, finanzia quasi un quarto della spesa dei Comuni ed è una delle poche entrate autonome in mano ai governi locali. L’Ici è un imposta reale, non incide il contribuente ma il cespite, ha un andamento formalmente proporzionale, con l’unica significativa eccezione per l’abitazione dove risiede il proprietario. È un’imposta efficiente, nel prelievo poiché difficilmente evadibile ed eludibile, rispetto alle scelte del consumatore, poiché per entità non distorce visibilmente le scelte di acquisto o di vendita. Tuttavia è un’imposta vecchia, nel senso che la statistica non premia le imposte di diciassette anni di vita, forse proprio questo aspetto può spiegare la sua impopolarità.

Tuttavia è utile inquadrare due fenomeni entro i quali si sta sviluppando la crociata contro l’Ici. Il primo è una generale diffida al potere pubblico di appropriarsi di una parte del frutto del lavoro del cittadino mediante un rilevante prelievo fiscale; in sostanza un riflusso liberale. Il secondo legato alla dispersione sul territorio di competenze da parte dello stato centrale e, più lentamente, di autonomia finanziaria in capo agli Enti Locali.

I paesi con elevata autonomia dei governi locali associano ai visi dei governanti sul territorio imposte che poggiano su basi imponibili autonome: generalmente il patrimonio immobiliare. La ragione sta nel fatto che la compartecipazione al gettito derivante da un’unica imposta diretta centrale (l’Irpef italiana) di più livelli di governo può limitare fortemente l’autonomia. I requisiti chiesti alla base imponibile di un’imposta a sostegno di un potere locale sono: la non esportabilità della stessa (cioè il fatto che i mattoni non possano «fuggire » a causa di un inasprimento della pressione fiscale); la facile misura del valore; possibilmente una qualche relazione fra la crescita della base imponibile e l’attività di governo che si finanzia. È il caso perfetto dell’Ici – al contrario dell’Iva, che invece può traboccare al di fuori di un territorio del Comune – e dove il livello delle transazioni su di un territorio non è visibilmente imputabile ad un sindaco.

Tornando all’Ici, il valore di un immobile è evidentemente legato all’attività di pianificazione del Comune, e perfino di province e regioni. La nostra Ici ha tanti difetti: la base imponibile (rendita catastale) non è determinata sui valori di mercato, non è detto che a due immobili con lo stesso valore di scambio corrispondano bollettini di pagamento troppo simili; a parte l’abitazione principale e poco altro, non sono possibili ulteriori margini di manovra per produrre o accentuarne la progressività; la base imponibile, infine, è cresciuta ad una velocità assai inferiore rispetto all’inflazione negli ultimi dieci anni.

Tuttavia con i frutti della tanto vituperata imposta si paga il wellfare locale: asili nido, scuole d’infanzia, assistenza agli anziani, contributo pannolino, contributo affitto, trasferimenti diretti a famiglie in difficoltà, eccetera. Chi è il principale beneficiario di questo wellfare pagato con un’imposta che deriva per tre quarti da seconde case e capannoni industriali? La famiglia. Allora perché contrapporre – da parte di taluni esponenti politici in odore di sacrestia – famiglia e Ici? Perché ciò che è messo in discussione è il prelievo fiscale e quindi la spesa pubblica in senso lato. Si potrà obiettare che esiste un diritto alla «prima casa», ma secondo la nostra Costituzione la proprietà privata non è mai lorda, ma sempre al netto delle imposte, le quali a loro volta devono essere improntate al criterio di progressività. Dunque perché esentare dal pagamento (o da una parte di esso, se si esenta fino a 100 metri quadri) di un’imposta modesta il possessore di un castello contemporaneamente a chi sta pagando un mutuo per un appartamento di periferia?. E’ dimostrato, inoltre, che già ora l’Ici ha un andamento indirettamente progressivo rispetto alla condizione economica equivalente nel centro-nord Italia: abolire l’Ici sulla prima casa significherebbe trovare due miliardi e mezzo dall’Irpef e, per ovvie ragioni, peggiorare l’effetto redistributivo. Il patrimonio è più concentrato del reddito dichiarato!

Semmai andrebbe proposta una riforma radicale dell’Ici in imposta personale patrimoniale e fortemente progressiva rispetto alle condizioni di ricchezza del contribuente, così da triplicare il gettito abbassando la pressione sulle famiglie più deboli per poi redistribuire ancora, con un’espansione della spesa di wellfare. Invece contrapporre l’Ici alla famiglia nasconde sotto spoglie clericali fini «liberali», decisamente contrari ai principi evangelici nonché, in ultima analisi, alla famiglia stessa.

Postilla

L’analisi dell’autore (che è assessore al Bilancio e alla partecipazione del Comune di Modena) è assolutamente condivisibile. Avrebbe però meritato una conclusione diversa.

L’ICI è una tassa che colpisce il valore immobiliare, quindi la rendita, la componente parassitaria del reddito (quella alla quale non corrisponde nessun ruolo di utilità sociale, a differenza dalle altre due componenti, il salario e il profitto).

Nel domandarsi con che cosa sostituire non l’ICI, ma una sua riduzione, occorrerebbe domandarsi in che modo il Comune possa giovarsi degli incrementi dei valori immobiliari (della rendita) che non deriva certo dagli investimenti privati ma dalle opere e dalle spese della collettività. Perché mai, ad esempio, il Comune non deve beneficiare degli aumenti di valore che vengono determinati nel momento della compravendita? È in quel momento che l’incremento della rendita immobiliare pienamente si manifesta

«Vendesi villini in costruzione. Consegna entro 24 mesi». Superati i palazzoni di Prima Porta, via di Valle Muricana s'infila nel verde disseminato da una sequela sgangherata di casette. L'area protetta comincia poco più in là. E un cartello che segnali il parco non si vede. «Qualche volta li prendono e li usano come teglie per la pizza», raccontano da queste parti, e non scherzano. In compenso, fitti fitti, s'incontrano subito i cartelli delle agenzie immobiliari, piazzati di fianco a un cantiere e a una villetta spatolata di rosa, quasi finita.

Benvenuti nel Parco di Veio, fra quelli del Lazio il più massacrato dall'abusivismo. «Impieghiamo l'esercito per demolire gli abusi: non tutti, sarebbe uno spreco, perché molti possono essere riassegnate a chi non ha casa, ma almeno 10 l'anno», rilancia la sua proposta il direttore dell'ente parco, Roberto Sinibaldi.

Eppure anche così com’è, lacerato dall’abusivismo, il Parco di Veio - con dentro la sua pancia pezzi di archeologia, boschi e persino sorgenti, laddove non arriva la strada asfaltata - sembra destinato ad apparire, prestissimo, come un’isola felice, circondata dal cemento che all’improvviso gli sta esplodendo tutt’intorno. “Conurbazione”, si chiama. E cosa vuol dire si capisce benissimo percorrendo la via Flaminia, che costeggia un lato del parco: il cemento si sta allungando da Roma fino a saldare il tessuto urbano con quello dei paesi più a nord, Riano, Castelnuovo di Porto, Morlupo. Un paesaggio paradosso: lì è parco, di là no. Quindi anche a pochi metri di distanza dall’area protetta si può costruire. Distese di ulivi e di campi si cancellano. A partire da Colle delle Rose, località dal nome ameno appena dopo Prima Porta, che è tutto un cantiere di casette basse, dove lavora un esercito di operai rumeni, seduti davanti a ogni portoncino all’ora di pranzo. A seguire c’è Riano, dove invece ci si va giù pesante: le gru al lavoro saranno almeno una decina e il cemento si stratifica con una densità impressionante. Grossi edifici l’uno dietro l’altro, in una sfilza di ponteggi e fondamenta a coprire i fianchi dei pendii.

Che sia chiaro, qui è tutto legale. «Il problema è che i piani regolatori di questi comuni - spiega Roberto Sinibaldi - sono basati sul principio di trasformare tutti i terreni agricoli in zone residenziali. Le cubature progettate non sono certo commisurate alla crescita demografica prevista in quei paesi. Almeno nove decimi saranno destinate a chi viene da Roma, dove il mercato immobiliare sta espellendo i residenti». Del resto non ci sono leggi a tutelare questi territori: se non c’è un vincolo, sono ottimi per fare affari. E intorno al Parco di Veio c’è solo una zona “cuscinetto”, le Valli del Sorbo, vicino Formello, classificata come Sito d’importanza comunitaria. Così, spazio ai progetti edilizi che lasciano sgomenti gli ambientalisti. Come è avvenuto anche sull’altro versante del Parco, dalla parte di Campagnano. Nella Valle del Baccano, in cima a un crinale che 600mila anni fa era l’orlo di un cratere, sono spuntate una decina di palazzine “ornate” da abbaini, tutte con regolari licenze. «Visto dalla Cassia bis sembra un ecomostro - ammette un operaio - però quando cresceranno le piante non si vedrà nemmeno. Ma lei lo sa perché è bassissima la natalità in questi paesi? Perché non ci sono case per i giovani». Per questo bisogna costruire quelle che diventeranno anche seconde e terze case. E poi basta seguire le indicazioni degli enti competenti, i quali non riescono a entrare neanche nel merito della qualità architettonica, ma prescrivono esterni intonacati - niente cortina, almeno - e colori della terra, che nella pratica diventano giallognoli e rosa, pericolosamente vicini alle tonalità confetto molto amate dai veri abusivi di Veio. «che si ispirano alla casa dei sogni, modello Beautiful», commenta Sinibaldi. Forse è per questo che qua e là appaiono comignoli coperti a mo’ di vezzo da tegole arricciate, finestre a oblò, archi a non finire. Ma il tutto si riassume in un modello ambientale e sociale disastroso. Con un mare di gente scappata da Roma, venuta a vivere qui come fosse periferia e costretta ogni giorno a mettersi in fila in macchina, due ore all’andata, due al ritorno, per andare al lavoro. A Roma.

Il Comune tenta l´accelerata sul condono edilizio. Una delibera varata martedì dalla giunta Cammarata prevede la possibilità di ricorrere a tecnici esterni per la definizione delle oltre 59 mila pratiche che giacciono negli uffici comunali. In un anno ne sono state esitate appena 569.

Nei prossimi giorni sarà pubblicato un avviso rivolto a chi ha fatto istanza di condono nell´85 e nel ´94: chi deve ancora completare le domande con nuovi documenti, avrà sei mesi di tempo per farlo, o potrà presentare una perizia giurata entro il 31 dicembre. In cambio, il Comune definirà l´istanza di sanatoria entro i successivi nove mesi, anche ricorrendo a tecnici esterni, che saranno pagati con i fondi incassati dalle concessioni edilizie. A Palermo le pratiche incomplete sono circa 27 mila, quelle esitate appena 2 mila 600, quelle ancora da esaminare quasi 30 mila. In termini economici significano circa trenta milioni di euro, calcolando un onere medio di cinquecento euro a concessione.

Per smaltirle non basterebbero 103 anni. Delle 61.685 pratiche di sanatoria edilizia presentate, in dodici anni il Comune ne ha definite appena 2.616. E tra il 2004 e il 2005 le concessioni sono state in tutto 569. A conti fatti, con questi ritmi ci vorrebbe più di un secolo. Ma il Comune adesso fissa la tabella di marcia per i 27 mila ex abusivi che hanno pratiche incomplete, e per smaltire tutto il resto dell´arretrato autorizza il ricorso a tecnici esterni, che saranno pagati dal Comune stesso con gli oneri di concessione. Mettendo in atto ciò che a suo tempo aveva previsto la Regione, che nel 2003 aveva varato una legge che autorizzava il ricorso ai tecnici esterni, e nella Finanziaria del 2005 aveva autorizzato gli enti locali a pagare i tecnici con i fondi incassati dalle concessioni. Norme ribadite da una circolare emessa nel marzo 2005 dall´allora assessore al Territorio, Francesco Cascio, rimasta nella stragrande maggioranza dei casi lettera morta. «Finalmente al Comune hanno letto la Gazzetta ufficiale», ironizza oggi Cascio.

Ma, d´altro canto, è un dato di fatto che anche l´ultima rilevazione della Regione (al 31 dicembre 2005) sia sconcertante: i Comuni siciliani in un anno hanno smaltito appena il 3,2 per cento delle istanze pendenti. Delle 770.880 domande di condono relative alle tre sanatorie (anni 1985, 1994 e 2003), ne restano ancora da definire 547.986. Delle quali 59.069 in capo al Comune di Palermo, che in termini economici significano circa trenta milioni, calcolando un onere medio di cinquecento euro a concessione. Soldi che per le asfittiche casse di Palazzo delle Aquile sarebbero ossigeno puro.

Adesso Palazzo delle Aquile prova a dare una spallata alla montagna di carta ferma da oltre vent´anni e cresciuta a dismisura grazie alle altre due sanatorie. Le nuove regole per definire le pratiche sono contenute in una delibera predisposta dall´assessore comunale all´Edilizia privata, Giovanni Di Trapani, e approvata dalla giunta Cammarata martedì sera. A giorni sarà affisso e pubblicato un avviso che servirà a mettere sulla giusta strada chi attende il rilascio della concessione.

I 27 mila cittadini palermitani che hanno chiesto il condono nell´85 e nel ´94, ma non hanno ancora completato le pratiche, per farlo avranno 180 giorni di tempo dalla pubblicazione dell´avviso. A chi entro questa scadenza presenterà i documenti richiesti, o in alternativa produrrà entro il 31 dicembre 2007 la perizia giurata prevista dalla legge regionale che attesti la sussistenza di tutti i requisiti per ottenere la sanatoria, il Comune risponderà definendo l´istanza entro i successivi nove mesi. Tanto varrà anche per il settore Servizi alle imprese, per il rilascio del certificato di agibilità, e per il settore Centro storico, che ha la competenza di 400 pratiche ancora aperte.

I controlli saranno fatti su un campione di 1.200 istanze. E se il Comune non ce la farà a rispettare le scadenze con le sue forze - dei settanta tecnici arruolati per smaltire la sanatoria del 1985 ne sono rimasti in servizio appena una ventina - allora il servizio Condono edilizio ricorrerà ai tecnici esterni, come avvenuto nel 1995 per circa 5 mila pratiche. Il Comune, per questi incarichi esterni, stima una spesa di circa due milioni di euro.

«Era l´unico modo di affrontare una questione che rischiava di rimanere irrisolta», spiega Di Trapani, che in giunta è entrato l´11 gennaio scorso. «Appena nominato, sono stato messo di fronte al problema - spiega l´assessore - e mi sono reso conto che i nostri uffici con le loro forze non ce l´avrebbero mai potuta fare. Gli uffici prevedono di smaltire al massimo regime non più di 1.200 pratiche all´anno, il che significa che nel migliore dei casi ci vorrebbero cinquant´anni».

Di Trapani non nasconde che la manovra lo potrebbe rendere più simpatico ai tecnici, cosa che in campagna elettorale non guasta: «È anche vero che questa richiesta - spiega l´assessore - è stata fatta più volte dagli ordini e dai collegi professionali, che lamentano una situazione lavorativa non florida. In ogni caso, sarà un modo per tentare di muovere una situazione paralizzata da anni e per dare risposte a quei cittadini che hanno deciso di mettersi in regola».

La procedura varata dalla giunta Cammarata non comprende le pratiche del "condono Berlusconi", varato nel 2003. Le istanze sono 10.102, delle quali 120 sono state esitate. Ma in questo caso le regole erano molto più restrittive delle precedenti sanatorie, e il Comune prevede che gestire le concessioni sarà più facile.

I lavori sono fermi, così come disposto dalla sovrintendenza per i beni architettonici e il paesaggio.

Intanto, però, gli ulivi sono solo un bel ricordo e le ruspe che li hanno cavati un pericolo tutt'altro che scongiurato. Così, sulla vicenda della lottizzazione di Moniga — sei ville a tre piani a ridosso della cinta del castello ricetto di epoca longobarda ora arriva un dossier del Comitato Promotore del Parco delle colline moreniche. «Il caso di Moniga è l'ennesimo allarme, un allarme che riguarda il lago intero» dice il segretario del comitato Gabriele Lovisetti.

Il documento si spiega con poche parole, quasi senza: perché il 15 marzo scorso il vicepresidente Mario Pavesi ha noleggiato un piccolo aereo, ha fatto un giro da Sirmione a Toscolano e poi di nuovo indietro, scattato una serie di foto. Accanto a quelle relative alla lottizzazione di Moniga hanno messo anche le planimetrie dei progetti, ottenuti dal Comune dopo regolare richiesta, per far vedere come diventerebbe quel dosso affacciato sul lago. E, già che erano in viaggio, hanno voluto scattare altre foto: «Alle abbazie di San Vito, a Sirmione, San Vigilio, a Pozzolengo, Maguzzano, a Lonato. Per mostrare altri monumenti e altri scorci minacciati dal cemento».

Ieri, a Brescia, il Comitato ha presentato il suo lavoro con il Sovrintendente Luca Rinaldi e il sindaco di Moniga, Lorella Lavo, eletta nel 2006, quando il progetto aveva già avuto il via libera. Una vicenda complicata: nella quale, in sostanza, non è stata ascoltata l'indicazione della Sovrintendenza di costruire rispettando il paesaggio. Usando il suo potere di intervenire a tutela dei beni monumentali in questo caso il castello il Sovrintendente ha chiesto la sospensione dei lavori per verificare la correttezza dell'iter. Ma la vicenda è tutt'altro che conclusa e la fine tutt'altro che scontata: «Come in tanti, troppi casi sul lago: da Tremosine a Sirmione, da Toscolano a Desenzano», sottolinea Lovisetto.

Ecco, allora, la propostaprovocazione del Sovrintendente alla Regione: «Facciamo come ha fatto la Sardegna per salvaguardare le sue coste. Una legge che dica basta, non si costruisce più niente. Almeno fino a quando non ci sarà un vero piano paesistico». Si può fare? In teoria. In pratica la materia è più che complessa, mentre, di fatto, sono state delegate ai comuni la tutela del territorio e del paesaggio: i controllati sono, così, anche i controllori di se stessi.

Nel nostro martoriato Sud che spesso ci appare sequestrato dalla criminalità organizzata, accadono anche delle cose eccellenti di cui si parla troppo poco. Succede per esempio che migliaia di persone si riconoscano in una battaglia cittadina, si rimbocchino le maniche e lavorino gratuitamente per restituire un'area verde alla loro città, succede che si formino associazioni senza scopo di lucro che a furia di manifestazioni, raccolte di firme e picchettaggio, impediscono che si faccia scempio di un quartiere. Ma i giornali sono avari di queste notizie, mentre scialano quando si tratta di raccontare sparatorie, delitti, sequestri, furti e rapine.

Oggi voglio parlarvi di un caso che da qualche anno sta preoccupando le persone responsabili — e non sono poche — della città di Caserta. I fatti: un terreno di 330.000 metri quadrati, fitto di alberi centenari, che si trova nel centro della città, è oggi minacciato da un fiume di cemento. La storia: il parco chiamato Macrico, nei secoli scorsi apparteneva ai Borboni, i quali avevano concesso alcune costruzioni militari immerse nel verde, alla mensa vescovile per i poveri. Oggi il parco appartiene all'Istituto Sostentamento Clero, un ente diocesano autonomo. Nel dopoguerra, il Macrico con i suoi due o tre caseggiati, viene affittato alle forze armate della Repubblica italiana che usa le strutture coperte come magazzini per i suoi mezzi corazzati, lasciando intatto il parco.

Ma, come spesso succede, il ministero della Difesa paga male e in ritardo. Nel '96 l'Istituto apre un contenzioso. Nel 2000 le forze militari decidono di andare via. La proprietà ecclesiale progetta delle costruzioni per 500.000 metri cubi, ma si scontra col rifiuto della cittadinanza e del vescovo Nogaro che nel suo famoso Tedeum ricorda severamente l'originaria destinazione ai poveri del parco.

L'istituto, viste le difficoltà, decide di vendere la proprietà. Il prezzo richiesto è di 40 milioni di euro. A questo punto i casertani chiedono al Comune di comprare il parco, utilizzando i soldi della Comunità Europea, con l'aiuto sia della Regione che della Provincia. Lo spazio rimarrebbe verde, applicando la classificazione F2 che preclude ogni costruzione in una zona di interesse pubblico. Il Comune si dichiara d'accordo, anzi il sindaco imposta la sua campagna elettorale proprio sul mantenimento dello spazio verde, per il bene della città. Ma ancora oggi, dopo un anno dalla elezione della giunta di centro-sinistra, non si è concluso nulla. Dall'altra parte ci sono i grandi costruttori già pronti a comprare il terreno anche a prezzi più alti, per erigervi centinaia di nuovi appartamenti.

Il comitato Macrico-Verde chiede al Comune una destinazione d'uso con orto botanico, giardini pubblici e strutture culturali di cui Caserta, con il suo circondario di 300.000 abitanti, è assolutamente priva. Naturalmente senza aggiungere un solo metro cubo di cemento, ma utilizzando le strutture già esistenti che rispettano il verde del parco. Il comitato riesce in pochi mesi, con la raccolta di 10.000 firme di cittadini casertani, a ottenere l'apertura del parco fino ad allora chiuso da alte mura ad un pubblico di più di 5000 persone, a creare quel fermento politico di base di cui tutti in Italia lamentano la mancanza: impegno civile e coscienza politica. Non è questo che si chiede al Sud? Allora non deludiamo iniziative popolari che creano partecipazione e responsabilità collettiva. Sarebbe imperdonabile uccidere sul nascere un sentimento di giustizia così diffuso e reale. È da battaglie come questa che nasce un'etica politica capace di cambiare le sorti di un Sud messo in scacco dalla speculazione e dal malaffare.

Diecimila firme e impegno per restituire alla città il verde minacciato dal cemento.

Immaginate una collina da sogno affacciata sul mare. Al centro di un terrazzo a mezza costa, la fascia di uliveto «messa a coltura già in età romana», lì a fianco una chiesa che è monumento nazionale, subito dietro un sentiero che è stato ufficialmente riconosciuto come l´antica via romana.

Adesso immaginate che, nel raggio di 500 metri dalla chiesa, sorgano quattro palazzine tri-famigliari, che il percorso millenario venga allargato e asfaltato, e che l´intera collina grazie ad una di quelle prestidigitazioni dell´urbanistica che in questo caso si chiama ambito "Ar-Ta territori aperti", possa in futuro pullulare di villette con box e piscine.

Siamo a Megli, la collina a ponente di Recco, uno di quei posti del Belpaese in cui un sfilza di vincoli ambientali, monumentali, archeologici e così via, dovrebbe rendere impossibile anche la costruzione di un castello di carte.

Invece, la storia che vi raccontiamo oggi, è l´ennesimo capitolo del libro del mattone che da qualche tempo parecchi amministratori e imprenditori della Liguria vogliono contribuire a scrivere.

Uno dei protagonisti è il sindaco Gianluca Buccilli che, a capo di una giunta di centrodestra, sta tentando di far approvare un Puc - il piano urbanistico comunale - che darebbe il via libera a una serie di lottizzazioni sia in paese che su questa collina (Megli e Maggiolo), nonché all´allargamento, per renderla carrabile, di via del Pianello, la mulattiera che sarebbe poi l´antica via romana. Fino ad oggi il Puc non è passato perché quattro consiglieri di maggioranza non hanno potuto partecipare al voto, in quanto direttamente interessati agli interventi urbanistici. Buccilli, però, non dispera di poter trovare una soluzione per questo problema, così come per le severe prescrizioni imposte dalla Provincia.

Ottenuto dalla Regione guidata da Sandro Biasotti il declassamento della zona di mantenimento, la collina di Megli è diventata area trasformabile. In altri termini, edificabile. Il sindaco ha spiegato che così facendo si evitava di incorrere in un contenzioso con i costruttori che nel 1992 avevano richiesto delle lottizzazioni bloccate dall´allora capo dell´ufficio tecnico Angelo Valcarenghi. Adesso alcune di quelle concessioni potrebbero concretizzarsi, anche se esiste la spada di Damocle della Soprintendenza, poiché sarebbero stati totalmente ignorati dei vincoli paesistici risalenti addirittura al 1949 e al 1959 con i quali gli allora ministri della pubblica istruzione, già si preoccupavano di tutelare Megli come una delle bellezze naturali liguri, in un´operazione di raccordo dei piani paesistici di Recco con quello di Sant´Ilario. Non solo. Le palazzine a ridosso della chiesa stravolgerebbero il contesto paesaggistico in cui si inserisce la parrocchia delle Grazie che, in quanto monumento, rappresenta "un´emergenza del piano paesistico regionale".

Il professor Tiziano Mannoni presidente dell´Istituto Internazionale di Studi Liguri, il 12 gennaio di quest´anno scrive un intervento su villa Ansaldo di località Allou, sempre sulla collina di Megli. Un´antica villa affrescata, in mezzo al bosco, che il ministero dei Beni Culturali ha inserito nelle opere da finanziare con l´8 per mille. Mannoni sottolinea che a Megli «la fascia degli uliveti fa parte, con la strada antica, di un complesso territoriale e paesaggistico unico e fino ad oggi notevolmente conservato che ha certamente un´esistenza che supera i 500 anni, ma che trattando di terreni fertili...è ben difficile che non siano stati messi a coltura già in età romana. E´ probabile che qualsiasi intervento di sterro oltre ad alterare un antico paesaggio potrebbe incontrare resti archeologici...confermato dal ritrovamento dei resti di un insediamento rurale romano in un terreno che costeggia via del Pianello».

Preoccupazioni espresse alcuni mesi fa anche dal preside della facoltà di Lettere e Filosofia Michele Marsonet: «...il Puc e la riduzione delle zone di mantenimento del Piano rappresentano una seria minaccia per l´intera collina... è prevista una forte espansione insediativa in prossimità della chiesa di Megli, nonché un cospicuo aumento degli indici di fabbricabilità nelle vaste aree ex agricole». In realtà un primo assaggio di quello che potrebbe diventare la parte superiore della collina (quella sottostante è già stata saccheggiata dalla speculazione degli anni ‘60), compare in una serie di esposti su una mezza dozzina di presunti abusi edilizi che sono confluiti nell´inchiesta aperta dal pm della procura di Genova Patrizia Petruzziello. Le indagini in un primo tempo riguardavano il ruolo di controllore del Comune, ma in seguito, anche per il decesso di un funzionario responsabile del settore, hanno imboccato il filone ambientale. Situazioni di cui si è occupata anche Italia Nostra con esposti firmati dal presidente Federico Valerio, così come i consiglieri Verdi Carlo Vasconi e Cristina Morelli e il coordinatore di Legambiente Andrea Agostini.

«Per qualcuno - aveva detto a Repubblica Buccilli - potrà anche essere "troppo", ma sicuramente l´intervento edilizio in assoluto non può essere definito "tanto". E poi respingo le illazioni dell´opposizione che mi accusano di aver voluto favorire costruttori che votano a destra». Illazioni che sarebbero state generate dalle simpatie politiche, equamente distribuite, di costruttori e proprietari.

L´affaire Megli, e soprattutto il rischio che grazie a quel misterioso acronimo (Ar-Ta) la collina si trasformi in un cantiere di concessioni edilizi dirette, molto più semplici delle pratiche per le lottizzazioni, ha creato preoccupazioni anche a Roma.

Giovanna Melandri, oggi ministro dello Sport, quando lo era dei Beni Culturali, si interessò in modo particolare delle bellezze naturali del levante. E nel novembre 2005 scrisse, affinché intervenissero, a Regione, Provincia e Soprintendenza, una lettera di cui Repubblica è venuta in possesso. Il ministro sottolinea come quello del Golfo Paradiso sia «un territorio assolutamente peculiare...non sempre però tale valore strategico viene colto da enti locali che - mi riferisco alle singole entità comunali - spesso per mancanza di visione d´insieme e talvolta spinti da necessità materiali di corto respiro, assumono decisioni che danneggiano il territorio». Poi il ministro scende nel dettaglio sul Puc e sulla collina di Megli per denunciare «il rischio che il territorio in questione venga danneggiato o deturpato in maniera irreversibile».

Chi si rivede, l'Autostrada Tirrenica. Breve riassunto delle puntate precedenti: affossata la variante «collinare» dell'autostrada che dovrebbe collegare a pedaggio Civitavecchia con Livorno - era il progetto più costoso e più amato dall'ex ministro Lunardi, che com'è noto sugli scavi di buchi in colline aveva un certo know-how, cioè un'azienda di famiglia -, ha preso sempre più quota la variante «costiera», ossia quella vicina al mare. E vicina, oltre che a zone archeologiche, paesaggistiche, naturali di rara bellezza, anche alla vecchia cara Aurelia: tant'è che, per impedire la concorrenza della vecchia e gratuita consolare con la nuova fiammeggiante e costosa autostrada a pagamento, il progetto proponeva anche di «rottamare» parti di Aurelia, rendendole stradine di passeggio. Sulla variante «costiera», fieramente avversata dagli abitanti delle stesse coste (non solo dai villeggianti di Capalbio), voluta dalla regione Toscana e digerita alla fine anche dal Lazio, c'era però un problemino: i soldi. Chi paga? Nessun problema, ha annunciato la scorsa settimana il presidente di Sat (gruppo Autostrade) Antonio Bargone: la Tirrenica sarà a costo zero per lo Stato, ha detto il manager, già sottosegretario ai Trasporti diessino dal '96 al 2001. I suoi successori al Ministero già si leccano i baffi: tutto questo ben di dio - 205 chilometri, costo totale 3,3 miliardi - e non dobbiamo spendere un euro? Slurp! Dove li trova i soldi Bargone? Semplice: proroga quarantennale della convenzione per la Sat e garanzia di poter varare aumenti tariffari del 3% all'anno per dieci anni. Non paga Pantalone, ma i soliti tanti Pantaloncini costretti a passare per i caselli - laddove potrebbero tranquillamente usare un'Aurelia ampliata e messa in sicurezza. Il ministro Di Pietro, fustigatore dei malcostumi pubblici, metterà la sua firma sotto questo finto «costo zero»?

Villa dei Vescovi, una delle più pregiate ville venete, da due anni di proprietà del Fai (Fondo per l´ambiente italiano), verrà integralmente restaurata. È un baluardo che l´associazione presieduta da Giulia Maria Crespi mette nel cuore del Veneto, il cui paesaggio rischia l´estinzione a causa di un consumo di suolo dissennato. La Villa, che si trova nei Colli Euganei, fu acquistata da Vittorio Olcese nel 1962 e nel 2005 Maria Teresa e Pier Paolo Olcese l´hanno donata al Fai. Ieri è stato illustrato il progetto di restauro curato da Christian Campanella, mentre Domenico Luciani si occuperà del riordino paesaggistico (la villa è su un´altura, circondata da vigneti, orti e frutteti). Finiti i lavori, il Fai vuole che l´edificio diventi un «pensatoio», un luogo dove andare a leggere, a prendere un tè, a meditare, un po´ come è sempre stato nella sua storia.

Villa dei Vescovi fu costruita fra il 1529 e il 1538 da Giovanni Maria Falconetto. Ispiratore fu il grande umanista Alvise Cornaro, protettore di artisti e di filosofi, che qui ospitava, e cultore di agronomia. Cornaro e Falconetto seguirono i modelli costruttivi dell´antica Roma. I riferimenti più diretti furono Raffaello, Baldassarre Peruzzi e Giulio Romano, che ha pure collaborato al bugnato che decora l´esterno. Il vero capolavoro all´interno della villa sono gli affreschi di Gualtiero Padovano e di Lamberto Sustris. L´eccellenza è raggiunta nella riproduzione dei paesaggi euganei, che danno l´illusione di far scomparire le pareti e di aprire gli ambienti della villa allo spettacolo della natura.

Il restauro di Villa dei Vescovi contrasta i segnali che vorrebbero i Colli Euganei, ancora in buona parte integri, trasformati in qualcosa di simile alla marmellata edilizia di altre aree del Veneto. Ad Arquà, di fronte alla casa in cui morì Francesco Petrarca, uno sbancamento dovrebbe accogliere 20 mila metri cubi di costruzioni. La magistratura ha sequestrato il cantiere, ma ora si sente dire che potrebbe riconsegnarlo agli immobiliaristi. Contro l´insediamento si è schierato persino il presidente della Regione, Giancarlo Galan, che invece sostiene il progetto di un ascensore che svuoterebbe il Colle della Rocca a Monselice con un buco largo 30 metri quadrati, dal quale sarebbero estratti e poi venduti 4.500 metri cubi di trachite. Secondo Gianni Sandon, del Comitato difesa dei Colli Euganei, l´ascensore serve solo a evitare un´incantevole passeggiata verso la vetta di un colle alto 120 metri. Novantamila metri cubi di edifici incombono invece sulle Valli Selvatiche, a Battaglia Terme, un´area circondata da canali di bonifica del Cinquecento, e compresa fra la Villa Selvatico, issata su una collina, e la Villa Emo, costruita da Vincenzo Scamozzi.

Le minacce ai Colli Euganei giungono nonostante sia attivo un Parco regionale, accusato da molti di scarsa efficienza. Negli anni scorsi fu redatto da Roberto Gambino un rigoroso piano ambientale. Ma dal 2002 sono state approvate 138 varianti per nuove costruzioni. Da tempo è previsto un progetto per le Ville, ma di esso non si sa nulla. Proprio in questi giorni si è insediato il direttore del Parco, Nicola Modica, dopo due anni di vacatio. Ma, denuncia Sandon, nel suo curriculum figura soprattutto il lavoro svolto come poliziotto.

Presentando il restauro, Giulia Maria Crespi ha denunciato il degrado del paesaggio veneto ed ha chiesto che le Soprintendenze, tutte non solo quelle venete, siano rimesse in grado di svolgere la tutela. Le ha risposto il sottosegretario ai Beni culturali Danielle Mazzonis. Il ministero, ha detto, vuole invertire la rotta degli ultimi cinque anni. «Sono pronti 32 milioni di euro, più altri 79 in tre anni per far fronte alle emergenze», dice Mazzonis, «verranno assunti 3 mila precari e stanno per partire i concorsi per 40 soprintendenti». Altro impegno del ministero, assicura il sottosegretario, è la riforma del Codice Urbani rendendo vincolante la partecipazione delle Soprintendenze alla pianificazione paesaggistica delle Regioni. Un modo per evitare che di casi Monticchiello o Mantova ci si accorga quando i cantieri sono già aperti.

Strano paese l´Italia. Il Soprintendente ai Beni Architettonici e Ambientali della Liguria boccia con parole durissime il Puc, il Piano urbanistico che la giunta di centrodestra di Recco, guidata da Gianluca Buccilli, sta disperatamente e inutilmente tentando di approvare nei tempi fissati dalle osservazioni della Provincia. Giorgio Rossini, il Soprintendente, contesta al Puc, tra le tante cose, di avere una «logica parziale che nel caso dei territori collinari subordina il valore costituzionalmente garantito e prevalente della tutela del paesaggio alle aspettative edificatorie private». E più avanti «aree che rivestivano previsione agricola nel precedente piano regolatore, sono qualificate senza lo sviluppo di alcuna logica motivazione quali "ex agricole"».

Detto in soldoni, Rossini accusa Buccilli di sacrificare il paesaggio al business del mattone. La stranezza italiana, poi, consiste nel fatto che, essendo il parere arrivato in ritardo (le carenze di organico della Soprintendenza a fronte della enorme mole di lavoro è una delle piaghe della nostra pubblica amministrazione) vale come zero. Non ha alcuna forza, se non morale. Ma con quella, gli oppositori di Buccilli sanno che non si salverà la collina di Megli, un paradiso verde che cinque palazzine previste dal Puc rischiano di compromettere. La giunta fino ad oggi non è riuscita ad approvarlo, perché quattro consiglieri di maggioranza non hanno potuto partecipare al voto in quanto direttamente interessati (incarichi, proprietà) agli interventi urbanistici. Ma Buccilli spiega «che troveremo il sistema giuridico per votarlo. Quanto alle osservazioni della Provincia non abbiamo intenzione di accettarle tutte». Logico quindi attendersi una serie di ricorsi al Tar per superare le limitazioni chieste dall´ente. «Quella collina era vincolata - spiega Paolo Tizzoni vicepresidente della Provincia - ma la Regione guidata da Biasotti declassò le aree consentendo di costruire. Fosse per noi non l´avremmo permesso, ma adesso non possiamo far altro che chiedere alcune correzioni meno impattanti per l´ambiente».

«Per qualcuno - replica Buccilli - potrà anche essere "troppo", ma sicuramente l´intervento edilizio in assoluto non può essere definito "tanto". E poi respingo le illazioni dell´opposizione che mi accusano di aver voluto favorire costruttori che votano a destra».

Se Buccilli sembra sposare le tesi antirelativiste del pontefice applicate all´edilizia, di altro parere sono oppositori politici - in primis Carlo Vasconi dei Verdi che ha già presentato interrogazioni e interpellanze - e ambientalisti che ricordano come quella collina sia attraversata dall´antica via romana, custodisca uliveti e sia uno degli ultimi angoli verdi del golfo, deturpabile anche da un solo metro quadro di mattoni.

CATANZARO. “L’abbattimento dell’ecomostro di Copanello di Stalettì sarà un grande risultato della politica”. È quanto afferma l’assessore regionale all’Urbanistica, Michelangelo Tripodi, facendo riferimento alla demolizione di una megastruttura in cemento armato, con quattro corpi di fabbrica, realizzato negli anni ‘80. “Un ammasso di ferro e cemento - è scritto in una nota dell’Ufficio stampa della Giunta regionale - incastonato in un ambiente tipicamente caratterizzato da elementi rocciosi, vero e proprio scempio, frutto dell’abusivismo edilizio e dell’illegalità diffusa che in questi anni hanno deturpato il territorio calabrese”. “Il mio impegno come assessore, assieme al presidente della Regione, Agazio Loiero, - prosegue Tripodi - ha consentito di iniziare un percorso positivo per ripristinare le regole sul litorale costiero per troppo tempo lasciato nelle mani degli speculatori. È la prima volta che in Calabria si demolisce un edificio abusivo e ciò è il frutto di un impegno preciso, costante e qualificante che stiamo portando avanti come Giunta regionale e come assessorato all’Urbanistica e al Governo del Territorio. Sarà un evento eccezionale, ma non unico. Seguiranno, infatti, altri interventi per riportare la legalità e salvaguardare il paesaggio e il territorio della nostra regione”. Per Tripodi quella di domani “sarà una data storica per la Calabria che aprirà ad una nuova cultura per un uso equilibrato delle risorse territoriali. E proprio per la valenza culturale che assume tale abbattimento è estremamente importante che i calabresi partecipino all’evento, non solo i rappresentanti istituzionali ma anche i giovani, le associazioni e quanti hanno a cuore il futuro di questa terra che non dovrà mai più essere violentata dagli interessi economici ai danni del paesaggio e dell’ambiente”. “Per procedere alla riqualificazione dell’area dopo l’abbattimento dell’ecomostro - è detto ancora nel comunicato - va ricordato che tra le opere inserite nell’Accordo di programma quadro, firmato il 29 dicembre 2006, è stata stabilita una dotazione finanziaria di 600mila euro”. A Copanello ci saremo anche noi e non solo perché l’abbattimento dell’ecomostro è frutto di una battaglia che abbiamo portato avanti da molti anni, ma anche e soprattutto perché rappresenta l’inizio di una nuova stagione della legalità in una regione come la Calabria, fortemente martoriata dall’abusivismo”. A sostenerlo é il direttore generale di Legambiente, Francesco Ferrante. In una nota, Ferrante fa sapere che all’abbattimento dell’ecomostro di Copanello sarà presente una nutrita delegazione dell’associazione ambientalista proveniente da tutte le regioni d’Italia. “L’alveare di Copanello, così ribattezzato, - è scritto nella nota - è stato costruito negli anni ‘70 a due passi dalla scogliera di Stalettì, sito di importanza comunitaria per la presenza delle cosiddette Vasche di Cicerone e della tomba di Cassiodoro. I lavori furono bloccati perché avviati senza concessione edilizia e quindi lo scheletro del complesso turistico, del volume di 16 mila metri cubi, non venne mai ultimato”.

“Un risultato politico”

Il commento dell’assessore Tripodi. Ci sarà anche Legambiente

CATANZARO. Quattro corpi di fabbrica di cui uno di cinque piani fuori terra, due di sei piani fuori terra, e un ultimo di nove piani con andamento a gradoni intervallati da vani e scale di collegamento in cemento armato. È questo il complesso edilizio, comunemente noto come “ecomostro di Copanello”, che sarà demolito oggi, alla presenza, tra gli altri, del presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, del ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, Alfredo Pecoraro Scanio. La costruzione è stata realizzata in pochi anni, a partire dell’agosto 1980, con una licenza edilizia mancante di alcuni pareri di enti preposti ed è uno degli undici ecomostri d’Italia da abbattere. Il complesso, che sorge nel comune di Stalettì sulla costa jonica catanzarese, si trova a vicino alla battigia e il luogo è caratterizzato dalla presenza, a poca distanza, di un sito archeologico nel quale si troverebbe la tomba di Cassiodoro e del suo Vivarium, prima struttura universitaria e di studi sistemici in Europa. Il 29 dicembre scorso era stato siglato a Roma l’Accordo di programma quadro tra la Regione Calabria, il ministero dell’Economia e delle finanze e quello delle infrastrutture e dei trasporti sulle Emergenze urbane e territoriali. L’atto dopo che la Giunta calabrese aveva deliberato, su proposta dell’assessore all’Urbanistica e governo del territorio, Michelangelo Tripodi, l’approvazione di questo accordo in tema di salvaguardi ambientale. Per l’assessore, è uno dei provvedimenti più significativi, che pone la Calabria all’avanguardia tra le altre regioni italiane ed europee in materia di tutela del territorio. Il quadro complessivo delle risorse finanziarie disponibili ammonta a cinque milioni di euro. Al momento, sono stati giudicati tecnicamente e giuridicamente realizzabili nove interventi. Tra questi, appunto, l’abbattimento del complesso di Copanello e il successivo recupero ambientale dell’intero contesto paesaggistico. Nell’area, sono previsti interventi di bonifica idraulica con la realizzazione di sentieri pedonali e messa a dimora di piante tipiche della zona. Ora, dopo anni di attesa e rinvii, l’inizio dei lavori di demolizione. Domani, alle 10,30, il presidente della Regione, Agazio Loiero e gli assessori Michelangelo Tripodi e Diego Tommasi, terranno una conferenza stampa alla presenza del ministro Pecoraro Scanio, proprio sul luogo della demolizione, in località San Martino di Copanello. Poi, entreranno in scena le ruspe dell’impresa Fiore, ditta che si è aggiudicata la gara d’appalto lo scorso ottobre, per il prezzo, in via provvisoria, di 170.960 euro, al netto del ribasso d’asta del 36,66 %, su sei ditte partecipanti. “Per la Calabria sarà una giornata memorabile. Sarà cancellata una bruttura ambientale, un vero e proprio sfregio al territorio e si concretizzerà una politica di legalità”. È quanto afferma il presidente della Regione, Agazio Loiero alla vigilia dell’inizio dei lavori di demolizione dell’“ecomostro” di Copanello. “Domani, infatti, presente anche il ministro all’Ambiente Pecoraro Scanio - prosegue Loiero in una nota dell’Ufficio stampa della Giunta regionale - inizieranno i lavori di demolizione di una delle costruzione abusive da anni in cima alla classifica italiana degli ecomostri. Questa Giunta non tollera i guasti del passato ed è attenta a evitarne per il futuro. Dal 1987 esisteva un’ordinanza di demolizione. Ma solo lo scorso anno è stato firmato un protocollo di intesa fra la Regione Calabria, la Soprintendenza regionale ai beni ambientali e il Comune di Stalettì per l’abbattimento. Inoltre, il 29 dicembre dello scorso anno, tra Regione ed i Ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture è stato siglato l’Apq Emergenze urbane e territoriali”. “Si tratta - ha sostenuto ancora Loiero - di un piano incisivo per la valorizzazione del paesaggio e la difesa del territorio che riguarda interventi per il recupero dei siti degradati nel quale rientrano non solo Copanello, ma anche altri nove comuni. Interventi che assumono un alto valore simbolico, una riconquista della cultura della legalità che non consente più speculazione e degrado”. Alla conferenza stampa, che precederà l’avvio della demolizione, oltre al presidente Loiero e al ministro Pecoraro Scanio, parteciperanno anche gli assessori, al Governo del Territorio, Michelangelo Tripodi e all’Ambiente, Diego Tommasi.

© 2025 Eddyburg