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Il delitto di Perugia è destinato a lasciare una traccia profonda sull´opinione pubblica. È divenuto e resterà argomento di prima pagina, per i giornali, le tivù, i blog. Per i dialoghi di vita quotidiana. Perché riguarda dei giovani, studenti universitari, provenienti da diversi paesi. Perché è avvenuto a Perugia. Interessa molti, tutti. Perché quasi in ogni famiglia c´è un figlio (spesso "unico") o una figlia (unica) che, finite le scuole dell´obbligo, proseguono gli studi. Vanno all´Università. E, sempre di più, si "allontanano" da casa. Si recano in un´altra città.

Dove risiedono, per alcuni anni, per alcuni giorni della settimana, per alcuni mesi l´anno. Per un periodo, spesso, si recano all´estero, dove proseguono gli studi, utilizzando il "programma Erasmus". Per la maggior parte dei giovani l´esperienza universitaria costituisce un passo - non l´ultimo - verso l´età adulta (in una società che non vorrebbe invecchiare). Perugia, sotto questo profilo, è una città speciale. Attraente, per i giovani e le loro famiglie. Perché è di taglia medio-piccola. Bellissima. Tanta storia, arte e cultura, comunicate dal paesaggio urbano. È, dunque, una città piccola, ma con una università qualificata e cosmopolita. Ai genitori suggerisce un ambiente di studio e di vita "sicuro". Agli studenti: una permanenza interessante e divertente. Per questo, episodi drammatici e violenti, come la morte della giovane Meredith, se avvengono a Perugia sorprendono particolarmente. Anche se possono avvenire e, infatti, avvengono dovunque.

Tuttavia, Perugia soffre di una sindrome da "spaesamento", comune a molti altri centri urbani in cui è cresciuta, da qualche tempo, la presenza universitaria. D´altronde, le "città universitarie" di taglia piccola e minuscola sono numerose, in Italia. Soprattutto nel Centro. Nella zona intorno a Perugia. Penso, anzitutto, alla "mia" Urbino: 14.000 abitanti e circa 18.000 studenti, compresi molti stranieri. E poi: Camerino, Macerata. Sull´altro versante: Cassino, Siena. Per limitarci alle università "storiche". Però, negli ultimi anni, si sono moltiplicate. In Italia, attualmente, si contano 94 Università (una quindicina sorte nell´ultimo biennio) e circa 130 Istituti di Alta formazione artistica e musicale. Senza contare le numerose sedi locali. D´altronde, quasi tutti i giovani, dopo le superiori, tentano di conseguire la laurea. Tre anni più, spesso, altri due. Perlopiù lontano da casa. Quasi un rito di passaggio alla conquista dell´autonomia. Come, un tempo, per gli uomini, il servizio militare. Per cui, insieme alle Università, si sono sviluppate vere e proprie "zone" per studenti. Quartieri giovanili. Città nelle città. Anzi, talora la stessa città è confluita nell´Università. Come Perugia. Dove i residenti si sono trasferiti in periferia, dopo aver "ceduto" (o meglio "affittato") il centro storico agli studenti. Così, sono sorte città quasi totalmente abitate da studenti universitari. Dove il commercio, l´economia, l´edilizia, ruotano completamente intorno a loro. Per non parlare dei locali (fast food, pizzerie, birrerie, pub). A Urbino, quando vedi passare uno della mia età, non hai dubbi: o è un turista (ma allora è sbracato e armato di guida) oppure è un docente. Non c´è alternativa. Una città nella città, dicevamo. Però non è esatto. Perché la città, per essere tale, deve avere una popolazione con solidi legami sociali e locali. Radicata e proiettata nel contesto. Una città, per essere tale, deve essere abitata da una popolazione la cui vita è orientata da istituzioni, regole, autorità. Nelle città universitarie ciò non avviene. Gli studenti sono "popolazione" di passaggio. Non hanno radici locali. Né la prospettiva di restarvi per la vita. Pagano affitti alti per un appartamento condiviso con altri studenti. Non lo possono percepire come "casa propria". Case, strade, piazze: per questi giovani di vent´anni, "lontani da casa", sono uno "scenario". Dove trascorrono il tempo, dopo lo studio. E si divertono senza responsabilità. Per contro, gli abitanti "veri" beneficiano di questa situazione, perché la "città degli studenti" è un luogo di consumo remunerativo. Da sfruttare al massimo. Ma, al tempo stesso, ne soffrono. Perché la vita diviene, inevitabilmente, poco sicura. E, al tempo stesso, cara. Mentre si diffondono commerci e traffici illeciti. E crescono il "rumore". La confusione. Il giorno e soprattutto le notti. Che tendono a diventare sempre più "bianche". Sempre più lunghe. Le relazioni fra studenti e residenti, per questo, risultano difficili. Delineano due mondi distinti.

D´altronde, il municipio si occupa, soprattutto, della vita e della sicurezza dei "suoi" residenti. Che, perlopiù, abitano in periferia; all´esterno della "città universitaria". Quindi, le istituzioni intervengono solo di fronte a "eccessi" davvero "eccessivi" (visto che l´eccesso, dove non esistono limiti, diventa norma). Il problema maggiore diventa non di "polizia", ma di "pulizia". Visto lo stato miserevole in cui restano strade e piazze, dopo alcune "feste", particolarmente riuscite. Le autorità di Ateneo, da parte loro, si occupano di quel che avviene dentro alle aule e alle mura dell´università, durante gli orari di svolgimento delle attività accademiche. Università e istituzioni procedono, perlopiù, senza incrociarsi. Così, gli studenti appaiono quasi apolidi, privi di cittadinanza. L´idea del "campus" americano, spesso evocata, qui non regge. Perché negli Usa il campus è direttamente governato dall´Ateneo. Uno spazio pensato e organizzato per gli studenti. In funzione della loro formazione, della loro vita e della loro sicurezza. Nelle "città universitarie", invece, i giovani sono affidati, principalmente, alla regolazione dei consumi e del mercato. Non funziona, per loro, neppure il vincolo sociale e comunitario. Perché non sono una società e neppure una comunità. Ma una umanità immersa in relazioni, in larga parte, transitorie. Fitte ma senza impegno. Pensiamo ai personaggi principali della tragica vicenda di Perugia. La vittima: Meredith, una giovane inglese. Le persone coinvolte: Amanda, giovane statunitense; il suo ragazzo, Raffaele, pugliese; infine, Patrick, il musicista congolese. Insomma: un mondo sperduto nel contesto locale. Un glocalismo senza radici, senza legami sociali e comunitari, come ha osservato Francesco Ramella. Un retroterra che, certamente, non può venir considerato la "causa" di episodi tragici, come questo. Ma li rende possibili, spiegabili. Così come, più che altrove, alimenta i casi di depressione. Che, talora, sfociano nel suicidio. I giovani. Lontani dalla famiglia, dalle istituzioni, dalle regole. In un ambiente dove le occasioni di "evasione" sono diffuse; dove i "limiti" si perdono. Sono più vulnerabili. Esposti a momenti di depressione. Solitudine. D´altronde, sono studenti. Debbono rispettare scadenze, "compiti", esami. Perché, va precisato, l´impegno loro richiesto dall´Università è rilevante. Ma la distanza fra l´Università e la vita nella "città universitaria" diviene, talora, una frattura. E può generare fallimenti molto dolorosi. Perché minano l´autostima dei giovani. E il loro rapporto con i genitori. Che investono molto sui loro "figli unici", dal punto di vista finanziario e del progetto familiare.

Queste "città universitarie": non sono città. I quartieri studenteschi delle medie e grandi città. Non sono quartieri. Sono "zone senza sovranità". Senza autorità. Senza comunità. Un po´ centro commerciale, un po´ villaggio turistico, un po´ "pub diffuso". Verrebbe da evocare quelli che Marc Augé definisce i "non-luoghi". Ma ci sembra improprio. Perché questi "luoghi" hanno un´identità e radici storiche profonde. Solo che i "nuovi" residenti ne sono estranei. Peraltro, si tratta di ambiti dove le persone intrattengono relazioni fitte. Ma, perlopiù, temporanee, poco impegnative. Meglio, allora, parlare di "luoghi apparenti", popolati da una "gioventù apolide". "Città artificiali" in cui cresce una generazione di "non-cittadini".

ASSISI - Basta con «l’Italia dei geometri». Basta con lo sviluppo senza una «regia». Se la cementificazione in Italia avanza non è solo colpa dell’aumento del valore degli immobili e della necessità dei comuni di fare cassa, ma anche il risultato di errori commessi nel passato. Della mancanza di una progettazione di lungo respiro. Dal convegno di Assisi organizzato dal Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, "Sos ambiente: aggiornarsi per intervenire", il ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli ha puntato il dito contro «la fragilità della pianificazione e la scarsa qualità della progettazione affidata in passato a geometri piuttosto che ad architetti e urbanisti». Fattori che hanno portato a uno sviluppo anarchico del paesaggio, come nel caso delle centinaia di villette a schiera della Sardegna. E Rutelli ha promesso il «pugno di ferro» contro chi danneggia il territorio. La qualità del paesaggio deve essere un valore, «comprometterla è la più grave minaccia al nostro patrimonio e alle nostre attività culturali», ha detto il ministro.

Ma al convegno, che ha riunito le delegazioni del Fai di tutta Italia per fare un quadro delle politiche in atto e degli strumenti disponibili, il ministro ha anche dovuto accogliere l’appello allo Stato a essere presente negli interventi di tutela che viene da regioni ed enti locali. Come quello fatto da Luca Rinaldi, soprintendente per i Beni architettonici e per il paesaggio di Brescia, Cremona e Mantova, che dice: «Non ci si può più fidare della pianificazione urbanistica regionale. Soprattutto nelle regioni che sono a forte speculazione edilizia, come la Lombardia, tocca allo Stato intervenire per proteggere il paesaggio». Questo è stato chiesto per l’Abbazia benedettina di Maguzzano, in provincia di Brescia, che sorge su un centinaio di ettati di terreno e rappresenta uno dei pochi luoghi incontaminati sulle rive del Garda. Lo scorso anno nella stessa zona era stata bloccata la costruzione di ville di lusso intorno al Castello a Moniga del Garda.

Per proteggere il paesaggio si deve «stimolare l’uso della consapevolezza e tornare al fascino delle regole», ha suggerito nel suo intervento Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente del Fai. Esempio positivo è quello della Sardegna che dal settembre 2006 ha un piano paesaggistico e che ha aumentato il trasferimento di fondi agli enti locali del 43% «per contenere la speculazione sugli introiti dell’Ici e degli oneri di urbanizzazione», dice l’assessore regionale Gian Valerio Sanna.

Eppure i problemi non sono solo causati dall’economia del mattone, perché se questa fa crescere il cemento anche altri fattori continuano a «deturpare» il nostro paese. Nelle aree urbanizzate - racconta Costanza Pratesi, responsabile dell’Ufficio studi del Fai - assistiamo alla crescita di «nebulose di edificazione diffusa», per cui le città si irradiano nelle campagne senza un disegno, ma in quelle meno urbanizzate sale il numero dei capannoni a uso industriale. Nel 2005 in Italia ne sono stati costruiti 7044, 826 solo in Veneto. E ancora lo sfregio delle coste e l’abusivismo edilizio «che continua a essere una piaga». Precisa Fulco Pratesi, fondatore del Wwf: «Delle 331mila abitazioni costruite in Italia nel 2006, 30mila erano abusive».

Postilla

Da molto tempo abbiamo iniziato su queste pagine a criticare la rinuncia dello Stato a esercitare le sue responsabilità nelle questioni per le quali esiste una competenza nazionale indivisibile. Le modifiche costituzionali del 2001 e la sudditanza culturale alle posizioni di Bossi che l’intero centro-sinistra ha espresso nella sua interpretazione della sussidiarietà sono state al centro delle nostre critiche. Basta scorrere gli eddytoriali (ad esempio, tra i più recenti, il n. 97 e il n. 91), o il termine sussidiarietà nel Glossario, o gli articoli e i saggi di Luigi Scano.

Apprezziamo molto, e condividiamo, le posizioni espresse al convegno del FAI a proposito della critica alla delega incondizionata alle regioni, e il riconoscimento del buon lavoro della Regione Sardegna (sui due versanti: l’esercizio della tutela mediante la pianificazione del paesaggio, e il sostegno ai comuni che vogliono sopravvivere senza essere costretti dalla finanza statale a cementificare il loro territorio).

Vogliamo osservare però che non è sufficiente che “dal basso” degli operatori sul territorio e delle associazioni culturali e ambientalistiche si rivendichi l’esercizio dell’autorità dello Stato. Occorre anche che chi decide (gli uomini della politica, come l’on. Rutelli) si adoperi per attrezzare lo Stato a esercitarle: attrezzarlo culturalmente (cominciando a criticare le posizioni “sviluppiste”), politicamente (smettendo di rincorrere oogni aspirazione separatista di ogni nicchia di voti), e tecnicamente (cominciando a dotare del minimo di competenze valide le strutture del potere pubblico). Finchè questo non sarà fatto, apparirà come una mera elusione ed evasione il prendersela con i geometri e auspicare che su di loro prevalgano gli architetti (o magari, con un volo pindarico, gli urbanisti).

MILANO - Il "bel riguardo", quel "bello sguardo" che si apriva ai Visconti prima e agli ufficiali napoleonici quattro secoli dopo dal castello di Bereguardo, ora rischia di dissolversi per sempre. Il comune pavese ha bisogno di liquidità. Il maniero visconteo deve difendersi ora dalle infiltrazioni, le scuole non bastano più ad accogliere gli alunni che arrivano anche dai paesi vicini e il sindaco, Maurizio Tornielli, guarda oltre l´orizzonte, a nord, dove s´indovina la grande città, Milano. «Dista 30 chilometri di autostrada. Siamo a dieci minuti dalla fermata metro di Famagosta. A un milanese conviene vendere l´appartamento in città e comprare la villetta qui: arriverà prima al lavoro e gli avanzeranno anche un po´ di soldi da investire». Tornielli ha la sua spiegazione del perché i Comuni privilegino l´espansione residenziale: «I trasferimenti dallo Stato si assottigliano. E si ventila anche la diminuzione dell´Ici. Dove prenderemo i soldi? I piccoli comuni che necessitano di opere pubbliche non hanno alternativa se non l´aumento indiscriminato delle cementificazioni».

Sebbene nel 2007 ci sia stata un´inversione di tendenza - i trasferimenti sono aumentati del 4,2 per cento - i timori di Tornielli non sono infondati. Uno studio dell´Anci avverte che «la principale fonte di entrata tributaria dei comuni è l´Ici». In quelli con meno di mille anime arriva al 57 per cento. Rispettare il patto di stabilità è più duro per un paesino, dice Secondo Amalfitano, presidente dei comuni "under 5000" dell´Anci: «Lo scuolabus per pochi bambini costa molto di più, in proporzione, che nelle città». A spingere verso l´opzione cemento, suggerisce l´urbanista del Politecnico di Milano Paolo Pileri, è stata la decisione di «liberalizzare», tre anni fa, la destinazione dei soldi incassati dai Comuni per le nuove urbanizzazioni: «Prima potevano essere usati solo in minima parte per le spese correnti, ora non più. E la tentazione di ricorrere all´espansione edilizia per realizzare asili è forte».

Centinaia di paesi rischiano di venire inghiottiti dalle città, che estendono ormai le loro lingue di cemento anche in altre regioni. «I milanesi vanno a vivere nel Piacentino o nel Novarese», avverte Mario Breglia dell´osservatorio "Scenari immobiliari". Tra il 2001 e il 2005, calcola il Cresme, centro di ricerche per l´edilizia, l´esodo dalle aree metropolitane è stato inarrestabile. Napoli è scesa sotto il milione di abitanti, l´hinterland ha toccato quota 2,1 milioni. L´entroterra romano si è arricchito di 130mila abitanti, arrivando a 1.280mila. A Milano la Provincia tenta di ridurre il consumo di suolo - che Legambiente vuol ridurre per legge - ormai a livelli stratosferici: in alcuni comuni sfiora il 100 per cento. Quelli che conservano ancora un po´ di campagna, come Pozzuolo Martesana o Rosate, rischiano di diventare periferia. I comuni di pianura satelliti delle città registrano un boom demografico. San Giorgio al Piano, nel Bolognese, ha acquistato dal 2005 mille abitanti, arrivando a 7700. E tra Ici e oneri nelle casse sono entrate 2,2 milioni di euro. Ora, però, avverte il sindaco Valerio Gualandi, «la gente si spinge verso il Ferrarese: cerca case ancora meno care». Negli ultimi dieci anni in Italia, calcola il Cresme, si sono prodotti 3 miliardi di metri cubi di cemento. E altro ne arriverà nelle isole Tremiti, dove vivono 60 famiglie e gli ambientalisti contestano 70 nuove case popolari. «Ma è il nostro primo piano regolatore - replica il sindaco Giuseppe Calabrese - e il nostro bilancio è di 800mila euro: la metà se ne va per smaltire i rifiuti».

A Parma l’amministrazione di centrodestra insiste, tenace, per stravolgere l’antica zona, centralissima, della Ghiara che sta fra la mole farnesiana della Pilotta e il fiume Parma. Luogo di mercato all’aperto, di fiere, di tornei equestri e di commerci minuti, di socializzazione popolare fin dal 1180, e poi, in modo stabile, dal 1827 con le Beccherie realizzate per la illuminata Maria Luigia d’Austria dal bravo architetto Nicola Bertoli (purtroppo distrutte, improvvidamente, nel 1929). Prima il sindaco Ubaldi, poi il suo successore, e quasi discendente di tanta stirpe, Pietro Vignali si sono applicati a un maxi-progetto cementizio che prevede lo sfondamento di un terzo della piazza.

Il motivo? Ricavare un primo piano scoperto nell’interrato e altri due piani sottoterra per magazzini e garage. Una tettoia molto evidente dovrebbe poi alzarsi oltre il parapetto del Lungoparma. In un primo tempo si pensava anche di passare sotto i resti del ponte romano della Ghiara “valorizzando” ben bene anche quel manufatto. Poi, in un soprassalto di pudore, ci si è rinunciato. Essendo il tutto in project financing, è chiaro che, al di là dei 25 milioni di euro dell’appalto, comunque succulenti, bisogna comunque dare all’operazione, tutta privata, un rendimento, un profitto piuttosto sostenuto.

L’amministrazione di centrodestra si è mossa con molta sbrigatività sloggiando subito i banchi di vendita tradizionalmente presenti e gli ambulanti e dando vita ad uno strano pre-contratto di assegnazione senza avere ancora acquisito alcun parere da parte delle due Soprintendenze competenti. E qui è cascato l’asino. Nel senso che la pratica di Ubaldi-Vignali è finita dove doveva finire - Parma è un valore planetario e il suo centro antico è sempre più ammirato - cioè all’esame dei Comitati di settore del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Quello per i Beni storico-artistici ha pensato bene di inviare nella capitale dei Farnese un suo “scout” di valore come il professor Carlo Bertelli, noto storico dell’arte, già soprintendente a Brera. Il quale è tornato portando con sé una ricca documentazione, anche fotografica. Per dire un no secco al maxi-progetto in project financing e sì, invece, ad una riqualificazione “leggera” di quest’area: con «un flessibile moderno mercato mobile», scrive Bertelli, «dove gli esercenti abbiano garantiti i luoghi dove caricare e scaricare, i magazzini e le rimesse delle auto», con una «occupazione temporanea, e non definitiva, dello spazio aperto». Come si è fatto, con criteri aggiornati, in altre piazze di mercato tradizionalissime, per esempio a Campo de’ Fiori al centro di Roma. “Andare in Ghiara”, era un’espressione tipica nella parlata dei popolani di Oltretorrente che si recavano, al di là del ponte, nel cuore della Parma dei palazzi nobili, ma pure dei mercati, ancor oggi estesi, il mercoledì e il sabato, dalla Stazione ferroviaria a piazza Verdi, «fino a congiungersi (cito sempre il professor Bertelli) con il mercato stabile». Ma «l’area di Piazza della Ghiara», nota lo studioso, «si distingue per il suo carattere radicato di centro del commercio al minuto».

Già, ma i due sindaci di centrodestra si sono forse preoccupati, prima di lanciarsi nella discutibile impresa, di interpellare i cittadini e soprattutto i più diretti interessati, cioè i commercianti della Ghiara parmigiana? Neanche per idea. Hanno pensato loro per tutti. Allora la meritoria associazione cittadina Monumenta, presieduta dall’avvocato Arrigo Allegri, ha fatto, nell’estate scorsa, quello che il Comune - forse distratto, chissà - non aveva pensato di fare, ha cioè distribuito un limpido questionario in oltre 150 copie per verificare su quello opinioni e opzioni. E qui l’asino è cascato un’altra volta. Nel senso che appena sette dei commercianti fissi della piazza interessata hanno detto di approvare il maxi-progetto della Giunta di centrodestra. Mentre il 93 per cento l’ha sonoramente bocciato. Risultato analogo fra gli ambulanti del mercato bisettimanale: su 43 interpellati, appena due i favorevoli, 18 i contrari e, in questo caso, un po’ più le schede bianche (23). Ma, insomma, bocciatura secca su tutta la linea.

A questo punto però l’amministrazione si era già lanciata nella demolizione dei box, nel pre-contratto milionario (senza aggiudicazione e col rischio di dover sborsare 1.050.000 euro, soldi di tutti, a quel punto), nel mandare allo sbaraglio, cioè via dalla Ghiara, boxisti e ambulanti. E quindi non le restava che prendersela fieramente con le Soprintendenze parmigiane, col Ministero (e quindi con la “solita Roma”), colpevoli di ritardare un così illuminato e “gradito” progetto, scagliando anatemi contro l’associazione «Monumenta», giocando persino la carta di un “diffida”, condita da gratuiti insulti ai membri del Consiglio Superiore. La colpa non è di chi ha forzato tempi e procedure, ma di chi vuol vederci chiaro in un progetto pesante che interessa una zona storicamente strategica del centro storico di Parma. Possibile che prima Ubaldi e poi Vignali ignorassero che esistono normative rigorose intonate all’articolo 9 della Costituzione e quindi procedure per la tutela che portano i progetti fino ai Comitati di settore del Consiglio Superiore dei Beni Culturali? Non le ignoravano. Tant’è che nello strano bando di gara è stata inserita la clausola in base alla quale l’aggiudicazione avrebbe avuto luogo compatibilmente col benestare delle Soprintendenze. Può darsi però che si illudessero che i tempi fossero ancora quelli “dolci” del ministro Giuliano Urbani di Forza Italia, il quale “epurò” di forza lo stesso Consiglio Superiore e poi, di fatto, lo tenne chiuso per anni. Ma con Rutelli quell’organismo, composto da competenti di vaglia, c’è ed è stato riportato in onore. Sul mega-pasticcio della Ghiara di Parma non sono possibili ambigue mediazioni. La questione va risolta al più presto nel senso previsto, con rigore e con chiarezza, dai Comitati di settore: con un investimento assai più modesto e più rapido, dotare di infrastrutture e servizi leggeri piazza della Ghiara, come chiedono commercianti e ambulanti e restituirla agli stessi.

«Pensare a parcheggi sotterranei nelle vostre città storiche», ha sentenziato di recente sir Richard Rogers, gran consulente di Tony Blair, «è una pura idiozia. Noi, a Londra, negli ultimi quarant’anni non abbiamo creato, neppure un parcheggio sotterraneo». I londinesi vanno a piedi, in bus, in metrò e in bicicletta. A Parma, si sa, la bicicletta va ancora, alla grande, ben più che a Londra.

Sono ormai decenni che architetti e urbanisti non riescono a parlare d'altro che di luoghi del movimento e luoghi del commercio. Di tanto in tanto emerge timidamente un rigurgito di interesse per l'abitare, il monumento, le carceri, lo spazio del lavoro, ma nel giro di pochissimo tempo ogni discorso viene ricondotto ai fatidici outlet, centri commerciali, stazioni e aeroporti, i contenitori per eccellenza degli stili di vita contemporanei. Sostenitori e denigratori si muovono costantemente dentro lo stesso quadro logico: alcuni dicono che questi luoghi sono prodotto ed espressione del postmoderno, sono gli elementi che disfano materialmente e concettualmente la città compatta; altri sostengono che consumano suolo, sono privi di qualità architettonica, sono il frutto della deregulation urbanistica. In sostanza, è vero che questi luoghi modellano e alimentano il predominio del suburbano sull'urbano.

Ai primi, lontani apprezzamenti di Robert Venturi, Charles Moore o Rayner Banham, intenti a demolire pezzo per pezzo il dogma modernista, si sono sovrapposti nel tempo infiniti commenti, chiose, provocazioni, polemiche. Alla fine del XX secolo le definizioni più autorevoli del problema, se così lo si vuole intendere, hanno coinciso con i celeberrimi «non luoghi» di Marc Augé e con il junkspace di Rem Koolhaas. In entrambi i casi l'entusiasmo veniva fortemente ridimensionato a favore di una cupa descrizione dello stato di fatto, e tuttavia la forza dell'argomentazione derivava ancora dall'attacco nei confronti dell'utopia novecentesca, dall'evidenza di una realtà che è lì, davanti agli occhi di tutti, e che è inutile nascondersi.

Il catalogo della mostra bolognese La civiltà dei superluoghi (a cura di Matteo Agnoletto, Alessandro Delpiano, Marco Guerzoni, Damiani 2007) si situa esattamente sul filo di questa tradizione: con un nuovo nome, connotato in maniera positiva dal prefisso «super», si sancisce per l'ennesima volta il successo (soprattutto in termini numerici) di questi luoghi del contemporaneo, e si ribadisce la necessità di inglobarli nelle politiche cittadine.

Non a caso, nel corso del dibattito che ha affiancato la mostra, Vittorio Gregotti ha parlato di «estetica della constatazione»: senza troppe circonlocuzioni, schierandosi a favore della città finita, del vivere associato, del piano regolatore, ha lanciato un energico appello contro questa condanna alla passività. Incredulo rispetto al lunghissimo trascinarsi della animosità rivolta (ormai senza costrutto) contro l'autoritarismo e le contraddizioni della Carta di Atene o delle linee rette di Le Corbusier e Mies van Der Rohe, poco più che ricordi sbiaditi nella pratica odierna, Gregotti si è chiesto come sia possibile insistere ancora su quel disimpegno che è stato prima teorizzato in nome del cinismo edonista anni '80, poi rivendicato in forma di denuncia contro i fantasmi del politically correct. Un discorso di chiarezza esemplare, quasi impossibile da respingere.

La resa dell'architettura all'esistente

A parte i pochi fanatici che ancora provano il brivido della trasgressione entrando in un Mac Donald o al Serravalle Outlet, la matrice vessatoria, repressiva, coattiva di questi spazi e del genere di vita che inducono è evidente a chiunque abbia un minimo di buon senso. Centinaia di film, saggi, romanzi di Ballard e della quasi totalità degli scrittori americani sotto i quarant'anni raccontano in tutte le possibili varianti gli effetti collaterali di questi territori postmoderni. Eppure, nelle argomentazioni di Gregotti è contenuta anche la chiave del fallimento in pectore di una chiamata alle armi: quello che sembra definitivamente impossibile accettare è che la soluzione provenga dall'architettura. Un ritorno alla qualità del progetto, a larga come a piccola scala, per quanto auspicabile non ha la minima possibilità di influire su un processo di matrice economica, sociale e politica che consiste nella appropriazione dello spazio pubblico, inteso nel senso più ampio, come effetto del macrosistema della rendita immobiliare.

L'equazione tra spazi commerciali (che in definitiva comprendono sempre di più anche tutte le stazioni, gli interscambi, e i luoghi del trasporto) e sistemi non pianificati è una contraddizione in termini. Il real estate pianifica in maniera molto più rigida e pervasiva di quanto qualsiasi sistema pubblico si sia mai sognato di fare, e il fenomeno non è certo limitato alle aree periferiche delle metropoli.

«È strano come si parli ancora di successo della città diffusa come sistema di villette unifamiliari e grandi scatoloni commerciali, quando almeno in Italia le statistiche ne mostrano il declino già da qualche anno - diceva Stefano Boeri, anche lui presente al dibattito. Molto più sensato sarebbe preoccuparsi di un fenomeno prettamente urbano, che per fortuna non ha ancora preso molto piede da noi, come le catene commerciali, fondate su un sistema di monitoraggio - ai limiti della violazione della privacy - delle abitudini dei consumatori e sulla installazione di negozi superstandardizzati in pieno centro, calibrati al centimetro sui profitti calcolati a monte. È il dispositivo che ha plasmato praticamente tutti i centri urbani nordeuropei e nordamericani».

La forza monumentale del tessuto storico delle nostre città non è, ormai appare chiaro, un vaccino contro questo genere di politiche, ma anzi contiene in sé la polpetta avvelenata che spalanca tutte le porte: il turismo. La soluzione è altrove.

Forse non è dato trovare, nella storia della cultura italiana, una figura così profondamente divisa come quella di Emilio Sereni. Da una parte il dirigente politico, il combattente non privo, talora, di durezze dottrinarie. Dall’altra lo studioso d’alto rango, l’indagatore infaticabile, dotato di immensa e ineguagliabile erudizione, lo storico che ha lasciato studi fondamentali alla cultura italiana. Quelle due personalità hanno dato vita a due mondi diversi e talora lontanissimi, ancorché tenuti insieme da un filo tenace. Difficilmente oggi il lettore poco informato sulla biografia di Sereni, potrebbe indovinare dei nessi tra opere come Comunità rurali nell’Italia antica (1945) o Città e campagne nell’Italia preromana (1966) oppure ancora La circolazione etnica e culturale nella steppa eurasiatica. Le tecniche e la nomenclatura del cavallo (1967), e il dirigente del Partito comunista. Ma la comune matrice marxista, dello studioso e del militante, si articolava in spazi e territori diversi, così che le durezze dottrinarie potevano stemperarsi nello storico di mondi vasti e lontani, mentre continuavano a ispirare l’azione politica del dirigente.

Una cospicua messe di ricerche di storia antica – dispersa in tanti saggi talora incompiuti – mostrano un Sereni capace di padroneggiare una molteplicità stupefacente di fonti. E in questo «gran spaziare nei territori costituitivi della storia dell’umanità» - come ha scritto Renato Zangheri - lo studioso è andato disegnando i frammenti di una vasta e mai compiuta storia universale dell´agricoltura, lasciando agli studiosi repertori fecondi di fonti e di interpretazioni.

Si farebbe tuttavia torto a Sereni e alla sua dottrina, se si volesse interpretare il suo marxismo come un ostacolo a una moderna e profonda comprensione della storia. Benché appesantito qua e là da forzature è al suo marxismo che dobbiamo quella che è la prima grande storia delle campagne italiane. Il capitalismo nelle campagne (1947), in effetti, costituisce una geniale interpretazione dei "caratteri originali" del capitalismo italiano. Quel testo coglieva a mio avviso un carattere costitutivo della storia italiana, destinato condizionare la futura evoluzione del nostro Paese: il peso spropositato della rendita fondiaria sull´impresa agricola e soprattutto sul lavoro contadino. Quell’elemento originario pesa ancora oggi nella cultura nazionale sotto la forma dell’indifferenza diffusa degli italiani nei confronti dell´ambiente e dei suoi problemi. I proprietari terrieri, redditieri abitanti in città, non hanno mai guardato alla natura, cioè alla campagna, se non a un luogo da cui cavare beni e danaro. Mentre le varie generazioni di contadini, una volta inurbate, hanno guardato al loro passato agricolo, come una vicenda di feroce sfruttamento e miseria, da cancellare nel cemento della città.

Il marxismo non ha impedito a Sereni di comporre la Storia del paesaggio agrario italiano (1961). Grazie a quella ricostruzione si può dire che per la prima volta le campagne italiane hanno perduto la loro indeterminatezza di luogo neutro della produzione agricola per assumere le forme del paesaggio, un ambito dotato di linguaggi e di singolari valori estetici. Il giardino mediterraneo, la piantata padana, l’alberata tosco-umbro-marchigiana, sono diventati quadri peculiari del territorio agrario. Un paesaggio, quello italiano, segnato da una infinita varietà di forme, degradanti, tra innumerevoli habitat, dalle valli alpine sino terre subtropicali della Sicilia. Sereni ha ricostruito questa "seconda natura" - come Goethe definiva la strutturazione del territorio operata dai romani - in modo singolare, privilegiando le fonti iconografiche. Come in un raffinato divertissement egli ha voluto rappresentare le forme artistiche delle nostre campagne – frutto del genio anonimo dei contadini – attraverso le testimonianze dei grandi pittori italiani. Quasi a voler sottolineare la sacralità storica del nostro paesaggio, immenso patrimonio di un’arte irripetibile che oggi è in mano ad eredi dissipatori e vandalici.

UDINE. «Solo illazioni sulla Regione Friuli Venezia Giulia». Sdegno e irritazione sono palpabili. All’indomani della pubblicazione delle intercettazioni nell’ambito dell’inchiesta sulla tangentopoli lignanese, dalla giunta regionale del Friuli replicano gli assessori citati nelle conversazioni «ascoltate» dagli inquirenti. Il vicepresidente Gianfranco Moretton e l’assessore alle attività produttive Enrico Bertossi in testa.

Non ci stanno e denunciano la completa estraneità alla vicenda, ripetendo di non avere mai conosciuto né incontrato i quattro intercettati. Vale a dire l’avvocato Massimo Carlin, agli arresti domiciliari, il direttore tecnico del Comune di Lignano, Andrea Mariotti, tuttora in carcere. Così come l’avvocato Fulvio Lorigiola e Sandro Fasulo, collaboratore della Stefanel. «Apprendo dalla stampa odierna di essere citato, assieme ad altri assessori regionali, in un colloquio registrato tra indagati per fatti a me assolutamente estranei», ha detto ieri mattina l’assessore regionale alle Attività produttive Enrico Bertossi. «Preciso - ha continuato - che non ho mai incontrato, mai conosciuto e mai sentito parlare di questi signori. Non conosco nemmeno il progetto oggetto dell’inchiesta. Altrettanto vale per i miei uffici. Il mondo è pieno di millantatori e faccendieri, che da me non vengono mai né ricevuti né ascoltati. Per il resto possiamo solo rimetterci alla correttezza e alla responsabilità di chi consegna ai giornali i testi delle intercettazioni e a quella dei giornali che li pubblicano. Naturalmente provvederò a immediate querele nei confronti di chi illecitamente utilizza il mio nome per fini a me totalmente estranei», ha tagliato corto l’assessore.

Dello stesso tenore sono anche le poche parole rilasciate dal vicepresidente della Giunta regionale Gianfranco Moretton: «Non conosco queste persone, non le ho mai incontrate, nè conosco il progetto di cui si parla. Ho dato incarico al mio avvocato di adire alle vie legali se ci sono gli estremi».

L’obiettivo del gruppo erano dunque gli assessori chiave della Regione. Forse per millantare amicizie, o per convincere qualcuno che servivano spinte per portare a compimento l’operazione Stefania, la trasformazione dell’area di 88 ettari di proprietà della Stefanel, alle porte di Lignano, in area edificabile; e l’ampliamento del campo da golf. I «signori» ai quali fa riferimento l’assessore Bertossi sono i protagonisti della registrazione fatta dagli inquirenti nello studio dell’avvocato di Portogruaro Massimo Carlin, ex consulente del Comune di Lignano, finito agli arresti domiciliari per la bufera delle presunte tangenti; con lui in ufficio ci sono pure il collega di foro Fulvio Lorigiola e i consulenti della Stefanel Sandro Fasulo e Rino Guzzo. Venerdì, nella riunione della Giunta regionale, un altro assessore, Lodovico Sonego, responsabile di infrastrutture e viabilità, pure tirato in ballo in questi giorni, ha spiegato di aver ricevuto nel suo ufficio Fasulo prima delle vacanze estive. Sonego ha precisato di averlo ricevuto come fa sempre, e cioè con le porte aperte. Ha ascoltato la richieste - «l’ospite ha esordito dicendo che il suo mandante desidera ampliare il campo da golf che già possiede in adiacenza all’area, ma che il programma è impedito da una previsione urbanistica che prescrive una strada che starebbe nel mezzo» -, in particolare la volontà di sottoscrivere un accordo di programma urbanistico con la Regione «finalizzato allo spostamento del tracciato della strada». Ma seppur concordando sull’ampliamento del golf, l’assessore ha spiegato che modifiche urbanistiche del genere competono al Comune, e ha negato l’accordo di programma, «perchè la Regione ha l’abitudine di non fare mai intese di tale natura su proposta di privati», ma esclusivamente «su iniziativa di soggetti pubblici».

VENEZIA. Tangenti a Nordest, obiettivo Regione nell’operazione Stefania. Nel mirino dei due «principi del foro» Fulvio Lorigiola e Massimo Carlin e dei consulenti della Stefanel Sandro Fasulo e Rino Guzzo c’è anche la Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia. «...io in Regione avevo attivato tutti e poi arrivo e scopro che manca questa», dice Fasulo riferendosi del mancato invio della delibera comunale di Lignano riguardante l’intervento dell’operazione Stefania.

La circostanza è la «riunione strategica» avvenuta nello studio dell’avvocato Massimo Carlin in agosto. E’ la riunione che serve a pianificare la strategia per accelerare e far approvare, prima della Pasqua del 2008, il progetto relativo all’area della società Stefania a Lignano.

Attivare la Regione. I quattro parlano liberamente, non sanno di essere intercettati dai carabinieri. Dice Fasulo riferendosi a Carlin e Lorigiola: «...non è che vi metto sul banco degli imputati, sia chiaro, siccome avevamo attivato tutti i canali possibili ed immaginabili in Regione, a partire dal Presidente della Regione, voglio dire... e mi scoccia arrivare lì e scoprire...». Alle rimostranze di Fasulo, l’avvocato Carlin risponde mostrando di condividere che la situazione deve essere rissolta al più presto. Precisa l’avvocato: «Lei ha ragione, anche perchè devo dire che la particolare attenzione e condivisione che ha questa giunta..., su questo intervento, è da cavalcare e cavalcare alla grande». A sostegno di quanto afferma il collega interviene Lorigiola che osserva: «Anche perchè in politica il vento qualche volta cambia e quindi bisogna aprofittare di questo...bisogna prevedere...». Ed ecco allora che Carlin fa il quadro su cui loro sono convinti di contare in Regione. «.... però il fatto che in fin dei conti Sonego (Lodovico Sonego, assessore regionale alla Pianificazione Territoriale ndr), è assessore dei Ds, non è mica assessore dell’Udc, voglio dire, e quindi uno si tira giù a Roma... qua invece c’è Moretton (Gianfranco Moretton, vice presidente della Regione della Margherita ndr), che dà una mano, c’è coso... quello che diventerà, che tenterà di diventare ma diventerà sindaco di Udine... come si chiama... l’ex presidente della camera di commercio... che è assessore regionale adesso, che dà una mano, perchè ha bisogno degli appoggi per diventare sindaco di Udine...». Il riferimento è al trasversale Enrico Bertossi. Intanto ieri l’assessore regionale del Friuli Lodovico Sonego ha confermato di aver incontrato Sandro Fasulo che gli ha spiegato l’intervento della Stefanel a Lignano. Ma se per l’ampliamento del campo da golf la linea della Regione era favorevole, per quanto concerne la realizzazione di un albergo e di seconde case per un volume di duecentomila metri cubi sarebbe stato un intervento che politicamente non sarebbe mai passato.

Il riconoscimento alla persona giusta. E’ sempre Carlin a parlare: «Il ruolo che sta svolgendo, che può svolgere e che svolgerà la persona che sappiamo, sappiamo, è un ruolo non dico decisivo, perchè nessuno è decisivo, ma estremamente importante per voi, per noi, per tutti dentro l’operazione!». Per questo ci vuole un riconoscimento per la persona che non è difficile individuare in Andrea Mariotti, il tecnico del comune di Lignano arrestato mentre incassa 10mila euro da Carlin. «...perchè la vicenda della strada si era un po’ imbambolata e poi lui l’ha incanalata, allora adesso... già all’epoca ma in questi ultimi tempi in maniera più insistente, mi dice... io riterrei che, senza grandi pretese, insomma, un riconoscimento personale vorrei averlo», continua Carlin che aggiunge: «...non amo parlare col portafoglio altrui... rispetto all’entità della partita è un’indicazione contenuta....». A quel punto s’inserisce Fasulo che è convinto che Mariotti sia già stato pagato: «Come avevo un po’ accennato anche a te Fulvio ieri... che io ero convintissimo e questo in realtà è testimoniato voglio dire anche da voi, che determinati interventi fatti andavano anche a beneficio di questo signore».

L’imbarazzo di parlare della mazzetta. «Personalmente devo dire che non... non mi sembra che abbiamo mai detto né con lei né con altri una cosa del genere...», spiega Carlin. Gli fa eco Lorigiola: «... diciamo che questo è stato un argomento sempre toccato, passatemi il termine, di striscio». Perchè stando a Carlin: «E’ sempre delicato parlarne e imbarazzante».

Poi Lorigiola spiega di aver mandato una mail a Guzzo, Nel quale precisa i compensi per sé e per Carlin: 250mila euro a testa. Che Guzzo crede siano comprensivi di tutti gli interventi. Mail data da Guzzo anche a Tito Berna. Sentito dagli inquirenti Berna, ad della Stefanel, avrebbe confermato di essre stato a conoscenza del pagamento di mazzette. E chissà se anche Giuseppe Stefanel ha confermato questo.

Quella volta di Caorle. Vecchi amici Carlin, Lorigiola e Guzzo. Infatti lavorarono insieme anni addietro in occasione dei «comparti centrali». Parla sempre Carlin: «... mi facesti un ragionamento... partendo da Caorle, dai comparti centrali... dove il signor Guzzo era tra i protagonisti... e mi dicesti... c’erano delle cose là... erano altri anni, c’era anche una divisa diversa... e portato alla divisa di adesso, agli anni di adesso le tue... potrebbero arrivare a due e cinquanta...».

In questa occasione che Carlin riconosce a Lorigiola il copyright del «rito padovano» introdotto anche nel Veneziano. Era il 1997 e secondo Carlin Lorigiola doveva chiedere di più proprio per il copyright. Durante la chiaccherata Carlin afferma di aver creduto che i «politici» del Comune fossero controllati dalla società. Nella discussione che nasce sull’operato di Mariotti, Fasulo sostiene che ha il «braccino corto», che rallenta il lavoro. Tutti convengono che è «burocratizzato».

Accelerare perchè dopo «se magna». Fasulo ha la necessità di velocizzare l’operazione. Tutta la documentazione deve essere pronta prima della Pasqua 2008. Bisogna prendere l’esempio dell’intervento per la realizzazione, tre anni fa, di una piscina e di un palasport, sempre a Lignano, in occasione di Eiof, i giochi europei della gioventù. A questo punto interviene Guzzo che dice: «perchè lei abbia dei step... sarebbe opportuno che avvocato allora...dieci adesso e il resto all’obiettivo». E Carlin aggiunge: «alla fine si fa...la fine è la delibera della Giunta regionale che approva l’accordo di programma». E Fasullo chiosa: «Dividiamo il pollo». Al che l’avvocato Lorigiola compiaciuto commenta: «E dopo se magna!».

Città antica, passeggiata nel futuro

Katia Ghilli, Il Tirreno, ed. Piombino-l’Elba, 29 settembre 2007

Un’anima moderna per la “città antica”, dove al posto degli ex licei, costruiti alla metà del secolo scorso, nascerà una residenza turistico-alberghiera con una concezione architettonica di ultima generazione e di respiro europeo. Al posto delle ex officine Ipsia ci sarà una biblioteca dove girare liberamente tra gli scaffali, prendere un libro usando la tesserina magnetica, oppure guardarsi un film, mentre tutt’intorno si respira il profumo della saggezza. Anche qui antico e moderno si fondono: le mura leonardiane saranno quelle di una parte della biblioteca, verrà valorizzato il vecchio chiostro cinquecentesco, ci sarà un grande giardino pensile che collegherà il centro storico con via Leonardo da Vinci.

Sono questi i tratti essenziali del programma d’intervento dal titolo “Città antica” che è stato presentato giovedì scorso all’interno della sala conferenze di via Cavour. «Per questo restyling - spiega l’assessore all’urbanistica Luciano Francardi - abbiamo pensato d’inserire il nuovo nell’antico, come altre realtà hanno già fatto, ad esempio Parigi, con la piramide di cristallo vicino al Louvre. Vogliamo che questi luoghi tornino a vivere, a essere una sorta di agorà, dove ritrovarsi e discutere».

Nella sala della biblioteca, affollata di gente, cala il buio ed appaiono immagini e planimetrie di come sarà la nuova biblioteca alle ex officine Ipsia e di come verranno trasformati la piazzetta dei Grani e gli ex-licei. La platea ascolta con attenzione l’architetto Salvatore Re dello studio di architettura “Leonardo” di Pisa, incaricato della progettazione. Ed in particolare misura ogni parola usata per spiegare come diventerà la piazza con i tre piani interrati di parcheggio (che “inghiottirà” le auto solo da un lato per limitare al massimo rumori e traffico), dove nasceranno nuove piccole aree per il commercio al dettaglio.

Quando in sala tornano le luci riprende il dibattito: alcuni rappresentanti del comitato del centro storico contestano l’idea di fondo del progetto, non piace la concezione moderna del grande albergo che sovrasta la piazzetta, dei nuovi negozi con vista mare, della possibilità di doversi comprare i parcheggi per avere un posto auto. C’è chi fa notare che il Comune dovrebbe invece farsi promotore, tramite le banche, di un progetto di ristrutturazione del centro storico, a carico dei singoli privati, attraverso prestiti a tassi agevolati.

Comune e progettista respingono le accuse, ricordano che in questo spicchio di centro storico c’è ben poco di antico e di pregiato, a parte il cuore delle ex officine Ipsia. Viene anche ricordato che il piano integrato d’intervento è uno strumento urbanistico dove i privati si mettono in rapporto con il privato per realizzare progetti di grande interesse pubblico. Martedì prossimo il progetto approda in consiglio comunale per l’adozione.

«Piazza dei Grani, quel progetto non ci piace»

Il Tirreno, ed. Piombino-l’Elba, 1° ottobre 2007

All’associazione “Dentro le mura”, costituita dagli abitanti del centro storico, il restyling di piazza dei Grani così come è stato presentato venerdì scorso dagli assessori Francardi e Dell’Omodarme, proprio non piace. Critiche oggettive al progetto, ma anche ai modi e ai tempi della presentazione, pochi giorni prima del suo approdo in consiglio comunale, che lo discuterà appunto domani.

«Sono stati noncuranti dell’opinione dei cittadini che vivono nell’area di ristrutturazione - dice l’associazione - Alle contestazioni dei cittadini che spiegavano i loro dubbi e chiedevano quindi ulteriori spiegazioni gli assessori hanno risposto con leggerezza sostenendo che quello è il progetto e così verrà fatto».

E Il progetto? «Il cittadino - dice “Dentro le mura” - ha il diritto di sapere costa sta accadendo, ha il diritto di capire e di chiedere modifiche. E noi che viviamo qui dobbiamo solo accettare le decisioni prese dai vertici? Dov’è il secondo progetto da poter confrontare? Forse costa? Ma questo crediamo non sia un problema per l’amministrazione comunale da quello che abbiamo visto, un progetto così esoso ed esasperato poteva essere ben sostituito da un paio di progetti molto più umani e vivibili anche per noi e non solo per chi deve venire, legati a storie antiche e al ritorno di quella realtà che con passione possiamo ricostruire».

Per l’associazione «i cittadini non sono degli sciocchi creduloni, anzi capiscono tutto e sono sempre pronti a collaborare. Facciamo comunque i complimenti all’architetto per il fantasioso e creativo progetto della futura biblioteca, vista da noi armonica con la nostra città e ai suoi abitanti e così potrebbe essere in tema tutto il resto».

«Non riusciamo a capire - psoegue l’associazione - perché ci presentano progetti quando tutto è stato ormai deciso. L’indignazione è alta, per noi è come se qualcuno fosse entrato in casa nostra e avesse spostato tutte le nostre cose senza chiederci il permesso. Purtroppo è sempre più spiacevole constatare che il cittadino sempre più deluso, riprovi ogni volta a collaborare con l’amministrazione comunale per poi rendersi conto che non c’è concertazione».

Così “dentro le mura” chiede alla giunta «di rimandare l’adozione del progetto perché tutto ciò è poco democratico e palesemente troppo già deciso», e di riprendere «il dialogo con i cittadini, che ne hanno tutto il diritto. E se rispettate i vostri elettori dovreste concederlo».

L’associazione “Dentro le mura” fa sapere infine di essere già al lavoro sul progetto e sulle schede tecniche, annunciando anche di valutare l’ipotesi «di coinvolgere i comitati di Asor Rosa” che di recente sono intervenuti sulla realizzazione di una Residenza turistica nella zona di Fonte di sotto, a Campiglia.

Progetto Città antica nella bufera

Il Tirreno, ed. Piombino-l’Elba, 2 ottobre 2007

«Cittadini esclusi dalle scelte e progetti già decisi, procedure poco chiare». L’impressione emersa dall’incontro pubblico del Comune sulla “Città antica” anche secondo il Forum della democrazia. «Un titolo - si aggiunge nel documento - smentito dal progetto presentato dall’assessore Francardi e dall’architetto Re a proposito della ristrutturazione del complesso biblioteca-liceo-piazza dei Grani, che propone costruzioni moderne a carattere commerciale e residenziale con soluzioni architettoniche contrastanti con il valore storico del sito, riducendo la vivibilità di un luogo molto importane per i piombinesi». Al Forum «non sembra qualificante per l’immagine di Piombino costruire un residence nel suo centro storico, demolendo gli edifici esistenti per ricostruire appartamenti e attività commerciali, mentre si dovrebbe tutelare un luogo come piazza dei Grani, che rappresenta un collegamento storico e ideale tra la città e il suo mare».

«Sembra urgente evidenziare - si puntualizza - che il piano di recupero “città antica” pone, ancora una volta, un problema di democrazia. Non si può presentare un progetto secco, senza alternative, e appena quattro giorni dopo adottarlo in consiglio. Perché questa fretta? Qual è il ruolo del privato? È stato chiesto il parare della Soprintendenza? Sarebbe stato più normale coinvolgere i cittadini nell’elaborazione, anziché chiamarli a cose fatte. La partecipazione dovrebbe essere un metodo utilizzato da amministrazioni democratiche, invece si ha paura della partecipazione, come se essa fosse una complicazione o rischiasse di mettere in crisi interessi e decisioni già prese».

«Di fronte alle critiche emerse nell’incontro e alla contrarietà degli abitanti del centro storico - si conclude - invitiamo il sindaco e la giunta a sospendere l’adozione del progetto, a mettere il piano a disposizione dei cittadini e ad aprire una discussione sul futuro di questa importante parte della città».

Oscar Mancini. Una moratoria per il Dal Molin, L’Unità, 28 settembre 2007

«Nessuna deroga alla lotta fatta solo con le armi dell'amore e della non violenza».

Lo scrivono ventun autorevoli parroci vicentini contro il Dal Molin.

“E' gelo tra il sindaco e la curia” titola la notizia il più diffuso quotidiano cittadino. Vicenza.

Ancora Vicenza: che fastidio! Con tutti i problemi che ha questo governo ci mancava la ripresa del movimento contro la costruzione della nuova base americana.

E' bastato un vuoto di notizie di qualche mese per rimuovere il tema dall'agenda politica. Eppure, piaccia o no, è fin troppo facile prevedere che non passerà molto tempo prima che i riflettori tornino a riaccendersi sulla città del Palladio.

Il grande appuntamento è fissato per il 15 dicembre. Per quella data il movimento “NO DAL MOLIN” ha indetto una manifestazione europea.

Come risponderà la politica? AN e Lega non hanno dubbi: “La manifestazione deve essere fermata” hanno intimato al Ministro Amato, pena assistere impotenti alla calata dei “Lanzichenecchi da tutta Europa”.

Un rigurgito autoritario di chi spera negli incidenti per poi criminalizzare tutto il movimento.

Un movimento composito, eterogeneo, trasversale, percorso al suo interno da una dialettica tutt'altro che trascurabile. Ma nei momenti cruciali, le varie anime del movimento hanno sempre saputo mettere l'accento sul suo carattere unitario, plurale, pacifico.

Molti l'hanno definito “movimento comunitario” che riassume ed interpreta una domanda di partecipazione insoddisfatta.

Una relazione frustante con la politica e lo stato, per dirla con Ilvo Diamanti. Fra lo stato centrale e la periferia, ci spiegano i federalisti. Ma soprattutto, io penso, rispecchia le difficoltà del centro-sinistra di capire e di farsi capire.

Nessun membro del governo, dopo oltre un anno e mezzo di lotte, ha mai sentito il dovere di incontrare le rappresentanze dei cittadini, di aprire un canale di comunicazione.

In questo contesto, appare ancor più meritevole la scelta compiuta da una folta delegazione dei parlamentari europei e nazionali della “sinistra italiana” di mantenere aperto il dialogo con la città.

L'incontro promosso nei giorni scorsi dai gruppi parlamentari della Sinistra Democratica, dei Verdi, di Rifondazione e dei Comunisti italiani è stato una proficua occasione di dialogo con tutte le anime del movimento.

Un confronto non sempre facile, soprattutto con l'ala più radicale del movimento, ma indispensabile per mantenere aperto un canale di comunicazione con la rappresentanza politica e istituzionale.

Quanto mai necessario alla vigilia della marcia Perugia Assisi sulla quale è calato quest'anno un silenzio assordante: “Forse il movimento della pace è invisibile?” si chiede furente Flavio Lotti. Noi a quella marcia ci saremo per ricordare che la base militare di Vicenza, rischia di diventare una delle più grandi basi operative del Mediterraneo, destinata ad ospitare aerei e truppe in partenza per ogni fronte di guerra in Medio Oriente.

Che la nuova base comporta ricadute ambientali, sociali e urbanistiche gravi per la città e pone seri problemi di vivibilità per la cittadinanza, che si è schierata apertamente contro la decisione.

Che la base di Vicenza è un importante e inquietante aspetto di una progressiva escalation militare in Europa. I recenti dibattiti sull'installazione dello “scudo missilistico” in Repubblica Ceca e Polonia hanno aperto una riflessione più ampia sulla natura democratica dei processi decisionali delle strategie di politica estera e di difesa europea nel sistema di alleanze con la NATO e gli Stati Uniti d'America.

É in atto una pericolosa corsa agli armamenti, una preoccupante inversione rispetto al percorso di smilitarizzazione dei territori europei, condivisa e decisa insieme alle comunità locali.

Non è dunque con una strategia di “riduzione del danno” che il governo potrà dialogare con Vicenza. Il commissario Paolo Costa se ne faccia una ragione.

Una via d'uscita ragionevole ci sarebbe: una moratoria.

Magari accompagnata dalla riduzione delle spese militari nella finanziaria 2008, più che giustificata, considerati gli aumenti della finanziaria precedente. Sarebbe un buon viatico per un governo in preoccupante caduta di consenso. Una moratoria potrebbe restituire un poco di fiducia nelle istituzioni.

Si consideri che la maggioranza dei vicentini ha disertato le urne alle recenti elezioni provinciali. Una moratoria almeno fino alle prossime elezioni comunali è più che giustificata.

Il vicepresidente del Consiglio Rutelli, qualche settimana fa, ha giustificato lo sciagurato “editto di Bucarest” con il via libera del Consiglio Comunale di Vicenza. Quel Consiglio Comunale è delegittimato. Lo riconosce lo stesso sindaco quando afferma che la maggioranza dei vicentini è contraria alla base.

Manca meno di un anno alle elezioni. Il governo ne potrebbe uscire senza perdere la faccia.

Vicenza e l'Italia custodiscono una grande ricchezza d'impegno diretto per la pace e la democrazia che non può essere ignorata per presunte superiori ragioni di stato.

Al contrario, sono convinto che quell'enorme capitale umano, costituito dai cittadini che si battono per la pace, quelle indomite energie che da una piccola città di provincia si sono sprigionate riscuotendo simpatia in Italia, in Europa e finanche negli USA, potrebbero aiutare la politica estera del nostro paese e renderla più forte di quanto non sia.

Peppe Sini,Una storia semplice, Supplemento “Coi piedi per terra” n. 33 del notiziario “La nonviolenza e’ in cammino”. 1 ottobre 2007

So che è inelegante, ma devo chiedere al cortese lettore e alla gentile lettrice non solo di voler dedicare la loro attenzione a quanto di seguito si narra, ma di voler arrivare fino in fondo, e di trarre da quanto qui esposto le conclusioni che ne discendono.

Poiché qui si allineano dei fatti, e si demanda alla chiara intelligenza e alla volontà buona di chi legge di trarne le conseguenze logiche e pratiche.

Un comitato, alcuni nomi

Esiste un “Comitato per l’aeroporto di Viterbo”. Ne è presidente l’avvocato Giovanni Bartoletti, ne è vicepresidente il signor Stefano Caporossi, ne è segretario il signor Maurizio Pinna. Questo comitato ha un sito internet ( www.aeroportoviterbo.it) che presenta molti materiali propagandistici.

Giovanni Bartoletti è un dirigente locale di Alleanza Nazionale. Stefano Caporossi è presidente della V circoscrizione di Viterbo, di Alleanza Nazionale. Maurizio Pinna è consigliere della V circoscrizione, di Alleanza Nazionale.

Un’impresa, alcuni nomi

Esiste - o è esistita - con sede legale a Roma una società denominata “Mediterranea Skyward Aviation”. Nel sito tuttora visitabile ( www.mswa.it) nella home page essa si presenta così: “Mediterranea s.r.l. è una società di servizi aeronautici che svolge attività di intermediazione...”. E più innanzi: “La società svolge anche attività di lavoro aereo, aerotaxi, voli sanitari e fornisce servizi di consulenza prevenzione incidenti ed assistenza legale, investigativa e peritale aeronautica per il tramite di uno studio associato ad essa collegata...”.

Nel medesimo sito, alla pagina web “Chi siamo” si legge “Siamo un team di operatori aeronautici che si è costituito in società per fornire servizi di avanzata specializzazione in particolare nei campi dell’organizzazione, della regolamentazione, della formazione professionale, della sicurezza del volo e del diritto aereo, avvalendosi di collaboratori esterni di larga esperienza nazionale ed internazionale. Alla Società fa capo un Amministratore Unico”. Segue l’organigramma: “Amministratore Unico Dott. Bruno Barra; Pilota Av. Commerc. Dott. Emilio Gentile; Pilota Av. Gen. Stefano Caporossi; Avvocato Giovanni Bartoletti; Revisore dei conti Massimo Liberati; Pilota Istruttore Av. Commerc. Roberto Niutta”.

Il dottor Bruno Barra ha ricoperto incarichi direttivi e di responsabilità sia presso unità periferiche che presso organi centrali della Difesa ed ha partecipato alla fase riorganizzativa dei servizi di Assistenza al Volo in Italia (1979-’82) presso il Commissariato per l’Assistenza al Volo del Ministero dei Trasporti dove ha ricoperto l’incarico di responsabile dell’Ufficio ispezioni ed inchieste; è stato assessore alla Provincia di Viterbo di Alleanza Nazionale, nonchè presidente dell’Ater (ex-Iacp) di Viterbo in quota Alleanza Nazionale. A lungo dirigente di Alleanza Nazionale, nell’ottobre 2006 è passato da Alleanza Nazionale a Forza Italia. Da fonti di stampa (“Il messaggero” del 10 ottobre 2006) si apprende che non sarebbe più amministratore unico della Mediterranea srl. Bartoletti è lo stesso Bartoletti di cui sopra.

Caporossi è lo stesso Caporossi di cui sopra.

Un’associazione, e il suo presidente

Esiste a Viterbo, come in tante città d’Italia, un Aeroclub di appassionati del volo. Ne è presidente da anni Stefano Caporossi. Lo stesso Caporossi.

La finanziaria di Berlusconi e un senatore viterbese

Nella Finanziaria 2005 dal governo Berlusconi, attraverso l’emendamento di un senatore viterbese, Michele Bonatesta, di Alleanza Nazionale, vengono previsti oltre tre milioni di euro per l’aeroporto di Viterbo.

Due delibere della giunta comunale: la prima...

In data primo dicembre 2005 il Comune di Viterbo con delibera di Giunta n. 743 avente a oggetto: “Realizzazione degli interventi infrastrutturali per il completamento dell’apertura al traffico civile dell’aeroporto militare di Viterbo - impegno alla subconcessione di aree e manufatti in favore della Mediterranea Skyward Aviation srl” (presenti oltre al sindaco Giancarlo Gabbianelli - di Alleanza Nazionale - tutti gli assessori, tranne Marco Maria Bracaglia - che rappresenta il Comune nella società pubblica Savit spa, costituita da Comune, Provincia e Camera di Commercio di Viterbo per gestire l’aeroporto), dopo aver premesso che “sono da tempo state avviate le attività preliminari finalizzate alla ristrutturazione dell’aeroporto militare di Viterbo al fine di consentirne l’apertura al traffico civile; che conseguentemente e con riferimento a quanto previsto dall’art. 1 commi 28 e 29 della Legge 30.12.2004 n. 311 (legge finanziaria 2005) relativamente ad interventi diretti a promuovere lo sviluppo sociale ed economico del territorio, con decreto 18.3.2005 del Ministero dell’Economia e delle Finanze il Comune di Viterbo è stato individuato come beneficiario di un contributo statale finalizzato alla realizzazione delle opere necessarie per consentire l’apertura al traffico civile dell’aeroporto militare;”... “rilevato altresì che sull’aeroporto di Viterbo, stante l’esiguità del sedime disponibile, le uniche aree adatte per la realizzazione delle opere finanziate ricadono in maggior parte su quelle già pre-assegnate - a seguito dell’istanza in tal senso presentata il 16.10.2003 - dall’Enac alla società Mediterranea Skyward Aviation s.r.l. di Roma al fine di avere una base operativa sulla piazza di Viterbo;”... decide infine di “assumere, pertanto, l’impegno a concedere alla Mediterranea Skyward Aviation s.r.l. di Roma in subconcessione, a valore nominale da definirsi a tempo debito, le stesse aree precedentemente richieste dalla società in concessione all’Enac, unitamente - non appena eseguiti - ai manufatti che ivi insisteranno in tutto o in parte”. Sottolineiamo: “unitamente - non appena eseguiti - ai manufatti”.

... e la seconda

Subito dopo, con delibera di giunta n. 744, sempre del primo dicembre 2005, avente a oggetto “Realizzazione degli interventi infrastrutturali per il completamento dell’apertura al traffico civile dell’aeroporto militare di Viterbo - impegno alla subconcessione di superfici in favore dell’Aero Club di Viterbo”, la Giunta Comunale di Viterbo (sempre tutti i medesimi presenti, con l’assenza di Bracaglia), fatte analoghe premesse e “rilevato altresì che sull’aeroporto di Viterbo, stante l’esiguità del sedime disponibile, le uniche aree adatte per la realizzazione delle opere finanziate ricadono in parte su quelle già concesse all’Aero Club di Viterbo e destinate ad uffici e sede”, delibera infine di “assumere, pertanto, l’impegno a concedere all’Aero Club di Viterbo in subconcessione, sulla base di un valore nominale da definirsi in seguito, le stesse superfici di uffici...”.

Il sindaco, la sua coalizione e un po’ di storia

Il sindaco Giancarlo Gabbianelli è stato per molti anni principale dirigente viterbese del Msi, ed a lungo ha svolto il ruolo di consigliere d’opposizione in Consiglio comunale; governa ora da anni la città con una coalizione che comprende, oltre ad Alleanza Nazionale, Forza Italia e l’Udc: dell’Udc attualmente è magna pars in Consiglio comunale quel Rodolfo Gigli detto Nando già sindaco di Viterbo, presidente della Regione, poi anche parlamentare, che è stato per decenni il vertice operativo del sistema di potere andreottiano a Viterbo (mentre Rodolfo Gigli attualmente è nel centrodestra, il fratello Ugo - direttore dello Iacp, ora Ater, di Viterbo - è stato negli ultimi anni e fino a tempi recenti assessore alla Provincia nella coalizione di centrosinistra, e il ventennale delfino di Gigli nella Dc e anch’egli già sindaco di Viterbo Giuseppe Fioroni è attualmente Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Prodi; sulle vicende del sistema di potere andreottiano nel viterbese e sulla penetrazione mafiosa a Viterbo nei decenni del potere andreottiano si vedano varie pubblicazioni di chi scrive queste righe e riassuntivamente almeno Modello di sviluppo, sistema di potere, penetrazione mafiosa, Viterbo 1989; Il caso Gigli-Icem, Viterbo 1991; Regime della corruzione e penetrazione dei poteri criminali nell’Alto Lazio, Viterbo 1993; Sistema di potere andreottiano e penetrazione dei poteri criminali a Viterbo. Dieci note bibliografico-documentarie, Viterbo 1995).

Dieci mesi dopo

Passano dieci mesi dalle due delibere. E ne devono essere successe di cose. In Alleanza Nazionale viterbese continua una lotta interna senza esclusione di colpi che si prolunga da molti anni. Barra passa fragorosamente da Alleanza Nazionale a Forza Italia.

Il 2 ottobre 2006 su precedente richiesta dei gruppi consiliari di opposizione si riunisce in Comune la seconda commissione consiliare permanente per ascoltare i vertici della Savit. Dopo l’incontro i gruppi consiliari di opposizione (tutto il centrosinistra) diffondono un comunicato, pubblicato sul sito informativo locale “Tusciaweb” il 4 ottobre 2006, in cui tra l’altro si afferma che “la giunta Gabbianelli - con un atteggiamento politico unilaterale - di fatto ha espropriato la Savit di un ruolo effettivo” e si chiede “che senso ha avviare una procedura amministrativa unilaterale, tortuosa e discutibile, di impiego delle risorse pubbliche disponibili (tre milioni di euro ex Finanziaria 2005) su aree in sub-concessione di terzi privati al di fuori di una programmazione coerente con gli impegni societari e parasociali sottoscritti in ambito Savit?”.

Già, che senso ha? Se i consiglieri comunali d’opposizione si sforzano un po’, forse ci arrivano.

Sul quotidiano “Il messaggero” dell’8 ottobre 2006 compare una dichiarazione di Michele Bonatesta, non più senatore dopo le elezioni dell’aprile 2006, ed in guerra aperta con il sindaco Gabbianelli; nell’articolo siglato Re. Vi. si riferisce che “Dopo aver tuonato in lungo e in largo nei giorni scorsi, ieri Bonatesta ha investito gli assessori Antonio Fracassini (Lavori pubblici) e Marco Maria Bracaglia (Bilancio) al grido: ‘Dimettetevì. E il motivo è presto detto: quella delibera del dicembre 2005 con la quale Palazzo dei Priori subconcede alla società Mediterranea Skyward Aviation aree e manufatti dello scalo, che è, a suo dire, il presupposto amministrativo per dirottare sulla società di Stefano Caporossi i tre milioni di euro, inseriti nella Finanziaria 2005 proprio grazie a un emendamento presentato... dall’ex parlamentare”. E la dichiarazione di Bonatesta si conclude con le seguenti parole: “Noi non abbiamo nulla - conclude Bonatesta - contro la Mediterranea: i privati perseguono i loro legittimi interessi alla ricerca del massimo profitto, anche se a volte non possono coincidere con quelli della collettività. Il problema sorge quando sono gli amministratori a non apparire in grado di garantire gli interessi altrettanto legittimi del proprio territorio e dei propri amministrati”. Che detto dal senatore che fece inserire nella Legge Finanziaria quei tre milioni e passa di euro è davvero una esternazione alquanto interessante. E c’è di più.

Intermezzo: come si scrivono le leggi finanziarie

Replicando a Bonatesta sul “Messaggero” del 10 ottobre 2006 quel Barra di cui sopra (e che nell’articolo che ospita la sua replica viene definito “già amministratore unico della Mediterranea”) rivela che dell’emendamento Bonatesta - quello che stanziava oltre tre milioni di euro per l’ampliamento dell’aeroporto di Viterbo - “avevo curato il dispositivo tecnico”. Non c’è bisogno di tradurre in lingua corrente.

Il sindaco rivendica

Ci si aspetterebbe che il sindaco di Viterbo respingesse con sdegno l’esplicita accusa di aver di fatto esautorato la società pubblica Savit (di cui il Comune è socio al 33% insieme a Provincia e Camera di Commercio che detengono anch’esse un pari numero di quote ciascuna), e di averlo fatto a vantaggio di una società privata di cui sono magna pars esponenti del suo stesso partito.

E invece il sindaco di Viterbo in una intervista apparsa sul quotidiano “Il messaggero” del 31 ottobre 2006 alla soave domanda del giornalista: “Ma quella di far gestire i fondi a una società vicina ad An, e non alla Savit, è una mossa autoreferenziale”, risponde serafico: “È l’unica società che ha un sedime vicino all’aeroporto”. Più chiaro di così.

E subito aggiunge: “Ma nessun timore: sia per la gestione che per l’ultimazione verranno effettuate gare d’appalto europee. E già sono arrivate le prime richieste. Anche perchè, lo ripeto: Viterbo diventerà a breve un aeroporto per voli low cost”. Si noti: “per la gestione” e “per l’ultimazione”. E si noti ancora: “sono arrivate le prime richieste”. Nei giorni successivi seguono flebili commenti di altre figure istituzionali, la riunione pacificatrice che non si nega a nessuno, e nessuno più fiata.

L’amministratore imprenditore

In un intervento apparso l’11 dicembre 2006 sul sito d’informazione locale “Tusciaweb” Stefano Caporossi dapprima premette che “parlo da amministratore e nella qualità di imprenditore”, e poi prosegue “Sono presidente dell’Aeroclub da quattro anni; frequento l’aeroporto quotidianamente in quanto sono il responsabile di una scuola di volo per il rilascio delle licenze commerciali per piloti di linea... La pista di oltre 1500 metri è stata ultimata e può essere aperta all’aviazione generale per consentire l’atterraggio dei velivoli civili...”; poi elenca varie opere da realizzare e gli ingentissimi finanziamenti necessari “per conferire allo scalo aeroportuale la completa capacità operativa senza alcuna limitazione”, successivamente “annuncia la possibilità di ufficializzare la nascita della società Mediterranea Air Service...”, e trionfalmente conclude: “Il mio impegno... sarà quello di collegare inizialmente Viterbo con alcune regioni italiane ed europee...”.

La morale della storia

La realizzazione a Viterbo di un mega-aeroporto per i voli low cost del turismo “mordi e fuggi” per Roma provocherebbe gravissimi danni all’ambiente, alla salute delle persone, a rilevanti beni storico-culturali, sociali, economici.

Eppure certi propagandisti pro aeroporto, certi imprenditori pro aeroporto, certi pubblici amministratori e dirigenti politici pro aeroporto, sostengono che non c’è motivo di preoccupazione, che tutto va bene. Ed insistono perchè l’opera si realizzi al più presto, perchè si attinga al pubblico erario per ingenti finanziamenti.

Forse attraverso le brevi, fredde notizie che abbiamo allineato sopra (che ovviamente sono una minima parte della documentazione disponibile e di pubblico dominio) si capisce anche perchè.

[Peppe Sini, già consigliere comunale e provinciale, è stato tra gli anni ‘70 e ‘90 uno dei principali animatori del movimento che si opponeva alle servitù energetiche e militari nell’Alto Lazio, e il principale animatore del movimento che si oppose al devastante progetto autostradale della cosiddetta “Supercassia”; nel 1979 ha fondato il Comitato democratico contro l’emarginazione che ha condotto rilevanti campagne di solidarietà; nel 1987 ha coordinato per l’Italia la campagna di solidarietà con Nelson Mandela allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano; nel 1999 ha ideato, promosso e realizzato l’esperienza delle “mongolfiere della pace” con cui ostacolare i decolli dei bombardieri che dalla base di Aviano recavano strage in Jugoslavia; nel 2001 è stato l’animatore dell’iniziativa che - dopo la tragedia di Genova - ha portato alla presentazione in parlamento di una proposta di legge per la formazione delle forze dell’ordine alla nonviolenza; è stato dagli anni ‘80 il principale animatore dell’attività di denuncia e opposizione alla penetrazione dei poteri criminali nell’Alto Lazio; dal 2000 cura il notiziario telematico quotidiano “La nonviolenza è in cammino”]

Alberto d’Argenio, “Stop agli aerei che inquinano”

L’Ue riduce le emissioni di gas serra. Ma è scontro con Usa e Cina, La Repubblica, 1 ottobre 2007

BRUXELLES - Nuova puntata dello scontro sul cambiamento climatico tra Europa e Stati Uniti. Questa volta a scatenare la battaglia è stato il taglio delle emissioni dell’aviazione civile: gli Usa, spalleggiati da Australia e Cina, hanno guidato l’ammutinamento del resto del mondo contro la proposta Ue di applicare tetti vincolanti alle emissioni di Co2 nel settore aereo, provocando un muro contro muro che nei prossimi anni sfocerà in guerra aperta.

Il Vecchio continente, infatti, entro il 2012 metterà le compagnie aree extracomunitarie di fronte ad un bivio: o accetteranno la lotta al cambiamento climatico o non potranno più volare sui nostri cieli. Una posizione che Bruxelles ritiene giustificata dall’atteggiamento dell’amministrazione Bush, che anche nei negoziati sull’era successiva al Protocollo di Kyoto rifiuta l’adozione di target vincolanti nel taglio delle emissioni.

Lo scontro sui cieli è andato in onda a Montreal, dove nelle ultime due settimane le delegazioni provenienti da tutto il globo hanno partecipato all’assemblea dell’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile (Icao). Da un lato erano schierati i governi dell’Ue, appoggiati dagli altri 15 paesi della Conferenza europea dell’aviazione, tra cui Svizzera, Norvegia e Islanda, dall’altro il fronte anti-ambientalista, guidato da Usa, Australia, Cina e Arabia Saudita. Al centro dei negoziati c’era la strategia europea per applicare agli aerei di linea uno schema di emissioni come quello previsto da Kyoto, un tetto ai gas inquinanti da imporre alle compagnie Ue a partire dal 2011 e dall’anno successivo a quelle del resto del mondo che operano in Europa. La misura si inserisce nella strategia dell’Unione contro il surriscaldamento del pianeta (e i cataclismi che ne deriveranno), il cui obiettivo è quello di contenere l’innalzamento delle temperature entro i 2 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale. E il settore aereo è chiamato a fare la sua parte, visto che già oggi contribuisce al 3% delle emissioni nocive, una percentuale destinata a lievitare con l’aumento del traffico aereo, che raddoppierà entro il 2020.

«Siamo delusi dal risultato delle trattative e pensiamo che l’Icao abbia abdicato alla sua leadership nella lotta al cambiamento climatico, un fatto che ci preoccupa molto», ha commentato il portoghese Luis Fonseca de Almeida, rappresentate dell’Unione nei negoziati di Montreal. In effetti nella risoluzione finale adottata nella città canadese dei target obbligatori al taglio delle emissioni si parla solo come «possibile aspirazione». Ma non finisce qui: il testo, secondo alcuni osservatori adottato grazie alla «manipolazione» dei falchi sulle altre delegazioni, indica che l’Europa potrà imporre i tetti alle emissioni solo in presenza di accordi bilaterali con i paesi delle compagnie aeree.

Insomma, una bocciatura a tutto tondo che Bruxelles e i suoi alleati, quanto mai compattati dalla testardaggine degli interlocutori, hanno rifiutato con una riserva formale. Tradotto in parole povere: nel 2012 l’Europa imporrà unilateralmente il taglio delle emissioni anche alle compagnie straniere, che dovranno adeguarsi se vorranno continuare volare sui nostri cieli. Chi non sarà d’accordo, è la convinzione dei legali della Commissione Ue, non avrà alcuna possibilità di vincere un eventuale ricorso in tribunale.

Intanto a Bruxelles già nei prossimi mesi ci si preparerà allo scontro, con il testo del piano sull’aviazione che andrà all’esame dell’Europarlamento e dei governi con l’obiettivo di essere approvato nel 2008. E anche se la sua applicazione potrebbe costare alle tasche dei passeggeri fino a 40 euro a biglietto (cifra massima per le tratte più lunghe), non ci si aspetta un calo dei passeggeri o un danno rilevante al turismo continentale.

La piazza riprende il suo rango. È una specie di rivincita sui centri commerciali e sui borghi finto-antichi degli outlet, un riscatto dopo decenni in cui nessuno più le progettava, riducendole a quel che restava di spazio nelle città dopo aver innalzato edifici e tracciato strade. Un lavoro di ricerca durato tre anni, condotto da cinque università (lo Iuav di Venezia, il Politecnico di Barcellona, l'Università Jagellona di Cracovia, l'Aristotele di Salonicco e la Maison des Sciences de l'Homme di Parigi) con il sostegno della Comunità europea, sfocia ora in una mostra e in un convegno che si aprono oggi a Venezia, al Chiostro dei Tolentini, e che rilanciano la piazza come luogo principe della città pubblica, luogo avvolgente e ospitale, trascurato da quella parte dell'urbanistica del secondo Novecento che disegnava - e spesso continua a disegnare - l'espansione dei quartieri a misura della speculazione edilizia.

Il convegno, intitolato «Piazze d'Europa, piazze per l'Europa», si conclude con l'approvazione di una Carta delle piazze europee, un prontuario delle buone pratiche di conservazione e di progettazione (i restauri, le relazioni con il resto della città, gli usi compatibili, ma anche l'illuminazione, l'acqua, la pavimentazione, l'accessibilità, i materiali, il cablaggio, la vegetazione, il soleggiamento). Inoltre è stata elaborata una lista di sessanta piazze europee - dalla Finlandia alla Russia, dalla Gran Bretagna alla Polonia, all'Ungheria e alla Romania, dall'Italia alla Francia, alla Spagna e alla Grecia - rappresentative di buona concezione architettonica e urbanistica, ma soprattutto identificate come luogo di convivenza, di socialità e di creatività. E come simbolo di una città il cui senso è offerto dalla qualità degli spazi pubblici non mortificati dall'essere ritenuti terra di nessuno, oltre che dalla bellezza degli edifici.

La selezione dell'elenco è stata laboriosa, spiega Franco Mancuso, professore di Urbanistica a Venezia e, insieme a Luciana Miotto, coordinatore della ricerca, e ha lasciato fuori decine e decine di piazze meritevoli. La qualità monumentale o storico-artistica non è stata il criterio prevalente: non c'è piazza san Marco a Venezia, dove all'inestimabile bellezza corrisponde un uso turistico debordante, e figura invece piazza Erminio Ferretto di Mestre, fino a qualche tempo fa solcata dalle macchine che avevano sfigurato i suoi caratteri e ora risistemata, pedonalizzata e riconquistata come luogo di comizi e di concerti, ma prima di tutto come spazio accogliente, carico di senso civico e che ospita funzioni diverse, dal passeggio al mercato.

Il convegno è interdisciplinare, partecipano urbanisti come Mancuso o lo spagnolo Manuel Ribas, e storici come Bronislaw Geremek e Maurice Aymard, oltre a Fernando Caruso, che ha curato i rapporti con la Commissione Europea.

Da qualche anno, insiste Mancuso, le città del Vecchio continente riscoprono la piazza. Il fenomeno è sociale prima ancora che urbanistico e, a suo avviso, prende le mosse dalla Spagna del post-franchismo, Ma perché le piazze erano cadute in disuso? I motivi sono diversi: «Il piano urbanistico aveva perso la funzione del disegno complessivo e i progettisti avevano escluso la piazza dai loro interessi. Si erano assunti criteri quantitativi nell'espansione delle città, invece di preoccuparsi della qualità dello spazio». Questo è avvenuto in Italia, aggiunge Mancuso, ma non solo. «Nei grands ensembles in Francia, come nei nostri quartieri popolari, le nuove centralità erano gli edifici pubblici, le scuole, le chiese, molto meno le piazze, che per gli abitanti restavano quelle della città storica». Persino nella civilissima Amsterdam «si allestivano parchi bellissimi, giardini di vicinato, spazi per il gioco, strutture sanitarie efficienti, ottime piste ciclabili, ma niente piazze».

Se questo è successo nella capitale olandese, paradigma della corretta urbanistica, figuriamoci che cosa è potuto accadere negli inospitali insediamenti speculativi di Roma, Milano, Napoli, Palermo o Bari. Laddove si aprivano, le piazze apparivano come banali spazi vuoti, sprecati, oppure come l'effetto di esigenze commerciali ed erano separate dalle città da parcheggi, strade anulari e sovrappassi. Nulla di paragonabile alle vere piazze, che si sono costruite in Italia, ma anche in altri paesi europei, dal Trecento ai primi decenni del Novecento, dove si annodavano i tanti tessuti di una città: luoghi dotati di funzioni civili, come piazza del Campo a Siena o della Signoria a Firenze, politiche - tutte quelle su cui s'affaccia un Palazzo Comunale - ma anche religiose - le piazze del Duomo - e commerciali - le piazze Mercato o delle Erbe. Luoghi regolari o di forme strane, che interrompono il denso reticolo delle strade, facilmente accessibili, sulla sommità di un'altura o a valle di un pendio, con edifici monumentali o con opere d'arte, ma non necessariamente. Dall'età dei Comuni a quella delle Signorie, fino ai fasti barocchi e alla razionalità borghese otto-novecentesca, le piazze sono il fulcro o i fulcri della città. Cambia il modo in cui vengono adoperate, ma la caratteristica prima resta il multiuso.

«Le piazze delle città italiane, salvo poche eccezioni, restano quelle che la storia ha lasciato in eredità», aggiunge Mancuso. Ed è prevalentemente su queste che si sta lavorando cercando di renderle pedonali, per esempio - una condizione assolutamente indispensabile, dice l'urbanista. O rivedendo la pavimentazione, ammodernando i sottoservizi, usando materiali appropriati, riscoprendo l'acqua. Gli interventi che Mancuso suggerisce sono i più discreti possibili, orientati prevalentemente a sottrarre elementi poco congrui. Ma nella grande maggioranza dei casi l'unico precetto è: conservazione e restauro. Gli esempi di correttezza, segnalati da Mancuso, sono place Bahadourian a Lione, o le celeberrime place Vendôme a Parigi, plaza Mayor di Madrid, Staromestske Namesti a Praga, ma anche la piccola piazza della Libertà a Baia Mare, in Romania. Venendo all'Italia, ecco piazza Cavour a Vercelli, piazza Unità d'Italia a Trieste, piazza Santo Stefano a Bologna, piazza del Plebiscito a Napoli, svuotata dalle auto che la intasavano (e che ora qualcuno immagina di far tornare). Accanto a queste figurano piazza Roma a Carbonia, città di fondazione, costruita negli anni Trenta intorno alle miniere, piazza Vittorio Veneto a Galliate, provincia di Novara, o piazza Alicia a Salemi, nella valle del Belice, distrutta dal terremoto nel 1968 e che ora ingloba anche il rudere della Chiesa Madre, diventata la quinta scenica di un nuovo e al tempo stesso antico spazio aperto.

In Europa le piazze sono diventate un simbolo della riscossa democratica: oltre Madrid o Barcellona, Nowa Huta e Cracovia in Polonia, piazza della Repubblica a Belgrado. In questa rinascita le piazze sono lo sfondo non neutrale di molte iniziative. Per esempio incrociano l'effervescenza culturale dei Festival, come, in Italia, quello di letteratura a Mantova, di filosofia a Modena o di economia a Trento. Ma nel tempo sono diventate anche contenitori di arte contemporanea, sia con le installazioni temporanee, come in piazza del Plebiscito a Napoli, sia con opere fisse. «Ma l´importante è che l'arte non sia invasiva», segnala Mancuso, «come invece la statua realizzata da Costantino Nivola a Nuoro, oppure, più recentemente, la scultura, pur bellissima, di Mimmo Paladino che occupa tutta la piazza di Vinci: quella piazza è diventata essa stessa un'opera d´arte, ma ha perso la sua identità primordiale. Non è più il luogo della libertà dei comportamenti».

«Paesaggio ferito». Non solo un'inchiesta giornalistica per mostrare gli scempi che stanno trasformando un ambiente unico come quello di Como e del suo lago, ma anche interventi e riflessioni di personaggi che amano questa terra. Cominciamo con l'articolo dell'avvocato AntonioSpallino, già illustre sindaco di Como.

«Da quando, a tuo giudizio, si è manifestata una sensibilità nei confronti del paesaggio?». Scritta nel questionario consegnato il 29 agosto scorso ai docenti, ai giuristi, ai magistrati, agli operatori di mezza Europa partecipanti alla quarta edizione dell'Università d'eté - colloqui di Arosio sul Paesaggio, svoltasi a Erba, la domanda sembrava illividire dinnanzi alla documentazione raccolta dalla giornalista de La Provincia Sara Bracchetti e dal fotografo su molteplici iniziative edilizie visibilmente lesive del patrimonio paesistico delle sponde del nostro lago. L'iniziativa del direttore del quotidiano (Giorgio Gandola, Il ballo del mattone sul lago, del 26 agosto 2007) ha infatti portato allo scoperto il tessuto nervoso del fenomeno. Sembra di essere ritornati agli anni Cinquanta quando l'impetuosità della ricostruzione del Paese aveva contagiato anche l'area della rendita edilizia. Allora, in un contesto privo di pianificazione territoriale o solcato da sedicenti piani urbanistici, si poteva costruire per il triplo, il quadruplo, il decuplo delle esigenze ragionevolmente prevedibili nell'arco di un decennio. Questa è la Storia scritta, per esempio, da Leonardo Borgese nel volume L'Italia rovinata dagli italiani [...] 1946-70.

Oggi, quali sono le cause delle nuove inciviltà? Come affrontarle in sede locale? E qual è l'atteggiamento dei legislatori? Il tema è ovviamente di natura giuridica-normativa. Ma, forse meno ovviamente, esso è ancor prima culturale ed etico. Scorrendo la documentazione informativa e fotografica raccolta con efficace rigore ci si sente disputati tra stupefazione, amarezza, indignazione. La prima riflessione va ai piani regolatori urbanistici, generali e attuativi. Se, come è da presumere sino a prova contraria, le strutture fotografate e commentate sono "conformi" alle norme locali, i piani che le hanno permesse sono stati votati da amministratori consapevoli, cioè prevedendo gli effetti che essi avrebbero potuto produrre sull'ambiente circostante? Ciascun osservatore può porsi da sé le domande, inquietanti. Quei piani sono figliastri di amministratori pubblici locali subornati dalla ideologia dei "padroni in casa nostra"? O mal consigliati da tecnici sensibili più alla suggestione del ruolo di demiurgo che al dovere di servire la collettività attuale e in divenire? O, altrimenti, vittime dell'arrendevolezza al sapore del fare un piacere al prossimo? La responsabilità di coloro, quei piani, li hanno varati è enorme, anche perché irreparabile. Quei piani mettono a rischio anche «la memoria del futuro» (Stille) in una società nella quale la manifestazione di certa globalizzazione cancella le identità locali.

Perciò, non appena constatati i guasti derivati dalla (anche soltanto parziale) attuazione dei piani, o soppesati i guasti prevedibili, si sarebbe dovuto avviare con immediatezza la revisione dello strumento pianificatorio, per riprendere il governo sociale culturale del territorio, comprensivo del paesaggio. Non risulta che ciò sia avvenuto; e non ci si può giustificare a posteriori adducendo il fatto che la nuova legge urbanistica regionale n.12 del 2005 prevede che i Comuni sostituiscano i Pru con i nuovi strumenti in essa prescritti. In questo campo il dovere di agire tocca anzitutto ai sindaci, in quanto massimi esponenti della comunità di base.

Non si pretende dall'assessore comunale all'urbanistica o dal sindaco di essere urbanisti. Quella dell'urbanistica è materia interdisciplinare, che implica cognizioni di pianificazione territoriale e di architettura, di sociologia e di modellistica ambientale. Ciò che si pretende dall'amministratore pubblico è quel «primato del cuore, cioè della coscienza etica individuale» pronta a percepire e a difendere il bene comune, trascendendo i condizionamenti materiali e sociali, a prendere le distanze della situazione in cui è inserita, per interrogarsi sempre di nuovo sul senso del proprio agire. È questo il duro nucleo dell'esercizio del dovere-potere amministrativo.

Se non è sufficientemente forte la capacità di «conservare la memoria delle radici da cui proveniamo»; di «recuperare e sviluppare un atteggiamento contemplativo che renda sensibili agli appelli provenienti dalla realtà» naturale ed umana; di «conciliare potere e giustizia», allora è facile smarrire il senso della posizione umana, morale, spirituale, dell'amministratore: in altri termini, l'etica del lavoro pubblico. «Nessun paragrafo» di legge,«nessuna autorità può essere d'aiuto, se l'uomo non sente che la res publica, il bene comune di una esistenza umana libera e dignitosa è affidato nelle sue mani. Da qui nasce la fedeltà alle cose [...]». «Poter governare significa, dunque [...], ritrovare sempre quella misura così minacciata su cui dovrà poggiare [...] il benessere di tutti» (Guardini R. - il teologo tedesco che ha scritto anche Lettere dal Lago di Como - Il potere, 1951, commentato da Martini C.M., Responsabilità degli amministratori e Esiste un'etica del lavoro pubblico? pubblicati in “Verso la città”, 1984.

L'URBANISTICA: DALLA REGIONE AI COMUNI

La legislazione urbanistica, di stampo populistico o, ottimisticamente, ingenuo, emanata dalla Regione Lombardia a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, ha rassegnato, progressivamente, tutti o quasi i poteri ai Comuni all'insegna della «semplificazione, economicità ed efficacia». Ciò non ha aiutato certi amministratori a resistere alle pressioni o alle ambizioni locali. Nel nostro paese, purtroppo, più il livello decisionale è prossimo o contiguo agli interessi economici di taluni privati, più è alto il rischio di smarrire le finalità dell'esercizio del potere-dovere urbanistico. A quanti facevano presente il rischio di veder ripetere i disastri degli anni cinquanta, veniva replicato assiomaticamente che i Comuni «erano cresciuti» in senso di responsabilità e in cultura urbanistica. Gli spettacoli fotografati e censiti da questo giornale provano il contrario, nel caso dei Comuni esaminati lungo le sponde lacuali. La ricerca annunciata sulle "conurbazioni" della Bassa, darà, verosimilmente, analogo esito. È vero che nella pratica quotidiana si è stabilito un diffuso appiattimento della sensibilità, se non, addirittura, una strisciante ostilità (penso, per esempio, a certe voghe del mal vestire tra i giovani) verso l'idea di stile che a ciascuna epoca si forma. Ma è altrettanto vero che proprio la regione Lombardia, nell'esemplare Progetto di Piano Territoriale Paesistico Regionale del 1990 elaborato da tecnici e da studiosi di primo piano - quel progetto, peraltro, non fu mai approvato in sede politica - aveva sottolineato che «l'esigenza di tutelare la fruizione visiva del bene e del paesaggio è fondamentale in quanto, grazie ad essa, il cittadino sente o trova quei riferimenti che lo legano al territorio [?]» . «La pianificazione mira essenzialmente a tutelare questi scenari ed i loro elementi costitutivi in quanto riferimenti dell'identità lombarda, della sua stessa immagine estetica» (Regione Lombardia, Progetto di Ptpr, all. 2, Indirizzi normativi).

Nel luglio del 1996 la Giunta regionale aveva confermato questi principî su proposta dell'assessorato all'Urbanistica. Alla luce di queste premesse appare ancor più sconcertante il fatto che, neppure un anno dopo, la stessa Regione abbia sguarnito i Comuni dei presidi istituzionali sovraordinati - leggasi: le Soprintendenze - che garantivano, per competenza storica, l'oggettiva tutela del paesaggio. Ed è risultato impertinente - verrebbe fatto di dire «Senti chi parla...» mutuando il titolo di un recente volume sulle incoerenze di tanti «protagonisti» della nostra vita politica - l'inflazionato appello al principio di sussidiarietà recitato nel preambolo della legge regionale n. 18 del 1997, intitolata «Riordino delle competenze [?] in materia di tutela dei beni ambientali [?]. Subdeleghe agli enti locali».

Nella interpretazione filosofica e giuridica esso esprime il concetto per cui una autorità centrale avrebbe una funzione meramente di supporto nei campi in cui le autorità locali siano in grado di svolgere da sé certi compiti. L'esperienza di un decennio - il caso di Blevio è paradigmatico, nonostante l'espediente di giustificare il disastro dal compendio con una giustificazione «agronomica» (sic) - ha posto in luce meridiana il fallimento, quantomeno nei casi noti, della scelta politica di sostituire alle Soprintendenze i cosiddetti «esperti locali» con il conseguente potere di sbarazzersene se avessero espresso «pareri» non graditi, e di attribuire al Sindaco ogni potere in materia paesistica.

LA TUTELA DEL PAESAGGIO: EUROPA E ITALIA

Nel frattempo, il Consiglio d'Europa ha adottato la Convenzione Europea per il Paesaggio, e l'ha «aperta alle firme» degli Stati. L'Italia l'ha fatta propria nel maggio del 2006. Nell'esprimere parere favorevole, le competenti commissioni della nostra Camera dei Deputati, hanno sottolineato l'importanza della «più larga accezione del termine "paesaggio"» [...] «definito come parte di territorio, così come è percepito dalle popolazioni» [?] quale componente fondamentale dell'identità europea e del suo patrimonio naturale e culturale [?] nonché come parte integrante della vita delle popolazioni ed elemento imprescindibile della loro stessa qualità di vita». Contestualmente, essi hanno rimarcato che «la previsione dell'impegno dei paesi ad accrescere la sensibilizzazione dei diversi attori sociali rispetto ai valori paesaggistici, anche promuovendo la formazione di specialisti del settore, nonché programmi interdisciplinari di formazione e appositi insegnamenti volti all'educazione di valori del paesaggio e una approfondita conoscenza delle sue caratteristiche, in ambito scolastico e universitario». [...] «La promozione delle politiche paesistiche», concludeva il relatore, «è rafforzata anche dalla introduzione di un meccanismo premiale per le autorità locali e regionali e le organizzazioni non governative che si siano distinte nella messa in campo di misure esemplari e durevoli volte alla tutela e all'organizzazione dei paesaggi».

IL LEGISLATORE LOMBARDO: IL GRANDE ASSENTE

Attese tutte queste circostanze, dunque, come si giustifica l'indifferenza del legislatore lombardo per quanto sta accadendo? Altre riflessioni dovrebbero farsi sullo stato della legislazione nazionale, cominciando, a mio avviso, alla legge comunale e provinciale. In nome di un efficientismo che non necessariamente equivale ad efficienza il legislatore ha svalorizzato la possibilità di concorso effettivo di tutti i consiglieri alla formazione di alcune scelte pianificatorie e ha iperpotenziato le funzioni dei sindaci e degli assessori. I rischi che ne scaturiscono sono concreti là dove non governino sensibilità, autocritica e ricerca del sapere da condividere con l'intero consiglio. Lo spazio disponibile non consente di andare oltre.

LA CITTÀ E I SUOI VALORI

«La storia appartiene [...] a colui che sa conservare e venerare [...] le condizioni in cui è nato per coloro che verranno dopo di lui, e in questo modo serve la vita. Un'anima simile, più che proprietaria sarà proprietà del patrimonio degli avi» (Nietzsche, Considerazioni sulla storia). Esiste un profilo etico, della lettura della città così come del paese, che sovente ci sfugge e che l'affermazione di Nietzsche invece richiama. La città è più di uno scambio di beni. La città «vivente», la città «armoniosa» di Peguy (Marcel, Premier dialogue de la cité harmonieuse) è quella che sa «mettere in comune le persone intorno alle sue radici - la memoria collettiva nelle pietre e nella natura - e intorno alla forma del suo futuro - il progetto partecipato -. Non è soltanto un fatto estetico, è un fatto sociale quello che istituisce il legame comunitario capace di costruire nei cittadini il «senso di appartenenza» a quel luogo. Altrimenti, anche abitando in quel sito, ci si sente soli ed estranei. La città, così intesa, è lo spazio e il tempo che sono necessari allo sviluppo delle persone secondo alcuni valori. La bellezza è tra di essi. Non la bellezza come spettacolo osservato passivamente ma la bellezza come una delle funzioni per convivere.

«Consumare» la città è contemplarla attivamente, è dedicarsi ad essa, entrare in dialogo con essa, ascoltare cosa ti dice. Nel vissuto quotidiano, non potrebbe spiegarsi altrimenti il sentimento di fierezza che provano coloro i quali la vivono con quell'atteggiamento quando ne sentono gli elogi, e il sentimento di amarezza che patiscono quando ne ascoltano i biasimi. L'uomo che non si mette al servizio di questa convivenza, che non condivide questa storia, non può scoprire il prossimo, e quindi sé stesso e la città e la sua anima. L'ideologia dello sviluppo quantitativo - produrre di più per consumare di più, secondo una legge di preteso «progresso illimitato» della quale stiamo patendo i costi, ad esempio con i mutamenti climatici, la liquefazione dei ghiacciai, la desertificazione di vaste aree - non permette di comprendere la totalità del senso della vita, e quindi l'anima della città nel tempo. «Vivere in dialogo con la città»: questo fa della città un bene pubblico, indipendentemente dalla proprietà dei singoli edifici dei privati (J.Comblin, Théologie de la ville, 1970).

Invertiamo i termini impiegati da Nietzsche: siamo consapevoli di essere gli «antenati» dei nostri discendenti ? E, come tali, di essere i «legatari» non i proprietari delle bellezze culturali e naturali che, senza titolo, abbiamo ricevuto in dote? E di avere quindi il dovere morale di trasmetterle ai nostri figli, quelle ricchezze, possibilmente accresciute? Ce lo ricordava oltre seicento anni fa Santa Caterina da Siena, oggi Patrona d'Italia e d'Europa, nell'esortazione inviata a quindici «Signori Difensori del Comune» (Lettera 121). E incalza: «Vogliate che la margarita» (la perla) «della giustizia sempre riluca nei petti vostri, levandosi da ogni amor proprio, attendendo al bene universale della vostra città, e non propriamente al bene particolare di voi medesimi. "Perocchè, colui che ragguarda solamente a sé, non osserva la giustizia, anco, la trapassa, e commette molte ingiustizie [ ? ]». «Questi tali, dunque, non son buoni né atti a governare altrui, perché non governano loro». Nella concezione spirituale della santa, la città terrena non è un possesso di chi l'amministra. Essa è una «città prestata». «Colui che signoreggia sé, la possederà come "cosa prestata" e non come cosa sua. Guarderà la prestanza della signorìa che gli è data con reverenza di colui che gliela diè [?] Or con un [?] vero timore voglio che la possediate [?] come cosa prestata. (Lettera 372). «Adunque, per verune signoríe che abbiamo in questo mondo, ci possiamo reputare signori. Non so che signorìa possa essere quella che mi può essere tolta, e non sta nella mia libertà» (Lettera 28). Il monito varrà almeno per il futuro?

L’articolo è stato segnalato dalla redazione del sito PatrimonioSOS, che si ringrazia

01 settembre 2007

«Fabbricciane, c’è troppa ambiguità»

PIOMBINO. Dopo l’inchiesta del Tirreno sulla situazione di abusivismo edilizio che si vive alle Fabbricciane, l’area di grande pregio paesaggistico nel Golfo di Baratti, interviene Legambiente, che lancia un grido d’allarme.

«La notizia non è che alle Fabbricciane stia prolificando l’abusivismo, - dice Marco Giovannelli, del direttivo di Legambiente della Val di Cornia - questo la sanno bene in Comune, ma che ad intervenire in quel villaggio sia stata la Guardia Forestale. Il Comune in passato, è stato capace di far demolire una lottizzazione come Riva Verde, ma oggi il responsabile del settore urbanistica dichiara di “non essere in grado di portare avanti una campagna sistematica di controlli serrati”. Un bell’incentivo ai comportamenti illegali di coloro che, dopo aver avuto il premio del condono edilizio statale, potrebbero ora beneficiare anche dell’inerzia del Comune di fronte a nuovi abusi».

Legambiente punta il dito contro la possibilità, ipotizzata dal Comune, di realizzare un sistema di fognature consortile. «Sia il presidente della Circoscrizione di Populonia, sia il responsabile dell’urbanistica, non escludono la possibilità che, consorziandosi, coloro che hanno ottenuto i condoni per “annessi agricoli” alle Fabbricciane possano realizzare fogne e servizi igienici. Come ben sanno questo significa anche acquedotti, elettrificazione e quindi urbanizzazione della zona. Le strade ci sono già. Così come tutti sanno, e dichiarano, che servizi igienici, fogne e acquedotto non servono per coltivare gli ortaggi ma per accogliere una quantità consistente di turisti nei mesi estivi, quindi per usare in modo abusivo gli annessi agricoli condonati, che tra l’altro non possono avere servizi igienici interni. Si stimano 70.000 presenze, ma probabilmente sono ancora maggiori».

«Di fronte a questa realtà - continua Legambiente - le strade sono due: o combattere l’abusivismo (ancora più esoso se compiuto da chi ha già beneficiato dei condoni) o rinunciare a far rispettare la legge e assecondare gli interessi di chi ha comprato lotti agricoli e annessi condonati per farci case turistiche. Il tutto in barba ai problemi ambientali.»

«Sono stati calcolati i consumi idrici e gli scarichi di un paese che potrebbe essere più grande di Riotorto? - si chiede Legambiente - Quale coerenza c’è con la crisi idrica di cui soffre la Val di Cornia? La giunta, al momento dell’approvazione del piano strutturale, aveva dichiarato di non voler premiare gli abusivi e di non voler urbanizzare le Fabbricciane. Alle parole degli amministratori però non seguono i fatti. La nostra posizione è semplice: che sia rispettata la legge e che il Comune torni a fare il proprio dovere con i controlli e le demolizioni delle costruzioni abusive, la rete fognaria, come le altre opere di urbanizzazione primaria non possono essere né pubbliche, ne private».

03 settembre 2007

«Fabbricciane, troppa tolleranza»

PIOMBINO. Dopo l’inchiesta del Tirreno sulla situazione di abusivismo edilizio alle Fabbricciane, l’area di grande pregio paesaggistico sul Golfo di Baratti, interviene la segreteria di Rifondazione Comunista di Piombino.

«Ci preoccupa l’inerzia e la tolleranza del Comune verso l’abusivismo edilizio e riteniamo grave che il settore urbanistica pronunci una specie di resa affermando che “il Comune non è in grado di portare avanti una campagna sistematica di controlli”. Questo equivale a dare un segnale di deregulation, ad incoraggiare nuovi casi di abusivismo sul territorio comunale».

«Ancora più preoccupante - continua Rc - è che si lasci intravedere la possibilità di una urbanizzazione delle Fabbricciane, magari cominciando dalle fognature e dal depuratore, prefigurando un nuovo paese all’interno del territorio comunale, per di più in una delle zone più belle, a due passi dal Parco archeologico di Baratti, peraltro il Presidente della Parchi tace.»

Rifondazione si rivolge dunque all’assessore all’urbanistica e al sindaco: «chiediamo loro di fare chiarezza su questa vicenda, che rappresenta da anni una vera emergenza urbanistica e ambientale. Finora tutto sembra avvenuto in barba ai problemi ambientali e paesaggistici, che solo a parole si dice di voler affrontare. In questo modo anche il nuovo piano strutturale, sbandierato dalla giunta comunale come un piano avanzato, diventa soltanto un libro di buone intenzioni, mentre la realtà è un’altra: ormai si è allentato in questa zona il tradizionale impegno pubblico per la tutela e per l’uso lungimirante del territorio».

«Il Comune - conclude Rifondazione comunista - deve dire chiaramente cosa intende fare e intervenire tempestivamente sugli abusi, senza abdicare dal ruolo di pianificazione e controllo del territorio che per legge gli compete. Riteniamo che debba essere esaminata la possibilità di estendere il territorio dei Parchi alla zona delle Fabbricciane in una grande operazione di conservazione del territorio quale fu attuata, con determinazione e competenza amministrativa, per la Sterpaia».

03 settembre 2007

«No alla lottizzazione a Fonte di Sotto»

CAMPIGLIA. Continua il dibattito sul progetto di residenza turistica alberghiera (Rta) nella zona di Fonte di Sotto, un’ipotesi su cui il paese stesso si è diviso. A intervenire è anche il direttivo di Italia Nostra di Firenze, che appoggia il “Comitato per Campiglia”, contrario alla costruzione. «Il piano di lottizzazione - dice l’associazione - è stato approvato in forma definitiva, il progetto delle opere di urbanizzazione è già stato presentato e, salvo errori, approvato. L’ultima possibilità è che l’amministrazione non rilasci il permesso di costruire per riaffrontare tutta la questione».

«I tempi sono quindi molto stretti per evitare una situazione di non ritorno», dice Mariarita Signorini, consigliere regionale di Italia Nostra e responsabile del settore energia.

L’associazione si schiera al fianco del “Comitato per Campiglia” che si è costituito in base alla convinzione che sia sbagliata la scelta di costruire una residenza turistica alberghiera nell’area che va dalla Fonte di Sotto, alla Madonna di Fucinaia e Temperino fino alla Rocca S. Silvestro e il Parco Archeominerario.

«Zone che finora si sono preservate - afferma la Signorini - grazie al grande impegno scientifico e civile di Riccardo Francovich. Siamo convinti che l’area debba essere tutelata mediante un rigoroso vincolo paesaggistico che impedisca alterazioni incontrollate, da quelle edilizie fino alle trasformazioni del paesaggio agrario, della maglia agraria e dell’assetto boschivo».

Italia Nostra si appella dunque all’amministrazione locale: «Quando giustamente il Comune ha lanciato l’idea “da Rocca a Rocca” (da Campiglia a San Silvestro) come ambito di tutela e valorizzazione delle risorse storiche e paesaggistiche - continua Italia Nostra -, lo ha fatto con la sicura percezione, meritoria e condivisibile, che si tratta un unicum che va salvaguardato al fine di non distruggere sia il rapporto tra le due Rocche, il centro storico medioevale e la campagna, che la testimonianza archeologica di un sistema insediativo fondato sulle attività minerarie, da quelle etrusche a quelle dell’Etruscan Mines, sia lo spazio delicatissimo, e miracolosamente intatto, della campagna: boschi radi di sughere, terrazzamenti coltivati a olivi, corsi d’acqua bordati da canneti. Il Comune non può adesso accettare che questi valori, intorno ai quali è fondata l’identità storica di Campiglia, e sui quali, tra l’altro, ha fatto investimenti rilevanti e operazioni culturali di grande qualità, vengano compromessi radicalmente con trasformazioni e aggiunte edilizie, di qualunque tipo, dimensione e qualità».

«Sconcerta il fatto che invece di promuovere un confronto su altre possibili e più opportune localizzazioni - conclude la Signorini -, nei giorni scorsi i Ds di Campiglia, abbiano affisso e distribuito un manifesto col quale si invita ad aderire alla raccolta di firme promossa da alcuni commercianti, che contiene la seguente premessa: “Ai campigliesi piace Campiglia e vogliono continuare a viverci, a coloro che vogliono bloccare l’evolversi del turismo, la risposta di chi vive il paese tutto l’anno”».

04 settembre 2007

Per Borgo Novo si muove Rutelli

di Manolo Morandini

CAMPIGLIA. Per “Borgo Novo” si è mosso anche il ministro dei beni culturali, Francesco Rutelli. Una discesa in campo per inquadrare la contestata residenza turistico alberghiera prevista alle porte del centro storico campigliese, a cui si oppone il comitato “Per Campiglia”, ma anche Italia Nostra e Alberto Asor Rosa, animatore della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio. Oggi una delegazione di funzionari dell’ufficio urbanistica del Comune di Campiglia e della Sovrintendenza ai beni ambientali architettonici artistici e storici per le province di Pisa e Livorno è attesa a Roma, presso il dicastero di Rutelli. «Un incontro a carattere tecnico, a cui ho scelto di essere presente anch’io» conferma il sindaco Silvia Velo.

Al di là del buon gusto architettonico, a preoccupare il fronte del “no” è la tipologia di struttura ricettiva scelta, la residenza turistico alberghiera: camere, ma soprattutto bilocali e trilocali, con giardino, che vedono come il fumo negli occhi, memori di altre esperienze che hanno rivelato come la forma si presta a celare seconde case di fatto.

Ma in gioco ci sarebbe anche l’equilibrio tra città antica e campagna. Un totale di 10mila metri cubi per una capacità ricettiva di circa cento persone, sono i numeri della Rta che sorgerà su un pendio a cinquecento metri dalle mura del borgo, a margine della strada che sale da San Vincenzo. Titolare dell’intervento la Fonte di Sotto srl, l’azienda nata ad hoc nell’ottobre del 2006 con socio unico la Costruzioni Generali Roma spa, dell’immobiliarista Luca Olivetti.

«La collocazione della previsione urbanistica è stata scelta e sostenuta da illustri urbanisti, Italo Insolera e Carlo Melograni negli anni Ottanta e nel 1995 da Romano Viviani, che l’ha confermata nel piano regolatore generale approvato quell’anno - sostiene il sindaco Velo - Sono pareri che mi confortano e, del resto, rispetto ai termini in cui sono maturati, il territorio di Campiglia da allora non è cambiato. È una scelta che ho ereditato dalla precedente amministrazione, ma che mi sento di sostenere».

L’opera in fase di approvazione ha riscosso larghi consensi in consiglio comunale, unendo nel voto maggioranza e opposizione, con la motivazione di favorire e qualificare la vocazione di servizio del borgo, in cui operano attualmente solo due affittacamere. Per contrastare il comitato del “no” si sono attivati anche alcuni commercianti del centro storico, che raccolgono firme a sostegno della costruzione di “Borgo Novo” il cui iter urbanistico si è chiuso nel 2005, con la firma della convenzione tra proprietà e Comune di Campiglia. Già in corso, invece, l’istruttoria del progetto delle opere di urbanizzazione, con una previsione di apertura del cantiere a inizio del 2008. L’unico stop alla costruzione, in teoria, potrebbe piovere dall’alto, con un’azione del ministero per apporre il vincolo paesaggistico sull’area.

05 settembre 2007

«Il ministero non intende bloccare il progetto»

di Manolo Morandini

CAMPIGLIA. «Nessuna volontà di mettere il Comune in difficoltà, ma anzi un clima sereno e positivo». Questo il giudizio del sindaco di Campiglia, Silvia Velo, all’uscita dall’incontro al ministero dei Beni culturali di ieri mattina, convocato per esaminare l’affaire “Borgo Novo”. Una riunione a carattere tecnico che è durata circa un’ora, presente anche la Sovrintendenza ai Beni ambientali architettonici artistici e storici per le province di Pisa e Livorno, con l’obiettivo di inquadrare il progetto di Rta a cui si oppone il comitato “Per Campiglia”, ma anche Italia Nostra e Alberto Asor Rosa, animatore della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio, tutti preoccupati che la forma celi seconde case di fatto e che l’intervento comprometta l’equilibrio tra città antica e campagna. Ma la discesa in campo del ministro Rutelli è da leggere nell’ambito della recente intesa con la Regione Toscana, sottoscritta per inserire il Codice del paesaggio nella pianificazione urbanistica toscana: una verifica di coerenza degli interventi urbanistici, che suscitano allarme, con i valori paesaggistici previsti dal Codice.

«Abbiamo fornito tutta la documentazione, a partire dalle norme del Piano regolatore in cui è inserita la prescrizione urbanistica. - afferma il sindaco Velo - Norme giudicate restrittive dai tecnici del ministero, che hanno esaminato anche il piano attuativo. Non ho colto nessuna intenzione di bloccare l’intervento, ma abbiamo invece concordato di collaborare nell’esame del progetto esecutivo della Rta, che presenterà la proprietà, al fine di determinare la miglior qualità architettonica possibile».

Un totale di 10mila metri cubi per una capacità ricettiva di circa cento persone sono i numeri della Rta. Camere, ma soprattutto bilocali e trilocali, sorgeranno su un pendio a cinquecento metri dalle mura del borgo per opera della Fonte di Sotto Srl, azienda con socio unico la Costruzioni Generali Roma Spa.

Postilla

Brutte notizie s’intrecciano nella mitica Val di Cornia, teatro di esperienze positive dell’urbanistica italiana: a partire dal piano coordinato dei quattro comuni degli anni 80, dalla costituzione del Sistema di parchi della Val di Cornia, dalla demolizione delle costruzioni abusive nel bosco della Sterpaia, poi tramutato in parco.

Si lavora per trasferire a Piombino i fanghi inquinati asportati dall’Italsider di Bagnoli, aggravando localmente una situazione già grave per l'esistenza di milioni di metri cubi di rifiuti industriali che non si riescono a trattare. S'intensifica l’escavazione di rapina nella cava ai margini del parco di San Silvestro che ha già reso inagibile una parte dell' eccezionale patrimonio archeominerario, nel silenzio del Comune. Solo pochi mesi fa, con l'accoglimento di osservazioni al piano strutturale di Piombino, è stata reintrodotta la previsione di una strada stralciata trent'anni fa da un piano urbanistico che prevedeva la lottizzazione del promontorio di Populonia.

Sono di questi giorni due nuovi avvenimenti, entrambi da iscrivere nel “libro nero” delle amministrazioni locali. A Fabbricciane, nello splendido golfo di Baratti e a un passo da Populonia, dopo i condoni statali che hanno sanato una gigantesca lottizzazione abusiva di oltre 100 ettari, proseguono indisturbati gli abusi edilizi sotto lo sguardo indifferente del Comune di Piombino, che dichiara la sua impotenza. A Campiglia Marittima, a ridosso del centro storico, si attua oggi una lottizzazione, Borgo Novo in località Fonte di Sotto. Questa sembra legittima e risale a una previsione del lontano PRG del 1995 (e non, come invece afferma il sindaco, al piano redatto da Melograni). Le previsioni che solo oggi risultano sbagliate si possono correggere: anche se la convenzione con i lottizzatori è già stata stipulata, senza dover pagare nessun danno se non il rimborso delle opere legittimamente realizzate. Che stralciare previsioni urbanistiche sia possibile è del resto testimoniato dalla stessa esperienza dei comuni della Val di Cornia, dove precedenti amministrazioni cancellarono milioni di metri cubi.

Le associazioni e i comitati ambientalisti si sono decisamente schierati in entrambi i casi. A proposito di Campiglia si può osservare che forse le battaglie dei comitati sarebbero più efficaci se si promuovessero prima, quando i piani urbanistici non sono ancora formalizzati. Ma l’urbanistica e la pianificazione sono argomenti difficili, e così spesso (come a Monticchiello, come Borgo Novo) le decisioni politiche locali hanno messo radici troppo profonde per essere divelte con una spallata.

Ci sono voluti anni di roghi boschivi, c’è voluta un’ultima estate disastrosa con le superfici andate a fuoco aumentate del 330 per cento, e, finalmente, si è individuato il punto debole della (buona) legge del 2000: la mancata attuazione del catasto delle zone incendiate da parte dei Comuni, per gran parte inadempienti, specie al Sud. Il potere torna dunque, per decreto governativo, allo Stato tramite i prefetti per fare «questo benedetto catasto che altrimenti non si fa», ha spiegato il ministro dell’Interno, Giuliano Amato. Ci sarà qualche prefica del decentramento ad ogni costo che verserà lacrime o che protesterà.

Ma la democrazia vera è questa: se l'organismo elettivo locale o regionale o per trascuratezza o per pressioni di gruppi e di lobbies non dà corso ad una buona legge preventiva e repressiva, qualcuno ci deve pensare. In questo e in altri casi lo Stato. Walter Veltroni lo ha proposto anche, gli appalti edilizi al di sopra dei 100mila euro in Comuni particolarmente inquinati dalla malavita. Non è questione di filosofia politica. È questione di sano pragmatismo, di efficienza politico-amministrativa, di senso dell'interesse generale. Si tratta di togliere, applicando la legge, ai malintenzionati, a volte manovali della malavita impegnata nell'edilizia più speculativa, il cerino dalle mani, di rendere quel loro gesto del tutto inutile. Poi qualche psicolabile, qualche pastore retrogrado ci sarà sempre, e però il plotone degli incendiari (per favore, non chiamiamoli più piromani) si assottiglierà di molto non avendo più interesse a bruciare alcunché. Confidiamo che le prefetture faranno in breve tempo ciò che i Comuni non hanno fatto (in sette anni!) per contrastare il passo a quanti vogliono costruire sulle aree bruciate, oppure cambiarne la destinazione d'uso, cacciare o pascolare bestiame sulle medesime (e pure procurarsi lavori stagionali di rimboschimento). Ve n'è gran bisogno, visto che il numero dei roghi si è accresciuto del 70 per cento rispetto al 2006, soprattutto in regioni quali la Sicilia e la Calabria che da sole totalizzano buona parte degli incendi boschivi. Ma, nel contempo, occorre potenziare e razionalizzare il servizio di avvistamento, da terra e dal cielo. Torri di avvistamento ben collocate e visibili scoraggiano gli incendiari. Così come la flotta di piccoli aerei che, nei mesi caldi, la Francia fa alzare in volo quotidianamente - come ha spiegato sull'Unità, Roberto De Marco, già capo del Servizio sismico nazionale - in modo di individuare all'origine i primi focolai ed orientarvi rapidamente canadair, elicotteri e forze di terra. Non quando i roghi si sono già diffusi, potenziati dal vento.

C'è però un altro potere dello Stato, la magistratura, che deve fare la sua parte applicando con la giusta severità le norme esistenti, evitando il rilascio troppo facile degli arrestati e dando anche una adeguata pubblicità a processi e condanne. Ogni anno si arrestano 250-300 persone per reati connessi agli incendi: quante vengono poi processate e condannate? Quest'anno un patrimonio boschivo straordinario - magari all'interno di parchi nazionali come il Pollino o di parchi regionali di grande valore archeologico come quello romano di Veio - è stato incenerito dal fuoco assai spesso doloso. Questo è davvero un caso da "tolleranza zero", nell'interesse di tutti. Una collina a vegetazione spontanea, quando va a fuoco, impiega 9-10 anni a riprendersi. Inoltre quei terreni si «cuociono» e, alle prime piogge battenti, smottano facilmente, sommando danno a danno.

In conclusione: smettiamola di nutrirci di luoghi comuni su decentramento e accentramento. L'Italia delle Regioni esiste da quasi un quarantennio (la Regione Sicilia da sessant'anni ormai), purtroppo con esiti alterni, a volte desolatamente negativi. Si veda l'ambito paesaggistico per il quale alcune Regioni, vedi la Toscana, hanno sub-delegato alla tutela i Comuni. I quali hanno invece interesse, in tempi di tagli ai trasferimenti erariali, ad incassare quanto più possono dagli oneri concessorii e dall'Ici. Il Codice per il paesaggio dice che, entro il maggio 2008, le Regioni «possono» elaborare quei piani paesaggistici che già la bella legge Galasso prescriveva nell'ormai lontano 1985 lasciando tante e importanti Regioni indifferenti. Anche in questo caso, dobbiamo assistere alla cementificazione e asfaltatura integrale del Bel Paese per ridare allo Stato, cioè ai Ministeri dei Beni culturali e della Tutela dell'Ambiente poteri reali di intervento sostitutivo per piani rigorosi e prescrittivi? O vogliamo fare le anime belle del decentramento tanto democratico e chiudere gli occhi sul disastro paesaggistico in corso, dall'alta montagna alla costiera amalfitana, alle coste siciliane e calabresi?

L’Italia brucia ancora. L’Italia brucia sempre. Brucia coi governi di centrodestra e brucia coi governi di centrosinistra. Nazionali e regionali. Gli incendiari sono in qualche caso degli psicolabili, dei drogati, dei ragazzi in cerca di emozioni sensazionali, dei pastori a caccia di nuovi pascoli o (è successo più di una volta) dei forestali stagionali. I quali credono così di garantirsi alcuni anni di lavoro nel rimboschimento. Ma spesso questi killer dei boschi sono manovali di una criminalità che non si rassegna a non poter costruire quello che vuole nelle zone paesaggisticamente protette, nei pressi dei parchi, nazionali e regionali, o persino dentro gli stessi.

Non a caso la legge n.353 contro gli incendi, fortemente voluta dal governo di centrosinistra nel 2000, stabilisce questa serie di divieti: per dieci anni sulle aree percorse dal fuoco non si potrà - sempre che sia permesso dai vincoli di altro genere - costruire alcunché, non si potrà modificare la destinazione d'uso dei terreni, non si potrà cacciare e nemmeno pascolare, mentre per cinque anni non si potranno effettuare lavori di rimboschimento a meno che non li autorizzi espressamente il Ministero per la tutela dell'Ambiente. Evidentemente questi sono stati individuati come gli interessi corposi che più frequentemente armano la mano degli incendiari (a parte una piccola quota di roghi soltanto colposi). Per entrare in vigore, quelle sacrosante misure hanno però bisogno di uno strumento: il Catasto delle aree andate a fuoco. Senza il quale gli interventi di legge e quelli preventivi non sono possibili, o risultano difficili.

Ora, di fronte ai nuovi roghi omicidi di Sicilia, il ministro della Difesa, Arturo Parisi, reitera l'assicurazione, fatta, se non erro, già un mese fa per l'incendio criminale di Peschici nel Gargano, di inviare l'esercito, la marina e altri corpi. Tutto serve per un più attento controllo del territorio, ma, personalmente credo che due altre cose andrebbero fatte subito, senza perdere un minuto: 1) risolvere la crisi ormai annosa di un corpo straordinario come quello dei Vigili del Fuoco, i quali lamentano invece vuoti di organico assai gravi, una mancanza desolante di mezzi finanziari e tecnologici, oltre a remunerazioni inadeguate; 2) penalizzare da subito i Comuni e le Regioni che non si risolvono a realizzare il Catasto delle zone percorse dal fuoco, oppure affidare ai prefetti - come ha proposto il responsabile della Protezione civile, Guido Bertolaso, con l'assenso dello stesso Wwf Italia - quel compito strategico, purtroppo disatteso o trascurato. Non so se per ignoranza o connivenza.

Il centrodestra ha infatti attizzato, in queste ore, una polemica politica (diciamo così) anche sugli incendi, in effetti eccezionali, di questa estate 2007, accusando il governo Prodi di una certa sottovalutazione e inerzia. Per la verità, le Regioni, più minacciate dalle fiamme, nelle quali il Catasto delle zone incendiate è in vigore da anni e dove meglio si è contrastato il barbaro fenomeno dei roghi sono la Liguria (i cui Comuni si sono già dotati del Catasto per oltre l'85 per cento), la Toscana, la stessa Campania, sia pure di recente e però con l'apposizione di oltre 48.000 vincoli. Mentre appaiono tuttora in forte ritardo la Calabria, per anni governata dal centrodestra, e la Sicilia di questi ultimi terribili roghi, dove il centrodestra è al potere da decenni.

Nell'estate del 2006 queste due regioni hanno assommato circa un terzo di tutti gli incendi boschivi d'Italia, con le fiamme che sono dilagate per oltre il 60 per cento dei Comuni in Calabria e per oltre la metà in Sicilia dove le fiamme degli ultimi giorni sono divampate da Messina a Palermo lambendo e assediando centri importanti come Cefalù, con tre morti, per ora, e vari ustionati. Sono le stesse regioni dove in passato non si è voluto adottare alcun piano paesaggistico in forza della legge Galasso del 1985 e dove gli scempi hanno da tempo raggiunto la forma di un vero e proprio «suicidio» collettivo.

Perché l'Italia è il Paese degli incendi? Perché l'Italia è il Paese della speculazione edilizia più bieca e diffusa, con l'abusivismo tornato a galoppare dopo lo sciagurato condono berlusconiano e quindi con l'aspettativa di altre sanatorie di massa. Perché l'Italia è il Paese nel quale la legalità ha raggiunto, almeno nell'Europa sviluppata, il livello più basso di garanzia degli onesti, soprattutto in talune regioni purtroppo. Perché il patrimonio pubblico, collettivo, i beni di tutti gli Italiani vengono considerati, oggi come e più di ieri, beni disponibili per gli usi e gli abusi più privati e addirittura personali.

Perché i venti Parchi Nazionali e le decine di Parchi Regionali e di oasi o aree protette vengono tuttora percepite da una parte della popolazione come una indebita intrusione pubblica in affari privati che si collegano all'edilizia, alla caccia, al pascolo o ad altro, ma soprattutto al cemento. E non invece come una enorme occasione per la salute fisica e mentale di tutti, per la conservazione delle biodiversità e pure per una economia alternativa di assoluto spicco basata sul turismo ambientale e culturale, sui prodotti del bosco e del sottobosco, sulle attività ecocompatibili, agricole, pastorali, artigianali, ecc. Ieri a Torre Guaceto, nel Brindisino, hanno finito di bruciare circa 100 ettari di macchia mediterranea della preziosa riserva del Wwf. «Un incendio sicuramente doloso», ha commentato il suo presidente, «Un puro atto di vandalismo. Qui infatti non si potrà mai costruire».

Molti anni fa il direttore che mi assumeva, Italo Pietra, strenuo difensore della montagna e dei boschi, mi disse: «Tu sei giovane e quindi ottimista. Ma credi a me: questo è un Paese di cretini. Esauritesi certe élites che ancora tirano e una certa saggezza contadina, verrà fuori il peggio...». Di fronte a questa ripresa di massa degli incendi, soprattutto nel Sud, e di fronte alla devastazione quasi generalizzata, a forza di villettopoli, fabbricopoli e simili, del nostro incomparabile paesaggio (che Goethe considerava opera «di artisti e quasi una seconda natura dell'Italia»), devo riconoscere che il suo pessimismo aveva molte ragioni di esistere: un Paese di cretini, barbari per giunta.

Alimuri, dove lo Stato risarcisce gli abusivi

di Ilaria Urbani

Risarcire chi ha commesso un abuso. E' giunta all'epilogo più inaspettato la vexata quaestio su uno degli ecomostri che deturpano da oltre quarant'anni la costa della Campania. Il bestione di cemento armato costruito abusivamente dal 1964 nella conca di Alimuri a Vico Equense sarà abbattuto, così come previsto dall'accordo sottoscritto il 19 luglio tra il ministero dei Beni culturali e la Regione Campania, entro la fine di ottobre, con un intervento economico da parte del dicastero guidato da Rutelli per 300 mila euro e altrettanti da parte dell'ente regionale campano. Il costo totale dell'abbattimento ammonta a un milione e 100 mila euro e al suo posto gli attuali proprietari otterrebbero anche un'ulteriore concessione per costruire un nuovo albergo e la gestione di un lido sulla costa.

Ma se l'ecomostro ha procurato danni ambientali e da più quasi mezzo secolo non ha trovato una completa realizzazione per quale motivo più del 50% dei costi saranno a carico dello Stato e gli attuali proprietari potranno continuare a costruire? Sulla vicenda ci vuole vedere chiaro la procura di Torre Annunziata, che ha aperto un'inchiesta «per verificare se sussistano ipotesi di reato». I maligni infatti sospettano che le agevolazioni concesse alla società Sa.An., proprietaria della struttura, sarebbero state concesse perché ai suoi vertici comparirebbe anche Anna Normale, imprenditrice e moglie di Andrea Cozzolino, assessore alle attività produttive della Regione Campania e tra i candidati alla guida del Pd campano. Gli inquirenti torresi spiegano di «non poter far finta di non vedere» e intanto il procuratore Diego Marmo attende una dettagliata informativa dai carabinieri. L'inchiesta sull'ecomostro in realtà era già stata aperta tempo fa dal pm Sergio Raimondi nell'ambito delle indagini sull'abbattimento di oltre centocinquanta opere abusive.

La nuova struttura che nascerà nella conca di Alimuri sarà autorizzata da un accordo tra esecutivo ed enti locali e non sarà abusiva come lo scheletro di cemento che per oltre 40 anni ha sovrastato la costa dell'area, Ma ambientalisti e sinistra radicale sono scesi già sul piede di guerra. In prima linea c'è il ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, che qualche settimana fa ha tuonato: «Non si può demolire un ecomostro in cambio di nuovo cemento». A fargli eco c' è Franco Cuomo, leader del circolo Vas (Verdi Ambiente Società), che ha così commentato la decisione del governo di «aiutare» i titolari della concessione per procedere all'abbattimento: «In nessun Paese del mondo lo Stato risarcisce chi ha commesso un abuso». Dal canto suo il senatore Tommaso Sodano di Rifondazione ha raccolto 33 firme, tra cui quelle di Russo Spena, Salvi, Villone,Menapace, per un'interpellanza parlamentare alla quale il governo dovrà rispondere entro settembre. «E' inconcepibile - ha commentato - l'offerta fatta ai proprietari dell'ecomostro di Alimuri di poter costruire un nuovo albergo in cambio dell'abbattimento del vecchio albergo abusivo. Le autorità pubbliche dovranno spiegare perché hanno deciso di cofinanziare l'abbattimento dei manufatto in questione e per quali motivi le stesse autorità provvederanno a compensare gli eventuali aumenti di costo dell'operazione di rimozione della struttura».Nell'interrogazione parlamentare il senatore del Prc chiama in causa direttamente ilministro Rutelli, al quale chiede di garantire che la nuova struttura non sorgerà in zone vincolate e non produrrà un impatto ambientale in zone di pregio dal punto di vista ambientale o agricolo, paragonabile a quello dell'enorme edificio abusivo. La storia dell'ecomostro di Alimuri, una baia incantevole tra Sorrento e Castellammare di Stabia, sembra interminabile. Tutto comincia nel 1964 quando viene rilasciata la licenza per costruire a ridosso della costa un albergo di cinque piani, autorizzazione rinnovata anche tre anni più tardi. Nel 1971 la Soprintendenza ordina la sospensione dei lavori e l'amministrazione comunale decide la demolizione della costruzione. Nel 1976 la Regione Campania annulla le licenze rilasciate dal Comune perché in contrasto con il Programma di fabbricazione, ma il Tar Campania nel 1979 e il Consiglio di Stato nel 1982 annullano gli atti adottati dalla Regione. La telenovela prosegue e nel 1986 i lavori sono sospesi dal Comune di Vico Equense perché si rende necessario il consolidamento del costone roccioso retrostante. L'edificio inizia a versare in condizioni degradate e diviene una vera e propria discarica. Col tempo aumenta la pericolosità, con l'inizio della caduta di massi dal costone e della corrosione a causa delmare. A questo si aggiungono un lento crollo del solaio e la staticità dell'edificio sempre più precaria con il passare degli anni. Già nel 1985 la Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia aveva iniziato a vietare il transito e la sosta di persone e imbarcazioni nella parte di mare antistanti la struttura, entro una fascia di 150 metri dal piede del costone. Passano due anni e vengono approvati il Piano paesistico della penisola sorrentina e il successivo Put (Piano di utilizzazione territoriale) che individua l'area di Alimuri come zona di tutela ambientale di primo grado, con divieto assoluto di edificare e trasformare il suolo. Sull'area vige anche un vincolo idrogeologico e l'Autorità di bacino del Sarno inserisce il costone roccioso retrostante alla struttura tra le zone ad alto rischio. A partire dal 2003 inizia la serie infinita di incontri presso la Regione Campania per avviare un'azione complessiva di riqualificazione dell'area che comprende il consolidamento del costone, la delocalizzazione della struttura e la demolizione del manufatto. Durante la primavera di quest'anno arriva la svolta con l'intervento del ministro Rutelli, che il 4 aprile annuncia una campagna contro gli ecomostri: tra le priorità viene indicato proprio lo scheletro di Alimuri. La demolizione porterà all'eliminazione di una struttura che ha un volume di 18mila metri cubi su un'area di 2mila mq, alta 16 metri per un numero totale di 5 piani, compreso il pianterreno. La messa in sicurezza del costone che si trova alle spalle della struttura prevede l'intervento su una superficie lunga 170 metri e alta 90. Unfantasma di cemento armato che per oltre quarant'anni ha contribuito a deturpare una delle coste più belle del nostro paese e la cui sorte ora dipende anche dal lavoro della magistratura. A partire dalla fine di agosto, quando il fascicolo aperto dalla procura di Torre Annunziata inizierà a riempirsi di dettagli e finalmente si farà chiarezza anche sulla competenza ad indagare, ultimo grande intoppo dell'interminabile vicenda Alimuri. «Noi abbiamo aperto un fascicolo sulla scorta degli articoli di stampa, ma nel caso in cui emergano ipotesi di reato - ha spiegato il procuratore Marmo - c'è da decidere ora chi debba occuparsene. Tutto dipende da dove è stato siglato l'accordo, se a Roma, alla Regione o al comune di Vico Equense. Indagheremo

In vaporetto. Con vista sul Mose

di Roberto Ferrucci

Non appena il cielo si rannuvola, da queste parti, tutto il litorale, inteso come bagnanti provenienti da ogni angolo d'Europa, sale su una motonave e si cala a Venezia. Gente in vacanza sulle spiagge di Jesolo, Cavallino, Eraclea e dintorni, raggiunge Punta Sabbioni, sale a bordo di motonavi dell'Actv e queste, ogni mezzora, scaricano sull'approdo di Riva degli Schiavoni centinaia e centinaia di tizie e tizi in bermuda e infradito (e immaginate tutto il diffondersi di, ovvi, è chiaro, ah e oh e uh con le h necessariamente strascicate). Per arrivare fin lì si sono goduti quarantacinque minuti di rilassante navigazione attraverso la laguna veneziana. A seconda dell'intensità della velatura nuvolosa, degli spiragli di sole che, qui e là, riescono a spuntarla, le loro pupille hanno potuto impregnarsi delle sfumature più inattese di verde, di blu, di giallo. Cromatismi cangianti che il paesaggio lagunare sa offrirti di secondo in secondo.

Ma i loro sguardi, per arrivare lontano, hanno dovuto dribblare ostacoli inattesi, gru, paranchi, argagni, chiatte, boe di segnalazione, ma forse nessuno di loro, di noi, possiede il completo glossario di tutti gli aggeggi che infestano questa zona d'acqua. Un paesaggio unico, ai cui colori naturali si è accostata da tre anni una deflagrazione di gialli, di rosa, di blu, di arancioni, di rossi nient'affatto naturali. Tutti i marchingegni necessari a mettere insieme quell'opera mastodontica (mostrodontica) che si chiama Mose e che dovrebbe, dovrà (e non farebbe, farà) salvare Venezia dalle acque alte. Tonnellate e tonnellate di cemento in profondità e in superficie. Sull' (in)utilità del Mose è già stato detto molto. Ma ogni volta che se ne parla, nell'immaginario prende forma qualcosa di astratto. E dato che, soprattutto in tv, se ne parla come qualcosa di magico, di miracoloso, astratto più magico mettono insieme qualcosa di ancor più inimmaginabile. Anche quando vogliono dirci della sua costosissima inutilità, il mostro, questo mostro, mostro diffuso, tentacolare, in gran parte invisibile, ce lo mostrano sempre dall'alto. Foto aeree dove vedi solo lo stato attuale dei lavori e devi allora fare uno sforzo di memoria, ammesso tu ne abbia viste altre, nel passato, di foto dall'alto della laguna veneziana, per ricordare com'era prima.

Servono dunque a poco, oggi, quelle foto. Non ti danno l'idea di ciò che sta avvenendo laggiù, sopra e sotto l'acqua della laguna. Fare altrimenti è semplice, basta fare come i turisti del litorale, prendere la motonave dell'Actv, sei euro di biglietto. Uno soltanto se siete possessori di Carta Venezia. Direzione Punta Sabbioni o Burano. Dalla motonave la puoi ammirare dall'alto, Venezia. E anche la striscia infinita del Lido. Poi, appena doppiata la punta dell'isola, con la torre di controllo biancorossa dell'aeroporto Nicelli, il panorama si apre e, al contempo, si deturpa. La linea dell'orizzonte è frastagliata da slanci geometrici che a noi, della generazione del Meccano, alla fine pure affascinano. Mano a mano che la motonave avanza, le piattaforme, a prua, prendono forma mentre qui, di lato, lungo la diga di San Nicolò, cantieri si manifestano per quello che sono, bulldozer gialli, gru color ruggine, tendoni bianchi, serbatoi grigi, sacchi di plastica verdi con dentro chissà che cosa, container privi di colore e montagne di sabbia e sassi e argagni ruggine, pure quelli.

Sono quei cumuli di massi, sassi e pietre, a inquietare di più, protetti dall'acqua da sgangherate paratie ferrose plissettate, dalle quali pendono vecchi pneumatici sfondati. Economici parabordi per le barche da dove sbarcano, quotidianamente, gli operai impegnati nell'opera. Di lato, a distanze varie, le piattaforme, ancorate al fondo, profonde. Una, due, forse tre sullo sfondo. Di varie dimensioni. Una chiatta, la G. Loris, blu, con a prua una gru bianca, le braccia rosse, è attraccata poco avanti. Quando la affianchiamo, inizio a scattare foto a raffica. A bordo, qualche tonnellata di massi. Il braccio della gru ha appeso una sorta di enorme tentacolo di metallo, di quelli che si aprono a tenaglia. Viene manovrato in modo da abbrancare il maggior numero possibile di pietroni, li solleva, si sposta di pochi gradi e splash, i pietroni finiscono in acqua, come facevamo da piccoli quando rovesciavamo nel secchiello, pieno di acqua, palate di sabbia. Ma era un gioco, il nostro. Guardo i pietroni finire in laguna e provo a immaginare di essere là sotto - ché, la sotto, qualcuno, qualcosa cui questi pietroni provocheranno danni irreversibili c'è - immagino di sentirmeli rotolare addosso, innaturali, invadenti, inutili, devastanti. Guardo, e i turisti a bordo fanno lo stesso, ma con una inclinazione degli occhi che capisci poco aderente al fatto. Non sanno o non capiscono. Lavori in corso, come in una qualunque via della loro città, si staranno dicendo. Guardo, e noto qualcosa che sarà conferma strada facendo. Guardo, faccio zoom e contro zoom, ma sopra e dentro a quei cosi non vedo anima viva. Si ha come l'impressione che questi mostri possano agire da soli, manovrati da un pensiero perverso che ha deciso che qui sì.

Qui nella laguna veneziana, era possibile sperimentare prima e mettere in atto poi uno scempio utile solo a chi lo fa, nel senso di milioni e milioni e milioni di euro. Non bastava Porto Marghera. Bisognava accerchiarla di bruttezza, Venezia. E via col Mose. Dighe mobili che verranno utilizzate, se mai lo verranno, una volta ogni due tre anni, quando cioè Venezia è vittima - ogni due tre anni, appunto - di maree superiori ai 130 cm. Sotto, dicono i progettisti stessi, il Mose è inutile.Ma brutto, devastante e costoso. Per questo era necessario costruirlo.

Più avanti passiamo accanto a un'altra chiatta quasi uguale alla precedente - è per questo che si chiama Zemello II, mi dico - alle prese con l'identica operazione, tenaglia, pietroni, splash. La motonave vira, si avvicina lenta verso Punta Sabbioni. E qui incrocia la piattaforma -ma forse si tratta di un pontone - più variopinto. Più luna park, messo su con i pezzi più colorati del nostro Meccano. Forse, in questo caso, i turisti guardano meglio. Chi potrebbe mai aspettarsela un'autogru, di quelle con i cingoli, colorata di rosa? Anche il container degli attrezzi ha la stessa tonalità di rosa. E rosa sono pure i cavi. Dietro, degli alti e sottili serbatoi, bianchi e rossi come le maglie dei gondolieri. Di fronte, un'autogru gemella però arancione. La motonave ci gira quasi attorno, la sfiora, e con lo zoom puoi entrarci dentro, al pontone. Ganci, pulegge, bombole, e un sacco di altre cose di cui non so il nome. Sembra tutto messo lì alla rinfusa, non fosse che, c'è da esserne certi, ogni ingranaggio funziona perfettamente, integrato e connesso al contesto. Sul lato della piattaforma, color verde, c'è scritto Cidonio in bianco e uno stemma, sfondo blu, con una stella e, in senso orario la sigla Pci. Che vada letta in successione diversa lo dice l'insegna, su uno dei bracci delle gru. Impresa Pietro Cidonio.

Più tardi, a casa, andrò sul sito della ditta e leggerò: «L'intervento prevede la realizzazione della diga in scogliera di perimetrazione di un'isola artificiale con quota di sommità +3,50m s.l.m.m. per tre dei quattro lati che la compongono e a +1,80m s.l.m.m. sul retrostante lato laguna e dei filtri sulle scarpate interne della stessa per l'idoneo contenimento del refluimento dei materiali di dragaggio delle zone di escavo limitrofe. In corrispondenza del lato interno dell'isola è prevista l'esecuzione di una banchina a gravità con massi di calcestruzzo sovrapposti necessaria all'operatività dei mezzi marittimi che verranno impiegati nel corso della realizzazione del Progetto Mose. Dragaggi: 69.800 mc, materiali lapidei: 250.000 ton, getti in cls per esecuzione massi artificiali di banchina: 1.780 mc».

Ecco cosa stanno facendo. Se ci avete capito qualcosa. Ma questa piattaforma con l'autogru rosa ha un suo perché, c'è poco da fare e quando, al ritorno, la motonave diretta a Venezia ci passerà ancora più vicino, scoprirò finalmente tracce di vita, là sopra. In un angolo, sotto una tettoia credo in lamiera, sono appese due paia di pantaloni, ad asciugare, rosa e bianchi. Appartengono ai manovratori dell'autogru rosa, c'è da scommetterci. Si lavora in tinta, da queste parti. Poi, appena virato l'angolo, la scenetta più inattesa. Accanto al container rosa, due signori in maniche di camicia osservano divertiti un terzo, alle prese, piegato sulle ginocchia, con una pentola scolapasta appoggiata sopra un piano metallico, verde, sul bordo dell'imbarcazione. Ride, il cuoco improvvisato e io mi immagino che loro, l'acqua, la facciano bollire lì, sopra a quel coso probabilmente incandescente. La motonave doppia il Lido. C'è molto altro da vedere e da raccontare di questo scempio.Mala gita ora spetta a voi. E adesso, mentre la motonave vira in Bacino San Marco, non sai più cosa ti stia provocando questa stretta al cuore, se lo scempio dietro le spalle, o quell'accenno di tramonto là davanti, sul cielo sopra Venezia.

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Il parco Nazionale della Maddalena deve morire. Lo ha decretato con un voto unanime (neanche un contrario, neanche un astenuto) il consiglio comunale della Maddalena, che ha votato in tre mesi due mozioni fotocopia - l'ultima pochi giorni fa - in cui si chiede l'abrogazione della legge che, nel 1994, ha istituito l'area naturalistica protetta. Per rafforzare la posizione dei consiglieri è partita una raccolta di firme - al momento ne sono state messe insieme oltre duemila, il 20 per cento degli elettori dell'arcipelago - per chiedere un referendum consultivo che stabilisca se la gente il parco lo vuole oppure no. Il Comune è retto da una maggioranza espressione di una lista civica in cui sono confluiti transfughi della sinistra e della destra; lista che, alle ultime elezioni, ha battuto sia la Casa delle libertà sia l'Unione. Ma contro il parco, in consiglio comunale, hanno votato tutti insieme, un blocco compatto. Tra gli esponenti referendari c'è Marco Poggi, leader locale del Partito dei comunisti italiani; e poi iscritti al «Circolo Fini» di Alleanza nazionale, sedicenti «Comitati per la legalità e la sicurezza», alcuni iscritti all'Udc nonché il gruppo di Forza La Maddalena.

«Colgo l'occasione - ha detto Poggi pochi giorni fa quando è stata data la notizia che la raccolta delle firma aveva superato quota duemila - per ringraziare tutti i maddalenini che, con il loro entusiasmo e la loro voglia di partecipazione, hanno firmato per il referendum, dimostrandosi determinanti per l'esito della nostra battaglia di libertà e di civiltà contro quell'inutile carrozzone chiamato Ente Parco».

Perché il parco deve morire? Perché la legge che lo ha istituito stabilisce che all'ente sotto tiro spetta decidere della destinazione dei beni demaniali (civili e militari) dismessi. E ora che gli americani dalla Maddalena vanno via, di beni dismessi da gestire ce n'è per centinaia di migliaia di metri cubi: l'arsenale della Marina, le caserme dell'ammiragliato, le fortificazioni nella parte alta dell'isola madre. Spetta al parco, secondo la legge votata dal parlamento, dire a chi dovranno andare questi beni e che cosa se ne dovrà fare. E questo, evidentemente, non sta bene a nessuno dei consiglieri comunali della Maddalena. Il conflitto tra il sindaco, Angelo Comiti, e il presidente del parco, Giuseppe Bonanno, sta tutto dentro questi confini. Chi avrà le chiavi delle strutture che i militari abbandonano controllerà i denari in arrivo da Stato e Regione. La riconversione delle caserme in hotel a cinque stelle è un business miliardario.

A far precipitare il conflitto è stata la decisione del governo di fare il G8 del 2009 alla Maddalena. Per il summit scorrerà un fiume di euro. Bonanno, nominato pochi mesi fa da Pecoraro Scanio - prova a resistere: «Continuo a non capire l'atteggiamento ambiguo del Comune. Da una parte firma protocolli di intesa con noi, dall'altra vota mozioni per abrogare il parco. Non mi interessano le piccole liti di palazzo, devo lavorare. Ho incontrato l'assessore regionale all'Ambiente Cicito Morittu per definire gli ultimi dettagli di uno stanziamento da oltre un milione di euro. Soldi che serviranno per ripulire i fondali. Verrà istituito anche un corpo di ranger: il loro compito sarà di controllare tutto il territorio, per terra e per mare. La Regione mi ha assicurato che entro la fine di agosto nominerà il suo membro all'interno del consiglio di amministrazione del parco. Solo il Comune resterà senza un suo rappresentante del cda. Una scelta che conferma la scarsa volontà di partecipare».

Replica Marco Poggi: «Troppi fallimenti nella gestione del parco. E' importante far sentire il peso della comunità all'interno dell'ente. Noi non vogliamo più scelte imposte da Roma. Il nodo delle dismissioni resta centrale, ma è solo un aspetto. Dobbiamo difendere anche l'autonomia del nostro territorio». Il tutto mentre ancora non è stato deciso niente sulla bonifica dell'arcipelago, dove decenni di presenza militare americana, con tanto di sommergibili atomici, ha creato serissimi problemi sanitari. Finora non è stata fatta alcuna indagine attendibile sul grado di inquinamento della Maddalena e della altre isole. Il G8 e la gestione dei beni dismessi cancellano ogni altra cosa.

Nota: su questo tema si vedano qui sia l'intervento di Sandro Roggio, che la risposta di Vezio De Lucia (f.b.)

L’intervento del ministro per i Beni e le Attività culturali, Francesco Rutelli, a favore di una autostrada «leggera» per la Maremma che eviti strade complanari, caselli invasivi, e altri pesanti danni al bellissimo territorio e paesaggio lungo l’Aurelia fra Toscana e Lazio va messo senza dubbio all’attivo di un anno e più di gestione in uno degli ambiti più delicati e strategici. Di fatto esso ridà al Ministero e alle sue Soprintendenze un’autorevolezza che, coi governi Berlusconi, era stata fortemente intaccata e che non sembrava potersi rianimare.

Questa è la linea strategica che si vorrebbe costantemente affermata: non dei semplici «no», ma proposte elaborate e competenti che, nel caso presente, possono consentire una viabilità più scorrevole e insieme più sicura, nel tratto fra Cecina e Grosseto (dove sono necessarie talune cautele archeologiche) e ancor più nel tratto Grosseto-Civitavecchia. Quest’ultimo, specie nei 13 km nel Comune di Capalbio e nei 9 km fra Tarquinia e Civitavecchia, tutti a due anguste corsie, risulta uno dei più pericolosi d’Italia, con morti e feriti gravi in ripetuti scontri frontali. La soluzione proposta dal MiBAC riprende, in sostanza, il progetto Anas (il solo progetto dettagliato messo in campo sinora) sul quale concordarono il 5 dicembre 2000 governo Amato, Regione Toscana ed enti locali. Salvo poi stracciare l’utile intesa il giorno dopo il successo di Silvio Berlusconi, noto sostenitore di mille e mille progetti di Grandi Opere senza capo né coda (e senza neppure finanziamenti). Dalla primavera del 2001 ad oggi è stato un susseguirsi di tracciati (tracciati, non progetti) faraonici - montano, collinare, costiero - con l’opposizione tenace delle Associazioni nazionali, dei Comitati locali e di alcuni sparuti Comuni che invece invocavano «Aurelia sicura subito», cioè adeguamento a quattro corsie del percorso attuale. Con le Soprintendenze che parevano ammutolite, braccio locale e regionale di un ministro (Urbani) inesistente.

Se si pensa ai morti, ai feriti gravi, ai traumatizzati a vita che,dal 2001 ad oggi, questo valzer a vuoto di tracciati ha seminato sull’Aurelia a due corsie, vengono i brividi. Sarebbe bastato un po’ di realismo, di saggezza, di buon senso amministrativo, oltre che di rispetto per un patrimonio paesaggistico e storico-artistico-archeologico che nella zona fra Vulci e Tarquinia è ancora degno di un Grand Tour e che nessun progetto (eccetto quello dell’Anas) ha affrontato in positivo. Ora bisognerà vigilare molto attentamente affinché questa proposta importante del MiBAC e del suo titolare non venga depotenziata e magari devitalizzata dai sostenitori accaniti delle soluzioni autostradali più pesanti e devastanti.

In un articolo pubblicato sul l’Unità del 2 agosto non ho lesinato critiche di fondo alla gestione della struttura ministeriale dei Beni culturali, al giro di poltrone nelle direzioni generali, al centro e nelle regioni, sottolineando tutti i limiti di una pratica che poco privilegia meriti e competenze. Al tempo stesso ho rilevato la buona politica dispiegata a livello internazionale dal vice-premier Rutelli per il recupero delle opere d’arte (soprattutto reperti archeologici di straordinario valore) passate dai nostri tombaroli e trafficanti direttamente a musei stranieri, americani in specie. Allo stesso modo Francesco Rutelli è risultato particolarmente attivo - a differenza di altri colleghi che pure col paesaggio hanno a che fare - per la deprecata lottizzazione di Monticchiello e per altre situazioni, come per la demolizione di taluni ecomostri che da anni, in piena area archeologica o al centro di panorami costieri straordinari, ferivano a morte quei patrimoni strepitosi.

La vicenda dell’autostrada della Maremma dice molte altre cose. Essa conferma che questa «buona politica» può diventare più stabile ad alcune condizioni di fondo. Anzitutto - come chiedono ben 21 associazioni le quali si battono per la tutela del Belpaese in una recentissima lettera al presidente Prodi e ai suoi ministri, Rutelli in testa - occorre «rendere generalizzato e inderogabile il ricorso alla valutazione di impatto ambientale» che rappresenta la sola grande ricetta preventiva per avere progetti seri e attuabili senza sconquassi. Poi bisogna restituire ruolo e autorità alle Soprintendenze territoriali di settore i cui poteri tempestivi di intervento sono stati svuotati a vantaggio di direzioni generali regionali che invece (se proprio le si vuole) devono essere soprattutto organismi di coordinamento e di raccordo istituzionale Stato-Regioni. La valutazione di impatto ambientale finalmente esperita dal MiBAC per l’autostrada della Maremma ha dato un risultato di saggezza sul quale occorre lavorare in positivo. Se la stessa linea fosse stata seguita per taluni insediamenti (anche per la centrale eolica di Scansano a poche centinaia di metri dal Castello di Montepò e sopra i vigneti del Morellino più pregiato), sarebbero stati evitati sconci e manomissioni. Preventivamente, ripeto. Analogamente con ben organizzate conferenze dei servizi in cui le Soprintendenze (debitamente potenziate, ecco il punto, in mezzi e personale tecnico) abbiano voce piena.

Il discorso si sposta, strategicamente, al livello - negli anni berlusconiani trascurato o svilito - della pianificazione paesaggistica. Nella lettera a Prodi (e a Rutelli) delle 21 Associazioni, dal Wwf a Italia Nostra, da Legambiente al Comitato per la Bellezza, alla Lipu e a tante altre, si chiede per l’appunto che il governo di centrosinistra combatta il «laissez faire» che invece sta emergendo in relazione all’attuazione del Codice per il paesaggio e ai nuovi piani regionali il cui varo è fissato per il maggio prossimo. Per cui «il piano paesaggistico risulta assorbito, e vanificato, dalla generale pianificazione territoriale (si veda l’esempio della convenzione siglata con la Regione Toscana)». Quest’ultima, pur tra voci autorevoli di aperto dissenso, si è data un Piano Territoriale di Indirizzo, un PIT, che è tanto ricco di parole e di buone intenzioni quanto poco prescrittivi per gli Enti locali.

Su questo punto i ministri per i Beni e le Attività culturali, Rutelli, e quello per la tutela dell’Ambiente, Pecoraro Scanio, devono dire una parola molto chiara. Siamo il solo Paese sviluppato che corra all’impazzata verso la cementificazione e l’asfaltatura dei pochi milioni di ettari di superficie ancora liberi da costruzioni e infrastrutture. Nell’ultimo mezzo secolo ci siamo mangiati così oltre 12 milioni di ettari, un’area a verde, a bosco, a pascolo, a coltivo grande come l’intera Italia del Nord. Con una accelerazione spaventosa nell’ultimo quindicennio. Dovunque ormai sorgono lottizzazioni, quartieri, ville, case, capannoni, centri commerciali e, nel contempo, viviamo una drammatica emergenza-casa, non ci sono alloggi in affitto, l’edilizia pubblica o agevolata boccheggia ai minimi storici. Tutto il contrario dell’Europa più civile dove da anni (in Gran Bretagna dal 1938... ) si combatte il consumo di territorio e di paesaggio con leggi ad hoc. È così in Germania come in Spagna. Se ne discute negli stessi immensi Stati Uniti dove lo «sprawl», lo spreco di suolo, è all’ordine del giorno. Nei Paese europei appena citati, e pure in Francia, Olanda, Svezia, l’affitto è sempre rimasto una pratica diffusa e civile, mentre gli investimenti nell’edilizia pubblica viaggiano al 20-25 per cento del totale. Contro il 4 per cento vergognoso dell’Italia. Dove tutto questo enorme stock di abitazioni in costruzioni è speculativo, di mercato, para-turistico (così poi si ammazza lo sviluppo alberghiero, con le seconde e terze case) o risulta addirittura abusivo. Coi Comuni che «lasciano fare» perché dall’edilizia, fra Ici e concessioni, vengono dei bei soldi e quindi la tutela del territorio e del paesaggio è meglio farla dormire nei cassetti, o negli archivi.

Invece, nel paesaggio, lo sappiamo, tutto si tiene. Esso - affermò un grande storico dell’arte come Giulio Carlo Argan al Senato quando vi si approvava la fondamentale legge Galasso sui piani paesaggistici - è il millenario, mirabile «palinsesto» in cui leggiamo la nostra storia. Anche la nostra storia peggiore, purtroppo. Facciano in modo i ministri Rutelli e Pecoraro Scanio che non si ripeta il sostanziale fallimento della appena citata legge Galasso di un ventennio addietro con tante Regioni inadempienti, che la nuova pianificazione paesaggistica sia tempestiva, dettagliata, prescrittiva, d’intesa con le Regioni, certo, ma anche vigilando affinché le tavole della legge non restino delle belle carte colorate. Quanto si è potuto, e voluto, fare per dare una degna soluzione al problema della viabilità fra Rosignano e Civitavecchia, lungo la gloriosa Aurelia, si può ripetere su scala nazionale e regionale. Se lo si vuole.

Qualcuno, a questo punto, forse ciancerà di anti-regionalismo, di neo-centralismo. Ma non dice nulla a costoro il fatto che tutto il mondo teatrale italiano, coi migliori attori, autori e registi, sia insorto contro il progetto di «regionalizzare» i teatri stabili e l’intera gestione dei finanziamenti alle attività teatrali?

Nel corso dell’Ottocento è successo spesso che città fortificate abbiano scoperto che la loro fisionomia, da sempre condizionata da attrezzature molto specializzate, poteva – chissà, forse – cambiare pure radicalmente. Con le perplessità sui modi di riusare (se sbarazzarsi) di strutture apparentemente inconvertibili ad altre funzioni.

Quelle comunità hanno vissuto con preoccupazione la fine dell’economia di guerra. E il mantenimento dello stato di fatto si è protratto a lungo, magari per la necessità di continuare a comunicare, simbolicamente, la capacità di resistenza della compagine edilizia nata e cresciuta sulle vecchie fortificazioni.

Ma molte di quelle opere, come insegna la storia dell’architettura, sono state comunque sacrificate alla crescita, spesso solo per scacciare i brutti ricordi evocati da figure inquietanti e anche molto degradate.

Anche in Sardegna le città munite sul mare si sono trovate a fare i conti con questa transizione. A considerare la possibilità di riusare bastioni e pezzi di fortezze, a pensare, con preoccupazione, come mettere a frutto le stanze lasciate libere dai soldati.

I processi di conversione di luoghi urbani dismessi sono sempre molto lenti. A La Maddalena, si fanno oggi i conti con la necessità di dare una destinazione a quanto resterà di queste basi militari. E c’è fretta: si guarda alla sorte dei lavoratori impiegati in quelle strutture. Si è detto che ciò che rimane nell’arcipelago di questi paradossali pericolosi trascorsi dovrà produrre vantaggi all’economia locale, dovrà servire per risarcire il maltolto, perché ha ragione chi dice che la storia di questa città senza quel vincolo sarebbe diversa.

Ciò che resta di impianti che hanno condizionato finora la vita di quel luogo dovrà servire alle attese della comunità. Si pensi a ciò che resta dell’arsenale della marina italiana: 15 ettari in un nodo di rilevante complessità e in grado di accogliere funzioni importanti, come in casi analoghi con esiti diversi (l’arsenale di Venezia, 40 ettari, ospita parte della Biennale; quello di Taranto, 60 ettari, ha un futuro incerto da anni).

Occorre la stessa tempestività che servirebbe, nei processi di deindustrializzazione che pongono problemi analoghi.

Ecco, il tema del riuso – una nozione presente nel progetto politico del governo regionale che prende forma nel piano paesaggistico – potrà consentire una sperimentazione importante in questo caso. Serve però prudenza, che non dovrà venire meno per i tempi stretti, e soprattutto servono molte risorse.

E’ bene che si sviluppi rapidamente un’attività di pianificazione che tenga insieme tutte le questioni aperte per evitare che si disperda il senso unitario di uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo. Non a caso il G8 si svolgerà qui (fa comodo la condizione insulare doppia e lo spettacolo splendido assicurato dal colore del mare eccetera.).

Il G8 complica le cose. Qualsiasi persona di buon senso pensa che gli incontri dei Grandi, da qualunque parte si svolgano, siano manifestazioni dissennate, esibizioni orride e anche ridicole, si direbbe, se non fosse che ne ricordiamo i risvolti tragici, i delitti commessi per farlo il G8 ultimo.

Se si riuscisse a impedirlo, come tante altre manifestazioni inutili di questo Mondo, ci sarebbe da fare festa.

Ma così non sarà. Il G8 si farà e porterà denari, molti denari, che potranno essere usati male o bene in un ambiente che ormai vive di turismo e poco altro.

Vivere solo di turismo non è una bella cosa. Possiamo immaginare e vogliamo immaginare altre prospettive per quest’isola, ma i tempi non saranno brevi e dobbiamo ammettere che il turismo sarà nei prossimi anni la speranza per i disoccupati che non decideranno di andarsene nel frattempo, si spera: perché La Maddalena senza i suoi abitanti non avrebbe senso.

Il progetto potrà essere quello di consegnare le chiavi dell’isola a Ligresti o ad altri imprenditori, o provare una buona volta a investire in un processo di sviluppo partecipato e sostenibile nel senso di rendere finalmente protagonista la comunità locale.

Se il movimento che si opporrà al G8 conserverà un po’ di energie, dovranno essere investite per provare a volgere a proprio vantaggio questo evento, quanto più è possibile. Ad esempio per chiedere la bonifica del luogo da agenti patogeni radioattivi di cui si parla da tempo con inammissibili incertezze. Di sicuro per evitare che saltino, sotto le pressioni dei tempi da rispettare, le regole che presiedono all’uso di un territorio che è ancora Parco nazionale (e credo che le forme di tutela dei parchi nazionali siano una garanzia). Neppure sono ammissibili improprie e ingorde trasformazioni di volumetrie specie se si tratta di beni culturali.

Noi nel frattempo, ancora noi, possiamo continuare a darci da fare per dimostrare che un mondo diverso è almeno auspicabile: per questo l’idea di avviare un dibattito che si concluda nei giorni dello svolgimento del G8, per temi, in diverse località della Sardegna, è una bella idea da mettere a punto nei prossimi mesi.

la Repubblica del 29 luglio 2007

Venezia, notte sul Canal Grande per scoprire il ponte di Calatrava

di Roberto Bianchin

VENEZIA - Nella notte, sul Canal Grande deserto, la folla muta sulle rive, il dinosauro di cinquanta metri avanza lentissimo, a luci basse, sull´acqua quieta. Non c´è un´onda, non un filo d´aria, solo un´afa che ti scioglie.

Nessuno parla, sembra un film di fantascienza. «Una scena di Blade Runner», dice Marco, un ragazzo biondo. «No, Fellini, la notte del Rex», lo corregge Luca, che si è portato da casa un seggiolino per gustarsi lo spettacolo dal campo della Salute. Ha lasciato per ore la città con il fiato sospeso la lunga notte di Calatrava. Con migliaia di persone sulle rive, in un´atmosfera surreale, a guardare, prima preoccupate e poi contente, il passaggio del grande convoglio che trasporta i primi due pezzi del ponte del celebre architetto che collegherà la stazione con piazzale Roma.

Trattengono il fiato le vecchiette in ciabatte di Riva del Carbon al momento del passaggio sotto il ponte di Rialto, il punto più delicato, dove le distanze sono minime, appena pochi centimetri dalle rive, solo un metro di altezza dalla sommità dell´arcata cinquecentesca. Ma tutto fila liscio. I 25 tecnici della "Fagioli", l´azienda specializzata in trasporti eccezionali che manovra il convoglio, sanno il fatto loro. Sono gli stessi che hanno fatto viaggiare il sommergibile Toti da Cremona a Milano e spostato montagne dall´Arabia al Texas. Le due spalle laterali del ponte, lunghe 15 metri, larghe 7 e pesanti 85 tonnellate, arrivano a destinazione alle 2.30 del mattino con maggiore facilità e tre ore di anticipo sul previsto, dopo un viaggio durato quattro ore e mezza, due e mezza delle quali in Canal Grande. La prima «spalla», dal lato di piazzale Roma, è stata montata ieri. La seconda, lato Stazione, oggi.

La notte del 7 agosto, il secondo tempo del film. Con lo stesso sistema verrà trasportata l´arcata centrale del ponte, lunga 64 metri. Un´impresa ancora più difficile. Ma per camminarci sopra, tra lavori di consolidamento e di abbellimento, come i gradini di marmo e le balaustre di vetro, bisognerà aspettare Capodanno. E poi ci vorranno cinque anni di controlli costanti con una serie di sofisticati strumenti elettronici. Il ponte, che non ha ancora un nome, resterà un «sorvegliato speciale», perché essendo una struttura «spingente», spiegano i tecnici, si dovrà verificare che le fondazioni su cui poggia, che sono il punto più delicato dell´opera, non subiscano «spostamenti significativi». È una telenovela che dura da 11 anni quella del quarto ponte sul Canal Grande. Anni di attese, di errori, calcoli sbagliati, liti giudiziarie, polemiche, baruffe, e di costi triplicati (quasi 11 milioni di euro), che hanno provocato un´inchiesta della Corte dei Conti.

Anche per questo c´erano molti timori per il pericoloso viaggio nella notte, con il Canal Grande chiuso dalle 23 alle 6, niente barche né gondole né vaporetti, i pontili sbarrati, la circolazione pedonale vietata sui ponti e anche su qualche riva e calle. La chiatta «Susanna», un bestione lungo 50 metri e largo 16, che trasporta le due «spalle» fa la sua apparizione a mezzanotte precisa, come da copione, alla punta della Salute, dove comincia a entrare, lentamente, in Canal Grande, favorita dalla bassa marea che proprio in quel momento inizia il suo ciclo, e agevola il passaggio sotto i tre ponti dell´Accademia, di Rialto e degli Scalzi. Tirata con una grossa fune dal «Santa Marta», un pontone di 36 metri, e spinta da dietro dal «Mantova», con altri due barconi di appoggio al fianco, lo «Sparviero» e la «Scomenzera», la gigantesca chiatta era partita alle 22 dal cantiere di Marghera dove hanno costruito il ponte, e alle 23 aveva attraversato il canale della Giudecca. Ma la parte più rischiosa è l´ultima, il percorso in Canal Grande, che l´enorme convoglio occupa quasi interamente nel senso della larghezza, sfiorando le rive, i pontili e le «bricole», i pali di legno ai quali si legano le barche. I veneziani, nell´attesa, discutono e si dividono. C´è chi approva, entusiasta, come Marta, studentessa di lingue («Finalmente un segno di modernità»). Chi è perplesso, come Vittorio Sgarbi («Le rampe sono molto vistose, l´impatto non sarà così innocuo»). E chi disapprova, come Piero, cameriere: «Un´opera inutile. Per andare dalla stazione a Piazzale Roma ci metto 3 minuti in vaporetto e 5 a piedi. A cosa serve il ponte?». Più duro Giorgio, gondoliere: «Soldi buttati. Potevano farci mille altre cose più utili».

Il convoglio è scortato da cento uomini tra vigili, agenti e pompieri. Il sindaco, Massimo Cacciari, lo segue su una barca della protezione civile. Il primo passaggio difficile è a mezzanotte e un quarto, sotto il ponte dell´Accademia, il secondo 15 minuti dopo, alla curva stretta di Palazzo Grassi, che Dario Borsetti, al timone dello «spintore» Mantova, esegue preciso, con un colpo di biliardo, facendo la barba all´enorme teschio di lattine che annuncia la mostra d´arte moderna. Ma il punto più pericoloso è il passaggio sotto il ponte di Rialto. «Il momento più impegnativo», confida Salvatore Vento, dirigente dei lavori pubblici. La chiatta, secondo i programmi, doveva arrivarci alle 2 e impiegarci due ore e mezza per passarci sotto. Arriva con un´ora di anticipo, e lo passa, senza intoppi, in mezz´ora.

Lenta, anche se non lentissima, e precisa. Quando la sua sagoma sbuca dall´altra parte, all´1.35, e deve curvare ancora per imboccare diritto il «Canalasso», parte il primo applauso dalla folla. La tensione si scioglie, sopra il ponte un gruppo di ragazzi si mette a ballare e a cantare l´inno di San Marco, «le glorie del nostro leon». Finire il viaggio poi è un gioco da ragazzi. Come montare la prima delle due «spalle». Il sindaco Cacciari è visibilmente soddisfatto. «È andato tutto nel migliore dei modi», si complimenta con gli operai. Ma la telenovela non è finita. Il viaggio di Calatrava sarà ancora lungo. E la prossima notte sarà un´altra notte col cuore in gola.

il manifesto, 29 luglio 2007

La lunga notte di Calatrava

di Roberto Ferrucci

Sono qui, dice in perfetto dialetto veneziano l'uomo al telefonino, probabilmente alla moglie. Sono bloccato da questo «cancaro» di ponte di Calatrava. Pochi metri più in là, a Piazzale Roma, una squadra di tecnici sta lentamente facendo combaciare il primo braccio del nuovo ponte sul Canal Grande. Buona parte dei veneziani sono come questo tizio. Detestano tutto quello che si cerca di fare in questa città, soprattutto se intralcia la loro tranquillità, i loro percorsi e, soprattutto, i loro affari. Per tutto questo, dunque, sono poi del tutto - e colpevolmente - indifferenti allo scempio del Mose. Perché non li intacca direttamente, distrugge solo la laguna, quello, non i loro immediati dintorni. Egoisti sfrenati, i veneziani. Incapaci anche solo di intuire l'evento comunque epocale che in questi giorni Venezia sta vivendo. Perché al di là di tutte le polemiche il ponte di Calatrava è un evento epocale. Per gran parte dei veneziani, invece, una rottura di balle. Non proprio per tutti, a dire il vero. Perché se stamattina, sabato, sono poche decine ad accompagnare di pupille il lento amplesso fra il braccio versante Piazzale Roma alla spalla che lo sorreggerà per sempre - un appropinquarsi lentissimo come un corteggiamento fatale - erano in migliaia, la notte prima, a essersi dati appuntamento lungo le rive del Canal Grande e sopra ai suoi altri tre ponti per veder passare Susanna, una chiatta lunga cinquanta metri e larga sedici, sulla quale sono state collocate le spalle del ponte, ottanta tonnellate l'una. La prima trasportata la notte fra venerdì e sabato, la seconda fra sabato e domenica. Il 7 e 8 agosto toccherà poi al corpo centrale. Sì, una Venezia curiosa e partecipe c'è ancora. Non c'è solo chi spreme i turisti ma anche chi fa resistenza perché questa città non imbocchi la deriva disneylandiana che sembra sempre più inevitabile. Allora immaginateveli, questi veneziani, darsi in parte, qualche centinaio, appuntamento alla Biennale Teatro, per vedere «L'ultima casa», spettacolo scritto da Tiziano Scarpa e portato in scena dalla compagnia Pantakin nell'ambito della rassegna Goldoni e il teatro nuovo. Risate e applausi per un'opera che racchiude in sé la tradizione e la genialità di uno scrittore, Scarpa, che ha fatto sua - lo sanno bene i suoi lettori - non soltanto la lezione goldoniana. Applausi, dunque, e dopo la terza chiamata in scena di attori, regista, Michele Casarin, e autore, tutti sul Ponte dell'Accademia, ché sono quasi le ventitré e tra poco il pezzo di ponte passerà qua sotto. Questo, di legno, è già quasi pieno di gente. Dell'altro, quello di Calatrava, si parla da anni. Ritardi su ritardi, intoppi su intoppi, imprecazioni su imprecazioni, e stanotte, finalmente, è la notte. L'atmosfera è quella che respiri nelle feste popolari (c'è stato il Redentore, qui, un paio di sabati fa). C'è quella complicità collettiva sempre più rara, ormai. I turisti si domandano stupiti che cosa stiano guardando tutte quelle persone appoggiate al parapetto, sguardo puntato, per ora, verso il nulla. Qualcuno sfoggia il suo più che improbabile inglese per spiegare che un nuovo bridge nascerà stanotte. Sembra vuoto, in effetti, il paesaggio davanti gli sguardi di chi è appoggiato al parapetto. E anche se qualcuno domanda quando iniziano i Foghi (d'artificio, quelli del Redentore), lo spettacolo stupefacente è il Canal Grande piatto, vagamente immobile, del tutto privo del moto ondoso perpetuo che da sempre frastaglia il suo stare instabile. Qualcuno la guarda incantato, la superficie dorata non più graffiata ma accarezzata di luci, tirarsi via compatta, liscia e nitida, da qua sotto fino alla Salute. Mai vista, prima. Ma la gente è concentrata sul fondo, l'imbocco del canale, Punta della Dogana. Da lì apparirà Susanna, la chiatta e il suo pezzo di ponte sopra. Intanto, i lampeggianti blu della polizia municipale sono il segnale di qualcosa di imminente. Ecco vedi, dice qualcuno, laggiù. Ma laggiù è una motonave in arrivo da Punta Sabbioni. C'è l'ansia per l'evento o forse l'urgenza di raggiungere finalmente il letto. Nemmeno qua sopra soffia un filo d'aria. Ci si fa vento con ciò che capita e le due ragazze col ventaglio sono le più circondate. Alle 23.53, eccolo, esclama qualcuno. All'improvviso appare il corteo, aperto da Francesca, la barca d'assistenza. Si chiama come me, sorride una ragazza qua vicino, orgogliosa di partecipare per interposto natante all'evento epocale. Dietro, la superchiatta, ma non c'è nessuna Susanna, nei dintorni, a rivendicarne l'omonimia. L'equipaggio di tecnici è schierato a prua, caschetti gialli, tute arancione, pettorine rosse. Sembrano i Village People, ride Francesca. Ma l'evento è in atto, con tutta la sua simbologia. La gente cerca di riconoscere il pezzo di ponte. Qualcuno dice che brutto colore, è rossonero. Ma non sarà quello il colore finale, credo. La velocità è al ralenty. Ognuno può godersi in tempi più che dilatati il passaggio di questo urbanistico «c'ero anch'io».

In coda, a chiusura del corteo, il tanto evocato sindaco Cacciari, camicia grigia, pantaloni beige, capelli e barba che sembrano farsi un baffo dell'afa atroce. «Abbiamo previsto l'imprevedibile», ha ripetuto in questi ultimi giorni. E cioè il passaggio sotto al Ponte di Rialto, manovra che richiederà un paio d'ore, roba da notte inoltrata e arrivo in Piazzale Roma alle cinque e trenta del mattino Chissà chi porterà cappuccino e brioche agli abilissimi piloti di quegli enormi cosi. I più vanno a letto. Speriamo di non sentire un botto, verso le due, dice qualcuno. Se viene giù lo faranno rifare a Calatrava pure quello, esclama un altro.

E invece eccolo qua, la mattina dopo. Penetrazione perfetta fra braccio e spalla poco dopo mezzogiorno, addirittura in anticipo sulle tabelle. Ponte di Rialto sempre lì, calpestato da migliaia di sandali e infradito. Stanotte si replica, settimana prossima pure. E a Ferragosto sandali e infradito non si negheranno nemmeno a quel «cancaro» di Ponte di Calatrava. Che sarà bellissimo, statene certi.

www.robertoferrucci.com

il manifesto, 29 luglio 2007

Cinque secoli di fallimenti E ora il «valenciano»

di Maurizio Giufrè

La storia, a volte, si ripete, come nel caso dell'architettura veneziana. Cinque secoli fa il progetto di Andrea Palladio per il ponte di Rialto fu abbandonato perché la «risoluzione ben ferma di non cangiar nulla allo stato attuale delle cose» - come scrisse Antoine Rondelet nel suo «Saggio storico sul ponte di Rialto in Venezia» del 1841 - risultasse la «principal causa» dell'abbandono di una così «splendida soluzione» riducendola, nel 1587, al solo disegno inciso per «I Quattro libri dell'architettura» dell'architetto vicentino. Fortuna migliore non l'ebbe neppure Tommaso Temanza che, ideati nel 1780, non vide mai realizzati i suoi tre ponti per la sistemazione della Riva degli Schiavoni. Analoga sorte ha riguardato, infine, anche il ponte in pietra degli ingegneri Torres e Briazza, sostituito dal 1933 da quello «provvisorio» dell'ingegnere Eugenio Miozzi.

La vicenda del ponte di Santiago Calatrava si inscrive in questa lunga serie di fallimenti che hanno la loro origine nelle complesse relazioni instaurate tra i poteri pubblici, sempre più autoreferenziali, e i processi che concorrono agli affidamenti degli incarichi sia dei progetti sia dell'esecuzione delle opere. Se si scorre, però, la cronaca dell'architettura dal dopoguerra ad oggi i fallimenti nel capoluogo lagunare sono stati di ben altra misura, al punto che quello del ponte in questione risulta di scarsa rilevanza. I progetti non realizzati del Masieri Memorial sul Canal Grande di Frank Lloyd Wright, dell'ospedale di Le Corbusier e del centro congressi per la Biennale di Louis Kahn sono gli emblematici esempi che nessuna architettura contemporanea in programma - dal Nuovo Palazzo del Cinema alla «Venice Gateway» di Frank Gehry - potrà mai risarcire.

Il ponte di Santiago Calatrava, asciutto ed essenziale, non ha nulla delle dissonanze della sua Shadow Machine che nel 1993 accompagnò la sua prima presenza in laguna: una copertura di dodici elementi di calcestruzzo armato che si muovevano lentamente come le costole di un immaginario organismo vertebrato. Dove mai è approdata la sua ricerca sul movimento delle strutture, l'elasticità e l'equilibrio dei materiali, cardini della ricerca espressiva dell'architetto valensiano, è difficile dirlo. Anche i suoi recenti ponti italiani nello snodo autostradale di Reggio Emilia risentono di questa riduzione espressiva, indice di un collaudato e ormai ripetitivo repertorio tecnologico e formale pronto all'uso in qualsiasi contesto.

All'inizio degli anni novanta i suoi ponti strallati, ad arco o a pilone componevano una casistica che assumeva un altissimo carattere distintivo nel paesaggio urbano. Quegli studi che coniugavano sapiente riflessione sulla tecnica dell'acciaio e ricerca estetica sembrano oggi essersi esauriti in soluzioni scontate, insistendo sui componenti hi-tech dal candido effetto tonale, e come per Palladio il «non cangiar nulla» dimostra a volte di essere fatale.

il manifesto, 29 luglio 2007

La città lagunare lancia un ponte verso il futuro

di Orsola Casagrande

Il primo pezzo del ponte della discordia è stato dunque messo in posa. Venezia avrà il suo quarto ponte sul Canal Grande, il quattrocentotrentunesimo complessivamente. Disegnato dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava dopo undici anni di polemiche, «baruffe», gioie e dolori, il ponte sta per diventare finalmente realtà (non prima di ottobre). Il progetto, da profani, è davvero mozzafiato. Il ponte infatti sarà in acciaio, vetro e pietra d'Istria. I costi di realizzazione fanno per la verità altrettanto sobbalzare: oltre 10 milioni di euro contro i due previsti undici anni fa.

La polemica più decisa è stata quella delle associazioni delle persone diversamente abili. Infatti il progetto non prevedeva, e questo non ha fatto onore a Calatrava, l'accesso per chi deve muoversi in carrozzina. Alla fine si è risolto con una ovovia che trasporterà da una riva all'altra chi non può camminare.

Il nuovo ponte sarà il primo sul Canal Grande dopo più di un secolo dalla costruzione ad opera degli Austriaci dell'ultimo ponte che attraversa il canale principale di Venezia, il ponte degli Scalzi di fronte alla stazione di Santa Lucia. L'idea iniziale, della prima giunta Cacciari, era quella di collegare Piazzale Roma, luogo d'accesso intermodale di mezzi pubblici e privati su gomma e su acqua, alla ferrovia, che oggi è una ferrovia di testa e nel futuro sarà anche il punto d'arrivo di un nuovo servizio regionale di "metropolitana a cielo aperto". Attraverso una gara internazionale di appalto, indetta dalla giunta Cacciari e basata sulla selezione non di un'idea progettuale ma del curriculum del progettista. Una volta scelto e affidato il progetto a Calatrava, l'architetto spagnolo ha proceduto seguendo alcune direttive esplicite indicate dal comune di Venezia. Prima di tutto c'era l'indicazione di un ponte che fosse collegamento tra mezzi di trasporto diversi ma che si inserisse armonicamente nell'ambiente particolare di Venezia.

Lo scoglio più difficile si è rivelato, giustamente, quello dell'accessibilità che doveva essere per tutti. Così nel 2003, di fronte alle proteste, l'allora sindaco Costa e, con maggiore reticenza, Calatrava hanno invitato le associazioni a presentare idee di accessibilità che si potessero applicare al progetto originale. Sul tavolo dell'architetto sono arrivate sette proposte elaborate da una squadra di trenta progettisti.

Con la messa in posa ieri notte dei primi due conci laterali le polemiche possono dirsi concluse. «Un'operazione di indubbia complessità, ma anche di grande fascino», ha detto l'assessore comunale ai Lavori pubblici di Venezia, Mara Rumiz. Ora si attende il trasporto del concio centrale - lungo 60 metri e pesante 270 tonnellate - che avverrà nella notte tra il 7 e l'8 agosto e sarà posizionato l'11 e il 12 agosto. Mara Rumiz ha ricordato anche che la posa sul Canal Grande di una grande opera di architettura contemporanea è un preciso segnale per Venezia, a non guardare soltanto al suo glorioso passato, ma a calarsi nel contemporaneo, anzi a proporsi come città-modello del contemporaneo, proiettata al futuro.

Postilla

Perché abbiamo messo a questa rassegna stampa il titolo “bella cazzata”?

Il primo termine perché probabilmente è un bell’oggetto . Non lo abbiamo ancora visto, ma persone che stimiamo dicono che lo è, e del resto gli ingegnosi oggetti di Calatrava sopo generalmente belli. Del resto, valuteremo l’adeguatezza dell'aggettivo quando l’oggetto apparirà in tutto il suo probabile splendore.

Il secondo termine perchè il ponte è un errore almeno per tre motivi:

(1) non ci sono ragioni nell’assetto della città e delle sue previste trasformazioni che lo giustifichino; il percorso tra piazzale Roma e stazione ferroviaria si abbrevierebbe al più per uno o due minuti;

(2) perché spendere oltre 10 milioni di euro per una struttura inutile è uno spreco incredibile quando mancano i soldi per l’abitazione sociale, per la bonifica delle zone inquinate nello stesso centro storico, quando languono i lavori per il risanemento dei canali ecc. ecc.);

(3) perché, soprattutto, è da rifiutare l’deologia che sta alla base delle giustificazioni del ponte: che a Venezia servano altri monumenti, anzicchè la messa in valore delle qualità che storia e natura hanno già prodotto nel suo assetto; che Venezia debba diventare omogenea (per valori, simboli, funzioni, modi di abitare e lavorare) a qualsiasi altra città contemporanea.

Con il programma di Governo del 2006, il "Piano generale dei trasporti" (PGT), varato dal precedente Governo di centro-sinistra nel 2001, tornava ad essere il punto di riferimento in materia di politica delle infrastrutture e dei trasporti, per i partiti dell’Unione (1). A leggere il recente Dpef, sembra che il riferimento ai criteri fissati dal PGT sia divenuto sempre più vago, mentre tra le moltissime carte prodotte recentemente dal Ministero delle Infrastrutture si può addirittura leggere che "a quasi cinque anni dalla sua emanazione, la Legge Obiettivo si conferma come una novità fondamentale nel quadro dello sviluppo civile e produttivo del Paese".

Scelte di lunga percorrenza e poca lungimiranza

In effetti, dal voluminoso "Allegato infrastrutture" al Dpef si evince che la scelta dei progetti prioritari per il paese rimane quella della famosa lavagna di Berlusconi alla trasmissione "Porta a porta" del 2001 e poi riflessa nella Legge Obiettivo: un elenco di "grandi opere", selezionate con criteri strettamente politici, e tutte orientate al traffico di lunga percorrenza. Non ha importanza che – come riconosceva il citato programma elettorale dell’Unione - il 70% degli spostamenti di tutto il territorio nazionale si sviluppi nelle aree urbane e metropolitane e che soprattutto questi spostamenti incidano assai più di quelli di lunga percorrenza su congestione, inquinamento, e costi per le imprese. Ma su questo punto (e non solo) va segnalata una stridente contraddizione tra l’Allegato infrastrutture e il capitolo V.11 ("Infrastrutture") del Dpef, da un lato, e il capitolo V.12 ("Mobilità") dall’altro. A conferma che la scissione del vecchio Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in due ministeri separati (che hanno con ogni evidenza curato i due capitoli) non è stata una buona idea.

Dall’elenco di Berlusconi-Lunardi il Ministro Di Pietro si è limitato a rimuovere (sembra più posporre) il Ponte sullo Stretto di Messina, su cui, del resto, il programma elettorale era stato esplicito, ma che non è neanche tra le opere inutili più costose. E’ stato reintrodotta la linea AV Milano-Genova, che anche i vertici di F.S. hanno dichiarato più volte opera di scarsa utilità e costosissima. Coerentemente, è stato fatto invece un accurato censimento dei "desiderata" delle regioni, secondo una consolidata tradizione americana nota come "pork-barrel policy", che determina scelte molto inefficienti se riferita a finanziamenti da parte dello Stato centrale.

In buona sostanza, è stato fatto tutto ciò che esclude un serio confronto sulla priorità reale dei progetti, priorità che deve e può basarsi su analisi socioeconomiche e finanziarie omogenee, che includano anche i costi ambientali, e analizzino alternative tecniche adeguate, secondo la miglior prassi internazionale. A rigore, nel Dpef (soprattutto nel capitolo "Mobilità") c’è un richiamo alla necessità di analisi costi-benefici, ma sembra un’evidente foglia di fico, di cui si perde ogni traccia negli elenchi dell’Allegato infrastrutture (elenco che costituisce un modello noto come "shopping list").

Nel dibattito di questi ultimi mesi sono anche ritornati fantasmi, che sembravano già esorcizzati, come la "golden rule", invocata recentemente in più sedi dal Presidente della Commissione trasporti del parlamento europeo Paolo Costa. C’è da chiedersi, se la razionalità economica delle scelte è quella appena descritta, vigente l’attuale vincolo alla spesa, cosa potrebbe accadere in assenza di tale vincolo? Non è difficile immaginare che la spinta locale e settoriale a costruire le cose più fantasiose diverrebbe inarrestabile. Da notare è anche il fatto che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega al Cipe, Fabio Gobbo sia tornato a evocare la "finanza creativa" cara a Giulio Tremonti, nella forma di coinvolgimento di capitali privati, coinvolgimento che risulta in genere solo formale, nella misura in cui nella prassi dominante tali capitali risultano perfettamente garantiti dallo Stato per qualsiasi rischio.

In questo contesto appare particolarmente preoccupante la richiesta di finanziamenti europei fatta dall’Italia per moltissimi progetti della legge obiettivo: vi sono infatti 8 miliardi per ventisette paesi, e l’Italia ne chiede 700 milioni solo per l’AV Torino-Lione. Anche se arrivassero tutti, coprirebbero meno del 10% dei costi totali per la parte italiana del progetto. Ma purtroppo, anche se arrivassero cifre simboliche dall’Europa, ciò significherebbe l’impegno nazionale a coprire l’intero costo di ciascuna opera, ipotecando ingentissime risorse per gli anni a venire su opere molto onerose, di cui mai è stata verificata la priorità. Tale verifica non è stata fatta in modo comparato neppure per quanto riguarda la semplice redditività finanziaria dei progetti: e si noti che in presenza di risorse scarse, la redditività finanziaria è parametro essenziale anche per la redditività socioeconomica complessiva: a parità di quest’ultima infatti se si selezionano progetti a maggior ritorno finanziario se ne possono realizzare in maggior numero (2).

Tre aspetti da valutare

Quali sono le logiche "bipartisan" che sembrano emergere in questo delicato settore e che sono alla base della sostituibilità quasi perfetta tra l’Allegato infrastrutture di Di Pietro e quello che avrebbe potuto produrre Lunardi? Si possono qui fare alcune ipotesi.

La prima questione sembra essere l’informazione: i grandi progetti infrastrutturali sono stati da 5 anni oggetto di una sistematica campagna di supporto da parte degli interessi costituiti, che sono riusciti a rappresentare ogni forma di critica come manifestazione di contrarietà al progresso e alla modernizzazione del paese, tipica della sinistra estrema e dell’egoismo localistico. In realtà, sarebbe interessante effettuare qualche indagine sul livello di conoscenza tecnica dei problemi di trasporto dei supporters politici e industriali delle grandi opere. E ci stiamo lavorando…

· Un altro aspetto, più strutturale, riguarda il ruolo delle grandi opere civili: in questo settore moltissimi input devono necessariamente essere locali (in gergo: non è "foot loose") e perciò la concorrenza internazionale è storicamente poco presente. Questo fa sì che la spesa in opere civili sia praticamente l’unico modo attraverso il quale si possono erogare fondi rilevanti alle imprese nazionali senza incorrere nel divieto per aiuti di Stato.

· Un terzo punto, correlato con i due precedenti, è lo scandalo, subito dimenticato, dell’enorme crescita nel tempo dei costi della tipologia di opere più rilevanti, quelle dall’AV ferroviaria: così i costi per chilometro di linee ad alta velocità in Italia è stato (ed è previsto essere in futuro) oltre il triplo che in Francia o Spagna. Costi anomali, anche a parità di saggio di profitto, significa un flusso anomalo di risorse ai settori interessati, tramite F.S., che – a causa di tali extracosti - recentemente ha beneficiato di trasferimenti "cash" per 12 miliardi di euro. Queste risorse generano ovviamente una eccezionale capacità di pressione, politica e mediatica, perché tale flusso non si arresti.

(1) Per il bene dell’Italia. Programma di Governo 2006-2011, pp. 136-140.

(2) Bonnafous, A., Jensen, P. (2004), Ranking Transport Projects by their Socio-economic Value or Financial Interest Rate of Return? Paper presented at 10th WCTR, Istambul, July.2004, 11p. , e Ponti M. (2003), Welfare basis of evaluation, in Mackie P.J., Nellthorp J., Pearman A. D. (edited by, 2003), Transport projects, programmes, and policies: evaluation needs and capabilities, Ashgate Publishing Ltd, Aldershot (UK).

Linda Lanzillotta, ministro per gli Affari Regionali del governo Prodi, sta conducendo da tempo una battaglia di grande vigore contro quelle istruzioni che vengono dipinte come vere e proprie fonti di spreco: i comuni italiani. Questa solitaria battaglia è degna della miglior causa. Nemmeno Giovanna d’Arco lottò con tanto ardore contro l‘Inghilterra, tanto da meritare al ministro l’appellativo di Lancillotta, proprio per sottolineare le sue virtù guerriere senza macchia e senza paura.

Senza paura è certo vero. Senza macchia lo vedremo in seguito. Indaghiamo prima sull’oggetto di tanto furore. Come è noto a tutti, i comuni italiani sono stati sottoposti dal 1993 ad una cura dimagrante di proporzioni straordinarie. Ogni legge finanziaria ha decurtato i trasferimenti statali, impedito assunzioni e limitato la possibilità di contrarre mutui.

Gli effetti non sono tardati a manifestarsi. La rete di assistenza per la parte meno favorita della popolazione ha subito una progressiva attenuazione e molte cancellazioni: è stato pressoché azzerato il ruolo redistributivo dei comuni. E’ vero che al tempo dei primi tagli non mancavano vere e proprie forme patologiche di sprechi di risorse e livelli di indebitamento insostenibili. Come è vero che permangono ancora oggi sacche di privilegio ricavate dall’uso disinvolto delle leggi che hanno “liberalizzato” il mercato del lavoro pubblico. Sono molti infatti i portaborse del sottobosco politico cui vengono concessi contratti d’oro, ma di questo non si parla: è più indolore chiudere i doposcuola.

Il fatto strutturale è che in mancanza di trasferimenti adeguati, i comuni sono stati costretti ad alimentare la rendita fondiaria. I bilanci locali si basano prevalentemente sull’imposta sugli immobili (Ici) e sull’urbanistica contrattata che, in cambio di impressionanti aumenti di cubatura, permette di ottenere da rentier scaltri quanto privi di scrupoli modeste -ma importanti- risorse finanziarie. Insomma, oggi i comuni pagano i servizi pubblici con i mattoni della speculazione edilizia.

Uno risultato devastante, come si vede. Ma per Lancillotta non basta ancora. Il 31 maggio ha convocato i presidenti delle Regioni e gli enti locali per comunicare che era sua inflessibile intenzione tagliare ancora i bilanci degli enti locali. Le cronache dicono che la reazione di dei presenti è stata così veemente che sono addirittura sparite le cartelline stampa. La prode condottiera ha battuto in ritirata.

Forse perché qualcuno avrà argomentato sul fatto che la cavaliera sarà pure senza paura, ma nelle sue eroiche gesta si trova anche qualche non trascurabile macchia. Di latte. Agli albori della furiosa campagna “privato è bello” orchestrata dai poteri forti negli anni ’90, Linda Lanzilloltta era assessore al comune di Roma. Nel 1997 curò la vendita della Centrale del latte comunale alla Cirio di Sergio Cagnotti per la cifra di 110 miliardi di lire. I giornali liberisti gridarono al trionfo: un grande affare. Avrebbero potuto essere più cauti, perché dopo pochi mesi, nel febbraio 1998, la Cirio passò la proprietà della Centrale alla concorrente Parmalat di Callisto Tanzi per un importo valutato 200 miliardi. Il comune di Roma vendette la Centrale del latte alla metà del suo valore reale!

Il fatto che Cirio e Parmalat abbiano di lì a poco prodotto i più gravi scandali finanziari di quest’ultimo periodo, ci fornisce anche un eloquente chiave di lettura aggiuntiva: con i regali ricevuti da incauti amministratori pubblici, alcuni imprenditori si sono anche cimentati con profitto nel truffare tanti piccoli risparmiatori. In ogni altro paese, con precedenti di questo tipo sarebbe terminata qualsiasi carriera politica. Da noi, una classe politica senza credibilità che si è abilmente sottratta al giudizio dei fatti, continuerà a gettare i comuni nelle braccia delle speculazione immobiliare.

La Procura della Repubblica ha clamorosamente riaperto l'inchiesta sugli stagni-fantasmi di Olbia. Ha affidato al corpo forestale nuovi accertamenti su Mare e rocce, Pittulongu e Bados. Vuol capire com'è che sono scomparsi dalla cartografie.Sbianchettati, cancellati, eliminati dalle cartografie e soprattutto dal litorale di Pittulongu, Bados e Mare e Rocce. Gli stagni fantasma della costa olbiese sono di nuovo al centro di una inchiesta della Procura della Repubblica. Si può parlare di una clamorosa riapertura del fascicolo del sostituto Renato Perinu, la stessa indagine che aveva portato alla cancellazione del piano di risanamento di Pittulongu. Il pubblico ministero Ezio Castaldi ha disposto nuovi accertamenti, affidati al Corpo forestale. Il magistrato ha chiesto al personale della sezione di polizia giudiziaria della Procura di stabilire se corsi d'acqua e stagni retrodunali possano essere classificati come beni demaniali.

Se a questa domanda verrà data una risposta positiva, il caso Pittulongu verrà rimesso in pista, perchè la prescrizione non cancella i reati riguardanti il patrimonio dello Stato. Invece il fascicolo della prima indagine (ipotesi: abuso d'ufficio, falso) è¨ stato chiuso senza alcuna contestazione proprio perchè i reati sono stati dichiarati estinti per prescrizione. Insomma, la Procura ritorna alla carica su una vicenda che interessa da vicino, oltre al Comune di Olbia, anche quanti non vogliono arrendersi all'idea di dover rinunciare agli interessanti interventi urbanistici in zone di particolare pregio, sotto tutti i punti di vista. La polizia giudiziaria si è messa subito al lavoro, dopo l'input dell'attuale capo della Procura gallurese, gli investigatori faranno un percorso a ritroso nel tempo, verificando documenti, ma soprattutto rilievi aerofotogrammetrici che risalgono anche ai primi anni Cinquanta. Anzi il Corpo forestale sta cercando materiale particolarmente interessante raccolto da un geometra olbiese che qualche decennio fa mise insieme un voluminoso dossier su Pittulongu corredato di preziose fotografie. Rilievi che dimostrerebbero, senza possibilità di smentita, l'esistenza degli specchi d'acqua successivamente oggetto di interventi fuorilegge di riempimento, sino alla completa scomparsa. L'avvio degli accertamenti arriva in una fase particolarmente delicata della vicenda. Da mesi, infatti, il Comune di Olbia si oppone ai ricorsi presentati dalle società alle quali sono state negati le concessioni per interventi nel comprensorio di Pittulongu.

Il Tar, con alcuni importanti pronunciamenti ha accolto le richieste di chi ritiene priva di argomenti, almeno dal punto di vista amministrativo, l'interruzione degli iter concessori. Ora suona il campanello delle nuove verifiche avviate nei giorni scorsi dal Corpo forestale. E’ evidente che, in un quadro come questo, si è ben lontani da una definitiva risposta alle numerose domande riguardanti il passato e il futuro di Pittulongu.

Ma non basta, perché qualche giorno fa il Tribunale di Olbia ha anche assolto i rappresentanti della società proprietaria dei sette ettari affidati alla cooperativa Il Mattino, per la realizzazione di parcheggi e strutture di servizio destinati ai bagnanti. La srl Li. Do. di Pittulongu ha di nuovo, dopo un lungo periodo di sequestro, la disponibilità dell'area e anche in questo caso si attendono risposte dal Comune e dalla Regione.

Postilla

Il Tg3 di oggi – domenica 8 luglio – ci informa che i nuovi ricchi russi pagano oltre 100mila euro per affittare per un mese una casa in Costa Smeralda. E che i sardi che vanno in vacanza sono il 10% in meno dell'anno precedente. Ognuno può mettere come crede le due notizie in relazione e integrare le considerazioni con un'altra notizia sull'Unione Sarda che racconta di una truffa di cui si parla da un po'.

Si spiega come si possano truccare le carte topografiche fino a cancellare, nel litorale di Olbia,i presupposti dei vincoli, in questo caso stagni in seguito abilmente interrati. Falsari postmoderni. Incredibile: più o meno come nel film di Totò e Peppino "La banda degli onesti".Cliché da diecimila lire, un po' di carta filigranata, un tipografo, un pittore e altri sgangherati personaggi s'improvvisano falsari. Li scoprono ovviamente. Questo nuovo imbroglio non è molto divertente, perchè temo che di carte truccate, che spostano confini dal mare, cancellano colline e fiumi e altra roba di particolare pregio, ce ne siano molte in giro, con le conseguenze che vediamo in giro. Truffe e truffatori non scoperti, temo. E temo, data la rozzezza del raggiro, che ci siano complici tra quelli incaricati di controllare. Il rischio ? Vale la pena di correrlo visti i valori. Ovviamente nessun tornaconto per il fiero popolo dei nuraghi che addirittura s'impoverisce e rinuncia alle vacanze (ma si potrà consolare andando a vedere cosa fanno i ricchi in Costa Smeralda). (Sandro Roggio)

La postilla è tratta dal sito del Centro Studi Urbani dell'Unbiversità di Sassari

Ci sono disastri annunciati che una denunzia tempestiva impedisce; e ci sono disastri annunciati che macinano inesorabilmente tutto il loro percorso. Nell´utilissimo catalogo degli orrori ambientali realizzati o progettati in Toscana proposto ieri da Francesco Erbani ne manca uno. Mi si permetta di aggiungerlo, anche perché il silenzio con cui lo si è finora coperto dà sostanza al pericolo. La coraggiosa azione di difesa del paesaggio toscano condotta da Repubblica e da Asor Rosa fa sperare se non in un ripensamento dei responsabili dei disastri almeno nell´efficacia della vergogna pubblica per chi finora ha proceduto copertamente. In questo caso non si tratta di cementificazione ma di una aggressione all´ambiente ancora più grave perché colpisce direttamente una risorsa primaria - l´acqua - e indirettamente cancella un paesaggio unico nel suo genere, ricco di specie naturali rarissime e legato alla storia delle popolazioni circostanti da tristi memorie civili. Se si realizza il progetto elaborato anni fa dalle amministrazioni locali sarà condannata alla scomparsa nientemeno che l´area umida naturale più vasta d´Italia, il Padule di Fucecchio.

L´attacco viene da lontano e nonostante tutti gli ostacoli che ha incontrato - negli abitanti, nei responsabili della salute pubblica, nelle società di valutazione dell´incidenza ambientale, e da ultimo finalmente nel Ministero dell´Ambiente - continua sordamente ad andare avanti, sotterraneo e micidiale come il tubo che ne costituisce l´idea base. Un´idea del tubo, o - come tutti ormai l´hanno ribattezzata - del Tubone.

Ecco i precedenti. Diversi anni fa fu presa la decisione di portare le acque della Valdera, della Valdelsa e della Valdinievole ai depuratori del comprensorio del cuoio del Basso Valdarno (Santa Croce, Ponte a Egola, Castelfranco).

Era un´operazione politicamente bi-partisan: il documento dell´«Accordo di programma» era sottoscritto dall´allora ministro dell´ambiente Altero Matteoli e da tutte le amministrazioni pubbliche toscane interessate, rigorosamente e tradizionalmente di centro-sinistra: Regione, province, comuni, enti, authority, aziende municipali e quant´altro. L´accordo intervenuto tra contraenti così eterogenei si intitolava al nobile fine della «tutela delle risorse idriche». Definizione singolare, o meglio grossolano occultamento della realtà.

Il nocciolo del progetto, la sua parte più distruttiva e insieme quella che stava più a cuore ai proponenti era quella relativa alla Valdinievole. L´idea era quella di incanalarne le acque in una tubatura sotterranea lunga parecchi chilometri e portarle fino ai depuratori della ricca e inquinatissima area del cuoio: questo - si disse - per ridurre la quantità di acqua che attualmente si emunge dal sottosuolo allo scopo puramente meccanico di diluire le sostanze che la lavorazione del pellame porta ai depuratori. Con una enorme spesa pubblica si garantiva così un sostanzioso risparmio nelle spese della gestione (privata) dei suddetti depuratori: i quali intanto, liberati da ogni vincolo di osservanza delle tabelle di legge grazie alla semplice firma di quell´accordo, hanno potuto da allora macinare ogni genere di porcheria. L´altro vantaggio era per i sindaci della Valdinievole i quali, deportando le loro acque sporche, potevano cessare di preoccuparsi per le responsabilità di una depurazione in loco inesistente o deficitaria. L´operazione aveva un costo che non veniva detto: semplicemente la cancellazione dell´area umida del Padule di Fucecchio, la più vasta area umida d´Italia sopravvissuta nonostante il crescente inquinamento dei corsi d´acqua della Valdinievole che la alimentano. Operazione dissennata, presa a cuor leggero: chi si preoccupa se viene cancellata l´unica area dove sopravvivono varietà rarissime di flora, dove sono tornate a nidificare le cicogne, dove la popolazione si riunisce annualmente nel ricordo di una spaventosa strage nazista che lasciò tra i prati e le acque del Padule i corpi di 178 vittime tra uomini, donne e bambini? Ma dissennata e rovinosa anche per le conseguenze prevedibili: una grande massa d´acqua convogliata ai depuratori e immessa nel corso dell´Arno - dopo trattamenti che la rendono non più recuperabile - con la conseguente minaccia gravante sul percorso terminale del fiume fittamente urbanizzato.

Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti; anche sotto i ponti e nelle valli del Padule. L´accordo di programma non si è realizzato. Non ancora. Proteste pubbliche, resistenze di assessori «verdi», pareri negativi di agenzie di valutazione, perfino una decisione del vigente Ministero dell´Ambiente che ha imposto la costruzione di un grande depuratore in loco per le acque della Valdinievole. Eppure nemmeno la volontà di un Ministero fa legge: si racconta che di recente sindaci e amministratori locali si siano rivolti al ministro Chiti (molto influente nella zona) minacciando una rivolta se il Tubone non si farà. Ci si chiede perché. Non dovrebbero essere proprio loro a rispettare il dovere costituzionale di tutelare l´ambiente e il paesaggio? che cosa è successo nelle amministrazioni comunali toscane, storicamente le cellule originarie della democrazia italiana?

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