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"Se continuiamo così tra 30 anni la sua bellezza sarà un ricordo - Edilizia, strade, centri commerciali la campagna inglese a rischio"

LONDRA - Addio agli incantati scenari da caccia alla volpe, addio alle splendide coreografie che fanno da sfondo alle inchieste di miss Marple e addio anche alla natura che ha fatto da cornice ad alcuni dei romanzi più belli e più letti. Nel giro di trent'anni la pittoresca campagna inglese rischia di sparire se non si pone un freno all'urbanizzazione e alla cementificazione selvaggia. A lanciare l'allarme è un'associazione ambientalista britannica, la Campaign to Protect Rural England, che ha invocato un intervento deciso del governo per scongiurare la catastrofe.

"Non possiamo continuare a considerare la nostra campagna come una risorsa illimitata, in grado di riprendersi all'infinito dai danni che le infliggiamo", ha spiegato Tom Oliver, uno dei dirigenti dell'organizzazione. Sul banco degli imputati la Cpre pone innanzitutto l'edilizia, troppo invadente e poco attenta a rispettare la caratteristica architettura dei villaggi rurali inglesi. Ogni anno, ricorda l'associazione, in Inghilterra vengono costruite 150 mila case e il governo ha intenzione di spingere ancor di più sull'acceleratore nel tentativo di calmierare i prezzi degli immobili.

Un'altra minaccia è rappresentata poi dal moltiplicarsi degli aeroporti minori, con il loro corollario di strade, svincoli e parcheggi, e dalla mania dei centri commerciali, presenti ormai alle porte di ogni piccolo centro. "Senza rispondere a un disegno preciso - denuncia la Cpre - la maggior parte dell'Inghilterra sta diventando un posto come qualsiasi altro, impossibile da amare e non più amato, una sterminata, omogenea, periferia urbana, dove tutto si assomiglia".

Ma un contributo al massacro di quello che per gli inglesi corrisponde alla Toscana o all'Umbria per gli italiani, secondo gli ambientalisti lo sta dando anche la globalizzazione, con la sua capacità di far arrivare sulle nostre tavole frutta e verdura a prezzi stracciati da tutto il mondo. Con il risultato, si fa notare, che la campagna non è più redditizia e quindi viene abbandonata all'incuria o ceduta per fare spazio alle lottizzazioni.

Il governo inglese, pur non condividendo lo scenario catastrofico tracciato dagli ecologisti, ha preso l'allarme del Cpre molto seriamente. "Riteniamo sia un tema da approfondire a tutti i livelli attraverso un dibattito pubblico, ma uno dei problemi è che la nostra campagna continua ad attirare tanta gente in cerca di una migliore qualità della vita e questo significa che non può essere poi così malmessa come la si dipinge", ha sottolineato un portavoce del ministero dell'Agricoltura e dell'ambiente.

«Vorrei che i sardi e chiunque verrà in Sardegna nelle prossime generazioni potesse andare al mare e trovare un paesaggio intoccato». «La ricchezza di una società non si misura solo con il Pil, il prodotto interno lordo». «A me non interessa valorizzare, a me interessa salvaguardare». Se si potesse racchiudere in poche parole i progetti di Renato Soru è in queste frasi che andrebbero raccolti. Il presidente della Regione Sardegna le va ripetendo da qualche tempo, come fa lui, strizzando gli occhi, puntandoli a terra e incespicando con le parole. Ma quelle frasi non sono solo uno sfogo: ora ispirano un documento approvato dalla sua giunta e intitolato Linee guida per il lavoro di predisposizione del piano paesistico regionale. Spogliato dagli abiti burocratici, è il testo che deve condurre per mano gli uffici regionali nella redazione del Piano paesistico, appunto, il principale strumento di governo e di tutela del territorio sardo.

È un lavoro che fa tremare i polsi. E della cui forza dirompente, nell´isola che da trent´anni è il paradiso degli immobiliaristi e le cui coste sono in gran parte ròse dal cemento, ma quelle che si sono salvate sono ancora intatte e struggenti, neanche Soru è completamente consapevole, forse perché non è politico di professione, forse perché, come molti lo descrivono, ha la caparbia ingenuità di chi arriva alla politica da altri mondi. Se gli si fa notare che una cosa è scrivere un documento di indirizzi, affidato a un comitato scientifico di prim´ordine (che comprende, fra gli altri, l´architetto portoghese Alvaro Siza, gli urbanisti Edoardo Salzano, Roberto Gambino, Filippo Ciccone, il botanico Ignazio Camarda, l´antropologo Giulio Angioni, lo scrittore Giorgio Todde, l´ornitologo Helmar Schenk e il fisico Enzo Tiezzi) altro è redigere il piano, scrivere le norme di attuazione, entrare nei dettagli più minuti armandosi di santa pazienza e mediando con i consiglieri regionali, compresi quelli della sua maggioranza di centrosinistra, e con i sindaci, compresi sempre quelli di centrosinistra, Soru resta silenzioso, affondato nei pensieri, socchiude gli occhi ed emette solo un mezzo sorriso. Fin dove è disposto a spingersi con la mediazione, signor presidente, fin dove la sua linea che somiglia a una specie di "opzione zero" del cemento sulle coste sarde può avere successo? «Fin dove sarà comunque chiaro che non ho affatto scherzato».

È una giornata caldissima. La chiacchierata con Renato Soru avviene nella sua macchina, una fuoriserie di cui non si capisce la marca, e che ha un navigatore satellitare con una vocina gracchiante e una specie di iPod dal quale escono canzoni di Fabrizio De Andrè. Andiamo verso Sant´Antioco, dove qualche settimana fa i pescatori hanno bloccato l´imbarco dei mezzi militari impegnati nelle manovre nell´immenso poligono (settemila ettari) di Capo Teulada. Chiedevano il pagamento dei sussidi perché non possono uscire con le loro barche quando si fanno le esercitazioni. Soru si fa accompagnare a casa, poi saluta l´autista, ci offre le albicocche di un suo frutteto e monta al volante del bolide.

Lo distende guidare sfilando sulla superstrada che da Cagliari conduce verso Ovest. «È giusto che i pescatori abbiano i sussidi. Ma il problema sono le servitù militari. La Sardegna ha già dato il suo contributo, cedendo pezzi del suo suolo. Ci toccano l´ottanta per cento di tutte le bombe che esplodono in Italia. Ora spetta anche ad altri. Noi vogliamo che le basi se ne vadano. Se ne vadano da Capo Teulada e dalla Maddalena». Cosa ci vuol fare con quei terreni? «Come cosa ci voglio fare?! Sono terreni di pregio, quasi integri. Ci voglio fare turismo, agricoltura. Anzi vorrei non farci nulla. È la cosa migliore, no?»

Soru ha quarantotto anni, è nato a Sanluri, nel Campidano, figlio di un commerciante, è laureato alla Bocconi, ha lavorato in una merchant-bank e nel ‘98 ha fondato Tiscali. Nel 2004 si è candidato alle elezioni regionali e le ha stravinte. I partiti hanno diffidato di lui, ma si sono fermati quando hanno capito che era l´unico che avrebbe strappato la Sardegna al centrodestra. La sua campagna elettorale è stata dominata dalla tutela del paesaggio. E appena insediato è giunta sul suo tavolo una pratica bollente: il Tar aveva bocciato i piani paesistici della precedente amministrazione, perché li aveva ritenuti troppo deboli. Ma intanto, senza nessun vincolo rischiava di scatenarsi una corsa a edificare sulle coste. E così in pieno agosto Soru ha fatto approvare un decreto che impediva qualunque costruzione in una fascia di due chilometri dal mare. Un provvedimento drastico, che ha spiazzato tutti e che nessun altro presidente di Regione ha mai immaginato di adottare. Il decreto aveva una durata temporanea in attesa che fosse approvato il nuovo piano paesistico. Ed è questo il lavoro nel quale sono impegnati ora gli uffici degli assessori Gianvalerio Sanna ed Elisabetta Pilìa, pungolati da Soru che ha anche assunto la presidenza del comitato scientifico e che a tutti mette fretta, con gli umbratili sorrisi di cui è capace.

È il presidente il motore del piano che dovrebbe volgere in positivo l´azione della Regione: con il decreto dell´anno scorso si era detto basta cemento, fermiamo tutto, studiamo, riflettiamo e poi vediamo cosa fare. «Salvaguardare le coste per noi è l´occasione di uno sviluppo economico che duri nel tempo», spiega Soru. «Abbiamo livelli di disoccupazione altissimi, in certe zone del 30 per cento, ma finora si è pensato di usare il paesaggio non a fini turistici, bensì edilizi. Abbiamo venduto la nostra terra. E così ci troviamo una pletora di seconde case, vuote per undici mesi l´anno, e villaggi che sono come i presepi, si montano e poi si smontano. Per costruirli si è sfruttata manodopera precaria. Sono un eccellente affare per il proprietario del terreno, per chi li ha tirati su e per nessun altro. Non sono il frutto di abilità imprenditoriale, ma di una brillante capacità di appropriarsi della ricchezza di tutti per la prosperità di pochi. Questi villaggi sono un circuito chiuso, non si consuma nulla che venga dal territorio circostante, anche l´acqua minerale e i pomodori arrivano da fuori. L´anno scorso c´era un mio amico in uno di questi villaggi, sono andato a prenderlo, lui era lì da dieci giorni, ma neanche sapeva dov´era, qual era il paese più vicino, che cosa produceva quella terra, era tutto uguale, lì come in qualunque altro angolo del mercato turistico globale. Molti sardi sono impiegati in questo tipo di turismo, ma restano in seconda fila. È mai possibile che non esista una compagnia sarda di navigazione, che non ci siano tour operator e che a nessuno sia venuto in mente di organizzare una crociera fra Olbia e Cagliari? Siamo soggetti a un esproprio di valore. L´unico vantaggio che abbiamo sulla Tunisia o sulla Croazia è questo nostro ambiente ancora bellissimo, lì i prezzi saranno sempre più bassi, ci si arriva facilmente e la stagione è più lunga: non abbiamo altro da offrire se non il nostro paesaggio».

Soru si accalora, ma il tono della voce resta soffuso. La strada scorre fra colline brulle e i radi cespugli sono piegati dal vento. Ci fermiamo e scendiamo dalla macchina. «Guardi lì, vede le carcasse di quei siti minerari? È quel che resta dei capannoni di Monte Poni, sono in abbandono completo. Eppure lì c´è un´anima che ancora respira, ma nessuno di quelli che visitano la Sardegna l´ha mai ascoltata e nessun villaggio turistico può riprodurla».

Sulle vecchie miniere si è scatenata giorni fa una violenta contesa. Sono arrivati in Sardegna i dirigenti di grandi società immobiliari e uno di loro ha sorvolato un rudere industriale con un elicottero dei carabinieri. È esploso il finimondo: il centrodestra ha accusato Soru di proteggere le coste per dirottare le mire dei costruttori su altri beni. Le miniere, fra queste, che potrebbero essere ristrutturate e diventare alloggi turistici. «La vendita della nostra terra ha divorato le coste e poi le ha invase di cemento», insiste Soru, «mentre l´interno si svuotava, restando del tutto ignoto anche a gran parte di quei sardi che hanno conosciuto il mare di recente, negli ultimi trenta, quarant´anni e per i quali ora esistono solo la sabbia e il sole. Non siamo più un´isola, ma una specie di ciambella con un profondo buco in mezzo».

Sulla difesa del paesaggio si scontrano in Sardegna le diverse anime dell´isola e si mettono in gioco il senso dell´identità isolana, della sua dignità. Risaliamo in macchina. «Quando sento dire che la Sardegna ha bisogno di essere valorizzata mi vengono i brividi, perché chi parla così pensa ai metri cubi e alle stanze. Le migliori valorizzazioni possibili sono il paesaggio che si perde alla vista e il buio. Se costruiamo stiamo già togliendo valore a un bene che lo possiede di suo».

Ma che ne sarà dei due chilometri dal mare? Nel piano paesistico resteranno o che fine faranno? «Potranno essere di più o di meno, a seconda di com´è la linea di costa. Noi ci impegniamo a ricostruire paesaggi distrutti, a conservare quanto più possibile quelli non ancora compromessi e a progettarne di nuovi».

Si intravedono le luci di Cagliari, mentre il cielo diventa scuro. L´hanno accusata di predicar bene e di razzolare male, per via di quella casa proprio sul mare a Villasimius. «Ho comprato il terreno quattro anni fa, la casa c´era già, l´ho ristrutturata, ho ridotto il volume e l´ho riportata a una misura più razionale. Sa quanti metri cubi si potevano costruire su quel terreno? Trentamila. Io ci ho fatto un frutteto. E, visto che ci sono, sa quanti metri cubi in terreni di mia proprietà sono stati bloccati dal decreto? Altri centomila».

Il pensiero di Renato Soru espresso al Comitato scientifico per il Piano paesaggistico regionale e ai sindaci della costa, arrabbiati per il vincolo. Un eddytoriale sul decreto salvacoste e un altro sulla polemica per la "villa abusiva" a Villasimius. Altri articoli nella cartella Pratiche di buongoverno

Il Molise, l’appartato, sobrio, verde Molise fa scuola. Nel male, purtroppo. Lo si è capito giorni fa in una tavola rotonda organizzata a Roma presso la Coldiretti (presenti Italia Nostra, Wwf, Comitato per la Bellezza, Comitato per il paesaggio e Coldiretti stessa). I gestori dell’energia eolica stanno infatti dando ai Comuni poveri dell'alto Molise qualche migliaio di euro in cambio di chilometri di crinali dove piazzare pale da 100-120 metri di altezza. In poche parole, questi Comuni vengono invogliati a “vendere” il paesaggio appenninico. Non è serio. Non è morale. È contro gli interessi turistici, agrituristici, agricoli di quei poveri paesi spopolati. Una volta che sopra le loro teste gireranno vorticosamente, giorno e notte, le pale a vento, i turisti si terranno ben lontani da questa oasi di pace rustica e di bellezza antica.

Pensate : i Comuni del Molise sono, in tutto, 136, e, di questi, ben 52 (il 38,2 per cento), sono interessati all’energia eolica : 6 hanno già piantato le loro pale, 28 aspettano solo l’autorizzazione, mentre 18 si sono comunque convenzionati. Se tutti questi grandi impianti eolici dovessero venire realizzati, quanta energia eolica verrà prodotta dalla nuova foresta tecnologica del Molise? Dettaglio non trascurabile, nella piccola e bellissima regione, col massiccio maestoso delle Mainarde, sta per essere ultimata una centrale a turbogas della cui produzione soltanto una parte verrà riservata agli utenti locali. E allora? Molise senza più paesaggi, ma esportatore di energia? Un bel guadagno.

Se tutti i 52 Comuni si doteranno di gigantesche pale eoliche, potremo infatti dire addio a gran parte del paesaggio molisano. L’allarme viene stato fatto suonare a forza perché due di questi impianti eolici dovrebbero venire installati sul crinale della montagna che sta sopra la piana in cui spicca la splendida città romana di Saepinum, valorizzata da Adriano La Regina anni fa, un centro murato intatto, con la cavea, il foro, le tintorie, i frantoi, nato sul tratturo della transumanza più antica, sannitica probabilmente, fra Pescasseroli e Candela. Un luogo, vi assicuro, di una bellezza e di un fascino difficilmente immaginabili. Ebbene, oltre alle trenta pale da 120 metri di due centrali su 4 Km del crinale là sopra, la Regione (che con una mano incentiva agricoltura e turismo e con l’altra li scoraggia) prevede nella piana di Saepinum un aeroporto e tutte le infrastrutture connesse, un asse stradale di scorrimento inutile doppione di un altro già in via di completamento, un’area industriale vastissima vicino ai 300 ettari di due nuclei industriali già attrezzati, e ampiamente sottoutilizzati.

Possibile che neppure un sito archeologico tra i più belli e attrattivi del mondo possa fermare un modello di sviluppo così vecchio e costoso, in tutti i sensi? Possibile che il bello, specie se è quello rustico, agricolo, archeologico debba sempre fare rabbia? Per la Coldiretti Stefano Masini ha detto «no» a questo modello, ad un eolico dilagante, ad un sviluppo che considera la buona terra agricola e il suo ambiente soltanto come in attesa di altri usi, e «sì», invece, in tali casi, ad un eolico piccolo, da “farm” (come il solare).

Lo stesso Masini, Ivana della Portella presidente della commissione Ambiente del Comune di Roma, archeologa, Fulco Pratesi, presidente del Wwf e Oreste Rutigliano di “Italia Nostra” hanno proposto l'invio al ministro dei Beni e delle attività culturali, Bottiglione, e al direttore regionale in Molise di quel Ministero, Ruggero Martines, di un appello urgente : completino essi il vincolo paesaggistico già esistente su una parte dell’alta Valle del Tammaro e tutelino in tal modo, totalmente, Saepinum e la sua piana. Anche dalle pale eoliche giganti che incombono di lassù.

Non è più così emozionante far volare aquiloni in piazza Tian An Men. Lo era fino a qualche anno fa, in un cielo alto e limpido, di un azzurro intenso, quasi da altopiano tibetano. Ora il cielo di Pechino è sempre grigio e basso, calato come una cappa sull'enorme piazza. È colpa dell'inquinamento, frutto a sua volta dei profondi cambiamenti che hanno investito la città in questi ultimi decenni, in questi ultimissimi anni. Chi oggi arriva per la prima volta, perso tra enormi palazzi in vetro, strade a scorrimento veloce, sopraelevate, cinque anelli viarii, non riesce a immaginare che cosa fosse questa capitale ancora qualche anno fa. Zhang Kaiji, architetto in età, ricorda con nostalgia il vecchio profilo pechinese: una città tutta orizzontale dove il grigio uniforme delle abitazioni piano terra era spezzato dai colori e dall'altezza del complesso imperiale, dalle varie torri, dalla pagoda bianca. Ora questa armonia è stata cancellata dai grandi palazzi (non ancora grattacieli) che hanno coperto la vista degli antichi gioielli architettonici.

Non è che in Occidente ci si possa meravigliare più di tanto per questa opera di demolizione. A Roma la nascita del Vittoriano a piazza Venezia, ai primi del novecento, costò la distruzione o lo stravolgimento di una parte importante della vecchia città papale. La Parigi del barone Hausmann è sorta, nella seconda metà dell'Ottocento, dalla demolizione dei quartieri medievali. La differenza sta tutta nella dimensione del fenomeno: della vecchia Pechino non è rimasto più niente e tutto si è svolto di corsa. Eppure la Cina è il paese che sempre vanta i suoi cinquemila anni di civiltà. Ma è anche il Paese nel quale ogni passaggio di dinastia si è accompagnato alla distruzione dei simboli materiali di quelli usciti di scena. E così oggi si può vedere nella cancellazione della vecchia Pechino, dei suoi hutong ( i vicoletti medievali), delle sue pagode e dei suoi archi in legno, il segno di un superamento ormai completamente realizzato e irreversibile del patrimonio maoista del Paese. Può pure restare il ritratto di Mao sul rostro della Città proibita, può anche restare il mausoleo di Mao al centro della piazza Tian An Men: sono simboli che non hanno più alcuna sostanza. La sostanza vera è quello che è nato intorno. E dice che il passato rivoluzionario è un fardello, il nazionalismo autarchico è sbagliato, l'imperialismo non è più «una tigre di carta», l'egualitarismo non è segno di virtù sociale, è solo umiliante.

Tutto è avvenuto di gran corsa. Yiang Pin è un ex giornalista che ora si occupa di una ong che gode anche di finanziamenti italiani ed è impegnata nel progetto di rimboschimento dell'area al confine con la Mongolia interna in modo di evitare a Pechino le tempeste di sabbia e di polvere che l'affliggono, ancor più dalla seconda metà dello scorso decennio, due o tre volte all'anno. Yiang Pin è stato a Roma e così commenta la sua visita: «Ho visto che voi proteggete le facciate dei vecchi palazzi e ristrutturate solo gli interni. Noi abbiamo fretta, non possiamo perdere tanto tempo, preferiamo abbattere tutto e ricostruire interamente di nuovo». Mostra di non capire che una cosa è un antico palazzo romano e un'altra cosa è un cortile di un hutong pechinese. Ma la sua è una frase molto illuminante. La fine del maoismo residenziale è stata gestita attraverso una sfrenata privatizzazione. Il suolo pubblico è stato concesso a società immobiliari che hanno delineato in prima persona la nuova faccia urbanistica di Pechino ( a Shanghai i risultati sono stati più affascinanti).

Le nuove ricchezze private hanno al novanta per cento origine nella frenesia edilizia che corre per la intera Cina. E a Pechino innanzitutto: di nuovo la capitale sta vivendo una fase di grande effervescenza. Sono all'opera due occasioni di grandi stravolgimenti: le Olimpiadi del 2008, il piano urbanistico per il 2020. In vista della prima scadenza, sono state fatte scelte radicali. Il grande complesso siderurgico, che ha occupato anche centomila persone garantendo loro casa e ospedale, scuole per i figli e la banca per il risparmio, verrà trasferito nella lontanissima periferia e se non ce la si farà per il 2008, allora l'attività produttiva sarà sospesa. Il costo previsto è di 50 miliardi di yuan ( servono dieci yuan per un euro). Per garantire la migliore copertura possibile dei giochi si sta costruendo (costo 900 milioni di yuan) una nuova stazione radiotelevisiva, nella zona orientale della città: il complesso, al cui interno sorgerà anche un albergo a cinque stelle, avrà la sagoma della «Grande Arche» parigina. Sono stati avviati i lavori per nuove strade a scorrimento veloce ed è prossima l'apertura del sesto anello, a valorizzare ancora di più la parte nord della città. Si spera che da questo fluire di soldi verrà un grande impulso al consumo privato e quindi all'economia della città (del resto non in cattiva salute).

Naturalmente il controllo dei giochi olimpici è saldamente nelle mani del partito comunista: il presidente dell'apposito comitato è il segretario del partito di Pechino, primo vicepresidente è la signora Chen Zhili, una dirigente che ha percorso la sua carriera politica a Shanghai prima di approdare nella capitale nell'entourage dell'ex primo ministro Zhu Rongji. Sarà il sindaco della città il responsabile della gestione operativa del tutto, aiutato da Deng Pufang, figlio di Deng Xiaoping. La riuscita della scommessa è fortemente sentita dalla dirigenza del paese, una questione di vita o di morte.

È ovvio che i giochi condizionino al massimo la definizione della Pechino da qui al 2020. E quale sarà la nuova capitale? I cinesi amano molto darsi degli ampi orizzonti strategici e così attraverso tre tappe temporali hanno fissato al 2050 l'anno nel quale la capitale potrà fregiarsi del pieno inserimento nell'elenco delle grandi e moderne città del mondo, ricca di uno sviluppo che ha saputo «armonizzare economia, benessere sociale, rispetto per l'ambiente». Si vedrà.

Nel frattempo, il plastico esposto al pubblico nell'appena ristrutturato museo della pianificazione urbana, a pochi passi dalla Tian An Men, ci racconta che cosa viene previsto da qui al 2020. Sono interessanti due dati. Il primo: oggi gli abitanti di Pechino sono poco più di 14 milioni; tra quindici anni non dovranno essere più di diciotto. Di questi ultimi, tredici milioni e mezzo saranno «residenti permanenti», il resto costituirà la massa di pendolari. Con quanti e quali problemi per la gestione del rapporto tra i servizi della città e questa folla di arrivi giornalieri è facile immaginare. Saranno cinque milioni le auto un circolazione mentre oggi sono due milioni e trecentomila, con spaventosi effetti sul tasso di inquinamento e sul traffico, dal quale sono quasi completamente scomparse le mitiche biciclette. L'altro dato interessante è la previsione più propriamente di pianificazione urbanistica. Oggi Pechino è strutturata con due assi viarii centrali, nord-sud, est-ovest e cinque anelli di scorrimento viario, che hanno permesso l'estensione della città a cerchi concentrici. Pare che questa struttura non venga sostanzialmente messa in discussione anche se per il 2020 si progetta la creazione di undici «città satellite» verso ovest e verso est, con l'obiettivo di allentare la pressione sulla parte centrale della estesa capitale. Questa soluzione non è che trovi tutti d'accordo. Fortemente critico è il professor Jiang Je, docente di urbanistica alla Qinghua e buon conoscitore di Roma che ha visitato varie volte grazie agli accordi tra la sua facoltà e quella di architettura della Sapienza.

Dice di sapere benissimo che Pechino ha bisogno di spazio, ma ritiene che la soluzione del «satellite» sia una banale imitazione di esperienze occidentali, poco adatte alle esigenze cinesi, segnate da una popolazione di un miliardo e quasi trecento milioni e da una penalizzante scarsità di terra utile. Critica anche l'assenza di chiarezza sui collegamenti che, per evitare ancor più devastanti paralisi del traffico, dovranno pur esserci tra le varie città satelliti e tra loro e il resto della rete viaria della regione. Jiang Je propende per la nascita di città di medie dimensioni, che siano del tutto indipendenti e autonome in termini di servizi, attività produttive, istruzione e cultura, e tali dunque da non aggravare la già insostenibile congestione della capitale. Ma sa anche che l'accentramento urbanistico è funzionale alla centralizzazione del potere politico. Ed è questo, dice, che non si intende mettere in discussione. Difficile dire se l' ipotesi prospettata dal docente di Qinghua sia realistica o efficace.

Sta di fatto però che il tema della pianificazione urbanistica oggi in Cina occupa uno spazio importantissimo perché è legato, più ancora che in Occidente, a dinamiche sociali che possono anche diventare pericolose. Si è visto nel 2003 in occasione della epidemia Sars quanto fosse difficile gestire la massa dei pendolari e garantire la loro sicurezza e quella dei residenti. La deflagrazione urbanistica ha portato alla luce, creato, consolidato, una nuova mappa sociale di Pechino, una città ormai piena di disuguaglianze come qualsiasi altra grande città del mondo. Nell'area nord, oltre il grande tempio dei Lama, sono sorti i quartieri residenziali per ricchi, con parchi, ville recintate, guardie che impediscono l'ingresso agli estranei. Sempre a nord, spostandosi in direzione della Grande muraglia, sono sorti insediamenti di avanguardia, frutto della sperimentazione di giovani architetti venuti da Hong Kong. Nella zona sud invece sono nati in questi anni i palazzi popolari per operai o impiegati di basso reddito; e ancora più a sud, verso le aree interne, la città ha sconfinato nei villaggi di campagna, le case contadine sono state occupate e riattate dagli emigrati arrivati dalle lontane province meridionali, innanzitutto dallo Zhejiang, nuovi palazzi sono stati tirati su alla buona : sono luoghi di una bruttezza angosciante, degradati, privi di molti dei servizi essenziali. L'altra faccia del boom.

Da qui al 2020 Pechino ha un altro obiettivo ambizioso: trasformare radicalmente la sua economia lasciando che siano il terziario e i servizi a garantire il 70% del prodotto interno lordo e del reddito individuale ( 10 mila dollari all'anno a persona, non proprio la cifra che possa far gridare al miracolo consumistico, come stiamo facendo in occidente).

A guardare il plastico del nuovo piano urbanistico e a leggere le schede presentate dai vari distretti ( l'equivalente dei nostri consigli municipali, anche se molto più consistenti demograficamente) si vede che è già in atto la corsa ad accaparrarsi attività terziarie, centri di ricerca, istituti di alta specializzazione, laboratori farmaceutici, con una apertura molto più decisa ed estesa al capitale straniero. E dunque se la nuova Pechino dello stravolgimento urbanistico aveva sanzionato la fine del maoismo, la Pechino dei servizi sanzionerà la fine del denghismo, centrato sulla filosofia del produttivismo dell' industria manifatturiera.

Altre notizie sulle grandi trasformazioni urbane di Pechino, al sito (in inglese) della Commissione Municipale per l'Urbanistica

Titolo originale [sezione inglese]: Hamburg's Harbor of Hope – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Su un’isola occupata per anni da vecchi spazi a depositi e edifici a magazzini, la città di Amburgo sta iniziando uno dei progetti di ristrutturazione urbanistica più importanti d’Europa degli ultimi anni.

Negli anni a venire, dalle rive dell’Elba sorgerà HafenCity, offrendo alla città una rara occasione per ridefinire il centro e – sperano i funzionari – metterla alla pari con metropoli europee quali Barcellona o Londra.

”Rispetto ad altre città europee, la gente ha solo una vaga idea di cosa sia Amburgo” dice Jürgen Bruns-Berentelg, a capo della agenzia pubblica responsabile del progetto.

”È l’occasione per costruire un centro città completamente nuovo”.

L’idea è quella di seguire il percorso positivo della ristrutturazione dei waterfronts a Londra nei docklands e a Amsterdam nel porto orientale. La riorganizzazione dei trasporti navali negli anni recenti, verso la containerizzazione, ha cambiato l’uso degli spazi a terra nei porti, lasciando grandi fasce di ex approdi disponibili per l’urbanizzazione.

Edifici in vetro e un capolavoro

Le autorità portuali di Amburgo nel 1997 cedettero un’isola a forma di chiave inglese sull’Elba, poco fuori dal centro tradizionale della città, in cambio di spazio per containers sull’altro lato del canale. Negli scorsi due anni, nei vecchi cantieri navali sono iniziati a crescere edifici moderni di acciaio e vetro, a pochi isolati di distanza dai magazzini in mattoni scuri del XIX e primo XX secolo, ancora occupati da mercanti di tappeti orientali.

Ciascun nuovo edificio è realizzato da un diverso investitore, progettato da un diverso architetto: chi pianifica HafenCity non vuole che il destino del progetto dipenda troppo da una manciata di imprese o investitori immobiliari. Bruns-Berentelg sostiene che questa strategia proteggerà la zona nei momenti di incertezza economica, assicurando “che ogni parte di Hafencity abbia un’identità diversa”.

Oltre ad attività economiche, residenza e spazi commerciali, Bruns-Berentelg dice che si realizzeranno anche una scuola, un museo scientifico marittimo e un acquario. Il gioiello di tutto il progetto è una ambiziosa sala concerti con albergo di lusso e complesso residenziale, progettati dalle star dell’architettura Herzog e de Meuron. Se gli uffici della municipalità di Amburgo daranno la propria approvazione in giugno, l’edificio sarà alto 37 metri nell’aria, sopra un tradizionale complesso a magazzini.

”Sarà un fabbricato moderno, costruito sulla base della Amburgo passata” osserva Bruns-Berentelg.

Ci vuole tempo

Al momento, HafenCity non è molto più di una promessa di cose che verranno. I costruttori sono impegnati a sollevare il livello stradale da 4,5 metri sul livello del mare a 7,5 per proteggersi da allagamenti.

Le carte mostrano edifici progettati al computer in dettagli sorprendenti, ma solo un quarto del piano sarà realizzato entro il 2007. Il passo moderato di realizzazione è una strategia intelligente, dice Dieter Läpple, professore di edilizia al Politecnico di Amburgo-Harburg.

”Il grosso vantaggio è la flessibilità. Si costruisce per fasi, così che si possa imparare dagli errori”, sostiene Läpple, che in un promo tempo si era opposto al progetto.

HafenCity ha già iniziato a imparare dagli altri. Anziché concentrarsi sui soli spazi per uffici, come nei Docklands, o sulla residenza, come nel riuso del porto orientale di Amsterdam, i progettisti hanno optato per un modello a funzioni miste.

Il piano è molto migliorato rispetto alla concezione originaria, dice Läpple. In un promo tempo, si era concepito il quartiere con in mente solo giovani coppie e singles, una cosa che secondo Bruns-Berentelg non avrebbe mai realizzato il pieno potenziale di un nuovo centro città.

Un nuovo tipo di abitante

A differenza della Potsdamer Platz di Berlino, al cui progetto ha collaborato, Bruns-Berentelg non considera Hafencity una residenza temporanea per il jet-set internazionale. L’idea qui è di attirare gli abitanti dalla città e dai sobborghi, per conferire vita anche di sera.

”Dobbiamo in pratica scoprire un tipo nuovo di abitante”. Bisogna avere uno spirito un po’ pioniere per vivere qui. È un po’ rustico, il vento punge”.

Niente che sembri preoccupare Claus e Monika Andresen. La coppia viveva in una casa vicino a un lago nell’interno, prima di decidere di cercare qualcosa in città. Sono venuti a Hafencity la scorsa estate, e dopo qualche mese hanno comperato un appartamento da 104 metri quadrati.

”Se vuoi avere un rapporto con l’acqua, che è uno dei grandi motivi di fascino di Amburgo, senza lasciare la città, qui è perfetto”, dice Claus Andresen, il cui ufficio all’agenzia di accoglienza e vendite iSe si può raggiungere a piedi.

Questioni aperte

La maggior parte dei 130 appartamenti terminati sono stati venduti e sono occupati, dicono i rappresentanti di Hafencity. Altri 650 saranno realizzati nel prossimo anno. A progetto completato, saranno 5.500.

”È un tipo di vita fantastica, qui” dice Monika Andresen, che dirige l’ufficio pubblicità di uno dei principali giornali domenicali tedeschi. “Contemporaneamente, è un grosso investimento per il futuro”.

Gli ideatori di Hafencity sinora hanno trovato più di 150 investitori nel progetto, ma non tutti gli edifici hanno iniziato i lavori. Ci sono ancora questioni aperte, su quando e come saranno costruite le necessarie infrastrutture di trasporto. Al momento, c’è un autobus che serpeggia attorno all’isola. Entro il 2012, sarà realizzata una nuova linea di metropolitana.

”Ci sono ancora da risolvere problemi strutturali” dice Läpple.

Ma anche chi prima era scettico inizia a vedere l’oro che luccica in questo progetto, sempre che sia estratto in modo corretto.

”È l’occasione di una vita per correggere le carenze del centro città, dove resiste una solida monocoltura. Non è un centro vitale, come Vienna o Parigi” sostiene Läpple. “Hafencity potrà dare un nuovo impulso all’intero centro”.

Nota: qui al sito di Deutsche Welleil testo originale (f.b.)

Titolo originale: Chicago's Magic Kingdom - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il grande parco urbano è un’invenzione americana del XIX secolo. È improbabile che si costruiscano ancora cose ambizione come il Central Park di New York, il Golden Gate Park a San Francisco, o la Emerald Necklace di Boston. Semplicemente, lo spazio costa troppo e le città sono troppo povere: il solo mantenere i parchi che hanno ereditato mette a dura prova i bilanci. Ma in ogni caso, nonostante la loro popolarità, i parchi urbani con le panchine di ghisa antiquate e i sentieri tortuosi sono un ritorno a tempi più educati e riflessivi. Oggi, costruiamo parchi a tema, non parchi urbani.

A Chicago, evidentemente, non sono d’accordo. La città ha appena speso quasi mezzo milione di dollari per il Millennium Park, che ha aperto lo scorso luglio. Nei primi sei mesi, questo spazio verde in centro a attirato più di 1,5 milioni di visitatori. È un numero impressionante, se si considera che il parco è di soli 10 ettari: il Central Park ha 20 milioni di visitatori l’anno, ma copre più di 320 ettari. Calcolando in termini di visitatori/ettaro, il Millennium Park deve essere il parco più popolare del paese.

Questo nuovo spazio di Chicago può non essere vasto, ma è affollato di attrazioni. La più visibile è un padiglione per orchestra con un vasto prato (chiamato inevitabilmente Great Lawn) che insieme possono contenere 11.000 persone. In più, ci sono fontane, sculture, un ampio giardino, una stazione per biciclette, un teatro per musica e danza con 1.500 posti a sedere. Il tutto costruito sopra un parcheggio su tre livelli e i binari della ferrovia.

Nel corso di una recente visita, mi è venuto in mente che in molti modi il Millennium Park è un parco a tema. In un angolo c’è il Burnham’s World, con un peristilio classico di affusolate colonne doriche, un prato formale, molte urne e aiuole geometriche, sistemi di illuminazione progettati dal grande architetto di Chicago, Daniel Burnham. Lì vicino, la Foresta Non-Tanto-Incantata. Concepita da Kathryn Gustafson in uno stile chic ed estremo, su un ettaro abbondante di paesaggio da prateria dietro a piante fiorite ornamentali, comprende una passerella diagonale e un corso d’acqua simile a uno scarico industriale. Giusto di fianco, Artland si organizza su due piazze: una con la scultura di acciaio inossidabile di Anish Kapoor (ancora impacchettata, quando ci sono stato io) dal titolo Cloud Gate, ma nota localmente come “ il Fagiolo”; e poi la fontana dello scultore spagnolo Jaume Plensa. Ad una prima occhiata, i due prismi rettangolari da 15 metri, con l’acqua che scende dai fianchi a blocchi di vetro, sembrano una torre di raffreddamento che perde. Ma l’installazione via via cresce, sul pubblico. Vengono proiettati visi umani su schermi interattivi, cosa che può sembrare banale, ma è curiosamente attrattiva, e anche divertente. La vasca poco profonda è progettata in modo da incoraggiare il guado.

Il Millennium Park ha anche il suo Castello di Cenerentola. La scelta di Frank Gehry per il padiglione dell’orchestra è stata ispirata. Appare ovvio, ora, che Gehry è il più completo architetto barocco dai tempi di Borromini, e che la sua esuberante composizione esprime in modo ideale il tema della musica nel parco. Le regolari torri in vetro e acciaio della Michigan Avenue offrono un perfetto sfondo per questa architettura liberamente scultorea.

Le attrazioni del Millennium Park, che offre anche una striscia di luoghi di ristoro al chiuso e all’aperto di fronte a una pista di pattinaggio, rappresentano un’esperienza una per volta, ma – come nella maggior parte dei parchi a tema – non si mescolano in un tutto coerente. È un peccato, ma forse inevitabile, visto il tentativo di soddisfare un’ampia fascia di gusti e sensibilità. È un peccato anche che il Millennium Park non abbia imparato un’importante lezione dal Magic Kingdom. La presenza di così tanto personale della sicurezza, in uniformi arancione vivo, è troppo vistosa. Si aggirano con aria sospettosa, come guardiani da museo. È come se, dopo aver creato questo spazio pubblico, le autorità non si fidino del nostro comportamento. Ci sono certamente troppi cartelli: che spiegano, etichettano, orientano, proibiscono. I privati e le imprese hanno sostenuto quasi la metà dei costi del parco, come ci ricordano in continuazione. Ma i cartelli più interessanti, sono quelli che avvertono: “ Non sostare”. Come se ci fosse qualche altro motivo, per andare al parco.

Nota: il testo originale e qualche immagine al sito di Slate; altre informazioni, la planimentria ecc, a quello del Millennium Park (f.b.)

Titolo originale: Tribe Lays Claim to 3,100 Square Miles of New York State – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La Nazione Onondaga, una tribù indiana nel nord dello stato di New York, ha intentato ieri causa affermando di possedere più di 8.000 chilometri quadrati di terre che si estendono dalla St. Lawrence Seaway al confine della Pennsylvania, e che comprendono la città di Syracuse.

la tribù contesta che lo Stato di New York abbia illegalmente acquisito quelle terre con una serie di trattati fra il 1788 e il 1822, e ha chiesto al tribunale federale di Syracuse di dichiarare che essa possiede quel territorio, ora abitato da centinaia di migliaia di persone, che comprende parti di 11 diverse contee.

È la richiesta di maggior dimensioni mai avanzata dagli indiani in questo stato. La tribù afferma di non volere tutte le terre, ma che il suo scopo principale è quello di ottenere sostegno per il disinquinamento di alcune località del territorio reclamato.

La causa è indirizzata a Stato di New York, City of Syracuse e Onondaga County, oltre a cinque grandi imprese che, sostiene la tribù, hanno danneggiato l’ambiente nell’area.

Todd Alhart, portavoce di George E. Pataki, ha dichiarato ieri sera che l’ufficio del governatore non aveva ancora ricevuto una copia della richiesta. “Prenderemo tutte le misure necessarie a proteggere gli interessi dei proprietari e del contribuenti nelle varie zone interessate dalla causa”.

Diversamente da altre tribù che hanno avanzato pretese su terre contro lo stato, la nazione Onondaga, di circa 1.500 membri, non cerca risarcimenti in denaro, o diritti di gestione per casinò. Invece, come afferma il loro portavoce, gli Onondaga richiedono una dichiarazione ufficiale che affermi che le terre, considerate territorio ancestrale, sono state sottratte illegalmente.

Sperano di utilizzare questa dichiarazione per ottenere il disinquinamento di alcuni siti, in particolare del lago Onondaga, sito Superfund federale e uno dei più inquinati del paese.

La nazione Onondaga ha fatto della pulizia del lago, lungo 7 chilometri e largo 1,5, una delle proprie priorità. La tribù ha vissuto nei pressi del lago per secoli, e lo considera terra sacra.

Rappresentanti tribali hanno dichiarato ieri che la nazione non farà causa a singoli proprietari, né tenterà di mandarli via.

”La nazione ha detto chiaramente che i singoli non hanno nulla di che preoccuparsi” dichiara il portavoce Dan Klotz. Gli Onondaga, continua, “non torneranno indietro su questo punto”.

Altre cause indiane pendenti di questo tipo nello stato di New York non hanno interferito con i passaggi di proprietà, affermano gli esperti di diritto indiano.

”Non intendono premere per cacciare gli attuali occupanti, e non credo ci sia mai stato un tribunale che abbia preso in considerazione questa possibilità” dice John Dossett, rappresentante del National Congress of American Indians, un gruppo di Washington, D.C. di sostegno ai governi tribali. “Penso che i proprietari possano stare tranquilli”.

Ma allo stesso tempo le autorità tribali affermano di essere sul mercato alla ricerca di altre terre da acquisire. La riserva della tribù è una territorio di 30 chilometri quadrati a su di Syracuse. Joseph J. Heath, avvocato che rappresenta la nazione Onondaga, afferma che se il tribunale deciderà a favore della tribù, ci si aspettano trattative con lo stato per accordi, incluso l’ampliamento della riserva e la protezione delle aree sacre di sepoltura minacciate dall’urbanizzazione.

Mr. Heath dice che la tribù tenterà di acquisire terre solo da “venditori volontari” oltre che dal governo.

Ma sia Heath che altri rappresentanti sottolineano come il principale scopo sia di aumentare l’influenza sulle politiche ambientali dello Stato e spingere per il disinquinamento della regione.

”Sono stufi di essere ignorati sulle questioni ambientali” dice Mr. Heath.

Gli anziani hanno discusso se intentare causa per più di 50 anni, hanno rivelato ieri in una intervista. Ora, con l’inquinamento del lago che aumenta – e la propria popolazione in crescita – si sono sentiti obbligati ad agire legalmente.

Decenni di scarichi industriali hanno lasciato uno strato di fanghi tossici sul fondo del lago, e indotto il governo a metterlo nella lista Superfund di siti contaminati nel 1994. Lo scorso novembre i funzionari statali hanno annunciato un piano da 448 milioni di dollari per richiedere alla Honeywell International di procedere al disinquinamento, compreso dragaggio del fondo per rimuovere la maggior parte delle 75 tonnellate di mercurio e altri veleni che si sono raccolti qui.

La Honeywell è una delle cinque compagnie citate nella causa Onondaga. È responsabile del disinquinamento perché nel 1999 si è fusa con la Allied Chemical, proprietaria di un impianto che è stato accusato di essere una delle principali fonti di inquinamento del lago.

Gli Onondaga hanno definito il piano inadeguato, e che lo stato era obbligato dalla legge a consultare la tribù, ma non l’ha fatto.

Mr. Alhart, portavoce del governatore, respinge l’affermazione secondo cui lo stato sarebbe stato poco deciso nel disinquinamento, o che avrebbe ignorato la tribù.

La causa nomina anche altre quattro imprese che gestiscono una cava di ghiaia, una di pietra e una centrale elettrica a carbone nella regione. Viene nominata anche la Clark Concrete Company e una consociata, Valley Realty Development, proprietaria di una cava di ghiaia a Tully, N.Y.

La Nazione accusa gli impianti di estrazione di inquinale il torrente Onondaga, immissario del lago. Sono coinvolte anche la Hanson Aggregates North America, i proprietari della cava di pietra di DeWitt, e la Trigen Syracuse Energy Corporation, con la sua centrale a carbone di Geddes.

Non siamo riusciti sinora a contattare funzionari di queste compagnie.

I rappresentanti tribali hanno dichiarato ieri di non volere una licenza per casinò come parte dell’accordo. I casinò sono una componente centrale di quattro accordi su cause indiane riguardanti terreni, annunciati dal governatore George Pataki nei mesi recenti.

Titolo originale: In a Theater, Seeking Insights on Urban Planning – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Robert Moses e Le Corbusier non erano quello che si dice anime gentili, ma entrambi erano urbanisti di enorme statura. Le Corbusier, l’architetto, voleva riorganizzare Parigi per superblocchi. Moses, commissario ai parchi e urbanista per metà del secolo scorso, ha realizzato la maggior parte delle autostrade urbane e parchi di New York City. Ad ogni modo, entrambi i personaggi ora compaiono sul palco dell’Ohio Theater di Wooster Street a SoHo, nella frizzante commedia Boozy: vita, morte e successiva denigrazione di Le Corbusier e, più importante ancora, di Robert Moses. Dopo lo spettacolo di domenica sera, un gruppo di esperti, insieme all’autore del testo, ha discusso l’eredità di queste due figure e i problemi che solleva per la New York di oggi.David Evans Morris ha dichiarato che coi suoi collaboratori alla commedia (che si rappresenta da martedi fino al 5 marzo) era interessato ad esplorare “Come si realizzano le opere pubbliche in una democrazia”. Robert A. Caro lo sottolineava nella sua biografia di Moses, The Power Broker, del 1974: “ogni grande opera pubblica è stata realizzata in qualche tipo di regime autocratico”, come ci ricorda Morris.È un’idea che sembra risuonare nel dibattito su Groud Zero, prosegue Morris, di cui sinora solo la stazione PATH progettata da Santiago Calatrava è un pezzo di architettura apprezzato. In quanto progetto della Port Authority, la stazione non è stata sottoposta ai numerosi decision makers interessati al sito. “La democrazia non c’è entrata per niente” osserva Morris “e la stazione è bellissima”.Il clima urbanistico di oggi – dal sito del World Trade Center al proposto stadio Jets nel West Side – richiederebbe un’altro spettacolo teatrale, ha osservato Deborah Gans, autrice di The Le Corbusier Guide.”Dovrebbe essere un seguito, dove Danny Libeskind ha una parte che va oltre la comparsa”, dice, riferendosi a Daniel Libeskind, autore del progetto generale per Ground Zero. Aggiunge che questa nuova commedia dovrebbe includere tra i personaggi anche Bloomy (il sindaco Michael R. Bloomberg) oltre a Boozy (Le Corbusier).”È una battaglia olimpica” ha continuato, ragionando ad alta voce. “Moses freme, perché salta fuori che New York è di nuovo vuota. Ci sono strade e ferrovie che ne vogliono di più. C’è un grande vuoto postmoderno da riempire”.Anche l’architetto Rem Koolhaas avrebbe una parte, ha continuato Gans, precisando che le cose dovrebbero essere “extra grandi, extra grandi”, e il “popolo verde” dovrebbe partecipare con ragionamenti ecologici.Al dibattito, organizzato dalla rivista The Architect’s Newspaper, hanno partecipato David Grahame Shane, esperto di progettazione urbana, e Geoff Lynch dello studio H3 Hardy Collaboration.

Messa in scena dalla compagnia teatrale Les Freres Corbusier, la commedia è stata allestita da Juliet Chia e Alex Timbers, insieme a Morris, e scritta da Adam Scully. Diretta da Timbers, comprende musiche originali di Douglas J. Cohen e propone personaggi come il Governatore Nelson A. Rockefeller, il capo della propaganda nazista Joseph Goebbels, il sindaco Fiorello H. La Guardia e il presidente Franklin D. Roosevelt. Nella recensione per il New York Times, Charles Isherwood ha scritto: “Lo spettacolo è certamente utile come vivace, anche se molto libera, presentazione della carriera di figure leggendarie nella storia di New York City, ma dal punto di vista teatrale appare impacciata dalla monotonia di un tono comico autoreferenziale”.Shane se la prende col ritratto proposto di Jane Jacobs, che aveva scritto sull’importanza per l’urbanistica di mantenere la vita di strada, raffigurata come stridula arpia che lancia un croissant addosso a Le Corbusier (il suo fidanzatino, nella commedia) e organizza le casalinghe contro Moses. “Credo che siate stati davvero crudeli con Jane Jacobs, e senza alcun motivo” ha osservato Shane.”Ho visto che eravate perfettamente al corrente delle sue teorie” ha aggiunto, ma “lei è stata straordinaria nel mobilitare” le persone.Allo stesso tempo, ha osservato Shane said, la commedia mette in discussione alcuni temi di progettazione urbana. “Sono un acceso sostenitore della emergence theory” ha detto “ma ora mi fate dubitare di me stesso”. Nella commedia l’emergenza viene definita “componenti semplici si auto-organizzano a creare sistemi complessi e funzionanti, privi di qualunque controllo dall’alto”.Morris ha risposto che, insieme ai colleghi, aveva giocato con la Jacobs “soprattutto perché sentivamo che avesse chiaramente vinto”.”Ma, ha vinto?” replica Shane. “Questo è il vero problema”.

Fino a un certo punto, ha ricordato Morris, gli autori volevano giocare controcorrente, esaltando Moses, che è noto soprattutto per i suoi spietati sventramenti dei quartieri, e svilendo un po’ la Jacobs, ora tanto amata per aver sostenuto l’importanza di conservare il carattere locale. “Così, trasformiamo lui in un supereroe, e lei in un essere diabolico”.A parte questi colpi di scena teatrali, comunque, Morris ricorda che Moses non fu un personaggio semplice. “Quello che ha fatto ora lo diamo per scontato, ma nessun altro è stato in grado di realizzare tante cose, dopo di lui” dice.Shane ha osservato che il giudizio finale sull’eredità di Moses a New York dipende da “quanto si è verdi”.”Abbiamo imparato – Jane Jacobs a parte – che ogni cosa ha un costo: non possiam respirare l’aria, l’acqua è inquinata. È un dibattito molto, molto compl9cato, in definitiva”.Per quanto riguarda Le Corbusier, Shane ha osservato “Corb odiava New York, e voi in realtà non ne avete parlato”.La signora Gans ha aggiunto: “Si trattava di amore-odio. Era geloso della città, aveva qualche tipo di brama. Voleva l’argenteria”. E ha concluso che a Le Corbusier “questa commedia sarebbe davvero piaciuta”.”In fondo, era un teatrante ciarlatano. Le Corbusier è un nome da palcoscenico. Si è autocostruito la propria identità dopo la prima guerra mondiale. Aveva un prop – una bicicletta – e un cappello a bombetta”.

Nota: per chi fosse interessato, è disponibile anche un testo biografico/agiografico in italiano su Robert Moses, nel mio stagnate sito. Qui il link al testo originale della recensione sul sito del New York Times(f.b.)

Titolo originale:Taming an urban monster– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La più grande città del Sud America è a mezza strada verso un futuro migliore e più giusto. Riuscirà il nuovo sindaco a finire il lavoro?

Marlene Dos Santos, vivace e attraente, mamma di sei bambini, sta aggrappata agli estremi margini di São Paulo. La sua casa è una baracca su una chiazza di terra che sembra far parte del bacino idrico, pochi metri più in là. La si raggiunge attraverso una passerella pedonale sopra uno scolo che porta liquidi di fogna giù verso l’acqua potabile della città. La signora Dos Santos passa le notti a scacciare i ratti, alcuni dei quali trasmettono la leptospirosi, una brutta infezione batterica. Ma la sua preoccupazione principale è che da quando ha perso il lavoro da donna delle pulizie sei mesi fa, non ne ha più trovato un altro. I suoi guai riassumono quello che non va a a São Paulo, la maggiore città dell’emisfero sud e capitale economica del Brasile.

Pochi chilometri più in là, nel quartiere centrale degli affari, brillano grattacieli, gli elicotteri trasportano uomini importanti sopra la congestione e i rapimenti, cuochi famosi stanno chini sui loro fornelli. São Paulo è stata chiamata “città ad anelli”: una zone centrale di lusso è circondata da fasce sempre più povere. “L’ineguaglianza si riflette nella forma fisica della città” ci dice Jorge Wilheim, sino al mese scorso segretario all’urbanistica per il municipio. Ma i bisogni impellenti di persone come la signora Dos Santos non sono quanto orienta le politiche, a São Paulo. In ottobre, l’elezione per la carica di sindaco ha contrapposto un candidato in carica che aveva fatto sforzi notevoli per migliorare la vita delle periferie, contro uno sfidante più gradito al ceto medio.

Il sindaco, Marta Suplicy, ha lavorato bene per i quartieri esterni come Grajaú, dove vive la signora Dos Santos. Ma ha perso contro José Serra, un intelligente tecnocrate ex ministro della sanità. È stato aiutato dal risentimento del cento medio contro gli aumenti delle tasse locali e dalle diffidenze verso il partito della signora Suplicy (il Partito dei Lavoratori, di sinistra, del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva) e sulla sua vita personale (la signora è divorziata da un noto senatore e sposata a un politico di sottobosco argentino). José Serra, entrato in carica il primo gennaio, è leader del partito socialdemocratico brasiliano (PSDB), principale oppositore del PT di Lula. Dopo aver perso le elezioni presidenziali nel 2002, i risultati come sindaco possono avere rilievo nazionale.

Oltre a promettere una migliore amministrazione e disciplina fiscale, Serra non ha detto molto su dove intende portare São Paulo. Eredita una città dove stanno cambiando molte cose. L’economia è sempre più legata al sistema mondiale e orientata ai servizi, anche se l’area metropolitana allargata resta un sistema industriale. Nuovi poteri di regolazione danno all’ente pubblico maggior controllo sull’uso del suolo: un’opportunità per togliere il monopolio delle iniziative agli speculatori. La stessa São Paulo, con una popolazione di 10,7 milioni, è solo la più grande delle 39 municipalità che formano una metropoli da 18 milioni. C’è nuova consapevolezza di dover lavorare insieme, ma il governo federale e statale non sono d’accordo su chi debba comandare. C’è finalmente l’opportunità di immaginare una città migliore. Ma c’è anche la voglia?

São Paulo è stata costruita sul caffè, ma la sua forma è plasmata dall’immigrazione e dall’automobile. Gli schiavi raccoglievano il caffè. Gli immigranti europei hanno dato le proprie braccia alle prime industrie della città – tessile a alimentare – alla fine del XIX secolo. Sono seguite fonderie e fabbriche di automobili, molte in città satellite. Dagli anni Cinquanta milioni di immigranti sono sciamati verso São Paulo dalle zone povere del nord-est brasiliano.

Al principio, i governanti della città hanno optato per un nucleo centrale compatto e ben definito, lasciando che i nuovi arrivati provvedessero a sé stessi nella vasta periferia. Negli anni Venti si è deciso di basare il trasporto pubblico su autobus, non treni o tram, il che significava che i lavoratori potevano essere spostati da qualunque località. La suddivisione della città per zone negli anni Settanta ha confinato gli edifici alti al 10% del territorio. I paulistanos più poveri si sono costruiti da sé il proprio tetto, spesso su loteamentos dove il sistema proprietario è evanescente. Abitare vicino ai bacini d’acqua, come quello di Grajaú, è illegale. Questo rende i terreni a basso prezzo, ma giustifica la lentezza della municipalità nell’offrire infrastrutture e servizi. Più di un terzo delle case in città sono “irregolari”.

São Paulo non è più una calamita. La recessione degli anni Ottanta e le aperture economiche dei Novanta hanno colpito più forte che nel resto del Brasile. Esposta alla competizione internazionale, l’industria si è riorganizzata e automatizzata, buttando per strada lavoratori ben pagati. Le droghe sono entrate nei loteamentos e la criminalità insieme a loro, gettando nel panico i paulistanos che blindano le automobili e si barricano in casa. Il tasso di crescita della popolazione è caduto, dal 5,6% all’anno nei Cinquanta allo 0,8% dopo il 1991. Alcune zone della periferia e le città dei dintorni stanno crescendo ancora a rotta di collo, ma si tratta soprattutto di famiglie urbane povere alla ricerca di case a buon mercato. A peggiorare le cose, due sindaci prima della signora Suplicy sono stati accusati di corruzione su larga scala. “Gli anni ’90 sono stati l’inferno per la storia di São Paulo” ci racconta Gilberto Dimenstein, giornalista specializzato nelle cose della città. “Ma il peggio è passato.”

Questo si deve in parte al fatto che l’economia del Brasile è in ripresa. La disoccupazione nell’area metropolitana di São Paulo (definita in senso lato, a comprendere anche chi svolge lavori precari) è caduta dal 21% dell’aprile 2004 al 17% di novembre. Anche così, dice Miguel Matteo del SEADE, istituto di ricerca pubblico, le paghe medie nel 2004 hanno continuato una discesa che dura da 18 anni, in parte perché i nuovi lavori nei servizi pagano meno di quelli in estinzione nella manifattura. Ma il tasso di omicidi in città ha raggiunto il massimo nel 1999, e da quel momento ad ora è caduto di circa un quarto.

Alcune parti della periferia sono diventate meno disastrate. La maggior parte di Parque Cocaia, in quartiere della signora Dos Santos a Grajaú, è asfaltato. La città provvede acqua, elettricità e scuole, dopo una “lotta” dei residenti, come ci racconta João Neres de Oliveira, presidente di un’associazione di abitanti. L’affollata strada principale vede anche negozi di grandi catene. Grajaú a São Paulo è il terzo distretto in quanto a violenza, con un tasso di omicidi di 86 per ogni 100.000 abitanti nel 2003. Ma è del 20% più basso di due anni prima. Il sindaco signora Suplicy ha reso più facile andare da Grajaú al centro. I pendolari ora possono cambiare autobus senza pagare un supplemento di tariffa. Nuove corsie preferenziali per i bus hanno ridotto della metà i tempi di spostamento, poco più di un’ora. De Oliveira sostiene che il tasso di disoccupazione a Parque Cocaia è del 50%. Ma molti disoccupati ora ricevono un “reddito minimo” finanziato dalla municipalità, dallo stato e dal governo federale. Questo interessa l’80% dei poveri in città, secondo Marcio Pochmann, segretario al lavoro per l’amministrazione della signora Suplicy.

“L’inclusione sociale è il nostro impegno fondamentale” ha proclamato Serra nel discorso di insediamento, a significare che non ha intenzione di voltare le spalle alla periferia. Ma ci saranno dei cambiamenti, specialmente a causa delle dilapidate finanze municipali. Probabilmente si fermerà la costruzione delle costose scuole con strutture per il tempo libero voluta dalla signora Suplicy per dare ai giovani qualcosa da fare invece di mettersi nei guai. Il nuovi sindaco vuole estendere la tariffa unica dagli autobus municipali alle ferrovie statali e al sistema delle metropolitane. Ma si preoccupa per i costi. Serra darà più spazio ai servizi sanitari rispetto alla signora Suplicy. Ma la sua prima preoccupazione è di cavare di più da ogni centesimo del bilancio municipale. Uno dei suoi primi atti da sindaco è stato l’annuncio di voler rinegoziare i contratti dei dipendenti.

Ridisegnare la mappa

Se Serra conta i suoi centesimi, perderà l’occasione di condizionare la nuova mappa di São Paulo, un’area in movimento politico, ma anche fisico. Il sistema federale brasiliano non prevede governi metropolitani. Ad esempio, è la municipalità a gestire la rete di autobus, e lo stato le ferrovie, la metropolitana e gli autobus inter-city. Il sistema collega la città alle municipalità satelliti, ma muoversi fra questi centri è un incubo. Ciò esclude le persone da occasioni di impiego. Lo stesso succede per la salute: i finanziamenti federali vanno dritti alle municipalità, secondo la popolazione, ma i servizi non sono coordinati. A Diadema, ai margini di São Paulo, la metà dei pazienti dell’ospedale vengono da municipalità confinanti, ci dice Mário Reali, deputato statale. Visto che il 30% del bilancio di Diadema se ne va in salute, non è questione di poco conto. E via di questo passo.

Un governo metropolitano avrebbe senso, ma alcuni interessi consolidati e la costituzione lo rendono improbabile. Al suo posto, il governo Lula vuole dei “consorzi” di municipalità, che potrebbero ricevere finanziamenti per progetti congiunti nei settori del trasporto o gestione dei rifiuti. Ma il governo dello Stato di São Paulo, gestito dal 1994 dal partito socialdemocratico, sostiene che la costituzione dà agli stati la responsabilità del coordinamento regionale. Il partito dei lavoratori di Lula vuole scavalcare gli stati perché ne governa pochi, dice Andrea Calabi, sottosegretario all’economia dello stato di São Paulo. Questa iniziativa “minaccia le modalità di organizzazione del governo in Brasile”. Ma la città e lo stato dovrebbero andare più d’accordo, ora che sindaco e governatore sono dello stesso partito.

Il governo statale vede una terna di istituzioni a gestire la metropoli di São Paulo: un “consiglio per lo sviluppo” a carattere consultivo, composto da rappresentanti dello stato e delle municipalità, che possa suggerire ad esempio dove mettere le scuole e gli ospedali; un fondo comune al quale tutti contribuiscano; un’agenzia esecutiva delle decisioni del consiglio. Le municipalità confinanti, soprattutto quelle governate dal partito dei lavoratori, sono allerta. Hanno “partecipato molto poco” alle riflessioni statali sul tema metropolitano, lamenta il signor Reali, di Diadema. E sarà dura equilibrare gli interessi della ricca e potente São Paulo con quelli dei più piccoli e poveri satelliti. Ma queste scaramucce nascondono scopi comuni. Marcos Campagnone, direttore dell’ufficio pianificazione statale, vuole “invertire l’espansione della periferia”, in parte completando un’arteria tangenziale e linea ferroviaria per drenare il traffico di attraversamento e, spera, creando una barriera all’ulteriore espansione. Raquel Rolnik, funzionario dell’ufficio federale per le città, auspica una “crescita verso il centro”. Entrambi prospettano una metropoli più densa e uniforme.

Il gruppo della signora Suplicy aveva redatto alcuni piani in questa direzione, secondo una legge del 2001 che dà alle città il mandato di stendere “piani generali” a ricomporre gli interessi privati con la “funzione sociale” della proprietà urbana. Il piano per São Paulo, completato lo scorso anno, creerà nuove zone di case popolari, e un nuovo fondo per le opere pubbliche finanziato dal rilascio delle concessioni edilizie, e consentirà alla municipalità di espropriare i terreni abbandonati. Un progetto dell’amministrazione Suplicy, Bairro Novo (Quartiere Nuovo), darà casa a 70.000 persone, con 600 famiglie a basso reddito, in un’area di fabbriche abbandonate vicina al centro e servita dalla ferrovia. Sarà il primo quartiere pianificato di São Paulo, rivendica Wilheim, e spezzerà (un po’) il sistema dei ghetti separati per ricchi e poveri. Un altro progetto darà un colpo al sistema di traffico basato su un mozzo e molti raggi: una strada tra Guarulhos, zona dell’aeroporto internazionale di São Paulo, e la regione industriale a sud della città.

Quanto di tutto questo continuerà, con l’amministrazione Serra, non è chiaro.Ha sostenuto la nuova strada, ma dice che il piano generale deve essere rivisto. I paulistanos - non ultimi quelli che si ammassano nell’anello più esterno – sperano che la rinascita si rafforzi anche col nuovo sindaco.

Nota: qui il testo originale al sito dell’ Economist (f.b.)

Architetti in rivolta: invasi da progetti stranieri

7 settembre 2005

Un tempo, con Palladio, l'Italia esportava la propria architettura in tutto il mondo senza importarne alcuna. Il suo trattato, «I Quattro libri dell'Architettura» (1570), fu il primo bestseller del genere e diventò una «Bibbia» da seguire per tutti i costruttori anglosassoni; tanto che il palladianesimo è ancora diffuso a Beverly Hills.

Oggi, le maggiori commesse del Belpaese stanno invece andando a «archistar» internazionali. Proprio ieri, la Giunta di Milano ha approvato il Programma per la riqualificazione della Fiera di Daniel Libeskind, Zaha Hadid e Arata Isozaki, un progetto che la Fondazione Fiera esporrà a fine settembre a Buenos Aires come «simbolo» della nuova Italia. Poi ci sono i progetti contestati: pensilina degli Uffizi di Isozaki, nuova Ara Pacis di Richard Meier e ponte di Venezia di Santiago Calatrava. Quindi il Museo di Roma della Hadid e, a Milano, Santa Giulia di Norman Foster, la Città della Moda di Cesar Pelli e il Palazzo della Regione di I.M.Pei. Di fronte a tanta «invasione straniera», al «pericolo» di un «meticciato architettonico» è l'ora di una levata di scudi in difesa del «patrio suol»?

Parrebbe di sì, poiché — dopo anni in cui ci si è lamentati dell'assenza di architetti stranieri — l'attuale situazione ha indotto un gruppo di prestigiose firme di casa nostra a scendere in campo in difesa della «irrinunciabile risorsa culturale italiana, che non può essere ulteriormente vanificata e ignorata ». Tra i primi firmatari di questo appello — inviato ai presidenti della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato — figurano Vittorio Gregotti, Guido Canella, Antonio Monestiroli, Franco Purini, Aimaro Isola, Ettore Sottsass, Cesare Stevan e Paolo Portoghesi. Il quale, a dire il vero, nel 1980 organizzò una Biennale Postmodern che rompeva stilisticamente proprio con quella tradizione dei Terragni, Libera e Ridolfi che ora si vuol difendere.

L'«Appello per lo sviluppo in Italia della nuova architettura», parla di situazione «drammatica» e individua come una delle cause il ricorso agli stranieri che, a differenza degli italiani, hanno potuto realizzare «grandi opere di interesse sociale» nei loro Paesi, mettendosi in buona luce. Al contrario l'Italia ha accumulato ritardi privando i nostri architetti di analoghe «occasioni di lavoro».

L' appello ritiene maggiormente responsabili di questo «stato dell'arte» — che non considera il fatto che gli stranieri sono stati vincitori di concorso e che agli italiani non era vietato costruire all'estero — le sovrintendenze. Per questo l'appello chiede di «mettere fine al diritto di veto» dei sovrintendenti «per limitarne il potere totalmente autonomo… che ha privato l'Italia di molte opere significative rimaste sulla carta» (ma anche salvato centri storici, no?) per affidarlo a una commissione più pluralista da insediarsi al ministero presso il Darc, la Direzione architettura. In questo modo si sostituirebbe il controllo periferico sul territorio «totalmente autonomo» delle sovrintendenze (una forma di federalismo) con un centralismo pluralistico.

Per l'architetto italo-svizzero Mario Botta, l'appello è condivisibile. «Rafforzare la Direzione Architettura sarebbe un passo avanti. Credo ci sia un po' di risentimento legittimo da parte degli italiani perché chi viene da fuori ha un portfolio ampio; basta che ciò non si trasformi sciovinismo». Botta condivide anche la critica alle sovrintendenze: «Il loro strapotere va limitato, perché intervenire con un veto quando si vuole è un lusso che nessun Paese può permettersi. La figura del sovrintendente è un po' arcaica, borbonica, va riformata se crediamo che il progetto sia ciò che trasforma la città».

Dante O. Benini, progettista della cosiddetta nuova Torre di Pisa, è «d'accordo sui cinquant'anni di immobilismo del nostro Paese» ma non condivide l'idea che gli italiani siano discriminati: «Vince chi presenta la miglior opera. Per la chiesa del nuovo millennio, in finale c'erano cinque ebrei: che vuol dire? Dovevano essere cattolici? Io sto lavorando a Istanbul e non sono musulmano!». Sulle sovrintendenze condivide la critica: «Ricordiamoci che vietarono un progetto di Frank Lloyd Wright. Lo snellimento dell'apparato burocratico è indispensabile. Il diritto di veto a posteriori è un anacronismo: la soprintendenza faccia parte delle commissioni di approvazione».

«Basta con gli stranieri», architetti divisi

8 settembre 2005

Fuksas: utile la sfida globale. Bellini: appello fuori tempo. Gregotti: no, siamo invasi Scusi, Fuksas, ha letto l'appello dei suoi colleghi ai presidenti Ciampi e Berlusconi in «difesa della tradizione architettonica italiana»? «Sa, sono a Parigi a presentare un mio progetto per i nuovi archivi della cultura nazionale. L'ho letto. Ma lei ha considerato l'età media dei firmatari? Il più giovane avrà sessant'anni»! Cioè? «Oggi guardiamo film francesi, mangiamo giapponese e compriamo prodotti cinesi, non capisco perché l'architettura dovrebbe rimanere della tradizione italiana. E quale tradizione, poi? È ora che anche l'architettura entri nell'età della globalizzazione. Il mondo è uno. A Vienna ho costruito due grattacieli: non mi hanno detto "torna indietro italiano!"».

Già, locali o globali nell'arte? Bisogna difendere una «tradizione», come invocano, con Portoghesi, i firmatari dell'appello, o lasciare che ogni internazionalismo venga a noi? «L'appello doveva essere contro i condoni e l'abusivismo — continua Massimiliano Fuksas —. L'apertura alla competizione con gli stranieri fa bene. Ci vuole meno burocrazia, non più».

La difesa dell'appello è affidata a Vittorio Gregotti, che si aggiunge al richiamo di Mario Botta, che ha parlato di «risentimento legittimo» da parte degli italiani. «L'internazionalismo critico, che è uno dei fondamenti del progetto moderno, è qualcosa di assai diverso dall'ideologia del globalismo dei mercati e delle tecniche, delle inutili bizzarrie e della riduzione dell'architettura ad immagine». Ma Gregotti prende le distanze rispetto a un aspetto: «Credo che sia un errore individuare nelle sovrintendenze l'ostacolo ad uno sviluppo italiano dell'architettura. Dovremmo chiedere che esse siano meglio dotate di strumenti e di mezzi, che il loro personale sia meno burocratizzato e culturalmente più qualificato. Chi deve essere messo sotto accusa per la "invasione dello straniero", che io straniero non considero, è la struttura dei concorsi ed il basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche. Anch'esse hanno qualche scusante. Premiare uno straniero significa per loro accodarsi alla falsa idea che la qualità dell'architettura sia un problema di marketing e che quindi convenga premiare architetti che sono internazionalmente alla moda. E qui si inseriscono anche le responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa e della loro fissazione per la presunta novità anziché per il giudizio».

Più che la difesa della tradizione italiana invocata nell'appello, si scopre allora che il problema è quello di difendere la qualità (ma di tutti). «La difesa dell'italianità è fuori tempo — afferma Mario Bellini —. Poiché mi sento ben accettato quando progetto a Parigi o a Melbourne sono tollerante quando vengono gli altri e non mi sento invaso. Ora aspetto l'arrivo dei cinesi. Certo, le procedure delle sovrintendenze vanno riformate, ma non cancellate, e i concorsi devono essere più qualificati: meno partecipanti e rimborsi più alti, come in Francia. È vero che c'è la tentazione in alcuni di portare il grande nome straniero, ma così come ci sono gli accademici che chiamano il loro amico».

L'immobiliarista Luigi Zunino, presidente di Risanamento, punta al sodo della questione: «Ho affidato a lord Norman Foster il progetto Santa Giulia a Milano, e all'italiano Renzo Piano quella degli ex stabilimenti Falck di Sesto San Giovanni. Il criterio è uno solo: scegliere il meglio. E quando l'obiettivo è questo non si guarda al passaporto».

Una lettura cultural-politica è quella del filosofo e assessore alla Cultura a Milano, Stefano Zecchi. «La verità è che la pietra dello scandalo è Milano, che ha saputo rompere con la vecchia tradizione architettonica da salotto chic della sinistra e aprire alle grandi firme straniere. Nel rispetto della qualità, della preesistenza storica, ma non nella difesa di lobby artistiche-architettoniche».

Chiamato in ballo dall'appello poiché responsabile della direzione Architettura del ministero a Roma, alla quale i firmatari vorrebbero dare maggiori poteri per tutelare la qualità della nostra architettura, Pio Baldi risponde lusingato: «I firmatari hanno delle ragioni, perché siamo al provincialismo alla rovescia. L'Italia ha un tessuto storico tale che ha bisogno di interventi solo Scarpa o alla Ridolfi; spesso questi architetti internazionali non hanno la sensibilità adatta per operare da noi».

A Bari ormai non può succedere che giornali e tv raccolgano solo voci di parte. Lealtà che permette al centro sinistra di discutere a carte scoperte sul progetto Città della Giustizia: divide pubblicamente movimenti e partiti. In modo pacato, nessuna polemica volgare, grande civiltà da parte dell'ingegnere Michele Cutolo della Pizzarotti; civiltà degli intellettuali raccolti nell'arcipelago di Giustizia e Libertà. Loro remano contro. Confronti costruttivi anche se al momento la conclusione resta incerta. Il sindaco Emiliano, Margherita, ha riascoltato l'altro ieri le due delegazioni: delegazione Pizzarotti e delegazione di Sviluppo Sostenibile, guidata dall'ingegnere Borri. La Pizzarotti offre (come a Parma) di costruire la Cittadella rivelando solo al momento della firma del contratto il nome di chi mette i soldi per tribunali, pretura, corte d'assise, carceri giudiziarie e minorili, aula bunker, eccetera. Dopo 18 anni chi paga torna proprietario a pieno diritto: può affittare aule e celle al ministero, o passar la Cittadella al miglior offerente, magari l'università. A Parma gli anni concessi all'albergo-negozi- residence sono dieci di più. Ma se la prossima amministrazione decide di rompere il contratto fra tre anni, cosa può succedere ? Garbuglio costoso. A Bari il sindaco Emiliano annuncia di voler fare l'arbitro, niente più: chissà qual è il suo pensiero segreto. Negli incontri dell'altro ieri lo assisteva l'assessore all'urbanistica Abbaticchio, Ds, moderatamente non sfavorevole ad una soluzione interna alla città per non confinare in una zona agricola, uffici e aule che oggi danno ordine e vita al quartiere Libertà, quartiere a rischio di violenza se abbandonato. Ma gran parte dei Ds non sono d'accordo. Anche la Margherita, vicina al sindaco, sostiene il progetto con altrettante divisioni. Ogni partito discute; le linee non sempre coincidono ma tutto avviene alla luce del sole: confronti chiari, senza i giochi di Parma, città dove l'abitudine al melodramma adora travestimenti e misteri. Non destano sorpresa i giudizi dell'assessore all'urbanistica della regione Puglia. Ha l'ultima parola in quanto la Cittadella dovrebbe ospitare la corte d'assise. Angela Barbanente insegna urbanistica al politecnico e fa parte del consiglio nazionale degli urbanisti. Difende il modello della “città compatta”, quel tessuto integrato che «da sempre suscita l'ammirazione degli specialisti stranieri» contrari alla funzione monocorde delle città satellite. Le crepe si allargano a circoli culturali dove intellettuali non insensibili alla politica continuano ad interpretare il progetto città: Nicola Colaianni, ex PCI, già magistrato di Cassazione e docente di diritto ecclesiastico; Arturo Cucciola, professore di architettura; Enzo Persichella, direttivo cittadino Ds, grande sociologo che insegna all'università, tutti confessano di non essere affascinati dalle carte del vicerè provvisorio della Pizzarotti. Ma riunioni ed interventi dei pro e dei contro cadrebbero nel vuoto se l'informazione fosse a senso unico. A Bari non è così. Nella Gazzetta del Mezzogiorno, importante giornale del Sud, Nicola Signorile, critico raffinato di architettura ed autore del saggio “Occhi sulla città” pubblicato da Laterza, ogni mercoledì riesamina il progetto nella rubrica “Piazza Grande”: osservazioni lontane dal favore delle cronache che appaiono nello stesso giornale. Resiste la diffidenza nell'edizione pugliese di Repubblica: opinioni in eterno litigio, pro e contro, ma col sigillo negativo di Colaianni. Favorevole il Corriere del Mezzogiorno, legato al Corriere della Sera: una sola volta il capo della redazione, Maddalena Tulanti ha ripiegato i resoconti favorevoli con un commento negativo. Morbida Rai 3, gestita dalla destra post Fitto. Qualche applauso alla Cittadella da TeleNorba, potentissima privata della regione.

L'informazione di Parma è molto diversa, facile capire perché. Nel consiglio d'amministrazione della casa editrice che stampa la Gazzetta e manda in onda Tv Parma, siedono gli imprenditori importanti della città. Prima o poi coinvolti nelle cronache. Le quali sono sempre rispettose, profumi d'incenso e profili la cui benevolenza umilia le penne di Berlusconi. Il guaio è che i giornalisti sono bravi, professionalità collaudata nei quotidiani delle grandi città, intelligenza indipendente, ma come possono fare discorsi normali senza mettere in conto la valigia dell'esodo? Il guaio è che non tutti gli imprenditori del consiglio si interessano del giornale e della tv. Lasciano fare, purtroppo. E chi fa non perdona. Il crac Parmalat si è scoperto all'improvviso quando da settimane la stampa nazionale ne parlava. Le pene giudiziarie dell'ex potente Silingardi (presidente Cassa di risparmio, poi Fondazione) vengono spesso raccontate con un ermetismo che lascia sgomenti. Una sola cosa è chiara: ogni mattina il sindaco Ubaldi è una specie di eroe del sabato sera. Interviste, dichiarazioni, foto che si sforzano di ritoccare la mancanza di charme. Se inaugura una fontana, è la più bella fontana d'Europa. E se, un po' dopo, decide di distruggerla, per far passare sotto un tunnel, l'applauso è ancora più scrosciante. In vista dell'addio alla prima poltrona al termine del secondo mandato, le sue presenze raddoppiano anche perché rimpastando la giunta ha scelto di appropriarsi dell'assessorato alla cultura in modo da comparire legittimamente, e di continuo, con parole sincopate al fianco di ogni pittore, musicista o ballerino di passaggio. L'altro giorno ha presentato Meli, nuovo soprintendente del teatro Regio, molto chiacchierato dopo l'infortunio Scala e per il legame con l'agente teatrale Proczymick: risiede a Montecarlo e gli enti pubblici devono pagarlo lì. Come insistono i detrattori, evade le tasse. Per difenderlo dalle accuse di Zeffirelli, il sindaco torna di nuovo nei giornali e in tv. Insomma, visione continua. Il tentativo di trapiantare la popolarità ai possibili eredi il cui primo e unico lavoro è fare l'assessore, può scivolare nell'avanspettacolo. Anche loro parlano e appaiono ovunque. La diretta per l'elezione di miss Parma ne è l'esempio esilarante: presentatore in estasi invita a coronare la ragazza più carina due assessori seduti in prima fila: «Guardate che bei giovanotti abbiamo... ». E i giovanotti salgono sul palco, baciano la miss in mutande, piccolo inchino agli applausi.

In questo clima la Pizzarotti aperta e comprensiva di Bari diventa la Pizzarotti che a Parma prende il posto della Parmalat sostenendo con mano di ferro l'attuale sindaco Ubaldi, futuro onorevole Ubaldi dentro qualche balenottero bianco. L'informazione trova miracoloso ogni suo colpo di tosse. Vuol fare la metropolitana e il senatore Guasti, elemosiniere locale di Forza Italia, strappa ad un governo dalle tasche vuote 172 milioni di euro per realizzare un'opera non solo inutile nella città che si attraversa in bicicletta, ma destinata indebitarne per un secolo gli abitanti. Orgoglio e meraviglia dell'informazione provinciale. Dopo Milano, Roma, Napoli e Genova, Parma diventa la quinta metropoli d'Italia a girare in un metrò scavato: attraverserà le viscere del centro. Manca un 30 per cento di soldi da tirar su in loco. I soliti benefattori delle imprese di costruzioni apriranno le tasche. Subbuglio di anni, subbuglio inutile. A cento metri dallo scavo, attraversa la città un torrente che segue in parallelo il futuro metrò.

Vecchio progetto di Stefano Lavagetto, ex sindaco pacato e intelligente, appena scomparso. Ma la metropolitana all'aria aperta non può suscitare lo stesso piacere dello scava-scava così caro al ministro parmigiano Lunardi, ministro che dei tunnel è signore incontrastato ed esperto di fama; né il tram in superficie aggiunge gloria alla giunta dei miracoli. Ecco perché, malgrado la città scuota la testa si va a avanti a tutti i costi anche se il rapporto Lunardi-Pizzarotti, da sempre associati in tante imprese, si è improvvisamente gelato qualche anno fa. Altre leggende raccontano perché. Di nuovo il confronto con Bari segna la differenza tra le due metropolitane: più 300 mila abitanti, al centro di un bacino dove le persone superano il milione, i politici di Bari spiegano che sarebbe un salasso eterno far passare il metrò sotto terra. La subway - dove serve - evita le gallerie e fa risparmiare miliardi. Per quadrare i bilanci è necessario un traffico tra i 600 e gli 800 mila passeggeri altrimenti i vagoni corrono sui debiti. Parma, 170 mila abitanti, meno di 300 mila in una provincia molto larga, prevede 55 mila persone al giorno, ottimismo da verificare perché la linea Uno (la sola finanziata) attraversa la parte meno densa della città. Sì e no 30 mila persone.

L'altra Tv è Teleducato. Tanzi ne era padrone a metà, ma se ne disinteressava. Pizzarotti gli è subentrato con gesto simbolico: in fondo Gazzetta e Tv Parma deve dividerle con altri colleghi. Ha bisogno di aggiungere una sponda tutta sua. Ne compra il 33 per cento. Continuano le leggende metropolitane. Avrebbe detto: «L'ho fatto per difendermi». Se è vero, da chi? Teleducato è la Televisione quasi personale di Ubaldi. Quando si registrano dibattiti, il sindaco decide in cortile chi può partecipare e chi no, e senza vergogna il direttore-conduttore avverte gli esclusi: «Il sindaco non vuole... ». Sindaco e suoi fedeli coinvolti oltre l'immaginazione. Tanto per ricordare qualcosa: quando da Roma sono arrivati i milioni per il metrò, progetto contestato da Alfredo Peri, assessore regionale dei trasporti, politico più concreto della città, il povero direttore di Teleducato invita Peri a partecipare ad un dibattito: lui, sconfitto, faccia a faccia con i vincitori. Ma qualche ore prima della diretta, il direttore ritelefona. Il sindaco è fuori città, senza di lui non si può. Rimandiamo l'incontro.

Meraviglia della sera: l'assessore Peri accende la tv e ascolta il senatore Guasti, ex vice sindaco seduto a palazzo Madama coi resti di Forza Italia, il quale fa da spot alla trasmissione che andrà in onda di lì a poco: il sindaco Ubaldi, il fedele assessore Vignali, Costa, presidente società del Metrò e due consiglieri del movimento Ubaldi, discuteranno sul progetto del treno sotterraneo. Nessun contraddittore è ammesso. Anche l'assessore regionale ai trasporti è stato considerato un parmigiano inutile. Caro Mimmo Candito, presidente italiano di Reporter San Frontières, oltreché difendere i cronisti sfortunati dell'Avana, non sarebbe il caso di fermarsi a Parma per liberare l'informazione? Informazione liberata che potrebbe far sapere chi ha “opzionato” i terreni dove la linea 2 del metrò dovrebbe arrivare. Chi ha in tasca i metri quadrati sui quali prenderà forma la sede dell'Authority alimentare europea. E come mai l'architetto senatore Guasti abbia accettato di gestire un progetto al centro di furiose polemiche: la nuova sede Parmacotto, proprietario Marco Rosi, amico di Dell'Utri, Galliani e Berlusconi. Tutti lo sanno, ma nessuno può fare domande. A Parma, non a Bari.

Nel futuro di Teleducato, una novità: un vecchio redattore ha quasi finito il libro destinato ad un editore non parmigiano. Racconta le imprese massoniche dell'altro proprietario delle telecamere. Seduce i dipendenti che percepisce vicini. Li convince ad entrare nella loggia Giuseppe Mazzini alla quale è affiliato. Cerimonia nel giardino di una villa attorno alla città. Gli antichi proprietari, dalla religiosità profonda, avevano dedicato la cappella costruita nel parco, ad una santa venerata in famiglia. La loggia Mazzini l'ha trasformata in tempio massonico. E dopo l'affiliazione, via, a cena nel ristorante elegante dove si radunano neofiti e maestri delle altre logge, tutti assieme a festeggiare. Sorpresa del dipendente Teleducato subito deciso a mettersi in sonno: riconosce consiglieri comunali, politici sempre in viaggio tra Parma, Bologna e Roma, insomma, notabili celebrati che mai immaginava sotto il cappuccio. Il bello della provincia è questo. Per la prima volta Bari e Parma sono meno lontane.

2 - FINE

mchierici2@libero.it

Qui la prima puntata del servizio

Titolo originale: Britain pays price of 'Soviet-style' homes planning – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La Gran Bretagna ha abitazioni fra le più piccole, vecchie e costose del mondo sviluppato, e il suo sistema di pianificazione di “stile sovietico” si è tradotto in una carenza di case a prezzi accessibili di alta qualità, rivela un rapporto pubblicato oggi.

La cultura britannica della pianificazione centralizzata, così come definita dal Town and Country Planning Act del 1947, è responsabile del fatto che gli alloggi sono i più piccoli d’Europa e lo stock residenziale il terzo più vecchio del continente, afferma un rapporto del Policy Exchange.

Il rapporto è stato reso pubblico prima di un annuncio, previsto per oggi, del ministro responsabile per la casa e la pianificazione, Yvette Cooper. Si tratta di un pacchetto di misure per riformare il sistema di piano, in un tentativo di renderlo più rispondente al mercato della casa e meglio attrezzato a rispondere ai bisogni residenziali emergenti delle generazioni future.

Secondo il rapporto, il sistema di pianificazione britannico ha anche determinato un mercato volatile dei prezzi delle case, limitando le costruzioni.

”Quello che era inteso come un sistema dove lo stato realizzava edilizia per assicurare che alla popolazione fosse fornito un buon standard residenziale, alla fine è diventato un meccanismo in cui la pianificazione veniva usata per limitare l’edificazione, in particolare nelle zone rurali. Ciò ha determinato prezzi più alti, perché alla crescente domanda non corrispondeva una crescente offerta”, afferma il rapporto.

L’opinione diffusa secondo cui dato che la Gran Bretagna è un’isola piccola e sovraffollata l’unico tipo di edilizia sostenibile sono i blocchi a torre su aree già urbanizzate, è profondamente sbagliata, afferma il rapporto. E i consumatori non possono ottenere le nuove abitazioni che desiderano. I sondaggi mostrano che il 95% delle persone preferirebbe vivere in una casa singola di qualche tipo, ma la metà di tutte le nuove abitazioni realizzate lo scorso anno erano in appartamenti, contro il 12,5% del 1990.

Nicholas Boles, direttore di Policy Exchange, afferma: “Questo rapporto mostra chiaramente che il prezzo pagato per le nostre rigide leggi urbanistiche sono alloggi fra i più piccoli, angusti e costosi d’Europa. Sta agli elettori decidere se sono lieti di pagare questo prezzo, ma meritano di conoscere la verità”.

Nota: qui la versione originale dell’articolo, al sito del Guardian . La cosa più interessante però (la giornalista si è limitata a scopiazzare lo Executive Summary del rapporto) è entrare nei particolari di questo studio, condotto dal Policy Exchange, "think tank" di rampanti giovanissimi presieduto dal biografo di Margaret Thatcher, Charles Moore. La tesi generale, cara anche a molti critici di casa nostra, è che l'intera storia della pianificazione urbanistica sia una via crucis di lacrime e sangue imposti al popolo nel solo nome del "socialismo", a quanto pare foscamente trionfante anche in Occidente dal secondo dopoguerra in poi. Vedere per credere: il Rapporto originale e integrale è scaricabile direttamente qui da Eddyburg (f.b.)

Titolo originale: Affordable housing is no holiday camp – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Pechino, 21 giugno – a marzo Wang Li, trentacinquenne insegnante di liceo a Pechino, ha piantato una tenda e ci ha vissuto per più di cinquanta giorni.

Wang non era in vacanza in campeggio. Stava aspettando di poter comperare una casa di edilizia convenzionata.

Il dramma di questa insegnante è condiviso da molti, a Pechino.

Wang era in coda vicino al tratto meridionale del Terzo Anello stradale di Pechino. I costruttori hanno ricevuto ben 3.285 richieste per un progetto che conta solo 441 appartamenti, secondo il Beijing Times.

La concorrenza per la possibilità di firmare un contratto è stata feroce. Persone come Wang hanno fatto tutto quello che potevano, compreso il campeggio, per restare in fila e avere la possibilità di assicurarsi un posto.

Yu Qi, 47 anni, è stato più fortunato, e ha ricevuto l’assegnazione per un alloggio a basso costo nella zona di Tiantongyuan nella fascia esterna di Pechino, dopo aver aspettato solo tre ore.

L’operaia disoccupata era fra le centinaia di richiedenti di una lunga fila che si snodava per più di 500 metri. Ci sono volute guardie della sicurezza lungo le transenne per mantenere l’ordine, nel caos di venditori che offrivano cibo e bevande alla gente in attesa.

La mattina del 13 giugno, i costruttori hanno assegnato 5.000 alloggi, a 2.650 yuan (320,4 dollari) al metro quadrato, 2.000 yuan (241 dollari) in meno del prezzo di mercato delle case lì attorno.

”Il prezzo è ragionevole e gli appartamento sono buoni. Ma ce ne sono troppo pochi” dice Yu.

A causa di un progetto di rinnovo urbano, Yu e la sua famiglia sono stati trasferiti in un quartiere popolare in affitto alla periferia della città.

”Insieme con mio marito abbiamo un salario mensile di circa 2.000 yuan (241 dollari). Coi nostri risparmi, più l’indennizzo di trasferimento da parte del governo di 200.000 yuan (24.100 dollari) riusciamo a permetterci un alloggio di 80 metri quadrati.

Molte delle famiglie a basso reddito nella capitale devono contendersi i pochi alloggi a basso prezzo disponibili, nonostante un eccesso di case di lusso sul mercato.

James Jao, cinese-americano consulente del Consiglio di Stato, dice che l’offerta di case a buon mercato non può corrispondere alla domanda dei residenti a basso reddito. Jao è anche titolare della J.A.O Design International Architects & Planners Limited.

Secondo i calcoli del Comitato per le Costruzioni di Pechino, dei circa 20 milioni di metri quadrati di edilizia residenziale venduti nel 2004, solo 2 milioni erano destinati alle famiglie a basso reddito.

Solo il 4,61 per cento dell’investimento totale immobiliare della città nel 2004 è stato in case a buon mercato.

Il bisogno è diventato più acuto da quando l’amministrazione locale ha iniziato l’attuazione del nuovo piano quinquennale, restringendo le aree già destinate alle abitazioni economiche.

Liu Yongfu, direttore del Comitato per le Costruzioni di Pechino, secondo il Beijing Times ha affermato che le case economiche avranno a disposizione una superficie complessiva di 10 milioni di metri quadri nei prossimi cinque anni, con una riduzione di 5 milioni rispetto al quinquennio precedente.

Nel frattempo, la domanda per questo tipo di case è salita sino a 11 milioni di metri quadri, a causa delle operazioni urbanistiche, ricostruzioni, progetti stradali.

E se la carenza di case economiche è una realtà tangibile, meno chiaro è quello che costituisce oggi una “persona a basso reddito”, e ciò rende la maggior parte degli abitanti qualificati ad accedere a questo tipo di edilizia.

”C’è gente che guida una BMW e riceve i documenti di assegnazione prima di altri che hanno solo la bicicletta” afferma Liu Hongyu, professore all’Istituto di Studi Immobiliari all’Università di Tsinghua University, in un’intervista alla Televisione Centrale Cinese.

”Ma i quartieri popolari sono stati costruiti per assistere quelli con la bicicletta nell’acquisto di una casa” prosegue Liu.

Zheng Siqi, lettrice nello stesso istituto, da’ la colpa ad un sistema creditizio nazionale alle persone incompleto, e alla definizione vaga di cosa sia il “basso reddito”.

”Una famiglia a basso reddito è identificata da un salario annuo di 60.000 yuan (7.255 dollari), cifra che non è stata cambiata dal 1998, quando fu lanciato il programma delle case economiche” dice Zheng.

”Il reddito non dovrebbe essere calcolato in base al salario. Oggigiorno il reddito ha varie fonti”.

Dunque, alcune persone a reddito maggiore si sono avvantaggiate, nei progetti di case economiche.

”Si possono vedere auto di lusso parcheggiate di fronte ai quartieri più grossi” aggiunge.

Secondo i calcoli del Comitato per le Costruzioni di Pechino, il 10 per cento delle 175.000 famiglie che hanno acquistato case economiche dal 1998 non ha superato le verifiche più recenti per le qualifiche al diritto.

Per tutelare gli interessi degli abitanti a basso reddito, il Comitato sta rafforzando il sistema delle verifiche su redditi e tasse, migliorando il sistema attraverso la pubblicazione di dati sul sito web.

Chi viola le regole sarà escluso dalle graduatorie delle case economiche per due anni.

In più, i sottili margini di profitto consentiti dall’edilizia popolare hanno ridotto la voglia dei costruttori di investire in questa direzione, sostiene Sam Casella, presidente di Planning Authority LLC, studio di consulenza americano.

”Costruttori e governo, invece, si sono concentrati su interventi più lucrosi rivolti a strati di mercato superiori” dice Casella.

”Se chiedono di realizzare alloggi di lusso, il governo dovrebbe autorizzare solo interventi misti: parte case costose, parte abitazioni meno costose”.

Nota: al sito Xinhua Online il testo originale (f.b.)

Titolo originale: Berliner Hot Luft – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

BERLINO – Klaus Wowereit ama dire che “Berlino è povera, ma sexy”. La battuta del sindaco ha un fondamento. Berlino ha un alto tasso di disoccupazione, debiti enormi, e un mercato immobiliare oscillante da anni. Le case a buon mercato attirano artisti, studenti, e altri generi bohemian. Spaziosi lofts progettati per agenzie di pubblicità e studi di consulenza, sono stati convertiti in studi fotografici o sale di prova per gruppi musicali. Si sviluppano bozze di romanzi, si preparano tele per quadri. La voce si è diffusa: amici persi di vista vengono in visita da posti che non sono né poveri né sexy, e si fermano qualche giorno. Qualcuno per settimane, o mesi. Ma quando mi si sono ri-trasferito, in questa mia città natale, ho scoperto che – nonostante tutta questa tendenza – manca qualcosa.

Che sia la squadra di calcio? (Hertha Berlin ha seguito il Monaco per anni). Oppure il fatto che manca un grande quotidiano? (quello di riferimento viene da Francoforte). Sulla metropolitana semivuota al mattino, mi manca anche l’ora di punta (solo la linea U3 è stipata: di studenti della Free University diretti alla lezione delle 10). Per via della crisi economica, qui innumerevoli attività – dalle grosse manifatture ai piccoli negozi – hanno chiuso. Ora quasi tutte le vetrine, più o meno, si aprono su spazi per uffici in condivisione dove scrittori free-lance o architetti vestiti in stile fissano schermi di computer, aspettando che magari suoni un telefono. Berlino può anche fare tendenza, Mr. Wowereit, ma qui non succede niente.

Naturalmente, la città è sempre stata un po’ in secondo piano. Non c’è un vero porto, né una grossa borsa, o uno skyline degno di nota. Forse è per questo che i nazisti volevano costruire la Grande Cupola, alta 250 metri e sette volte più larga di San Pietro. Invece, Berlino ha avuto il Funkturm, un clone della Torre Eiffel grande la metà.

Roma e Parigi hanno dominato il mondo per secoli; l’era d’oro di Berlino è durata un paio d’anni. Negli anni ’20, gente diversa come Nabokov, Schonberg, Einstein o Wilder hanno vissuto e socializzato qui. Gli storici stanno ancora tentando di capire come mai tanti personaggi interessanti abbiano prosperato qui. Coincidenza, dice qualcuno. Altri danno il merito alla Berliner Luft, l’aria di Berlino, che si dice chiarisca la mente e curi i postumi di sbronza.

La cosa più probabile, tuttavia, è che sia stata la crescita economica. Dopo la prima guerra mondiale, la Germania sopravvisse a qualche anno di iper-inflazione per riemergere con un notevole boom: e Berlino ne stava al centro. Le fabbriche lavoravano a pieno ritmo; e così i bar e i bordelli. Anche il grande romanzo berlinese fu scritto allora: Berlin Alexanderplatz di Alfred Doblin tratteggia una spietata e dinamica città capitalistica.

Anche se alcuni fans di Berlino vorrebbero rivivere la Repubblica di Weimar, ad altri – gente di sinistra, liberali, o anche i miei genitori – manca la Berlino Ovest degli anni ’70 e ‘80. Allora, la maggio parte delle imprese se n’era andata. Invece di Siemens, Allianz o AEG, la città divisa dal muro ospitava attivisti, faccendieri, e David Bowie. Economicamente morta e politicamente arroventata, Berlino attirava le persone annoiate dalla Germania Occidentale. L’umore era alternativamente ribelle o apocalittico, i vestiti d’ordinanza neri, e il gruppo musicale più noto finì per chiamarsi Einsturzende Neubauten, ovvero “Nuovi edifici cadenti”. Ma alla fine, non fu Berlino Ovest a cadere: cadde il Muro. Migliaia di tedeschi dell’est e dell’Ovest si abbracciarono per le strade, celebrando la riunificazione di una città divisa. I leaders mondiali calavano a Berlino come turisti in gita organizzata; li seguirono dappresso urbanisti, investitori, e anche i parlamentari votarono di spostarsi. Era tale la promessa della nuova Berlino (da non confondersi con New Berlin, Wisconsin, che era sul mercato da un po’) che gli intellettuali sentirono il bisogno di mettere in guardia. Non avrebbe potuto alla fine, la capitale di una Germania riunificata, diventare tanto potente da far rivivere il sogno fascista di un impero mondiale? Potevano risparmiarselo. Quando l’entusiasmo si calmò, la gente capì che non era successo gran che.

Perché no? prima di tutto, i burocrati di Bonn non si sentivano molto di spstarsi nella grande città. Berlino ebbe una bella cupola di vetro sull’edificio del parlamento, nuove ambasciate e ogni genere di sussidi federali. Ma interi ministeri e settori rimasero sul Reno. Ecco perché qualche volta sembra che la Germania abbia due capitali: a Bonn si sbrigano le pratiche, e a Berlino si tengono i ricevimenti. È una divisione del lavoro che va benissimo a certe persone. “In nessuna altra capitale del G8 è tanto facile essere invitati da un capo di stato come a Berlino” scrive il giornalista Alexander von Schonburg nel suo bestseller, L’Arte di essere poveri con stile. Basta mandare una lettera gentile, inventandosi il nome di un’impresa di dimensioni medie che, naturalmente, vuole stringere rapporti economici con il paese in questione. Ed assicurarsi che non sia la regina, o Putin in arrivo: il presidente dell’Uzbekistan andrà benissimo”. Quello che è peggio, i grandi affari non sono mai tornati a Berlino. Le compagnie liriche qui superano di tre volte il numero degli uffici centrali di multinazionali. La Bertelsmann, la Bayer e tutti gli altri hanno aperto uffici di rappresentanza (la TUI ha anche aperto un grazioso piccolo cocktail bar). Ma per la maggior parte lavorano, fanno soldi e pagano le tasse altrove. Il malessere appare evidente nella ricostruzione della Potsdamer Platz. Architetti di grido come Helmut Jahn miravano ad un aspetto in stile New York City, e hanno creato un effetto da villaggio Potëmkin. Enormi cartelli “affittasi” ornano le ambiziose torri. C’è qualcosa di surreale nella Potsdamer Platz, ed è quello che fa dire all’ospite dei talk-show Harald Schmidt, che è come se “la famiglia Ceausescu avesse fatto un ultimo investimento prima dell’esecuzione”. Anche altrove Berlino è il posto dove comprare. Immobili di prima qualità sono disponibili per gli scopi più vari. Come il Palast der Republik, campione di architettura socialista che ospitava un tempo il parlamento della Germania dell’Est. I legislatori hanno da tempo deciso che l’edificio debba essere demolito. Ma la demolizione è stata più volte posticipata per le incertezze nei finanziamenti. Nel frattempo, il Palast ha ospitato innumerevoli feste techno, spettacoli musicali per cori, gare di pattinaggio. L’ultima volta che ci ho fatto caso, un gruppo di geniali organizzatori di eventi aveva fatto allagare l’intero pianterreno con 300.000 litri d’acqua, e invitava i turisti a visite guidate su battelli gonfiabili.

Sembra tutto molto divertente, vero? Ma qui sta il problema: l’assenza di una solida base economica è palpabile ovunque si vada; e non si tratta solo dei quartieri delle classi lavoratrici come Wedding ma anche nell’elegante Friedrichshain. Anche se ci vivono alcuni dei più capaci pittori e scultori del mondo, i loro mercati più importanti stanno a New York City. A Berlino ci sono 10.000 giornalisti in cerca di lavoro, ma hanno molta più probabilità di trovarlo a Amburgo. Quando Renzo Piano, Philip Johnson e Sir Norman Foster riprogettarono Berlino negli anni ‘90, vennero qui schiere di giovani entusiasti a studiare architettura. Adesso che le star se ne sono andate, i laureati di Berlino possono ritenersi fortunati se riescono a ristrutturare un liceo in Baviera.

C’è qualcosa al tempo stesso notevole e miserabile in una città che non riesce a sostenere i talenti che attira. La Germania, con la sua economia stagnante, ha allevato una generazione di giovani professionisti, e in nessun posto sono tanto smarriti come qui, nella capitale. Il saggista Wolf-Jobst Siedler paragona l’atmosfera prevalente compares a quella dell’Aspettando Godot di Beckett: sembra che tutti stiano aspettando qualcosa, ma nessuno sa che cosa. I bar di Prenzlauer Berg e Mitte, di Kreuzberg e Charlottenburg, sono stipati di gente interessante. Ma se ascoltate con attenzione le loro chiacchiere, capirete che la musica si suona da un’altra parte.

Nota: il testo originale al sito del Wall Street Journal online (f.b.)

La superstrada volerà sopra la riserva naturale della Ficuzza, e a tratti vi si insinuerà sfiorando laghetti e rocche e abbattendo alberi. Collegherà i comuni di Marineo e Corleone, avvicinando un po’ di più il paese natale dei boss Provenzano e Riina alla capitale Palermo. E questo sarà “essenziale per la liberazione del corleonese dalla presenza mafiosa”, assicura il sindaco, il deputato del “Patto per la Sicilia” Nicolò Nicolosi che non perde occasione di ribadirlo e lo ha messo nero su bianco in un’interrogazione al ministro dei lavori pubblici Lunardi, con la quale sollecitava attenzione – accordata – al progetto. Affiancato nell’entusiasmo dal senatore Renato Schifani, vero “padrino” di un’opera pubblica che gli ambientalisti non esitano a definire “uno scempio inutile e costoso”. E contro il quale promettono battaglia.

È uno scempio che risulta già evidente dalle simulazioni che il “Forum Salviamo Ficuzza” - promosso da associazioni ambientaliste e gruppi di agricoltori della zona e di società civile - ha preparato: enormi piloni e sopraelevate, con “rotatorie stile Las Vegas”, si staglierebbero tra il verde dei campi e degli alberi di un’area prettamente rurale, protetta oltreché dal decreto della Regione che nel ‘91 istituì la riserva nel bosco adiacente, anche dall’Unione Europea che vi ha individuato due Sic, due siti di importanza comunitaria. E la soprintendenza e il dipartimento forestale, chiamati a tutelare l’area protetta, lo hanno ben rilevato nei pareri negativi opposti a buona parte dell’opera, della quale hanno bocciato quattro dei cinque lotti previsti. Il faraonico progetto dell’Anas,definito eufemisticamente “rifacimento della statale 118” (in realtà si tratta di uno stravolgimento totale il dell’arteria esistente) e finanziato in tempi record con cento milioni di euro, viene smontato pezzo per pezzo dai funzionari dei due enti, proprio per lo stravolgimento che causerebbe nella zona. Degli undici viadotti previsti, con dodici cavalcavia, due gallerie e due ponti, viene salvato ben poco nei pareri vincolanti emessi nei mesi scorsi: è concessa solo la realizzazione di un viadotto del lotto 3 del progetto, l’unico ad avere avuto il benestare perché i 5 chilometri interessati si discostano dalla riserva, anche se i lavori comporterebbero r abbattimento di un filare di pini secolari.

L’Anas e i padrini del progetto non hanno tenuto conto di questi pareri, né delle proteste ambientaliste né delle prese di posizione di molti esperti che hanno bocciato la superstrada. Hanno ignorato ovviamente anche l’allarme degli agricoltori della zona, che si sono subito riuniti in comitato e hanno presentato un ricorso al Tar contro la realizzazione dell’opera, rimasto finora senza risposte: la sentenza è slittata di un mese. Insieme ai pochi operatori turistici della zona, dove sorgono perlopiù piccole aziende agrituristiche frequentate da persone in cerca di silenzio e di natura, spiegano che la vocazione di Ficuzza è in contraddizione con un progetto stradario di tale portata. “E poi alcune aziende agricole verrebbero addirittura frammentate dalla strada, che impedirebbe il passaggio tra fondi contigui”, dice Luigi Arcuri, che produce cereali e alleva bovini ed equini con metodi biologici e che insieme ai colleghi del comitato sottolinea anche il problema degli espropri inevitabili, sui quali comunque non è stato comunicato ancora nulla di certo.

I fautori della “Marineo-Corleone” non hanno tenuto conto neppure dei calcoli “matematici” prodotti in una perizia da alcuni docenti dell’università di Palermo, su incarico del “Forum Ficuzza”, “che dimostrano come tutto questo farebbe risparmiare in realtà solo 8 minuti sull’attuale percorso tra Palermo e Corleone”, dice Franco Russo del Wwf Sicilia Non solo, “esiste già una strada alternativa a questa, che parte dal lato opposto di Corleone e attraverso una strada a tratti degradata, si collega allo scorrimento veloce Palermo-Sciacca e fa addirittura risparmiare più tempo: 42 minuti contro i 50 previsti con la realizzazione della superstrada”. Gli ambientalisti hanno più volte sollecitato l’Anas a valutare l’ipotesi di interventi volti a migliorare semmai proprio questa strada alternativa, ma per tutta risposta l’Anas ha partorito un progetto collegato a quello della superstrada, d’impatto altrettanto devastantee ancor più dispendioso: una “bretella” che dall’entrata di Marineo immetterebbe direttamente sulla superstrada che verrà, 150 milioni di euro per 7,7 chilometri di cemento. E intanto ha accelerato su questo, bandendo la gara d’appalto per il terzo lotto e annunciando che i lavori avranno inizio a luglio, tra le dichiarazioni di soddisfazione del sindaco Nicolosi e del senatore Schifani, che per il suo impegno a favore della strada si è guadagnato pure la cittadinanza onoraria di Corleone, assegnata il giorno dopo la pubblicazione del bando di gara. Senza alcun senso del ridicolo, il sindaco attacca gli oppositori della strada come “nemici dello sviluppo di Corleone”, che “favoriscono, non so quanto consapevolmente, la mafia”. E con una giravolta logica assicura che “il bando per il terzo lotto garantisce che la superstrada non sarà più un’incompiuta”, facendo allarmare gli ambientalisti, perché invece è ovvio che cominciare una strada dal suo centro, senza avere il permesso di realizzarne l’inizio e la coda “significa dare avvio a un’incompiuta annunciata”, dice ancora Russo. Che si chiede: “O l’Anas spera che una volta iniziati i lavori, Sovrintendenza e Forestale si ammorbidiscano?”.

Il rischio che pian piano il progetto vada avanti è reale, per questo “occorre assolutamente impedire l’avvio del cantiere”, dicono quelli del “Forum”, chiamando i siciliani a partecipare alla marcia di domenica 29, con partenza alle 10 dal borgo della Ficuzza.

Nota: qui il link alla pagina del WWF SICILIA, con altre notizie sull'argomento e le varie iniziative (f.b.)

Titolo originale: Consumer Versus Community – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

“Una società di proprietari”. Grazie al presidente Bush, quelle due parole rotolano sulla lingua come fossero una sola. Ma ci sono momenti in cui la nozione di proprietà trama contro l’idea di società: specialmente quando si confrontano nella vita quotidiana delle città americane. Quello di cui l’America ha davvero bisogno è una politica che accenda il sentimento comunitario e la cooperazione fra cittadini, anziché semplicemente insegnar loro a investire la vita nell’ American Dream.

La Società dei Proprietari vuole essere la risposta del XXI secolo al New Deal o alla Great Society: programmi dove il governo aveva un ruolo definito nel migliorare la vita degli americani. Programmi che avevano dei difetti, certamente, ma che promuovevano il lavoro e la responsabilità collettiva. Spingevano gli americani a porre al centro il benessere della comunità, a considerare il proprio destino personale come inestricabimente legato a quello del prossimo.

Quando il Presidente Bush parla della sua Ownership Society, invece, offre un programma che esalta le possibilità del singolo consumatore. La proprietà della casa ne è un esempio perfetto. Pilastro centrale della società dei proprietari, la proprietà della casa è abitualmente dipinta come la più alta forma di cittadinanza alla quale gli americani dovrebbero aspirare.

Questa valorizzazione è sostenuta da una notevole quantità di studi sulla proprietà. L’ossessione inizia con la teoria secondo cui la casa della singola famiglia rappresenta un investimento fondativo per la comunità. Ciò significa, prosegue la teoria, che i proprietari sono meno propensi a muoversi, saranno portati alla manutenzione della proprietà, all’attenzione per l’ambiente del quartiere, di quanto non siano i loro pari, ma inquilini in affitto.

Eppure in tutti i miei anni di impegno in organizzazioni per lo sviluppo economico – oltre ad essere io stesso proprietario di casa – ho visto anche come la proprietà possa spingere la gente a concentrarsi su di sé, a spese della comunità che gli sta intorno.

Nei miei dodici anni a capo di un’organizzazione di base a Central Brooklyn, la maggior parte dei gruppi di proprietari di casa con cui sono entrato in contatto erano del tipo NIMBY ( Not In My Backyard). Erano più appassionati ed efficienti nell’organizzare giri per le case in pietra caratteristiche della zona, e a bloccare vari progetti cittadini in partenza, anziché ad iniziare qualunque programma di beneficio sociale.

Alle assemblee del mio condominio, sono regolarmente trascinato in discussioni in buona fede coi miei colleghi proprietari, inevitabilmente orientate a proteggere il valore della nostra proprietà e i nostri interessi. Quando penso a me stesso in modo ristretto, come proprietario di casa, il mio cortile diventa l’universo. Qualunque cosa, dalla cacca di cane sul mio prato alle case popolari all’angolo, diventa una minaccia. Vengo colto da impulsi di autodifesa, reazionari e gretti che non sapevo di avere.

Siamo chiari: aumentare la possibilità che le famiglie a basso reddito possiedano una casa è senza dubbio uno degli elementi più importanti per la costruzione del benessere, utilizzati dai professionisti dello sviluppo economico comunitario in tutto il paese. In un’economia dove tante persone si sentono escluse, la proprietà della casa spesso offre alle famiglie un rifugio, una fetta di dignità e un modo per esercitare controllo sulle proprie vite e il proprio ambiente.

Ma è comunque fuorviate fare della proprietà della casa un feticcio, conferendole virtù mistiche di misura del valore dell’individuo per la società, in base a ciò che possiede. Se lo scopo della Ownership Society del presidente Bush è quello di creare soggetti che siano responsabili, membri attivi della società, abbiamo davvero bisogno di una leadership nazionale che sappia distinguere il consumismo dalla cittadinanza.

La proprietà della casa è una scommessa di alto profilo. Proponendo un’idea individualista come quella dei buoni scuola o delle assicurazioni private per la sicurezza sociale, la politica interna americana isola sempre più vite familiari e vicende economiche che un tempo erano esperienze condivise da tutti. Contemporaneamente, la nostra cultura incoraggia i ceti operai e medi a concentrare la propria sicurezza finanziaria nella casa familiare. In queste condizioni, l’impegno civico non direttamente legato agli interessi della proprietà diventa un lusso che pochi si possono permettere.

Programmi come la American Dream Downpayment Initiative (ADD), approvata all’unanimità dal Congresso nel 2003 con enorme sostegno bipartisan, offrono sostegni al pagamento degli interessi per famiglie a basso reddito. Ma se la ADD è un’iniziativa valida, sia questa che altri programmi per la proprietà della casa si concentrano esclusivamente nell’ungere gli ingranaggi del mercato immobiliare. Anziché accettare solo i paradigmi del mercato, i progressisti dovrebbero guardare alla Ownership Society per quello che realmente è. Così gli strumenti potrebbero diventare nelle mani dei professionisti di sviluppo locale mezzi per promuovere modelli come i land trusts o le cooperative a proprietà indivisa, forme di proprietà alternative che consentano agli abitanti di condividere e diffondere sia i rischi che i benefici della proprietà.

Nello stesso modo, quando si parla di rimuovere gli ostacoli all’accesso alal casa in proprietà, i legislatori dovrebbero tutelare e aggiornare il Community Reinvestment Act e introdurre leggi di giustizia economica contro gli impedimenti discriminatori e strutturali del mercato della proprietà e dell’affitto, come i mutui ad alto costo predatori.

Quando parlano di società dei proprietari, i leaders locali, politici, religiosi, dovrebbero parlare della responsabilità dei proprietari di casa verso i propri vicini, di come si possano usare il capitale e la posizione sociale per ricostruire la comunità che ci sta attorno. Forse, allora, la proprietà di casa potrà essere usata per ispirare qualcosa di più elevato del “Prenditi ciò che è tuo”.

Nota: qui il testo originale al sito Tom Paine Common Sense (f.b.)

Titolo originale: Supreme Court Case Could Affect Baseball Stadium – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

C’è un caso pendente alla Corte Suprema USA che a parere di urbanisti, giuristi esperti del settore, e consiglieri comunali, può decidere la sorte di due importanti progetti economici per il Sud-est, compreso quello dello stadio di baseball.Ci si aspetta che la corte decida nei prossimi mesi, se l’amministrazione locale possa o meno usare il proprio potere di esproprio per trasferire terreni da un proprietario privato all’altro, al solo scopo di trasformazione per usi economici (diversa dall’acquisizione per scopi pubblici come strade o uffici governativi)È stata ascoltata ieri una deposizione sul caso Kelo v. City of New London, Connecticut, e i funzionari del District of Columbia stanno seguendo la vicenda da vicino, preoccupati che possa complicare (o per lo meno aumentare i costi) i progetti per costruire uno stadio di baseball su aree private, e ristrutturare l’obsoleto centro commerciale di Skyland, all’incrocio fra Alabama Avenue e il tratto sud-est della Good Hope Road.”È più facile prendersi un pezzo di terra agricola, tirar giù una foresta, e costruire lì”, nelle aree esterne, dice il sindaco Anthony A. Williams (D), che ieri ha seguito i lavori della Corte da semplice spettatore. “Se vogliamo avere un approccio smart growth, abbiamo bisogno di questo strumento”.Le autorità pubbliche abitualmente usano la facoltà di esproprio per acquisire i terreni necessari ai loro progetti, contando sulla magistratura per fissare un prezzo equo, se non hanno esito positivo i tentativi di accordo con la proprietà. Nel caso citato del Connecticut, il proprietario aveva messo in discussione the il diritto dell’ente pubblico di utilizzare questa procedura al solo scopo di consentire che un diverso proprietario privato facesse un uso differente dei terreni.La città ha bisogno di circa 10 ettari per costruire uno stadio di baseball per i Washington Nationals vicino alle rive del fiume Anacostia, e alcuni dei proprietari dei terreni circostanti non vogliono vendere.”Posto che la Corte [Suprema] decida che ci sono limiti costituzionali alla facoltà di esproprio per scopi privati, il problema è vedere se lo stadio sia davvero una funzione pubblica, oppure un regalo per la Lega Baseball, come dice qualcuno”, afferma Dale Cooter, legale del proprietario di un porno-shop sui terreni dello stadio. “Qui si tratta della lega Baseball travestita da funzione pubblica”. Il proprietario del porno-shop non intende muoversi.

David A. Fuss, avvocato specializzato in questioni urbanistiche allo studio Wilkes Artis, è d’accordo, e dice che “l’effetto ultimo [sulla Città] potrebbe essere che l’esproprio a uso baseball non corrisponda a quello che la Corte Suprema considera pubblica utilità”.”Questo potrebbe portare al blocco dell’intera operazione dello stadio” continua Fuss, e consentire ai proprietari di chiedere qualunque prezzo al comune.Il sindaco Williams non è d’accordo, e sostiene che il precedente di Kelo non riguarda il caso dello stadio, perché la struttura resterebbe di proprietà comunale. Ma aggiunge anche che, se la struttura fosse affittata “a una cifra troppo bassa” alle Lega Nazionale, si potrebbe sostenere che qui si favorisce un privato, rientrando nel precedente di Kelo.”Quello di proprietà è un diritto importante in questo paese” dice Williams, ma aggiunge che qualunque restrizione alle possibilità del comune di usare la facoltà di esproprio “rallenterebbe fino alla paralisi molte attività costruttive”.”Ci sarebbero tante resistenze che diventerebbe impossibile fare qualunque cosa”.Herb Miller, costruttore di edilizia commerciale in città, che ha proposto un piano per finanziare privatamente lo stadio e realizzare un complesso di negozi big-box sui terreni circostanti, dice di aver incaricato consulenti legali per verificare se il progetto possa ricadere nel precedente di Kelo.”Nel nostro caso, mi dicono, la zona attorno allo stadio è degradata ed esistono parecchi casi del genere in cui è stata accettata legittima la procedura dell’esproprio per pubblica utilità”, afferma Miller. Dice, anche di voler tentare un accordo coi proprietari dei 6 ettari fra i tratti sud-est delle strade N e M, per collocare lì i negozi big-box, e che il comune dovrà usare la facoltà di esproprio solo se i proprietari non vogliono vendere.

La decisione della Corte Suprema potrebbe influenzare anche i progetti della città per la ristrutturazione del centro commerciale Skyland, su Alabama Avenue e Good Hope Road, dove alcuni proprietari rifiutano di vendere al comune (che cederebbe le superfici ad altri commercianti di livello superiore). In città si è parlato a lungo di portare lì un negozio Target, ma non si è ami firmato l’accordo con la catena.I funzionari della National Capital Revitalization Corp., organismo semipubblico legato al comune e in prima fila nei progetti di ristrutturazione dello Skyland, dicono di aver in corso negoziati coi proprietari, nella speranza di comperare i terreni senza dover ricorrere alla procedura di esproprio. I proprietari dello Skyland affermano di non volere cedere tramite esproprio, solo perché le superfici siano consegnate a un altro proprietario privato.”Il governo vuole prendersi la mia proprietà e darla a un costruttore privato: credo che l’America non possa tollerarlo”, ci dice Larry Hoffman, proprietario di alcuni piccoli uffici e gestore per conto dei proprietari di circa 5.000 metri quadri di negozi allo Skyland. “Non ho nessun problema, se il governo si prende la mia proprietà per costruirci una strada a uso pubblico ... ma semplicemente darla a un altro che ci fa dei soldi, forse lui è migliore di me?”.

Nota: qui il testo originale al sito del Washington Post (f.b.)

Lunedì sera, ospite su Raiuno della trasmissione «Conferenza Stampa», Silvio Berlusconi ha accusato l’Unità di averlo definito un «mostro bavoso». Data la profonda gravità e volgarità dell’ingiuria abbiamo subito proceduto a una ricerca di archivio per verificare l’esattezza della citazione che se confermata ci avrebbe naturalmente imposto di rivolgere le più sentite scuse al presidente del Consiglio.

La ricerca ha effettivamente confermato che in data 7 dicembre 2004 la rubrica «Bananas» di Marco Travaglio aveva come titolo «Qua la mano mascalzone (non mostro, ndr) bavoso». Il testo, effettivamente, contiene una serie incredibile di insulti, offese, oltraggi, contumelie che sommati l’uno con l’altro determinano un’aggressione personale senza precedenti nei confronti di un leader politico. Si parla nell’ordine di «leader rottamato», «fior di mascalzone», «uomo dal passato cupo di ombre», «amico dei golpisti», «bavoso», «vergognoso», uno che «ha fatto a pezzi il Paese», «salame», «come chi in America latina adorava il mitra», «disastro», «medium da retrobottega», «capo di uno schieramento demenziale e violento» fatto di «poveracci» e da «squadristi da far valere alle manifestazioni», «canagliesco», «attrezzo per disperati», «figura indegna», uno che «è entrato in una cabina telefonica, si è tolto il liso panciotto, si è spolverato la forfora, si è spogliato ed è rimasto nel costume con mantellina con la grande “M” di Mascalzone». Solo che l’oggetto di tanto odio non è Silvio Berlusconi bensì Romano Prodi. Travaglio, infatti, si è limitato a riportare tutte le infamanti citazioni contenute nell’articolo pubblicato il giorno prima sul «Giornale» di proprietà della famiglia Berlusconi, a firma di Paolo Guzzanti, vicedirettore del quotidiano e senatore di Forza Italia.

Da notare che l’altra sera, su Raiuno, Berlusconi ha potuto diffamare l’Unità a colpi di citazioni false (attingendole dal dossier già distribuito alla stampa, che definisce questo giornale affetto da «sindrome nazicomunista») senza che la conduttrice Anna La Rosa e i quattro colleghi presenti, certamente a conoscenza delle farneticazioni prodotte dagli appositi uffici del premier, abbiano potuto obiettare alcunché. È veramente paradossale (per non dire altro) che il Berlusconi che si presenta in televisione con l’aria della vittima costretta a subire ingiurie e derisione è lo stesso Berlusconi che un giorno sì e l’altro pure insulta pm e giudici (”toghe rosse”, “eversori”, “golpisti”, “comunisti”, “fascisti”, “come la banda della Uno Bianca”, “criminali”, “matti”),giornalisti e attori (Biagi, Santoro e Luttazzi “criminosi”), capi di Stato (Scalfaro “golpista e ribaltonista”) e semplici cittadini (”faccia da stronza”, alla signora di Rimini che lo invitava a tornare a casa).

A questo punto ci aspettiamo che Berlusconi renda, se ne è capace, le sue più sentite scuse a Romano Prodi, all’Unità e alla verità.

Magari non sarà proprio « enorme » come sostiene Fausto Bertinotti.

Ma di sicuro la vittoria di Nichi Vendola nelle primarie pugliesi del centrosinistra è un evento politico di grandissimo rilievo che va assai oltre la Puglia. In primo luogo perché segnala nel modo più clamoroso alcune evidenze sin qui sottaciute o sottovalutate, ponendo i riformisti della coalizione - in primo luogo i Ds che stanno per riunirsi a congresso - di fronte a questioni non più rinviabili.

Piaccia o no, i 40mila e passa elettori di centrosinistra che hanno decretato di misura la vittoria di Vendola sul moderato Francesco Boccia testimoniano dell'esistenza in Italia, e non soltanto in Puglia, di una realtà ben più significativa, più diffusa e più radicata di quanto lascino intendere espressioni come " sinistra radicale" o " sinistra antagonista"; o di quanto dicano le sole percentuali elettorali di Rifondazione comunista.

Esiste cioè il popolo assai più vasto e più variegato ( così vasto e variegato da comprendere anche molti militanti ed elettori della Quercia, poco o per nulla inclini al radicalismo e all'antagonismo) di una « sinistra sinistra » che, nonostante tutte le divisioni, su alcune questioni fondamentali parla lo stesso linguaggio, coltiva gli stessi sentimenti, nutre le stesse passioni. In una parola, trova una sua identità comune.

Questa « sinistra sinistra » , radicata e identitaria, fatica a pesare fin quando il luogo della decisione resta circoscritto nei partiti e tra i partiti.

Ma se la scelta viene demandata a quello che potremmo definire l'elettorato attivo dell'Alleanza, chiamandolo a scegliere non solo tra diverse persone, ma tra diverse concezioni dell'Alleanza medesima, il suo peso si fa sentire, eccome. E' successo in Puglia con Nichi Vendola, che non è affatto un improvvisato estremista, ma un professionista politico che ha fatto studi regolari in una scuola seria quale fu il Pci. Succederà, o è assai probabile che succeda, in altre e più importanti primarie, quelle per incoronare il candidato premier della coalizione, alle quali Bertinotti si è iscritto da mesi. Non per vincere, certo, ma per far pesare i ( molti) consensi che raccoglierà. Non da segretario di partito, ma da leader di una componente decisiva della coalizione.

Romano Prodi, al suo ritorno in Italia, è stato criticato neanche troppo implicitamente da vari esponenti moderati del centrosinistra per aver dato quanto meno l'impressione di considerare Bertinotti un suo interlocutore previlegiato, o forse addirittura il suo interlocutore più importante. Queste primarie pugliesi confermano che si è trattato di critiche tanto comprensibili quanto infondate. Prodi, semmai, è stato lucido: questa sinistra c'è, conta, non mette in discussione in alcun modo la sua leadership, anzi, la investe del compito di rappresentare in prima persona il punto di vista dei moderati. Semmai sono gli altri leader riformisti e i loro partiti a farsi sentire flebilmente. Come se la ricomparsa della « sinistra sinistra » avesse svelato tutta la debolezza dell'identità politica e culturale di un riformismo, quello italiano, da sempre restio a dare battaglia in campo aperto, quasi che la primazia nell'Alleanza gli toccasse di diritto.

Ha posto e continua a porre la questione Francesco Rutelli: a modo suo, tirando qualche calcio negli stinchi e parecchi sassi in piccionaia. E Piero Fassino teme che ogni uscita di Rutelli dia un aiuto, di fatto, a Bertinotti e compagni, perché radicalizza, per reazione, l'elettorato di sinistra. In parte è anche vero. Per far valere le sue ragioni riformiste, se lo vuole, ha però la migliore delle occasioni, il congresso. Non sarà facile. I numeri congressuali sono tutti dalla sua. Ma il maggior partito della coalizione comincia a sentirsi un po' stretto.

Titolo originale: New Islam in an old English town – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

LEICESTER – Mentre l’Europa annaspa alla ricerca di risposte alle sempre più numerose questioni riguardo alla propria ampia e crescente comunità di immigrati, molti dei quali musulmani, uno dei posti da guardare potrebbe essere questa cittadina un po’ scalcagnata nel bel mezzo dell’Inghilterra.

Leicester, circondata da dolci colline, era da sempre una piccola e prosperosa città manifatturiera, con radici nelle tradizioni della campagna inglese. I contadini ci portavano mucche e pecore da vendere sul selciato nel cuore della città medievale, dove gli edifici di mattoni rossi di epoca vittoriana richiamano un’epoca meno complicata.

Ma ora l’immagine è cambiata. Leicester oggi è una città multiculturale di 300.000 abitanti dove i discendenti degli operai tessili e dei contadini dividono le strade con indù, sikh, e sempre di più con musulmani dal subcontinente indiano, dall’Africa orientale e dai Balcani.

Negli ultimi trent’anni gli immigrati si sono riversati su Leicester: e sono stati i benvenuti, grazie alle politiche progressiste degli amministratori locali, che hanno convinto gli abitanti dei valori di un futuro multiculturale. I nuovi arrivati hanno iniziato una nuova e pacifica esistenza, trasformando Leicester in un modello, che dimostra al resto dell’Europa come funziona una mixed city.

Ma ora Leicester subisce la sfida di nuove preoccupanti dinamiche, come ammettono gli amministratori, una delle quali è la crescente identità musulmana. Il successo della città in termini di multiculturalismo sembra contraddetto dalle tensioni etniche fra musulmani e indù, con la nuova immigrazione musulmana da paesi come Somalia e Bosnia, e un risentimento contro gli immigrati che cova fra i bianchi poveri. Questo ultimo aspetto assume significati oscuri nella mutata atmosfera della Gran Bretagna dopo le bombe dei terroristi islamisti a Londra in luglio.

Nel frattempo l’amministrazione locale prevede che Leicester – la cui popolazione bianca rappresenta ora il 65% - potrebbe diventare la prima città britannica con una maggioranza non-bianca all’inizio del prossimo decennio.

Questo farebbe di Leicester un campo di battaglia ancora più importante nei tentativi dell’Europa di abbozzare un progetto di multiculturalismo, con uno spazio per l’Islam nella società occidentale.

”Quello che appare in superficie è piuttosto fragile” avverte Manzoor Moghal, importante leader musulmano a Leicester e self-made-man di successo arrivato dall’Uganda negli anni ‘70. “Ci sono diverse correnti sommerse che minacciano di frammentare”.

Moghal, presidente del Muslim Forum, un gruppo-ombrello che si occupa di problemi dei musulmani nel Leicestershire, è uno dei molti preoccupati che la tradizione di Leicester di coesistenza pacifica venga minacciata dalla velocità delle trasformazioni.

Trasformazioni razziali avvenute a ritmi mozzafiato. La cittadina di trent’anni fa, dove nonni e nipotini sedevano insieme a guardare il mercato delle mucche e delle pecore, è diventata una città dove uffici e negozi si svuotano al tramonto in ottobre per il Ramadan, mentre i quartieri indiani si preparano al Diwali, la festa invernale indù della luce.

A Leicester oggi, nei quartieri settentrionali come Melton Road c’è una profusione di templi indù, centri musulmani, macellai halal, ristoranti indiani e pakistani, e poi gioiellerie, banche, negozi di abbigliamento. Nel mercato coperto ortofrutticolo, vecchio di 700 anni, una mescolanza multirazziale di clienti fruga tra mucchi di funghi e papaye, banconi disordinati di cinture, biancheria e aggeggi cinesi. Il mercato del bestiame è sparito anni fa, e questo adesso è un supermercato.

La resistenza locale a questa trasformazione ha raggiunto il massimo negli anni ’70 e ‘80, quando i nazionalisti marciavano per la città. Ma l’amministrazione locale di sinistra di Leicester, affermando che il futuro era multiculturale, rispose con una politica progressista di successo, che è ancora ben sintonizzata sulle sensibilità culturali dei nuovi arrivati.

”Non parliamo di cosa devono fare gli immigrati per adattarsi a noi” dice Trish Roberts-Thomson, responsabile per le politiche al consiglio comunale. “Leicester ha un approccio molto softly-softly “.

L’amministrazione coinvolge i leaders etnici in una molteplicità di comitati e gruppi interrreligiosi. Questa integrazione cittadina si è unita a quella economica, e Leicester ha un’ampia forza lavoro per le fabbriche tessili e calzaturiere, gli ospedali e altre aree del settore pubblico. Si è presto prodotta una prospera middle class etnica di imprenditori, che hanno cominciato a spostarsi verso i verdeggianti sobborghi esterni.

”Alcuni hanno accumulato parecchia ricchezza, e comprato alberghi o altre proprietà” dice Jiva Odedra, direttore della Asian Business Association di Leicester.

Il risultato della integrazione civica ed economica è che a Leicester sono assenti le manifestazioni estreme del suo più grosso vicino nelle Midlands, Birmingham, dove gli scontri fra le bande asiatiche e afro-caraibiche di questo mese hanno provocato due morti, lasciando amministratori ed esponenti delle comunità a chiedersi il perché.

Quando sono scoppiati gli scontri razziali nella fascia dei centri inglesi del nord – Bradford, Oldham e Burnley – nell’estate del 2001, Leicester è rimasta tranquilla.

”Leicester funziona” racconta Robert Colls, professore di storia inglese alla Leicester University. “Ci sono persone di molte etnie che sono venute a vivere qui nel giro di meno di una generazione, e non ci sono e non ci sono mai stati disordini in città, nonostante i tentativi già dagli anni ’70 per fomentarli”.

Sono gli indù a dominare tradizionalmente le politiche etniche della città, ma la popolazione musulmana è cresciuta negli anni recenti sia per l’alta natalità che per l’immigrazione; ciascuno dei due gruppi ora conta per un 15% della popolazione di Leicester.

I musulmani “stanno differenziandosi” dice Paul Winstone, consigliere municipale arrivato a Leicester negli anni ‘60, che si è impegnato contro le prime reazioni razziste, importante testimone e guida nella trasformazione multiculturale della città.

I musulmani rivendicano una maggior quantità di fronti, come le scuole su base religiosa o la libertà di indossare i propri abiti sul lavoro, o di avere cibo halal negli ospedali cittadini, e insieme poteri politici più ampi all’interno del consiglio. Winstone sostiene che queste trasformazioni conducono alla “sensazione che gli indù potrebbero abbandonare la città: e gli indù sono stati il suo motore economico”.

Una ulteriore sfida alla equanimità di Leicester è il rischio di riemergenza dell’opposizione bianca nei confronti degli immigrati.

Nel 2002, sulla scia delle rivolte nei centri settentrionali, l’amministrazione di Leicester aveva commissionato una ricerca, che aveva rilevato inusitati e preoccupanti livelli di ostilità fra i bianchi dei quartieri operai, nei confronti dei propri vicini di diversa etnia. Ciò avveniva principalmente a causa di una percepita eccessiva generosità in termini di risorse pubbliche rivolte ai quartieri asiatici. “La minaccia principale al multiculturalismo viene dalla classe operaia bianca, perché il multiculturalismo suscita un’attenzione maggiore rispetto ai problemi dei ceti operai bianchi” dice Roberts-Thomson.

I leaders asiatici temono che il risentimento possa essere rinfocolato dalla legislazione antiterrorismo proposta dal governo britannico, pensata per schiacciare l’estremismo islamico. Fra le altre azioni, il governo propone di coinvolgere alcuni gruppi islamici, ma alcuni esponenti temono che questo spinga il pubblico britannico a considerarli come stranieri anziché inglesi.

La reputazione di Leicester di città senza conflitti non è certo migliorata quando due abitanti originari dell’Algeria sono stati arrestati e condannati nel 2003 per aver sostenuto finanziariamente Al Qaeda. Un altro è stato estradato in Francia.

Anche oggi, osservatori come Winstone notano alcuni tentativi di estremisti musulmani di città vicine – come Nottingham o Derby – di infiltrarsi nelle moschee di Leicester, “anche se sono stati malmenati e rimandati indietro” racconta.

Colls, della Leicester University, dice che secondo la sua esperienza esiste un forte bisogno dei giovani musulmani di Leicester, per insegnamenti più illuminati e di rigetto della linea dura islamista: una lezione tenuta all’università da un insegnante musulmano su questi temi, ha attirato centinaia di persone, dice.

Uno dei motivi per cui l’esperimento multiculturale di Leicester ha funzionato tanto bene nel passato, dicono gli esperti, è che molti di questi indù e musulmani sono arrivati indirettamente via Africa orientale, da paesi come Uganda o Malawi, dove le loro famiglie si erano stabilite da generazioni. Arrivati a Leicester, erano già imprenditori, urbanizzati, abituati all’amministrazione britannica.

Per contro, città inglesi come Bradford hanno accolto musulmani direttamente dalle zone rurali del Pakistan.

Ma la nuova ondata di arrivi a Leicester – somali, bosniaci, kosovari – rappresenta un nuovo tipo di immigrazione: piccoli gruppi, diversificati, là dove un tempo indù e musulmani arrivavano in massa.

Quello più numeroso al momento è dalla Somalia, paese musulmano. Più di 10.000 somali si sono trasferiti a Leicester negli scorsi due-tre anni, secondo gli amministratori. Molti venivano dall’Olanda dove, lamentano, non si riusciva a trovare lavoro e si rischiava di venir separati a causa delle rigide politiche sulla casa.

Alcuni dei somali sono lavoratori altamente specializzati e si integrano bene nella comunità economica. Ma altri si sono collocati nei quartieri più poveri della città, come le squallide strade dietro la stazione ferroviaria, destinazione abituale dei nuovi arrivati più poveri dove, secondo Winstone, alcuni si sono scontrasti violentemente con originari delle Indie Occidentali.

Secondo Roberts-Thomson, che ha lavorato insieme ai somali, molti sono ancora fortemente colpiti dalla guerra civile nel loro paese, il che rende più difficile l’integrazione.

Nella nuova, febbrile atmosfera, è iniziato un dibattito – anche qui, nella multiclturale Leicester – sul livello di assimilazione che si deve chiedere agli immigrati.

”Quando si vuole vivere in una società, quando si vuole esserne parte, si ha l’obbligo di inserirsi” dice Moghal, che indossa un impeccabile completo da uomo d’affari.

Altri, come Ibrahim Mogra, giovane musulmano e uno dei più seguiti imam di Leicester, hanno una linea più rigida, e credono che ai musulmani debba essere consentito vivere e lavorare nelle città britanniche in modi propri.

”Non voglio vivere in una Gran Bretagna dove la mia cultura è di seconda classe” dice Mogra, che riceve i visitatori della sua piccola casa a schiera in uno dei quartieri a maggioranza asiatica di Leicester indossando turbante, tunica e lunga barba fluente. “Mi sono integrato meglio che potevo. Ho fatto qualunque cosa”.

Mogra, tra i componenti del piccolo gruppo di leaders musulmani chiamati agli incontri col Primo Ministro Tony Blair dopo le bombe di luglio, crede che le imprese dovrebbero consentire l’abbigliamento islamico sul lavoro. Ma le sue opinioni non si limitano ai vestiti: definisce Blair un “tiranno oppressore” per la sua politica in Iraq ed è ugualmente aspro riguardo alla politica occidentale di blocco del programma nucleare iraniano.

Punti di vista tanto contrastanti sull’assimilazione riflettono le attuali domande ed esperimenti sul modello multiculturale nell’Europa occidentale che sta attraversando il continente.

È questione aperta, se l’esperienza degli ultimi trent’anni farà di Leicester un faro per il resto dell’Europa, o se i contraccolpi del conflitto di popoli inevitabilmente porteranno la battaglia anche in questo luogo, un tempo tranquillo.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune ; altri testi su questioni simili, se pur forse meno drammatiche, sono stati tempo fa presentati qui su Eddyburg, e sono ora raccolti e ampliati sul numero 30 della rivista Metronomie (f.b.)

Per l’Italia di Ciampi senza se e senza ma

Una panoramica, attorno alla leggetruffa, che “perché rimette in sella gli apparati dei partiti tagliando ogni comunicazione con la società civile”, Da la Repubblica del 9 ottobre 2005

LA DEMOCRAZIA è inclusiva per definizione. Il suo fondamento è quello di includere, non di escludere. Il suo unico «assoluto» (e tutto il resto è relativistica altrimenti non potrebbe includere) è d’impedire che le culture dell’assolutismo distruggano il sistema democratico. Il suo canone. Il suo presidio di libertà.

Vorrei partire da questa definizione per leggere correttamente quanto sta avvenendo in questi giorni nell’Italia politica e nell’Italia sociale, due piani di ascolto e di analisi che consentono di esaminare la nostra società nella sua interezza in una fase particolarmente agitata.

La campagna elettorale ormai in corso vede infatti la mobilitazione di tutti i gruppi di pressione, partiti, sindacati, associazioni economiche, movimenti culturali, istanze religiose, con l’obiettivo di posizionarsi per ottenere i migliori risultati possibili dal voto popolare e dagli effetti che potrà produrre sulla dislocazione del potere, la distribuzione delle risorse, la dinamica dei valori in gioco.

Nei momenti culminanti della vita democratica (il voto è uno di essi) è normale che i gruppi di pressione si mobilitino. Per interpretare i bisogni e le speranze dei cittadini. Per raccoglierne il consenso attorno ai valori e agli interessi dei quali ciascuno di loro è portatore. Per affermare la loro visione del bene comune. Per marcare differenze e negoziare alleanze.

Lo spettacolo d’una democrazia operosa, nella quale valori e interessi si confrontano con energica e onesta chiarezza, può essere esaltante. Oppure può essere avvilente e frustrante quando i messaggi sono trasmessi da lingue biforcute e impastati di menzogna e ipocrisia.

Chi osserva con occhi sgombri dal velo del pregiudizio e con animo partecipe ha dunque come obiettivo di contribuire alla chiarezza decifrando i messaggi delle parti in causa e misurando il loro contributo, positivo o negativo, rispetto all’interesse generale dei cittadini, affinché non trionfino i nemici della democrazia e il voto popolare non sia distorto dalla demagogia, dalla prevalenza del danaro, dal dominio dei mezzi di comunicazione, da tutto ciò che possa insidiare e alterare l’autonoma e consapevole determinazione del popolo, sovrano almeno ogni cinque anni.

In quella preziosa occasione compete al popolo giudicare il consuntivo e valutare le proposte di preventivo. Decidere se i gruppi e le persone che ha delegato a governare in suo nome abbiano operato bene o male. Confermarli o sceglierne altri.

La democrazia non è altro che questo. Ma è molto per chi vuole vivere libero, aspiri alla felicità possibile per sé e per la generazione che seguirà.

* * *

Dovessimo compilare la graduatoria dei personaggi che tengono la scena di questi giorni dovremmo mettere (come sempre del resto) Berlusconi al primo posto, seguito a non molta distanza da Ruini, Casini, Montezemolo. Seguiti a una certa distanza da Rutelli e Bertinotti. Poi D’Alema e Fassino. Poi Prodi.

Poi Pezzotta. Gli altri, a destra al centro e a sinistra, nel gruppone.

Questa graduatoria non riguarda il merito di ciò che dicono e fanno, ma semplicemente la quantità e l’intensità delle loro pubbliche esternazioni e interventi politici.

In ciascuno di loro ci vedi quel tanto di partigianeria che è inevitabile per chiunque parteggi. In alcuni essa è temperata da una visione più o meno organica del bene comune. Purtroppo non è il caso del presidente del Consiglio. La sua incapacità di concepire un sia pur generico disegno del bene comune è patologica, o meglio innata nella sua natura come è innato nello scorpione l’istinto di colpire col suo pungiglione ogni creatura che incontri sul suo cammino.

Berlusconi non sa quale sia il concetto stesso del bene comune. Infatti passa indifferentemente dall’antipolitica al politichese, dal liberismo al dirigismo, dal moderatismo alla radicalità, dall’ossequio verso l’establishment confindustriale alla lotta aperta contro, da Fini a Casini e viceversa. Detesta la magistratura (e questo è un punto fermo per lui). Vuole concentrare nelle sue mani tutto il potere possibile. Promette tutto il promettibile e anche più. Naturalmente non è in grado di mantenere quanto ha promesso anche perché spesso le sue promesse rasentano il favolistico e il miracoloso.

La sua vitalità è prorompente quanto la sua egolatria. Ha ridotto Follini ad un tappetino sul quale ormai si pulisce le scarpe quando rincasa. Adesso ha deciso di far approvare dalla maggioranza la legge elettorale, la riforma costituzionale, la «salva-Previti». E naturalmente la Finanziaria proposta dal fantasista Tremonti.

Dopo due anni di sconquassi interni al centrodestra ha recuperato il dominio del suo campo. Sette vite come i gatti. Fini è diventato afono. Casini si è allineato. Ragazzo spazzola. Bossi aspetta defilato. E il popolo? «Se gratta» avrebbe detto Trilussa. Ma con delusione e rabbia.

Almeno così sembra.

* * *

Giorni fa Casini ricevette a Montecitorio un Follini triste, accorato, sconfitto nel suo stesso partito. Gli disse: «Se rompiamo e andiamo da soli alle elezioni avremo al massimo 18 deputati. Col proporzionale ne avremo una trentina e saremo noi a indicare i nomi. Poi, a elezioni fatte, si farà finalmente politica. Che si vinca o che si perda».

Non so che cosa significhi «far politica» nel lessico del presidente della Camera. Temo che l’etica c’entri assai poco, come da tradizione storica del doroteismo del buon tempo andato. Anche Casini ha i suoi punti fermi. Il beneplacito del cardinale Ruini è uno di essi. La propensione a collocarsi al di sopra delle parti standone dentro fino al collo è un altro. Blandire l’opposizione quando sembra più forte e legnarla quando appare indebolita. A Follini vuol bene sinceramente. Quando il mare s’è messo a buriana l’ha gettato fuoribordo per alleggerire la zavorra. Però gli è dispiaciuto.

* * *

Anche la Confindustria si sta riposizionando. È interessante seguirne i movimenti perché è un pesce pilota e si imparano molte cose. Non muove molti voti ma funge da cartina di tornasole per segnalare gli umori dell’Italia produttiva e benestante. Più benestante che produttiva (ma la responsabilità non è mai la sua né dei suoi soci; è sempre di qualcun altro).

Nel centrosinistra molti pensarono, dall’elezione di Montezemolo in poi, d’aver acquistato un nuovo alleato. Ho scritto in tempi non sospetti che si trattava di un errore: la Confindustria non può identificarsi con una parte politica; quando l’ha fatto (con Alighiero De Michelis, col secondo Costa, con Giorgio Valerio e da ultimo con il D’Amato del convegno di Parma) è stata per lei una catastrofe.

La Confindustria deve difendere gli interessi degli industriali, questo è legittimo e utile. Non dovrebbe tuttavia pensare che quegli interessi coincidano interamente con quelli del paese. Invece purtroppo lo pensa e ci crede veramente. Si appoggia a parecchi luoghi comuni che fanno breccia tra gli ingenui.

Uno di essi, il più usato, è: prima bisogna produrre la ricchezza e poi si può pensare a redistribuirla. Sembra una verità assolutamente ovvia. Per cui ogni programma di ogni governo dovrebbe avere come base quell’elementare verità. Prima produrre poi distribuire. È terribilmente simile alla questione dell’uovo e della gallina. Quale dei due viene prima dell’altro? Produrre e poi distribuire. Se camminiamo in fila in linea retta sai chi sta davanti a te e chi dietro di te, ma se camminiamo in circolo sei davanti e contemporaneamente dietro a ciascuno dei girotondisti.

Per produrre al massimo possibile e con i migliori risultati devi partire da una certa distribuzione delle risorse. Per esempio da un mercato sostenuto da un potere d’acquisto diffuso. Ecco un caso in cui la distribuzione è un prius e la nuova ricchezza prodotta viene dopo. Gran parte della «Teoria generale» di Keynes si basa su questa tesi sia per quanto riguarda la domanda sia l’efficienza marginale degli investimenti e il tasso dell’interesse.

La piena occupazione viene prima o dopo? Il salario è una variabile indipendente o lo è il profitto?

Si tratta, amici della Confindustria, di verità ideologiche e quindi relative e soggettive, non di verità assolute. Le decide il potere, non il mercato il quale può tranquillamente funzionare sia con un salario indipendente sia con un profitto indipendente. Statisticamente il capitalismo ha quasi sempre funzionato in presenza della seconda condizione, ma le sue crisi ricorrenti sono derivate proprio da lì.

Dunque Montezemolo deve mantenersi lontano dai protagonisti politici.

Ma di una cosa la Confindustria dovrebbe invece preoccuparsi moltissimo perché riguarda direttamente gli interessi dei suoi associati oltre che quelli di tutto il paese: dovrebbe opporsi con tutti i mezzi all’avvelenamento dei pozzi da parte degli attori della vicenda politica. Avvelenare i pozzi significa infatti rendere impossibile il funzionamento del sistema democratico.

In realtà questa è stata l’essenza del berlusconismo in questi cinque anni di governo: l’avvelenamento dei pozzi. Nella dilapidazione della pubblica finanza. Nella politica fiscale. Nello smantellamento della fiducia pubblica all’interno e all’estero. Nel conflitto d’interessi d’un capo di governo padrone e con la mentalità del padrone. Nel vilipendio sistematico della magistratura e nello smantellamento dell’ordinamento giudiziario.

Nell’indebolimento delle Autorità di garanzia.

Da ultimo «but not least» la riforma elettorale che costituisce l’avvelenamento dei pozzi definitivo, perché rimette in sella gli apparati dei partiti tagliando ogni comunicazione con la società civile e perché rende il paese tecnicamente ingovernabile più di quanto già non sia stato.

Ho invece sentito nel discorso di Montezemolo a Capri una bocciatura dell’attuale sistema maggioritario. Che cosa vuol dire? Un via libera a una riforma proporzionale? Qui non si tratta di giudicare in astratto, ma di valutare questa legge specifica con liste bloccate, tre soglie di sbarramento, un premio di coalizione che contenga la maggioranza al minimo possibile, la designazione del nuovo capo del governo fatta dai partiti a dispetto dei poteri costituzionali del Quirinale. Poteri di ricatto di partiti e partitini moltiplicati per cento rispetto alla già dolente situazione attuale. Questo è l’avvelenamento dei pozzi: l’ingovernabilità sancita per legge per contenere i danni della sconfitta temuta dal Cavaliere. Questo piace alla Confindustria?

Casini vuole anche lui e lavora per questo risultato che gli darà mano libera coi suoi trenta deputati. Mi dicono che a Capri sia stato applaudito per oltre due minuti.

Male, caro Cordero di Montezemolo. Non per gli applausi a Casini, che è uomo giovane bello e simpatico. Male perché avete capito - temo - molto poco di quanto sta accadendo.

Poi vi lamenterete perché la competitività scende. Ma rassicuratevi, non scenderà più perché siete arrivati in fondo alla classifica mondiale.

* * *

C’è una sola istituzione e una sola persona che adempie ai suoi doveri senza fare mai niente di più e niente di meno di quanto non gli sia assegnato dalla Costituzione e dalle leggi: il presidente della Repubblica. Nel generale marasma, se c’è un uomo e un’istituzione che tengano dritta la barra del timone, li troviamo al Quirinale. Quello è, lo scrivo ancora una volta, il punto di raccolta delle tantissime persone perbene e di buona volontà di questo paese.

Tempo fa fu pubblicata su questa pagina una vignetta del grande Altan che ancora ricordo per la sua incisività.

Diceva, l’omino da lui disegnato: «Ho voglia di vomitare, senza se e senza ma». Farò una perifrasi più speranzosa: «Ho voglia che vinca l’Italia di Ciampi senza se e senza ma». Me lo auguro di tutto cuore per tutti noi.

È stato calcolato da esperti che le sette società che hanno ceduto a Unipol le azioni Bnl in loro possesso hanno realizzato complessivamente, senza muovere un dito, o usandolo solo per cliccare sul mouse, un guadagno di 1,2 miliardi di euro. Hanno rastrellato circa un miliardo di dette azioni tra uno e due anni fa, pagandole 1-1,3 euro l’una; le hanno cedute a Unipol al prezzo convenuto di 2,7 euro. Da qui il guadagno, che gli addetti ai lavori chiamano plusvalenza. Ma la vera notizia non è la rilevante entità di questo, o la facilità con cui sarà conseguito. Essa va vista piuttosto nella entità risibile delle tasse che su tale guadagno le società cessionarie legalmente pagheranno: forse 20 milioni di euro, nel migliore dei casi, pari all’1,7 per cento della somma in questione.

Un simile regalo dello Stato è reso possibile da una specifica norma, denominata Pex (da participation exemption), contenuta nel Testo unico della legislazione fiscale. Essa prevede che siano totalmente esentate da ogni tassa le cessioni di azioni possedute da imprese a titolo di partecipazione in altre società, purché sussistano un paio di condizioni: che le azioni stesse siano state tenute in portafoglio per almeno un anno, e che la società partecipata esista davvero, né sia iscritta nella lista dei paradisi fiscali. Tali condizioni sussistono tutte nel caso Bnl, con alcune eccezioni personali alle quali si deve se il fisco incasserà almeno una ventina di milioni.

Se il cerchio si chiudesse qui, per evitare il ricorrere di analoghi doni alle società - sui quali si dovrebbe forse chiedere un parere ai milioni di persone che al fisco versano ogni mese un terzo del loro reddito come imposte dirette, e ogni giorno un altro 15% (in media) in forma di imposte indirette - basterebbe cancellare quanto prima la Pex. Come già hanno proposto esponenti del centrosinistra, nel caso in cui questo vincesse le elezioni. Il cerchio è invece molto più ampio, e di esso la Pex è solamente un capitolo modesto. La vicenda del capitale Bnl apre in realtà una finestra su una pratica delle imprese tra le più diffuse e gravide di conseguenze in Italia come nel mondo intero. Al di là di espressioni tecniche quali elusione fiscale o "minimizzazione delle imposte", tale pratica si può definire come l’arte di schivare le tasse.

L’esercizio di tale arte non presuppone soltanto l’abilità di sfruttare le pieghe della legge per pagare meno tasse, che è il significato comune di elusione fiscale. Richiede la capacità di organizzare la produzione a livello internazionale in modo che ciascuno dei suoi anelli sia assoggettabile a prelievi fiscali minimi o inesistenti. È quanto si fa, ad esempio, con il prezzo di trasferimento: le società di un gruppo dichiarano di vendere ad altre società dello stesso gruppo dei beni a un prezzo talora alto, talora basso, ma sempre determinato in modo che i profitti vengano a cadere giusto nel paese in cui l’imposizione fiscale è minore. Una procedura dalle enormi ricadute, a vantaggio delle imprese e a danno dei bilanci pubblici, posto che oltre la metà del commercio mondiale è costituito da simili scambi. La stessa arte presuppone la possibilità di pagare legioni di consulenti legali ed economici aventi una potenza di fuoco, nei tribunali, tale da schiacciare quella contrapposta del fisco. In Gran Bretagna, per dire, le quattro maggiori società di revisione contabile fatturavano nel 2002 quasi 6 miliardi di sterline, mentre il bilancio dell’ufficio centrale del dipartimento delle finanze che doveva tenere loro testa ammontava a meno di 40 milioni. In Usa, poco prima del crollo la Enron aveva speso 88 milioni di dollari di consulenze per evitare di pagare 2 miliardi di tasse federali. L’arte di schivare le tasse comporta infine di avere la capacità politica, ideologica e mediatica sufficiente per convincere i governi a emanare norme fiscali adatte a ridurre drasticamente l’imponibile, in modo da fare in pratica evaporare le aliquote sul reddito delle società – tipo, nel suo piccolo, la Pex.

Negli ultimi decenni l’arte di schivare le tasse, che si compendia nella contrapposizione tra pagare quanto si riesce a fare apparire formalmente legale e quanto invece sarebbe sostanzialmente equo, giusto, legittimo pagare, ha provocato in gran parte del mondo una forte erosione della base fiscale dei bilanci pubblici. Inoltre è stato operato su larga scala un trasferimento della tassazione dai redditi da capitale ai redditi da lavoro. In Italia, le tasse pagate da individui e famiglie rappresentano ormai il 43% delle entrate primarie dello stato; quelle delle imprese, il 6%. Dato non sorprendente, ove si pensi che secondo i dati della Cgia di Mestre oltre il 48% delle 723.000 società di capitali hanno dichiarato nel 2001, ai fini dell’imposta sulle società, un reddito negativo o pari a zero. D’altra parte negli Stati Uniti individui e famiglie pagano l’80% delle imposte federali; le imprese il 20%. Negli anni ‘50 il contributo di queste ultime superava il 40%. Per quanto attiene all’Unione Europea, già qualche anno fa la società di revisione Deloitte & Touche stimava che lo schivamento delle tasse fosse dell’ordine di 140 miliardi di euro l’anno. È in cifre di questo genere che andrebbero cercate alcune ragioni almeno dei deficit dei bilanci pubblici, che costringono in molti paesi a ridurre prestazioni sanitarie e servizi scolastici, insegnamento e ricerca universitaria, trasporti collettivi e pensioni, indennità di disoccupazione e protezione sociale per le famiglie.

Il cerchio si può quindi chiudere con il richiamo a una contraddizione. Dopo i tanti scandali societari del periodo 2000-2003, dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat, si è registrato uno straordinario sviluppo del dibattito e delle iniziative in tema di responsabilità sociale delle imprese (Rsi). Centinaia di codici, a livello internazionale, nazionale e societario, sono stati redatti al fine dichiarato di introdurre maggiori quote di moralità, di attenzione ai portatori di interesse che non si collocano tra gli azionisti, nella gestione delle imprese. Ora si nota che in tali codici - ma lo stesso può forse dirsi di gran parte degli innumeri articoli sulla Rsi - il dovere per i manager di astenersi dall’arte di schivare le tasse utilizzando tutti i mezzi disponibili per fare rientrare nella legalità tale comportamento, in contrasto stridente con una comune nozione di equità e giustizia sociale, non è quasi mai menzionato. Alla fine, persino la vicenda del capitale Bnl, presa qui come spunto per toccare un tema ben più generale, potrebbe risultare utile alla collettività se fosse l’occasione per provare a inscrivere nei codici societari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa, magari a pagina uno, articolo uno, il suddetto fondamentale dovere.

«Dalla Rai alle banche troppe commistioni tra la politica e l'economia» «Su Unipol esitazioni dei Ds. Inevitabile la supplenza della magistratura»

È da tempo che non si sentiva parlare di questione morale. Lo fa Arturo Parisi con toni assai preoccupati e tirando in ballo la stessa qualità della democrazia. «Il pericolo più grande resta a mio parere il populismo e il qualunquismo — sostiene il presidente dell'Assemblea federale della Margherita —. Ma l'unico modo per evitarlo è mettersi dal punto di vista del cittadino comune. Se la politica non interviene tempestivamente rischia di riaprirsi una nuova questione morale. L'esito può essere una rivolta populistica o il cinismo di massa».

Da dove deriva tanto pessimismo?

«Guardi alle vicende di queste settimane, dalla Rai a Bankitalia passando per l'accordo Berlusconi-De Benedetti e la scalata alla Rcs, con un occhio limpido e ingenuo e vedrà il fondamento della mia preoccupazione. I partiti si sono ripresi la scena ma la confusione è tanta e c'è il rischio che la domanda di alternativa che sale dalla società abbia come risposta null'altro che un'offerta di alternanza».

Cominciamo dalla Rai. Come giudica la presidenza Petruccioli?

«Come non vedere una confusione di ruoli tra maggioranza e opposizione, tra le responsabilità del vigilante e l'ente vigilato?».

Ma Petruccioli era il candidato ufficiale dell'Unione e la legge prevede un voto bipartisan per il via libera parlamentare.

«Da un punto di vista formale l'obiezione è ineccepibile così come è fuori discussione il giudizio sulle qualità personali di Petruccioli. Ma che dire dei comportamenti? A cominciare dall'incontro con Berlusconi che certo è il presidente del Consiglio ma prima ancora il padrone di Mediaset. Come meravigliarsi se un giornale sicuramente non estremista, Avvenire, poi titola "Alla Rai Petruccioli, a Mediaset la serie A"? Come non farsi carico della sensazione di baratto che un titolo come questo non può non ingenerare nel parroco o nel ragazzo di oratorio che lo ha letto?».

Si possono rassicurare parroci e giovanotti dicendo loro che Petruccioli ha già dichiarato di voler riportare in video Biagi e Santoro.

«Ma ha anche detto che Berlusconi al governo "non ha fatto troppo bene"! E comunque quella su Biagi è per ora solo una dichiarazione di intenti. Il punto all'ordine del giorno del Cda della Rai di oggi è la nomina del direttore generale, la cui voce non è certo irrilevante nel decidere chi va in video e chi no. Una nomina per la quale ho sentito Petruccioli dichiarare che avrebbe votato qualsiasi direttore generale a patto che non fosse un delinquente o un incapace, quasi che il ruolo del Presidente fosse quello del notaio o del succube e non invece quello di un protagonista attivo».

Se il presidente della Rai fosse diventato Giulio Malgara vicinissimo a Berlusconi l'elettore dell'Unione sarebbe stato più contento?

«No di certo, ma sarebbero state più chiare le reciproche responsabilità».

Anche la partnership tra Berlusconi e De Benedetti le sembra censurabile?

«Dal punto di vista del codice civile è ineccepibile. Ma le norme più importanti della Repubblica sono quelle non scritte. E la più importante di esse è quella che, per dirla con le parole di Carlo Cattaneo, ci ricorda che "la libertà è una pianta con molte radici", una pianta che si fonda sulla distinzione tra piani diversi. Quello della morale, della politica, della religione, degli affari, della informazione. Anche da questo punto di vista l'alleanza sarebbe ineccepibile perché riguarda uomini di affari che fanno affari nel mondo degli affari. Ma come ci si può alleare con chi è responsabile della confusione e del conflitto tra i diversi piani senza alimentare peraltro la confusione che fino ad ieri è stata aspramente denunciata? Come si può immaginare che l'alleanza appaia confinata al solo mondo e alla sola logica degli affari? E quindi non farsi carico del profondo sconcerto che l'episodio produce agli occhi del cittadino comune?».

Anche Prodi dopo l'Iri e prima dell'Ulivo è stato a lungo consulente della Goldman Sachs.

«Attenzione, in momenti diversi della sua vita. E comunque è un principio che se si dovesse dare il caso non potrebbe che valere anche per lui come per ognuno di noi».

E nell'Opa che Unipol sta lanciando sulla Bnl vede anche lì puzza di bruciato?

«Ci sono domande alle quali non sono state date risposte convincenti. L'ispirazione mutualistica che sta alla base dell'esperienza cooperativa non può essere trasposta in una condizione e su una scala diversa, non ci si può trasformare in raider di Borsa con l'aiuto del fisco».

I vertici dei Ds hanno dunque sbagliato ad appoggiare i progetti dell'Unipol?

«In nome del realismo hanno esitato nel farsi le domande giuste. E così guidati dall'istinto che porta ognuno a difendere il proprio mondo hanno dato l'impressione di avallare una regressione neo-corporativa. Il vero virus è ed è stato il conflitto di interessi alla Berlusconi. Dobbiamo assolutamente evitare di esserne in qualche modo contagiati tutti».

E il leader del suo partito Rutelli ha fatto bene a criticare i Ds?

«In questo caso ho condiviso e condivido le sue posizioni. L'impossibilità di affrontare il tema col respiro che merita ha consentito purtroppo di far passare il confronto per una "polemichetta"».

Banche e governatore. Anche a Palazzo Koch gli interessi le sembrano aver la meglio?

«Da cittadino comune ho letto sui giornali quello che hanno letto tutti. Di fronte allo spettacolo al quale siamo stati costretti ad assistere, dire che le dimissioni del governatore sono opportune è eccessivamente riduttivo. Sono doverose. Se dovesse prevalere un atteggiamento irragionevole spero proprio che il Consiglio superiore della Banca d'Italia si faccia carico della sua responsabilità ed eserciti i suoi poteri. Lo dico pensando alle persone autorevoli che lo compongono. Basti per tutti Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale».

Nel centro-sinistra c'è chi dice «teniamoci Fazio sennò Berlusconi ci mette un altro Marzano».

«È un argomento che di fronte alla enormità dei fatti appare misero. Che vantaggio potrebbe mai cogliere il centro-sinistra dalla delegittimazione ulteriore dell'istituzione Bankitalia e dalla conseguente perdita di credibilità del nostro Paese?».

Vede con preoccupazione anche la scalata degli immobiliaristi alla Rcs?

«Il sistema dell'informazione deve restare autonomo. È evidente invece che lo si vuole destabilizzare con fini che non so se siano prima politici o finanziari. O tutti e due insieme».

Ma stiamo andando verso una nuova supplenza della magistratura? La questione morale riporta le toghe a diventare protagoniste?

«È l'esito inevitabile quando la politica e le istituzioni non fanno la loro parte o peggio fanno parti che non sono le proprie. Come non comprendere in questi casi il cittadino comune che pensa "meno male che ci sono i giudici"? La democrazia è responsabilità dialettica, se l'immagine che proponiamo è quella della commistione dei ruoli e degli interessi e dell'omologazione tra schieramenti ridiamo fiato al populismo che avevamo pensato di aver sconfitto».

Immagino che lei sia portato a guardare con sospetto alle trasmigrazioni del centro-destra verso l'Unione e segnatamente verso la Margherita?

«Il fine della politica è far cambiare opinione agli avversari. È trasformismo quando non c'è un cambiamento evidente e manifesto delle opinioni. Noi dobbiamo invece dimostrare ai cittadini che siamo alternativi al sistema di potere berlusconiano e conquistare alle nostre ragioni anche chi è stato in passato nostro avversario. Guai se la gente pensasse che ci stiamo acconciando al "una volta per uno non fa male a nessuno"».

Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos'altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr'anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all'Occidente, di culto della morte, di suicidio dell'Europa. Un'Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr'anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell'Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr'anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.

Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L'Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all'Occidente, Culto-della-Morte, Suicidio-dell'Europa, Sveglia-Italia-Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi-terroristi-vogliono-distruggere-i-nostri-valori, che questo- stragismo-è-di-tipo-fascista-ed-esprime-odio-per-la-nostra-civiltà». Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla.

Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell'immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l'errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l'essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell'Islam. Io in questi quattr'anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell'impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell'impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell'ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull'Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l'ho capito e...

*** Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull'ecumenismo e sul comandamento Ama-il-nemico-tuo-come-te-stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l'altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell'autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c'erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l'assedio di Kara Mustafa, c'era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l'immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell'autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l'intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti?

Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d'accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l'Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no. La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D'ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim'ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant'Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch'io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un'eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.

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La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l'intervista a Saad Al-Faqih, l'esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l'attacco all'Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l'Italia l'anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi-costringerete-i-romani-alla-resa. E vuole costringer l'Italia ad abbandonare l'alleanza con l'America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c'è solo l'imbarazzo della scelta».

Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all'erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d'arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell'«Apocalisse», l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d'essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall'indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l'autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d'essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l'attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa-degli-americani, colpa-di-Bush.

*** Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all'attacco contro l'Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s'intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s'intende anche di Arte. L'arte che il loro presunto Faro-di-Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d'arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta.

Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.

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