Titolo originale: Communities given helping hand with responsible rebuilding – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Gli abitanti del villaggio di Kirinda, nel sud-est dello Sri Lanka, hanno perso quasi tutto con lo tsunami dell’Ocenao Indiano. Ora un gruppo di architetti spera di trasformare questa piccolo comunità di pescatori in un modello per il lavoro di ricostruzione delle aree colpite dal cataclisma.
La paura principale, ci dice Cameron Sinclair di Architecture for Humanity, organizzazione con base a New York, è che i costruttiori senza far troppa attenzione tirino su strutture senza alcun piano, in luoghi pericolosi.
”Una volta effettuati i soccorsi e ristabilita la normalità, la gente inizierà a ricostruire” prosegue Sinclair “E lo scenario peggiore è quello di vedere blocchi di cemento apparire ovunque”.
Architecture for Humanity ha mandato una squadra di urbanisti, architetti, biologi e ambientalisti a Kirinda nell asperanza di aiutare la popolazione a ricostruire il villaggio in modo sicuro e sostenibile.
”La comunità giocherà da protagonista almeno al 50%” sottolinea Sinclair “ma per quanto riguarda le decisioni chiave di trasformazione, le prenderemo noi”. Il gruppo prevede di operare a Kirinda per tutto il 2005, e spera di iniziare i lavori principali di costruzione entro l’estate.
Parlare chiaro
Il governo dello Sri Lanka raccomanda che i villaggi sulla costa vengano ripristinati più all’interno. Ma questo non è quello che vogliono gli abitanti, e quindi gli architetti probabilmente seguiranno il punto di vista dei residenti in questo caso, dice Sinclair.
”Le comunità non si sposteranno di un centimetro” continua. “La gente vuole addirittura piantare tende esattamente dove stava la loro casa.
Ma comunque si tenterà di combattere la crescita di baracche di pescatori ammucchiate sulla linea di costa. Sinclair sottolinea come i villaggi vicini che avevano dune di sabbia, anziché edifici direttamente di fronte al mare, abbiano subito molti meno danni dall’onda mortale del 26 dicembre.
Gli architetti sono anche orientati a preservare gli elementi ambientali di Kirinda, ovvero la riserva per gli uccelli e le aree a parco nazionale sui lati del villaggio. Si prevede di orientare la ricostruzione all’uso di materiali e manodopera locale, edificando con legno e argilla, anziché in cemento
Una migliore capacità di recupero
Spesso è l’economia anziché l’urbanistica a determinare i modi di crescita delle città nei paesi in via di sviluppo, ci dice Zygi Lubkowski, ingegnere a Londra per Arup e presidente della Society for Earthquake and Civil Engineering Dynamics.
I villaggi di pescatori vivono del mare, e così le popolazioni finiscono per colonizzare la linea di costa.
Ma se la gente non vuole muoversi, deve diventare in qualche modo più capace di reagire a eventuali tsunami future.
Un modo per farlo, è che gli elementi infrastrutturali chiave come ospedali o stazioni di polizia siano collocati in zone protette, spiega Lubkowski. “Così quando, Dio non voglia, succederà ancora, l’aiuto sarà lì, nel momento del bisogno”.
Chi sovrintende ai lavori di ricostruzione deve anche essere consapevole di quanto le proprie azioni possano determinare altri disastri, come frane, continua Lubkowski. “Il modo più facile [di evitare alcuni effetti dello tsunami] è di tenere gli edifici più in alto, ma occorre verificare la stabilità dei pendii, specie quando è stata rimossa la vegetazione”.
L’isola di Hong Kong, per esempio, è stata resa instabile dalla eccessiva edificazione, ci racconta.
Per le comunità povere della regione colpita dalla tsunami dell’Oceano Indiano, la migliore difesa può essere la consapevolezza, conclude Lubkowski. Imparare r conoscere i segnali di avvertimento, avere un ben sperimentato piano di evacuazione, potrebbe salvare innumerevoli vite la prossima volta.
Nota: qui il testo originale e alcuni links al sito di Nature come quello con la descrizione e le immagini da Kirinda (f.b.)
La riforma urbanistica liberista è stata approvata dalla Camera dei deputati in un clima di rassegnazione, senza che la sinistra riformista abbia avuto la cultura politica per comprendere che non era un provvedimento «tecnico». Era invece l'ultimo tassello di un mosaico che il governo ha lucidamente perseguito in questi anni e che ha portato al più spettacolare spostamento di ricchezza verso la rendita speculativa che la recente storia italiana ricordi. Vediamo nell'ordine. Nel settembre 2001 il governo Berlusconi appena insediato licenzia il primo provvedimento noto come scudo fiscale finalizzato al rientro dei capitali illegalmente esportati all'estero. Quello stesso mese di settembre crollano le torri gemelle di New York e, conseguentemente, il mercato borsistico. Gran parte dei 70 mila miliardi di euro rientrati sulla base di quel provvedimento sono andati in investimenti immobiliari: da quell'anno i prezzi delle abitazioni hanno avuto un'impennata impressionante. E' appena il caso di rammentare che un articolo di quel provvedimento prevedeva addirittura il rientro di capitali liquidi senza l'obbligo della dimostrazione della provenienza: che la legge sia servita per il riciclaggio di denaro illecito è opinione purtroppo unanime.
Con lo scudo fiscale si sostiene la domanda: occorre dunque alimentare l'offerta. Sempre nel mese di settembre nasce il primo provvedimento che generalizza e rende sistematica la vendita del patrimonio pubblico. La legge sarà convertita nel novembre 2001 (n. 410) e immette sul mercato uno straordinario affare a prezzi inferiori a quelli reali. Quello stesso provvedimento presenta anche una «perla» che a distanza di qualche anno può essere ben compresa: afferma che questi immobili possono essere «valorizzati» d'intesa con i comuni. In altre parole, magazzini possono diventare case, abitazioni zone commerciali, a seconda delle convenienze di mercato, eliminando le regole urbanistiche. E mentre la finanza locale viene strozzata con quell'articolo si invogliano i comuni a derogare i piani regolatori: una parte della valorizzazione viene infatti destinata agli stessi comuni.
Ma c'era un altro ostacolo da superare. La fondamentale legge sugli standard urbanistici prevede che sia garantita una quantità di servizi per ciascun cittadino. Molti comuni hanno resistito a ignobili speculazioni invocando l'impossibilità di soddisfare l'aumento di standard connesso con i nuovi usi proposti. La legge Lupi, e cioè la recente riforma liberista dell'urbanistica approvata alla Camera, abolisce questa storica conquista democratica e rende gli standard facoltativi.
E infine l'ultima perla contenuta nel disegno di legge sulla competitività attualmente in discussione alla Camera. L'articolo 9, «Legge obiettivo sulle città» afferma (comma 5) che nelle città si può prevedere «l'incremento premiale dei diritti edificatori» e cioè un ulteriore aumento delle densità urbane. Sarebbero necessari ulteriori standard pubblici, ma sono stati aboliti dalla legge Lupi!
Come si vede dall'azione del governo Berlusconi emerge un quadro impressionante. Questi anni sono serviti per spianare la strada alla peggiore rendita speculativa. Il sistema produttivo nazionale versa in una crisi profonda senza che una sola idea di rilancio sia stata concretizzata, mentre per il comparto immobiliare sono stati costruiti provvedimenti su provvedimenti di rara efficacia. Non si può far finta di vedere questo disegno perverso e combatterlo aspramente per le conseguenze economiche e di potere che provoca. E' noto infatti che un gruppo di immobiliaristi (Coppola, Ricucci e Statuto) insieme al più blasonato Francesco Gaetano Caltagirone stanno dando la scalata al cielo: Banca nazionale del lavoro, Corriere della sera e Mediobanca. Il fatto che non siano finora riusciti nei loro intenti nulla toglie all'inaudita gravità della situazione, del fatto cioè che essi godano di impressionanti liquidità. Va sottolineato che questo gruppo di immobiliaristi si afferma a Roma dove il nuovo piano regolatore prevede la costruzione di oltre 60 milioni di metri cubi di cemento a fronte di una città che ha perduto 180 mila abitanti nel decennio 1991-2001. Una valanga di abitazioni private a costi impossibili, mentre l'emergenza abitativa scandisce la vita di molti che - come quei 180 mila - non sono stati ancora espulsi verso i comuni dell'area metropolitana.
L'urbanistica liberista produce un generale impoverimento di masse di persone e un arricchimento devastante di ristrettissimi gruppi speculativi. Il fatto che una parte dello schieramento progressista abbia appoggiato apertamente la legge Lupi, primo tra tutti l'Istituto nazionale di urbanistica, dimostra di quanto arduo sia il cammino dell'Unione per ricostruire una reale alternativa al liberismo.
L'allarme americano sulla fine del boom immobiliare arriva in Europa. Ma per l'Italia gli esperti frenano: fase «riflessiva», niente crolli. Ma qualche speculatore potrebbe restare col cerino in mano. Alberto Lunghini (Reddy's Group) lancia l'allarme sull'eccesso di nuove costruzioni: serviranno ancora tra 30 anni?
Alan Greenspan ha detto che potrebbe scoppiare, ma solo «per alcune zone». E dopo che il governatore della Federal reserve ha parlato, i proprietari di tutto il (nostro) mondo si sono uniti, non nella lotta ma nel dilemma: se scoppia negli Stati uniti, cosa succederà da noi? Parliamo della bolla immobiliare, spettro che turba i sonni non solo degli speculatori ma di tutti coloro che, da Sidney a Milano, da Londra a Stoccolma, da Montreal a Dublino, si sono avventurati per necessità o virtù nel più gigantesco affare degli ultimi anni: la compravendita degli immobili. Ne parla la comunità degli economisti, ne parlano gli analisti d'affari, ne parlano i giornali, dall' Economist a Libération che lunedì scorso ha posto la domanda in copertina: «la bolla sta per scoppiare»? In Italia, il numero delle compravendite sfiora ormai il milione (all'anno), l'ammontare dei mutui concessi dalle banche solo nell'ultimo anno è cresciuto del 24% e la percentuale di famiglie proprietarie di casa è sull'80%. Sono in tanti quindi che anche qui - a Milano come a Treviso come a Bari - appesi al verbo di Greenspan si chiedono come Libé: allora, scoppia o non scoppia?
L'Italia e gli altri
«Tranquilli, non scoppia», è l'indicazione che con maggiore o minore forza viene da tutti i centri indipendenti di valutazione del mecato immobiliare. Qualcuno però aggiunge un inquietante «per ora», altri dicono che comunque l'era dei prezzi pazzi volge al termine, altri ancora distinguono tra immobile e immobile, tra zona e zona. Il più ottimista dei vari osservatori è quello di Nomisma: il centro studi bolognese prevede che i prezzi degli immobili, che nel primo semestre dell'anno sono cresciuti del 4,5% nella media italiana, saliranno nella seconda metà del 2005 di un ulteriore 3%. Un ritmo inferiore a quello degli anni scorsi - basti pensare che in Italia dal `97 al 2005 il numero indice dei prezzi delle abitazioni è salito del 69% - , ma comunque superiore all'inflazione (almeno a quella ufficiale). «I timori sullo scoppio della bolla immobiliare posso capirli se riferiti ad altri paesi - spiega Luca Dondi, ricercatore di Nomisma - ma certo non per l'Italia. Qui siamo ancora indietro nel ciclo dei prezzi degli immobili e il quadro macroeconomico non dà elementi per pensare a cambiamenti bruschi». In effetti, a guardare le stime dell' Economist sull'andamento dei prezzi, per quanto incredibile possa sembrare, in altri paesi la febbre è stata molto più alta (v. grafico).
Dondi spiega cos'è una «bolla che scoppia»: un calo dei prezzi sensibile e rapido, come quello che si ebbe dopo il picco dei prezzi degli immobili raggiunto nel `91, quando - correva l'anno 1992 - i prezzi delle case scesero del 20% in un anno. Ma non vede per ora gli elementi chiave che potrebbero innescare lo stesso meccanismo: che sarebbero, una ripresa dell'economia e della borsa e un rialzo dei tassi di interesse, tutti eventi che farebbero tornare il risparmio nei lidi - per ora abbandonati - della borsa e dei titoli, facendo al tempo stesso scendere febbre e prezzi del mercato immobiliare. Come dire, il miglior alleato del caro-case è la recessione. Che negli Stati uniti è finita, da noi ancora no.
Aspettando il 2008
Ma non è l'unica differenza che separa la nostra bolla immobiliare da quella degli Stati uniti. La differenza fondamentale è un'altra e si chiama: finanza. «La finanziarizzazione del mercato degli immobili da loro è molto più spinta», dice Alberto Lunghini, amministratore delegato di Reddy's Group, società di consulenza immobiliare globale. Il che vuol dire che i mutui coprono spesso l'intero valore dell'immobile, vengono ricontrattati in corsa quando i tassi scendono o quando i prezzi degli immobili salgono; «e allo stesso modo le riduzioni dei prezzi hanno un impatto immediato e si allargano a macchia d'olio: i proprietari indebitati corrono subito a vendere, facendo scendere ancor più i prezzi», spiega Lunghini. Che comunque non vede lo «scoppio» nell'orizzonte immediato neanche per gli Stati uniti: «secondo le previsioni degli analisti più accreditati, non succederà prima del 2008».
Anche in Italia sono salite compravendite, prezzi e indebitamento. Ma - spiega Lunghini - il numero di compravendite annue si è semplicemente allineato agli standard dei grandi paesi occidentali, mentre la minore finanziarizzazione del mercato ci mette un po' al riparo da ondate di ribassi rapide e generali. Anche perché l'investimento in immobili resta ancora appetibile, dato che i risparmiatori, scottati dalla borsa e da avventure finanziarie molto recenti (Argentina, Parmalat, Cirio e quant'altro) difficilmente torneranno in massa e di corsa a Piazzaffari.
Tempi lunghi per vendere
Questo non vuol dire che la bolla continuerà a gonfiarsi: «Si allungheranno, anzi si sono già allungati, i tempi di vendita. I tassi di interesse saliranno. E dunque arriverà un momento riflessivo dei prezzi degli immobili, che per i casi più eclatanti della febbre immobiliare, come Cortina o Santa Margherita o alcune zone di Roma e Milano, potranno vedere riduzione anche sensibili». Ossia, i 10.000 euro al metro quadro, le follie di alcune zone per vip, potranno anche scendere a 9.000 o a 8.000. Ma per tutti gli altri non sono all'orizzonte, neanche quando arriverà qui da noi l'effetto-Usa, cali forti e generalizzati. «E per quella fascia di mercato che sta intorno ai 2.000 euro al metro quadro una compressione dei prezzi è impossibile, giacché si scenderebbe al di sotto di quello che è il costo di costruzione, il valore dei terreni più tutti gli oneri accessori», spiega Lunghini.
Insomma più che uno scoppio della bolla sarebbe all'orizzonte una fase un po' meno folle del mercato. Nella quale però chi ha partecipato alle precedenti follie potrebbe restare un po' bruciacchiato. «Certo alla fine qualcuno con il cerino in mano resta», dice Lunghini: ma è il cerino dello speculatore, ossia di chi delle plusvalenze da compravendita di immobili fa la sua professione. Sul punto tutti gli osservatori concordano: «Chi ha comprato la casa per viverci, attratto anche dal fatto che i tassi di interesse sui mutui erano bassi, non deve monetizzare l'investimento, anche qualora i prezzi scendessero non perderebbe molto», dice Dondi. Tutti costoro potranno però avere un effetto di impoverimento per altra via: se hanno comorato con mutui a tasso variabile, il rialzo dei tassi peserà sul loro bilancio familiare molto di più della svalutazione (piccola e virtuale) della casa. Concorda Lunghini, secondo il quale neanche il piccolo investitore che ha comprato un immobile per «metterlo a reddito» (affittarlo) corre grossi rischi. Il popolo dei neo-rentier - delle famiglie che hanno investito il patrimonio in seconde case, negozietti, garage e quant'altro: un 15-20% del totale delle compravendite - non sarà travolto dalla bolla. Chi rischia invece è il trader, soprattutto quello che non si accorge in tempo del momento in cui deve vendere.
In futuro troppe case
Ma la vita degli immobili non è fatta solo di previsioni, tassi di interesse, speculazioni, trading. Ci sono anche le case, in mattoni e cemento, e i terreni e i materiali e tutto il resto. Lunghini invita a guardare un po' al di là della fase e del dilemma sullo scoppio della bolla. A valutare, per esempio, gli effetti di lungo periodo della recente nuova espansione edilizia: i comuni hanno dato il via libera, i costruttori hanno ripreso a costruire alla grande. Interi quartieri sorgono intorno a Roma e a Milano ma anche in cittadine di provincia. Il mercato preme, le case nascono. Case nuove, che si vendono come il pane ma che restano comunque inaccessibili a tutte quelle fasce deboli che la bolla immobiliare ha buttato fuori dal mercato. «Il punto è: quante case ci sono? e quante case servono? Se è vero che andiamo a una riduzione della popolazione consistente tra 30-40 anni, nel giro di una generazione ci troveremo con un eccesso di offerta di immobili. E allora sì che i prezzi crolleranno». Lunghini, che di mestiere fa consulenza immobiliare internazionale per banche, società e grandi investitori, non è certo per una pianificazione sovietica delle nuove costruzioni: però - dice - «il mercato va indirizzato, frenato in alcuni casi e incentivato in altri: altrimenti tra pochi decenni potremmo trovarci di fronte a una situazione davvero difficile».
Nota: su Eddyburg, qualche tempo fa, anche l'articolo di Mike Davis sulla "bolla" americana e i suoi risvolti (f.b.)
Titolo originale: Capital vision for new city within a city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Alcuni fra i principali progettisti britannici stanno sviluppando un’ambiziosa proposta, per costruire una nuova “città grande come Leeds” entro la zona est di Londra.
Il gruppo coordinato da Lord Rogers, il principale consulente per l’architettura del sindaco di Londra, sta discutendo un piano che potrebbe trasformare alcuni tratti delle are più depresse del paese.
Potrebbero essere realizzati, nell’ambito di un’idea denominata City East, quartieri ad alta densità per circa 500.000 abitanti all’interno delle aree orientali di Londra, all’estremità occidentale del sistema Thames Gateway, entro i prossimi 25 anni.
Questa strategia evidenzia un chiaro spostamento, dato che si concentrerà su zone del Thames Gateway già in gran parte edificate, anziché su una rigenerazione estesa a scala regionale, secondo l’approccio sostenuto dal vice primo ministro, John Prescott. Gli urbanisti stanno già ricordando che i nuovi nuclei di popolazione dovranno essere collocati in aree dotate o dotabili di infrastrutture di trasporto per servirli.
Le aree individuate del Thames Gateway, che comprendono Greenwich, Charlton, Canary Wharf, Stratford e i Royal Docks, dovrebbero poter approfittare del prolungamento della linea East London e della metropolitana leggera dei Docklands, ma anche dei collegamenti secondari del Channel Tunnel e forse della CrossRail.
Il piano è emerso la scorsa settimana dopo un incontro del comitato di progetto internazionale della London Development Agency, che comprende Lord Rogers e gli architetti Lord Foster, Will Alsop, David Adjaye, Josep Acebillo, Sir Terry Farrell e Sir Peter Hall.
Lord Rogers, in una dichiarazione alla rivista Building Design ha affermato: “Questa zona è la parte occidentale del Thames Gateway, e il principale motivo per concentrarsi su di essa è la presenza dei trasporti pubblici. Dove esistono infrastrutture, si possono costruire parti di città come Islington o Notting Hill Gate, in termini di densità.
”Il fiume in questa zona è un magnifico spazio pubblico, ma sinora ne abbiamo fatto un uso orribile”.
Ha aggiunto che è importante affrontare il problema con pazienza e metodo. Esistono progetti per grandi insediamenti più a est, come quello per 11.000 case a Barking Riverside, con una buona localizzazione ma meno infrastrutture di trasporto.
”Non si può far tutto contemporaneamente, e in qualche modo dobbiamo aspettare [a costruire più a est], altrimenti la cosa non sarebbe sostenibile”.
Lord Rogers ha dichiarato al Guardian: “Non si tratta di sprawl suburbano. Molte parti saranno a densità elevate, molto superiori a quelle britanniche. Non credo che nessuno abbia problemi sulla possibilità di collocare abitanti qui. La cosa importante è che esiste il trasporto pubblico”.
Ha aggiunto che il Canary Wharf è stato un buon esempio di cosa è possibile realizzare. “Non sto pensando a una città di uffici o in stile americano, ma si possono ottenere vedute fantastiche, valorizzare al massimo il fiume e avere grande vitalità”.
Anche se è auspicabile un grande piano per lo East End, ci saranno problemi per le grandi densità pensate, e difficoltà per collocare nuovi insediamenti tra i vecchi.
Neil Jameson rappresentante dello umbrella group della zona orientale di Londra, Telco, dice: “Siamo favorevoli a nuovi insediamenti nella nostra zona, se non significheranno spostamenti degli attuali abitanti, e se ci porteranno occasioni di lavoro ben pagato e opportunità di miglioramento. È estremamente difficile costruire artificialmente quartieri sostenibili”.
E aggiunge: “Alcuni degli interventi nei Docklands hanno comportato lo spostamento e la distruzione di intere comunità, producendo divisioni fra vecchi abitanti e nuovi arrivati. Speriamo che non si ripetano questi errori”.
Bob Neill, capogruppo dei Tories al Consiglio di Londra, sostiene che il piano è troppo ambizioso. “Non tutti vogliono vivere con le densità di Islington. È urbanistica da cappuccino country”.
Il sindaco di Londra è un grande sostenitore delle alte densità, ed è determinato a sfruttare il potenziale delle localizzazioni urbane anziché consentire una diffusione suburbana di abitanti e abitazioni. Ha anche parlato di “spostare l’asse del benessere da ovest a est”.
La scorsa settimana la London Development Authority ha calcolato che potrebbero rendersi disponibili per l’edificazione 50 ettari di terreni già urbanizzati [ brownfields] l’anno, offrendo spazio per migliaia di residenze e posti di lavoro. Le aree già possedute nel Thames Gateway potebbero contenere 25.000 abitazioni.
Nota: il testo originale sul sito del Guardian (f.b.)
L’Italia non è più una Repubblica fondata sul lavoro, è una Repubblica basata sui patrimoni. La quota di reddito nazionale che va al lavoro si è ridotta negli ultimi 20 anni dal 50 al 40% e quella della rendita è aumentata dal 20 al 30% con i profitti oscillanti intorno al 30%. E’ questa la principale causa del declino che il recente check up sulla competitività elaborato dal Centro studi della Confindustria ha evidenziato ad abundantiam: energia e servizi più cari d’Europa, istruzione e ricerca più povere, unico Paese europeo che perde quota di commercio mondiale (dal 4,8% al 3,8% dal 1996 al 2004), unico paese al mondo con il “paradosso dei laureati”: pur avendone come la Turchia e la metà di Spagna, Francie e Germania, i nostri laureati hanno tassi di disoccupazione relativa più alti dei loro colleghi. E la cosa si spiega con la fuga dall’innovazione e dal rischio: per fare aerei o marchant bank ci vogliono più laureati che per fare scarpe o banche di credito ordinario.
Non è che in Italia manchino creatività e innovazione, infatti i confronti settoriali mostrano quote di laureati e spese di ricerca delle nostre aziende comparabili, solo che in elettronica le spese sono il 20% del fatturato, mentre nel tessile abbigliamento sono il 2 per cento. E l’Italia di oggi, che ha meno industria e servizi innovativi fa complessivamente meno ricerca e innovazione e impiega meno laureati. Il filo rosso che unisce le negative performance dell’azienda Italia è sicuramente legato al prevalere della rendita sul profitto. “Se la rendita prevale sul profitto la società si ammala e le forze dello sviluppo declinano a vantaggio di interessi parassitari” diceva Paolo Baffi, indimenticato grande governatore della Banca d’Italia.
Purtroppo, a partire dagli anni 80, la risposta alle grandi crisi petrolifere che accelerarono la deindustrializzazione nel mondo è stata in Italia diversa da quella di altri Paesi industrializzati, “perché l’acqua si dirige dove trova il varco”, secondo una vecchia legge valida non solo in fisica. E’ anche il frutto avvelenato delle privatizzazioni senza liberalizzazioni, previsto agli inizi degli anni 90 da Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca: “Le grandi famiglie migreranno dalla manifatturiera ai servizi, dalla produzione di automobili, pneumatici, macchine d’ufficio e pc alla gestione delle autostrade, dei telefoni, dell’energia elettrica e del gas naturale”. La profezia di Cuccia purtroppo si è avverata con esiti molto negativi per il paese.
Perché in Italia più che altrove c’è stata questa fuga dal profitto alla rendita? Che cosa bisogna fare per “piegare l’acqua” su percorsi diversi, spingere i capitali verso impieghi più innovativi e rischiosi della valorizzazione di aree fabbricabili?
Qualche precisazione metodologica è necessaria. La differenza tra profitti e rendite è tutta nel contesto in cui si realizzano: i profitti si realizzano in un mercato competitivo quasi perfetto, le rendite si realizzano in un mercato molto imperfetto e poco competitivo, come quello immobiliare o degli ordini professionali chiusi e dei pedaggi autostradali e delle tariffe delle utilità. L’Italia non ha mai completato la rivoluzione liberale. Di più, mentre le rendite finanziarie personali sono tassate con aliquota del 12,5% gli utili d’impresa sono tassati con aliquota del 33%, che, aggiunta all’Irap porta la tassazione al 50% sugli utili, che è un record mondiale negativo. Lo sviluppo di un paese è fatto da imprese, lavoro e innovazione. Se le imprese sono supertassate così come il lavoro e le attività innovative e rischiose sono trattate peggio delle attività tradizionali a basso rischio a chi conviene rincorrere l’utile piuttosto che la rendita? Soffriamo di nanismo industriale anche per questo.
Molto più che il contestato articolo 18, l’autofinanziamento con crescita dell’impresa industriale è impedito da livelli di tassazione doppi della media europea, che è del 30% e con tendenza a calare. E per quanto riguarda il lavoro, tutti giustamente si preoccupano quando Bertinotti evoca la patrimoniale, nessuno si scandalizza quando lo Stato tassa il lavoro e la “patrimoniale del lavoro” il Tfr, con aliquote mediamente superiori al 30%.
Oggi si parla giustamente di escludere il costo-lavoro dall’Irap, che a regime significa dimezzare questa tassa (su 24 miliardi di Irap pagati dalle aziende private, la metà deriva dal costo-lavoro), ma per ridurre in modo più significativo lo svantaggio di cui attualmente il profitto e i redditi da lavoro soffrono rispetto alla rendita bisogna pensare anche a qualcosa d’altro, come abbassare l’aliquota sugli utili d’impresa, unificare l’aliquota personale sugli interessi dei conti correnti, oggi al 27%, e quella sui dividendi, oggi al 12,5%, ad un livello medio equo che potrebbe essere introno al 20 per cento. Questo provvedimento potrebbe portare 4-5 miliardi di maggiori incassi sull’attuale imposta sostitutiva sugli interessi, dividendi e plusvalenze (10,5 miliardi nel 2003). Se l’impresa è il motore dello sviluppo essa va aiutata a crescere tassando gli utili d’impresa al livello più basso possibile, sino a “livelli baltici”, dove l’aliquota per le aziende va dallo zero dell’Estonia al 15% degli altri due Stati baltici. Così si eliminerebbe anche l’attuale ingiusta doppia imposizione su utili e dividendi.
Ai fini dello sviluppo e dell’innovazione, la quadratura dei conti pubblici va realizzata con politiche fiscali eque ma pur sempre progressive sui redditi delle persone fisiche, secondo la nostra Costituzione, e con politiche fiscali sui redditi delle persone giuridiche assai più leggere delle attuali. Tertium non datur, se si vogliono imprese e conti pubblici in salute in uno Stato sociale da Paese europeo moderno.
Nicola Cacace, già presidente di Nomisma (centro di ricerche economiche fondato da Romano Prodi) e Consigliere d’Amministrazione della Banca Nazionale del Lavoro, è in Italia uno dei più autorevoli studiosi del mondo delle professioni.
Titolo originale: Hong Kong Under Construction as Mickey Moves in – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Hong Kong si sta rifacendo, preparandosi all’apertura di Disneyland a settembre.
La città sta tentando di portare a termine migliaia di nuove stanze d’albergo, una speciale linea di metropolitana (la prima del mondo destinata esclusivamente a un parco a tema) e i funzionari anticipano un totale rifacimento dell’immagine della città per gli investimenti.
”Disney è un’immagine così positiva che l’abbiamo adottata” dice Selina Chow, presidente dell’Ufficio Turismo di Hong Kong. “Fa capire alla gente che questa non è una comune città cinese. È un luogo su cui un marchio americano come Disney vuole investire”.
Hong Kong sarà la quinta struttura di Disneyland, aggiungendosi a Tokyo, Parigi e ai complessi USA di Anaheim, California, e Orlando, Florida. Il parco, di 150 ettari, è in corso di costruzione su aree bonificate nell’isola di Lantau, nella baia di Hong Kong.
Il parco, che dovrebbe aprire il 12 settembre, è una joint venture fra la Disney e il governo di Hong Kong, ma sono i contribuenti locali a sostenere la maggior parte del costo di 3,5 miliardi di dollari.
Il parco fa parte del piano del governo, di trasformare il territorio in una destinazione per vacanze in Asia per le famiglie.
Secondo gli esperti di turismo, si prevedono circa 5,6 milioni di visitatori al parco tematico nel primo anno. La città sta lanciando una campagna promozionale multimilionaria per sfruttare queste nuove visite.
Uno dei settori già pronti per Disney è quello alberghiero. James Lu, direttore esecutivo della Hong Kong Hotels Association, afferma che la città si sta attrezzando per Disneyland con l’aggiunta di 8.000 stanze, entro la fine dell’anno.
Lu sostiene che ci saranno 14.000 stanze in più alla fine del 2005, ma è preoccupato per una possibile sopravvalutazione delle presenze turistiche.
”Non sappiamo quanti visitatori verranno dalla Cina. Non sappiamo se arriveranno in pullman organizzati, andandosene lo stesso giorno. Non ci sono precedenti a cui fare riferimento”.
In generale, comunque, Lu confida che il nuovo parco tematico e la campagna turistica significhino grandi affari per gli alberghi.
”Non c’è un singolo hotel che non preveda una crescita” dice.
Ma i parchi a tema già presenti vedono le mosse di Topolino come una minaccia.
Ocean Park, la struttura tematica più di successo della città da oltre 30 anni, si sta riorganizzando, vedendo una completa ristrutturazione come l’unica via per sostenere la concorrenza.
”Ocean Park deve sopravvivere“ dice Allan Zeman, uno dei più importanti imprenditori di Hong Kong, che sta sovrintendendo la ristrutturazione del parco. “E l’unico modo di sopravvivere è quello di diventare di livello mondiale”.
Il rinnovo comprende progetti per nuovi impianti di montagne russe, un Palazzo del Ghiaccio, e un acquario da 72.000 metri cubi con ristorante subacqueo. Ocean Park seguirà anche il modello Disneyland, di realizzare alberghi all’interno.
Il direttore esecutivo di Ocean Park, Tom Mehrmann, afferma di non voler concorrere frontalmente con la Disney, ma di pensare che i due parchi possano essere complementari l’uno all’altro: Ocean Park enfatizzerà la natura e la fauna, mentre Disney si concentra su film e cartoni animati.
”Qui siamo a Hong Kong” dice. “Loro sono un’importazione americana”.
Un altro settore che aspetta con ansia l’arrivo della Disney è quello dei trasporti. Con la realizzazione di Disneyland sull’isola di Lantau – circa mezz’ora di navigazione o di treno dal centro di Hong Kong – è diventato un grosso problema trovare un modo efficiente di spostare le persone.
La Mass Transit Rail Corporation ha deciso di costruire una linea di binari di tre chilometri fino al parco, al costo di 2 miliardi di dollari di Hong Kong (257 milioni di dollari USA; 197 milioni di Euro). La linea è collegata alla sotterranea esistente è sarà in grado di fare la spola trasportando circa 10.000 passeggeri l’ora verso il parco.
Per dare un servizio completo alle folle di Disney, i finestrini del treno e le maniglie di sostegno sono a forma di Topolino. In più, soffitto e lati dei vagoni sono dipinti in vivaci tonalità di rosso, giallo, viola e blu.
Il Dr. Anthony Yeh del Center of Urban Planning alla Hong Kong University sostiene che questa nuova linea renderà il parco meno dipendente dalle automobili.
”La norma (per i parchi a tema) è di avere grandi parcheggi per sistemare le auto. A linea MTR assicura che la versione Hong Kong di Disneyland sarà orientata al trasporto pubblico”.
Yeh prevede anche un grande afflusso di bus organizzati dalla Cina verso Hong Kong, indicando come gli abitanti delle principali città dell’entroterra come Shenzhen possano facilmente fare visite di un giorno.
”Molti cinesi vogliono venire Disneyland”.
Nota: il testo originale al sito di All Headline News ; per capire meglio il senso del ruolo del trasporto pubblico a Hong Kong, qui su Eddyburg gli estratti dalle Linee Guida metropolitane per gli insediamenti commerciali e per il tempo libero (f.b.)
Titolo originale: State of Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Sono state fornite le ultime stime dell’ufficio censimento per il Maryland, e mostrano uno stato in cui gli abitanti continuano a spostarsi sempre più lontano dalle aree urbanizzate: uno stato dove lo sprawl, nonostante la storia del Maryland rispetto ai tentativi di pianificazione della crescita, continua a ingollare territorio.
In generale, lo sviluppo del Maryland si è rallentato nell’anno fino allo scorso luglio. Baltimora ha perso abitanti. La città di Washington e i suburbi più interni sono cresciuti in modo modesto. Ma in cinque contee esterne – Cecil, Calvert, Charles, St. Mary’s e Washington – la popolazione è aumentata molto in fretta, dal 2 a quasi il 3 per cento in solo un anno, in larga parte a causa dell’immigrazione da altri stati.
Il tipo di crescita diffusa si mangia terreni, allunga i tempi del pendolarismo, inquina la Chesapeake Bay e svuota i bilanci degli enti locali. Crea uno stato che è una scacchiera di sobborghi, un luogo con troppi pochi luoghi.
Se questo sottolinea l’insufficienza del programmi di smart growth del Maryland, dei massicci acquisti di terreni sotto l’ex governatore Parris N. Glendening, racconta anche il quasi totale vuoto dell’approccio dell’attuale governatore, Robert L. Ehrlich Jr., alla gestione della crescita
L’amministrazione ha fatto alcune buone cose. Il Planning Department statale ha spinto le contee ad applicare un solo standard ai propri lotti edificabili: un obiettivo apparentemente semplice ma irto di complessità. Ha messo il suo marchio sulla smart growth, rinominandola programma Priority Places con enfasi sulla rivitalizzazione delle vecchie aree.
Ma le quattro città designate sinora Priority Places – le zone di Hyattsville e Crisfield sono state designate settimana scorsa – per ora possono aspettarsi solo assistenza tecnica e di piano, non sostegni statali. Le acquisizioni di terreni si sono fermate sotto l’amministrazione Ehrlich. L’amministrazione non è neppure entusiasta rispetto al trasporto di massa, e opta invece per strutture che inducono sprawl, come l’allargamento della Route 32 nella contea rurale di Howard o la costruzione del collegamento Inter-Contee dalla Interstate 95 alla Interstate 270.
Il governo può rispondere, a buon diritto, che le decisioni urbanistiche restano in gran parte una questione locale: e a dire il vero c’è parecchio da dire su quello che accade in giro.
Baltimora ha fatto buon uso degli storici crediti statali per sostenere la riurbanizzazione, e la Baltimore County sta tentando di ristrutturare i propri quartieri più vecchi lungo la Beltway, tutelando nel contempo le zone agricole settentrionali. Ma ci sono troppe contee che resistono ancora all’uso dello zoning per orientare la crescita e la realizzazione di case a basso costo verso aree già edificate, e lontano dagli spazi aperti. I regolamenti di zoning consentono ancora ai costruttori di sparpagliare case sui campi: e a parte il programma Priority Places, c’è poco sostegno statale con questa amministrazione, per trovare il coraggio di fare altrimenti.
Intanto, l’ufficio censimento ora prevede che la popolazione del Maryland crescerà di un terzo dal 2000 al 2030, toccando i 7 milioni: 500.000 persone in più di quanto stimato a livello statale.
La pressione della crescita sul Maryland può solo aumentare. E anche se si tratta di cose che non si vedono nei titoli dei quotidiani, il modo di gestirle probabilmente avrà un effetto più duraturo sulla qualità della vita di qualunque altra cosa, nell’agenda del governatore.
Nota: qui il testo originale al sito del Baltimore Sun (f.b.)
Titolo originale: Cleaner environment as important as growth– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Gli abitanti di Pechino hanno goduto di 229 giorni di aria pulita l’anno scorso, e la città adotta misure più rigide per migliorare l’ambiente.
Per rendere l’aria più pulita, la capitale sposterà le fabbriche dello Shougang Group, il quarto produttore d’acciaio della Cina, nella vicina provincia di Hebei entro il 2010. Nonostante gli alti costi dell’operazione – fino a 50 miliardi di yuan (6 miliardi di dollari) – questo trasloco si merita l’applauso della popolazione locale. [ tra l’altro il trasferimento è attuato nell’ambito di un accordo di cooperazione con l’Italia, vedi link in fondo all’articolo f.b.]
E ci sono anche implicazioni di carattere nazionale, perché l’intero paese sta combattendo decisamente l’inquinamento.
La questione della tutela ambientale è stata fra gli argomenti principali discussi da politici e tecnici nell’appena conclusa assemblea legislativa nazionale.
Si tratta di un dibattito che riflette la preoccupazione pubblica.
In moti paesi, sviluppati e in via di sviluppo, crescita economica e inquinamento sembrano inseparabili.
Anche le economie sviluppate un tempo soffrivano di un pesante inquinamento industriale. Quello che accade oggi un molti paesi in via di sviluppo mostra come si stiano ripetendo gli errori dei fratelli più ricchi.
La corsa verso l’obiettivo della prosperità economica di molti paesi in via di sviluppo, compresa la Cina, si è costruita purtroppo sul degrado ambientale.
Nel 1995, le perdite causate dall’inquinamento in Cina sono state calcolate in 187,5 miliardi di yuan (22,6 miliardi di dollari), che corrispondono al 3,2% del prodotto nazionale lordo di quell’anno, secondo un rapporto dell’Accademia Cine se di Ricerche Sociali.
Non sono disponibili cifre esatte. Ma sia l’esperienza personale che varie statistiche mostrano come la situazione sia grave quanto dieci anni fa, se non di più.
A Pechino le tempeste di sabbia che hanno colpito la città in primavera hanno costretto molte persone a indossare maschere antigas all’aperto.
Fonti ufficiali rivelano che circa un terzo della popolazione urbana respira aria seriamente inquinata; solo la metà dei 149 milioni di tonnellate di rifiuti urbani prodotti ogni anno viene decontaminata; e solo il 32% degli 11 milioni di rifiuti solidi pericolosi prodotti in Cina è soggetta a trattamento adeguato.
Il costo per ripulire un ambiente inquinato potrebbe essere enorme.
Nel caso delle acciaierie Shougang, il danno causato dagli impianti alla salute umana e all’ambiente può anche aver superato i costi di rilocalizzazione.
Se il trasferimento dimostra la decisione delle autorità riguardo all’aria pulita, il caso Shougang ci fa riflettere sulle gravi conseguenze di una politica che mette comunque l’economia al primo posto.
Questo orientamento unidirezionale alla crescita economica ora sta producendo i suoi contraccolpi.
Non è esatto affermare che la Cina ha fatto poco per la protezione ambientale. In gennaio, l’Amministrazione Statale per la Tutela dell’Ambiente ha sospeso molti progetti energetici miliardari per le loro carenze in termini di procedure di valutazione di impatto ambientali.
Questo blocco potrebbe costare molti milioni di dollari.
Le statistiche ufficiali mostrano che gli investimenti per il contenimento degli inquinanti hanno pesato per il 1,39% del prodotto nazionale lordi della Cina, lo scorso anno.
Il governo centrale si è anche impegnato a costruire una società armoniosa, un quadro concettuale che comprende l’idea di un equilibrio fra uomo e natura.
Speriamo che coi rinnovati sforzi per il controllo dell’inquinamento e la protezione del nostro ambiente, altri in angoli altrettanto inquinati del paese possano iniziare a condividere la gioia dei pechinesi, e respirare aria pulita.
Nota: qui il testo originale sul sito del China Daily; qui il programma di cooperazione sino-italiano per il trasferimento delle acciaierie di Shougang (f.b.)
Titolo originale: Entertaining Development – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini[nota: tra gli altri il termine lifestyle , che significa letteralmente e ovviamente “stile di vita”, è qui utilizzato dall’autore anche a definire una tipologia insediativa commerciale nuova (lifestyle center ), descritta dai glossari specializzati come complesso su arteria urbana formato da molti esercizi di non grandi dimensioni, privo di anchor , con negozi di un certo livello, ristoranti, attrazioni varie per il tempo libero, organizzato in forma aperta su circa 30.000 metri quadrati di superficie commerciale] (f.b.)
Negli anni Novanta si è assistito all’introduzione delle attività per il tempo libero come nuova tipologia di insediamento commerciale. Ma come accade spesso con i nuovi tipi commerciali, sperimentazione e realtà del mercato hanno prodotti risultati inattesi. Se pure si realizzano centri di carattere commerciale e per il tempo libero stand-alone entro contesti urbani (o falsi simil-urbani), essi non hanno certo i centri commerciali tradizionali nel modo originariamente previsto d alcuni. Invece, l’impatto è stato più sottile e diffuso. Anche la terminologia usata per descrivere l’insediamento per il tempo libero è cambiata. Quelli che una volta erano chiamati insediamenti urbani per il tempo libero, ora spesso sono definiti complessi retail/entertainment, o centri lifestyle entertainment, o ancora destination developments, o ambienti commerciali entertainment-enhanced. In alcuni casi, anche se le attività per il tempo libero sono presenti, si danno per scontate, e non sono neppure menzionate.Cosa più importante, la trasformazione terminologica riflette un ripensamento del modo in cui le attività per il tempo libero hanno aggiunto valore a un’ampia gamma di insediamenti commerciali e multifunzione, rendendoli più gradevoli e più in tono con gli stili di vita del consumatore contemporaneo. Emerge che sono i complessi per il tempo libero ad aver compiuto il primo passo, che ha portato all’evoluzione dei centri commerciali in ambienti lifestyle retail.
Questi ambienti, la versione contemporanea del retail/entertainment, vengono proposti, integrati, mantenuti, come componente essenziale di una gamma straordinariamente ampia di tipi di insediamento: centri multiuso a scala di quartiere o di città; fasce commerciali riorganizzate e centri commerciali regionali; progetti di rivitalizzazione dell’arteria commerciale centrale e nuovi complessi urbani; impianti sportivi, musei, casino; aree storiche e culturali; e poi zone per uffici (urbane e suburbane), waterfronts, distretti commerciali locali. Di conseguenza, l’impatto del tempo libero sul modo del commercio è, nei fatti, molto maggiore di quanto ci si immaginava all’inizio.Il successo di alcuni complessi per il divertimento di prima generazione dimostrava chiaramente la forza di mercato per gli insediamenti dotati di strutture per il tempo libero di scala locale e regionale. Ma alcuni progetti faticavano perché, a ben vedere, molti dei concetti produttivi originali erano limitati: basati su modelli economici adatti solo per condizioni particolari in ambiti di mercato molto forti. All’epoca, gli shopping centers iniziavano a ricercare nuove interessanti attività per riempire gli spazi lasciati disponibili dai grandi magazzini in crisi, ad aggiungere vivacità all’esperienza degli acquisti, e per attirare nuovi clienti in un mondo commerciale sovraccarico. Gli anchors del tempo libero sembravano adatti allo scopo. Ma dal punto di vista economico molti di loro avevano bisogno di un alto flusso di clientela per sostenere i notevoli investimenti necessari a crearli e gestirli, e tale flusso semplicemente non si poteva ottenere nella maggior parte dei casi. La constatazione di questo limite si rivelò una benedizione sotto mentite spoglie, obbligando le imprese a riorientare le energie creative alla ricerca di nuovi modelli che funzionassero in una più ampia varietà di situazioni e luoghi.Oggi, un complesso retail/entertainment dipende molto poco dall’aggiunta di specifiche attrazioni per il divertimento, e molto invece da quanto è in grado di creare una molteplicità di esperienze attraenti per gli stili di vita di consumatori sempre più impegnati, agiati, internazionali. Quelle che seguono sono le principali tendenze nell’insediamento commerciale e per il tempo libero contemporaneo.
Il retail/entertainment in contesti urbani e simil-urbani sta creando nuovi centri di carattere sociale e culturale.I contesti urbani e simil-urbani sono favorevoli agli insediamenti a funzioni miste che comprendono attività di divertimento, perché sia i baby boomers che la Generazione Y [i nati dopo il 1980 n.d.T.] hanno riscoperto lo stimolo della città come luogo di vita e divertimento; gli operatori commerciali apprezzano i grandi flussi di traffico, la visibilità, l’accessibilità offerte da questo tipo di localizzazioni; le città sono ben liete di associarsi in varie forme a queste iniziative per sostenere il proprio sviluppo economico, valorizzando i propri gioielli civici, culturali, architettonici, storici. Al giorno d’oggi, baby boomers e generazione Y, che rappresentano i maggiori gruppi demografici a livello nazionale, sono probabilmente i più ricercati clienti di shopping center. Costituiscono le estremità opposte dello spettro demografico, ma secondo molti aspetti esprimono preferenze simili: entrambi hanno denaro, inclinazione alla spesa, e cercano qualcosa di stimolante da fare, entro ambienti urbani pieni di energia. Entrambi i gruppi amano il sottofondo cosmopolita della città, cercano nuove esperienze e tecnologie stimolanti, desiderano un ambiente integrato di vita e acquisti che sia più comodo, divertente, diversificato. Dato che d’abitudine nessuno dei due gruppi è limitato dalla responsabilità di bambini in famiglia, possono accudire a sé stessi.I progetti per i complessi urbani e le strade principali sono concepiti come insediamenti infill per la città esistente, e come nuovi centri città nei contesti simil-urbani del suburbio, che non hanno mai posseduto spazi del genere. Il complesso Victoria Gardens fornisce un esempio di nuovo centro di grandi dimensioni su molti isolati, a Rancho Cucamonga, California. Comprende 130.000 metri quadrati di spazio divertimenti e lifestyle organizzato su una griglia stradale, giardini pubblici, un centro culturale, cinema multisala, centro giochi per famiglie, biblioteca, sala feste, e un’offerta di spazi che va da varie forme in affitto lifestyle, uffici, complessi ad appartamenti. Desert Ridge Marketplace, a un nuovo colorito lifestyle entertainment center nella zona nord di Phoenix, si organizza su cinque distinte aree pedonali che comprendono divertimenti, lifestyle, negozi per piccoli servizi quotidiani, negozi a prezzo scontato, un centro commerciale tradizionale, il tutto in un ambiente urbano neotradizionale.Si stanno costruendo collaborazioni pubblico-privato a coordinare la creazione di questi complessi, a causa delle dimensioni e della complessità richiesta. A Los Angeles, la Grand Avenue Authority riunisce il comune e la contea di Los Angeles a varie associazioni senza scopo di lucro, fondazioni, interessi economici, per rivitalizzare Bunker Hill, il cuore culturale della città, creando un polo di attrazione commerciale e di divertimento che leghi tutte le strutture culturali del distretto, a costituire un solo spazio di riferimento per l’intera regione.Dopo anni di studio e progettazione, lo scorso autunno la Western Development ha inaugurato Gallery Place, un nuovo complesso a funzioni miste commerciali e di tempo libero parzialmente finanziato dall’aumento del gettito fiscale, nel cuore del centro di Washington, D.C., l’emergente distretto commerciale lungo il tratto nord-ovest della Seventh Street. Collegata allo MCI Center, principale arena sportiva della città, Gallery Place ospita 30.000 metri quadrati di ristoranti, commercio qualificato, cinema multisala a 15 schermi alla base di un condominio residenziale e per uffici servito direttamente da tre linee di metropolitana.
L’intreccio di cultura, divertimento, istruzioneL’insediamento commerciale e per il tempo libero si combina con successo alle strutture culturali e per l’istruzione. Musei e centri per le esposizioni artistiche tentano di rispondere alla diminuzione delle risorse pubbliche e alle forti pressioni competitive indotte dall’evoluzione sociale. I complessi per il divertimento commerciale offrono a queste istituzioni un’opportunità per ampliare la propria utenza e competere in modo più efficace per attirare tempo e attenzione del consumatore nel contesto di uno spazio di mercato affollato. A loro volta, le entità culturali e per l’istruzione agiscono come importanti anchors per le strutture commerciali e di divertimento, offrendo un carattere locale tipico, un contesto culturale, gli aspetti educativi essenziali ad un successo di lungo periodo per gli insediamenti.Due esempi possono chiarire meglio questa tendenza, uno di scala nazionale e uno di rilievo regionale. Lo scorso anno, Jazz at Lincoln Center ha inaugurato la sua nuova sala concerti nei 210.000 metri quadri del Time Warner Center a New York. Questo stesso mese, il Gala Hispanic Theatre si è trasferito nel restaurato complesso teatrale di Tivoli Square, entro un piccolo insediamento commerciale a funzioni miste a Washington, D.C., nel quartiere di Columbia Heights in rapida rivitalizzazione.Anche le Università iniziano a riconoscere il potenziale di creare insiemi commerciali e per il tempo libero per aumentare la propria attrattività verso i potenziali studenti, offrire i necessari servizi commerciali, e migliorare i collegamenti fra i propri campus e i quartieri urbani circostanti. La University of Pennsylvania di Filadelfia ha realizzato di recente uno dei migliori esempi, 40th@Walnut Street. Si tratta di un progetto che comprende un modernissimo Bridge Cinema Delux, una chiesa storica restaurata ora adibita a centro artistico di esposizione per il campus e la città, una pure restaurata e riaperta sede della biblioteca pubblica cittadina, un negozio di specialità alimentari, e altre funzioni commerciali che servono sia l’università che la cittadinanza.
Gli shopping centers si stanno riorganizzando con strutture per il divertimento e complessi lifestyleL’obsolescenza e sovrabbondanza sembrano i caratteri dominanti degli spazi commerciali tradizionali. Il National Research Bureau stima che esistano al momento più di 2 metri quadrati di superficie commerciale a persona negli Stati Uniti: un picco storico. Di conseguenza, si è rallentato il ritmo delle nuove costruzioni, da più di 1.800 nuovi centri ogni anno a metà del decennio ’90, a meno di 400 oggi. Col rallentamento delle nuove realizzazioni, tutti gli operatori principali del settore riconoscono di avere un’enorme opportunità nel redevelopment, e nel trovare nuovi inquilini per il propri gruppi di ben localizzati complessi, riflettendo la domanda dei consumatori del 21° secolo. Sempre più i proprietari dei complessi edilizi di shopping center tendono a incorporare divertimento e strutture lifestyle che trasformino i propri centri tradizionali in spazi multifunzionali a riflettere le particolarità della domanda locale, mescolare organizzazione commerciale chiusa e su spazi aperti, offrire luoghi di aggregazione, ristoranti, caffè all’aperto, in generale rispondere a qualcosa di più del semplice bisogno di commercio, in un insediamento multifunzionale.Lo Alderwood Mall, una ventina di chilometri a nord di Seattle, ha da poco completato la realizzazione di un ambiente complesso commerciale e per il tempo libero aprendo due aree esterne di shopping e ristorazione con 40 nuovi punti vendita e una multisala da 15 schermi, collegati direttamente al centro commerciale esistente di tipo chiuso. Su un lato il Village comprende quattro isolati irregolari progettati a ttorno a unsa serie di ambienti stradali all’aperto; sull’altro lato le Terraces ospitano quattro ristoranti attorno ad una piazza multilivello verso le nuove strutture per il parcheggio.Queste operazioni di repositioning stanno diventando abituali in tutti i formati commerciali, ovvero dai centri di quartiere, a quelli di scala urbana, ai complessi discount, ai malls tradizionali. Con sempre più elementi e strutture di divertimento che si aggiungono ai centri commerciali, la distinzione fra questi e quelli retail/entertainment si è notevolmente annacquata, e scomparirà gradualmente del tutto nei prossimi anni.
Il retail/entertainment di oggi è più un fatto di ambienti e attrazioni neo-tradizionali, che non roboanti nuove tecnologie.La difficoltà di proporre nuove e dispendiose idee e prototipi di intrattenimento ad alta tecnologia ha limitato il loro impatto sul mercato. È emerso che la gente non bada tanto a quanto sia sofisticata la tecnica. La cosa più importante è il divertimento, la comodità, l’utilizzabilità, l’adattabilità e novità, che colpiscono il cliente e lo spingono a tornare; quanto l’ambiente risponde davvero agli stili di viat del consumatore, alle sue aspirazioni e valori. Ma è difficile ottenere questa combinazione ideale di caratteristiche, ed è fondamentale l’atenzione a tutti i dettagli, per essere sicuri che l’esperienza per l’utente sia abbastanza significativa da farlo ritornare più volte. Ciò riguarda tutti gli aspetti di un centro: il verde, i giochi d’acqua, i parcheggi, l’illuminaizone, musica, servizi, attività programmate, eventi speciali. L’abilità di raggiungere segmenti di utenza facilmente ignorabili (come le donne, appartenenti alle generazioni X e Y, o anche i baby boomers, che diventano più vecchi, ma non “invecchiano”) determinerà il successo o meno degli insediamenti retail/entertainment dei prossimi anni
Il marchio è un potente strumento di generazione di affari e fidelizzazione del cliente del retail/entertainment.In un’epoca di forte competizione e rapida evoluzione nel settore commerciale e di intrattenimento, il marchio si è confermato un importante generatore di attività. Le principali imprese di settore comprendono l’importanza della propria immagine per aumentare la penetrazione nei vari mercati e crearne dei nuovi. Promozioni, interazioni, pubblicità, eventi collegati, formazione personalizzata, cross-marketing, ora vengono tutti strategicamente coordinati non solo dagli operatori delle attività commerciali, ma anche dai gestori degli immobili, o dai quartieri e città dove si collocano i centri.I casi più significativi di “marchio urbano” si sono sperimentati nelle località turistiche principali come Times Square o la Las Vegas Strip, che rappresentano casi a sé, ma molti imprenditori, shopping centers, e città ora stanno sviluppando un’immagine identitaria riguardo sia agli aspetti fisici che a quelli immateriali. La divisione marchi della Simon sta tentando di trasformare i propri centri commerciali in luoghi dove il consumatore possa costruire un rapporto personalizzato con grandi imprese come Coca-Cola, Ford, Microsoft, Visa. Lo scopo, ambizioso, è di indurre il cliente a un’esperienza nuova e memorabile, usando la rete degli shopping centers, su piattaforme multimediali e reciproche di comunicazione. Sempre di più la varietà delle caratteristiche, degli ambienti, delle relazioni del cliente che caratterizzano il retail/entertainment potranno essere determinate sia dall’immagine del marchio di impresa, sia da quella della località dove si colloca il centro, nello stesso modo in cui lo sono dal marchio nazionale del prodotto nello spazio del negozio.
I cinema di nuova generazione sono solo uno dei molti nuovi anchor per gli insediamenti commerciali e del tempo liberoNon molto tempo fa tutti i cinema degli shopping centers sembravano uguali: schermi piccoli, ambienti spogli, sale isolate in mezzo ai parcheggi, lontano dalla zona degli acquisti. Ma è un’attività che si è trasformata. Dopo la diffusa crisi dell’industria cinematografica al passaggio tra i due secoli, sono emersi nuovi tipi di multisala modernissimi, “ artplexes”, o club cinemas come elemento di attrazione negli insediamenti commerciali e di divertimento. Attirando grandi folle di persone che alimentano altre attività, essi hanno ricevuto una posizione d’onore nell’ambiente commerciale, come accadeva ai vecchi tempi dei grandi palazzi del cinema.Comunque oggi i cinema non sono i soli anchors degli ambienti commerciali. I ristoranti in gruppi, che offrono servizio al tavolo di alta qualità, specialità gastronomiche e etniche, sia al chiuso che all’aperto in contesti lifestyle, sono molto alla moda, così come gli informali e rapidi ristoranti Baja Fresh o Chipotle. Questi tipi di raggruppamenti di solito mescolano noti esercizi locali e marchi nazionali. Anche se alcuni seguono uno stile altamente progettato, non si tratta dei trucchetti di ristorante tematico del passato, con poco interesse per la qualità del cibo e del servizio. Questi nuovi locali praticano prezzi moderati, servono piatti popolari, si rivolgono alla clientela locale più che ai turisti, e mirano ad una alta fedeltà di clientela regolare. Di conseguenza, non sono percepiti come luoghi dove andare quando arrivano visitatori da fuori città. Con questo tipo di organizzazione e prezzi, funzionano meglio in aree demograficamente stabili che nei grandi mercati metropolitani, e sono più adattabili a diversi tipi di spazi commerciali e per il tempo libero; come risultato, sono diffusi con successo in tutto il paese.
Altri anchors di tipo commerciale comprendono i gruppi di negozi in complessi lifestyle che possiedono forte identità individuale e che collettivamente creano forte attrazione attraverso l’immagine del marchio, la copertura pubblicitaria nazionale, la capacità di rivolgersi a piccoli gruppi ben individuati di clienti, con le ultimissime offerte di moda e stili. Naturalmente ciò presenta il pericolo della prevedibilità e uniformità, che già si può vedere crescere lenta in alcuni complessi commerciali e di tempo libero. L’antidoto è presentare una miscela di forti marchi locali, oltre che nazionali, ma è cosa più facile a dirsi che a farsi.Queste nuove categorie retail/entertainment non sono i tipi di negozio dove andrebbe nostro padre (o madre). Riflettono tanto chi compra quanto cosa compra:- Abitazione - passatempi da casa, arredamento, elettronica;- Salute e bellezza – centri di estetica, health club, cosmetici;- Divertimento e tempo libero – sport interattivi, bar, caffetterie, caffè all’aperto, sale biliardo, bowling, giochi vari;- Istruzione – caffè/libreria, negozio di libri catena nazionale, strutture collegate all’università;- Aspetto personale – abbigliamento speciale e accessori;- Piccoli vizi – pasticceria, gelati, dolciumi;- Finanza personalizzata – consulenza investimenti, agenzia di cambio, servizi bancari.
L’ambito pubblico pone l’insediamento retail/entertainment su un piano diverso rispetto alla concorrenzaLo spazio pubblico negli insediamenti commerciali e di tempo libero è un genere di anchor tanto importante quanto lo sono multisala, gruppi di ristoranti, ambienti lifestyle o grandi magazzini. La qualità dei percorsi pedonali pubblici, piazze, giardini, fronti commerciali, propone un tipo di ambiente che è cruciale al successo del centro. Tutti i particolari contano, perché formano il tipo di esperienza del cliente, e lo fanno sentire a casa sua, in uno spazio progettato per lui. Nella stessa misura dei negozi, è l’alta qualità dell’ambiente pubblico e il suo modo di proporre vita e cultura locale, a portare la gente verso gli spazi del commercio le strutture per il tempo libero, anche quando non hanno intenzione di comprare, perché sono comodi, vivaci, belli.Il termine che spesso si usa a descrivere questo tipo di ambito pubblico, è “spazio scritto,” che si riferisce a parecchi diversi aspetti dell’idea di complesso: il tipo di itinerari percorsi dai visitatori all’interno; le esperienze spaziali che attraversano; le attività di intrattenimento proposte negli spazi pubblici; gli elementi progettuali con cui si entra in contatto, come fontane, spazi verdi, architetture, il sistema dei collegamenti ad altre funzioni e attività; l’interazione fra i vari esercizi e lo spazio pubblico. Il Grove, complesso adiacente allo storico Farmers Market a Los Angeles, è un esempio di tendenza.Le bellezze urbane possono assumere qualità particolari se diventano parte della miscela funzionale. La South Lake Town Square, un grosso insediamento multiuso fuori da Dallas, è organizzato attorno a un vasto parco centrale che la comunità utilizza come luogo di manifestazioni pubbliche, feste con fuochi d’artificio, picnic, semplici passeggiate a guardare la folla. Delimitato su un lato dal palazzo municipale, lo spazio pubblico di questo complesso ha assunto un ruolo urbano tradizionale che nel passato si trovava solo nelle città più vecchie.
Concludendo: città, stile di vita, divertimento, sono le chiavi del successo nel mondo commerciale di oggiI luoghi del commercio e del divertimento che avranno più successo nel futuro saranno quelli che mettono insieme varie funzioni commerciali, per il tempo libero, ristoranti e altro in un ambiente vivace e aperto, adeguatamente legato alla vita quotidiana del consumatore e a quella della città circostante. In molti casi non ci saranno “attrazioni” per il divertimento high-tech, ma non si tratta di una cosa importante. Quello che conta è se l’ambiente commerciale corrisponda a stili di vita e aspettative dei gruppi di consumatori che oggi fanno tendenza. Se i complessi retail/entertainment vogliono continuare a fiorire, dovranno essere creati più spazi di questo tipo, a tono con le culture locali, mescolati ad altre funzioni, specie quella residenziale.Gli insediamenti per il divertimento hanno superato le aspettative apparentemente esagerate che li avevano ispirati nei tardi anni ‘90: se ne sta sviluppando una nuova e dinamica forma. Ma invece di produrre centri urbani isolati dedicati al tempo libero, l’impresa retail/entertainment ha proseguito nel creare ampie e complesse tipologie per adattarsi alle condizioni locali dei mercati. È chiaro che il divertimento, in tutte le sue manifestazioni, si è inserito in tutte le forme e pratiche di progettazione urbana, al punto che si sono aperte innumerevoli opportunità di realizzazioni nuove e trasformazione di complessi esistenti, impensabili, o impossibili, prima. È anche diventato più difficile individuare la differenza fra i centri per il commercio tradizionali e quelli che si autodefiniscono retail entertainment centers.La conclusione è che questo tipo di centri ha avuto successo perché è diventato flessibile abbastanza per soddisfare un’ampio ambito di domande del mercato. L’impresa edilizia commerciale ora ha nuove e convenienti opportunità per rivitalizzare i complessi invecchiati e realizzarne dei nuovi, le città hanno nuovi metodi per cercare uno sviluppo sostenibile, e i residenti che aspirano a divertirsi di più quando escono, hanno a disposizione ambienti commerciali ed esperienze più a contatto con la loro vita quotidiana, che offrono una sensazione di maggior identità e appartenenza.
Nota: qui il testo originale al sito dello Urban Land Institute (f.b.)
Titolo originale: The Godly Must Be Crazy – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
I punti di vista della destra cristiana stanno disorientando i politici, e minacciando l’ambiente
Molti degli scritti sul mondo d’oggi sembrano pervasi da una certa sensibilità apocalittica. Parecchi libri sui pericoli ambientali, che si tratti dello strato di ozono, del riscaldamento globale, dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua, dell’esplosione demografica, appaiono immersi in un crogiolo apocalittico. (Paul Boyer, storico)
Quand’ebbe aperto il sesto sigillo, ecco seguì un gran terremoto, e il sole diventò nero come tela di sacco, la luna diventò come sangue, e le stelle del cielo caddero sulla terra come il fico butta i suoi frutti invernali scosso dal vento; il cielo si ritirò come un papiro arrotolato, e ogni montagna e isola furono smosse dai loro posti.(Apocalisse 6:12-14)
Aborto. Matrimoni omosessuali. Ricerca sulle cellule staminali
I legislatori USA sostenuti dalla destra cristiana votano contro queste questioni con quasi per fetta uniformità. La cosa probabilmente non vi sorprende, ma questo forse si: quegli stessi legislatori sono egualmente compatti e decisi nell’opporsi alla tutela ambientale.
Quarantacinque senatori e 186 deputati nel 2003 si sono guadagnati un’approvazione dall’80% al 100% da parte dei tre principali gruppi di pressione della destra cristiana: Christian Coalition, Eagle Forum, e Family Resource Council. Molti di questi stessi rappresentanti politici l’anno scorso hanno avuto punteggi fallimentari (meno del 10% in media) dalla League of Conservation Voters.
Sono statistiche sorprendenti, a prima vista. Opporsi all’aborto o alla ricerca sulle cellule staminali è coerente con le convinzioni della destra religiosa, che la vita cominci al momento della concezione. Opporsi al matrimonio fra gay è coerente con l’affermazione che le attività omosessuali siano proibite dalla Bibbia. Entrambe queste convinzioni sono punti fermi piuttosto noti del dibattito politico contemporaneo. Ma, una giustificazione sulla base delle sacre scritture all’antiambientalismo: quand’è l’ultima volta che avete sentito un politico conservatore parlarne?
Probabilmente è stato nel 1981, quando il primo ministro degli affari interni della presidenza Reagan, James Watt, affermò davanti al Congresso che proteggere la natura non era importante, alla luce dell’imminente ritorno di Gesù Cristo. “Dio ci ha dato queste cose da usare. Quando cadrà l’ultimo albero, Cristo tornerà”, affermò Watt nella testimonianza pubblica che gli costò le dimissioni.
I politici cristiani fondamentalisti di oggi sono politicamente più saggi del ministro degli interni di Reagan; non li sorprenderete a spiegare decisioni di politica pubblica con convinzioni religiose private. Ma le loro parole e azioni fanno pensare che molti di loro condividano i pensieri di Watt. Come lui, molti fondamentalisti cristiani sentono che preoccuparsi per il futuro del pianeta sia irrilevante, visto che non c’è futuro. Essi credono che stiamo vivendo la Fine dei Tempi, quando il figlio di Dio tornerà, i giusti entreranno in paradiso, e i peccatori saranno condannati al fuoco eterno. Per cui possono anche ritenere, insieme ad altri milioni di fondamentalisti cristiani, che la distruzione dell’ambiente sia non solo da non temere, ma da auspicare - o addirittura da accelerare – in quanto segno dell’Apocalisse prossima.
Non stiamo parlando di una manciata di politici marginali, convinti o sostenitori di questo credo. I 231 legislatori (tutti Repubblicani, tranne cinque) che hanno avuto una media di approvazione dell’80% o più da parte delle principali organizzazioni della destra religiosa, costituiscono più del 40% del Congresso USA (l’unico Democratico con un’approvazione del 100% da parte della Christian Coalition è il senatore Zell Miller della Georgia, che all’inizio dell’anno ha citato il Libro di Amos in dibattito parlamentare: “Verrà il giorno, dice il Signore Iddio, che manderò la fame sulla terra. Non fame di pane, o sete d’acqua, ma di usire la parola del Signore!”). Questi politici includono alcune dei personaggi più potenti nel governo USA, e protagonisti delle decisioni chiave: il leader della maggioranza in Senato Bill Frist (Tennessee), e ancora al Senato Mitch McConnell (Kentucky), Rick Santorum (Pennsylvania), Jon Kyl (Arizona), lo House Speaker Dennis Hastert (Illinois), il capogruppo alla Camera Roy Blunt (Missouri), il ministro della Giustizia John Ashcroft, ed è possibile anche il Presidente Bush. (all’inzio di questo mese, la storia di copertina del New York Times Magazine a firma di Ron Suskind, descriveva come il governo Bush basato sulla fede abbia portato, tra l’altro, alla disastrosa “crociata” in Medio Oriente e abbia preparato il terreno a “una battaglia fra modernisti e fondamentalisti, pragmatici e veri credenti, ragione e religione”).
E i politici citati sono solo la più potente e visibile punta dell’iceberg. Un sondaggio Time/CNN del 2000 ha rilevato che il 59% degli americani ritiene che le profezie contenute nel libro dell’Apocalisse si debbano realizzare. Circa un quarto crede che la Bibbia abbia previsto l’attacco dell’11 settembre.
Che piaccia o meno, la fede nell’Apocalisse è una forza potente nella moderna politica americana. Nelle elezioni del 200 la destra cristiana ha spostato almeno 15 milioni di voti, ovvero circa il 30% di quelli che hanno portato Bush alla presidenza. E non c’è dubbio che i cristiani arciconservatori rosultaranno cruciali nelle prossime elezioni: lo stratega politico del Grand Old Party, Karl Rove, spera di mobilitare al voto venti milioni di elettori fondamentalisti, per aiutare Bush a confermarsi in carica il 2 novembre, e per mantenere la maggioranza repubblicana al Congresso, afferma Joan Bokaer, direttore di Theocracy Watch, un programma di ricerca del Center for Religion, Ethics, and Social Policy, alla Cornell University.
Visto il suo potere di blocco elettorale, la destra cristiana ha l’ascolto, se non l’anima, della maggior parte della leadership nazionale. Alcuni di questi leaders, credono personalmente nella Fine dei Tempi. Altri no. Sia come sia, i loro voti sono ampiamente condizionati da una base elettorale che accetta la Bibbia come verità letterale e aspetta seriamente l’avvento dell’Apocalisse. E questo, da parte sua, è una brutta notizia per chi spera di proteggere la Terra, non di distruggerla.
Sin dall’alba del Cristianesino, gruppi di credenti hanno esplorato le sacre scritture alla ricerca di segni della Fine dei Tempi e del Secondo Avvento. Oggi, la maggior parte dei circa 50 milioni di cristiani fondamentalisti di destra degli Stati Uniti, crede in qualche tipo di teologia da Fine dei Tempi.
Questi 50 milioni di credenti sono il substrato ai circa 100 milioni di evangelici degli USA, che non sono in alcun modo uniformemente di destra e antiambientalisti. In realtà la collocazione politica degli evangelici, sull’ambiente e altri problemi, cambia di parecchio; lo Evangelical Environmental Network, per esempio, ha unito la propria interpretazione biblica con una buona dose di scienza ambientalista, per giustificare e promuovere la cura del pianeta. Ma l’impatto politico e culturale dell’estrema destra cristiana è difficile da non considerare enorme.
È anche difficile capirlo, se non si coglie il complesso sistema di credenze che ci sta sotto e lo guida. Anche se esistono molte e divergenti teologie e sette che si ispirano alla Fine dei Tempi, le più politicamente influenti sono dispensazionalisti e ricostruzionisti.
Sintonizzatevi su qualunque delle 2000 stazioni radio cristiane d’America, o delle 250 televisioni, e probabilmente subirete una grossa dose di dispensazionalismo, una dottrina Fine dei Tempi inventata nel XIX secolo dal teologo anglo-irlandese John Nelson Darby. I dispensazionalisti sposano un’interpretazione “letterale” della Bibbia, che offre una cronologia dettagliata dell’imminente fine del mondo (molti importanti teologi contestano questa letteralità, sostenendo che Darby abbia frainteso e distorto i passaggi biblici). I credenti legano questa cronologia agli eventi correnti – quattro uragani che colpiscono la Florida, i matrimoni gay a San Francisco, gli attacchi dell’11 settembre – come prova del fatto che il mondo sta precipitando fuori controllo, e che noi siamo quanto lo scrittore dispensazionalista Hal Lindsey chiama “la generazione terminale”. Le crisi sociali e ambientali dei nostri tempi, affermano i dispensazionalisti, sono miracoli legati alla Rapture, quando i cristiani rinati, vivi e morti, saranno portati in cielo.
”Su tutta la terra le tombe esploderanno, e i loro occupanti si innalzeranno verso il cielo”, predica il pastore dispensazionalista John Hagee, della Cornerstone Church di San Antonio, Texas. Dopo la Rapture, i non credenti lasciati indietro subiranno sette anni di indicibili sofferenze, chiamate la Great Tribulation, che culminerà con l’ascesa dell’Anticristo e con la battaglia finale di Armageddon fra Dio e Satana. Dopo aver vinto quella battaglia, Cristo manderà tutti i non credenti nelle profondità infuocate dell’inferno, rifarà verde il pianeta, e regnerà in pace sulla terra coi Suoi seguaci per mille anni.
I dispensazionalisti non saturano il mercato di interpretazione della Fine dei Tempi. I ricostruzionisti (noti anche come dominionisti), una setta più piccola ma politicamente influente, collocano la chiave del ritorno di Dio non nelle profezie bibliche, ma nell’attivismo politico. Credono che Cristo farà il suo Secondo Avvento solo quando il mondo abbia preparato un posto per Lui, e che il primo passo per preparare l’arrivo si quello di cristianizzare l’America.
Una politica cristiana ha compe principale intento quello di conquistare la nazione: uomini, famiglie, istituzioni, burocrazie, tribunali, governi, per il Regno di Cristo”, scrive il ricostruzionista George Grant. Il dominio cristiano sarà raggiunto ponendo fine alla separazione fra chiesa e stato. Sostituendo alla democrazia USA una teocrazia dominata dalla legge del Vecchio Testamento, tagliando tutti i programmi sociali pubblici, e rivolgendo questo impegno invece alle Chiese cristiane. I ricostruzionisti vogliono anche abolire tutte le agenzie pubbliche di regolazione, come la EPA (Environment Protection Agency), perché rappresentano una deviazione dallo scopo di cristianizzare l’America, e conseguentemente il resto del mondo. “La conquista del mondo. Questo è quanto Cristo ci ha chiesto di realizzare” continua Grant. “Dobbiamo vincere il mondo col potere del Vangelo. E non dobbiamo accontentarci di niente di meno”. Solo quando quella conquista sarà compiuta, il Signore potrà tornare.
State tranquilli e felici!
Non ci si può aspettare che persone sotto l’influenza di profezie tanto potenti si preoccupino per l’ambiente. Perché badare al pianeta se la siccità le alluvioni e le pestilenze portate dal collasso ecologico sono segni dell’Apocalisse anticipata dalla Bibbia? Perché preoccuparsi del cambiamento climatico globale se tu e i tuoi cari sarete portati in cielo con la Rapture? Perché impegnarsi a convertire dal petrolio al solare, se lo stesso Dio che ha fatto il miracolo dei pani e dei pesci può tirar su qualche milione di barili di greggio con una Parola?
Molti credenti della Fine dei Temi ritengono che fino al ritorno di Cristo in qualche modo Dio provvederà. In America's Providential History, un diffuso libro di testo per le scuole superiori di ispirazione ricostruzionista, gli autori Mark Beliles e Stephen McDowell ci raccontano che: “Il materialista, il socialista, ha una mentalità da risorse limitate, e vede il mondo come una torta ... che deve essere tagliata a pezzi in modo che ciascuno possa averne una fetta”. Invece “il Cristiano sa che il potenziale del Signore è illimitato, e che non c’è scarsità di risorse nella Terra di Dio. La risorse aspettano solo di essere attinte”. In un altro passaggio, gli scrittori spiegano: “Molti materialisti vedono il mondo sovrappopolato, ma il Cristiano sa che Dio ha fatto la terra grande a sufficienza e con abbondanza di risorse per ospitare tutte le genti”.
Lo spreco delle risorse naturali e la sovrappopolazione, dunque, non preoccupano i fedeli della Fine dei Tempi, né lo fanno altre catastrofi ecologiche, viste dai dispensazionalisti come presagi della Great Tribulation. Lo spunto per questo punto di vista viene da un passaggio di undici parole, in Matteo 24:7: “[Ci] saranno fame, e pestilenze, e terremoti in diversi luoghi”. Altri fedeli individuano tracce di catastrofe ecologica nei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse - Guerra, Fame, Pestilenza, Morte – e citano un verso che nomina l’alto prezzo del grano, dell’orzo, dell’olio, come anticipazione della mancanza di cibo e combustibili fossili. Durante la Fine dei Tempi, ai quattro cavalieri sarà “dato potere su un quarto della terra per uccidere con la spada, la fame, le pestilenze, le bestie selvagge della terra”. Alcuni credenti sottolineano che Apocalisse 8:8-11 prevede che una grande montagna cadrà nel mare, causando grande distruzione, seguita da una stella splendente caduta dal cielo. Questa stella è chiamata Assenzio, che a detta dei dispensazionalisti si può liberamente tradurre in ucraino con la parola Chernobyl.
Una gran quantità di predicatori, film, siti web di ispirazione Fine dei Tempi salutano i cataclismi ambientali come Buone Notizie: annunci del Nuovo Avvento. Il lavoro non-fiction di Hal Lindsey del 1970, The Late Great Planet Earth, è un classico del genere; la sua versione cinematografica bombarda gli spettatori con abbondanti dosi di esplosioni nucleari, nubi inquinanti, alluvioni devastanti, api assassine. Nello stesso modo, l’autore dispensazionalista Tim LaHaye nei sui romanzi Left Behind – che in un certo periodo hanno venduto 1,5 di milioni di copie al mese – mescola i disastri ecologici in un racconto d’azione ispirato da profezie.
Su sito RaptureReady.com, il “Rapture Index” elenca tutte le ultime notizie correlate alla profezia biblica. Fra in principali indicatori di Apocalisse, ci sono la disponibilità di petrolio e relativo prezzo, la fame, la siccità, le pestilenze, il cattivo tempo, le inondazioni, il clima. Il responsabile di RaptureReady Todd Strandberg scrive a spiegare perché i cambiamenti climatici sono inclusi nella lista: “Credevo non ci fosse davvero bisogno che i Cristiani tenessero sotto osservazione i cambiamenti legati all’effetto serra. Se ci volevano un paio di centinaia d’anni perché le cose si facessero serie, pensavo che la vicinanza della Fine dei Tempi avrebbe oscurato questo problema. Con una velocità del cambiamento climatico ora tanto rapida, il riscaldamento globale sarà un fattore centrale nelle calamità della Tribulation”.
Un altro indice di profezie indica elementi di tipo naturale (siccità in in Etiopia, fame in Sud Africa, inondazioni in Russia, incendi in Arizona, ondate di caldo in India, lo scioglimento della calotta antartica) come prova dell’avvicinarsi del giorno del giudizio, sottolineando come “Quando queste cose cominceranno ad accadere, rialzatevi, sollevate il capo, perché la vostra redenzione è vicina” (Luca 21:28).
Secondo una mappa sul sito Fine dei Tempi ApocalypseSoon.org, siamo “all’inizio dei dolori” (Matteo 24:3-8) che segna la Great Tribulation. Il sito offre un link a un articolo della BBC News sulle malattie infettive e a una cronaca degli eventi climatici estremi sul sito del giornalista Ross Gelbspan, vincitore del Pulitzer, come prova di questo “inizio dei dolori”. Ad ogni modo, aggiunge una secca raccomandazione riguardo a questi links esterni: “Non vogliamo in alcun modo approvare o consigliare questi siti. Sono stati scelti semplicemente perché documentano letteralmente cosa prevede la Parola di Dio per la Fine dei Giorni”.
Per capire in che modo la visione del mondo della destra cristiana sta formando e alimentando l’antiambientalismo parlamentare, prendiamo il caso di due influenti legislatori cristiani rinati: il leader della maggioranza in Senato Tom DeLay (Texas) e il presidente della commissione Ambiente e Lavori Pubblici del Senato James Inhofe (Oklahoma).
DeLay, che ha considerevole potere nel definire l’agenda parlamentare, ha auspicato un “muover[si] in avanti con una visione del mondo biblica” della politica USA, come riferisce Peter Perl sul Washington Post Magazine. DeLay vuole convertire l’America in una nazione “Centrata su Dio”, il cui governo promuova la preghiera, l’adorazione, l’insegnamento dei valori cristiani.
Inhofe, il più esplicito critico dell’ambientalismo in Senato, è incrollabile anche nella sua volontà di ricostruire l’America come stato cristiano. Parlando all’incontro della Christian Coalition, Road to Victory, appena prima della grande vittoria del Grand Old Party alle elezioni intermedie del 2002, ha promesso ai credenti: “Quando vinceremo alla rivoluzione di novembre, starete facendo l’opera del Signore, ed Egli vi benedirà per questo!”.
Né DeLay né Inhofe includono la tutela dell’ambiente nella “opera del Signore”. Entrambi hanno tuonato contro l’EPA, chiamandola “la Gestapo”. DeLay ha combattuto per cancellare le leggi Clean Air e Endangered Species. L’anno scorso, Inhofe ha invitato un folto gruppo di studiosi scettici riguardo ai mutamenti climatici indotti dai combustibili fossili a testimoniare di fronte al Senato, con culmine nella su definizione del riscaldamento globale: “la più enorme bufala perpetrata ai danni del popolo americano”.
DeLay ha affermato seccamente che intende spezzare la visione del mondo “socialista” degli “umanisti materialisti” che, sostiene, controllano il sistema politico USA, i media, le scuole pubbliche e le università. Ha definito l’elezione presidenziale del 2000 un’apocalittica “battaglia per le anime”, una lotta mortale contro le forze del liberalismo, del femminismo, dell’ambientalismo, che stanno corrompendo l’America. I sogni utopici di questi movimenti sono maledetti, sostiene il leader della maggioranza, perché essi non scaturiscono da Dio.
”DeLay è motivato più che altro dal potere” afferma Jan Reid, coautore insieme a Lou Dubose di The Hammer, un’appena pubblicata biografia di DeLay. “Ma crede anche nel potere del prossimo Avvento [di Gesù Cristo], e ci costruisce la sua visione del mondo e del governo”. Questo può spiegare perché gli arredi dell’ufficio di DeLay in Campidoglio comprendano una copia in marmo dei Dieci Comandamenti, e un manifesto sul muro che recita: “Questo Potrebbe Essere Il Giorno” (il Giorno del Giudizio).
DeLay è anche per sua asserzione membro dei Sionisti Cristiani, una fazione di credenti Fine dei Tempi che conta 20 milioni di americani. I Sionisti Cristiani credono che la creazione nel 1948 dello Stato di Israele abbia segnato il primo evento in quello che lo scrittore Hal Lindsey chiama “il conto alla rovescia di Armageddon” e sono impegnati ad accelerare quell’orologio, avvicinando il ritorno di Cristo.
Nel 2002, DeLay ha visitato la Cornerstone Church del pastore John Hagee. Hagee dava nella sua predica un chiaro messaggio, tanto semplice quanto orribile: “La guerra tra America e Iraq è la porta dell’Apocalisse!” diceva, spingendo i suoi fedeli a sostenere la guerra, per avvicinare il Secondo Avvento. Una volta terminato il sermone di Hagee, DeLay si alzò a sostenere l’appello. “Signore e Signori” disse “quella che è stata pronunciata qui è la Verità di Dio”.
Con queste parole – diffuse da 225 televisioni e stazioni radio cristiane - DeLay si è collocato decisamente nel campo della Fine dei Tempi, una fazione desiderosa di imporre l’Apocalisse al resto del mondo. In parte, DeLay può anche abbracciare Hagee e altri come lui in un tentativo calcolato di ottenere i voti dei fondamenalisti: ma va ricordato che è cresciuto come Southern Baptist, dentro un’interpretazione strettamente letterale della Bibbia e dei dogmi. Il suo biografo Dubose dice che il leader della maggioranza probabilmente non coglie le complessità teologiche di dispensazionalisti e ricostruzionisti, ma “sono convinto che [ci] creda”. Per quanto riguarda DeLay, mi ha detto Dubose, “Se lo dice John Hagee, allora è vero”.
James Inhofe potrebbe essere il peggiore incubo di un ambientalista. Il senatore dell’Oklahoma prende decisioni politiche di capitale importanza basandosi su pesanti influenze di impresa e teologiche, simil-scientifiche, probabilmente su una visione del mondo apocalittica: ed è presidente della Commissione Ambiente e Lavori Pubblici del Senato.
I legami della commissione coi finanziatori dal mondo dell’impresa sono più facili da ricostruire, e più infami, di quanto non siano quelli con il fondamentalismo religioso, ed è vero che non si può mai dire troppo sull’influenza del denaro. Dal 1999 al 2004, Inhofe ha ricevuto più di 588.000 dollari dall’industria dei combustibili fossili, dei servizi elettrici, dell’estrazione, e da altri interessi legati alle risorse naturali, secondo i calcoli del Center for Responsive Politics. Otto degli altri nove membri repubblicani della commissione di Inhofe hanno ricevuto una media di 408.000 dollari a testa dal settore energia e risorse naturali nello stesso periodo.Per contro, gli otto democratici della commissione e l’unico indipendente, si sono accontentati di una media di soli 132.000 dollari a testa dagli stessi settori dal 1999.
Ma l’influenza della teologia, anche se meno trattata, non è meno significativa. Anche Inhofe, come DeLay, è un Sionista Cristiano. Anche se il senatore non ha espresso esplicitamente il suo punto di vista religioso nella commissione ambiente, l’ha fatto parlando di altre questioni. In un discorso al Senato sulla politica estera, Inhofe ha sostenuto che gli USA dovrebbero allearsi incondizionatamente a Israele “perché l’ha detto Dio”. Citando la Bibbia come il divino verbo di Dio, Inhofe ha citato la Genesi 13:14-17 – “tutta la regione che tuvedi, io la darò a te, ed alla tua discendenza, in eterno” – a giustificazione dell’occupazione in permanenza da parte di Israele della West Bank, e per le crescenti aggressioni contro i Palestinesi.
Inhofe sostiene anche apertamente il dispensazionalista Pat Robertson, che spaccia qualunque tornado, uragano, epidemia, attentato suicida, come segni del ritorno di Dio, che ha accusato sia Jimmy Carter che George Bush Senior di essere seguaci di Lucifero, e che non fa segreto degli sforzi della sua Christian Coalition per controllare il Partito Repubblicano, secondo gli studi di Theocracy Watch.
Da buon fondamentalista, Inhofe si è guadagnato un tondo 100% di valutazione da parte dei principali tre gruppi di pressione della destra cristiana, e un corrispondente 5% dalla League of Conservation Voters (più una serie di zeri dal 1997 al 2002). Allo stesso modo, otto degli altri nove repubblicani della commissione Ambiente e Lavori Pubblici si sono guadagnati una media del 94% di approvazione nel 2003 dalla destra cristiana, e un misero 4% dagli ambientalisti. L’unica eccezione conferma la regola: il moderato Lincoln Chafee lo scorso anno si è guadagnato il 79% dalla LCV e solo il 41% dalla destra religiosa.
Come presidente di commissione, Inhofe ha sottilmente preferito le sacre scritture alla scienza. Le fonti del suo discorso al Senato del 2003 contro la scienza e il cambiamento climatico globale, ad esempio, rivelano i suoi due mandanti: il discorso può essere fatto risalire ai think tanks dell’industria dei combustibili fossili e della finanza petrolchimica, ma anche alla pseudo-scienza dei siti web cristiani. Nella sua invettiva di due ore, Inhofe dismissed global warming by comparing it to a 1970s scientific scare that suggested the planet was cooling -- a hypothesis, he fails to note, held by only a minority of climatologists at the time. Inhofe's apparent source on global cooling was the Acton Institute for the Study of Religion and Liberty, a Christian-right and free-market economics think tank. In an editorial on that site called "Global Warming or Globaloney? The Forgotten Case for Global Cooling," we hear echoes of Inhofe's position. The article calls climate change "a shrewdly planned campaign to inflict a lot of socialistic restriction on our cherished freedoms. Environmentalism, in short, is the last refuge of socialism." Inhofe's views can be heard in the words of dispensationalist Jerry Falwell as well, who said on CNN, "It was global cooling 30 years ago ... and it's global warming now. ... The fact is there is no global warming."
Inhofe's views are also closely tied to the Interfaith Council for Environmental Stewardship, a radical-right Christian organization founded by radio evangelist James Dobson, dispensationalist Rev. D. James Kennedy of Coral Ridge Ministries, Jerry Falwell, and Robert Sirico, a Catholic priest who has been editing Vatican texts to align the Catholic Church's historical teachings with his free-market philosophy, according to E Magazine.
The ICES environmental view is shaped by the Book of Genesis: "Be fruitful and multiply; fill the earth and subdue it. Have dominion over the fish of the seas, the birds of the air, and all the living things that move on this earth." The group says this passage proves that "man" is superior to nature and gives the go-ahead to unchecked population growth and unrestrained resource use. Such beliefs fly in the face of ecology, which shows humankind to be an equal and interdependent participant in the natural web.
Inhofe's staff defends his backward scientific positions, no matter how at odds they are with mainstream scientists. "How do you define 'mainstream'?" asked a miffed staffer. "Scientists who accept the so-called consensus about global warming? Galileo was not mainstream." But Inhofe is no Galileo. In fact, his use of lawsuits to try to suppress the peer-reviewed science of the National Assessment on Climate Change -- which predicts major extinctions and threats to coastal regions -- arguably puts him on the side of Galileo's oppressors, the perpetrators of the Christian Inquisition, writes Chris Mooney in The American Prospect.
"I trust God with my legislative goals and the issues that are important to my constituents," Inhofe has told Pentecostal Evangel magazine. "I don't believe there is a single issue we deal with in government that hasn't been dealt with in the Scriptures." But Inhofe stayed silent in that interview as to which passages he applies to the environment, and he remained so when I asked him if End-Time beliefs influence his leadership of the most powerful environmental committee in the country.
I tentativi di accelerare la Fine dei Tempi sono diventati tanto strampalati, che un gruppo di allevatori ultra-cristiani del Texas di recente ha aiutato degli ebrei fondamentalisti di Israele a selezionare esemplari puri di vacca rossa, un tipo geneticamente raro, che è quello specifico da sacrificare per realizzare una profezia apocalittica contenuta nel biblico Libro dei Numeri (l’animale sarà pronto per il sacrificio entro il 2005, secondo la National Review).
Deve essere difficile per gli ambientalisti, molti dei quali si rompono la testa con l’informazione scientifica, immaginare che qualcuno possa credere che un vitello color ruggine possa provocare la fine del mondo, o che qualcuno possa ricostruire una storia della Fine dei Tempi (e figuriamoci una politica nazionale) a partire dalle simbologie poetiche del libro dell’Apocalisse. Ma nell’America di oggi ci sono milioni di persone del genere: compresi 231 legislatori che, o credono alle dottrine dispensazionaliste o ricostruzioniste, oppure per calcolo politico sono ben felici di allinearsi a quelli che ci credono.
È preoccupante, perché il credo in questione è antitetico all’ambientalismo. Tanto per cominciare, qualunque scienza ambientale che contraddica l’interpretazione delle sacre scritture della cultura Fine dei Tempi, diventa automaticamente sospetta. Questo spiega il disprezzo per l’approccio scientifico all’ambiente così diffuso fra i legislatori cristiani fondamentalisti: negare il riscaldamento globale, la distruzione dello strato di ozono, l’avvelenamento causato da arsenico o mercurio di produzione industriale.
Più importante, le credenze Fine dei Tempi rendono questi problemi del tutto ininfluenti. La fede nell’imminente ritorno di Cristo causa nei fedeli un interesse esclusivo per i risultati politico-teologici di breve termine, non per le soluzioni di lungo periodo. Sfortunatamente, quasi tutte le questioni ambientali, dalla conservazione delle specie in pericolo al contenimento del cambio climatico, richiedono fiducia e impegno per un mondo che continua. E sinora, nessun tipo di prova scientifica si è rivelato in grado di scuotere i credenti dalla propria fede, o di portarli verso la causa della salvezza ambientale.
”È come se metà di questa nazione volesse guidare la nave dello stato con la bussola: una bussola che funziona attraverso la scienza, la razionalità, il buon senso empirico” ha punzecchiato l’attore Bill Maher al Larry King Live. “E l’altra metà voglia farlo uccidendo un pollo e leggendo le viscere, come facevano ai tempi del vecchio Impero Romano”.
Chi dubita degli effettivi pericoli di questo tipo di politica basata sulla fede, deve solo ricordarsi i dirottatori dell’11 settembre, che devotamente credevano ci fossero settantadue vergini dagli occhi neri ad aspettarli, come ricompensa, in paradiso.
Nel passato, non era ritenuto politicamente corretto far domande approfondite sulle convinzioni religiose intime di un legislatore. Ma nel momento in cui queste convinzioni giocano un ruolo cruciale nel formare le politiche pubbliche, diventa necessario che il pubblico le conosca e le capisca. Può apparire sorprendente, ma la grande domanda che non è stata posta, e che deve invece essere fatta, ai 231 parlamentari USA sostenuti dalla destra cristiana, e allo stesso Presidente Bush, non riguarda le cosucce sulle pressioni religiose ai candidati nel recente dibattito presidenziale. Riguarda invece pesanti e specifiche questioni sui particolari, di questa fede: credete che ci troviamo alla Fine dei Tempi? Le politiche governative che sostenete, si basano sulla vostra fede nell’imminente Secondo Avvento di Cristo? Non è esagerato affermare che il destino del nostro pianeta dipende dal nostro porre tali domande, e dalla nostra capacità di ridefinire le nostre strategie ambientali alla luce delle risposte.
Molti anni fa, un mio amico mi presentò i suoi “nonni religiosi” che, ogni volta veniva loro domandato qualcosa sul futuro, proclamavano “sta arrivando l’Armageddon!”. E ci credevano. Cristo poteva tornare da un giorno all’altro, e di conseguenza loro non si preoccupavano di ridipingere o rifare il tetto alla casa. A cosa sarebbe servito? Anno dopo anno, sono tornato in quel posto a guardare gli strati di vernice pelarsi, le tavole di legno scoperte invecchiare, davanzali e tetto marcire. Alla fine la casa cadde in rovina e fu necessario abbatterla, lasciando per strada i nonni del mio amico.
In qualche modo, le loro previsioni si sono dimostrate esatte. Ma questa umile apocalisse, una casa che crolla su se stessa, non era opera di Dio, ma dell’uomo. È una parabola dedicata ai 231 parlamentari sostenuti dalla destra religiosa del 108° Congresso. Le loro convinzioni sostenute istituzionalmente possono portare all’auto-inveramento della peggiore e più distruttiva profezia mai annunciata di tutti i tempi.
Nota: qui il link al testo originale su Grist Magazine; qui invece i numerosissimi,vari e vivaci commenti sulla medesima rivista, il 22 gennaio, che questo acuto e provocatorio articolo ha suscitato fra credenti e non. Anche un articolo proposto da Eddyburg tempo fa, proponeva gli stessi temi (f.b.).
Titolo originale: Charles Plan Would Require Clustered Development – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Una proposta pensata per tutelare le zone rurali della Charles County e scoraggiare lo sprawl ha suscitato un vivo dibattito sul tipo di edificazione che sarà consentita per l’80% del territorio.
Le norme chiedono ai costruttori di realizzare le case per gruppi, su appezzamenti di piccole dimensioni, e conservare gli spazi aperti come campagne e boschi.
La proposta, presentata lunedì in una riunione della Planning Commission, ha sollevato appassionate proteste da parte dei coltivatori, che sostengono che così le loro proprietà diventeranno meno appetibili per i costruttori, rendendo più difficile ritirarsi dall’attività o cedere i terreni ai figli.
”Non ci sono più molti coltivatori” ha detto Gilbert Bowling di Newport al comitato, di fronte a un pubblico di circa 70 persone. “L’agricoltura è in difficoltà e ha bisogno di sostegni. Questo non lo è”.
Le norme di zoning della contea richiedono circa 1,2 ettari per ogni abitazione costruita, ovvero circa 40 ettari per ogni 33 case. Per un nuovo insediamento di sei o più abitazioni, le modifiche proposte prevedono che il proprietario dei terreni conservi il 65% delle superfici, concentrando gli interventi sul restante 35%. Le regole non valgono per lottizzazioni con superfici di 8 ettari, o meno di sei abitazioni.
Si discute, se le proposte modifiche – per le aree di conservazione agricola e rurale della contea, 100.000 ettari – riducano la quantità di abitazioni che è possibile edificare.
”È possibile garantire che concentrando non si perda qualche lotto? No” dice il direttore per l’urbanistica David Umling. “Non esistono verità assolute”.
Umling sostiene che il numero di abitazioni edificabili dipenderà dalle caratteristiche delle proprietà, come in fatto che il suolo in alcune zone sia adatto al filtraggio delle acque.
Una risposta che non soddisfa i coltivatori e gli altri, convinti che la contea sia più preoccupata di proteggere le vedute paesaggistiche che non i diritti dei proprietari.
”State semplicemente obbligandoci a rinunciare al 65% della nostra proprietà” dice il coltivatore Jim Maus di Nanjemoy. E aggiunge un po’ per scherzo,”Ho una ventina di ettari, sarei lieto di venderveli”.
La quantità di terre agricole è diminuita rapidamente nella contea di Charles, zone un tempo dominata dalla produzione di tabacco. Ce n’erano 22.000 ettari nel 2002, contro i 27.500 del 1987. Il numero delle aziende è sceso del 7%, sino a 418 unità, dal 1997 al 2002.
Un piccolo gruppo di proponenti, ha dichiarato alla riunione di lunedì che queste norme sono urgentemente necessarie, perché molti dei contratti di sovvenzione statali del tabacco scadranno nel 2011. Con la fine di questi pagamenti, potrebbero rendersi disponibili all’edificazione oltre 4.000 ettari di terreni.
Alcuni residenti approvano la proposta perché tenta di prevenire un’edificazione continua. “La bellezza del paesaggio rurale attira edificazione, che però per prima cosa distrugge le caratteristiche naturali che hanno attirato le persone” dice Cheryl Thomas di Welcome, membro della Conservancy of Charles County.
Agli oppositori, le norme proposte riecheggiano un piano dell’anno scorso, che richiedeva otto ettari per ogni abitazione. La proposta fu respinta dal consiglio della Charles County.
All’epoca, quattro su cinque componenti si dichiararono invece favorevoli all’obbligo di clustering dell’edificazione. Charles Rice, urbanista responsabile per le zone agricole della contea, dice che la concentrazione degli interventi potrebbe attirare i costruttori, dato che consente più edifici su meno suoli.
Almeno altre sette contee del Maryland richiedono questo clustered development, con indicazioni variabili per quanto riguarda gli spazi aperti. La proposta della Charles per il l 65% si colloca in una posizione intermedia. Le contee Calvert e Baltimore prevedono rispettivamente di conservare 80 e 70 per cento. La St. Mary la Wicomico richiedono entrambe il 50% di spazi aperti.
Un progettista locale che ha lavorato su 14 insediamenti concentrati all’interno della contea, sostiene che queste norme potrebbero avere effetti indesiderati.
Timothy Lessner di Waldorf dice che la proposta va “molto, molto oltre” quanto raccomandato nel 2002 da una commissione di cittadini. I limiti per le zone agricole spingerebbero l’edificazione verso le aree boschive. “È l’esatto opposto dell’obiettivo di ridurre al minimo l’impatto sui boschi” ha scritto alla commissione urbanistica.
La commissione esaminerà le osservazioni del pubblico a partire dal 14 ottobre, e discuterà ancora il problema, prima di esprimere le proprie raccomandazioni al consiglio di contea.
Nota: il testo originale al sito del Washington Post (f.b.)
Titolo originale: Suburbs look to serve seniors – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
STANDISH — Dopo 30 anni, Betty Edwards si è abituata alla vita qui a Standish: gli amici che incontra quotidianamente, i negozi che hanno tutto quello di cui ha bisogno, la bellezza e tranquillità di stare sul Sebago Lake.
La signora Edwards, novantenne attiva, se la cava bene. Ma si preoccupa perché un cambio nella sua situazione potrebbe significare andarsene da Standish, cosa che non vuole fare.
La popolazione di età superiore ai 65 anni è in crescita nei sobborghi a ovest di Portland, una tendenza che sta accentuando la domanda di abitazioni. I nuclei che non rispondono a questa domanda rischiano di perdere i residenti più anziani.
”Sarebbe davvero odioso andarmene da Standish” dice la signora Edwards.
Il sentimento è reciproco. La cittadina recentemente ha istituito un comitato per trovare soluzioni per le abitazioni degli anziani, di cui la signora Edwards è membro.
Secondo il censimento del 2000, i residenti anziani sono il 15% della popolazione nella regione dei Laghi, lo stesso che a Portland. Le cittadine di Bridgton, Casco, Gorham, Naples, Raymond, Sebago, Standish e Windham hanno tutte visto un aumento degli abitanti senior.
Larry Gross, direttore della Southern Maine Area Agency on Aging, afferma che questo fenomeno si chiama “ aging in place” ovvero che gli anziani tendono a fermarsi, invecchiando.
Questo può diventare un problema se le amministrazioni non sono preparate a offrire servizi come trasporti, centri medici, attività sociali e abitazioni, dice Gross.
Gli anziani offrono una ricchezza di conoscenze ed esperienza che le città devono cercare di trattenere.
”Mi piace pensare che le cittadine stiano cominciando a riconoscere come sia importante il contributo della popolazione anziana al tessuto sociale” dice Gross.
L’amministrazione di Windham ha risposto alla domanda di abitazioni. Avesta Housing, l’agenzia che sovrintende la costruzione di quartieri a prezzo controllato nel su del Maine, gestisce ora un complesso del genere, New Marblehead Manor, e sta per aprirne un altro, Unity Gardens. Entrambi hanno lunghe liste d’attesa.
Questa primavera, l’agenzia ha avuto l’approvazione per un progetto di appartamenti per anziani dentro un complesso residenziale nella zona di Little Falls, vicono al confine tra le circoscrizioni di Windham e Gorham.
Deborah Keller della Avesta dice che l’agenzia gestisce nove complessi residenziali nella fascia occidentale dei sobborghi, come Stone Crest, struttura per anziani a Standish con 12 alloggi e una lista d’attesa. La maggior parte dei progetti sono realizzati e gestiti con l’aiuto di fondi federali. I complessi migliori sono quelli che favoriscono l’indipendenza, stanno vicini a servizi come il supermercato, e offrono attività sociali.
Ma i costruttori devono affrontare anche alcuni problemi, dal reperimento di fondi sufficienti a quello di un’area adatta allo scopo. Keller dice che ci possono volere mesi o anni per trovare terreni adeguati. In tutti i centri, i costruttori si trovano anche di fronte a norme e regole che possono rendere difficile l’edificazione, dice.
La consigliera municipale di Standish, Cindy Hopkins, afferma che esistono parecchie forze che tendono a spingere gli anziani fuori dalle loro case, come la difficoltà di pagare le tasse immobiliari. Hopkins fa parte del comitato cittadino che si occupa della carenza di residenze per anziani.
Nella ricerca delle risposte ai problemi, il comitato ha chiesto consiglio a funzionari del Maine Department of Health and Human Services, o a costruttori specializzati in case a prezzi controllati per anziani. È stato condotto anche un sondaggio telefonico informale sui residenti più anziani per individuarne i bisogni. Il comitato spera di presentare al consiglio municipale un rapporto sui risultati dell’indagine entro un mese.
Hopkins, residente di lunga data a Standish, dice che la cittadina deve ai suoi residenti anziani la ricerca dei modi per farli restare. “Se possono restare a Standish, dicono di poter restare a casa”.
Jolene Webber, altro membro del comitato, che abita a Standish dal 1951, dice di poter nominare parecchi amici che hanno dovuto spostarsi a causa di un problema con la casa.
A partire da lavoro col comitato e dalle discussioni con amici, Webber, di 75 anni, ha iniziato a chiedersi cosa avrebbero fatto lei e suo marito se fossero stati costretti ad andarsene dalla città. “Un centro come Standish dovrebbe prendersi cura della sua gente” dice. “Si dovrebbe cominciare a fare progetti a questo proposito”.
Per parte sua, la signora Edwards sa che non sarà facile andarsene, se dovesse arrivare quel giorno.
”é una decisione molto dura, per chi ha vissuto qui per tanto tempo”, dice.
Ma Edwards è ancora ottimista per il futuro. Auspica quella che chiama una “comunità di adulti attivi”. È una persona sociale, e desidera un luogo con piccoli appartamenti e attività comunitarie, vicino ai negozi.
Se Standish avesse un posto come quello, ci andrebbe in un secondo. Pensa che ci sarà, un giorno.
Nota: qui il testo originale al sito del Portland Press Herald ; qui su Eddyburg, un articolo dei "nuovi urbanisti" Duany e Plater-Zyberk dedicato all'insieme dei problemi suburbani, compreso quello degli anziani (f.b.)
Titolo originale: Baghdad’s mayor complains about crumbling capital – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
BAGHDAD, Iraq – Il sindaco di Baghdad martedì ha denunciato le infrastrutture cittadine che cadono a pezzi, e l’impossibilità di offrire acqua potabile sufficiente per gli abitanti, minacciandole dimissioni se il governo non metterà a disposizione più fondi.
Il discorso tenuto da sindaco Alaa Mahmoud al-Timimi è un segno della miseria quotidiana sopportata ancora dai 6,45 milioni di persone che abitano a Baghdad, a due anni di distanza dall’invasione guidata dagli USA. Sono colpiti duramente non solo dagli incessanti attentati con bombe e sequestri di persona, ma da seri problemi per quanto riguarda l’acqua, elettricità e carburanti.
”È inutile per qualunque funzionario restare in carica, se non si hanno i mezzi per fare il proprio lavoro” ha dichiarato al-Timimi ai giornalisti.
Il sindaco sta cercando di ottenere 1,5 miliardi di dollari per la città da investire nel 2005, ma sinora ha avuto solo 85 milioni, come dice il suo portavoce Ameer Ali Hasson.
I tentativi di estendere la rete idrica sono stati vanificati all’inizio del mese, quando la guerriglia ha sabotato un condotto nei pressi di Baghdad. Ora, alcuni lamentano che l’acqua che arriva puzza, e Hasson riconosce come in alcune aree l’acqua potabile si mescoli con quella delle fogne.
”I problemi stanno aumentando sempre più” conferma il sindaco al-Timimi, uno sciita entrato in carica nel maggio 2004.
Il condotto è stato riparato, e si prevede che i livelli dell’acqua torneranno normali entro i prossimi giorni, è stato detto ai giornalisti. Ma questo non migliorerà le carenze che già c’erano prima del sabotaggio, riconosce il sindaco.
”Faccio parte del governo, e sono consapevole dei problemi nazionali” ha detto al-Timimi. “Ma devo avere il massimo sostegno tecnico da parte degli organi responsabili del governo. La gente da la colpa a me, e alla amministrazione municipale di Baghdad”.
Secondo il municipio, la capitale mette a disposizione circa 2,5 miliardi di litri al giorno, quasi 1,7 miliardi in meno del fabbisogno. Circa il 55% dell’acqua poi va persa, per danni alle condutture.
A questo si aggiungono le carenze in elettricità e carburanti.
Le cadute di tensione elettrica erano comuni nell’epoca di Saddam Hussein, a causa delle carenze della rete distributiva, ma la situazione è peggiorata a causa dei sabotaggi e alla mancanza di manutenzione.
Prima dell’invasione guidata dagli USA, gli abitanti di Baghdad avevano a disposizione circa 20 ore di elettricità al giorno. Oggi ne hanno circa 10, di solito ripartite in blocchi di due ore.
In più, l’Iraq non è in grado di raffinare petrolio a sufficienza, e così deve importare benzina. I convogli che trasportano carburante spesso sono attaccati dai guerriglieri, e le carenze che ne derivano hanno fatto nascere a Baghdad un mercato nero.
Contemporaneamente, sempre martedì, le truppe USA hanno annunciato alcuni successi riguardo all’altro principale problema della città: le auto bomba e gli attacchi suicidi. Un portavoce ha dichiarato la riuscita di una recente operazione.
”Abbiamo avuto un successo verificabile” ha detto il portavoce della coalizione Brigadier Generale Don Alston, dell’Aviazione. Non ha aggiunto particolari.
Nella provincia occidentale di Anbar, le forze guidate dagli USA hanno fermato oltre una dozzina di sospetti militanti in un’operazione di rastrellamento antiguerriglia mirata a combattere l’ingresso dall’estero verso l’Iraq, ha aggiunto il militare.
Dal trasferimento dei poteri un anno fa, sono morti più di 1.000 uomini della sicurezza interna irachena, hanno affermato i portavoce militari USA senza specificare una cifra esatta.
Sono morti anche almeno 1.743 militari USA dall’inizio della guerra in Iraq, nel marzo 2003, secondo i calcoli della Associated Press. Almeno 1.341 di questi sono morti in seguito ad azioni ostili. 75 sono stati uccisi nel solo mese di giugno, uno dei peggiori.
Tre gruppi di guerriglia hanno votato martedì l’eliminazione dell’ex membro di gabinetto Ayham al-Samarie, un politico arabo sunnita che ha formato un gruppo allo scopo di riportare la guerriglia irachena entro il dibattito politico, secondo quanto afferma un sito web islamico.
”Annunciamo che è stato consentito di versare il sangue di Ayham al-Samarie. Siamo stati troppo pazienti con le sue bugie” recita la dichiarazione, firmata Ansar al-Sunnah, Esercito Islamico dell’Iraq, Esercito dei Mujahedeen. L’autenticità non è stata verificata.
Sono state uccise più di 1.370 persone, dalla guerriglia di matrice sunnita, da quando il primo ministro Ibrahim al-Jaafari ha formato il suo governo a base sciita il 28 aprile. [...]
Nota: la versione originale e integrale dell’articolo al sito del San Diego Union-Tribune (f.b.)
Titolo originale: The Baron’s Grand Experiment. A look back at the history of Heliopolis – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Deve essere parso un po’ strano quando nel 1905, l’industriale e finanziere belga Barone-Generale Edouard Louis Joseph Empain, conosciuto allora semplicemente come il Barone (la sua promozione al rango di generale dell’esercito avvenne durante la prima guerra mondiale), decise di costruire la sua città dei sogni nel bel mezzo del nulla. Anche più misterioso suonava il fatto che l’esatta collocazione del bel mezzo di nulla era un tratto di deserto vergine dieci chilometri a nord-est del Cairo, che allora era un posto a notevole distanza da qualunque altro.
A molti dei suoi pari grado sociali, sembrava una specie di autoesilio, ma come avrebbe dimostrato il tempo, il Barone Empain era il “Pifferaio” che poi tutti avrebbero seguito.
Empain sognava una città-oasi pulita, spaziosa, che attirasse nello stesso modo indigeni e stranieri. Come diceva al suo architetto, il famoso belga Ernest Jasper, “Voglio costruire una città nel deserto vergine. Dovrà chiamarsi Heliopolis, la città del sole. E per prima cosa voglio costruire un palazzo, un enorme palazzo. Voglio che sia magnifico”.
Il palazzo non era la stravagante residenza personale del Barone Empain, come regolarmente riportato oggi dalla stampa, ma l’Heliopolis Palace Hotel, la cui costruzione fu completata nel 1910, contribuendo a dare un tono alla Città del Sole, e conferendogli un alone storico e mistico che appare molto più affascinante e antico dei suoi soli 100 anni.
E a dire il vero si ritiene che la città di Empain sia stata realizzata nello stesso luogo dell’antica Heliopolis, o On, come è chiamata nelle Bibbia. La città che fu il grembo del rinascimento intellettuale della Grecia, culla di grandi filosofi, come Platone. E furono i greci a dare alla città il suo nome più famoso: Heliopolis. La cosa più importante è che il Barone amava così tanto l’antica città, da organizzare parecchie campagne archeologiche per disseppellirla (tutte senza risultati).
Con denaro e potere insieme, la città dei sogni iniziò a diventare realtà quando Empain e Boghos Noubar, figlio del primo ministro egiziano, ottennero l’autorizzazione a costruire la loro Città del Sole su una superficie di 5.952 feddans [ 2.500 ettari n.d.T.] di deserto vergine, a 1 lira egiziana al feddan, costituendo la Cairo Electric Railways e la Heliopolis Oasis Company per realizzare il progetto. Anche Utopia, a quanto pare, aveva bisogno di un mezzo di trasporto perché i suoi coloni Utopiani potessero spostarsi agevolmente, come sottolineò lo stesso Empain. Il suo primo grande progetto per la città furono le linee tranviarie, pensate per collegare l’oasi alla città madre.
La Heliopolis di Empain era l’immagine esatta della sua contemporanea europea, l’ideale di città giardino. Tutto era progettato per costruire un senso del luogo, dalle ampie strade e viali ai giardini pubblici e piazze. Degno di nota, l’uniforme aspetto orientale delle architetture, tutte a costruire la sensazione di una città particolare, governata da forti geometrie. Il Barone e il suo gruppo fissarono rigidi codici edilizi, vietando i fabbricati più alti di cinque piani, limitando l’altezza complessiva delle ville a 15 metri, e specificando che la superficie edificata di un lotto non poteva eccedere il 50 per cento.
La progettazione urbanistica fu concepita pensando alle diverse classi economiche e sociali e alle funzioni, definendo chiaramente i quartieri per le ville, altre zone per gli edifici residenziali e i raggruppamenti di quelli commerciali, tutti sottoposti a una serie di norme per offrire “le migliori condizioni di vita urbana” come si diceva all’epoca.
Uno degli elementi principali era lo Heliopolis Palace Hotel, luogo di ritrovo per la crème de la crème sociale, fra cui figurava il Re Farouk, assiduo frequentatore anche dei ristoranti e dello Heliopolis Sporting Club. Rinomato per i suoi lussuosi interni e gli ospiti di serie A, l’albergo aveva 400 stanze, una cupola alta 55metri, e un salone da pranzo senza eguali. Il matrimonio del figlio di Boghos Pasha si tenne all’albergo nel 1937, e ci furono migliaia di invitati. E non si trattò dell’unico evento sfarzoso, dato che l’hotel era famoso per i matrimoni dell’alta società, le serate di ballo, le feste e riunioni per il tè.
Più tardi, l’albergo fu trasformato nel quartier generale della Federazione degli Stati Arabi, prima di diventare la residenza ufficiale del Presidente egiziano.
Heliopolis si guadagnò rapidamente la reputazione di luogo privilegiato a livello nazionale per lo sport e i grandi talenti sportivi. Lo Heliopolis Sporting Club cominciò quasi subito a produrre campioni (una tradizione che continua ancora oggi). Negli anni ’40 agli sport tradizionali come golf, nuoto o squash, si aggiunsero gare più moderne. All’inizio del gennaio 1948 si disputò una delle prime gare automobilistiche nazionali, su un percorso di 50 chilometri da Heliopolis sulla via El-Thawra fino alla Suez Road. Il luogo di concentrazione fu il quartiere di El-Korba, dove cinquanta piloti egiziani e parecchi rappresentanti stranieri si incontrarono per le operazioni pre-corsa. Solh Pasha Lamloum ottenne la pole position con la sua Cadillac del 1944, seguito da Saeed Ibrahim Pasha Attallah su una Lincoln 1942 e dal Capitano Adly Lamloum con una MG sportiva. Il primo premio andò al Capitano Hussein Makram e alla sua Austin Helli 1948; Makram si portò a casa un attestato del Principe Omar Pasha Tosson (allora presidente del prestigioso Egyptian Automotive Club) e un invito al ballo allo Heliopolis Palace.
Nello stesso 1952 che vide la Rivoluzione dei Liberi Ufficiali e l’espulsione degli inglesi dall’Heliopolis Club, anche la città si vide cambiata, con la fine dell’epoca d’oro segnata dall’alta società egiziana e straniera e dal loro denaro. La Belgian Cairo Electric Railways del Barone e la Heliopolis Oasis Company furono nazionalizzate nel 1962. Fu nominato direttore generale l’ingegnere Abdel Hamid Abu El-Atta, che annunciò una nuova era, dove si sarebbe “visto un quadro dipinto a colori diversi”.
Fra le prime trasformazioni: i nuovi decisori sostituirono alla pista dell’ippodromo un grande parco pubblico. Come riporta un giornale dell’epoca: “Le corse dei cavalli sono un hobby per un pubblico molto particolare e limitato, e la pista occupa una posizione centrale nell’area. Di conseguenza, abbiamo visto la necessità di realizzare un grande parco, il primo del Medio Oriente, di trenta ettari, con un grande lago artificiale e spazi per il tempo libero. I cancelli saranno aperti al pubblico per le celebrazioni della Giornata della Rivoluzione”.
Merryland, come si chiamò poi, era un’idea del ministro Mohamed Abu Nosseir e del suo confidente, il medico Sayed Kareem.
Come notarono le autorità locali, Heliopolis iniziò presto ad attirare nuovi residenti, dando vita a un processo di spostamento di popolazione accelerato da progetti come la realizzazione e ampliamento del Cairo International Airport e vari edifici governativi che spuntavano dentro a Heliopolis o ai suoi margini. Il bisogno di nuovi lavoratori nei servizi stimolò ad accelerare ancora di più il ritmo della crescita.
Da un totale di 300 persone nel 1909, la popolazione dell’area era cresciuta sino a 300.000 abitanti nel 1962. Presto i funzionari di Heliopolis approvarono nuovi insediamenti nelle zone circostanti compreso un Tiro a Segno, e iniziarono a pensare al prolungamento della metropolitana urbana. Nel corso degli anni ’60, sembrò dissiparsi il senso di indipendenza che Empain aveva infuso sulla città. Heliopolis resisteva, ma la città fu lentamente assorbita dal governatorato del Cairo. La metropolitana dipendeva dall’autorità del Ministro dei Trasporti, che rivaleggiava coi funzionari del governatorato del Cairo per la titolarità del sistema di trasporti. In nessun modo, disse un pezzo grosso del Cairo, Heliopolis può essere una “isola separata” per quanto riguarda le decisioni. Al contrario, Heliopolis deve essere inserita nella pianificazione generale del Cairo e, naturalmente, dipendere dalla supervisione generale del governatorato.
Da quando è stata assorbita dal Cairo, Heliopolis ha visto molti cambiamenti: i rigidi codici edilizi furono immediatamente accantonati e iniziarono a crescere come funghi edifici orribili sviluppati in altezza durante il boom di popolazione degli anni ‘80. La corruzione, in particolare fra alcuni dei vertici dei distretto, consentì a molti costruttori di aggiungere piani agli edifici, in violazione della legge. Molte di queste strutture sono crollate a seguito del terremoto del 1992, stimolando le richieste per una nuova e più rigida regolamentazione edilizia a livello nazionale.
In più, la Misr Al-Gadida Company for Housing and Urban Development, responsabile del metrò di Heliopolis, riconobbe che la scarsa manutenzione aveva contribuito ad abbassare i livelli di sicurezza e ad aumentare i ritardi, senza parlare delle perdite che avevano superato i 30 milioni di LE solo nel 1991. Disperata, la compagnia propose di vendere le strutture alla Public Transport Authority, che saltò rapidamente sul carro. In breve tempo, la PTA chiese al Primo Ministro dell’epoca 18 milioni per dare qualche ritocco superficiale alla linea. Alla fine, al capo della PTA Youssef Mahmoud furono garantiti in tutto 2 milioni per completare il lavoro.
Problemi o meno, Heliopolis è sempre stata luogo di residenza per molte celebrità, come l’intellettuale Abbas Mahmoud Al-Aqqad; Primi Ministri come Kamal El-Ganzouri o Atef Sedki; noti editorialisti come Ahmed Bahgat o Younan Labib Rizq; l’ex portavoce del Consiglio della Shura Mostafa Kamal Helmy; l’ex ministro dell’Informazione Mohammed Fayek; l’ex ministro della Sanità Ismail Salam. Ora ci abita Safwat El-Sherif, attuale portavoce del Consiglio della Shura, e Heliopolis è stata la casa dell’ex presidente sudanese Gaafar El-Nomeri, dello Yemen Abduallah El-Selal [...]
E naturalmente ci sta la first Lady Suzanne Mubarak, i cui sforzi in favore del quartiere dove è nata, cresciuta, e dove vive, hanno riportato Heliopolis sotto i riflettori nazionali. Andando oltre le feste abbaglianti e i progetti urbanistici di cosmesi, la signora Mubarak ha collaborato col governo ad affrontare alcuni dei problemi più intrattabili del distretto, stimolando la salvezza del Palazzo del Barone e il restauro di altri edifici di significato architettonico ora degradati. Si dice che i suoi sforzi siano stati egualmente importanti per quanto riguarda i miglioramenti nelle reti stradali, nei ponti e gallerie completati lo scorso anno e che hanno migliorato il traffico in tutto il distretto.
E non è soltanto la Città del Sole a richiedere attenzione; molti altri centri e quartieri hanno un disperato bisogno di ritocchi per ripristinare l’aspetto di un tempo. Ma, come si suol dire, anche un viaggio di mille chilometri comincia con un solo passo. Ed è giusto che questo primo passo sia stato fatto col Gioiello del Deserto voluto dal Barone.
Nota: il testo originale – e alcune illustrazioni – al sito di Egypt Today (f.b.)
Se fosse vero – come per i "mali" del proverbio popolare – che anche le polemiche e i litigi non vengono tutti per nuocere, si potrebbe sperare che la querelle esplosa tra Legambiente da una parte, e Italia Nostra e le altre associazioni ambientaliste dall´altra, produca qualche effetto o conseguenza positiva. C´è francamente da augurarselo: nell´interesse loro innanzitutto, ma ancor più nell´interesse della natura, del territorio, del paesaggio, del nostro patrimonio artistico e culturale, della salute e della qualità della vita collettiva.
Con tutti i limiti e i difetti che si possono imputare più o meno strumentalmente agli ecologisti, si deve proprio alla loro presenza, alla loro azione, alla loro iniziativa, e in certi casi perfino al loro "estremismo", il merito d´aver impedito o quantomeno contenuto finora lo scempio finale del Belpaese. Dalla lotta all´abusivismo edilizio a quella contro l´inquinamento, per citare solo due capisaldi storici, tanti risultati non si sarebbero raggiunti senza l´impegno e la compattezza della galassia ecologista.
L´occasione, dunque, può rivelarsi propizia per aprire un tavolo di dialogo e di confronto all´interno dell´ambientalismo italiano, per tentare di superare le divergenze e ricercare possibilmente una sintesi unitaria. Se questo mondo si divide o si spacca, se questa cultura comune si disperde, il fronte è destinato certamente a indebolirsi e la battaglia allora diventa ancora più difficile. E certamente non giova il tiro al bersaglio da una sponda e dall´altra, il gioco dei sospetti e delle accuse reciproche.
Sarebbe tuttavia un grosso errore ridimensionare l´incidente, ridurlo a una questione circoscritta o locale, peggio accantonarlo o nasconderlo come una piccola bega occasionale. Qui non si tratta, infatti, soltanto di Roma o della nuova linea della metropolitana. E neppure si tratta di discutere sull´opportunità o meno d´imboccare la "via giudiziaria", come ha fatto Legambiente costituendosi in giudizio ad adiuvandum al fianco del sindaco Veltroni, contro il ricorso di Italia Nostra sul progetto del nuovo metrò.
Si tratta, piuttosto, di confrontarsi su un modello economico-sociale imperniato sulla tutela e sulla valorizzazione dell´ambiente come "regolatore dello sviluppo", come valvola di sicurezza per la salute dei cittadini, come relais d´un capitalismo moderno. Una sorta d´apparecchio "salvavita", insomma, come quelli elettromagnetici che nelle nostre case impediscono il cortocircuito, la folgorazione dei bambini che infilano le dita nella presa o di chi maneggia l´asciugacapelli con le mani bagnate.
Dal metrò di Roma, l´unica metropoli al mondo senza una vera metropolitana, all´auditorium di Ravello; dalle pale eoliche in Sardegna o altrove all´impianto di compostaggio per lo smaltimento e la riutilizzazione dei rifiuti a Grosseto, le domande della comunità riguardano aspetti fondamentali dell´organizzazione sociale, come i trasporti, l´energia, la salute, il turismo. Ognuna va affrontata in un´ottica complessiva di sistema, fuori dagli interessi municipali, al di là delle rivendicazioni più astratte o all´opposto più materiali. E probabilmente farebbero bene le associazioni, a cominciare da Italia Nostra, a non delegare completamente l´iniziativa alle singole sezioni locali, per evitare il rischio della frammentazione, della conflittualità o a volte del protagonismo.
È fin troppo scontato dire, come abbiamo già detto tante volte in passato, che gli ambientalisti non possono e non devono diventare "il partito del No". Ed è ovvio ripetere che hanno la responsabilità di formulare proposte alternative, d´immaginare soluzioni ecocompatibili, concrete e praticabili. Al giorno d´oggi, però, tutto questo non basta più.
Di fronte alla crisi internazionale, alla recessione e alla disoccupazione che avanzano, alla precarietà e alla paura che aumentano, l´ambientalismo italiano non può rifugiarsi in una ridotta isolata e nostalgica, in un "castello incantato" dove custodire le risorse naturali e i beni artistici come i codici miniati dei monaci benedettini. Deve uscire in campo aperto, mettersi in gioco, misurarsi con la realtà quotidiana per conservare da un lato e valorizzare dall´altro. L´obiettivo è quello di coniugare la salvaguardia dell´ambiente con il rilancio dello sviluppo, tanto più importante in questa fase per un Paese come il nostro povero di materie prime e ricco invece d´un patrimonio inestimabile fatto di verde, mare e coste, monumenti e chiese, quadri e sculture.
Se il pomo della discordia è dunque la leadership dell´intero movimento, bisogna intenderla nel senso d´una contesa culturale, all´interno della quale si contrappongono due visioni, due anime, due modi di interpretare le grandi questioni del nostro tempo, della nostra civiltà. Non c´è spazio per un "vecchio" e un "nuovo" ambientalismo. C´è bisogno, piuttosto, d´una coscienza comune per affrontare e magari risolvere i problemi aperti, per corrispondere alle aspettative e soddisfare le esigenze della società contemporanea.
Gli ambientalisti parlano, giustamente, d´uno "sviluppo sostenibile". Ecco: forse è arrivato il momento di parlare anche d´un "ambientalismo sostenibile", compatibile cioè con l´esigenza d´una maggiore giustizia, una maggiore sicurezza e una maggiore solidarietà. L´ambiente per l´uomo, l´intero genere umano, non contro l´uomo. L´ambiente al servizio dell´uomo, e naturalmente della donna, non l´uomo e la donna sottomessi all´assolutismo dell´ambiente.
Titolo originale: “Discovering” Williamsburg – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Rob Solano, elettricista a domicilio ventiquattrenne che ha vissuto sempre a Williamsburg, Southside, dice che non avrebbe mai pensato a un artista che si trasferisce nel suo quartiere. Era una cosa per la zona bianca, a nord, non per la comunità latina povera dove la famiglia tipo ha un reddito inferiore a 20.000 dollari l’anno.
Ma circa quattro anni fa, vicino a casa sua ha aperto il primo negozio d’arte, sulla Bedford Avenue fra la Quarta e la Quinta strada sud, e rapidamente, nel tempo che ci impieghi a pronunciare le parole “Soho a Brooklyn” (il nome di un nuovo negozio alimentare nella via a fianco) la vita di prima era in pericolo.
Gli affitti, che andavano da 300 a 500 dollari al mese prima del 2000, sono saltati a 1.500 o anche 2.000, coi nuovi abitanti di tendenza che si trasferivano qui fuggendo dai prezzi di Manhattan. Solano racconta di aver scoperto in fretta che molta fra la gente che conosceva se ne stava andando via da Brooklyn, o addirittura dalla città, perché non poteva permettersi di pagare l’affitto.
”È il fatto più grosso. Adesso stanno tutti in Pennsylvania”.
Con l’amministrazione Bloomberg che sta portando avanti un nuovo piano per il waterfront l’impennata degli affitti a Williamsburg sarà ancora più accelerata, e le cose andranno sempre peggio per una gran quantità di residenti. Dato che le gli affitti stanno salendo bruscamente anche a Bushwick e East New York, non ci sono molte alternative all’andarsene da Brooklyn, che un tempo era il simbolo della classe operaia d’America. E anche se i funzionari dell’ufficio tecnico comunale dicono che il piano attiverà un programma di “inclusione”, con più di 2.300 alloggi di edilizia sovvenzionata, fra Williamsburg e Greenpoint, non necessariamente sarà d’aiuto ai poveri cacciati da Southside.
Non è una mia conclusione. Sta scritto nella valutazione di impatto ambientale dell’ufficio urbanistica. Anche se metà delle case popolari sono destinate ad abitanti di Greenpoint-Williamsburg, il documento datato 4 marzo aggiunge che “non tutta la popolazione potenzialmente delocalizzata sarà probabilmente in grado di prendere in affitto questi alloggi”. Ciò vuol dire che rimane, almeno in parte, un “significativo impatto”.
Il che tradotto vuol dire: il documento dimostra che il piano dell’amministrazione municipale è un rischio per gli abitanti poveri di Southside, specialmente quelli nei piccoli edifici non coperti dalla regolamentazione degli affitti. Diciamocelo: gli affitti cresceranno semplicemente in base alla prospettiva di nuove abitazioni di lusso realizzate nell’area, e gli attuali abitanti di Southside, compresi parecchi alternativi, se ne saranno andati da un pezzo prima che si rendano disponibili i primi alloggi a prezzi controllati.
Rachaele Raynoff, portavoce dell’ufficio urbanistica, afferma che la variante di piano offre “un programma residenziale popolare incredibilmente aggressivo”. Definisce la valutazione di impatto ambientale “estremamente conservatrice” e dice che si creeranno più case a prezzi accessibili di quante non se ne perdano.
Ma lo studio non è così attento a proteggere i poveri. Con la vecchia giustificazione tipica dello urban renewal, essenzialmente afferma che si può procedere, dato che i poveri sono già obbligati ad andarsene in ogni caso.
Alcuni, come la signora Manuela Butler, vorrebbero rimanere – e in un’abitazione adeguata. “Prima stavamo a tavola mamma, papà, bambini. Adesso ci stiamo con altre due famiglie. I figli si sposano, e semplicemente rimangono qui”.
John Mulhern, direttore della Southside Community Mission, racconta di scorgere i segni del movimento di popolazione alle funzioni domenicali della cattolica Transfiguration Church su Marcy Avenue. I fedeli sono diminuiti, dai 1.500 di cinque anni fa, a 900.
”Stiamo perdendo un significativo numero di persone, verso la Florida, principalmente l’area di Orlando”, racconta Mulhern, e aggiunge che altri se ne sono andati a Maspeth o Ridgewood, altri a Allentown o ai Poconos a cercare case più a buon mercato.
”New York sarebbe una città più vitale se potessimo avere una base economica più varia. “È malsano rendere enormi parti della città inabitabili da famiglie di lavoratori”.
La Southside Mission ha collaborato a organizzare la Churches United for Fair Housing, a far pressione sull’amministrazione cittadina perché inserisca più case popolari nel discusso piano di Bloomberg per la variante al waterfront.
Il reverendo Jim O’Shea, un sacerdote che che aiutato a organizzare la campagna, dice che lo fa soffrire, ascoltare che descrivono il quartiere come “frontiera” e i nuovi arrivati “pionieri”.
“Sembra di sentir parlare Cristoforo Colombo”. Non avevo pensato alla cosa da questo punto di vista: è il linguaggio dell’oppressione coloniale. È ora di iniziare a vedere questa storia attraverso gli occhi degli abitanti di Southside. “È incredibile quello che succede” racconta Solano, attivista della chiesa. “Basta una cosa sola, come un caffè Starbucks, e arrivano a centinaia”.
Nota: qui il testo originale al sito del Village Voice - qui l'intero progetto di "rezoning" all'ufficio urbanistica di New York City (f.b.)
Titolo originale: I Have a Nightmare – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Quando degli ambientalisti scrivono una cosa come “ La Morte dell’Ambientalismo”, vuol dire che il movimento ha grossi problemi.
Quel saggio, scritto da due giovani ecologisti, gira su internet dallo scorso autunno, e ha provocato una guerra civile fra quelli che stanno abbarbicati agli alberi, perché sostiene che “l’ambientalismo moderno, con tutte le proprie presunzioni non provate, concetti superati, strategie esaurite, deve morire per far sopravvivere qualcosa”. È triste, ma gli autori, Michael Shellenberger e Ted Nordhaus, hanno ragione.
Il movimento ecologista USA non riesce a vincere nemmeno rispetto alle questioni prioritarie, anche se ha il vantaggio di essere quasi sempre dalla parte del giusto. Le trivellazioni petrolifere nello Arctic National Wildlife Refuge possono essere approvate da un momento all’altro, e non c’è stato sinora nessun progresso, da noi, su quello che nei tempi lunghi può essere il problema più importante per la Terra: il mutamento climatico.
Il problema fondamentale, per come la vedo io, è che i gruppi ambientalisti sono troppo spesso allarmisti. Hanno una tradizione incredibile da questo punto di vista, e così hanno perso di credibilità di fronte al pubblico. Alcuni fanno un ottimo lavoro, ma alcuni di loro potrebbero essere considerati l’equivalente, a sinistra, dei neocons: luccicanti di chiarezza morale e zelo ideologico, ma privi di sfumature. (l’industria ha anche aumentato a dismisura i rischi, esagerando il fatto che le tutele ambientali comporterebbero terribili costi economici).
“La Morte dell’Ambientalismo” è sulla mia stessa lunghezza d’onda. Un tempo ero un attivista ecologico, e condivido ancora le grandi questioni del movimento, ma ora sono scettico riguardo a quei discorsi “Ho avuto un incubo”.
Negli anni ’70 il movimento ambientalista era convinto che l’oleodotto in Alaska avrebbe devastato i branchi di caribù dell’Artico centrale. Da allora, sono quintuplicati.
Quando ho iniziato a preoccuparmi per il mutamento climatico, il raffreddamento globale e l’inverno nucleare sembravano i rischi principali. Come scriveva Newsweek nel 1975: “I meteorologi divergono tra loro su cause e tendenze del raffreddamento ... ma sono quasi unanimi nel ritenere che la produzione agricola si ridurrà per il resto del secolo”.
Questo dovrebbe insegnare agli ambientalisti un po’ di umiltà. Il problemi sono reali, ma lo è anche l’incertezza. Gli ecologisti avevano ragione rispetto al DDT che minacciava le aquile calve, per esempio, ma bloccare tutte le disinfestazioni nel terzo mondo ha portato a centinaia di migliaia di morti per malaria.
Allo stesso modo, gli ambientalisti giustamente allertavano riguardo alla pressione demografica, ma esageravano enormemente nelle stime. Paul Ehrlich sosteneva in The Population Bomb che “la battaglia per nutrire l’umanità è finita ... Centinaia di milioni di persone sono destinate a morire di fame”. Nella mia biblioteca ho un libro ancora più vecchio, Too Many Asians, con la foto di una massa di indiani in copertina. Il volume avvisa che la minaccia degli asiatici che si moltiplicano senza tregua è “anche più grave della guerra nucleare”.
Jared Diamond, autore dell’affascinante nuovo Collapse, che mostra come alcune civiltà di fatto si siano suicidate saccheggiando il proprio ambiente, dice che i falsi allarmi non sono una cattiva cosa. Il professor Diamond sostiene che se accettiamo falsi allarmi per gli incendi, perché non per la salute del pianeta? Ma le sirene degli allarmi ambientali hanno suonato così a lungo, come antifurti di macchine, da diventare solo rumori di fondo iritanti.
Da un certo punto di vista, siamo tutti ambientalisti ora. Il Pew Research Center ha rilevato che più di tre quarti degli americani concordano sul fatto che “questo paese dovrebbe fare ogni cosa per proteggere l’ambiente”. Ma il sostegno all’ambiente si accoppia al sospetto verso gli ambientalisti. La Morte dell’Ambientalismo sottolinea che un sondaggio del 2000 ha rilevato come il 41% degli americani consideri gli attivisti ecologici degli “estremisti”. Ci sono molti ambientalisti seri, naturalmente, ma quelli con eccesso di zelo hanno fatto terra bruciata.
La perdita di credibilità è un fatto tragico, perché di ambientalisti ragionevoli – senza allarmismi o esagerazioni – c’è un urgente bisogno.
Viste le incertezze e i do-ut-des, si dovrebbe dare priorità all’evitare i danni ambientali irreversibili, come le estinzioni, il mutamento climatico, la perdita di spazi naturali. E i cambiamenti irreversibili sono esattamente la posta in gioco, con l’amministrazione Bush che programma di trivellare nelle aree selvagge dell’Artico, di costruire strade nelle foreste vergini, di non fare essenzialmente nulla per il riscaldamento globale. È un programma che ci farà fare una figuraccia, davanti ai nostri nipoti.
Dunque sarebbe un fattore critico, avere un movimento ambientalista credibile, articolato e dotato di sfumature, molto rispettato. Ma ora, temo, non ce l’abbiamo.
Lo smog affascina e intorpidisce. Non conosciamo con esattezza la composizione chimica della melma che respiriamo al posto dell´aria. Neppure sappiamo valutare tutti gli effetti sulla salute umana. Sappiamo però da molti anni che oltre un certo limite non possiamo permetterci di respirarla. Nel 2008 il limite diventerà ancora più ristretto. Assisteremo allora a invenzioni ancor più strampalate di quelle escogitate in questi anni. Stratagemmi inutili e dannosi. Prese in giro clamorose. Dalle targhe pari nei giorni dispari alle auto scure nei giorni chiari. E viceversa. O come domenica scorsa a Bologna che fino a metà mattina ero d´obbligo star fermi (per non morire prima) e nel pomeriggio si poteva andare dove si voleva. Allo stadio c´era la partita. Se non c´è la partita c´è sempre un altro motivo per continuare a inquinare.
Sulla simbolicità dell´auto si é esercitata una schiera di poligrafi. Essa é nello stesso tempo velocità e audacia, ma anche protezione e riparo. Chiusura di uno spazio intimo e apertura, allargamento e divoramento di spazi esterni. Nelle principali potenze industriali, l´auto é una «formidabile concentrazione di capitali e masse operaie». È un´industria chiave. Assorbe capitali pubblici per ristrutturarsi, per adeguarsi. Ma né i raggruppamenti, né i licenziamenti (possono) limitare la sovrapproduzione. Gli stati inventano dei piccoli o grandi incentivi per sferzare il consumo definito "rottamazione". E le industrie diventano sempre più incalzanti. Producono modelli sfavillanti. I motori non smettono di aumentare la loro potenza.
Gli amministratori con il conforto dei tecnici, elaborano strategie tese a limitare e a incentivare contestualmente la libertà e la "modernità" insita nell´auto individuale. All´inizio, alle soglie del mito, sacrificarono pezzi interi di città. Allargarono storiche strade. Per farlo si dovette aumentare la capacità insediativa delle case che le delimitavano. I risultati furono presto fallimentari. Si fece allora ricorso a regole coercitive. Divieto di sosta. Divieto di svolta. Limite di velocità. Niente. Neppure i semafori sincronizzati riuscirono a impedire congestione, rumore, smog. Si fecero nuove strade. Tangenziali e assi attrezzati. Strade sopraelevate e/o interrate. Si esaltò il machismo (insito nel possesso dell´auto) con "assi di penetrazione". La quantità di interventi, di piani e di regole diventò così consistente da far ritenere che qualunque possessore di auto fosse in grado di organizzare il traffico motorizzato. Urbano e extraurbano. Ecco allora sindaci, al pari di automobilisti e urbanisti, che programmarono e in alcuni casi realizzarono alcuni parcheggi, interrati o di superficie, per dare definitiva e "positiva" risposta al grande problema. Ancora risultati disastrosi. La crisi aumentava giorno dopo giorno. Come la trasformazione dell´aria in melma.
Alcuni tecnici sostennero (e sostengono ancora) con fermezza la supremazia del traffico pubblico. Difficile da realizzare, ma indispensabile; se e in quanto lo spostamento di merci e persone avviene con mezzi motorizzati. Le statistiche purtroppo dimostrano il crescente abbandono degli utenti di mezzi di trasporto pubblico. La loro inadeguatezza è cronaca di tutti i giorni. Pur di sembrare ecologisti non pochi amministratori hanno tracciato - in genere con colore giallo - piste riservati alle biciclette. Riservate per modo di dire. Fra "corsie" autobussistiche e zone di parcheggio - in genere colorate di blu - e corsie di marcia per automobili, i ciclisti sotto sforzo sono costretti a respirare più "melma". La bici adesso è stata sostituita con il motorino, tranne che nei gironi di chiusura del traffico. Erano gli anni ?50, quando le Vespe o le Lambrette dettero avvio alla motorizzazione privata. In quegli anni di miseria diffusa, di poche case e per giunta in affitto, in attesa di possedere un´auto di piccola o minima cilindrata, il motorino poteva forse costituire un giusto equilibrio con i mezzi di trasporto pubblico, allora sovraffollati quanto antiquati. La crescente motorizzazione automobilistica ha rimesso in crisi la produzione dei motorini. Cicli e ricicli storici. Il possesso della seconda e terza auto - in sintonia con la proprietà della seconda e terza casa - ha rilanciato l´uso delle motociclette. Al caos dei provvedimenti si somma la crisi determinata da una sovrapproduzione che non può cessare. È palese a tutti ma lo si deve tenere nascosto. Il traffico non é un problema risolvibile con l´ingegneria dei trasporti. Autostrade e super strade, parcheggi e corsie riservate, giorni alterni e targhe palindrome, non possono fare fronte a un problema che mette in causa la nostra stessa capacità psichica e fisica. Qualsiasi provvedimento é inadatto a assorbire una mobilità formata da un numero crescente di mezzi di locomozione individuale. Il traffico è un problema urbanistico di assetto urbano e territoriale. Di mezzi di trasporto pubblico efficienti e dominanti. Soprattutto di pianificazione. E non di compromessi e inutili prese in giro.
Forse la statistica non è una scienza esatta, ma qualcosa conta. Per esempio, è statisticamente difficile che uno si faccia truffare due volte allo stesso modo. Potranno fregarlo forse in altri mille modi diversi (e lo fanno!), ma non proprio alla stessa maniera in cui l'hanno già derubato una volta. Eppure, ecco qui: battendosi come leoni contro la statistica (e la logica) pare che gli italiani non siano particolarmente indignati di fronte all'annuncio della nuova priorità nazionale: costruire nuovi stadi. Abbiamo bisogno di nuovi stadi come il pane, in effetti. Vorremmo ospitare gli Europei di calcio del 2012 e quindi è assolutamente prioritario costruire nuovi bestioni in cemento armato. Quelli vecchi non vanno bene, dopotutto li abbiamo rifatti soltanto quindici anni fa. Siamo un paese dalle mille risorse, e ci rifacciamo gli stadi più frequentemente di quanto la signora Pina si rifà il tinello.
Dicono le cronache che il monarca in carica fosse titubante. Dopotutto, a una popolazione che si schianta in treno perché si risparmia sulla sicurezza potrebbe non far piacere di dedicare tanta energia per ricostruire cose che già esistono. Ma pare che Franco Carraro - un grande collezionista di presidenze - abbia sventolato sotto il naso del re un bigliettino con scritto che il Portogallo con gli Europei di pallone ha aumentato di un punto il suo prodotto interno lordo.
Il re, con gli occhi a dollaro, ha dato la sua benedizione. E rieccoci qui a costruire stadi. Il dolce sapore della nostalgia ci pervade se ripensiamo all'ultima volta che ci siamo rifatti gli stadi. Notti magiche. Il pupazzo Ciao... deliziose madeleine di quando eravamo tanto fessi da pensare di essere ricchi.
Qualche imbecille ci disse che per ospitare i Mondiali dovevamo avere stadi coperti. Ed eccoci lì a dannarci l'anima per coprire gli stadi. Nessun mondiale dopo di quello ebbe stadi coperti: fu uno scherzo, insomma. Spendemmo 1.248 miliardi di lire, appena l'84 per cento in più del preventivo iniziale. Alcuni lavori sforarono di oltre il 200 per cento (Torino). Si diede lavoro a molta gente e soprattutto alle procure della Repubblica che per anni hanno indagato su quella nostra inesausta voglia di rifare gli stadi. Alcuni lavoratori edili cascarono dalle impalcature, mi pare il minimo per un paese civile. Alcune mirabolanti realizzazioni come stazioni e infrastrutture si possono ancora osservare mentre marciscono allegramente, inutilizzate e coperte di erbacce.
Fu l'ultimo ballo del craxismo imperante e, a pensarci adesso, proprio molto simile a una serata di gala sul Titanic. Sembra un film in costume, ma sono passati appena quindici anni. Capirete che gli stadi non vanno più bene.
Si dirà che quella classe dirigente fu spazzata via, che dopo tanti guasti siamo ora in grado di ricostruire il Paese e soprattutto, gli stadi. Eppure, scorrendo l'indice dei nomi, ecco molti casi di omonimia. Naturalmente il Franco Carraro che oggi è presidente della Federazione Gioco Calcio (oltre che consigliere di amministrazione di Capitalia) non ha nulla a che vedere con il Franco Carraro di allora, che era sindaco di Roma, presidente dell'organizzazione dei Mondiali. E del resto nemmeno l'attuale monarca è lo stesso Silvio Berlusconi che quindici anni fa era presidente del Milan, palazzinaro (e costruttore di stadi). Si tratta dunque di una classe dirigente completamente nuova e diversa, che chiede giustamente di superare le malefatte del passato e di costruire finalmente dei nuovi stadi, di cui abbiamo tanto bisogno. Come direbbe Biscardi «tutta l'Italia lo vuole!».
Ora basta con i bei ricordi, corriamo tutti a costruire nuovi stadi, presto! Carraro ha lanciato l'idea e Berlusconi l'ha subito accettata e benedetta. Un punto di prodotto interno lordo! Ma ve lo immaginate? Programmazione? Pianificazione e urbanistica? Sono cose da comunisti che certo non hanno nulla a che fare con il gioco del pallone. Quindici anni fa volevamo stadi grandi. Ora vogliamo stadi piccoli con il ristorante, la piscina e la sala da the. E' la normale evoluzione di un paese, il procedere del suo sviluppo culturale. Si fa notare, con gentilezza, che allora furono sperperati denari pubblici, mentre oggi si punta sui privati, garanzia di serietà. Tipo Cirio, tipo Parmalat, per intenderci, quelli che si facevano i conti in banca coi trasferelli. Poche storie, comunque, è un fatto che abbiamo impellente e insopprimibile bisogno di nuovi stadi. E che anche questa volta ci sarà un Franco Carraro a vigilare, attentissimo e severo, che vada tutto bene. Tranquilli.
Si veda la lettera di Paolo Grassi;
Titolo originale: Tou Are Here (We Think ...) – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
ELK GROVE, California – Mai dire mai, se si tratta di Nevers Way.
No la si trova da nessuna parte nell’edizione 2005 della Thomas Guide di Sacramento County. Non perdete tempo a cercarla su MapQuest.com o Yahoo Maps. E non importa quanto stiate a scrutare Google, ne verrete via ancora a mani vuote.
Ma questo non significa che non esista. È qui – davvero – piccola striscia a forma di “L” di case in costruzione e polvere da cantiere, nella seconda città d’America per velocità di sviluppo. La Nevers va da Canadeo Circle (non perdete il vostro tempo a cercarlo) a Canadeo Way (idem), e alla fine troverà anche la sua strada per la pubblicazione nelle carte.
Soltanto, ciò non avverrà abbastanza in fretta da dare indicazioni alla prossima ondata di residenti in questa grossa lottizzazione della Central Valley mentre lottano per guidare furgoni e camion di mobili, o alle consegne di pizza, o agli architetti dei giardini, verso le case che si sa essere lì, anche se è tanto difficile provarlo.
”La gente chiama, e vuole una piscina. Gli chiediamo nome, indirizzo e qualche informazione” dice Tina Long, coordinatrice delle costruzioni per la McCauley Pool & Spa. “Poi vengono i progettisti [della piscina] guardano sulla Thomas Guide e non riescono a trovare il posto. Mi è capitato anche di ispettori del comune che chiedono: come ci si arriva in quel posto?”.
La costruzione dei fiorenti suburbi nazionali avviene ad un ritmo tanto incandescente da superare la capacità dei cartografi di rilevare i nuovi insediamenti in posti come Elk Grove, Mountain House o Moreno Valley, in California; o a Reno e Las Vegas; a Phoenix; o nella Florida centrale.
I cartografi lottano per descrivere un mondo in trasformazione da più di quattromila anni, da quando i babilonesi incidevano mappe su tavolette d’argilla. Ma di questi tempi, le carte dei suburbi in crescita d’America stanno rimanendo tristemente arretrate, proprio mentre crescono le aspettative del viaggiatore per gli avanzamenti tecnologici, per la possibilità di andare dal punto “A” al punto “B” senza perdersi.
Anche le mappe offerte dai servizi online, che in genere rinnovano le proprie banche dati ogni tre mesi, o quei piccoli aggeggi per l’orientamento globale sulle nuove auto di lusso o quelle a noleggio di fascia superiore, non sono tanto più aggiornati di molte di quelle cacciate nel cassetto del cruscotto.
”È difficile ora, con questa crescita, fornire al mercato un prodotto completamente aggiornato” dice Edward Sweet, direttore per la cartografia, sistemi di informazione geografica e ricerca alla Compass Maps Inc. di Modesto. “La ricerca sul campo è ancora molto difficile … Ci basiamo sugli uffici tecnici comunali, sulle agenzie governative, e anche loro sono nella nostra stessa situazione. Sono parecchio indietro, con i tagli di bilancio e i costi per impostare il lavoro giorno per giorno”.
Solo a Modesto, la Compass raccoglie informazioni su 10-20 nuove strade e due o tre nuove lottizzazioni ogni mese, da aggiungere alla propria carta stradale della città, in corso di aggiornamento per il 2006. La California State Automobile Association sta aggiornando la carta di Reno per la prima volta in 18 mesi, e i tecnici hanno aggiunto 700 strade.
”Abbiamo una persona incaricata per Las Vegas, e a quanto pare è il lavoro di una vita” dice Jonathan Lawton, cartografo anziano alla CSAA di San Francisco. “Ad un certo punto, più o meno cinque anni fa, Las Vegas aveva addirittura una crescita del 400%, e così è difficile tenere il passo”.
Si calcola che la Thomas Guide riporti 4.000 nuove strade nella guida che comprende le contee di Riverside e San Bernardino, in corso di aggiornamento per il 2006. Negli ultimi cinque anni, nella regione si sono realizzate annualmente una media di 2.500 nuove strade, dice Nancy Yoho, vice presidente per i sistemi informativi geografici alla Rand McNally, proprietaria del venerabile antico produttore di mappe.
”Credo che l’unica zona in crescita rapida che abbiamo sia Phoenix, che aggiunge circa 3.000-3.500 nuove strade l’anno” racconta Yoho. “Il nostro bilancio per l’aggiornamento di tutti i prodotti è di 4,5 milioni di dollari … sia per la Thomas che per Rand McNally. Questo solo per i prodotti locali, senza comprendere le edizioni nazionali come gli atlanti stradali”.
La rapida crescita sta mettendo in difficoltà i produttori tradizionali di mappe anche in un altro modo: sono obbligati a concentrare più informazioni che mai dentro alle pagine delle carte, che non possono crescere più di tanto in dimensione, altrimenti diventano inutilizzabili. Il risultato è che bisogna affidarsi a una stampa più piccola, anche se gli occhi dei cinquantenni si fanno più deboli.
Molti editori di atlanti stradali nazionali ora propongono pubblicazioni più grandi, come “risposta ai nostri occhi che invecchiano” dice Stuart Allan, proprietario della Allan Cartography di Medford, Oregon. Il problema, però, è che queste edizioni “gonfiano la carta di uno stato al 200% così che si possano leggere i nomi, ma contengono meno dettagli di quanti se ne potrebbero aspettare”.
Una delle soluzioni possibili, è quella di coprire con due mappe una regione che prima era contenuta in una sola. La Compass Maps, che stampa più di 6 milioni di carte l’anno, ci ha provato qualche tempo fa con la Silicon Valley. Ma i consumatori si sono ribellati, all’obbligo di comprare una mappa per il nord, e un’altra per il sud, anche se erano molto più facili da leggere.
”Le vendite sono calate quasi del 40%” racconta Sweet. “La gente non voleva comprare due carte distinte. [Poi] abbiamo rivisto il lavoro, abbiamo tentato con un foglio di dimensioni maggiori, e le vendite sono schizzate in alto … Di recente abbiamo iniziato anche a vendere lenti di ingrandimento”.
Mountain House, una cittadina in corso di costruzione dove l’area della Baia incrocia la Central Valley, è un esempio di come la crescita sia una sfida alle mappe di carta e alle corrispondenti in formati digitali.
L’insediamento, della Trimark Communities LLC, ha un proprio codice postale è ha avuto sanzione ufficiale da parte dello U.S. Board on Geographic Names. I primi abitanti si sono trasferiti lì due anni fa e oggi ci sono quasi mille abitazioni occupate. Altre cinquecento sono in qualche fase di realizzazione, e se ne prevedono 16.000 a opera ultimata.
Ma Lawton della CSAA ha cominciato a riportare la cittadina sulla mappa per la prima volta solo il mese scorso. L’edizione 2005 della Thomas Guide per la San Joaquin Valley settentrionale comprende circa un terzo delle strade ultimate, e mostra l’insediamento sotto il nome di “Bethany”.
Yahoo e Google riportano qualche strada in più, rispetto alla Thomas Guide. MapQuest, la più aggiornata di tutte, mostra solo due terzi della realtà. MapQuest e Google, comunque, collocano i nomi delle vie di Mountain House nella vicina città di Tracy.
Quando Eric Teed-Bose, direttore alla Trimark per le realizzazioni urbanistiche, si è trasferito con la moglie in questa cittadina in rapida crescita, ha acceso lo schermo GPS sul suo minivan Honda del 2001 ... solo per scoprire che la loro casa non esisteva. Anche dopo aver aggiornato il sistema, risultava inserito solo un terzo dell’abitato di Mountain House.
”Quelli della MapQuest probabilmente sono in ritardo di circa nove mesi sulla tabella di marcia” dice Teed-Bose. “Abbiamo registrato i progetti esecutivi finali che definivano queste strade locali alla fine dell’anno ... È curioso, in qualche modo le attività insediate se ne accorgeranno ... [ma] c’è stato sicuramente qualche intoppo”.
La MapQuest, più di 45,7 milioni venduti al mese, aggiorna le proprie banche dati quattro volte l’anno. Ma i servizi cartografici gratuiti di internet non svolgono direttamente le proprie ricerche.
Hanno invece contratti con imprese come Tele Atlas o NAVTEQ, che prendono le informazioni da costruttori e uffici governativi, e mandano propri rappresentanti sulle strade a verificare e migliorare la precisione.
La MapQuest “dipende da quando i nostri associati ricevono ed elaborano le nove informazioni” dice Tommy McGloin, vicepresidente anziano e direttore generale.
”Riceviamo molte informazioni dirette da singoli utenti di MapQuest.com …. [ma] non è possibile entrare nella banca dati e fare aggiornamenti pezzo per pezzo” conclude.
Anche la NAVTEQ aggiorna le sue banche dati ogni tre mesi, mandando più di 500 analisti sul campo su veicoli equipaggiati di GPS, alla ricerca di nuove informazioni su strade e corsie, dossi di rallentamento e sensi unici.
Un rovente venerdì mattina di luglio, Shawn Smith e Spencer Walker sono saliti sulla loro Ford Escape con antenna di localizzazione satellitare a forma di fungo, e hanno cominciato ad aggiornare le espansioni a sud-est di Elk Grove.
”Quando sono venuto la prima volta, qui era tutta campagna su questo lato della strada” dice Smith guidando lungo case che spuntano dappertutto e cartelli di: “ Prossimamente: Raley’s Center”, “ Vendiamo a partire da 200.000 dollari”. Sta a Elk Grove da abbastanza tempo da aver segnato sulla mappa la nuova strada dove abita sua cognata, e compiacersi quando ha aperto il negozio di alimentari Trader Joe; dice che sta ancora aspettando un Noah’s Bagels.
Quel giorno, Smith e Walker stavano accertando che i nomi delle strade fossero riportati con la grafia esatta nel database, compilando gli indirizzi dove mesi fa non c’erano case. Hanno incontrato un fattorino della UPS che cercava una strada non riportata sulla mappa nel furgone. E hanno registrato tre nuove avenues che non avevano nessun nome l’ultima volta che sono passati: Battles Court, Canadeo Circle e Nevers Way.
Costruire la mappa di un sobborgo come Elk Grove è “un po’ come dipingere il Golden Gate Bridge” dice John MacLeod, vice presidente esecutivo alla NAVTEQ per il marketing e strategie generali. “Non si finisce mai”.
”Ogni volta che si aggiungono una strada o una lottizzazione, bisogna uscire, trovarla, e aggiungerla al data-base” dice. “Aiuta la nostra attività, il fatto che queste cose cambino. La mappa è una cosa viva, che respira”.
Nota: il testo integrale e originale dal Los Angeles Times è riportato anche dal sito KLA (f.b.)
Titolo originale: Below the belt– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Le “ green belts” di campagna che circondano le grandi città d’Inghilterra celebreranno qualcosa la prossima settimana: il loro 50° compleanno. Fu il 3 agosto 1955 che Duncan Sandys, ministro conservatore per l’Housing dell’epoca, pubblicò la circolare 42/1955, che consentiva alle amministrazioni locali di tutto il paese di circondare le città di terreni inviolabili per i costruttori.
Molti faranno un salto all’idea, ma 50 anni dopo le green belts sono più che mai sottoposte a pressione con università, comuni, aeroporti, costruttori di abitazioni, club sportivi e altri che tentano di occuparle.
Il vice primo ministro, John Prescott, ripete che sono al sicuro. Esponendo le politiche governative il 5 febbraio 2003, aveva detto: “Oggi, posso garantire al parlamento di mantenere o aumentare i terreni di green belt in tutte le regioni di Inghilterra”.
Ma il suo impegno non era quello che sembrava. Per prima cosa, quasi tutte le nuove green belts sono in zone del nord Inghilterra dove non esiste quasi pressione edificatoria. Secondo, come Tony McNulty, allora responsabile per la rigenerazione allo Office of the Deputy Prime Minister (ODPM) disse ai Comuni il 26 marzo 2003: “Se le amministrazioni locali decidono di cambiare la destinazione da green belt, ci aspettiamo che l’organismo di pianificazione regionale collabori con esse per trovare nuove aree, per assicurare che la quantità totale in ciascuna regione sia mantenuta o aumentata ... L’idea di permanenza non è mai stata un elemento guida [della Planning Policy Guidance 2]”. In altre parole, si può costruire sopra le attuali green belts se una superficie almeno uguale di terreni viene destinata allo stesso scopo altro ve nella regione.
Questa nuova non-permanenza delle green belts è sin troppo evidente, dice Henry Oliver, responsabile per l’urbanistica per la Campaign to Protect Rural England (CPRE). Il governo ha consentito 162 insediamenti su green belt dal 1997 al 2003, sacrificando oltre 1.000 ettari di queste superfici a usi residenziali fra il 2000 e il 2003.
Le minacce in corso abbondano. A Tyne and Wear, 30 ettari di green belt sono stati destinati ad area di allenamento per la squadra di rugby dei Newcastle Falcons. Il consiglio municipale di York vuole consentire alla locale università di ampliarsi su 120 ettari di fascia verde, con parcheggi per 1,500 auto e un business park.
Una seconda pista di atterraggio a Gatwick si prenderebbe 250 ettari. A Oxford, l’amministrazione sta progettando migliaia di case in zona green belt a est della città. E i confini delle fasce verdi sono radicalmente in corso di modifica in tre “aree di sviluppo” ufficiali: il Thames Gateway, Milton Keynes-sud Midlands, e Londra-Peterborough. “Le politiche del governo hanno trasformato le cinture verdi in fasce elastiche, che si stiracchiano per consentire più costruzioni” dice Mark Prisk, deputato conservatore per Hertford e Stortford. “L’essenza della green belt è il suo essere permanente e specifica per l’area. Una volta dichiarata deve restarlo, per sempre”.
Prisk è preoccupato per i progetti di costruire 6.000 case in zone green belt del suo collegio. Ma è allarmato anche per l’assalto a livello nazionale. Il 13 luglio ha presentato un progetto di legge personale sulle fasce verdi. “Il mio progetto tenta di recuperare la specificità del sito, e assicurare che i confini delle zone di green belt siano chiari e permanenti. È possibile destinare altre superfici, se necessario, ma questo non deve consentire che quelle originarie perdano la tutela” dice. “Stiamo attenti ai parchi urbani, ma trascuriamo i terreni di green belt ai margini delle città, che sono altrettanto importanti. È un’enorme e preziosa risorsa, di cui dovremmo fare un uso più positivo”.
Il CPRE concorda. “Molti proprietari rendono deliberatamente i propri terreni destinati a green belt il più possibile poco attraenti e interessanti: intensificano l’agricoltura, eliminano caratteri come siepi o specchi d’acqua, per scoraggiare il pubblico dall’usarle”, dice Oliver.
La sua opinione si basa sull’esperienza di lavoro nell’amministrazione di Knowsley, vicino a Liverpool. “Questa deliberata trascuratezza aumenta anche il livello di ‘speranza’; la possibilità che un giorno il proprietario possa costruire realizzando enormi profitti”.
Oltre a chiedere maggior tutela, Oliver propone che il Department for Environment, Food and Rural Affairs (Defra) offra incentivi ai coltivatori della green belt per il ripristino di paesaggi, protezione della fauna, migliore accessibilità al pubblico. “Il fattore più importante e dimenticato, è che queste fasce di campagna sono le più vicine a dove abita la gente. Visitare e passeggiare per la campagna è in cima all’idea britannica di tempo libero, e qui c’è tutta la campagna che milioni di persone possono raggiungere senza salire in macchina. Dobbiamo usare di più questi spazi”.
Anche la produzione locale di alimenti può essere un fattore chiave per le green belts, sostiene Simon Fairlie, esponente di The Land is Ours. “In tutto l’entusiasmo per negozi, mercatini e così via, sembra che si sia dimenticato un aspetto: dove si coltivano i cibi locali? È una domanda che si risponde da sola: nella campagna che circonda le conurbazioni”.
Sono idee fortemente sostenute dalla Town and Country Planning Association. “Le green belts oggi dovrebbero essere concepite come eco belts, in modo che la terra attorno alle città diventi area per tutta una serie di funzioni ambientali e sostenibili, come le piccole produzioni di cibi biologici, boschi comunitari, programmi di compostaggio, impianti di energia eolica e piccole centrali a biomassa”, recita l’ultimo documento programmatico sull’argomento.
È davvero una nuova prospettiva per le green belts: ma in questi tempi di crisi, a 50 anni dall’istituzione, chi la sosterrà?
Nota: qui il testo originale al sito del Guardian ; sulle polemiche per le green belts, su Eddyburg anche una dichiarazione ufficiale governativa dal Planning Portal ; di seguito, scaricabile direttamente il "Green Belt Policy Statement" (2003) della TCPA citato nel testo (f.b.)
Il fondo Carlyle, scrivono Paterniti e Fodde, non è un gruppo finanziario come un altro. È la più grande azienda privata degli Stati Uniti con interessi economici in 55 paesi e partecipazioni in 164 società che impiegano 70000 mila persone in tutto il mondo. Bush padre è il principale consigliere del Fondo Asia e prima dell'attacco alle torri gemelle partecipavano al Fondo anche alcuni membri della famiglia Bin Laden. Dell'advisory board fa parte l'ex direttore della CIA e segretario alla difesa Frank Carlucci e l'ex segretario di Stato Baker. Del Board europeo ha fatto parte Letizia Moratti e di quello italiano Chicco Testa, finchè non è scoppiato il caso della vendita del patrimonio culturale.
Cosa c'entra il Fondo Carlyle con la finanza creativa? C'entra, perché ha comprato una parte dei beni artistici: villa Manzoni sulla Cassia a Roma, «complesso immobiliare di interesse storico, culturale e ambientale circondato da un parco di oltre 9 ettari»; un palazzo in stile Liberty a Genova, «immobile prestigioso destinato ad uso terziario»; due palazzi a Reggio Emilia, uno definito «edificio signorile» e l'altro «edificio storico molto prestigioso». I palazzi sono stati acquistati con ribassi del 35% rispetto ai prezzi d'asta di partenza e sono diventati un affare, al punto che gli americani abituati a vendere dopo tre anni, hanno venduto dopo un anno perché, spiega Guido Audagna, capo del fondo Carlyle in Italia, al Sole 24 Ore, «gli immobili avevano raggiunto l'apprezzamento obiettivo». Questo è solo un piccolo esempio di svendita dei gioielli di famiglia, nonostante le raccomandazioni e le proteste.
Già nel corso della discussione parlamentare per l'approvazione della Patrimonio SpA, il 15 Giugno del 2002, Ciampi aveva chiesto a Berlusconi precise garanzie per il rispetto dell'articolo 9 della Costituzione nel quale è scritto che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Il Presidente della Repubblica invitava «ad assicurare che la valorizzazione del patrimonio stesso sia coerente non solo con principi di economicità e redditività, ma anche con il rigoroso rispetto dei valori che attengono alle finalità proprie dei beni pubblici». Berlusconi, rispondeva assicurando che «la nuova normativa postula in mantenimento di tutte le garanzie che la legislazione vigente prevede per il demanio e per il patrimonio indisponibile». Le cose però non stavano proprio come affermava il Presidente del consiglio se il sottosegretario Sgarbi votava contro il decreto legge attaccando il ministro dei beni culturali per il suo silenzio e decine di esponenti della cultura lanciavano un grido di allarme. Giulia Maria Crespi, presidente del FAI (Fondo per l'ambiente Italiano) sul Corriere della Sera scriveva che «se di Azienda Italia dobbiamo parlare è buona norma allora, in materia di gestione aziendale, fare tutto il possibile per non intaccare il patrimonio: che in Italia è costituito dalle chiese, dai palazzi storici, dai musei e dalle loro collezioni, dalle ville, dai castelli, dai piccoli e antichi borghi, dai giardini, dalle coste marine, dai fiumi, dai laghi, dai boschi, dalle montagne». Esattamente tutto ciò che sta andando alla deriva e ingrassa gli speculatori, se è vero, come denuncia Lega Ambiente, che il paese conosce un boom di abusivismo, ogni 2 km di costa si rilevano 5 abusi e cresce del 7% il mare inquinato. Il regolamento del Codice di tutela dei beni culturali, denunciava Salvatore Settis, il quale ha contribuito a scriverlo, è stato stravolto. In una intervista al Tirreno( 29-2-004), il direttore della Scuola Normale di Pisa rincarava la dose: «Il regolamento del 2000 per l'alienazione di immobili del demanio culturale conteneva , in effetti, norme e scadenze secche, ma non espresse nei termini di silenzio-assenso. È questo lo sviluppo nuovo e peggiorativo, che non era affatto necessario. È Tremonti che lo ha imposto, perchè in origine il codice Urbani, prevedeva tutt'altra procedura». Lo slogan diventa : «La Scip ci scippa». Per emulare il governo e trovare soldi pronto cassa non si bada né alle procedure né a ciò che si vende. Se il paese è in svendita perché non approfittarne?. Dopo i beni dello Stato e degli Enti, arrivano quelli della Difesa, che però non possono essere venduti ai comuni, ma solo agli immobiliaristi, quelli delle Ferrovie e i beni delle Regioni. Umbria, Marche, Lazio, Lombardia, Abruzzo, Sicilia, Puglia, Valle d'Aosta, Toscana, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Liguria e il comune di Milano, utilizzano le cartolarizzazioni e vendono. La regione Lazio vende anche gli ospedali. «Sotto la guida del governatore Francesco Storace», scrive Corriere Economia, «ha fatto cose impressionanti. Ha addirittura creato una società alla quale sono stati venduti gli ospedali, e che a sua volta ha emesso obbligazioni per pagare la Regione. Il servizio di queste obbligazioni era garantito dall'affitto che la stessa Regione Lazio avrebbe versato alla società». Interpellato, l'ex ministro Sirchia ha dichiarato che era d'accordo. Per tutte le iniziative il mercato di quotazione è il Lussemburgo e per la Provincia di Napoli Londra. Le banche che collocano i bond sono per lo più estere, sempre le stesse, e il più delle volte quelle che danno il punteggio favorevole alle operazioni in modo da incoraggiare ministero e regioni a vendere il più possibile. Ma niente paura. Paolo Foschi sul Corriere Economia del 27 Giugno 2005 scrive: «La finanza creativa, se davvero andrà in pensione, rischia di lasciare in eredità, anche se in parte solo virtuale, un buco di 70 miliardi di Euro. Se si aggiungono le Una Tantum (condoni, privatizzazioni ecc) il conto lievita a 160 miliardi di Euro».
Naturalmente, mentre il governo vende parti importanti del Bel Paese, il capo del Governo continua a comprare: ville, quadri, mobili antichi, collezioni, promontori, parchi, e guai a chi ci mette il becco.
Il mistero dell'Unipol
Al convegno dei giovani industriali che si è tenuto a Santa Margherita la scorsa settimana, il diessino Luigi Bersani, replicando alle provocazioni dell'imprenditore Diego Della Valle, ha detto tra le altre cose che secondo lui la cosiddetta finanza rossa non esiste. Di questo non abbiamo mai avuto dubbi. E se mai ne avessimo avuti, la politica e le alleanze trasversali di Unipol, la compagnia di assicurazioni legata alla Lega delle cooperative guidata da Giovanni Consorte, ce li hanno fatti passare definitivamente. Ci pare di poter dire, anzi, che forse esiste una finanza grigia. Nulla di polemico, sia chiaro, ma semplici constatazioni. La prima constatazione riguarda la battaglia azionaria per il controllo della Banca Nazionale del Lavoro. Come è noto in questa battaglia ci sono due schieramenti ben delineati: da un lato il patto di sindacato guidato da Luigi Abete e composto da Diego Della Valle, le Generali e il Banco De Bilbao e dall'altro il contropatto guidato dai Caltagirone, dagli immobiliaristi Ricucci, Coppola e Statuto e, last but not least, dall'Unipol.
All'inizio della battaglia per il controllo della Bnl, la compagnia assicurativa della Lega (delle cooperative), per togliersi dall'imbarazzo degli alleati scomodi, aveva detto che si trattava semplicemente di un'alleanza finanziaria, ma alla fine constatiamo che l'Unipol è addirittura il dominus della battaglia per il controllo di Bnl. Se vincerà l'Unipol vincerà anche Stefano Ricucci e il partito degli immobiliaristi, con buona pace del governatore della Banca d'Italia e del governo Berlusconi, sponsor del contropatto. Quello in Bnl non è l'unico posizionamento imbarazzante di Unipol. Come sanno bene gli addetti ai lavori, la compagnia guidata da Consorte è membro del patto di sindacato di Hopa, la società di Emilio Gnutti nel cui consiglio d'amministrazione siede tra gli altri anche la Fininvest di Silvio Berlusconi. Hopa a sua volta è azionista importante della Popolare di Lodi, la banca che sta finanziando la scalata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera.
Sia chiaro, noi non crediamo, a differenza del Diario e di altri osservatori, che ci sia una «pista rossa» nella scalata al quotidiano di via Solferino. Siamo convinti che alla fine, se Ricucci non verrà fermato, chi ci guadagnerà sarà ancora una volta lo scaltro presidente del consiglio. E' vero, il banchiere Vincenzo De Bustis, uomo considerato vicino a Massimo D'Alema, finanzia il veste di amministratore delegato di Deutsche Bank l'immobiliarista Ricucci ma questo e altri indizi non ci sembrano sufficienti per sostenere l'ipotesi paradossale di una scalata dei Ds al Corsera. Resta, tuttavia, il mistero dell'Unipol e delle sue strane e grige alleanze. Un mistero che il centro sinistra e in particolare i vertici del partito di Piero Fassino farebbero bene a sciogliere.
Titolo originale: In Beijing, All Roads Lead to Gridlock – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
In marzo Bi Yuxi, uno dei principali funzionari del settore strade di Pechino, èstato condannato a morte per aver preso 1,2 milioni di dollari in bustarelle, e sprecato 360.000 dollari di denaro pubblico. Dimentichiamoci per il momento il problema se debbano seguire un simile destino, i nostri burocrati che ostacolano qualunque progresso nei problemi di traffico a Los Angeles. Perché in Cina la questione urgente è: con l’esplosione nazionale di automobili, si scamperà all’ingorgo peggio-di-L.A. che immobilizza alcune città?
Pensare che una volta era tanto facile.
Nell’epoca maoista a Pechino non c’era traffico. Le poche auto che percorrevano le strade erano del governo, e non ce n’era mai a sufficienza, anche contando autobus e camion, per provocare congestione. Gli ampi viali e le strette strade laterali erano dominati dalle biciclette. Se c’era qualunque bisogno di imporre regole per la mobilità, bastava una semplice dichiarazione dei funzionari del Partito Comunista a far pedalare in modo più fluido.
Oggi, le strade di Pechino sono invase da qualunque tipo di mezzi a motore. I tassisti si lamentano perché non esiste “ora di punta”: dura tutto il giorno. I funzionari della municipalità hanno tentato di tutto per alleviare l’ingorgo quotidiano generato da circa 2,6 milioni di veicoli.
La costruzione di strade procede rapida e frenetica, e la cosa sembra logica. Il problema di traffico a Pechino nasce dal passaggio straordinariamente rapido da una cultura di biciclette e autobus a quella dell’automobile. Negli anni recenti, il numero delle auto è aumentato, in media, del 15% l’anno, mentre la capacità delle strade urbane è cresciuta di circa il 3%. Nella zona terziaria centrale di Chaoyang, i piani prevedono una nuova strada di scorrimento veloce, due arterie di attraversamento, e dozzine di altri progetti stradali.
Le autorità stanno anche ampliando il sistema del trasporto pubblico, specialmente la metropolitana, sotterranea e leggera, per alleviare il traffico. Sono attive quattro linee, con circa 115 chilometri di binari (L.A. ne ha meno di 120). Altre quattro sono in corso di costruzione, con costi di oltre 1 miliardo di dollari.
Ci sono in vista anche piani urbanistici più grandiosi. La pianta tradizionale di Pechino si irraggiava dal Palazzo Imperiale verso i quartieri esterni e i sobborghi. La Cina Socialista aveva seguito lo stesso schema, localizzando la maggior parte degli uffici governativi e delle attività principali nel cuore del centro. Questa pianta monocentrica ha creato il disastro del traffico, con sempre più automobilisti della periferia che si aggiungono all’ingorgo quotidiano. Come risposta, le autorità municipali prevedono una metropoli “multicentrica”, con uffici governativi spostati verso i distretti esterni. I piani sembrano ottimi ma, sinora, nessuno si è offerto di spostarsi, o è stato previsto che lo faccia. Sembra che nessuno voglia abbandonare un più prestigioso indirizzo nella zona centrale.
L’intransigenza burocratica è solo uno degli ostacoli alla soluzione dei problemi di traffico di Pechino. La corruzione è endemica all’amministrazione pubblica cinese, e i trasporti sembrano particolarmente vulnerabili alla venalità.
Ma c’è una luce che brilla sull’orizzonte del traffico di Pechino: le Olimpiadi del 2008. I leaders nazionali sono fortemente determinati a far andar bene tutto, così che la Cina possa reclamare un meritato plauso mondiale. Eserciteranno enormi pressioni per completare le strade e metropolitane, e portare a termine i piani urbanistici che facciano muovere più regolarmente la capitale.
Sarà una bella corsa, con Partito Comunista che vola verso il traguardo contro la crescente marea dei veicoli. Se andate a vedere le Olimpiadi, potreste restare sorpresi da quanto scorre liscio il traffico.
Ma portatevi delle scarpe per camminare.
Nota: il testo originale al sito del Los Angeles Times (f.b.)