loader
menu
© 2024 Eddyburg

Titolo originale: MPs call for transparency in Olympic venue deals – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il governo è sollecitato a garantire “completa trasparenza” negli accordi fra settore pubblico e privato che comprendono la realizzazione multimilionaria del campus per i giochi olimpici di Londra del 2012.

Membri del parlamento hanno evidenziato le preoccupazioni riguardo ai piani del governo di utilizzare la collaborazione pubblico-privato per realizzare le strutture, dopo che sono emersi alcuni dettagli di accordi fra le autorità olimpiche finanziate pubblicamente, e un consorzio di costruttori privati.

Tessa Jowell, ministro responsabile per le olimpiadi, ha dichiarato che si stanno “esplorando le opzioni per attirare i finanziamenti privati, oltre ad altre forme di condivisione del rischio e alle società miste”. Ma è emerso che alcuni di questi accordi sono già stati presi, anche prima della decisione sulle Olimpiadi.

Il consorzio, Stratford City Developments, progetta una mini-città da 4 miliardi di sterline a Stratford, a est di Londra, adiacente al villaggio olimpico. Nel 2003 si è accordata con la London Development Agency sul principio chiave di non “agire a scopo di ostacolare” gli altri progetti, e collaborare a spianare la strada a entrambi gli insediamenti.

Un direttore del consorzio privato, Sir Stuart Lipton, era anche fra i principali consulenti del governo per i progetti olimpici al tempo di questo accordo di cooperazione. In seguito è stato obbligato a dimettersi dalla sua posizione di presidente della Commissione per l’Architettura a l’Ambiente Costruito, per accuse di conflitto di interesse fra il ruolo di consigliere del governo e quello di costruttore privato.

Sono stati destinati 2,4 miliardi di sterline di denaro pubblico, per realizzare le infrastrutture e organizzare i giochi, ma le autorità olimpiche hanno bisogno che la Stratford City Developments converta normali appartamenti in alloggi per 4.500 atleti.

L’area di Stratford City si sovrappone al settore nord-ovest della zona olimpica nella bassa valle del Lee a est di Londra, dove ci saranno lo stadio principale, alcuni complessi sportivi minori e le strutture per ospitare gli atleti.

Sir Stuart non è stato coinvolto nell’esame dei progetti, ma le conclusioni dei commissari sono state favorevoli a entrambi i progetti.

Il piano olimpico è stato salutato come “un piano di massima di classe mondiale”, che aiuterà a “trasformare l’area e riportarla all’attività e a funzioni produttive”. Si aggiunge che il progetto della Stratford City Developments “si mescola molto bene con le proposte olimpiche, ed è esemplare sotto molti altri aspetti”.

Si ritiene che l’area di Stratford City attirerà notevoli interessi da parte degli investitori, ora che Londra si è aggiudicata i giochi olimpici.

La scoperta di questo accordo, attraverso documenti pubblicati dalla rivista Building Design ai sensi del Freedom of Information Act, ha provocato richieste di esame parlamentare di tutti i contratti connessi alle Olimpiadi.

Il deputato laburista Clive Betts, che aveva indagato sul conflitto di interesse del doppio ruolo di consulente governativo e costruttore di Sir Stuart, ha sollevato il caso alla Camera dei Comuni la scorsa settimana, durante il dibattito sul progetto di legge per le Olimpiadi.

”Non ci sono prove che Sir Stuart abbia partecipato all’ iter di approvazione dei progetti, ma non è evidente, il bisogno di completa trasparenza in tutti i casi di collaborazione pubblico-privata necessari a completare il progetto?” ha chiesto. “Ci sarà un adeguato esame parlamentare di tutti questi accordi”. Più tardi ha aggiunto che si formerà un comitato per questo esame dei contratti olimpici.

Un altro degli accordi fra il consorzio Stratford City e il gruppo di lavoro delle Olimpiadi prevede che la Stratford City riceva fondi pubblici dalla London Development Agency per sostenere la conversione di case ad alloggi per gli atleti.

”È un accordo per aiutare il più possibile le Olimpiadi” afferma Sir Stuart. “Abbiamo lavorato per facilitarle, non per avvantaggiare Stratford City”.

La parte pubblica spenderà 2,38 miliardi di sterline per i giochi del 2012 e relative infrastrutture. Circa 750 milioni saranno ricavati da una lotteria lanciata mercoledì, e 200 milioni verranno spesi in misure di sicurezza.

Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

ROMA — Nel mondo ovattato e un po' snob di Italia Nostra è avvenuta di colpo una piccola rivoluzione. Si è dimessa la presidente Desideria Pasolini dall'Onda, che fu tra i fondatori della rinomata associazione ambientalista. Con lei se n'è andata l'urbanista Gaia Pallottino, che era segretario generale, e hanno abbandonato ben otto membri del consiglio direttivo, tutti personaggi storicamente impegnati nella difesa ambientale, come Arturo Osio, Gianfranco Amendola, l'urbanista Vezio De Lucia.

Una nuova squadra è subentrata. Un autentico ribaltone che ha portato alla segreteria generale Giuseppe Giliberti, un manager industriale, e potrebbe far balzare alla presidenza Carlo Ripa di Meana, noto esponente della galassia dei Verdi.

“Mi hanno sfiduciata — lamenta l'ex segretaria Pallottino — . Si sono coalizzati contro di me e non so per quale motivo”. La resa dei conti sembra dovuta a problemi economici. Arrivata al mezzo secolo di vita ( fu fondata nel 1955), Italia Nostra si ritrova con le casse vuote. “Non possiamo pagare i fornitori, abbiamo scoperti in banca e gli stipendi sono a rischio” spiega il neosegretario Giliberti che spera, con l'esperienza dimanager, di far quadrare i conti.

“Bisognava allargare il numero degli associati, far pagare a tutti una quota — recrimina la Pallottino — . Invece ha sempre vinto la linea un po' snobistica del pochi ma buoni. La vecchia guardia era anche ostile a ogni innovazione. Quando fui eletta segretaria, nel ' 96, il senatoreCifarelli, scandalizzato, trovò disdicevole affidare incarichi importanti ai giovani. Avevo 56 anni” .

Nel frattempo avevano fatto irruzione nel campo ambientalista altre sigle dinamiche e aggressive come Legambiente.

Italia Nostra non riusciva a tenere il passo. Agiva nell'ombra. Magari prendeva anche iniziative nobili e meritorie, ma nessuno ne era al corrente. Fece un progetto agrario apprezzato dagli specialisti i quali sentenziarono che “Italia Nostra realizza cose bellissime ma riesce sempre a nasconderle” . La Pallottino cercò di rimediare, dando più visibilità ai programmi. Mise in campo un'elegante rivista, pubblicizzò le iniziative, organizzò grandi convegni. Tutto questo però nel giro degli anni ha comportato spese che le entrate non riescono a coprire. “Siamo precipitati — dice Ripa di Meana — in una situazione debitoria molto grave, serve una drastica cura dimagrante” . Un convegno sul paesaggio è costato un mucchio di soldi, “e ancora dobbiamo pagare i debiti” protesta il neosegretario Giliberti. Associazione paludata, ostinata a rimanere pura, senza sponsor e senza chiedere sacrifici ai suoi soci, Italia Nostra scopre che le iniziative culturali costano e bisogna accettare i compromessi, bussare per ottenere finanziamenti.

Qualcuno ha suggerito di dare in pegno alle banche gli immobili storici di cui l'associazione dispone. Di fronte a questa proposta le tradizionali rivalità fra vecchia e nuova guardia sono cadute.

Si è formato uno schieramento trasversale che ha dato vita a una nuova gestione. Al consiglio direttivo del 23 luglio dovrebbe essere eletto il nuovo presidente. “Mi è stato chiesto di ricoprire quella carica — dice Carlo Ripa di Meana — . Ma i miei impegni sono tanti. Vedremo” .

Italia Nostra si considera apolitica. Ma nei fatti un nuovo gruppo dirigente comporta scelte diverse. Per esempio, la vecchia gestione non era del tutto contraria all'energia eolica, la nuova la respinge decisamente.

Titolo originale: Building a Sustainable Future – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il bisogno di ripondere agli impatti dell’uomo sull’ambiente non è mai stato più urgente. Gli scienziati prevedono che la Terra si riscalderà da 1,4 a 5,8 gradi Celsius entro il 2100: più di quanto si ritenga siano cambiate le temperature dall’alba dell’umanità.

È ora ampiamente accettato come ciò sia in gran parte dovuto alla crescente concentrazione dei gas serra: il più rilevante la CO2.

Nel mondo sviluppato, gli edifici consumano metà dell’energia che produciamo e sono responsabili per la metà delle emissioni di CO2, col rimanente suddiviso fra industria e trasporti.

Questo è già abbastanza allarmante. Ma cosa succederà quando entrerà in gioco il mondo in via di sviluppo?

La Cina prevede un raddoppio del prodotto nazionale lordo del 2000 nel 2010, e il Kazakistan, una delle economie in crescita più rapida, ha avuto un’incredibile aumento del 9,5 per cento nel 2002.

In Cina, il boom edilizio non ha precedenti, rapido e furioso. Città come Pechino o Shanghai praticamente cambiano ogni giorno, con implicazioni ambientali preoccupanti.

Per evitare una catastrofe ambientale globale, ciascun paese deve adottare strategie di sviluppo sostenibile.

La sostenibilità richiede di pensare in modo olistico: localizzazione e funzione di un edificio, la sua flessibilità e tempo di vita, il suo orientamento, la forma e struttura; i sistemi di riscaldamento e ventilazione, i materiali utilizzati, tutto ha impatti sulle quantità di energia impiegate per costruirlo, gestirlo e mantenerlo.

Virtualmente ogni nuovo edificio può essere progettato per consumare solo una frazione delle attuali quantità di energia. Ma questa è solo una parte del problema. Ci sono altre due questioni cruciali: la crescita della popolazione e lo spostamento verso le città.

La popolazione mondiale è ora di 6,4 miliardi; in 10 anni ci si aspetta che raggiunga i 7,5 miliardi. Entro il 2015 ci saranno 23 “mega-città” con popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti. Diciannove di esse saranno nei paesi in via di sviluppo, dove metà della popolazione sarà urbanizzata.

Le città diffuse sono di gran lunga meno efficienti dal punto di vista energetico di quelle progettate in modo denso. Gli spostamenti in macchina sono un fattore cruciale. Immaginatevi qualcuno che guida 20 chilometri per andare al lavoro tutti i giorni. La sua famiglia (di lui o di lei) consumerà 720 litri di carburante l’anno, il posto di lavoro 285 litri, il trasporto 900 litri. Questo ci dice che anche se gli edifici fossero a consumo energetico zero, e senza emissioni di anidride carbonica, avremmo ancora dei problemi.

È allarmante il fatto che in molti paesi l’uso dell’auto sia ancora in aumento. Per ridurre gli spostamenti in automobile dobbiamo incoraggiare città compatte, e nuova edificazione ad alta densità.

I critici sostengono che densità maggiori portano a realizzare ambienti “poveri”. Ma non è detto. Monaco e Macao, le comunità urbane più dense del mondo, stanno alle estremità opposte dello spettro economico.

A Londra alcune delle zone più densamente popolate offrono gli stili di vita più desiderabili: Kensington e Chelsea hanno densità di popolazione sino a tre superiori ai quartieri più poveri della città.

Il ragionale olistico deve essere applicato nello stesso modo alle infrastrutture: sistemi di trasporto, strade, spazi pubblici: il “collante urbano” che tiene insieme le città. La qualità delle infrastrutture impatta direttamente sulla qualità della vita urbana.

La natura non inquinante della maggior parte del lavoro post-industriale significa che i luoghi di lavoro possono essere combinati alle abitazioni, ed è possibile sostenere comunità ben localizzate quando i collegamenti di trasporto, le attività, scuole e negozi sono ad una distanza da casa percorribile e piedi o in bicicletta.

Gli architetti hanno un ruolo vitale nel promuovere soluzioni sostenibili. Ma c’è bisogno anche di costruttori progressisti e di politici con il coraggio di fissare obiettivi e incentivi che la società possa seguire.

Alcuni paesi indicano la via: la Germania ha capito da tempo il bisogno di ridurre i consumi e adottare fonti di energia rinnovabili, e questo si riflette nei regolamenti edilizi.

Altri in vari gradi sono più indietro. Non esistono barriere tecnologiche allo sviluppo sostenibile, ma solo quelle della volontà politica.

Se vogliamo evitare i danni ambientali costruiti dalle pratiche insostenibili del passato, le economie sviluppate e quelle emergenti devono agire all’unisono e con urgenza, prima che sia troppo tardi.

Nota: qui il testo originale sul sito della CNN (f.b.)

Altro che Ponte sullo Stretto, antico sogno mussoliniano, mutuato nei decenni prima da Craxi, poi da Berlusconi. Totò Cufaro da Raffadali, noto zu’ vasa vasa (zio bacia bacia) per i tremila e passa baci che egli stesso dichiarò di aver dispensato agli elettori nella campagna elettorale che lo vide incoronato con un milione e mezzo di voti presidente della Regione Sicilia per il Cdu di Follini, valica a piè pari la vieta retorica meridionalista del Ponte e getta il cuore in Africa.

”Il Ponte si fa”, ha garantito per l’ennesima volta Berlusconi, autoprecettatosi per la campagna elettorale del suo gerontologo Scapagnini uscito vincitore a Catania. E si deve fare perché così se uno di Reggio Calabria ha per caso un grande amore a Messina “ci potrà andare anche alle quattro del mattino senza aspettare i traghetti”. Ma se uno sciagurato la una fidanzata poniamo a Tunisi e di notte gli viene l’uzzolo di incontrarla per una cosa magari rapida ma passionale, come fa? Ci pensa zio Totò che, nonostante l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio, è un cuore d’oro. È lui, l’ex ombra di Calogero Mannino, che sta progettando l’opera che farà impallidire tutti i ponti e i tunnel del mondo, dal Bianco alla Manica, da Shangai alla Normandia, compreso il Ponte sullo Stretto, targato Forza Italia in una Sicilia che il governatore vagheggia di nuovo tutta democristiana.

II tunnel sottomarino di Cuffaro collegherà la siciliana Mazara del Vallo, anzi Pizzolato, borgata di poveri pescatori disoccupati, con Capo Bon, in Tunisia: due corsie di 150 chilometri, quasi il triplo del tunnel giapponese di Sei Kan lungo un po’ meno di 54 chilometri, destinate ai treni merci guidati dai robot e una terza corsia per i treni passeggeri. Centotrentasei chilometri completamente sommersi e quattro isole artificiali sottomarine di snodo. Costo dell’opera 20 miliardi di euro, più del doppio del Ponte. Ma ci sono già finanziatori ansiosi di sborsare il necessario per far contento il governatore. Sarebbe una cordata di tanti piccoli coreani. Magari gli stessi che dovevano costruire il Ponte sullo Stretto, ma che sono evaporati, o quelli che, secondo le informazioni di Cuffaro, starebbero costruendo il tunnel tra Cina e Taiwan, per fargli fare meglio la guerra, o la galleria sottomarina tra Giappone e Corea.

A progettare il sogno di Totò ha lavorato l’Enea, che ha pubblicato un progetto di

fattibilità di 48 pagine con corredino di disegni e di slides per conferenze al Rotary. Non solo per l’Enea il tunnellone è fattibile, ma sarà una mano santa per tutta la Sicilia perché produrrà ben 400 milioni di ore lavorative. Direte: ma come si risolve la noiosa questione costi-ricavi ? Nessun problema, secondo la relazione, se si pensa alle “Potenzialità turistico-archeologiche delle due sponde del Canale di Sicilia”. E chi vedrà tra i viventi questa meraviglia? I nostri nipoti? Niente affatto. Tempo di realizzazione previsto: sette anni. Chissà, si è chiesto Claudio Fava, se nel frattempo sarà riaperto anche il tratto dell’autostrada Messina-Palermo inaugurato nel dicembre scorso dal neoministro Miccicchè e subito dopo chiuso perché l’asfalto un po’ taroccato non ha retto al passaggio del terzo Tir.

Totò Cuffaro, detto anche “Puffaro” per la statura piccolina e tondetta, prima di diventare azionista di maggioranza dell’Udc di Casini e Buttiglione, di cui rappresenta circa un quarto, faceva il medico. Poi si lanciò in attività varie e lucrose: non solo gli autotrasporti di famiglia, ma anche le cliniche, l’agricoltura, il vino e il cemento. Se ora gli prende la sindrome Lunardi, l’uomo dei tunnel detto El Talpa, se davvero pensa di costruirsi il monumento sottomarino tra l’Europa e l’Africa, ne vedremo delle belle. Al punto che, sfidando l’ironia del New York Times, dovremo invocare: aridateci il Ponte sullo stretto.

Nota: qui di seguito scaricabile lo studio di fattibilità dell’ ENEA, altri particolari al sito della Regione Sicilia (f.b.)
Tunnel Tunisia (sic)

Titolo originale: Great expectations for theme park – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

È una storia di due secoli. Fra i moderni progetti per urbanizzare il Thames Gateway è emerso un piano per realizzare un parco a tema da 62 milioni di sterline, a celebrare vita e opere del gigante letterario del XIX secolo, Charles Dickens.

Il parco a tema, che sarà realizzato nell’ex cantiere navale di Chatham, nel Kent, si baserà su attrazioni tratte da classico come la “Storia di due città”, il “Circolo Pickwick”, “David Copperfield”, o “Grandi Speranze”.

Saranno anche ricreati ambienti urbani della Londra del XIX secolo, tanto presenti nei romanzi.

La costruzione di Dickens World dovrebbe cominciare entro i prossimi due mesi.

I costruttori sperano di riuscire ad aprire nell’aprile 2007, e di attirare 300.000 visitatori l’anno.

Il progetto è promosso da Kevin Christie, uomo d’affari di Londra con un passato nell’industria del divertimento. Ha dichiarato che il parco a tema avrà una collocazione ideale. “Rochester e Chatham in Kent rappresentano uno sfondo ideale per un progetto basato su Charles Dickens. Non solo Dickens ha abitato qui, ma è il posto dove ha concepito molte delle sue storie”.

Christie sostiene che il parco aiuterà a rendere popolale il lavoro di Dickens fra i giovani.

”È un uomo che ha scritto 15 romanzi e 23 romanzi brevi, ma si farebbe fatica a trovare qualcuno con meno di trent’anni che ne sa citare cinque”. Dickens trascorse cinque anni dell’infanzia a Chatham, e inserì alcuni personaggi della cittadina nei suoi libri.

Nota: qui il testo originale al sito del Guardian ; qualche particolare in più, compresa un'immagine del progetto, sul sito della South East England Development Agency (f.b.)

Titolo originale: Supersized Highways – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Uno dei luoghi comuni a proposito dei texani è che non sia facile separarli dalle loro automobili. E se il governatore Rick Perry riuscirà a imporre il suo sistema di super- highways ( Trans-Texas Corridor), avrà spianato la strada a molti altri texani e alle loro auto.

Il TTC, una rete di 6.000 chilometri di asfalto, consiste di strisce larghe circa mezzo chilometro. Immaginatevi sei corsie per le auto e quattro per i camion. Aggiungeteci poi sei linee di binari ferroviari, e anche lo spazio per oleodotti, gasdotti, e altre reti, compresi i tralicci dell’alta tensione.

Scopo principale di queste nuove strade: rispondere all’incremento di attività generato dal North American Free Trade Agreement del 1993, che ha significato ancora più camion su autostrade già affollate. Effettivamente questo traffico ha contribuito a intasare la Interstate-35, un’arteria di connessione nord-sud che attraversa tutto il Texas da Laredo al confine con l’Oklahoma.

Ma non è detto che sia meglio tutto quanto è più grosso.

Lo stato prevede di acquisire i terreni tramite diritto di esproprio (le strade avranno bisogno complessivamente di circa 23.000 chilometri quadrati) e poi di cederne le parti non utilizzate in vendita o affitto a privati. Anche se, così, sembra un finanziamento attraverso fondi privati, i contribuenti devono ancora prestare attenzione. Ci saranno da pagare pedaggi sul TTC. Sinora le autostrade in Texas sono state pagate attraverso le tasse sui carburanti.

Quali sono gli effetti ambientali di una rete stradale così mastodontica sui vari ecosistemi, come le praterie e zone umide? Anche gli allevatori texani non sono tanto convinti: perderanno parecchi terreni a pascolo. Come si risolveranno i problemi di sicurezza su un’enorme striscia di mobilità del genere? E cosa succede, diciamo ai confini con l’Oklahoma, quando questo corridoio gigante si immette in una interstate di dimensioni normali?

Certo, assicurare il flusso di merci e servizi legato agli accordi di libero scambio resta un obiettivo valido, ma non a spese di questioni di più lungo periodo. Invece di questo colosso, perché non inventare una più piccola autostrada dedicata esclusivamente ai “camion NAFTA”, e dedicare più tempo dei legislatori statali allo studio di ferrovie ad alta velocità e altre opzioni di trasporto per i cittadini?

Nota: qui il testo originale al sito del Christian Science Monitor; qui il sito dell’agenzia statale del Texas dedicata al TTCcon le informazioni ufficiali (f.b.)

Alta velocità e binari unici

di Giovanni Valentini

UN ALTRO incidente ferroviario, l’ennesimo scontro fra due treni nella nebbia, ci costringe purtroppo ancora una volta alla triste e dolorosa contabilità delle vittime e dei feriti. Ma contemporaneamente richiama tutti, governanti e governati, politici e cittadini, amministratori e amministrati, all’inventario delle responsabilità, delle decisioni e delle scelte individuali o collettive. Guasto tecnico o errore umano, toccherà agli inquirenti accertare in concreto le colpe e le omissioni del disastro che ha tolto la vita ieri a tredici persone come noi, mentre viaggiavano in treno sulla linea Bologna-Verona.

Prima o poi, qualcuno dovrà stabilire se il tirante di uno scambio maledetto era stato piegato o meno ed eventualmente da chi, come e quando. Se un segnale rosso era acceso o spento; se è stato rispettato oppure no. Quello che più importa, tuttavia, è la condizione generale di sicurezza - o meglio, di insicurezza - in cui quel tratto di strada ferrata, come molti altri in tutta la Penisola, è rimasto per tanto tempo fino a oggi.

In un’epoca sempre più progredita e tecnologica, scandita ormai dall’"alta velocità" e non solo ferroviaria, dove i treni più moderni volano a dieci o venti centimetri da terra, la sola idea del "binario unico" risulta tanto anacronistica quanto inverosimile e inquietante. Ma come si fa ancora a concepire, nel XXI secolo, in un Paese fra i più industrializzati del mondo, nel cuore di quella Padania che spesso viene evocata come un totem della civiltà, come si fa a tollerare una tale strozzatura, un imbuto, un budello, proprio nel centro nevralgico di una rete su cui transitano ogni giorno centinaia di convogli carichi di persone e di merci? E com’è possibile, nell’era dei telefonini, degli sms, dei messaggini futili e frivoli, che un capostazione, un capotreno o un macchinista non abbia in dotazione uno strumento così semplice per comunicare in caso di necessità o d’emergenza?

Da pochi mesi sotto la guida di un nuovo presidente che - per ironia della sorte - viene proprio dalla cultura informatica, come Elio Catania, già amministratore delegato dell’Ibm per l’Europa, le nostre povere Ferrovie dello Stato sembrano consegnate ancora all’iconografia del Far West, del treno a vapore, delle locomotive sbuffanti e sferraglianti, delle carrozze sporche e malandate. Qualche punta di modernità e di eccellenza, tipo Eurostar o Pendolino, viene sistematicamente diluita in una mistura di incuria e arretratezza. Quando, per paradosso, non diventa il benchmark in negativo, il metro di paragone per misurare appunto la vetustà dell’intera rete ferroviaria, materiale rotabile - come viene chiamato - e rotaie, treni e binari, scambi e stazioni.

C’è evidentemente un "gap", una distanza troppo grande fra i cantieri dell’alta velocità in corso d’opera e i "binari unici" in attesa di essere raddoppiati, come quello fra Bologna e Verona. E anzi, vorremmo sapere quanti altri ne esistono nel resto della Penisola. Si può capire, e in qualche misura anche apprezzare, lo slancio e lo sforzo per adeguare le ferrovie italiane a quelle degli altri paesi europei. Ma in una scala di priorità forse sarebbe più opportuno cominciare dal basso, dalle linee a più alta intensità di traffico, dai treni dei pendolari e dai treni merci, anche per non continuare a pagare un prezzo troppo alto in termini di sicurezza, di incolumità o addirittura di vite umane.

In una visione complessiva del trasporto pubblico, il treno è o dovrebbe essere il perno di un sistema nazionale più efficiente, più affidabile, più economico e anche più ecologico. Una risorsa per decongestionare il traffico privato automobilistico e in particolare quello delle merci, sempre più penalizzato dalle normative europee anti-inquinamento. Per ragioni antiche, invece, in Italia è ancora un mezzo sottosviluppato e sottoutilizzato, il simbolo di un "Jurassic Park" ferroviario che ospita mostri preistorici pronti a divorare i passeggeri.

E’ quantomeno di cattivo gusto, se non proprio inopportuno e fuori luogo, ingaggiare in simili circostanze polemiche di ordine politico. Ma è stato ieri il ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, a lanciare per primo il sasso accusando i governi di sinistra di aver rallentato in passato il potenziamento della rete. I governi precedenti, tutti i governi, anche quelli formati e guidati dagli antenati dell’attuale maggioranza, in qualche caso rappresentati addirittura da alcuni esponenti di questo stesso centrodestra, sono corresponsabili più o meno in ugual misura del degrado in cui versa il nostro sistema ferroviario.

L’accusa di Lunardi, tuttavia, assomiglia molto a quelle dell’ex ministro Tremonti sul presunto "buco" prodotto dal centrosinistra nei conti pubblici e rischia allo stesso modo di diventare un boomerang. Siamo ormai oltre la metà della legislatura, il centrodestra governa (o sgoverna) da tre anni e mezzo, dispone in Parlamento di una maggioranza sufficientemente ampia per imporre la sua agenda, il suo ordine del giorno, i suoi provvedimenti. Dalle elezioni del giugno 2001, dunque, c’è stato tutto il tempo per raddoppiare il "binario unico" Bologna-Verona e gli altri che ancora aspettano di essere adeguati.

Nell’irresponsabile e improduttiva esaltazione delle "grandi opere", piuttosto, il governo Berlusconi ha perseguito finora obiettivi propagandistici, disseminando prime pietre a cui seguiranno chissà quando le seconde e inaugurando ponti o autostrade già avviati da tempo. Fin dal suo show elettorale in tv, con tanto di lavagna e carta geografica dell’Italia, il presidente del Consiglio s’è preoccupato più di annunciare nuovi progetti che di realizzare vecchie necessità. E questo, spiace dirlo oggi, vale anche per l’ultimo disastro ferroviario.

Il disastro annunciato

di Giorgio Bocca

CHI ha previsto, sull’impatto del grande maremoto, che questo sarà l’anno dei disastri sembra confermato nel suo pessimismo dalle notizie che giungono da Crevalcore, una piccola stazione ferroviaria sulla linea Bologna-Verona: un treno merci si è scontrato a velocità sostenuta con un interregionale: i morti sono 13 e moltissimi i feriti. Unica ma non sufficiente spiegazione del disastro, il tirante danneggiato di uno scambio che doveva spostare il merci su un binario, di deviata. Mentre si lavora per liberare dalle lamiere contorte le vittime, fra cui i quattro macchinisti dei due treni, è già iniziato fra i politici lo scambio dolente quanto deludente delle giustificazioni.

Il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi non ha dato prova di grande fantasia: «Questo governo - ha dichiarato - ha fatto della sicurezza stradale e ferroviaria una delle questioni centrali. Il raddoppio della linea ferroviaria Bologna-Verona è inserito nella legge obiettivo, i relativi progetti sono già approvati, i finanziamenti già stanziati. Tuttavia in passato i governi di sinistra hanno rallentato il potenziamento delle reti».

Ha subito risposto l’eurodeputato Pierluigi Bersani dirigente dei Ds «anche di fronte alle tragedie il ministro Lunardi non esita a tirare in ballo i governi di sinistra».

Sembrano più convincenti le dichiarazioni dei ferrovieri: «Il numero dei guasti e degli incidenti ferroviari che coinvolgono le linee locali è in continuo aumento, noi abbiamo l’impressione di essere di fronte a una tragedia annunciata e a precise responsabilità». Una certezza non una impressione è la politica usuale in Italia ma anche in altri paesi avanzati della coperta corta tirata da tutte le parti per coprire i bisogni reali e soprattutto le ambizioni di chi governa. Non occorrono indagini specializzate per scoprire che la manutenzione ferroviaria sulle linee minori è largamente sproporzionata alle spese folli e spesso truffaldine per l’alta velocità, l’ultimo mito inventato per sfondare tutte le previsioni di spesa.

Una volta bastavano e avanzavano le guerre per mettere a tacere i controllori della spesa pubblica, adesso il ventaglio si è allargato a tutti i miti di massa, sportivi, filantropici, patriottici. Basta passare sull’autostrada Milano-Torino parallela alla nuova linea dell’alta velocità per vedere quale immane spreco di cemento, di scavi, di opere inutili si vada facendo. Ma per le ferrovie normali, per quelle del viaggiatore comune si va avanti a consumo di mezzi antiquati. I macchinisti muoiono ma le locomotive sono antiquate, mancano di estintori, con finestre piccole dalle quali non si può scappare. Il presidente del comitato dei pendolari di Crevalcore ricorda che i lavori per il raddoppio della linea Bologna-Verona sono in corso dal 1988 e sarebbero dovuti finire l’anno seguente e invece i cantieri si sono riaperti solo il mese scorso.

Senza il raddoppio i treni merci o gli accelerati devono dare il passo ai treni veloci sistemandosi in uno dei tratti di devianza a doppio binario. Ma siamo al governo e alla finanza delle grandi opere e quattordici morti e settanta feriti non fermeranno certo la politica della coperta stretta da tirare dalle parti delle inaugurazioni ufficiali con fanfare, taglio di nastri e televisioni.

Toccherà alla generazione successiva capire quanto è costato tirare la coperta e chiedere commissioni di inchiesta inutili od orientate.

Rientrando la sera, al Cairo, ci si rende conto di esserci lasciato alle spalle un tracciato che ha abbandonato la sua logica dimenticando la direzione prefissa per seguire una linea che si spezza di continuo, tentando di cogliere i segni di epoche, civiltà ed architetture diverse e successive, che ora coesistono, aggrovigliate, attraversate ogni giorno da 17 milioni di persone. Una densa miscela di inquinamento e umidità ingabbia e diffonde una luce così compatta da far strizzare gli occhi, ricoprendo oggi quella che per i faraoni era una periferia del regno bagnata dal Nilo, ma che con i romani prima e gli arabi poi si è sviluppata in dimensioni e importanza fino a diventare una delle città del mondo maggiormente popolate. Un enorme contenitore di storie, un sistema estremamente dinamico e al contempo, a detta degli egiziani stessi, immobile (o immobilizzante). Capitale amministrativa ed economica, soprattutto dagli anni della rivoluzione nasseriana (1952) e poi con la open door policy degli anni Settanta, il Cairo ha costituito e tuttora costituisce un irresistibile magnete per la popolazione egiziana e per il turismo (e gli investimenti) dall'estero, rappresentando perciò anche visivamente uno spazio dove i processi paralleli di urbanizzazione, crescita demografica e speculazione edilizia hanno subito una drastica e incontrollata accelerazione, intrecciandosi sempre di più alle disparità sociali preesistenti. E poiché nella realtà le disparità e le disuguaglianze sono ben rappresentate da confini sensibili, salire gli scalini del ponte di ferro che attraversa l'autostrada alle spalle della cittadella di Mohammed Ali può dare una percezione abbastanza chiara della separazione che si percepisce entrando nella «città dei morti».

Emergere dalla confusione

E' un'altra parte, in tutti i sensi. E' un'emersione dalla confusione, dalla frenesia, dal senso di saturazione che il Cairo ti lascia addosso: per le strade del cimitero una grande calma, pochissime macchine, il respiro e la vista si distendono lungo le viuzze sterrate, seguendo la linea delle cupole finemente decorate che muovono il profilo basso della Qarafah, ciò che è rimasto delle aree riservate alla sepoltura dei morti della Cairo fatimida, mamelucca (soprattutto) e poi ottomana.

Situato a est del Nilo e del centro del Cairo, il cimitero si estende alle zone a nord (Bab el-Nasr, Darrasa) e sud della cittadella, alle pendici della montagna Moqattam (Imam Ech-Chefe'i). Ritagliato dal resto del tessuto urbano da superstrade a otto corsie e circondato dalle nuove aree residenziali, nate nel secolo scorso per «ricollocare» la popolazione cairota, il cimitero è a sua volta abitato. Tradizionalmente, infatti, le tombe includono uno spazio per i morti, una o due stanze adiacenti e una corte chiusa, così da permettere ai parenti dei defunti di visitare i propri morti per lunghi periodi, in base alla credenza secondo la quale gli spiriti transitano o si manifestano accanto alla loro tomba, fra il giovedì ed il venerdì.

Questa concezione di essenziale vicinanza con la morte, il cui spazio rimane pur sempre nettamente delimitato e separato dallo spazio dei vivi, ha origine secondo l'interpretazione di alcuni nell'epoca dei faraoni; altri sostengono si tratti piuttosto di una devianza locale dell'islam (che prevede invece sepolture semplici).

La spiritualità del luogo è ulteriormente rafforzata dalla presenza di numerose tombe/mausolei di santi sufi e importanti imam (Ech-Chefe'i, Al-Leithi), facendo sì che fin dal XV secolo la necropoli cairota venisse popolata da pellegrini in transito sulla via di terra che unisce l'Africa alla Mecca, così come da guardiani ed operai che, stanziatisi nel cimitero, si occupavano della sua custodia e mantenimento. Anche diversi sultani (Qaytbey, Barquq) decisero di venire seppelliti qui, decorando la propria dinastia nella morte come nella vita con capolavori di architettura mamelucca che hanno accolto scuole e moschee, accanto alle quali sorgono poi le tombe di poeti, ricchi dignitari, militari e famiglie benestanti.

In ogni caso, anche l'altissima e crescente pressione demografica, il cattivo stato delle case popolari costruite negli anni del socialismo nasseriano e la mancata armonizzazione fra salari e costi degli immobili di recente costruzione hanno portato, già dall'inizio del secolo scorso, a una situazione di insediamento duraturo anche per altre parti della popolazione cairota. È un processo avvenuto per alcuni tramite l'occupazione (pro manutenzione) delle tombe di famiglia, per altri attraverso un «regolare» procedimento di assegnazione delle tombe abbandonate dalla discendenza e gestito storicamente dai becchini; costoro costituiscono perciò la classe più agiata del variegato e vivace microcosmo del cimitero, popolato oggi da circa 15.000 persone (cifra fra l'ufficiale e l'ufficioso, che ne segnala ben di più): impiegati, lavoratori giornalieri e gestori di piccoli commerci, laboratori e officine di vetro e di altri materiali di riciclo.

Sentendoci chiedere informazioni in arabo, Rasha ci ferma: le traduciamo una breve lettera, sul retro della foto lasciatale da un'amica inglese che le fa visita periodicamente perché al Cairo viene a studiare la danza del ventre. Rasha è venuta ad abitare qui coi genitori e i sei fratelli, in seguito al terremoto che nel `93 ha abbattuto un intero settore della città vecchia (ma anche nel gennaio scorso una palazzina di nove piani è crollata a Madinat Naser, nuovo quartiere a est del Cairo: di piani doveva averne per legge cinque).

Altri arrivano da zone rurali della regione o dell'Egitto meridionale, dove gli effetti imprevisti delle dighe sul Nilo hanno contribuito a una crescente siccità, e contano fino a due o tre generazioni di neo-cairoti che nel cimitero sono nati e vissuti. Eppure, gradualmente, questa promiscuità fra vivi e morti si assimila, e il sovrapporsi dei due spazi determina una «convivenza» assurdamente naturale: i panni stesi, i bambini che giocano per strada usciti da scuola, l'impressionante massa di gente che si riversa a tutto vendere e comprare nel gigantesco, incredibile mercato del venerdì (Suq el-Guma'a) a ridosso del cavalcavia che chiude un lato del cimitero sud.

«Vicini tranquilli»

Segnali di vita quotidiana nel cimitero, dove non si ignorano i morti che «almeno - dice Rasha scherzando - sono vicini tranquilli». Ma è pur vero che è inevitabile percepire la repulsione o quantomeno la diffidenza della restante popolazione cairota che dall'esterno preferisce ignorare l'esistenza della necropoli e dei suoi abitanti, i quali a loro volta nascondono volentieri la loro provenienza. È senza dubbio un quartiere a parte, una zona di economia informale che accoglie molti fantasmi (alle volte visibili alla guida di luccicanti Mercedes un po' sospette: le voci parlano di traffici di droghe, di organi, di prostituzione...), un settore che nelle carte stradali del Cairo viene rappresentato in bianco, come se fosse vuoto...

Eppure, in alcune sezioni del cimitero, i servizi base sono garantiti (scuola elementare, acqua, elettricità, fognature, infermeria, linee di autobus) o automuniti (cavi televisivi, antenne satellitari), riflettendo una contraddizione non risolta anche nell'atteggiamento delle autorità: il discorso politico, infatti, continua ad indicare il cimitero come l'estremo e degradato margine della società cairota, a giustificare l'incapacità del governo di gestire questa situazione, e con la finalità nemmeno troppo velata di lasciare il campo a nuove e redditizie speculazioni edilizie. Il rischio è quello della demolizione totale del cimitero (come è già successo, nella metà degli anni Novanta, per una parte del cimitero di Bab el-Nasr), a sfregio non solo dei suoi abitanti ma anche dell'allarme lanciato dall'Unesco (1980).

Alle considerazioni umanitarie si sommano gli appelli di diversi accademici locali e internazionali, che sottolineano l'altissimo valore architettonico ed artistico da restaurare e conservare; c'è infine chi tenta di valorizzarne anche le peculiarità tradizionali e sociali, come l'antropologa italiana Anna Tozzi (anna_tozzi@hotmail.com) che da cinque anni vive nel cimitero, studiando da vicino questa realtà e organizzando piccole visite guidate, tentando di mettere in pratica un turismo sostenibile che, senza essere invasivo e anzi suggerendo una possibile feconda interazione, faccia conoscere gli abitanti e la vita della città dei morti.

Titolo originale: U.S. firms join China mall surge – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

SHANGHAI – Il Simon Property Group, uno dei più grossi promotori immobiliari del settore centri commerciali negli USA, ha dichiarato martedì di aver formato una collaborazione con la Morgan Stanley e una compagnia statale cinese per realizzare sino a 12 complessi in Cina.

Simon Property e Morgan Stanley, la banca di investimenti di Wall Street, sono le principale compagnie straniere che sperano di trarre profitto dal boom del immobiliare e commerciale cinese.

Le imprese non hanno rivelato l’entità dell’investimento negli shopping centers della Cina, che avranno tutti come anchor un negozio Wal-Mart. Ma gli analisti affermano che i vari progetti potrebbero costare sino a 700 milioni di dollari, il che farebbe di questo uno dei principali investimenti stranieri in Cina.

Questo enorme investimento arriva in un momento in cui l’economia cinese ribolle, e c’è un’ascesa dei consumi a causa del rapido sviluppo di un ceto medio nazionale e della realizzazione di grandi e moderni supermercati e centri commerciali, in particolare nelle maggiori città.

Il boom commerciale cinese è in tale stato febbrile, che nel paese stanno sorgendo i più grandi e stravaganti shopping malls del mondo, come un paio di mega-centri a Pechino o nella città industriale di Dongguan nel sud, entrambi destinati a sorpassare il record mondiale dello West Edmonton Mall, in Canada.

Decine di città in tutta la Cina hanno realizzato anche enormi insediamenti residenziali negli ultimi anni, e molti di questi quartieri, che sembrano città in miniatura, iniziano ad attirare nuovi a grossi centri commerciali.

Gli operatori stranieri, come Wal-Mart, Ikea o Carrefour, la catena francese, sono travolti dalla marea di clienti a Pechino e Shanghai. E in parte anche a causa delle regole meno rigide sulla proprietà straniera di attività commerciali di quest’anno, c’è un’espansione aggressiva da parte di numerose imprese in tutta la Cina.

Wal-Mart, ora con 47 negozi, prevede di raggiungere i 60 entro la fine dell’anno. Il primo punto vendita a Shanghai dovrebbe aprire questa settimana.

Per la Simon Property, l’investimento è la prima grande mossa nel mercato commerciale cinese in rapida crescita. Simon possiede o gestisce più di 150 malls fra USA e Europa, compreso il Mall of America, in Minnesota.

Secondo i termini dell’accordo appena firmato, la Simon Property, con base a Indianapolis, e la sezione immobiliare della Morgan Stanley, possiederanno ciascuna il 32,5% della nuova società; il partner cinese, una sussidiaria della Shenzhen International Trust & Investment, avrà il 35%. La casa madre di Shenzhen è da tempo associata ai programmi cinesi della Wal-Mart.

I tre associati affermano di prevedere circa 12 centri commerciali nella regione del delta dello Yangtze, che comprende grandi città come Shanghai, Nanchino e Hangzhou.

Il primo progetto sarà un mall su 46.000 metri quadrati di superficie commerciale a Hangzhou. Oltre a Wal-Mart come anchor, alcuni dei centri commerciali conterranno sale cinematografiche gestite dalla Warner Theaters, affiliata della Time-Warner, affermano gli associati.

CapitaLand, il gigante immobiliare con sede a Singapore, ha pure firmato di recente un accordo con la Shenzhen International Trust & Investment per costruire e gestire 21 grossi shopping malls in Cina, per la maggior parte dei quali probabilmente l’ anchor sarà ancora Wal-Mart. Complessivamente questi progetti costeranno un miliardo di dollari per la realizzazione, secondo le compagnie.

Merrill Lynch, Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno acquisito grosse proprietà immobiliari lo scorso anno, investendo ciascuna oltre 100 milioni di dollari. E gli investitori istituzionali stranieri si stanno accalcando in Cine alla ricerca di altre occasioni di insediamenti commerciali.

Nota: qui il testo originale al sito dello Herald Tribune ; dello stesso autore, un altro articolo sul tema già riportato da Eddyburg ; di qualche tempo fa, ancora su Eddyburg un articolo mio sulle strategie internazionali del gruppo Simon con particolare riguardo al caso italiano (f.b.)

Via libera alle centrali eoliche "Ma non danneggino il paesaggio"

Wwf e costruttori siglano un accordo storico, scrive la Repubblica del 28 giugno 2005: tutte le regole per i nuovi impianti. Con una postilla di eddyburg

ROMA - È una firma storica quella in calce all’accordo che dà il via libera all’eolico doc. Fulco Pratesi, presidente del Wwf, e Oreste Vigorito, presidente dell’Anev (l’associazione degli industriali del vento) hanno siglato ieri un protocollo d’intesa che rappresenta un punto di svolta nella tormentata querelle delle centrali eoliche. Partita con l’incoraggiamento entusiasta di tutto il mondo ambientalista, l’energia dal vento, la più matura tra le fonti rinnovabili, aveva trovato negli ultimi anni una crescente opposizione da parte di alcune associazioni ecologiste che avevano sottolineato i problemi legati all’impatto paesaggistico. Una critica alimentata da qualche progetto di centrale improvvisato senza tener conto della logica, tanto per assicurarsi una licenza da rivendere in un secondo tempo.

«Il paradosso è che il dibattito sulla localizzazione, legittimo e doveroso, è stato trasformato in un dibattito sulla fonte energetica: il che è francamente improponibile di fronte all’urgenza di un salto tecnologico verso le rinnovabili, un salto necessario per stabilizzare il clima dopo i disastrosi decenni del petrolio», ha commentato il segretario del Wwf, Gaetano Benedetto. «In realtà a scrivere questo protocollo avrebbe dovuto essere la mano pubblica, non i privati: i grandi assenti sono stati i ministeri dell’Ambiente, dei Beni culturali, delle Attività produttive e le Regioni. Un ritardo di elaborazione e di garanzie che ha rischiato di compromettere il futuro del settore. Credo che ora il problema sia superato».

Il protocollo firmato da Wwf e Anev impone regole molte severe sull’individuazione del luogo in cui costruire l’impianto (si devono studiare tutte le possibili interferenze con l’ecosistema) e sulla lista delle aree off limits (da quelle importanti per le specie migratrici a quelle con flora minacciata). C’è l’obbligo di minimizzare l’impatto sul territorio, sull’ambiente, sulla biodiversità. E, per quanto riguarda la tutela del paesaggio, i produttori sono obbligati a ridurre al massimo «l’alterazione del valore panoramico», a utilizzare le tecnologie più compatibili con il luogo, a usare vernici neutre e antiriflettenti, a interrare i cavi a bassa e media tensione. Infine il sito scelto dovrà essere riportato allo stato originale una volta dismesso l’impianto.

Ridotto l’impatto ambientale, restano i grandi vantaggi dell’eolico che, secondo Wwf e Anev, possono essere sintetizzati con questi numeri: una centrale a vento costa la metà di una nucleare, si costruisce in un quarto del tempo e, a parità di investimento, produce 2,3 volte l’energia ricavabile dall’atomo dando 5 volte più occupazione e zero rischi. Inoltre gli impianti moderni sono silenziosi, efficienti e in media richiedono solo 40 ore di manutenzione annua.

Postilla

I tempi sono cambiati. Le regole sulle grandi questioni d’interesse nazionale non vengono più dettate dallo Stato, ma negoziate tra portatori d’interesse, stakeholders: nel caso specifico, una benemerita associazione ambientalista e le imprese produttrici di megaimpianti per l’energia eolica. Dimissioni del potere pubblico, via più facile per le imprese. Il problema è tutt’altro che “superato”, checchè ne pensi il direttore del WWF.

I tempi non sono cambiati. In Italia si continua a decidere sui frammenti prima di aver delineato un quadro generale, una strategia. Non si sa, non si è deciso qual è il fabbisogno energetico, e men che meno come deve essere ripartita l’offerta necessaria a soddisfarlo tra le varie fonti, quali sono i costi e i vantaggi dell’uno e dell’altro modo, ecc. ecc. ecc. No. L’eolico è meglio del nucleare, quindi viva l’eolico. A tutti i costi. Tanto,se deturpiamo quel patrimonio di tutti che è il paesaggio, pagheranno le generazioni future: insegneremo loro che quando si parla di “sostenibilità” non si allude ai loro diritti, ma alla loro capacità di sopportare i guai che oggi gli infliggiamo.

Titolo originale: World Marks Green Day; UN Warns of Booming Cities – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

OSLO – Dal Giappome alla Giamaica, a milioni hanno celebrato la Giornata Mondiale dell’Ambiente piantando alberi o partecipando a manifestazioni, mentre le Nazioni Unite sollecitano una pianificazione urbanistica più “verde”, per affrontare una crescita urbana sfuggita al controllo.

Entro il 2030, più del 60 per cento della popolazione mondiale abiterà nelle città, contro circa la metà di adesso, e un terzo negli anni ’50, come ha affermato il Segretario Generale Kofi Annan. Questa crescita pone enormi problemi, che vanno dalla disponibilità di acque pulite alla raccolta dei rifiuti.

”Già ora, uno su tre abitanti delle città vive in uno slum”, ha affermato Annan in una dichiarazione. “Costruiamo città verdi”, ha proseguito, aggiungendo che l’obiettivo delle Nazioni Unite di dimezzare la povertà entro il 2015 non sarà raggiunto se la pianificazione urbana non diventerà meno casuale.

Gli attivisti hanno dichiarato il 5 giugno, giornata del primo summit ambientale di Stoccolma, nel 1972, Giornata Mondiale dell’Ambiente delle Nazioni Unite. Il tema per il 2005 è una pianificazione più “verde” per le città, che sono colpite dall’inquinamento atmosferico, dai fiumi avvelenati, da scarsa igiene.

A San Francisco, sede principale dell’edizione 2005, i sindaci di oltre 50 città, come Shanghai, Kabul, Buenos Aires, Sydney, Phnom Penh, Giakarta, Roma e Istanbul hanno deciso di sottoscrivere un piano che fissa nuovi standards ambientali per le città.

I centri urbani saranno classificati da una a quattro stelle, secondo il raggiungimento di 21 obiettivi. In tutto il mondo, dall’Australia allo Zimbabwe, gli attivisti hanno organizzato eventi, raccolto spazzatura, tenuto festival di poesia, o piantato alberi.

In Cina, dove abita un quinto dell’umanità, il centro dell’attenzione per il 2005 è stato il contenimento dei rumori e il risanamento delle acque, dell’aria, la raccolta dei rifiuti nelle zone urbane, come ha dichiarato alla Televisione Centrale cinese Pan Yue, vice ministro per la Protezione dell’Ambiente.

In Australia, gruppi ambientalisti e amministrazioni locali hanno organizzato eventi per promuovere la consapevolezza dei temi ambientali, dal riciclaggio al piantare alberi, alla pulitura delle rive dei corsi d’acqua.

MODA FRESCA

In Grecia, il porto di Zakynthos ha chiuso alle auto per un giorno, offrendo trasporti pubblici gratuiti, mentre sulla costa dello Sri Lankan – devastata dallo tsunami del 26 dicembre – si sono piantati alberi, e così pure in Kenya o a Ocho Rios sull’isola caraibica della Giamaica.

Fra i vari eventi in Giappone, una sfilata di moda incoraggiava i dipendenti delle varie aziende a vestirsi in modo meno formale durante l’estate, per collaborare ad abbassare le bollette dell’aria condizionata, e risparmiare energia nell’ambito dell’iniziativa governativa “Affari freschi”.

“Portare questi vestiti aiuta, ad aumentare la consapevolezza delle questioni ambientali, a capire come dobbiamo rivoluzionare il nostro modo di agire” ha detto il presidente della Sanyo Electric, Satoshi Iue, dopo aver sfilato su una passerella con un vestito grigio e una camicia a colletto rigido ... ma senza cravatta.

In Norvegia, un gruppo di giovani ha organizzato una protesta contro i progetti di costruzione di centrali, sostenendo che sono troppo inquinanti e contribuiscono all’inquinamento e all’effetto serra.

RISCALDAMENTO GLOBALE

L’incontro di San Francisco fissa alcuni obiettivi, come il taglio da parte delle città delle emissioni di CO2 dalle auto, fabbriche, centrali energetiche, del 25 per cento entro il 2030.

È un obiettivo più ambizioso di quello del protocollo di Kyoto, che fissa una riduzione delle emissioni dei paesi sviluppati del 5,2% sotto i livelli 1990, per il dicembre 2008.

”Le città sono grandi utilizzatrici di risorse naturali, e generatrici di rifiuti. Producono la maggior parte dei gas serra che stanno causando il cambiamento climatico mondiale” ha detto Annan.

Altri obiettivi per le città saranno l’assicurare che gli abitanti non debbano camminare più di 500 metri, entro il 2015, per raggiungere spazi aperti o una linea di trasporto pubblico.

[...]

Nota: qui il testo originale, come ripreso dal sito Common Dreams ; su Eddyburg, anche un'altra nota dal summit dei sindaci a San Francisco, con qualche link (f.b.)

Titolo originale, The Day After Peace: Designing Palestine – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La sensibilità per la nostalgia dei palestinesi, per il loro attaccamento alla terra, o anche per come appaiono davvero al momento le loro città, sarebbe venuta dopo. Quel sabato di gennaio, l’anno scorso, nel suo studi di progettazione a Santa Monica, California, tutto quello che Doug Suisman aveva erano delle carte e delle foto aeree, la spinta dell’adrenalina in vista di una scadenza, e la grandiosità del suo compito: progettare lo stato palestinese.

Anche per gli standard di questi giorni movimentati e imprevedibili del Medio Oriente, un’idea del genere appare piuttosto presuntuosa: nell’ambito di un’indagine di due anni da due milioni di dollari, per determinare se lo stato di Palestina potrebbe riuscire, la Rand Corporation si era rivolta a Suisman, un architetto di punta e di impegno civico con qualche retroterra nella regione, per immaginarlo. Era stato in Israele una volta, nel 1972, e non aveva mai visitato le principali città palestinesi.

La Rand aveva notato che con tutta l’attenzione dedicata ai possibili confini fra Israele e una teorica Palestina, nessuno aveva sforzato l’immaginazione riguarda alla struttura di quest’ultima. La Palestina continuava ad essere sogno o incubo, un’astrazione per diplomatici e politici, non una sfida concreta per urbanisti. Eppure sia il presidente americano che il primi ministro israeliano ora parlavano di una eventuale creazione di stato palestinese. Se il mondo faceva sul serio riguardo alla soluzione dei due stati, ragionava la Rand, qualcuno doveva iniziare a progettarla, la Palestina, in particolare visto che la sua popolazione iniziava a ingrossarsi. L’alternativa di una terra affamata e impoverita sulle soglie di Israele, se non nel suo salotto, poneva un problema, un pericolo per il mondo.

Rand, un think tank indipendete no-profit con fama di neutralità e trascorsi di collaborazione con i programmi spaziali e i militari, ne ha concluso che la sfida poteva essere affrontata. Ha costruito un’immagine spaccato della vita in West Bank e nella Striscia di Gaza Strip, che mostra quanto lontani siano i palestinesi da una condizione statuale: l’economia vacillante e dipendente, un potere “corrotto, non rappresentativo, autoritario”, l’inadeguata disponibilità idrica, il peso dell’occupazione israeliana. Ha suggerito una lunga serie di interventi, per 33 miliardi di dollari, in oltre 10 anni. E ha affiancato a questa valutazione un secondo studio, un’immagine di quanto potrebbe avvenire, l’immagine sognata quel sabato da Suisman nel suo studio.

Steven N. Simon, uno dei coordinatori della ricerca Rand, ha incaricato Suisman dopo aver sondato parecchi urbanisti per un possibile piano. Suisman, progettista di spazi pubblici e sistemi di trasporto, soprattutto nella zona di Los Angeles, era “il più entusiasta”, secondo Simon. “Vedeva un potenziale, in un modo forse possibile solo a un naif”.

Alla Rand, dove l’analisi deve essere rigorosa, non romantica, ora scommettono tutto sulla naïveté. Hanno presentato l’idea di Suisman per la Palestina alla Casa Bianca, all’Unione Europea, alla Banca Mondiale e a altri, oltre che a palestinesi e israeliani. L’idea ha catturato attenzione e immaginazione, almeno quella di alcuni decisori palestinesi.

Nei suoi aspetti più prosaici, la proposta chiede la semplice connessione di punti, un treno ad alta velocità, una rete di fibre ottiche esteso a tutta la West Bank e a Gaza, a collegare le principali città e cittadine palestinesi. Ma si tratta anche di immaginare non solo il paesaggio, scomposto com’è dai posti di blocco e dalle postazioni fortificate dopo anni di conflitto, ma anche l’esperienza della Palestina. In luogo della frammentazione politica e sociale, Suisman propone l’unità attraverso i collegamenti più moderni e veloci. In luogo della condizione di quasi paralisi, offre una condizione di movimento. Chiama tutto questo “ l’Arco”. È uno scorcio, tanto raro da vedersi in questi tempi, di una terra di riconciliazione, del dopo-conflitto, del dopo-occupazione, del dopo-terrorismo.

Quando Suisman ha concluso una recente presentazione, in una sala riunione ancora buia a Ramallah, nella West Bank, Jihad al Wazir, il vice ministro delle finanze, ha rotto il silenzio dicendo di avere le lacrime agli occhi.

”Sono rimasto molto scosso” ha dichiarato poi Wazir. “C’era una bellezza, una semplicità, nel progetto, e coerenza, coordinamento”. Molti dei pianificatori palestinesi, ha aggiunto, “erano persi nei dettagli, senza una cornice unificante, o un’immagine del futuro stato palestinese”.

Analizzando in prima istanza le mappe, Suisman non si è soffermato su dettagli, presenti o passati. Ha ragionato su quanto sarebbe venuto poi, in particolare sulla previsione degli analisti Rand secondo cui la popolazione palestinese nella West Bank e a Gaza dovrebbe raddoppiare nei prossimi 15 anni, fino a 6,6 milioni, dagli attuali 3,6.

Per un confronto di idee, Suisman ha chiesto la collaborazione di Robert Lane della Regional Plan Association di Manhattan, vecchio amico dai tempi della Graduate School of Architecture, Planning and Preservation alla Columbia University. I due, insieme, hanno cercato quello che il comune mentore, Klaus Herdeg, aveva loro insegnato a immaginare come “struttura formale”: non confini di stato, ma modelli di vita umana modellati sull’insediamento.

Il mondo pensa che la West Bank manchi di un chiaro confine politico, ma, come i due hanno scoperto, ne ha sin troppi. Gli urbanisti erano soverchiati dalla pazzesca trama di insediamenti israeliani e centri palestinesi, sovrapposti alle discontinue zone a controllo palestinese o israeliano. Lane ricorda di essere rimasto allibito per “quanto disaggregato e discontinuo, e incoerente fosse il paesaggio”.

Allora, per rimuovere gli strati sedimentati da decenni di guerra e politica, hanno appoggiato un foglio trasparente sulla mappa, e iniziato a riportare elementi chiave: i principali centri di popolazione, le strade, le alture. Poi hanno messo i fogli l’uno sopra l’altro, per individuare le forme comuni. Hanno notato la linea dei crinali che correvano da nord a sud lungo la West Bank. Hanno notato come i palestinesi si fossero concentrati nei nuclei sul versante occidentale dei crinali, dove le piogge provenienti dal Mediterraneo erano più abbondanti.

”A metà del lavoro” ricorda Suisman “stavamo guardando quegli schemi, e io ho detto ‘Sembra una pazzia, ma credo che dobbiamo far questo’, e ho semplicemente tirato una riga”.

La ferrovia ad alta velocità scorrerà per oltre 100 chilometri lungo i crinali della West Bank, collegando Jenin nel nord con Hebron nel sud. Il tracciato poi si piegherà come un amo da pesca, attraverso il deserto del Negev, per connettere la West Bank alla Striscia di Gaza Strip, coprendo complessivamente oltre 200 chilometri e unendo i due territori che gli esperti di sviluppo considerano essenziali per un’economia palestinese. Lungo la linea ferroviaria, Suisman propone di stendere un acquedotto, un cavo di fibre ottiche, elettrodotto, autostrada a pagamento, e una striscia a parco.

Le stazioni della ferrovia verranno collocate a una certa distanza dai centri urbani esistenti, ciascuno connesso attraverso altri mezzi di trasporto pubblico. L’idea è di creare nuovi poli residenziali e di attività, a contenere la popolazione in crescita conservando gli spazi aperti. La lunga linea tagliata dalle trasversali suggerisce una embrionale spina dorsale e, inevitabilmente, un ramoscello di ulivo.

Gli studi della Rand sono stati promossi da finanziatori californiani, che sperano di favorire la fine del conflitto. Carol e David Richards hanno sostenuto l’analisi di fattibilità di uno stato palestinese. Mr. Richards afferma di aver preso l’iniziativa dopo che Bush si era dichiarato a favore di una soluzione a due stati.

”Sono un sostenitore di Israele, ma credo che la loro occupazione della West Bank li danneggi” dichiara Richards, ex dirigente finanziario che ora lavora in proprio. “È una politica sbagliata, e noi americani l’abbiamo tollerata e sostenuta”.

L’ Arco nasce dalla proposta di un altro finanziatore, Guilford Glazer, perché la Rand progettasse una nuova città palestinese a contenere qualunque esule di ritorno, dalla guerra arabo-israeliana del 1948 a tutti i discendenti. Nato a Knoxville, Tennessee, nel 1921, Mr. Glazer, costruttore, è stato in parte ispirato dal modello della Tennessee Valley Authority, dall’idea che i palestinesi avrebbero tratto vantaggio da un progetto di dimensioni simili (la Rand stima che l’ Arco costerà circa 6 miliardi di dollari, e che aiuterà i palestinesi a rafforzare la propria economia offrendo lavoro a 100-160.000 persone l’anno per cinque anni). Quando l’ Arco sarà costruito, dice “sarà una cosa troppo preziosa per andare persa, e sarà un motivo per resistere alla violenza”.

Sin dall’inizio, Suisman ha messo indiscussione il modello di polo unico proposto da Glazer, di una sola città centrale. Cose del genere, come Washington o Brasilia, possono impiegare decenni a raggiungere lo stadio di maturità, e nel frattempo consumano risorse nazionali. Mr. Glazer ha sottoscritto questo approccio più progressivo.

Visto attraverso gli occhi di chi sta dentro il conflitto, l’ Arco può sembrare pura fantasia. Israele prevede di ritirare unilateralmente soldati e insediamenti da Gaza entro quest’anno. Ma le due parti a malapena discutono, e la leadership palestinese, divisa al suo interno, non ha deciso cosa fare delle infrastrutture esistenti.

La Rand propone immagini future di turisti, uomini d’affari e merci sbarcate ai nuovi scali marittimo e aeroportuale di Gaza, il tutto poi smistato nel giro di minuti verso posti come Betlemme o Nablus. Si possono anche prevedere collegamenti futuri con Egitto, Giordania, Siria, Libano e le principali città di Israele. Ma pensando al contrabbando di armi o ad azioni terroristiche, Israele non mostra segni di attenuazione dei controlli ai confini di Gaza e West Bank.

Sul giornale israeliano Ha’aretz, l’editorialista Meron Benvenisti ha chiamato Arco “una favola per adulti”. Ha scritto che il presupposto di uno stato palestinese dotato di confini non si realizzerà mai. “Tutti i progetti carichi di buona volontà e atteggiamento positivo diventano leggende agrodolci, e si riducono semplicemente ad immaginare quello che potrebbe essere, se solo ...”.

Quelli della Rand sono piuttosto cinici rispetto a chi vive direttamente il conflitto: “Sanno solo perfettamente dove stanno tutti i posti di blocco” dice C. Ross Anthony, altro coordinatore del gruppo di indagine, parlando dei pianificatori locali. “L’idea di una semplice linea è qualcosa che non possono concepire, perché sono completamente immersi nei dettagli della quotidianità”.

Suisman e gli analisti della Rand tentano anche di stare al di sopra del pantano sulle politiche regionali, concentrandosi non tanto sulle forme dell’accordo di pace, quanto sulla vita che si potrebbe condurre in quello che chiamano “il day-after della pace”.

Ma quando alla fine Suisman è davvero andato in Israele e nella West Bank quest’anno, tra febbraio e marzo, ha imparato quanto poco la gente conti sulle dichiarazioni di neutralità. Lo stesso tentativo della Rand, di evitare la politica, rendeva la proposta politicamente sospetta. Abituati a sostegni e consulenze internazionali, i palestinesi non facevano obiezioni a progetti che venissero dall’esterno, addirittura da un ebreo esterno. “Non sapevo che fosse ebreo, ma per ma non fa nessuna differenza” ha dichiarato Ghassan Khatib, ministro della pianificazione. “Ci sono molti ebrei che vivono all’estero, e che hanno un punto di vista obiettivo”.

Il problema stava nei particolari del progetto e nel suo modo di presentarsi. Suisman è rimasto stupefatto dalla pioggia di obiezioni, quando ha presentato l’Arco ai funzionari palestinesi più attenti ai dettagli, gli avvocati e analisti dell’Unità di Sostegno ai Negoziati dell’OLP. Ricorda che gli è stato chiesto, da una degli interlocutori, se era una coincidenza il fatto che il piano corrispondesse quasi perfettamente a quella che lei chiamava la strategia di annessione di Israele per la West Bank.

Effettivamente, era una coincidenza. La Rand aveva tentato di evitare la questione degli insediamenti, uno dei problemi più infuocati del conflitto: “Per gli obiettivi di questo studio, avevamo scelto di mettere da parte il problema degli insediamenti israeliani”, recita il progetto Arco. Ma per i palestinesi, evitare gli insediamenti significa sostenerli. Alcuni degli avvocati pensavano che Arco potesse aiutare Israele a tenersi buona parte della West Bank orientando l’urbanizzazione palestinese verso est, lontano dal confine. Ritenevano che la Rand, che non ha alcun ruolo nelle relazioni israelo-palestinesi, fosse in campo solo per farsi pubblicità con un gesto di alto profilo. Suisman e gli altri relatori della Rand erano su un terreno scivoloso.

Un consigliere politico dell’Unità di Sostegno ai Negoziati disse che il gruppo della Rand avrebbe dovuto avere più accortezza politica. Parlando in forma anonima dato che non era consentita dall’OLP alcuna dichiarazione pubblica, sosteneva che gli americani avrebbero dovuto capire come i palestinesi associassero qualunque sistema di trasporto ai sistemi di controllo da parte di Israele, che sta già realizzando gallerie e passaggi per collegare le énclaves palestinesi senza interferire con gli insediamenti.

Dopo questo teso primo incontro, alcuni dei tecnici invitarono a cena Suisman in uno dei ristoranti più chic di Ramallah, Darna. Alla fine, dopo aver fumato le pipe shisha, Mr. Suisman tirò fuori le sue mappe, le spiegò sul tavolo, e tentò di alleviare le loro paure discutendo sul modo di collegare meglio le città occidentali della West Bank all’ Arco.

In parte ammorbiditi, i componenti dell’Unità alla fine presentarono una serie di giudizi pro e contro l’ Arco. I tecnici erano compiaciuti per gli elementi del progetto che sostenevano le posizioni negoziali palestinesi, come la proposta di un collegamento West Bank-Gaza.

Anche Israele rispose in modo cauto all’idea, presentata ufficialmente dalla Rand ai funzionari a Gerusalemme e Tel Aviv. David Siegel, portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington, dichiarò, “Il rapporto contiene molti elementi positivi, e noi sosteniamo lo sviluppo di un’economia palestinese”.

Osservò che il problema principale era “il libero movimento di persone e merci”, aggiungendo “Questo dipende però dalle riforme politiche e di sicurezza da mettere in atto”. La Rand sostiene anche una revisione della sicurezza palestinese.

Entrambe le parti avevano motivi di mettere in discussione la posizione del progetto al di sopra delle dispute politiche perché, alla fine, conteneva implicazioni politiche ineludibili, e presentate come fredde conclusioni analitiche. “La cosa più importante di tutto, è che lo propone la Rand” commentava il Dr. Ziad Asali, presidente del gruppo di sostegno American Task Force on Palestine, riferendosi all’importanza posta ad una Palestina pienamente sovrana. “Non si tratta esatamente di Peace Now, o di qualche altro gruppo estremista. Qui c’è direttamente l’ establishment a dare la propria credibilità”.

Ariel Sharon, primo ministro israeliano, chiama Gerusalemme capitale eterna e indivisibile del paese. Ma gli analisti della Rand hanno dedotto che “senza una credibile presenza sovrana a Gerusalemme, il nuovo stato di Palestina avrà un serio deficit di legittimazione fra il suo popolo” che “renderà problematico l’emergere di uno stato stabile e di un buon governo”. D’altra parte, gli studi liquidano una delle questioni centrali poste dai palestinesi in una nota a piè di pagina. Per gli esuli della guerra del 1948 e i loro discendenti, i palestinesi reclamano il diritto al ritorno alle abitazioni originali, in quello che ora è Israele. Gli analisti della Rand osservano seccamente, “Un ritorno del genere, sempre che avvenga, probabilmente sarà di piccole dimensioni”. La Rand stima comunque circa 630.000 rientri del genere verso lo stato palestinese.

Sul terreno concreto, a Ramallah, Suisman ha visto con piacere confermato uno dei suoi presupposti. Nel corso della sua quarta visita alla città, ha convinto i suoi colleghi a lasciargli vedere un po’ il centro, invece di far solo la spola fra uffici.

”Volevo dire: Esiste! C’era una grande vitalità, e mi sentiva a mio agio, la scelta di concentrarsi sulla rivitalizzazione dei centri storici e di collegarli alle stazioni, era giusta”.

A quel punto, Suisman poteva cogliere direttamente l’intensità politica che il suo progetto aveva eluso. Fu sorpreso dall’emozione con cui i palestinesi parlavano di fiori e alberi di ulivo, da tutte le foto in bianco e nero che aveva visto.

”C’è tanto legame col passato, nei palestinesi. Per me, il passato è un’influenza molto forte, ma può anche essere una trappola”. Dapprima impressionato dal peso della storia su chi incontrava, Suisman si stancò in fretta delle loro litanie. Ricorda di aver ascoltato un conoscente israeliano rievocare un fatto del 1949. “Alla fine ho detto: beh, io sono nuovo di qui, sono stato paracadutato da fuori. Ma in due viaggi ho imparato una cosa: nel momento in cui sento citare una data storica, so che la conversazione non andrà da nessuna parte”.

Nigel Roberts, direttore della Banca Mondiale per West Bank e Gaza, afferma che sorprendentemente esiste poca riflessione di lungo periodo sulla Palestina. “Chiaramente è molto, molto distante da dove siamo oggi” dice riferendosi all’ Arco. “Ma ci devono essere questi tentativi di immaginare come possa apparire il futuro, in modo tale da poter lavorare a partire da essi”.

Suisman dice di essere contento che la sua idea non sia finita in un cassetto. “Come urbanisti, ci si abitua al fatto che molte idee non prendono piede”. Altri componenti del gruppo di lavoro della Rand, sostengono cautamente di sperare solo di poter collaborare coi palestinesi nella pianificazione interna, non di volersi sostituire a loro.

Khatib, ministro della pianificazione, ha detto di Arc, “In linea di principio, è un tipo di approccio attraente”. Il gruppo della Rand lo ha informato in due occasioni sul programma, e il ministro ha risposto che i suoi tecnici volevano proporre altre modifiche, come la priorità agli insediamenti sul lato occidentale della West Bank.

Suisman visiterà Gaza questo mese. Ha detto che vuole “vedere il resto del posto, dopo averci vissuto per un anno e mezzo con l’immaginazione”. Si ferma e sorride. “Credo che, in qualche modo, sia una cosa molto palestinese”

Nota: il testo originale al sito del New York Times (f.b.)

Alta Velocità, grandi opportunità? Gli investimenti nella rete infrastrutturale dedicata all’Alta Velocità nel 2004 sono stati pari a 4 miliardi di euro (333 milioni al mese e 11 milioni al giorno ),con l’obiettivo di raggiungere i 4,5 miliardi nel corso del 2005. Infrastrutture Spa, il veicolo finanziario detenuto dal Ministero dell’Economia, per finanziare la nuova rete AV fra Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli raccoglierà sui mercati una cifra complessiva pari a 25 miliardi di euro fra il 2002 e il 2010. Si tratta di valori elevatissimi, anche se a questa cifra mancano i costi della tratta Milano-Genova e Milano-Padova.

I frutti di questi investimenti si vedranno seriamente a partire dal 2009, anche se nel frattempo ci saranno inaugurazioni di collegamenti incompleti, con cerimonie simili a quelle avvenute per le tratte nel vercellese a fine marzo.

Per quella data saranno completate le tratte principali e le nuove stazioni, queste ultime a Torino Porta Susa, Firenze Belfiore, Roma Tiburtina e Napoli Afragola progettate da alcuni dei migliori architetti mondiali cui l’inglese Norman Foster e l’irachena Zaha Hadid. Queste stazioni, concepite come nodi di interscambio dei diversi sistemi di trasporto, ma anche come luoghi urbani di grande attrazione, lasceranno segni forti nei contesti cittadini.

Questi grandiosi sforzi, che oggi vedono impegnati nei cantieri oltre 12.500 persone direttamente, sono iniziati nel periodo 1991-2 in realtà in maniera non coordinata, con l’idea principale di anticipare il meccanismo delle gare europee per i grandi lavori pubblici piuttosto che come frutto di serie analisi ed esigenze socioeconomiche. Il rischio che la montagna partorisca il topolino, per di più dopo molti anni, cioè che un simile sforzo ingegneristico e finanziario non si traduca in effetti di sviluppo concreti ed adeguati, è in realtà possibile. Il successo dal punto di vista trasportistico è probabile, con consistenti aumenti di traffico ferroviario sulle medie lunghe di stanze sia a scapito del trasporto aereo (sulla Milano-Roma), sia grazie alla generazione di nuova domanda, frutto delle drastiche riduzione dei tempi di trasporto e a possibili nuove forme di pendolarismo di lavoratori di alto livello in grado di sostenere abbonamenti ferroviari di 220-250 euro al mese per tratte AV di circa un’ora (ad esempio Milano-Torino e Milano-Bologna). Ma la nuova spina dorsale del sistema dei trasporti pubblici dell’Italia deve essere concepita in un’ottica più ampia, che comprenda l’integrazione del trasporto con lo sviluppo urbanistico, territoriale, ambientale e socioeconomico più in generale, altrimenti i benefici complessivi generati dal progetto rischiano di non equivalere ai costi sostenuti per quasi venti anni.

Tre sono gli aspetti principali da ripensare, anche alla luce delle esperienze europee: il ruolo delle merci, i traffici anche sulle brevi e medie distanze e il rapporto fra nuove stazioni e funzioni di alto livello nelle città.

Il trasporto merci, ad esempio, non è più considerato nel progetto complessivo e non sono previsti interventi in centri intermodali per far fronte ai rilevanti incrementi di traffico previsti dalla Uic – l’Unione delle ferrovie europee – soprattutto nell’area milanese (7,6% all’anno per il periodo 2004-2015). Non ipotizzare una valorizzazione della nuova rete anche attraverso lo sviluppo di nodi di interscambio modale, che possono contribuire al raggiungimento dell’obiettivo di una mobilità più sostenibile per i traffici sulle medie e lunghe di stanze, sarebbe un errore grave.

Una seconda considerazione da evidenziare è relativa alle dinamiche connesse alle scelte di dove vivere, che probabilmente richiedono un ripensamento delle decisioni in merito alle stazioni intermedie nei collegamenti fra grandi città. Nell’Italia settentrionale, ad esempio, i dati rilevati dal 1981 al 1998 in dicano come le scelte abbiano privilegiato i centri di media grandezza (da 10.000 a 50.000 abitanti). Infatti, le dimensioni della popolazione residente nell’Italia Settentrionale sono rimaste stabili fra il 1981 e il 1998 (la variazione complessiva è stata una leggera contrazione, pari allo 0,5%). Se tuttavia consideriamo la popolazione ripartita per ampiezza dei comuni di residenza, le variazioni si amplificano sensibilmente: le grandi città (oltre 250.000 abitanti) perdono un residente su cinque, mentre i centri medi (da 10.000 a 50.000 abitanti) ne concentrano il 13,4% per cento in più. I nuovi posti di lavoro, invece, sono stati generati principalmente nelle grandi aree urbane. Per rispondere a queste nuove esigenze si rendono necessarie forme di trasporto per pendolari che, in alcuni contesti, vadano oltre gli attuali sistemi di trasporto ferroviario regionale. Il sistema spagnolo, che lungo le linee ad alta velocità da e per Madrid affianca ai treni dedicati esclusivamente a viaggiatori sulle medie lunghe distanze anche servizi per pendolari di alto livello con velocità elevate, può fornire spunti rilevanti per questi aspetti.

L’ultimo aspetto riguarda come valorizzare al meglio le nuove opportunità derivanti dal notevole miglioramento del sistema di accesso alle città, che amplierà il bacino di riferimento dei possibili clienti per servizi alle imprese (eventi, congressi, fiere e altro), ma anche mostre esibizioni e spettacoli. Le nuove stazioni non devono essere pensate solo come nuovi centri commerciali, ma come possibili leve per un riordino territoriale e urbanistico che abbia come obiettivo lo sviluppo di nuovi quartieri dedicati al terziario avanzato, attraverso il riutilizzo di aree industriali dismesse o aree ferroviarie sottoutilizzate, che in molti casi sono disponibili nei pressi delle nuove stazioni. Oppure, come è auspicabile ad esempio per Genova, pensare a nuove localizzazioni per le stazioni che siano effettivamente in grado di inserirsi in progetti di ampio respiro sul futuro della città.

Se si pensa che i treni ad alta velocità corrono fra Parigi e Lione dal 1984 e fra Madrid e Siviglia dal 1992, l’Italia è in ritardo, cosa molto grave di per sé, ma che diventa gravissima se non si riesce nemmeno a far tesoro delle esperienze estere.

Oliviero Baccelli: Certet Università Bocconi di Milano

Dopo il dibattito nella VIII Commissione della Camera, arriva in aula la proposta di legge Lupi (Forza Italia, milanese), principale artefice di un testo variamente emendato sulla riforma del governo del territorio. Nonostante la rilevanza del provvedimento, il dibattito si è sviluppato in un silenzio preoccupante, segno che pure i partiti di opposizione e quelli di sinistra (che contano su indiscusse competenze) hanno sottovalutato la questione e l'approvazione rischia di arrivare a sorpresa. Un'altra legge in linea con l'ideologia degli uomini del premier, almeno buona per lasciare mano libera, quanto basta, alla rendita immobiliare. E anche in questo caso sembra destinato all'insuccesso il tentativo di temperare una cultura di governo che non nasconde il proposito di imporre gli interessi particolari su quelli generali. Se la proposta verrà confermata, l'idea di governo del territorio nell'interesse collettivo, come si esercita nei paesi europei, verrebbe fortemente ridimensionata. Ciò che di buono hanno significato le leggi del 1939 e del 1942 (sicuro prodotto della destra che fu) fino alla legge-ponte e alla 431 del 1985, potrebbe essere in gran parte vanificato. Un'altra riprova che non sempre le riforme - e per questo la denominazione riformismo non è garanzia di buongoverno - vanno nella direzione di migliorare la vita dei cittadini.

La convinzione alla base della legge Lupi è che la pianificazione debba avere come interlocutori non le comunità dei residenti, che aspirano a vivere in città belle e meglio servite, ma la cerchia degli operatori immobiliari, a cui si garantisce, parrebbe in modo privilegiato, il diritto di partecipare ai procedimenti di formazione degli atti. Per cui la forma e l'organizzazione delle città potranno derivare dalla somma di interessi variamente contrattati, laddove si prefigura - ecco il punto - una procedura «semplificata» e «negoziale» e non più «autoritativa». Insieme verrebbe meno il principio presente nell'ordinamento attuale di riservare, dappertutto negli atti di pianificazione, una quantità minima di spazi da destinare a servizi collettivi. Gli esiti nelle diverse aree urbane saranno sconvenienti quasi per tutti. In generale saranno ridimensionate le fortunate condizioni insediative che hanno prodotto scelte urbanistiche di alto profilo e immobilizzate quelle che per sotterfugi e abusi non hanno mai raggiunto un adeguato livello di civiltà abitativa. A poco servirà la debole esortazione di «garantire comunque» un imprecisato minimo livello di dotazioni di attrezzature e servizi, «anche con il concorso di soggetti privati». Che, è facile prevederlo, concorreranno liberamente, secondo le loro strette convenienze. Il rischio è che si diffonda il modello ispiratore di questa legge messo a punto dal centrodestra a Milano dove il sedicente progetto urbanistico è già inteso come sommatoria di interessi negoziati. Si prefigura un arretramento rispetto al principio che sancisce il diritto a inderogabili condizioni di vivibilità per ciascun cittadino della Repubblica, ovunque risieda.

Gli effetti della devoluzione si vedranno anche nell'assetto del territorio. Non trasferimenti di poteri dentro un quadro chiaro, ma deleghe per discrezionali contrattazioni, con effetto domino assicurato. Tant'è che le regioni sono chiamate a determinare non le misure minime ma i criteri per il dimensionamento dei servizi da porre alla base della redazione dei piani urbanistici comunali.

La questione è rilevante e qualcosa si muove per iniziativa di Italia Nostra che ha promosso un appello con l'adesione di numerosi studiosi (tra gli altri: Piero Bevilacqua, Edoardo Salzano, Giuseppe Chiarante, Roberto Gambino, Pierluigi Cervellati, Francesco Indovina, Carla Ravaioli, Vezio De Lucia, Alberto Magnaghi). Nel documento è segnalato in modo speciale un altro punto oscuro: la rinuncia della legge a impegnare la pianificazione a garanzia del paesaggio e dei beni culturali contro l'idea che nel nostro Paese ogni processo di trasformazione debba fare i conti con valori fondamentali di ogni luogo. «Contraddicendo - è scritto nel documento - una linea di pensiero che, da oltre mezzo secolo, aveva tentato di integrare con la pianificazione i diversi aspetti e interessi sul territorio in una visione pubblica unitaria».

Postilla. Roggio scrive: "il dibattito si è sviluppato in un silenzio preoccupante, segno che pure i partiti di opposizione e quelli di sinistra (che contano su indiscusse competenze) hanno sottovalutato la questione". Forse si sono rivolti a competenze indiscusse, ma sbagliate. (es)

Nel silenzio quasi totale, raggelante, dell’informazione, la Camera ha cominciato a discutere in aula la legge, firmata dall’on. Maurizio Lupi (Forza Italia, milanese, vicino a Formigoni) con la quale verrà praticamente fatta saltare la normativa urbanistica esistente, a livello nazionale e quindi anche regionale e locale. Naturalmente a tutto vantaggio di formidabili interessi immobiliari. Associazioni come Italia Nostra, intellettuali che hanno a cuore il Bel Paese si stanno mobilitando contro questa legge che demolirà, se approvata come vuole il centrodestra, alcuni pilastri di una legislazione che tanta fatica è costata, a partire dagli anni Sessanta.Una legislazione che ha dato civiltà al nostro Paese, così spesso depredato dalla speculazione immobiliare, legale e illegale.Il punto-chiave, o «nero», di questa legge. Per essa le attuali regole urbanistiche sono «autoritative». Eppure, il potere pubblico viene democraticamente esercitato, coi dovuti controlli dai Comuni attraverso il dibattito e il voto in Consiglio dei rappresentanti del popolo. Tutto ciò non va più bene, è «autoritativo» (o autoritario) nonché dirigista. Quindi va radicalmente cambiato e reso «paritetico». Nel senso che i privati saranno chiamati ad esprimere la loro volontà non dopo l’approvazione consiliare dello strumento urbanistico (cioè nella fase delle osservazioni), o, consultivamente, anche durante il lavoro per il piano. Saranno abilitati a farlo «prima». Insomma, il nuovo piano urbanistico disegnato dalla legge Lupi verrà redatto, in sostanza, sulla base della volontà espressa dai «soggetti interessati», cioè dai privati proprietari di aree, dalle società immobiliari, dai «palazzinari». Prevale così il «rito ambrosiano», vale a dire la non-pianificazione introdotta dal centrodestra a Milano (che non è mai stato un modello di urbanistica europea), dove il piano è, già oggi, la sommatoria dei tanti interessi privati «negoziati» prima col Comune.Quindi, via «la città dei cittadini» (per ricordare un bel libro anni Settanta del sociologo socialista Roberto Guiducci) e spazio alla «città delle immobiliari». Queste ultime, negli anni del boom edilizio, spiazzavano i Comuni costruendo lottizzazioni in zone agricole, e costringendo poi l’ente pubblico a inseguirle portando sin là i servizi essenziali. D’ora in poi non dovranno neppure fare questa fatica, nel senso che saranno loro a pre-determinare gli sviluppi della città contrattandoli con Comuni ormai spossessati dei poteri fondamentali (e democratici) in materia. Un secondo punto-chiave della legge Lupi prevede la pratica sparizione degli standard urbanistici vigenti dopo la legge-ponte del 1968, conquista di grande civiltà che assegnava a ciascun cittadino una quota di metri quadrati di verde, di parcheggi, di scuole primarie, di strutture sportive, eccetera. Sostituiti ora dalla semplice raccomandazione a «garantire comunque un livello minimo» di attrezzature e servizi «anche con il concorso di soggetti privati». In tal modo, i Comuni già avanti nell’acquisizione degli standard minimi retrocederanno e quelli invece più indietro rimarranno desolatamente più in coda. Terzo punto «nero» della legge ora alla Camera (ripeto: nel silenzio totale dei giornali, anche di quelli che con le grandi immobiliari non hanno rapporti di parentela aziendale): la tutela del paesaggio e dei beni culturali non farà più parte della pianificazione ordinaria delle città e del loro territorio. Viene così demolita un’altra acquisizione essenziale della nostra cultura che, con la legge Galasso del 1985 e con altre leggi (anche regionali) di buona qualità, aveva integrato in una salvaguardia unitaria, territorio, ambiente e paesaggio. Di qui in avanti, essi saranno invece divisi e attribuiti a leggi, uomini e strumenti differenti. Col risultato che prevarranno, più che mai, gli interessi forti: quelli che accoppiano cemento e asfalto. Si pensi a Roma che è riuscita a votare in consiglio comunale il suo Piano Regolatore nel 2003, a 94 anni dall’ultimo Prg, approvato nello stesso democratico modo (erano i tempi del sindaco Nathan). Roma, dove negli ultimi 40 anni la popolazione è aumentata soltanto del 17% - e sta calando sempre più - mentre lo spazio urbanizzato, cemento più asfalto, si è dilatato del 260%, e non accenna a frenare questo suo dilagare nell’Agro. Qui non si vogliono difendere, in sé, gli strumenti, a volte invecchiati, della pianificazione urbanistica vigente. Se ne vogliono salvaguardare i princìpi fondamentali incentrati sull’interesse generale tutelato (per ora) dalla Costituzione, sul democratico rapporto Stato-Regioni-Enti locali che insieme compongono la Repubblica dei cittadini, fra i quali ci sono ovviamente anche i privati detentori di aree. Non però il regno delle immobiliari che invece la legge Lupi disegna in ore già drammatiche per la casa abbandonata per anni, un po’ da tutti purtroppo, al cosiddetto «libero mercato», in realtà alla legge selvaggia del più forte.

Nel labirinto ideologico e botanico in cui rischia di smarrirsi il centrosinistra, tra alberi d´alto fusto e fiori di campo o di serra, sigle improbabili e innesti artificiali, c´è un filo di Arianna che può aiutare l´opposizione a trovare una via d´uscita per ridefinire la propria natura e la propria identità: la salvaguardia dell´ambiente come priorità assoluta, come perno programmatico di un´alternativa di governo, come paradigma di un nuovo modello di sviluppo economico e sociale. È una piattaforma riformista tanto ampia da contenere e aggregare intorno all´Ulivo storie e culture diverse, componenti e vocazioni che si richiamano a un´origine e a un destino comuni, in nome di una moderna solidarietà - di ispirazione laica o cattolica - tesa a ridurre per quanto possibile le disuguaglianze, le distanze fra i privilegiati e gli "ultimi", il gap fra le generazioni.

Da un anno e mezzo, in un black-out mediatico che ai promotori è sembrato sconfinare a volte nell´indifferenza o peggio nella censura, su mandato dei rispettivi segretari o presidenti gli otto partiti della minoranza hanno costituito un Tavolo Ambiente dell´Opposizione, denominato ambiziosamente Tao e raffigurato da due spirali contrapposte, come il principio della filosofia cinese. Articolato su due livelli, uno politico e uno tecnico, il lavoro è stato suddiviso in commissioni, con la partecipazione di numerosi esperti di settore: dall´energia all´acqua, dalle aree protette ai rifiuti, dalla difesa del suolo ai trasporti, dalla fiscalità ecologica all´agricoltura.

Attraverso un confronto al proprio interno, ciascun gruppo ha elaborato così un documento monografico con una serie di proposte concrete, «alla ricerca - come si legge in un comunicato congiunto - di una progettualità alternativa che definisca una nuova qualità sociale e ambientale dello sviluppo». E il prossimo 18 gennaio, in vista dell´entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, il Tao farà il suo esordio ufficiale per presentare il testo-base, quello sull´energia e i cambiamenti climatici, predisposto dalla commissione di cui è presidente Paolo degli Espinosa (Democratici di sinistra): al convegno parteciperanno Romano Prodi e i segretari dei partiti della Gad.

È un segnale positivo per il popolo di centrosinistra, proprio nel momento in cui la Federazione dell´Ulivo stenta a individuare la rotta da seguire per ricandidarsi alla guida del Paese. Non solo perché testimonia un impegno di ricerca e di dialogo che tende finalmente a unire sulle scelte, piuttosto che a dividere sulle formule. Ma soprattutto per il fatto che l´obiettivo dichiarato è un progetto di società, e quindi un programma di governo, in alternativa a quello del centrodestra. Dai guasti del condono edilizio alle incognite della delega ambientale, negli ultimi tempi la maggioranza parlamentare ha fatto di tutto per dimostrare quanto ciò sia necessario e urgente per impedire l´ulteriore rovina del Malpaese.

Con un apprezzabile sforzo di pragmatismo che punta a contrastare la crisi economica, il Tao propone di «fare dell´Ambiente la principale occasione di nuova e buona occupazione». E nello spirito del Protocollo di Kyoto, sollecita perciò «una diversa politica energetica fondata sul risparmio e su un uso razionale dell´energia nonché sullo sviluppo di fonti rinnovabili pulite quali solare, termico e fotovoltaico, eolico e piccolo idroelettrico», in rapporto alle condizioni e alle caratteristiche locali. Da qui, secondo il documento elaborato dai partiti di opposizione, un triplo vantaggio in termini di qualità ambientale, in particolare per la salvaguardia del clima e i rischi che derivano dalla limitatezza dei giacimenti mondiali di combustibile (petrolio e uranio); di maggiore efficienza del sistema di produzione e consumo; e infine, di riduzione della spesa per importazione di combustibile.

All´insegna dello slogan «Ricominciamo dai Parchi», un altro documento che offre spunti e indicazioni interessanti è quello elaborato dal gruppo sulle Aree protette e la Biodiversità, presieduto da Mario Castorina (Italia dei Valori). Qui la difesa dei parchi va al di là della conservazione della natura, per assumere un "valore culturale" autonomo. Le aree protette diventano allora il luogo ideale per sperimentare le pratiche rispettose dell´ambiente e dimostrate nello stesso tempo che lo sviluppo economico e sociale può svolgersi in armonia con le dinamiche naturali.

Su una «politica per il mare», attenta agli aspetti ambientali, economici e culturali in una visione più internazionale, si fonda infine «una politica di pace, di collaborazione, di integrazione economica e di solidarietà, per coinvolgere l´Unione europea verso l´insieme dei Paesi del Mediterraneo». Il presupposto fondamentale, ovviamente, è quello di non considerare più il mare come una pattumiera o una discarica, per sfruttare al meglio tutte le sue potenzialità. A cominciare dal turismo.

Il rischio principale da cui il Tavolo dell´Ambiente deve guardarsi, tuttavia, è quello di compilare un nuovo "libro dei sogni", tanto completo e originale quanto immaginario. Le idee, le indicazioni e le proposte contenute nei vari documenti devono essere tradotte necessariamente in soluzioni concrete e praticabili, per evitare di contrapporre un Ambiente ideale a un Ambiente impossibile. Ma questo è un compito di sintesi che spetta alla responsabilità e alla competenza della politica.

Business is business… ma declinare arte e cultura con economia e marketing urbano richiede equilibrio. E, secondo alcuni critici, il punto di equilibrio è stato superato. L'«accusa» è che in Italia si realizzano mostre per promuovere l'immagine di una città o per attirare visitatori con persuasive campagne di comunicazione, mentre poche se ne realizzano per dimostrare tesi scientifiche o presentare opere nuove o poco note. Un'accusa, questa, che si somma a quella rivolta il 12 agosto da Le Monde al cosiddetto «idiota da viaggio» che distruggerebbe il vero sapere, sul quale ieri, Sebastiano Vassalli, ha comunque invitato a «non sparare».

Alcuni critici hanno messo «sotto accusa» varie mostre, come quelle degli Impressionisti realizzate nel Nord-Est, quelle dove è sufficiente un nome di richiamo (Caravaggio, ad esempio) per assicurarsi la presenza del «turista culturale» e, infine, quelle suddivise su più sedi espositive. E' il caso, quest'ultimo, della mostra inaugurata il 6 luglio per i settecento anni dalla morte di Arnolfo di Cambio, che si svolge metà a Perugia (Sala Podiani della Galleria Nazionale) e metà ad Orvieto (Chiesa di Sant'Agostino). «Si fa una mostra in due città non per ragioni scientifiche, ma solo per non scontentare nessuna cittadinanza», attacca il critico Carlo Bertelli.

Ma questo aspetto è solo una faccia del problema più generale che riguarda la finalità per cui si organizzano oggi le mostre. Per il collezionista di arte contemporanea, Giuseppe Panza di Biumo «stiamo assistendo a una deviazione dalle funzioni culturali ed educative. Si fanno mostre che hanno legami con l'economia, promuovono alberghi e ristoranti, ma rendono scarsa utilità alla cultura». Su un'analoga lunghezza d'onda si esprime Philippe Daverio: «Già, gli impressionisti e il fiume, gli impressionisti e la neve, perché non anche impressionisti e maionese? Una mostra non dovrebbe essere un luogo di consumo, ma di ricerca».

Rilievi legittimi? In buona parte sì, conferma Massimo Vitta Zelman, presidente delle edizioni Skira e organizzatore di mostre ad alto contenuto scientifico e di visitatori, come quella sui Gonzaga a Mantova (500mila presenze) e come si annunciano le prossime di «Caravaggio e l'Europa» a Palazzo Reale di Milano e «Manet» al Vittoriano di Roma: «Le mostre sparpagliate sul territorio non funzionano: un polo resta dominante e alle sedi decentrate si dà solo un contentino; sono sconvenienti anche dal punto di vista imprenditoriale». Quanto al proliferare del numero delle esposizioni, continua Zelman, «in Italia abbiamo una offerta che valuto tripla alla domanda. Questo avviene perché siamo il Paese delle cento città e ciascuna vuole ricavarsi una fetta di notorietà. Inoltre, spesso le mostre non sono frutto di produzioni con i grandi musei ma con le amministrazioni locali, che hanno interesse politico e mandato corto. Per questo c'è un'overdose paragonabile al calcio in tv! E in questo profluvio di mostre vince chi vende un marchio facile».

A questi rilievi risponde Marco Goldin, il curatore delle mostre Brescia sui vari Impressionisti, che con «Monet e le ninfee» ha portato nella città della leonessa 440mila visitatori. «Non è vero che esponiamo sempre le stesse opere: degli oltre mille quadri portati qui in otto anni, forse 10 o 12 sono gli stessi. Per questo la gente ci segue e i musei ci danno prestiti». Goldin sta preparando per Brescia un'altra stagione che si annuncia di successo, con «Gauguin e Van Gogh» (già 120mila prenotazioni) e con 60 opere di Millet provenienti dal Museo di Boston, più altre 16 esposizioni suddivise in tre sedi: Santa Giulia, la Pinacoteca Tosio Martinengo e il Castello. E conclude: «Non sempre le mostre possono essere portatrici di nuove conoscenze. Se uno pensa che le mostre debbano essere patrimonio solo degli storici e dei critici non sono d'accordo».

Ma su grandi numeri e marketing non mancano voci a difesa. Come quella del presidente del Touring club, Roberto Ruozi: «Se il turismo sta calando del 2,2% in Italia, ma quello culturale cresce del 5% ci sarà un perché? La gente vuole l'evento e chi non segue le propensioni del pubblico sbaglia». «Non c'è nulla di male nel marketing della cultura — aggiunge l'amministratore delegato di Telecom Progetto Italia, Andrea Kerbaker —. Solo se ci fosse impoverimento o sciatteria scientifica sarebbe un problema».

Una soluzione è suggerita dal filosofo e assessore alla Cultura di Milano, Stefano Zecchi. «È ragionevole che si faccia anche del marketing urbano attraverso le mostre, ma le grandi città devono avere progetti più ambiziosi. Per Milano ho suggerito una doppia prospettiva: avere capacità imprenditoriale per realizzare mostre nuove di livello scientifico e, accanto a queste, esposizioni più popolari e divulgative. Poiché si usano soldi pubblici e non di una comunità scientifica».

Mentre in Francia «Le Monde» mette sotto processo gli «idioti da viaggio», da noi anche i piccoli centri fanno a gara nel catturare la «fauna da quadro»

Mentre Michael Crichton invoca, nel suo ultimo thriller intitolato Stato di paura, la nascita di "un nuovo movimento ambientalista" contro la retorica e il conformismo che a suo parere hanno dominato finora questa corrente d´opinione, Forza Italia si appresta a celebrare un esordio assoluto, con il primo convegno nella sua storia dedicato alla natura. Sarà pure una coincidenza, ma è comunque una coincidenza significativa che il maggior partito di governo italiano, il partito del presidente del Consiglio, abbia scelto questo momento per debuttare sul palcoscenico dell´ecologia, in sintonia con una sorta di revisionismo culturale che dall´America all´Europa investe come uno "tsunami" l´intero arcipelago verde.

Il seminario di studio, indetto da Forza Italia per il 29 e 30 giugno a Roma, auspica romanticamente "Più rispetto e amore per la natura". Ma il sottotitolo, ben più impegnativo, promette di elaborare "linee guida per un nuovo programma di governo". Non si tratterà, dunque, di un dibattito rituale, una litania di intenzioni più o meno buone, una parata di esperti e cultori della materia, bensì di un confronto politico finalizzato - così almeno si spera - a formulare proposte e soluzioni concrete da tradurre poi in scelte programmatiche.

Vedremo se alle parole corrisponderanno veramente i fatti. E soprattutto, quale sarà l´ispirazione ambientalista di Forza Italia, la sua maggiore o minore autenticità, il motivo conduttore di questa iniziativa e di quelle che eventualmente seguiranno. Ma intanto si può registrare con interesse, e anche con una certa soddisfazione, che il partito del premier abbia sentito finalmente la necessità di riflettere su questi temi per assumerli nella propria agenda di governo e forse per lanciare una sfida a quello "stato di paura" che, secondo l´intuizione di un romanziere come Crichton, incombe oggi sul pianeta Terra sotto l´allarme generale per l´effetto serra e l´allarmismo di un´informazione considerata più ideologica che scientifica.

Il "revisionismo ambientalista", d´altronde, oggi non interpella soltanto la maggioranza di centrodestra in Italia, il fronte dei moderati o su scala più internazionale quello dei conservatori. Pone interrogativi e problemi a tutti, agli ecologisti in primo luogo e all´intero schieramento progressista di cui questi fanno parte. È in discussione il fondamento stesso dell´ambientalismo, la sua legittimità, la sua credibilità, se è vero - come scrive Crichton in un "messaggio dell´autore" alla fine del libro - che la maggior parte dei suoi princìpi, a cominciare proprio dallo sviluppo sostenibile, "hanno l´effetto di preservare i vantaggi economici dell´Occidente e favorire il moderno imperialismo nei confronti dei Paesi in via di sviluppo".

Non c´è dubbio, quindi, che il richiamo a una maggiore obiettività scientifica vada accolto con favore, proprio per evitare che l´ambientalismo rischi di evaporare nella propaganda, nella retorica o nel conformismo. Per risultare credibili ed efficaci, le denunce o gli allarmi devono essere ancora più documentati, verificati, controllati, anche se a volte sono gli stessi scienziati a fornire informazioni contraddittorie o addirittura opposte. Con tutto il rispetto per Crichton e per quelli che la pensano come lui, non si può scadere d´altra parte nel "conformismo dell´anticonformismo", con il pericolo di sottovalutare situazioni reali, di abbassare la guardia di fronte alla minaccia dell´inquinamento, di non adottare misure adeguate e provvedimenti tempestivi.

Con un´originaria ispirazione animalista, da tre anni il dipartimento Etica dell´Ambiente di Forza Italia - diretto da Giorgio Schmidt, un deputato trentino di nascita e milanese di elezione, giornalista, esperto di comunicazione - ha aperto un dialogo con le principali associazioni ecologiste che saranno rappresentate al convegno da Gaetano Benedetto, responsabile delle relazioni istituzionali del Wwf. Alla base di questa "nouvelle vague" berlusconiana, c´è dichiaratamente il rispetto della vita in tutte le sue forme, per salvaguardare l´equilibrio della natura. Ma l´obiettivo finale, come dice la coordinatrice del dipartimento Cristina Del Tutto, è quello di "definire l´identità ambientalista" del partito "azzurro" prima di confrontarsi con le altre componenti della Casa delle libertà e quindi con l´opposizione, a cominciare dal congresso di Sinistra ecologista che si terrà subito dopo.

A meno di un anno ormai dalle prossime elezioni, l´iniziativa di Forza Italia tende evidentemente a recuperare un ritardo culturale e politico che ha provocato finora un´assenza pressoché totale sul terreno dell´ecologia. E con ogni probabilità, punta anche a contendere la leadership assunta in questo campo all´interno del centrodestra da Alleanza nazionale, con il ministro dell´Ambiente Altero Matteoli che non a caso non è stato invitato al seminario di studio. Ma il fatto stesso che a concludere i lavori sarà - secondo il programma - il presidente Berlusconi in persona, indica che si tratta di un investimento elettorale a cui il partito del premier attribuisce una certa rilevanza. Non è escluso, però, che prima o poi possa rendere qualcosa anche all´ambientalismo militante.

Titolo originale: Metro propels city on fast track – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Li Guang, abitante di Pechino di 25 anni, è soddisfatto della decisione presa due anni fa.

All’inizio del 2003, Li era ossessionato da un grosso problema: dove si sarebbe sistemato, con la sua fidanzata, nella metropoli capitale?

Li lavora nella zona sud, mentre l’ufficio della sua potenziale moglie sta nel nord.

”Dove cercare la nostra futura casa, considerando le convenienze di traffico di entrambi, mi preoccupava” ricorda Li, che lavora per un giornale a Pechino.

È opinione diffusa tra gli abitanti di Pechino, che la parte nord della città sia di gran lunga più sviluppata di quella sud.

La differenza qualitativa è chiaramente evidenziata dal prezzo medio degli immobili lungo il Quarto Anello stradale nord, che è quasi identico a quello del Secondo Anello sud, nonostante quest’ultimo sia molto più vicino al centro città.

Attirato dai prezzi delle case più abbordabili, alla fine Li scelse un appartamento vicino al proprio ufficio a sud, all’interno del Secondo Anello.

Era un momento difficile per lui, perché ciò significava per la sua futura moglie passare lunghe ore negli spostamenti quotidiani di lavoro fra casa e ufficio, utilizzando gli affollati mezzi di trasporto pubblici di Pechino: un destino che nessuno vorrebbe imporre a chi ama.

Li non vedeva rimedi alla sua inevitabile decisione, sin quando la municipalità non annunciò al pubblico lo scorso anno i progetti per due nuove linee di metropolitana, la 4 e la 5.

Ora, Li osserva con grande interesse ogni passo nelle realizzazione del progetto.

“Sarà molto più facile andare da casa all’ufficio di mia moglie” racconta eccitato. Si sono sposati l’anno scorso.

Il progetto della metropolitana

Pechino è un modello di sviluppo urbano, non solo per i suoi residenti.

”L’intero paese è ansioso di vedere che aspetto avrà la capitale negli anni a venire” dice Tan Xuxiang, vice presidente della Commissione Urbanistica Municipale di Pechino.

Tan si anima parlando della revisione del piano regolatore nella città sede dei Giochi Olimpici del 2008.

”Il nuovo piano è una vetrina attraverso cui la gente guarderà nella città”, dice.

Sono state introdotte parecchie radicali modifiche rispetto all’idea precedente di sviluppo, tutta centrata sulla piazza Tien’anmen.

La strategia monocentrica è ora sostituita da un orientamento allo sviluppo pluricentrico, con l’inserimento di una serie di centralità parallele, focalizzate su diverse funzioni.

L’area high-tech di Zhongguancun, il centro sortivo Olimpico, e il distretto terziario centrale, saranno tra questi centri funzionali.

Il piano illustra la decisione della municipalità di realizzare un modello di crescita in tutte le direzioni, e insieme la compatibilità del ruolo di capitale nazionale con una crescente varietà di attività e settori economici.

La gran parte dell’ambizioso piano dovrà attuarsi attraverso l’estensione del sistema di trasporto metropolitano di Pechino.

Al momento, sono in funzione quattro linee. Le Linee 1 e 2 coprono un totale di 54 chilometri, mentre la Linea 13 e la Batong sono di 61 chilometri. Complessivamente, trasportano 1,5 milioni di passeggeri al giorno.

”Pechino manterrà la sua posizione di punta nella costruzione di metropolitane nei prossimi anni” dice l’urbanista Tan.

Secondo il piano urbano, sottola capitale entro il 2020 ci saranno 19 linee interconnesse, per un totale di 570 chilometri.

”Quindici linee serviranno le comunicazioni urbane, e le altre quattro saranno ragliate su misura per il pendolarismo fra le zone suburbane”, continua Tan.

A differenza delle linee 1 e 2 (circolari), realizzate attorno alla zona di Piazza Tien’anmen, il centro tradizionale, i nuovi tratti in costruzione sono diretti verso i settori principali della città.

”La realizzazione della metropolitana entra in una fase cruciale nel 2005” dice Qin Zhaohui, della Beijing Rail Communication Construction Company.

La compagnia è responsabile della costruzione delle linee 4, 5, 10 e della ferrovia diretta per l’aeroporto.

”È la prima volta, in Cina, che si realizzano così tante linee di metropolitana contemporaneamente” prosegue Qin.

Le nuove linee in costruzione si estenderanno sino a raggiungere i suburbi. La Linea 4 collega Fengtai nell’estremo sud, con Haidian nel nord-ovest, per un totale di 28,16 chilometri, costituendo il primo legame diretto fra i due “poli”. La Linea 5 svolge una funzione simile, mirando a stabilire una via breve fra il nord “sviluppato” e il sud “in via di sviluppo”, da Changping a Fengtai.

Oltre le due linee nord-sud, ne è in costruzione anche un’altra a forma di arco, la Linea 10, con le due estremità dell’arco nei distretti di Haidian e Chaoyang, estesa dal nord-ovest alle grandi aree est e sud-est.

Una sezione di 5,91 chilometri è realizzata apposta per gli spostamenti durante i Giochi Olimpici del 2008 Olympic Games, pure inclusa nella Linea 10.

La costruzione di tutte e tre le linee è cominciata un anno fa, e si prevede che saranno disponibili per il pubblico prima del 2008.

La ferrovia diretta per l’Aeroporto

”A parte le linee previste, si ritiene che il progetto di quest’anno più degno di attenzione pubblica sia la linea espresso per l’aeroporto” dice Sun Wenjian, funzionario del Comitato Municipale per le Comunicazioni di Pechino.

Con uno sviluppo previsto di 26 chilometri, la linea espresso è ancora un mistero per il pubblico, dato che al momento non sono disponibili i progetti di costruzione.

”Abbiamo ricevuto proposte per metropolitana leggera, percorso sotterraneo, e MagLev [ Magnetic Levitation n.d.T.], continua Sun.

Il progetto definitivo sarà scelto nel primo aprile, aggiunge.

”Una volta realizzato, basteranno 15 minuti dal centro città all’aeroporto”.

La linea per l’Aeroporto condividerà la stazione di Dongzhimen con la circolare e la Linea 13.

La navetta passeggeri fra Dongzhimen e l’aeroporto darà la possibilità di viaggiare senza impicci, grazie all’introduzione di una avanzato check-in bagagli e relativo sistema di trasporto fra le due stazioni.

Il progetto partirà a giugno, ed è pensato per un treno ogni cinque minuti, e una capacità di 3-4.000 passeggeri l’ora.

Secondo una fonte della Commissione Urbanistica di Pechino, il convoglio a quattro carrozze farà quattro fermate lungo il percorso verso l’aeroporto, compresa quella nell’affollato nodo della stazione di Sanyuanqiao e all’incrocio con la Linea 10.

Si prevede che la Linea 10 raccoglierà un enorme flusso passeggeri” dice Sun. La linea scorrerà attraverso il Centro scambi internazionali di Zhongguancun, che ha un grande potenziale di passeggeri.

Un grosso investimento

Qin Zhaohui afferma che quest’anno sono stati destinati 7,05 miliardi di yuan (860 milioni di dollari USA) per la realizzazione delle Linee 4, 5 e 10.

Tutte queste nuove realizzazioni saranno dotate di porte scorrevoli trasparenti di sicurezza, con vantaggi anche di risparmio energetico.

le Linee 1 e 2, attive da circa 30 anni, sono destinate a subire le più grandi operazioni di rinnovo della loro storia.

Wang Dexing, presidente del consiglio di amministrazione della Beijing Subway Operation Company, afferma che si sta iniziando un ammodernamento generale, a coprire sette sistemi, con un bilancio di 4,3 miliardi di yuan (524 milioni di dollari USA).

Circa 3,7 miliardi di yuan ($ 451 milioni) saranno utilizzati per l’ammodernamento dei treni, che comprende miglioramenti dei dispositivi di sicurezza.

I rimanenti 600 milioni di yuan ($ 73,1 milioni) sono per l’adozione del sistema di pagamento automatico del biglietto. “Entro il 2007, comprare il biglietto e farlo controllare dai conduttori diventerà storia” dice Wang.

Considerazioni inter-urbane

In quanto capitale nazionale, Pechino si fa in parte responsabile per sollecitare lo sviluppo di altre città, dice Li Xiaojiang, rappresentante della Planning Society of China.

Più innovazioni si fanno nel sul della città, più occasioni di sviluppo ci saranno per Tianjin e la provincia di Hebei, sostiene un cittadino, Ge Zong, che va spesso a Tianjin per affari.

Tianjin confina con Pechino a sud-est, mentre la provincia di Hebei cirocnda la capitale.

“Il nuovo piano regolatore di Pechino prende in considerazione i territori di Tianjin e Hebei “ dice Li.

Un esempio evidente è l’attenta localizzazione del sevondo aeroporto di Pechino, che alla fine è stato posizionato a sud-est della città.

”L’enorme flusso di passeggeri verso Pechino, Tianjin e Hebei richiede un lancio dell’aeroporto entro un contesto regionale equilibrato” sostiene Li.

Un sistema ferroviario da 12 miliardi di yuan (1,46 miliardi di dollari USA) a collegare direttamente Pechino e Tianjin accorcerà il tempo di viaggio di circa due ore fra le due città, a 40 minuti.

Nota: qui il testo originale al sito del China Daily (f.b.)

L’11 marzo era passata per uno solo voto in consiglio regionale, adesso il governo impugna davanti alla Corte costituzionale la legge sul Territorio. Il Pirellone può riapprovarla così com’è,oppure riformularla. E magari - come fa capire il nuovo assessore, il leghista Davide Boni - rivederne anche altri aspetti, che vanno al di là dei rilievi mossi dal governo: “Adesso il responsabile del Territorio sono io, in questo campo ci vogliono più risorse e maggiori tutele”.

Il primo rilievo riguarda il meccanismo di “compensazione”. Il provvedimento stabilisce che chi costruisce anziché corrispondere ai Comuni la totalità degli oneri di urbanizzazione dovuti, offra per sdebitarsi, in tutto o in parte, opere di compensazione. Il governo dice che non si può, perché quelle opere debbono essere messe a gara. Secondo rilievo: non può essere la Regione a valutare i rischi idrogeologici legati a particolari interventi sul territorio: la competenza è dello stato. Il terzo no del governo riguarda l’installazione di antenne, tralicci e altri impianti di comunicazione: la legge regionale stabilisce che sono i sindaci a concedere le autorizzazioni, Roma ribadisce, come aveva già fatto l’ex ministro Gasparri, una pressoché totale libertà di antenna.

Davide Boni, il nuovo assessore al Territorio, anticipa che su questo punto il Pirellone darà battaglia, anche se per ora evita di pronunciarsi sugli altri due: “Valuteremo” . Però dice una cosa interessante: “Questa può essere l’occasione per una rilettura generale del provvedimento”. È stranoto che la Lega l’11 marzo l’aveva approvato malvolentieri, e che lo stesso Boni, anche di recente, non ha mancato di rinnovare le critiche a un impianto giudicato insufficiente sotto il profilo dei controlli. C’è un altro problema aperto. Il forzista Alessandro Moneta, predecessore di Boni, aveva inserito nella legge una norma che avrebbe portato a quello che il centrosinistra definì “un abuso” nella realizzazione dei sottotetti. Quella norma fu respinta, grazie anche a una pattuglia di franchi tiratori della maggioranza. E tuttavia Moneta, subito dopo la bocciatura del Consiglio, annunciò che sarebbe stata ripresentata tale e quale in questa legislatura. Boni però lo delude: “In giunta vale il principio della collegialità, decideremo tutti insieme; comunque è molto probabile che la norma sui sottotetti non verrà ripresentata, perché può scatenare un assalto al territorio”. E ancora: “(Sono pronto ad aprire un tavolo di confronto con tutti i rappresentanti degli enti locali, e anche con le minoranze: non voglio fare una legge di destra o di sinistra, ma solo gli interessi del nostro territorio, che va salvaguardato più di quanto lo sia ora”.

Il verde Monguzzi propone un patto con la maggioranza: “Possiamo lavorare insieme”

CARLO Monguzzi, capogruppo dei Verdi in Regione, vi aspettavate che il governo impugnasse di fronte alla Consulta la legge?

“No. È lo stesso governo che autorizza lo scempio di Villa Certosa per Berlusconi. Questa legge è uno dei fiori all’occhiello di Formigoni: questo è solo un capitolo dello scon tro tra il premier e il governatore”.

Anche l’opposizione aveva fatto gli stessi rilievi del governo?

“Anche noi avevamo contestato la possibilità per i proprietari di pagare parte degli oneri di urbanizzazione realizzando verde e servizi, e avevamo avversato la possibilità che fosse la Regione a tracciare da sola la mappatura dei rischi idrogeologici. Sui ripetitori dei cellulari, invece, chiediamo un piano regolatore che disciplini le antenne”.

Se la legge dovrà essere riscritta, quali sono i paletti che porrete?

“La pianificazione urbanistica deve tornare a essere materia della Regione e non solo del Comune: adesso c’è il rischio che ci sia troppo spazio per i signori del cemento. E poi ci sono le aree standard ridotte del 30 per cento. Ma a Boni chiediamo anche che non venga reintrodotto l’abuso dei sottotetti e che accolga la nostra richiesta di impedire i parcheggi sotterranei che prevedono il taglio degli alberi. Possiamo lavorare insieme e impedire che questa legge devasti il territorio”.

(alessia gallione)

La parola spesso usata è sprawl. Viene dal verbo inglese to sprawl che significa, più o meno, sdraiarsi in modo scomposto. È questa la forma che vanno assumendo le città, distendendosi sui territori che le circondano, invadendolo, sparpagliandovi piccoli e grandi insediamenti, per la maggior parte residenziali, oppure destinati al commercio o al divertimento o a tutte queste cose insieme. La trasformazione è in atto da vari decenni - qualcuno dice uno, qualcuno si spinge a due, qualcun altro azzarda tre. Ma sul fatto che ormai la città stia perdendo la sua immagine di struttura compatta concordano urbanisti e sociologi, economisti e geografi. Dividendosi, semmai, sul giudizio: è un fenomeno incontenibile oppure vi si può porre rimedio? Migliora la vita di una città e dei suoi abitanti oppure ne accentua l’affanno? E cosa ne sarà delle campagne, verranno urbanizzate oppure distrutte? E dei paesaggi?

Gli studi si moltiplicano, ma per la prima volta si tenta un’indagine comparata che mette a confronto le analisi su un’area vasta, quella dell’Europa meridionale. Nasce così L’esplosione della città, che è il titolo di un volume (edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna) e di una mostra in corso a Bologna, curati da Francesco Indovina, professore di Urbanistica a Venezia, e da Laura Fregolent, Michelangelo Savino, Alessandro Delpiano e Marco Guerzoni. Le aree soggette a verifica, da parte di una quindicina di urbanisti, sono quelle di Barcellona, Madrid, Valencia e Donostia Bayonne in Spagna; di Lisbona e Porto in Portogallo; di Marsiglia e Montpellier in Francia; e di Bologna, Genova, Milano, Napoli e del Veneto in Italia.

La città si sfascia, deborda. Però negli ultimi tempi si sarebbe verificato un fenomeno non proprio in controtendenza, ma comunque diverso. È lo stesso Indovina che lo segnala, dopo essere stato lui, almeno in Italia, fra i primi a individuare lo sprawl (risale al 1990 il suo libro La città diffusa). Secondo l’urbanista, accanto alla dispersione si sta attuando una specie di "metropolizzazione del territorio". Detto in altri termini: i pezzi di città che si disseminano fuori dal perimetro urbano consolidato, fuori anche dalle periferie sorte negli anni Sessanta e Settanta, tendono a riaggregarsi fra loro, i frammenti mirano a ricomporsi, a fare città di città. Spiega Indovina: «Questa metropolizzazione del territorio ha il potere di riprodurre la città. Estremizzando: di salvarla. Perché preserva in una situazione nuova un contesto di scambi non solo economici, ma anche i luoghi dove si creano continuamente i meticciati culturali, si moltiplicano le relazioni sociali, si manifestano le contraddizioni. In questo modo si rinnova la città come nicchia ecologica della specie umana».

Queste trasformazioni risponderebbero a forti pulsioni culturali e sociali. Mentre la struttura compatta, continua Indovina, «costituisce la rappresentazione di un mondo definito, quello che si identifica in una città classista e insieme corporativa, segmentata e disgiunta, difensiva e aggressiva», la città diffusa e che tenta di ricomporsi «dà corpo a una concezione caratterizzata dal problema dell’integrazione».

Fra le cause della dispersione Indovina segnala questioni economiche e di fisionomia produttiva (il passaggio dalla grande industria a una rete di piccole e medie imprese più diffuse e collegate attraverso le reti informatiche). Ma anche i nuovi stili di vita: la spesa nei grandi centri commerciali, sempre più specializzati (fra gli ultimi parti le cittadelle dell’outlet, dove si vendono i vestiti firmati ma a minor prezzo, e che talvolta simulano nell’architettura i centri storici rinascimentali), e il tempo libero nei mastodonti del divertimento che inglobano multisale, pizzerie, paninoteche e sale giochi. Inoltre spingono fuori dalle mura tradizionali di una città le regole della rendita, per cui i centri urbani si svuotano di residenti a vantaggio di uffici, banche, studi professionali, i soli in grado di sostenere alti costi di affitto e di acquisto (secondo Indovina, è soprattutto il ceto medio a essere allontanato dalla città, ceto medio che si trasferisce o nelle villette unifamiliari oppure nei grandi quartieri costruiti dove una volta erano terreni agricoli).

Sociologi e urbanisti discutono da tempo. E se c’è chi, come Indovina, intravede in questi processi, se ben governati, il tentativo di ricostruire la dimensione di una città, altri hanno posizioni più critiche. «Compattezza, mixitè, vicinanza, riconoscibilità, confine: mi sembrano questi gli attributi necessari della città in quanto tale», sintetizza Edoardo Salzano, fino a qualche anno fa preside della facoltà di Pianificazione a Venezia, che sottolinea come «in alcuni paesi europei e perfino in qualche Stato americano, l’obiettivo politico (e l’urbanistica è politica) è arrestare il fenomeno».

Sebbene molto diverse fra loro, tutte le città prese in esame dal gruppo di studiosi coordinati da Indovina tendono a dilagare nel territorio che le circonda. Accade a Milano o nel napoletano, dove un piano elaborato dalla Provincia è arrivato ad autorizzare, secondo i calcoli compiuti da un agronomo, Antonio Di Gennaro, la trasformazione di 25 mila ettari sui 60 mila rimanenti in una zona già esausta, fra le più urbanizzate del pianeta. Accade nel Veneto, dove sono sparite molte tracce del paesaggio agrario, il paesaggio delle tele di Cima da Conegliano, sostituito da una melassa di costruzioni che ha saturato tutto lo spazio, determinando anche il rallentamento dei ritmi di crescita economica di un’area molto dinamica. Ma accade anche a Marsiglia o a Barcellona, come segnala Antonio Font, che insieme a Indovina e a Nuno Portas forma il comitato scientifico dello studio e della mostra. Secondo Font, l’immagine di Barcellona è legata alla città ottocentesca, ma esiste una "ciutat de ciutats", una Barcellona sconosciuta persino agli spagnoli che si estende per cento chilometri da Foix a Tordera, protendendosi verso l’interno per trenta chilometri dalla costa fino ai monti della Serralada Pre-litoral. È una Barcellona che si è formata dalla seconda metà degli anni Settanta, spinta da vari motori e che, sebbene abbia molto investito in reti di trasporto collettivo, si trova comunque a soffrire: Font cita un irrazionale uso del suolo, la congestione del traffico, un progressivo degrado dell’ambiente, con la distruzione di molte aree naturali.

Nel 2001 si contavano in Italia sette milioni e mezzo di case unifamiliari, su un totale di venticinque milioni di case. Ma ogni anno ben più della metà delle case che si costruiscono sono di quel tipo. Speculare al fenomeno delle campagne che si urbanizzano è l’abbandono della città da parte di residenti. Secondo l’urbanista Paolo Berdini, l’insieme dei quartieri storici di Roma era popolato, nel 1971, da 1.400.000 abitanti. Nel 2003 erano 970.000. Non si svuotano solo le zone del centro antico, ma anche i rioni novecenteschi: il quartiere Trieste passa da 92.000 a 65.000 abitanti, Ostiense da 101.000 a 69.000. Cosa diventano le case un tempo abitate da famiglie? Per lo più uffici. Annota Berdini: «Un semplice conteggio ci dice che se una famiglia possedeva una o al massimo due macchine, lo stesso appartamento occupato da un ufficio richiama un numero di macchine due o tre volte superiore». Ecco una delle cause della congestione.

Lo sprawl porta con sé costi elevati. Indovina segnala l’alto consumo di energia: una casa isolata ne ha molto più bisogno per riscaldarsi rispetto a una casa in un condominio. E poi crescono i costi per spostarsi, perché caratteristica della città diffusa è il fiume di macchine che ogni mattina raggiunge il centro della città, e la sera scorre verso l’immenso territorio urbanizzato. Più macchine significa più inquinamento, più tempo trascorso nella solitudine della propria auto. Guido Martinotti, sociologo urbano, parla di "meta-city" di città-oltre e segnala anche i problemi politici: chi governa queste aree? Basta il Comune, la Regione oppure bisogna pensare ad altre istituzioni? In attesa delle quali comanda chi questi insediamenti li ha disegnati e costruiti.

Uno studio rigoroso degli effetti di una città che si dilata lo hanno compiuto tre urbanisti milanesi, Roberto Camagni, Maria Cristina Gibelli e Paolo Rigamonti, in un libro intitolato I costi collettivi della città dispersa (Alinea, 2002). Al primo posto figura il consumo di suolo agricolo, una risorsa non riproducibile. Ma non va sottovalutato il costo sociale, quello che si può chiamare la perdita di un "effetto città", una forma nuova di segregazione e di isolamento. Molto nette sono le conclusioni di Salzano: «Tutte le analisi confermano che la spalmatura urbana è figlia della sregolatezza, dell’anarchia, dell’individualismo. Una realtà con questo genoma non può essere definita città. E infatti non lo è, è il luogo della dissipazione delle risorse territoriali, ambientali, energetiche, finanziarie. Occorreranno sforzi generosi, investimenti ingentissimi, trasformazioni radicali per renderle realtà pienamente urbane».

Titolo originale: Too tall and too close for comfort – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Edifici sviluppati in altezza continuano a spuntare senza sosta nelle principali città della Cina, iniziando a sollevare diffuse preoccupazioni per la loro mole, e densità.In molti casi si considera lo sviluppo in altezza una risposta inevitabile alla crescente urbanizzazione e alla sempre più ristretta disponibilità di suoli; oltre che un simbolo di crescita economica e modernità.Ma i critici sostengono che questo bombardamento incontrollato di edifici sta distruggendo il paesaggio storico delle città, e si porta appresso i problemi collaterali della congestione da traffico, dell’alto dispendio energetico e dell’inquinamento, oltre alla forte vulnerabilità in caso di terremoti e incendi.A Pechino, una città con una storia di oltre 3.000 anni, un’invasione di grattacieli – compresi il discusso edificio di 230 metri della China Central Television, e la terza fase del World Trade Centre che raggiungerà i 330 – in pochi anni farà sembrare un nano lo Jingguang Centre coi suoi 209 metri, realizzato nei primi anni ’80 e per oltre dieci anni l’edificio più alto della città.Pechino si trova di fronte a un dilemma comune alle città di tutto il mondo: salvaguardare il proprio passato senza smettere di costruire il proprio futuro.”Non è saggio, a Pechino, costruire ancora sviluppando in altezza alla cieca, e la città ha bisogno di darsi nuove regole per limitare la realizzazione competitiva di grattacieli” ha sostenuto lo stimato urbanista Zhao Zhijing, secondo la stampa locale.

Mao Qizhi, professore di scienza delle costruzioni alla Tsinghua University, afferma che a Pechino si sono approvate parecchie limitazioni negli anni ’90, a contenere le altezze. Ad esempio, sono vietati gli edifici oltre i 60 metri nella città vecchia.”Ma queste norme non sono state rispettate rigorosamente a suo tempo, e sono già stati completati parecchi edifici di oltre 100 metri nella zona centrale” dice Mao.”Non possiamo semplicemente dire NO alla realizzazione di edifici alti; dopo tutto, i grattacieli sono ampiamente considerati come simboli importanti dello sviluppo della città” sostiene Mao. “Ma si devono avere una progettazione e un piano scientifico. A Shanghai e Guangzhou, i grattacieli pongono un rischio addizionale: la subsidenza. Nel primo caso, si imputa agli edifici troppo alti lo sprofondamento annuale della città di circa 5 centimetri”.Ma le autorità municipali di Shanghai, hanno risposto alla sfida di realizzare più spazi pubblici in centro. Sono riuscite a ridurre di 3.700.000 metri quadrati di superficie di pavimento (circa un sesto del totale) i 376 progetti approvati, aggiungendone più di 210.000 in spazi verdi, alla fine dello scorso anno.”Abbiamo discusso con i costruttori, chiedendo loro di ridurre altezze e densità dei vari progetti, o trasferirli verso zone meno popolate” ci dice Mao Jialiang, direttore dello Shanghai Urban Planning Administration Bureau. “I nuovi progetti vengono approvati solo quando altezze e densità sono rigorosamente conformi alle nostre prescrizioni”.Alle grandi altezze va imputato anche l’inquinamento atmosferico e lo spreco energetico, il peggioramento dell’ambiente, i danni per la salute, sostiene Cai Zhenyu, architetto a capo dello East China Architectural Design and Research Institute.

A Guangzhou, la densità generata dallo sviluppo in altezza ha attirato l’attenzione politica locale.È in corso di stesura una bozza di documento inteso a limitare l’altezza degli edifici in centro. In consiglio si afferma che gli edifici alti e densi hanno innescato un a serie di problemi ambientali e di traffico, che potrebbero aggravarsi se questi edifici continuano a spuntare come funghi.In primo luogo a causa di densità e altezza, si dice, la città ha sofferto lo smog per 144 giorni nel 2004, 98 nel 2003, 85 nel 2002. E lo smog fa guadagnare terreno alle malattie respiratorie.In un’intervista rilasciata ieri, Wang Yingchi, vicedirettore dello Guangzhou Urban Planning Design Research Institute, ha affermato che sarà la densità, più che la semplice altezza, dei volumi edificati, al centro dell’attenzione dell’urbanistica cittadina.A parere del vicedirettore, lo Stato prevede alcuni limiti alla densità degli edifici alti. Ma non esiste alcuna legge in tutta la nazione che possa contenere la semplice altezza.Se si fossero seguite correttamente le norme, aggiunge, non ci sarebbero ora tanti problemi.Le leggi statali stabiliscono che la distanza fra due edifici deve essere 0,7 volte il doppio dell’altezza, ovvero un fabbricato di 100 metri deve stare ad almeno 70 da un altro simile.Si propone che le amministrazioni locali prendano in considerazione incentivi o politiche preferenziali per i costruttori che propongono progetti a insediamento più diffuso.Un funzionario dell’ufficio urbanistica comunale, che vuole restare anonimo, ci ha riferito che a livello politico è stato compreso il problema, e che ora viene data più importanza alla pianificazione.Come esempio cita gli edifici della recente Science Town a est della città: nessuno è stato sviluppato in altezza, sono ben distanziati e lasciano spazio a fasce di verde.

Nota: qui il testo originale al sito China Daily (f.b.)

Parlare di urbanistica e suscitare diffuse passioni credo sia impossibile -una materia troppo specialistica - io vorrei solo suscitare indignazione, cosa forse più facile. Sto parlando della Legge regionale per il governo del territorio che andrà in votazione oggi o domani in Regione.

Prima di tutto bisogna cambiarne il titolo in: Norme per il sollecito rilascio ai privati dei permessi di costruire, se, per un minimo di correttezza semiotica, vogliamo almeno che il titolo rispecchi i contenuti prevalenti.

La legge in votazione è la tanto attesa legge urbanistica regionale, quella che dovrebbe regolare le trasformazioni del territorio lombardo e, tanto per capirci, definire quantità, forma e disposizione degli edifici, il loro formare città e paesi, le loro interconnessioni funzionali - strade, piazze, ponti, ferrovie, aeroporti e altro ancora - insieme agli spazi per una ragionevole qualità della vita: spazi pubblici, verde artificiale, acque, parchi naturali, monumenti e così via. Insomma tutte quelle cose che, di ritorno da un viaggio per il mondo ci fanno dire: “Ho visto una bella città, ci abiterei volentieri”. Oppure no.

Oggi per fare una legge urbanistica seria bisogna aver chiaro cosa si voglia, quale modello si abbia in mente. Per esempio: in Lombardia abbiamo scelto la città come un continuo indistinto di edificato o abbiamo scelto un territorio di municipalità distinte e ben connotate come vorrebbe la Lega?

Puntiamo ancora alla città metropolitana oppure no? Dietro ogni scelta sta un disegno politico che si trasforma in legislazione: nella futura legge regionale non ve n’è traccia salvo che s’intenda per disegno politico il non scegliere o meglio il far scegliere agli operatori immobiliari. Anche questa è una politica.

Una legge urbanistica moderna dovrebbe dare indicazioni per la soluzione dei problemi dell’oggi - inquinamento, pendolarismo, congestione del traffico, calamità naturali, il valore degli immobili, il tutto strettamente legato all’assetto del territorio - senza limitarsi, come fa la nuova legge regionale, ad elencare questi problemi.

Senza chiuderli nella ormai logora cornice dello “sviluppo sostenibile”: un vestito per tutte le stagioni. Sostenibile per chi? Per quelli che hanno firmato il protocollo di Kyoto o per gli amici di Bush, l’amico americano?

La nuova legge regionale in votazione si connota per due aspetti particolari: lo svuotamento dei poteri delle assemblee elettive - Consigli comunali, provinciali e regionali - a favore delle Giunte, veri arbitri dell’urbanistica ed al riparo dalle opposizioni, e il trionfo delle DIA (dichiarazione d’inizio attività) come strumento autorizzativo del costruire.

Chiunque potrà presentare un progetto - dal canile al grattacielo - e aspettare trenta giorni: se nessuno si fa vivo è fatta, al diavolo le commissioni edilizie! Anche per i parchi naturali dispiaceri in vista: gli interessi di Regione, Province e Comuni (le loro Giunte) prevarranno sempre. In tanti ormai riparliamo degli “energumeni del cemento armato” come li definiva Antonio Cederna: mai si sarebbero aspettati tempi così favorevoli.

Ci si domanda però se anche a loro giovi questa deregulation selvaggia: anche nella lotta tra energumeni qualche regola serve, un minimo di civiltà come i protocolli tra re. E ancora: a chi servono città brutte ed inabitabili dove i valori immobiliari tenderanno a scendere? Forse non ci pensano: troppi sono della teoria del mordi e fuggi. No: del vendi e fuggi. Se domani l’opposizione farà la sua ultima battaglia anche in piazza, non lasciamola sola.

Titolo originale George W. Bush and the Cities: The Damage Done and the Struggle Ahead – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il 29 aprile 2002, nel decimo anniversario dei fatti di Los Angeles, George W. Bush venne in città a parlare in un centro civico sponsorizzato da una chiesa, nell’epicentro della rivolta del 1992, South Los Angeles. Vista l’occasione, i giornalisti si aspettavano che il Presidenze annunciasse alla nazione una nuova iniziativa per i principali problemi urbani. Ma Bush era venuto a Los Angeles – in una breve pausa in un giro per la raccolta di fondi elettorali – solo a portare retorica.

“Sapete, viviamo in un grande paese” disse. “Sono fiero dell’America. Sono fiero del nostro paese. Sono fiero di quello che stiamo facendo. Oh, certo lo so che ci sono sacche di disperazione. Questo significa solo che dobbiamo lavorare più sodo. Significa che non possiamo mollare. Significa che dobbiamo estirparle con amore, compassione, modestia”.

Bush tentava di essere predicatore e storico: “Dalla violenza e dalle brutture nasce nuova speranza” diceva: il tutto in mezzo a un quartiere dove solo il 23 per cento degli edifici commerciali distrutti nella rivolta erano tornati attivi, dove esistevano 43.800 posti di lavoro in meno del 1992, e dove più di un terzo dei residenti viveva in povertà.

Il Presidente ci rifilava il suo programma urbano più visibile: incoraggiare le chiese a sostenere i loro programmi sociali, come il rifugio ai senza casa, le cucine per poveri, i consultori antidroga. Le sue proposte, ferma al Congresso per dissidi sui finanziamenti federali alle attività religiose, non aggiungevano risorse a questi pur validi sforzi, anche se solo di rattoppo: semplicemente chiedevano di riorientare fondi già stanziati. E a dire il vero, grazie ai suoi 1,3 biliardi di tagli fiscali, in massima parte per i ricchi, Bush aveva reso impossibile per Washington fornire qualsiasi aiuto alle città del paese, o ai poveri.

Non è difficile capire perché Bush presta così poca attenzione all’America urbana. Nel 2000, Al Gore aveva battuto Bush fra gli elettori urbani con un margine di 61 contro 35 per cento, aveva pareggiato virtualmente fra gli elettori suburbani con 47 contro 49 per cento, e aveva perso nelle aree rurali, con un ampio margine di 37 contro 59 per cento. Non sorprende, che Bush non veda ragione per formare la sua agenda politica orientata agli elettori urbani.

C’è un ritorno delle città?

Entrando nel ventunesimo secolo, alcuni esperti di problemi urbani e giornalisti proclamarono che era in corso un rinascimento urbano. I dati del censimento 2000 mostravano alcuni segni promettenti. Nel corso degli anni ’90 alcune delle principali città, fra cui New York e Chicago, avevano invertito il proprio lungo declino in termini di popolazione. Il tasso di criminalità nazionale era il più basso da dieci anni. Lo stesso valeva per il tasso di disoccupazione. La proprietà dell’abitazione fra ispanici e neri era aumentata, nonostante restasse un significativo gap rispetto ai bianchi. E nel 2000 anche il tasso di povertà a livello nazionale (11,3%) e quello delle grandic ittà (16,1%) era più basso di quanto non fosse stato per 25 anni. Anche la qualità dell’aria era migliorata, in molte aree urbane.

Ma queste tendenze positive non erano né definitive, né durature. Con l’economia nazionale volta al ribasso dopo il 2000, gli indicatori del rinascimento urbano (riduzione della povertà, del crimine, e del numero di famiglie non assicurate) invertirono tendenza. I miglioramenti in città degli anni ’90 erano dovuti in larga parte ad un’espansione economica nazionale senza precedenti, rafforzata da politiche federali che riducevano la disoccupazione, spronavano la produttività, elevavano i working poors al di sopra della povertà, orientavano gli investimenti verso le aree urbane con bassi redditi.

L’amministrazione Clinton con l’ampliamento dello Earned Income Tax Credit (EITC), un supplemento di salario per gli working poors, aveva aiutato particolarmente gli abitanti delle città e dei sobborghi più interni. Nello stesso modo avevano operato gli sforzi di Clinton per promuovere le Community Development Corporations (CDC). Queste entità non-profit hanno costruito la maggior parte delle case a basso costo dello scorso decennio, ma il taglio dei fondi federali per l’abitazione ora fa sì che possano avere solo un effetto marginale sui progressi delle inner cities americane.

La condizione urbana negli anni di Bush

Come Presidente, Bush aveva tre priorità politiche: tagliare le tasse, specie ai più ricchi, ridurre le norme di regolazione sulle attività economiche; aumentare la spesa militare. Con una maggioranza repubblicana al Congresso, Bush è stato in grado di raggiungere tutti e tre gli obiettivi. L’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001 ha aiutato a invertire il calo di popolarità di Bush, e ha reso molto più facile per lui convincere i democratici a votare un’impennata delle spese per la difesa, invadere l’Afghanistan e l’Iraq, appropriarsi di fondi per una interna “guerra al terrorismo”. Bush ha ereditato un attivo di bilancio federale da Clinton, ma la combinazione di enormi tagli fiscali e aumento delle spese militari ha portato a un deficit record, lasciando poche e discrezionali risorse per programmi sociali o anti-povertà. L’iniziale sostegno pubblico per la concentrazione di Bush sulla guerra e il terrorismo, ha anche limitato la volontà dei democratici di mettere in discussione il suo modo di gestire la crisi economica.

Alla fine della scorsa recessione, nel marzo 1991, il paese si era incamminato in nove anni filati di crescita dei posti di lavoro. Al contrario, la cosiddetta “recessione di Bush” è terminata nel novembre 2001, ma nei successivi due e più anni il paese ha sperimentato quello che alcuni economisti chiamano “ripresa senza lavoro”, con le imprese americane che esportano all’esterno un numero crescente di impieghi sia operai che amministrativi. Nei primi tre anni di presidenza Bush, il tasso di disoccupazione è incrementato da 4 al 6 per cento, aggiungendo più di 3 milioni di persone ai ranghi dei senza lavoro. La quantità di persone senza impiego per più di sei mesi si è raddoppiata. Il reddito medio familiare è precipitato di 500 dollari fra il 2000 e il 2003. Il tasso nazionale di povertà è salito dall’11,3% al 12,5%; altri 4,8 milioni di americani sono caduti in povertà e il totale ha raggiunto i 36 milioni nel 2003.

Al 2003, vivevano tanti poveri nei suburbi (13,8 milioni, il 38,5%) quanti nelle città (14,6 milioni, il 40,5%). La suburbanizzazione della povertà potrebbe essere una buona notizia se queste famiglie vivessero in suburbi a predominanza di ceto medio, con buone scuole. Ma la maggior parte dei poveri suburbani vive in comunità a rischio, attraversate da problemi un tempo tipici delle grandi città: crimine, fame, problemi dei senza casa, scuole e servizi pubblici inadeguati, crisi fiscali croniche.

Gli anni di Bush vedono una continua consunzione della rete di sicurezza sociale. Il numero di americani privi di assicurazione malattie è salito da 39,8 milioni a 45 (15,6% della popolazione). Alcune delle peggiori previsioni sui programmi di riforma del welfare di Clinton si sonoa vverate negli anni di Bush. Robert Reich, ministro del lavoro di Clinton, aveva avvertito che “[quando] la disoccupazione comicia a risalire, c’è una lunga fila di persone che avrà dei problemi, perché abbiamo tolto la rete di protezione”. Per esempio, la proporzione di famiglie che escono dall’assistenza ma non trovano lavoro è salita dal 50% del 1999 al 58% del 2002. Il numero di chi lo riceve ma resta povero è aumentato.

Non appena Bush entrò in carica tradì la sua promessa elettorale di governare come “conservatore compassionevole”. La sua iniziativa “urbana” più simbolica fu un piano per riorientare fondi federali per programmi sociali come rifugi per i senzatetto, banche del cibo e programmi di recupero per i tossicodipendenti, verso enti sponsorizzati da organizzazioni di “fede”. Il piano divenne pubblico quando John Dilulio, il politologo conservatore ingaggiato da Bush a sviluppare il programma a base religiosa, fece arrivare una lettera a Esquire che criticava il Presidente e i suoi consiglieri per la loro “mancanza di conoscenze politiche di base, e lo scarso interesse a saperne di più” sui problemi urbani, e osservava che “c’erano solo un paio di persone alla Casa Bianca che si occupavano un po’ di analisi e sostanza politica”.

Bush si costruì un consenso bi-partisan al Congresso per far approvare il “No Child Left Behind Act,” che chiedeva alle scuole locali di aumentare le verifiche degli alunni e di redigere un rapporto annuale sui loro progressi. Gli scopi di chiarati erano di migliorare i risultati degli studenti (in particolare nelle inner cities e nelle scuole dei quartieri di minoranze) e aumentare le medie, compresa l’assunzione di insegnanti più qualificati. Gli esperti di istruzione stimavano che per le scuole a livello nazionale sarebbero stati necessari almeno 84 miliardi di dollari per adeguarsi ai nuovi standards federali, ma Bush chiese al Congresso soltanto 1 miliardo in più. Senza fondi adeguati, i sistemi locali non potevano assumere più insegnanti, ridurre la dimensione delle classi, o fornire agli insegnanti esistenti un addestramento aggiuntivo. Le scuole delle inner cities, quelle dove era più probabile ci fossero studenti con basse prestazioni ma anche meno risorse per aumentare insegnanti o strutture, sarebbero state le più colpite dalla nuova legge.

L’abitazione per i poveri compare a malapena sugli schermi radar di Bush. Nei suoi primi tre anni da presidente ha mantenuto il bilancio dello Housing and Urban Development più o meno identico, ma nel 2004 ha proposto grossi tagli alla sezione 8 del Buoni Casa, eliminando 250.000 buoni per il 2005 e 600.000 entro il 2009: un taglio del 30%. Gli inquilini a basso reddito si troveranno di fronte a incrementi di affitto di circa 2.000 dollari l’anno. Nel maggio 2004, testimoniando di fronte al Congresso per giustificare questi tagli, il responsabile dello HUD Alphonso Jackson ha affermato che “essere poveri è uno stato d’animo, non una condizione”. Questo ha fatto infuriare parecchi membri del comitato, compreso Michael Capuano (democratico del Massachusetts), che ha risposto a Jackson, “A quanto pare lei non conosce nessuno che ha di fronte lo sfratto o che non è in grado di pagare l’affitto”. La dichiarazione di Jackson ha rivelato in modo stupido il vero punto di vista dell’amministrazione sulla povertà, che sarebbe dovuta principalmente a debolezza di carattere dei poveri.

Sotto Bush, affitti e prezzi delle case sono aumentati più in fretta dei redditi. Nel 2000, la “ housing wage” nazionale (la quota che chi lavora quaranta ore settimanali deve guadagnare per pagarsi un appartamento a due stanze medio in una certa area) era di 12,47 dollari; nel 2003 era di 15,21, e molto più alta in parecchie città. In generale, la percentuale dell’affitto sul reddito è salita dal 26,5% del 2000 al 29% del 2003. La quota di proprietà della casa è salita al 68,3% nel 2003, ma molti proprietari di ceto operaio hanno scoperto che l’ american dream era un po’ sfuggente.

Negli anni di Bush, il disagio economico nazionale, compresa la spirale del deficit federale, ha determinato una devastazione fiscale negli stati e nelle città. Governatori e sindaci, anche repubblicani, lamentano che Washington li sta mettendo nei guai. Il costo schizzato alle stelle dell’assistenza sanitaria ha logorato la capacità degli stati di provvedere alle proprie quote di Medicaid. I governatori sono stati obbligati a tagliare i finanziamenti sanitari, per le scuole, i trasporti e altri servizi base. Né potevano sperare di affrontare i nuovi costi del welfare-to-work federale perché la disoccupazione crescente rendeva quasi impossibile trovare lavoro ad ex assegnatari di sussidi. I funzionari amministrativi delle città, di fronte alla caduta dei sostegni statali e federali, non avevano altra scelta se non quella di tagliare servizi essenziali, come la sicurezza pubblica, le biblioteche, la manutenzione stradale e le scuole pubbliche.

Il trauma fiscale delle città si è poi mescolato al più costoso programma federale dell’amministrazione Bush: adeguarsi alle iniziative di “lotta al terrorismo” e “sicurezza interna” dopo l’11 settembre. Il governo federale chiede alle città di aumentare esponenzialmente le misure di sicurezza negli aeroporti, nei porti, alle manifestazioni sportive, di migliorare la preparazione all’emergenza connessa ai sistemi idrici, ai numeri di pronto intervento, salute e sicurezza collettiva, ma non fornisce alle municipalità fondi adeguati per acquisire strutture o assumere e formare personale. Le città hanno speso 70 milioni di dollari la settimana solo per adeguarsi agli “allarmi arancioni” di minacce emanati dal Department of Homeland Security. C’è voluto un anno e mezzo dopo l’11 settembre all’amministrazione Bush e al Congresso per varare le norme che destinano a stati e città i finanziamenti per migliorare la sicurezza negli aeroporti e attuare altre misure, ma ancora un anno dopo poche città avevano effettivamente ricevuto i fondi promessi. In più, l’amministrazione Bush ha cambiato la formula per distribuire i finanziamenti per la sicurezza interna a danno delle città dove la minaccia è maggiore, e a favore di comunità meno in pericolo (e, per caso, più Repubblicane). Nel 2003, lo Wyoming ha ricevuto 61 dollari pro capite in aiuti federali alla sicurezza interna, mentre la California ne ha avuti solo 14 e New York City meno di 25.

Per ironia, la tragedia dell’11 settembre ha ricordato ai newyorkesi e a tutti gli americani quanto dipendevano dal governo, non solo nelle emergenze, ma anche in tempi normali. Anche chi di solito fa obiezione alle “grosse spese” governative e agli aiuti per le città ha riconosciuto che Washington aveva la responsabilità di aiutare New York City a riprendersi e ricostruire. In più, a partire da quel momento gli eroi nazionali sono diventati la polizia, i pompieri, le squadre di emergenza, gli autisti delle ambulanze, il personale ospedaliero, gli esperti di salute pubblica e altri funzionari il cui coraggio, dedizione e compassione hanno aiutato la gente ad affrontare una delle peggiori tragedie della storia nazionale.

Con un ritardo di qualche giorno, Bush arrivò sulla scena. Con il sindaco Rudy Giuliani al fianco, Bush promise di aiutare abitanti, lavoratori e imprese di New York City a ricostruire e riprendere dal caos economico. Si impegnò per più di 21 miliardi di dollari per sostenere la città, ma due anni dopo la tragedia, qualche funzionario si lamentava di quanto l’amministrazione fosse lenta a destinare i fondi. All’epoca in cui si tenne la convenzione Repubblicana di New York nell’agosto 2004, la città aveva ricevuto meno della metà dei fondi promessi da Bush.

L’amministrazione Bush ha dedicato più risorse e attenzioni alla ricostruzione dell’Iraq che non a quella delle città americane. Ha fallito in entrambi i casi: in Iraq per incompetenza, negli USA per mancanza di interesse e impegno.

Un’agenda di riforme per le Città

Su molti fronti, l’amministrazione Bush è il regime più conservatore dell’ultimo secolo. Negli anni di Bush, attivisti politici sui temi urbani e militanti per le riforme hanno avuto poco successo a livello federale. Con il Congresso in mani repubblicane, c’era ben poco da fare per i progressisti salvo tentare di bloccare le cose peggiori: l’invasione e occupazione dell’Iraq, il Patriot Act e altre limitazioni delle libertà civili, lo smantellamento delle leggi federali a favore dei consumatori, dell’ambiente, dei lavoratori, la distruzione dei programmi per la povertà, la comunella col capitalismo, gli scandali delle grandi imprese, le riduzioni fiscali per i ricchi. Ci si è dovuti accontentare di piccole vittorie, come il blocco dei tentativi di Bush di ridurre i compensi per gli straordinari a milioni di lavoratori.

Esiste comunque un’azione crescente a livello locale per le politiche urbane. L’esempio più radicale è il crescente numero di amministrazioni (ora sono più di 100) che hanno adottato norme per un salario di sopravvivenza, a testimoniare l’alleanza fra sindacati, organizzazioni di base, e gruppi religiosi emersa nello scorso decennio. Il movimento per gli investimenti nelle città ha avuto un ruolo di punta nel formare un’alleanza di base diffusa, a fermare le banche dal mettere in rosso il bilancio dei quartieri e lanciarsi in operazioni predatorie. In alcune città, gli attivisti dell’ housing hanno unito le forze coi sindacati e altri gruppi per favorire norme di zoning che inserissero le case popolari, e finanziamenti municipali agevolati a questo scopo, come il fondo annuale di 100 milioni a Los Angeles.

La battaglie a livello locale (per esempio, sul miglioramento delle condizioni abitative, la sindacalizzazione dei lavoratori a basso reddito nei servizi e piccola industria, la resistenza alle operazioni predatorie immobiliari delle banche, il miglioramento delle scuole, le lotte contro i rischi ambientali, lo sviluppo dei trasporti pubblici) possono vincere in termini di miglioramenti della vita quotidiana. Ma i progressisti sanno che non possiamo davvero risolvere i problemi urbani nazionali senza cambiamenti nelle politiche federali. Per combattere alla pari nelle campagne sindacali dobbiamo poter cambiare le ingiuste leggi sul lavoro. Per migliorare le condizioni dell’armata crescente degli working poor dobbiamo aumentare il salario minimo federale e ampliare la partecipazione allo EITC. Per fornire di adeguate risorse i programmi per la casa a poveri e famiglie di classe operaia, abbiamo bisogno di un National Housing Trust Fund o di altri strumenti legislativi che aumentino i sostegni federali. Per affrontare la crisi nazionale dell’assistenza sanitaria abbiamo bisogno di qualche forma di assicurazione sanitaria universale. Per migliorare le scuole pubbliche, specialmente quelle che si rivolgono ai bambini più poveri, dobbiamo aumentare i finanziamenti federali per classi più piccole, insegnanti all’altezza del compito, libri e strutture sufficienti. Per riorientare gli investimenti privati sulle città e i sobborghi più consolidati, dobbiamo mettere a disposizione fondi sufficienti alla bonifica dei siti urbani ex industriali. Per affrontare il problema della crescente congestione da traffico ci vogliono soldi federali per migliorare i trasporti pubblici di ogni tipo, e leggi federali per limitare le esenzioni fiscali e gli altri incentivi che favoriscono lo sprawl suburbano e l’insediamento a macchie di leopardo [ leapfrog] nelle zone più esterne delle aree metropolitane.

I progressisti stanno riconoscendo sempre più che qualunque sforzo per affrontare la crisi urbana nazionale deve formarsi su un’alleanza con qualche parte del mondo suburbano. Il Congresso è dominato da eletti in distretti suburbani, e gli abitanti del suburbio rappresentano la maggioranza relativa degli elettori. E allora i pezzi costitutivi di un efficace movimento progressista oggi cominciano dalle città e si muovono verso l’esterno, verso i sobborghi operai e quelli di ceto medio liberal. Consapevoli di questo fatto, i sindacati, gruppi come ACORN, Gamaliel Foundation e Industrial Areas Foundation, organizzazioni ambientaliste, attivisti di area religiosa e funzionari pubblici, hanno cominciato a lavorare sui sobborghi operai ai margini delle città. Sanno che devono lavorare insieme a scala regionale, per limitare lo sprawl e la congestione da traffico, o per orientare lo sviluppo economico e dei posti di lavoro verso le aree di declino, anziché impegnarsi in una sanguinaria guerra tra poveri l’uno contro l’altro attirare gli investimenti.

Nel loro libro The Emerging Democratic Majority, John Judis e Ruy Teixeira mostrano come un numero crescente di professionisti di ceto medio che lavorano fuori dal mondo della grande impresa e abitano nei nuovi suburbi condividano un punto di vista progressista sulle politiche economiche e sociali, e possano essere collocati entro un’alleanza che punti ad un’economia più umana, a limitare lo sprawl, a rivitalizzare le città e ad espandere i programmi sociali come l’assicurazione sanitaria e l’assistenza per i bambini.

L’ambivalenza dell’amministrazione Clinton nel promuovere l’agenda urbana rifletteva le divisioni interne del Partito Democratico. I democratici prestano più attenzione alle città dei repubblicani, perché molti dei loro gruppi sostenitori ci vivono. I seggi più sicuri al Congresso sono quelli dei distretti urbani, che regolarmente eleggono democratici progressisti. Ma i numeri il giorno delle elezioni sono più bassi di quelli dei sobborghi ricchi, specie nelle consultazioni intermedie. Questo può danneggiare i democratici che si candidano a cariche più alte, non solo per la presidenza ma anche il Senato o la carica di Governatore.

Allo stesso tempo, molti democratici, specie quelli che rappresentano distretti suburbani, sono strettamente legati ai grandi interessi che si oppongono alla tassazione progressiva, alle politiche keynesiane di stimolo e alla spesa sociale, compresa quella per le abitazioni popolari.

La storia dell’ultimo secolo mostra che si fanno progressi quando ci si unisce per il cambiamento, costruendo un percorso continuo e solido di riforme, in modo tale che ciascuna vittoria si edifichi sulla base delle precedenti, e costituisca il presupposto di successive. Questo tipo di lavoro è lento e graduale, perché comporta l’organizzazione delle persone ad imparare pazientemente le capacità di leadership e costruzione del consenso organizzato. Richiede di saldare coalizioni che possano vincere le elezioni e poi promuovere politiche che mantengano viva l’alleanza.

Le organizzazioni di base fanno raramente cose clamorose. I mezzi di comunicazione raramente si interessano ai piccoli miracoli che accadono quando la gente comune si unisce e orienta la propria frustrazione e rabbia ad un’organizzazione solida, che ottiene miglioramenti nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nelle scuole. I media di solito sono più interessati nel teatrino della politica e nei confronti: quando si sciopera, quando gli attivisti urbani protestano o quando gente senza speranza ricorre alla violenza. Per questo, molto del migliore lavoro organizzativo dell’ultimo decennio – compresi gli sforzi dell’ultima elezione presidenziale – non è stato seguito dalla stampa principale.

I responsabili capiscono che la sconfitta di George Bush è una necessaria (anche se non sufficiente) precondizione per stabilire un’agenda sulle città e aree metropolitane d’America. Non è un caso se durante la campagna elettorale del 2004 molti, sindacati, gruppi di base, ambientalisti, femminili e il Partito Democratico hanno investito sforzi diffusi per la registrazione, per convincere gli elettori degli stati chiave e distretti per il Congresso in bilico ad andare a votare. In Florida, per esempio, l’ACORN ha collaborato ad una iniziativa di scala statale per innalzare il salario minimo, e sta registrando migliaia di residenti urbani, in maggioranza a basso reddito, per aumentare il numero di votanti il giorno delle elezioni.

Nessuno si aspetta che un’amministrazione Kerry sia la salvezza delle città americane, ma anche un democratico moderato alla Casa Bianca farà aperture a riforme progressiste impossibili negli anni di Bush. Egualmente importante, se gli elettori ridaranno la maggioranza Democratica sia alla Camera che al Senato, molte delle presidenze nelle commissioni chiave potranno essere alleate nella battaglia per le riforme. In questa elezione presidenziale, come in nessuna che abbiamo sperimentato in vita, è essenziale che il pericolo sia sconfitto, se vogliamo che un’agenda di riforme abbia ascolto.



Nota: il testo originale, insieme a molto altro, sul sito Planners Network (f.b.)

© 2024 Eddyburg