Il fondo Carlyle, scrivono Paterniti e Fodde, non è un gruppo finanziario come un altro. È la più grande azienda privata degli Stati Uniti con interessi economici in 55 paesi e partecipazioni in 164 società che impiegano 70000 mila persone in tutto il mondo. Bush padre è il principale consigliere del Fondo Asia e prima dell'attacco alle torri gemelle partecipavano al Fondo anche alcuni membri della famiglia Bin Laden. Dell'advisory board fa parte l'ex direttore della CIA e segretario alla difesa Frank Carlucci e l'ex segretario di Stato Baker. Del Board europeo ha fatto parte Letizia Moratti e di quello italiano Chicco Testa, finchè non è scoppiato il caso della vendita del patrimonio culturale.
Cosa c'entra il Fondo Carlyle con la finanza creativa? C'entra, perché ha comprato una parte dei beni artistici: villa Manzoni sulla Cassia a Roma, «complesso immobiliare di interesse storico, culturale e ambientale circondato da un parco di oltre 9 ettari»; un palazzo in stile Liberty a Genova, «immobile prestigioso destinato ad uso terziario»; due palazzi a Reggio Emilia, uno definito «edificio signorile» e l'altro «edificio storico molto prestigioso». I palazzi sono stati acquistati con ribassi del 35% rispetto ai prezzi d'asta di partenza e sono diventati un affare, al punto che gli americani abituati a vendere dopo tre anni, hanno venduto dopo un anno perché, spiega Guido Audagna, capo del fondo Carlyle in Italia, al Sole 24 Ore, «gli immobili avevano raggiunto l'apprezzamento obiettivo». Questo è solo un piccolo esempio di svendita dei gioielli di famiglia, nonostante le raccomandazioni e le proteste.
Già nel corso della discussione parlamentare per l'approvazione della Patrimonio SpA, il 15 Giugno del 2002, Ciampi aveva chiesto a Berlusconi precise garanzie per il rispetto dell'articolo 9 della Costituzione nel quale è scritto che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Il Presidente della Repubblica invitava «ad assicurare che la valorizzazione del patrimonio stesso sia coerente non solo con principi di economicità e redditività, ma anche con il rigoroso rispetto dei valori che attengono alle finalità proprie dei beni pubblici». Berlusconi, rispondeva assicurando che «la nuova normativa postula in mantenimento di tutte le garanzie che la legislazione vigente prevede per il demanio e per il patrimonio indisponibile». Le cose però non stavano proprio come affermava il Presidente del consiglio se il sottosegretario Sgarbi votava contro il decreto legge attaccando il ministro dei beni culturali per il suo silenzio e decine di esponenti della cultura lanciavano un grido di allarme. Giulia Maria Crespi, presidente del FAI (Fondo per l'ambiente Italiano) sul Corriere della Sera scriveva che «se di Azienda Italia dobbiamo parlare è buona norma allora, in materia di gestione aziendale, fare tutto il possibile per non intaccare il patrimonio: che in Italia è costituito dalle chiese, dai palazzi storici, dai musei e dalle loro collezioni, dalle ville, dai castelli, dai piccoli e antichi borghi, dai giardini, dalle coste marine, dai fiumi, dai laghi, dai boschi, dalle montagne». Esattamente tutto ciò che sta andando alla deriva e ingrassa gli speculatori, se è vero, come denuncia Lega Ambiente, che il paese conosce un boom di abusivismo, ogni 2 km di costa si rilevano 5 abusi e cresce del 7% il mare inquinato. Il regolamento del Codice di tutela dei beni culturali, denunciava Salvatore Settis, il quale ha contribuito a scriverlo, è stato stravolto. In una intervista al Tirreno( 29-2-004), il direttore della Scuola Normale di Pisa rincarava la dose: «Il regolamento del 2000 per l'alienazione di immobili del demanio culturale conteneva , in effetti, norme e scadenze secche, ma non espresse nei termini di silenzio-assenso. È questo lo sviluppo nuovo e peggiorativo, che non era affatto necessario. È Tremonti che lo ha imposto, perchè in origine il codice Urbani, prevedeva tutt'altra procedura». Lo slogan diventa : «La Scip ci scippa». Per emulare il governo e trovare soldi pronto cassa non si bada né alle procedure né a ciò che si vende. Se il paese è in svendita perché non approfittarne?. Dopo i beni dello Stato e degli Enti, arrivano quelli della Difesa, che però non possono essere venduti ai comuni, ma solo agli immobiliaristi, quelli delle Ferrovie e i beni delle Regioni. Umbria, Marche, Lazio, Lombardia, Abruzzo, Sicilia, Puglia, Valle d'Aosta, Toscana, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Liguria e il comune di Milano, utilizzano le cartolarizzazioni e vendono. La regione Lazio vende anche gli ospedali. «Sotto la guida del governatore Francesco Storace», scrive Corriere Economia, «ha fatto cose impressionanti. Ha addirittura creato una società alla quale sono stati venduti gli ospedali, e che a sua volta ha emesso obbligazioni per pagare la Regione. Il servizio di queste obbligazioni era garantito dall'affitto che la stessa Regione Lazio avrebbe versato alla società». Interpellato, l'ex ministro Sirchia ha dichiarato che era d'accordo. Per tutte le iniziative il mercato di quotazione è il Lussemburgo e per la Provincia di Napoli Londra. Le banche che collocano i bond sono per lo più estere, sempre le stesse, e il più delle volte quelle che danno il punteggio favorevole alle operazioni in modo da incoraggiare ministero e regioni a vendere il più possibile. Ma niente paura. Paolo Foschi sul Corriere Economia del 27 Giugno 2005 scrive: «La finanza creativa, se davvero andrà in pensione, rischia di lasciare in eredità, anche se in parte solo virtuale, un buco di 70 miliardi di Euro. Se si aggiungono le Una Tantum (condoni, privatizzazioni ecc) il conto lievita a 160 miliardi di Euro».
Naturalmente, mentre il governo vende parti importanti del Bel Paese, il capo del Governo continua a comprare: ville, quadri, mobili antichi, collezioni, promontori, parchi, e guai a chi ci mette il becco.
Il mistero dell'Unipol
Al convegno dei giovani industriali che si è tenuto a Santa Margherita la scorsa settimana, il diessino Luigi Bersani, replicando alle provocazioni dell'imprenditore Diego Della Valle, ha detto tra le altre cose che secondo lui la cosiddetta finanza rossa non esiste. Di questo non abbiamo mai avuto dubbi. E se mai ne avessimo avuti, la politica e le alleanze trasversali di Unipol, la compagnia di assicurazioni legata alla Lega delle cooperative guidata da Giovanni Consorte, ce li hanno fatti passare definitivamente. Ci pare di poter dire, anzi, che forse esiste una finanza grigia. Nulla di polemico, sia chiaro, ma semplici constatazioni. La prima constatazione riguarda la battaglia azionaria per il controllo della Banca Nazionale del Lavoro. Come è noto in questa battaglia ci sono due schieramenti ben delineati: da un lato il patto di sindacato guidato da Luigi Abete e composto da Diego Della Valle, le Generali e il Banco De Bilbao e dall'altro il contropatto guidato dai Caltagirone, dagli immobiliaristi Ricucci, Coppola e Statuto e, last but not least, dall'Unipol.
All'inizio della battaglia per il controllo della Bnl, la compagnia assicurativa della Lega (delle cooperative), per togliersi dall'imbarazzo degli alleati scomodi, aveva detto che si trattava semplicemente di un'alleanza finanziaria, ma alla fine constatiamo che l'Unipol è addirittura il dominus della battaglia per il controllo di Bnl. Se vincerà l'Unipol vincerà anche Stefano Ricucci e il partito degli immobiliaristi, con buona pace del governatore della Banca d'Italia e del governo Berlusconi, sponsor del contropatto. Quello in Bnl non è l'unico posizionamento imbarazzante di Unipol. Come sanno bene gli addetti ai lavori, la compagnia guidata da Consorte è membro del patto di sindacato di Hopa, la società di Emilio Gnutti nel cui consiglio d'amministrazione siede tra gli altri anche la Fininvest di Silvio Berlusconi. Hopa a sua volta è azionista importante della Popolare di Lodi, la banca che sta finanziando la scalata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera.
Sia chiaro, noi non crediamo, a differenza del Diario e di altri osservatori, che ci sia una «pista rossa» nella scalata al quotidiano di via Solferino. Siamo convinti che alla fine, se Ricucci non verrà fermato, chi ci guadagnerà sarà ancora una volta lo scaltro presidente del consiglio. E' vero, il banchiere Vincenzo De Bustis, uomo considerato vicino a Massimo D'Alema, finanzia il veste di amministratore delegato di Deutsche Bank l'immobiliarista Ricucci ma questo e altri indizi non ci sembrano sufficienti per sostenere l'ipotesi paradossale di una scalata dei Ds al Corsera. Resta, tuttavia, il mistero dell'Unipol e delle sue strane e grige alleanze. Un mistero che il centro sinistra e in particolare i vertici del partito di Piero Fassino farebbero bene a sciogliere.
Titolo originale: In Beijing, All Roads Lead to Gridlock – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
In marzo Bi Yuxi, uno dei principali funzionari del settore strade di Pechino, èstato condannato a morte per aver preso 1,2 milioni di dollari in bustarelle, e sprecato 360.000 dollari di denaro pubblico. Dimentichiamoci per il momento il problema se debbano seguire un simile destino, i nostri burocrati che ostacolano qualunque progresso nei problemi di traffico a Los Angeles. Perché in Cina la questione urgente è: con l’esplosione nazionale di automobili, si scamperà all’ingorgo peggio-di-L.A. che immobilizza alcune città?
Pensare che una volta era tanto facile.
Nell’epoca maoista a Pechino non c’era traffico. Le poche auto che percorrevano le strade erano del governo, e non ce n’era mai a sufficienza, anche contando autobus e camion, per provocare congestione. Gli ampi viali e le strette strade laterali erano dominati dalle biciclette. Se c’era qualunque bisogno di imporre regole per la mobilità, bastava una semplice dichiarazione dei funzionari del Partito Comunista a far pedalare in modo più fluido.
Oggi, le strade di Pechino sono invase da qualunque tipo di mezzi a motore. I tassisti si lamentano perché non esiste “ora di punta”: dura tutto il giorno. I funzionari della municipalità hanno tentato di tutto per alleviare l’ingorgo quotidiano generato da circa 2,6 milioni di veicoli.
La costruzione di strade procede rapida e frenetica, e la cosa sembra logica. Il problema di traffico a Pechino nasce dal passaggio straordinariamente rapido da una cultura di biciclette e autobus a quella dell’automobile. Negli anni recenti, il numero delle auto è aumentato, in media, del 15% l’anno, mentre la capacità delle strade urbane è cresciuta di circa il 3%. Nella zona terziaria centrale di Chaoyang, i piani prevedono una nuova strada di scorrimento veloce, due arterie di attraversamento, e dozzine di altri progetti stradali.
Le autorità stanno anche ampliando il sistema del trasporto pubblico, specialmente la metropolitana, sotterranea e leggera, per alleviare il traffico. Sono attive quattro linee, con circa 115 chilometri di binari (L.A. ne ha meno di 120). Altre quattro sono in corso di costruzione, con costi di oltre 1 miliardo di dollari.
Ci sono in vista anche piani urbanistici più grandiosi. La pianta tradizionale di Pechino si irraggiava dal Palazzo Imperiale verso i quartieri esterni e i sobborghi. La Cina Socialista aveva seguito lo stesso schema, localizzando la maggior parte degli uffici governativi e delle attività principali nel cuore del centro. Questa pianta monocentrica ha creato il disastro del traffico, con sempre più automobilisti della periferia che si aggiungono all’ingorgo quotidiano. Come risposta, le autorità municipali prevedono una metropoli “multicentrica”, con uffici governativi spostati verso i distretti esterni. I piani sembrano ottimi ma, sinora, nessuno si è offerto di spostarsi, o è stato previsto che lo faccia. Sembra che nessuno voglia abbandonare un più prestigioso indirizzo nella zona centrale.
L’intransigenza burocratica è solo uno degli ostacoli alla soluzione dei problemi di traffico di Pechino. La corruzione è endemica all’amministrazione pubblica cinese, e i trasporti sembrano particolarmente vulnerabili alla venalità.
Ma c’è una luce che brilla sull’orizzonte del traffico di Pechino: le Olimpiadi del 2008. I leaders nazionali sono fortemente determinati a far andar bene tutto, così che la Cina possa reclamare un meritato plauso mondiale. Eserciteranno enormi pressioni per completare le strade e metropolitane, e portare a termine i piani urbanistici che facciano muovere più regolarmente la capitale.
Sarà una bella corsa, con Partito Comunista che vola verso il traguardo contro la crescente marea dei veicoli. Se andate a vedere le Olimpiadi, potreste restare sorpresi da quanto scorre liscio il traffico.
Ma portatevi delle scarpe per camminare.
Nota: il testo originale al sito del Los Angeles Times (f.b.)
Titolo originale: Governing Malaysia tidy new capital: it’s all in the rules – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
PUTRAJAYA, Malesia – Quando Samsudin Osman, capo dell’amministrazione qui, guarda dalla finestra del suo ufficio, vede un grande viale alberato, uffici pubblici nuovi di zecca, un grande lago artificiale e una prospettiva di verdi colline.
Samsudin è presidente della Putrajaya Corporation, la cosa più simile a un sindaco che esiste nella nuova capitale amministrativa della Malesia. E Putrajaya è la cosa più simile che c’è, in Asia Orientale, a una città dove tutto è pianificato dall’alto: centri commerciali, scuole, condomini e lampioni.
Costruita nell’ultimo decennio, Putrajaya non ha le periferie della maggior parte delle capitali asiatiche. Le case devono essere dipinte con colori prestabiliti, i prati falciati, e non sono consentite recinzioni. È un posto con molte regole, ed è compito del capo dell’amministrazione farle rispettare.
”Mettiamo molta enfasi su uniformità e standardizzazione” ha dichiarato di recente il cinquantottenne Samsudin, funzionario di carriera, da suo spazioso ufficio. È un uomo affabile, pacato e diretto: “Non vogliamo che ci sia troppa libertà”.
Putrajaya offre il paesaggio ordinato di Singapore mischiato con la ripetitività e il senso di spazio aperto di una Levittown. Quando alcuni abitanti si sono lamentati perché i proprietari di alcune case non occupate trascuravano di falciare il prato, Samsudin è entrato in azione.
”Credi di avere una bella città giardino, e improvvisamente c’è una casa dove non si taglia l’erba” ha dichiarato in un’intervista. “Allora abbiamo falciato l’erba, e spedito la fattura”.
Samsudin sta conducendo un enorme esperimento, per la Malesia e tutta la regione. Putrajaya è stata progettata come antidoto alle soffocanti città del sud-est asiatico, posti come Giakarta o Bangkok.
Come i processori da computer Intel o le camice Brooks Brothers fabbricate qui, la nuova capitale è un prodotto industriale, una città edificata dove un tempo c’erano migliaia di palme e alberi della gomma. La Malesia ha coperto i costi in gran parte coi proventi del petrolio.
Si sarebbe tentati di paragonare Putrajaya ad altre città nate dal nulla, come Canberra o Brasília, ma la capitale malese è diversa su un punto importante: sta a soli 25 chilometri da Kuala Lumpur, il che la rende una specie di sobborgo verdeggiante della capitale commerciale. La realizzazione è cominciata a metà anni ’90, e il primo ministro si è trasferito a Putrajaya nel 1999.
Al centro della città, gli urbanisti hanno creato un’isola, allagando il terreno tutt’attorno. Poi è stata costruita una serie di elaborati ponti per collegare l’isola alla zona circostante.
Almeno uno dei visitatori più recenti è rimasto documentatamente colpito. Il presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, venuto qui in febbraio, ha ordinato ai suoi ministri di verificare quanto la provincia di Aceh, devastata dallo tsunami, può imparare dalla realizzazione di Putrajaya.
”Il governo indonesiano vuole modellare la ricostruzione di Aceh su Putrajaya” sembra abbia dichiarato alla stampa H. Rusdihardjo, ambasciatore indonesiano in Malesia, dopo la visita di Yudhoyono.
Ma la cosa forse più intrigante di Putrajaya è quella che i visitatori non vedono.
Non vedono la segretezza che circonda la sua costruzione, la natura relativamente non democratica della corporation che la gestisce. Samsudin non è stato eletto alla carica. È stato nominato dal primo ministro.
Perché che si trattava di un progetto piuttosto controverso, le opposizioni sostenevano che il denaro malese avrebbe potuto essere speso meglio, e alcune domande restano senza risposta.
Quanto è costato costruire la città?
”Non conosco neppure io la cifra” ha dichiarato Samsudin nel corso dell’intervista.
Si è girato verso un’assistente, Norhazifa Mohamed, e ha chiesto: “Tu la sai?”
Norhazifa sembrava sorpresa e ha detto che neppure lei sapeva: “I miei conti sarebbero vecchi”.
Anwar Ibrahim, ex vice-primo ministro del governo che ha ideato il progetto, dice che nessuno, compreso lui, ha mai davvero esaminato i piani, personalmente coordinati da Mahathir bin Mohamad, che fu primo ministro per un lungo periodo.
”Non c’è stato dibattito” ha dichiarato Anwar in un’intervista. “È stata la decisione di un solo uomo”. Ha aggiunto poi che i contratti per gli appalti sono stati concessi “solo a chi era molto vicino alla leadership”.
Per qualcuno, in Malesia, questo è il prezzo per vedere le cose fatte: senza la forte personalità di Mahathir, Putrajaya non sarebbe mai stata costruita. Per altri, come i membri dell’opposizione malese, si è trattato di un prodotto collaterale delle tendenze autoritarie di Mahathir.
Oggi restano molte questioni aperte, grandi e piccole, sul futuro della città. Gli abitanti lamentano carenze di parcheggio e la diffusione dei furti. Il governo soffre un passivo di bilancio, così è stata posticipata la realizzazione della prevista linea di metropolitana leggera.
E alcune ambasciate sono riluttanti a trasferirsi nel quartiere diplomatico ad esse destinato. “Lo stiamo promuovendo” dice Samsudin del quartiere. Brunei, Egitto, Iraq, Filippine e Qatar hanno comprato terreni a Putrajaya, affermano alcuni aiutanti di Samsudin, e altri 15 paesi stanno concludendo gli acquisti.
Ma un portavoce dell’ambasciata U.S.A. a Kuala Lumpur, ex sede del governo e capitale commerciale, ha dichiarato che non esistono progetti di trasferimento verso nuova sede. “Riteniamo che l’attuale collocazione dell’ambasciata a KL sia in una comoda posizione per i molti cittadini malesi e americani che richiedono i nostri servizi e assistenza” ha aggiunto il portavoce, Karl Stoltz.
L’altro inquilino riluttante di Putrajaya è lo stesso primo ministro, Abdullah Ahmad Badawi.
Nonostante sia in carica da 18 mesi, non si è ancora trasferito nella residenza ufficiale, dominata da una grande cupola verde. Una teoria piuttosto diffusa nel paese è che il posto sia infestato dai fantasmi. Samsudin respinge l’idea con una sonora risata, ma non da’ una spiegazione alternativa a questo comportamento.
”Si trasferirà presto” dice Samsudin.
Khairy Jamaluddin, membro del partito di governo e figlio adottivo del primo ministro, afferma che la casa non piace alla moglie del presidente, Endon Mahmood. “L’abbiamo convinta a trasferirsi, ma c’è ancora bisogno di interventi” dice.
Se non fosse per gli enormi edifici pubblici, si potrebbe scambiare Putrajaya per un complesso turistico, o un parco a tema. Il lago è pieno di pesci, è c’è un club della vela. Ci sono vari specchi d’acqua e molti parchi: si prevede che il 37% della città rimanga a verde.
Samsudin, figlio di un sarto che ha frequentato le scuole superiori negli Stati Uniti, abita in una casa a due piani color crema, col tetto di tegole rosse. Ha un molo sul lago che teoricamente potrebbe usare, per andare al lavoro in barca.
”Quello che c’è in questo posto, è una gran pace e tranquillità” dice Samsudin. “Ogni giorno apro la finestra e c’è il lago. Vado a dormire e c’è il lago”. Sa che il lago è pulito perché ci è caduto dentro una volta, dalla barca a vela.
Quello che manca a Putrajaya, dicono gli abitanti, è l’attività, la vita notturna, luoghi di incontro per i giovani. All’inaugurazione di un nuovo shopping mall, Najmi bin Abidin, studente diciassettenne con addosso la maglia di una squadra di calcio inglese, dice che gli piace andare a scuola a piedi, nuotare in piscina vicino a casa e fare jogging sulla pista. Ma gli manca la grande città: “È tranquillo, qui”.
Nella zona bar del centro commerciale, Fikri bin Ahmad Jamani, 18 anni, dice che gli manca la vecchia casa, in un sobborgo di Kuala Lumpur, che ha lasciato due anni fa.
”C’era più divertimento là. C’era la sala giochi e la galleria video”.
Samsudin dice di essere impegnato ad offrire più strutture per i giovani, come campi sportivi, ma a livello personale non sembra reagire all’osservazione sulla mancanza di vita notturna a Putrajaya. “Per me non fa nessuna differenza. Non frequento circoli”.
Khairy, il figlio adottivo del primo ministro, afferma che Putrajaya dovrebbe essere visto per quello che è: un centro amministrativo.
”Quando fabbrichi una città dal nulla non le dai quel senso organico, quella vivacità” dice Khairy. Chiama la città “monoglotta” perché abitata soprattutto da funzionari, che in Malesia sono di solito del gruppo etnico principale Malays.
Un inizio di differenza lo si può trovare nel quartiere vicino al Lake Club. John Choong, comproprietario di mezza età di una fabbrica di elettronica, vive con la famiglia in un gruppo di case di fianco a un canale, e fa parte della piccola minoranza di abitanti cinesi di Putrajaya.
Dice che gli piace la tranquillità del posto, la sicurezza offerta dalle telecamere a circuito chiuso e dalle frequenti ronde dei vigilantes privati.
”Ogni giorno è come fosse domenica” dice. La qualità dell’aria è migliore che a Kuala Lumpur, e più fresca. Tutti si conoscono nel quartiere, comprese le 13 famiglie cinesi: “Ci troviamo a bere qualcosa” (ai malesi, che sono musulmani, è vietato per legge bere alcolici, ma è una regola applicata con elasticità).
Choong, che ha vissuto in Gran Bretagna per molti anni, dice che adora la vita qui. “Mi piace molto lo stile di vita britannico e americano” dice con riferimento al senso comunitario e all’essenza di barriere “questa è la cosa che gli assomiglia di più”.
Samsudin dice che l’idea ai spazio aperto di Putrajaya all’inizio metteva la gente a disagio. “Erano un po’ riluttanti a stare in posti senza recinzioni”. Ma dopo un po’, dice, hanno iniziato ad apprezzare.
”Ci piacerebbe conservare questo tipo di ambiente” prosegue Samsudin. “Sarà la sfida del futuro”.
Nota: qui il testo originale al sito dello International Herald Tribune; qui alcune informazioni in più sul sito ufficiale di Putrajala (f.b.)
CONEGLIANO VENETO - Il nome stesso della città, Conegliano, è una sorta di chiave per un tuffo nel passato, nella giovinezza, negli anni cinquanta-sessanta. Tutto quello che entrava in casa come nuovo elettrodomestico, nella sostituzione della stufa a legna, della moschirola, il deposito del cibo antimosche e del grande mastello per lavare, era targato Zoppas e quando gli elettrodomestici arrivavano in cascina, il camion che li portava era targato Treviso. Veniva da Conegliano. Avevamo la cucina 48, a legna e carbone, il frigorifero elegante nella sua semplicità del 1954, con il compressore americano Tecumseh, la lavabiancheria del 1959, il fornello a gas dei primi anni `50, la lavastoviglie a due porte. Tutti questi elettrodomestici si producevano a Conegliano dove erano localizzate le fonderie, le smalterie per le cucine, i reparti presse e montaggio, i depositi, la direzione, gli uffici della Zoppas, poi diventata Zanussi, nel 1970. Un mito.Un mito abbandonato, un mito dimesso, qui, davanti a me, in un'area run-down, in fase di sedicente riqualificazione urbanistica. Il comune di Conegliano e la Conegliano iniziative immobiliari spa (Cii) hanno concordato un programma integrato di riqualificazione urbanistica ed ambientale dell'area ex Industrie Zanussi, la cui superficie, di 63.000 metri quadri, si trova in pieno centro urbano. Hanno chiamato piano di riqualificazione urbanistica quello che, in realtà, è un piano di speculazione edilizia.Me lo sussurra, mentre percorriamo e sondiamo l'area, Ezio Da Re, già consigliere comunale ed ora animatore del Comitato tutela del territorio e delle colline: «Il piano prevede una cubatura di oltre 470.000 metri cubi, un intervento dalle dimensioni demenziali nel trend di crescita della città». Le parole di Da Re si giustificano nell'area che sa di neve di questa mattinata invernale, nel profilo della città che sposa le colline in una sintesi quasi perfetta, conseguenza di secoli di attenzioni e cautele che ora sembrano naufragare in questo processo di riqualificazione-condanna, ben definito nel corso di un'assemblea di cittadini prima del Natale 2004.La giunta comunale, imperterrita, compattata in un solido, cementizio accordo Forza Italia-An, procede imperterrita sulla base dei progetti presentati dalla Conegliano iniziative immobiliari che, in modo del tutto disinvolto, prevede nuove case da costruire su terreni non più bonificati, ma cementati in bare, bare di veleni, nonostante le perplessità della provincia di Treviso e l'opinione contraria dell'Arpav sull'interramento del terreno inquinato in sarcofagi di cemento.Da Re ed il Comitato, in accordo con la consigliera comunale della Margherita, Gabriela Chiellino, vorrebbero l'annullamento della delibera di giunta che autorizza nuovi edifici nell'area nord dell'ex Zanussi, senza che vengano prima smaltiti i contaminanti e i rifiuti nocivi che caratterizzano l'area dopo decenni di attività produttiva.Una bonifica veraSi vorrebbe una bonifica vera, come richiesto dalle leggi nazionali e dai regolamenti europei, una bonifica che consegni nuovamente ai cittadini un territorio espropriato ed ora sacrificato ai riti delle speculazione, con le più assurde e diverse motivazioni di ordine economico, sulla base di un discutibile avallo accademico.Il programma originario prevedeva la bonifica dell'intero ambito dell'area dismessa, contaminata a macchia di leopardo, trattandosi di area urbana dove galvanica e fonderia hanno segnato irreversibilmente il sito a partire dal 1926. Le analisi, i cui risultati sono ben presenti nei documenti ufficiali, forniscono i dati di un suolo contaminato da metalli pesanti, Ipa, Pcb, idrocarburi e rifiuti pericolosi interrati.Nella logica di questo intervento non domina comunque la preoccupazione di una bonifica corretta, ma quella del piano finanziario che, per l'intero programma, indica un totale di ricavi di 228 milioni di euro, costi per 179 milioni, con un margine lordo di 49 milioni, netto di 23. Il piano finanziario, ovviamente, non fornisce indicazioni sui costi di bonifica dell'area, divisa in tre zone, quella dei Grandi impianti, l'area Mensa e l'area Nord.Il 9 dicembre 2003, l'immobiliare Cii ha presentato al comune il progetto preliminare di bonifica delle aree Nord e Mensa, sostenendo l'assoluta impossibilità di raggiungere i valori delle sostanze inquinanti nelle matrici ambientali toccate dall'inquinamento fissati dai limiti tabellari, anche applicando le migliori tecnologie disponibili. Ragione di costi.La proposta lascia esterrefatti, ma vi saranno esperti e docenti universitari che la giustificheranno: nelle aree Mensa e Nord la bonifica dovrebbe avvenire sulla base di misure di sicurezza che consentirebbero il mantenimento in situ del terreno contaminato non movimentato ed il confinamento, sempre in situ, del terreno movimentato per gli interventi edilizi. Un ragionamento che, saltando al volo la necessaria analisi costi-benefici su base ambientale, punta solo su costi e benefici economici. Il trattamento di tutto il terreno contaminato comporterebbe una riduzione dell'utile netto del 22-26%, forse sopportabile dalla società, ma con, in prospettiva, il rischio di un default, un'insolvenza finanziaria causata dall'obbligo di pagare gli oneri delle operazioni di bonifica.Nel corso della Conferenza dei servizi del 26 maggio 2004, la provincia di Treviso, l'Arpav, il Dipartimento di igiene e sanità pubblica dell'Assl n. 7 hanno chiaramente espresso il proprio parere contrario al progetto preliminare di bonifica. L'analisi del rischio non sarebbe adeguata e non viene dimostrata l'insostenibilità economica degli interventi di bonifica totale del sito. L'Arpav insiste in particolare sul fatto che la valutazione di incidenza delle spese tecniche di bonifica si aggira sull'11% delle spese di costruzione e l'applicazione delle migliori tecnologie non comporterebbe costi insopportabili.La discussione di tutti questi parametri, l'evidenza del grande errore urbanistico di insistere sulla speculazione edilizia, nonostante alcuni avalli accademici, potrebbe portare a decisioni più sensate per quanto riguarda gli interventi su un'area residenziale che dovrebbe entrare in sintonia con le esigenze della città.Il destino del NordestIl progetto Cii, se realizzato, sarebbe un'ulteriore conferma del destino del Nordest: trasformarsi in un grande, irreversibile blocco di urban spraw che travolge e cancella tutto, aree agricole, aree industriali dismesse, residui di naturalità, la residua connettività ed i pochi resti di boschi planiziari padani. Il progetto, da rivedere completamente, dovrebbe puntare su di una maggiore valorizzazione della qualità della vita nel centro città, non su destinazioni che indurrebbero un ulteriore effetto di congestione dell'ambito urbano.La giunta di destra della città non si scompone. Con delibera 404 del 27 settembre approva il progetto preliminare di bonifica motivando la decisione con le seguenti ragioni: il costo della bonifica sulla base di tecnologie adeguate non sarebbe sostenibile ed il rapporto tra costo di bonifica e fatturato Cii sarebbe sproporzionato. Da qui una situazione di insolvenza e di default finanziario che comprometterebbe la vita stessa della società. Questa sensibilità e preoccupazione nei confronti del destino della società Cii da parte degli amministratori locali, un atteggiamento più da consiglio di amministrazione che da giunta comunale, fa insorgere motivati sospetti.Il sito si trova a 200 metri in linea d'aria dal duomo di Conegliano e qui, in onore della speculazione edilizia, abilmente definita da qualcuno «una scommessa per la qualità ambientale», saranno interrate le bare di cemento armato in cui dormiranno gli scarti di fonderia, la terra inquinata da nichel, rame, zinco, cadmio, piombo.Via libera quindi all'interramento dei sarcofagi di cemento, che lastricheranno le fondamenta delle case della Cii? Ezio Da Re non si arrende. Contatta il deputato della Margherita a Strasburgo e vice-presidente del parlamento europeo, Luigi Cocilovo; il quale, il 26 novembre 2004, presenta un'interrogazione scritta alla Commissione europea. Tutti ora attendono la risposta, ma nel frattempo il progetto non si ferma.Se volevamo una verifica che i modelli ambientali burocratizzati, le ipotesi di semi-bonifica, i concetti usurati di sostenibilltà e qualità ambientale, senza verifiche parametriche nell'ecologia del paesaggio e nell'ecologia urbana, non sono altro che stereotipi senza significato, utili alla speculazione ed al perseverare in errori del passato, la cui dimensione ed incidenza oggi presenta un effetto ancor più deleterio, ecco, l'abbiamo avuta. A Conegliano.
Titolo originale: Protest – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini Per la gran parte degli ultimi cinquant’anni, gli urbanisti, i pianificatori, gli ambientalisti si sono scagliati contro la suburbanizzazione e l’odiata tendenza allo “ sprawl” fuori dai vecchi centri urbani. Augurandosela, alcuni hanno predetto l’imminente dannazione delle fasce più esterne, a partire dalla crisi energetica degli anni Settanta. I più rabbiosi oppositori di oggi allo sprawl, come lo studioso James Howard Kunstler, vedono questo come il momento “di uscire da suburbia sin che si può”, profetizzando il declino di questo tanto detestato simbolo della american way of life. Altri si concentrano su quello che chiamano il “ boom” di mercato residenziale nelle zone interne urbane, pronosticando una enorme ondata di giovani alternativi, coppie senza figli e altre figure sociali gradite, che sosterranno i costruttori nel trasformare d’incanto le zone urbane dell’America media in piccole Manhattan.Ma in realtà, sia le ipotesi di declino suburbano che quelle di un grosso revival dei centri sono andate deluse. Dal 1950, il 93% di tutta la crescita metropolitana ha avuto luogo nei sobborghi. Cosa più importante, queste tendenza è proseguita negli anni della crisi e, nonostante la crescita dei centri, non mostra concreti segnali di attenuazione.
Il motivo principale di questo trionfo non sta nella “cospirazione” delle grosse compagnie petrolifere o dei costruttori di autostrade, spesso citata dagli eco-attivisti, ma nel semplice desiderio della gente comune (non solo in America, ma nella maggior parte dei paesi ricchi) di possedere un pezzo di terra, per quanto piccolo, dove sia possibile vivere in relativa comodità e pace. Rispecchia quanto l’urbanista Edgardo Contini, italiano immigrato a Los Angeles, negli anni Sessanta chiamava “aspirazione universale”.Questa aspirazione non ha tanto eliminato il centro urbano tradizionale, quanto circoscritto di parecchio la sua rilevanza. In alcune città, come Chicago, mantiene parecchia vitalità ed importanza economica. E nella maggior parte delle altre ad ogni modo non è collassato nel guscio vuoto di quanto era un tempo (vengono in mente St. Louis, Cleveland, o Buffalo) mentre alcune come Boston e San Francisco, si sono reinventate come centri effimeri di divertimento e servizi per una utenza in massima parte di élite di tipo post-economico.I fatti, qualche volta, possono essere un ottimo balsamo per le delusioni. Negli ultimi quindici anni, in alcune località si è assistito a un piccolo ma positivo aumento dei residenti in centro, ma, se lo si considera come quota di tutte le nuove case nel paese, resta minuscolo. In realtà, tutta la crescita prevista di recente per i trenta maggiori centri città degli USA fino al 2010, assomma a meno di metà di quella suburbana della sola area metropolitana di Seattle negli anni Novanta. E nonostante tutto il recente discutere sugli incrementi residenziali del centro di Houston, le cifre delle autorizzazioni rilasciate mostrano come nell’intero anello centrale (che va ben oltre il solo centro) esse siano il 6% del totale della città, e una minuscola frazione se paragonata agli anelli suburbani esterni.
A partire dal 2000, questa tendenza sembra accelerare, secondo il demografo della Brookings Institution, William H. Frey. Molte città considerate anticipatrici di un futuro urbano a maggiore densità (San Francisco, Chicago, Minneapolis) hanno di fatto perso popolazione nei primi ani del nuovo millennio, dopo gli aumenti degli anni Novanta. Si spera che questo declino si invertirà nei prossimi anni, ma anche le previsioni più ottimistiche per le aree interne mostrano cifre di crescita non paragonabili con quelle per le periferieSecondo molti urbanisti, l’ascesa di suburbia suona la campana a morto per la città. Ma se pure la città tradizionale ha perso la precedente assoluta priorità, ha ancora molto da insegnare al suburbio. Lo sprawl ha dato alla gente, alle famiglie, una strategia di adattamento alle disfunzioni urbane (governi contrari all’impresa, scuole ingestibili, mancanza di verde), ma non ha sempre risposto adeguatamente ad altri problemi, soprattutto riguardo al bisogno di comunità, identità, spazi sacri, e un più stretto rapporto fra vita domestica e posti di lavoro.Creare un futuro suburbano migliore è una nobile (e potenzialmente profittevole) aspirazione. Suburbia sta maturando ed evolvendo in tutta l’America, come si può vedere nelle rivitalizzazioni dei centri terziari suburbani come Naperville, Illinois, o nel nuovi “villaggi suburbani” in corso di costruzione nella Fort Bend County nell’area di Houston, o nella Santa Clarita Valley in California. È una rinascita che si può vedere nelle manifestazioni artistiche della Gwinnett County, Georgia, nella costruzione di nuove sorprendenti chiese, moschee, sinagoghe e altri templi nelle vaste periferie.Questo importante lavoro farà molto per definire la città moderna del ventunesimo secolo, e tentare di rispondere alle sfide poste dai primi visionari di suburbia – uomini come Ebenezer Howard o H.G. Wells – che videro nello spostamento vero le periferie l’occasione di una “nuova civiltà”. È un programma che merita le energie creative di architetti, ambientalisti e pianificatori, non disprezzo e condanna.
Nota: qui il testo originale sul sito di Architecture ; le politiche publiche, per esempio in Gran Bretagna, sembrano fortunatamente non tener conto di questi richiami ai loro pensatori nazionali, come racconta l'articolo del RICS sugli incrementi di densità residenziale che abbiamo proposto su Eddyburg (f.b.)
Titolo originale:Seaside Sprawl: Who Will Learn From the Tsunami Catastrophe? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
I disastri naturali producono qualcosa di più che morte e distruzione. Ci sanno delle lezioni. Ma per quanto riguarda le devastazioni delle coste a causa dei ricorrenti uragani che colpiscono le fasce costiere di USA e Caraibi, e ora lo tsunami epocale nell’Oceano Indiano, non pare che governi e interessi economici stiano imparando dall’esperienza passata. In Tahilandia, colpita duramente dallo tsunami, ci sono tutti i segnali che l’edificazione turistica sarà ricollocata nelle stesse aree costiere. E negli USA su sponde pure duramente colpite, come quella della Florida recentemente da parecchi uragani, si è manifestata l’identica sindrome del distruggi-ricostruisci-distruggi. La gente sembra incapace di calmare il proprio desiderio di vivere e far vacanza il più possibile vicino all’oceano. E gli interessi economici, con il sostegno degli enti pubblici, mettono il profitto al di sopra della sicurezza.
Scrivendo sul Washington Post a proposito del recente disastro dello tsunami, il giornalista tahilandese Joshua Kurlantzick ha osservato che “Il governo Thai ha imposto troppi pochi controlli sullo sviluppo turistico; c’erano regole urbanistiche del tutto casuali per l’edificazione, e alcuni insediamenti evidentemente facevano ricchi importanti uomini politici. Il 26 dicembre, la Thailandia ha pagato il prezzo di questa mancata pianificazione”. Si potrebbe dire lo stesso per quanto riguarda gli effetti degli uragani sugli insediamenti costieri USA, con la differenza che non si tratta solo di economia turistica, ma di interessi nell’edilizia residenziale che sembrano completamente ciechi.
Poche sembrano capire che la minaccia delle catastrofi naturali si trasforma in disastro quando è l’ambiente costruito ad intrecciarsi con eventi estremi. La prevenzione dei disastri non si fa collocando persone e case sul percorso delle grandi forze naturali, come uragani, tsunami o alluvioni. Negli USA, le aree costiere ospitano più della metà della popolazione, anche se rappresentano solo il 13% della superficie totale. L’edificazione sulle coste dell’Atlantico e del Golfo è stata notevole, con incrementi di popolazione del 100%, dai 26 milioni del 1950 ai 53 milioni del 2000. Nel 1998, sono state realizzate più di 50.000 abitazioni su isole barriera fra il Maine e il Texas: il doppio del 1992. La densità di popolazione sulle coste si è impennata. Nel 1960 era di 72 persone al chilometro quadrato, salite a 105 nel 1994, e si prevede un aumento fino a 126 per il 2015, secondo i calcoli della National Oceanic and Atmospheric Administration. La media densità di popolazione per il territorio nazionale è di soli 29 abitanti per chilometro quadrato.
Non ci si può sbagliare. I costruttori dello sprawl costiero trasformano i rischi naturali in disastri, e la cosa ci riguarda tutti. Le file di “ McMansions” che occupano prepotentemente tante linee di costa americane offrono un gran panorama ai loro occupanti. Ma l’insediamento costiero uccide il paesaggio disponibile per tutti gli altri, dall’entroterra e dalla spiaggia. La dimensione delle case continua ad aumentare, perché cresce il mercato degli affitti. Nel North Carolina, è stata costruita una casa di mille metri quadri con 16 stanze da letto, come abitazione unifamiliare, per evitare alcuni vincoli urbanistici; si affitterà per circa 20.000 dollari la settimana. Sulle coste della North Carolina i lotti edificabili costano da 500.000 a un milione di dollari.
Uno studio della University of North Carolina osserva: “Le attività umane d’abitudine si collocano in modo da creare seri pericoli sia per noi che per molte risorse e funzioni naturali, molte delle quali utili all’uomo, e di valore in se stesse e in quanto parte di un complesso sistema ecologico”. In verità, l’ambiente costruito non è per nulla resistente o in grado di recuperare quanto quello naturale. L’edificazione inevitabilmente acuisce all’estremo gli effetti sulla natura e sulle persone degli eventi calamitosi, e in alcuni casi genera disastri. In Thailandia come altrove, l’insediamento costiero ha provocato distruzione di mangrovie e barriere coralline al largo, il che ha aumentato il potere distruttivo delle ondate. I controlli di tipo ingegneristico, come quelli per le alluvioni o i moli per evitare l’erosione delle spiagge, spesso sono inefficaci o si limitano a spostare il danno.
In molte delle zone devastate dal recente tsunami, le enormi quantità di aiuti stranieri probabilmente ignoreranno il saggio principio di contenere la riedificazione sulle coste, nello stesso modo in cui gli americani si rifiutano di imparare dalle esperienze con gli uragani. I proprietari di case USA si aspettano sempre che il governo li risarcisca quando la calamità colpisce. La maggior parte dei tentativi di contenere l’edificazione nelle aree costiere minacciate da uragani, sono falliti. Il Federal Coastal Barrier Resources Act del 1982, per esempio, rifiuta finanziamenti federali per strade, servizi, aiuti per calamità e possibilità di assicurazione, per alcune zone costiere classificate come ambientalmente fragili, e ancora inedificate all’epoca della legge. Questo non ferma i costruttori, che proseguono spesso col sostegno delle amministrazioni locali e statali. Per esempio a North Topsail Beach, North Carolina, nel bel mezzo di un’area federale, sono state costruite 960 case e condomini, e il comune non ha osservato le norme federali. Il sindaco lavora nel settore immobiliare.
Ci dovrebbero essere più persone ed enti pubblici preoccupati per l’innalzamento del livello del mare a causa del riscaldamento globale. Gli agenti immobiliari dicono che “non si fanno più terreni”. Hanno ragione. In verità, i livelli crescenti del mare e una cattiva gestione delle coste hanno causato la perdita di numerose superfici, e si prevedono altre perdite per il futuro. Lungo la costa della Louisiana ogni mezz’ora sparisce l’equivalente di campo da football, e si sono già persi migliaia di chilometri quadrati. Si prevede che il livello della Chesapeake Bay salga da dieci a trenta centimetri per il 2030. Comprare una casa vicino alla linea di costa o nei pressi delle zone umide di sponda è poco preveggente, e costruire nuove abitazioni è pura follia.
Il rapporto del 2003 della Pew Oceans Commission sottolinea molti degli effetti negativi dello sprawl sullo stato delle coste, e sull’economia e la società americana. Se c’è un posto dove si rende urgentemente necessario uno sviluppo più sostenibile, è nelle zone costiere, che al contrario di quanto pensano i conservatori favorevoli allo sprawl, sono una risorsa limitata. Chi desidera vivere sulla costa, probabilmente non vedrà l’abitare in Missouri o South Dakota egualmente affascinante. Se persone e costruttori si rifiutano di riconoscere la follia di abitare sul bordo dell’acqua, allora deve intervenire il potere pubblico, a proteggerli da se stessi, e a proteggere la natura dall’uomo.
Nota: qui il testo originale sul sito Planetizen ; su Eddyburg, un articolo correlato, scritto dopo lo “tsunami di Natale”,
Per secoli le comunità ebraiche ortodosse sono state abituate a dover traslocare da un posto all'altro. Una volta era a causa delle persecuzioni cui erano soggetti, oggi semplicemente per la loro straordinaria prolificità. Con i loro cappotti neri e i lunghi riccioli che spuntano sotto i cappelli a tesa larga, i Charedi sono una delle comunità più caratteristiche del quartiere di Stamford Hill a nord di Londra. Si sono stabiliti da queste parti dopo la prima guerra mondiale, crescendo rapidamente fino a diventare la più grande comunità ortodossa di tutt'Europa. Oggi, però, il quartiere non riesce più ad ospitarli. Lo spazio non è più sufficiente per le esigenze delle numerose famiglie, e la comunità ebraica sta progettando un trasferimento in massa verso Milton Keynes, una cittadina a un centinaio di chilometri da Londra. I sostenitori del progetto dicono che sarà l'esempio di una comunità perfetta, i suoi detrattori che sarà solo un altro ghetto. Nel quartiere di Stamford Hill, soprannominato da alcuni sociologi Volvo City per la preponderanza di grandi station wagon che circolano per le sue strade, la comunità ebraica cresce a un ritmo dell'8% all'anno, e i suoi 25 mila abitanti sono raddoppiati dal 1989. Un po' come in tutta Londra, le case qui hanno prezzi molto alti, e alloggiare famiglie con una media di sei figli a testa non è facile. Oltre alle normali difficoltà che potrebbe avere qualsiasi famiglia numerosa, però, i Charedi hanno anche altri generi di limitazioni. Il loro stile di vita ultraortodosso, rispettoso di tutte le regole e i divieti che il credo ebraico impone, rende il vivere comunitario una necessità imprescindibile. E per soddisfare le loro particolari esigenze c'è bisogno di spazio per i servizi comuni e case con tanti posti letto.
I Charedi hanno bisogno di avere una sinagoga vicina per quando, durante la giornata dello Shabbat, devono raggiungere il tempio senza poter guidare. Devono avere negozi kosher e scuole ebraiche dove far studiare i loro figli. E il fatto che per pregare debbano riunirsi almeno dieci uomini rende preferibile che gli osservanti abitino e lavorino il più possibile vicini gli uni agli altri. Per questo Stamford Hill è un luogo ideale.
I maschi pregano tre volte al giorno e cercano di andare avanti a studiare i testi sacri al più a lungo possibile. La maggior parte di quelli che hanno un lavoro sono impiegati all'interno della comunità stessa e guadagnano salari moto bassi. Di conseguenza le famiglie sono generalmente povere. Purtroppo, però, la velocità con cui gli abitanti di Stamford Hill si moltiplicano senza disperdersi ha creato un vero problema di alloggi. E oggi Volvo City è diventata un posto troppo affollato per poter soddisfare le esigenze della comunità. Le loro abitudini particolari fanno sì che, per poter vivere in maniera decorosa, i Charedi debbano trasferirsi in gruppo. E il progetto prevede che si muovano 300 famiglie per un totale di circa 2000 persone.
«Sarebbe un modo per creare un nuovo villaggio ideale con spazio a sufficienza per tutti», dice Ita Symons, la direttrice di Agudas Israel housing, l'associazione immobiliare che ha ideato il progetto. «Non vorremmo muoverci da Stamford, ma qui non c'è davvero più spazio». L'idea di dover ricostruire una nuova comunità ebraica dal nulla non entusiasma tutti gli abitanti di Stamford Hill. I Charedi hanno lavorato sodo e investito tante energie per creare le infrastrutture che gli permettono di vivere a loro agio nel nord di Londra. E' solo la necessità di spazio che li ha convinti a muoversi. «La comunità sta crescendo a una velocità fenomenale. In alcune zone c'è rimasto posto per qualche casa, ma non per le scuole, i negozi, le sinagoghe», dice Abraham Pinter, rabbino dell'Unione delle congregazioni ebree ortodosse. «Ci sarebbero altre zone più vicine a Londra dove stabilire una nuova comunità, ma Milton Keynes è rinomato per essere un luogo aperto alle innovazioni».
Una «città modello»
La cittadina meta del nuovo progetto di migrazione è stata costruita dal nulla a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta per compensare l'ipercrescita della capitale britannica, ed è abituata al costante flusso di nuovi arrivi. L'intento originale dei costruttori era di farne una città modello, dotata di un'architettura moderna e funzionale. La pianta delle strade a reticolato e la distribuzione policentrica di aree residenziali alternate a zone verdi e centri commerciali minimizza i problemi di inquinamento e congestione del traffico. Ma il progetto non sembra essere interamente riuscito e molti critici la paragonano ad un'anonima urbanizzazione degna di una periferia qualsiasi. Nonostante questo, Milton Keynes è cresciuta ad un ritmo strabiliante, passando dall'avere 60 mila anime sparse nei tre villaggi originali riuniti negli anni Sessanta, ai 177 mila abitanti censiti nel 2001. E il progetto finale non è ancora completo, con alcune aree in attesa di essere sviluppate.
English Partnership, l'organizzazione governativa proprietaria del terreno su cui dovrebbe trasferirsi la comunità di ebrei ortodossi, sta considerando di costruire nell'area di Tattenhoe Park 1200 nuove abitazioni. Le esigenze della società britannica moderna hanno portato la compagnia immobiliare a prevedere una maggioranza di case con una o due camere da letto. English Partnership ha però confermato che, dopo essere stata contattata dall'associazione ebrea, ha preso in considerazione anche la costruzione di 300 abitazioni con più di quattro camere da letto.
Ma c'è chi non li vuole
Nonostante la sua lunga tradizione di immigrazione, alcuni rappresentanti di Milton Keynes non si sono dimostrati entusiasti alla prospettiva di ricevere qualche centinaia di famiglie ebree ultrareligiose, e Symons è preoccupata dall'opposizione che sta nascendo intono al progetto. Il capogruppo dei Labour al comune di Milton Keynes ha avvertito che la proposta rischierebbe di creare una «ghettizzazione» della comunità. E Phyllis Starkey, deputato alla Camera dei Comuni per la circoscrizione di Milton Keynes, sembra essere d'accordo. «C'è molta diffidenza fra gli abitanti di Milton Keynes», dice Starkey. «Il progetto potrebbe creare un precedente. E tra qualche tempo potremmo vedere una comunità buddista da una parte e una musulmana ortodossa dall'altra».
Più di ogni altra cosa, la parlamentare è preoccupata dalla scarsa volontà di integrazione della comunità ebraica, che, a suo parere, mal si concilia con il forte sentimento di appartenenza manifestato dagli abitanti di Milton Keynes. «Hanno tutto il diritto di andare avanti con il loro progetto, ma ci sono una serie di problemi che andranno affrontati», avverte Starkey. Altri critici puntano il dito sulla forte discriminazione religiosa in base alla quale opera l'organizzazione che sponsorizza il progetto. Agudas Israel housing association è una delle tante associazioni di carattere religioso che lavorano per risolvere il problema degli alloggi. Come le sue omologhe, Agudas riceve dei fondi dal governo per acquistare o costruire abitazioni attraverso la Housing corporation. Ha cominciato la sua attività 24 anni fa con 25 case e da allora è cresciuta in modo esponenziale fino ad arrivare a possedere 480 abitazioni.
La discriminante religiosa
A differenza di Agudas, però, altre associazioni immobiliari cristiane o musulmane non fanno della fede una discriminante imprescindibile per offrire una casa ad una persona. «Le case costruite dal governo sono troppo piccole per noi. Questo è l'unico modo perché ebrei poveri possano trovare un'abitazione adatta», si difende Ita Symons. «C'è una tale domanda di alloggi spaziosi tra noi che non dobbiamo trovare inquilini di altre fedi». Symons pensa che molte delle obiezioni sollevate siano solamente frutto di un antisemitismo diffuso. «In Gran Bretagna non è come in altre parti d'Europa, dove l'antisemitismo è espresso più apertamente. Qui è più sottile, ma c'è comunque», avverte. «La gente è diffidente perché non ci mescoliamo con altri. Siamo una comunità molto coesa, che sa badare a sé stessa. Ma il fatto che non creiamo disordini e non mettiamo bombe non è un buon motivo per negarci lo spazio dove vivere».
Altri progetti prima di questo sono già falliti. A St Albans, un sobborgo a nord di Londra, la proposta ha incontrato la forte opposizione della comunità locale. E anche quella di trasferirli vicino all'aeroporto di Stansted è finita nel nulla. English Partnership dovrebbe decidere se vendere il terreno alla comunità Charedi entro ottobre. Perché il progetto possa procedere, però, il prezzo d'acquisto dovrebbe essere inferiore a quello di mercato. «Possedere una casa è fondamentale per i membri della comunità. La maggior parte delle nostre attività sociali si svolgono al suo interno. Ma non siamo ricchi e per poterla comprare il prezzo deve essere molto vantaggioso», spiega Symons, che sta già vagliando altre ipotesi nel caso in cui il progetto non dovesse andare in porto. «Il problema è destinato a rimanere e qualcosa prima o poi dovrà succedere».
Nota: le perplessità e problemi di un uso dello spazio come quello della comunità ebraica ortodossa sono in parte riassunti nell'articolo. A solo titolo informativo, allego qui il link ad una ripugnante (a dir poco) nota sulla medesima questione, dell'americano nazista National Socialist Movement. Ogni commento è ovviamente superfluo (f.b.)
Titolo originale: Seoul's mayor shows his green streak – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
SEUL – Quando le piogge del monsone cadono su Seul a fine giugno, le carpe risalgono un torrente che scorre fra torri di grattacieli e centri commerciali in centro città, con le squame che brillano al sole.
Le troupes televisive corrono a filmarle. I giornali sussultano: “ Il ritorno della carpa”. E il sindaco Lee Myung Bak segna un altro punto in quella che chiama la sua “rivoluzione verde”.
I critici ridicolizzano i progetti ecologici di Lee, come lanci da pubbliche relazioni, fatti guardando soprattutto ala vittoria nelle elezioni presidenziali coreane fra due anni. Ad ogni modo, l’inverdirsi di Seul, città di più di dieci milioni di abitanti, sta facendo passi in avanti. Dalla sue elezione a sindaco nel 2002, Lee ha strappato asfalto e buttato giù muri, sostituendoli con alberi ed erba.
La Foresta di Seul, “parco ecologico” da 223 milioni di dollari, ha aperto in giugno, con una popolazione di cervi e anatre mandarine.
Ma il progetto di gran lunga più visibile è l’idea da 350 milioni di dollari, di scoprire un tratti di sei chilometri del torrente Cheonggye, che un tempo scorreva nel cuore di Seul ma era scomparso dalla memoria collettiva da una generazione.
La cosa più strana di tutto, è il fatto di essere stata pensata dal sessantatreenne Lee.
Conosciuto un tempo come “il Bulldozer” Lee si è costruito fama nazionale come duro direttore esecutivo della Hyundai Construction & Engineering, la compagnia di costruzioni più nota del Sud Corea, icona della sua rapidissima industrializzazione. Era stata la Hyundai, negli anni ’60 e ’70, a versare cemento sul torrente Cheonggye, costruendoci sopra una strada sopraelevata. Il corso d’acqua era diventato una fogna sotterranea, anche se la strada aveva offerto alla città un necessario sbocco per il traffico.
Dopo essere entrato in carica, con la stessa velocità e ottimismo usati a suo tempo per costruire dighe e fabbriche, autostrade e ferrovie, Lee ha iniziato a disfare l’eredità del suo ex datore di lavoro a Seul. Ha demolito la sopraelevata –diventata dopo decenni di onorato servizio un pericolo cadente e una bruttura – e ripulito il torrente. Ha realizzato 21 ben disegnati ponti sul corso d’acqua.
”Quando ero negli affari, la Corea del Sud era un paese sottosviluppato che correva per diventare ricco, e io ero in prima linea per farlo” ha dichiarato il sindaco in una intervista rilasciata un pomeriggio nel suo ufficio. “Come sindaco del 21° secolo, considero mia responsabilità rendere Seul una città verde, una metropoliti di livello mondiale”.
Lee appartiene a una nuova generazione di sindaci energici e irruenti dell’Asia, e ha continuato ad andare avanti coi suoi progetti nonostante gli scandali, come quello che ha tolto di mezzo il suo braccio destro, vice sindaco Yang Yun Jae, in prigione da maggio con l’accusa di corruzione.
”io porto a termine le cose” dice Lee, che ha il sorriso facile. “Ecco perché mi criticano tanto, o mi lodano tanto. Sono un sindaco manager. Mi prendo dei rischi”.
Ruvido, ostinato e ambizioso, Lee in qualche modo riflette la storia moderna di Seul, da 600 anni capitale della Corea. Figlio di un povero contadino, Lee è cresciuto in una baraccopoli, ha lavorato come spazzino ed è stato in prigione per attività studentesche prima di laurearsi all’Università della Corea di Seul nel 1965.
È entrato nella Hyundai Construction lo stesso anno, e ha iniziato a salire i gradini gerarchici, diventando chief executive all’inaudita età di 36 anni. Lee ha guidato sei affiliate della Hyundai, che diventava il maggior conglomerato industriale del paese nel corso della sua carriera. È entrato in politica nel 1992, facendosi eleggere deputato nazionale in un collegio del centro di Seul.
Ora, come amministratore di una città dove risiede più di un quinto dei 48 milioni di abitanti del paese, Lee non si fa intimidire dal confronto coi leaders nazionali. Definisce il governo del presidente Roh Moo Hyun “dilettanti privi della capacità ed esperienza necessarie per gestire un paese”.
Membro del Grand National Party, all’opposizione, Lee subusce i contraccolpi di commenti del genere. Il ministro delle Costruzioni di Roh, Choo Byung Jik, per citarne uno, ha chiamato i progetti ambientalisti del sindaco “cortine fumogene”.
Niente di nuovo: Lee e il governo nazionale sono ai ferri corti da anni sul modo di risolvere i problemi urbani di Seul, dall’impennarsi dei prezzi delle case agli ingorghi da traffico.
Vita dalle montagne che circondano la città, oggi Seul sembra una gigantesca crosta di cemento che copre le valli e colline, sotto una cappa giallastra di inquinamento.
La città è cresciuta a salti e pezzi. C’erano pochi edifici ancora in piedi alla fine della Guerra di Corea, nel 1953. Nel 1988, è stata in grado di ospitare i giochi olimpici. Ma era una città costruita in fretta. Nel 1995, un grande magazzino crollò uccidendo 501 persone.
Con 23,5 milioni di persone che si schiacciano fra la città principale e i centri satellite, l’area è una delle metropoli più congestionate del mondo.
Grazie agli sforzi di Lee per migliorare il trasporto pubblico, oggi sempre più pendolari di Seul lasciano la macchina per prendere l’autobus o la metropolitana. Ma ancora di recente, Roh lamentava che la congestione sta peggiorando. Ha proposto una soluzione radicale: fare i bagagli con tutto il governo nazionale, e spostarsi in una cittadina rurale a sud della capitale. Ma in ottobre la Corte Costituzionale gli ha votato contro.
Il presidente ha rapidamente proposto un progetto alternativo, che comporta lo spostamento di 176 uffici amministrativi, aziende pubbliche e istituti al di fuori di Seul. Anche questo piano vede contraria la Corte Costituzionale.
Lee condanna quello che chiama il “piano con motivazioni politiche” di Roh per “spaccare la capitale e guadagnare voti” fuori da Seul per il suo partito. (Roh non può avvantaggiarsi personalmente di alcun voto, dato che per legge può correre per un solo mandato).
I sostenitori di Lee affermano che la sua immagine di “ si-può-fare” lo può portare al vertice del paese nel dicembre 2007. I sondaggi lo collocano al posto di sindaco più popolare del paese, anche se naturalmente non tutti sono soddisfatti.
“La corsia preferenziale per gli autobus introdotta da Lee ha migliorato il traffico degli autobus, ma rallentato i taxi” dice Yoon Chang Tae, uno dei 70.000 tassisti della città.
Kim Jin Ai, principale dello studio di urbanistica Seoul Forum, definisce Lee un “giocatore dell’immagine” e “decoratore urbano”, i cui progetti fanno poco per ripristinare l’ambiente naturale e storico della città, ma sono molto fotogenici per scopi di breve termine e vantaggio politico.
”Ha fretta di mostrare risultati prima della fine del mandato” dice Kim.
Almeno questo sembra vero.
La pagina web dell’ufficio di Lee è affollata di nuovi progetti. Inizieranno il prossimo anno le costruzioni del nuovo municipio e del teatro dell’opera. È in corso di realizzazione una nuova scuola internazionale, parte della campagna di Lee per rendere la città più attraente agli investitori stranieri.
Un altro progetto è la Piazza di Seul, l’ex cerchio di cemento dove mezzo milione di coreani inneggiava alla democrazia negli anni ’80, e dove quasi altrettanti tifosi di calcio si radunavano durante i Campionati Mondiali del 2002. Ora è coperta d’erba. Nei giorni feriali, suonano orchestre, i bambini giocano, ci sono spettacoli pirotecnici: uno spazio verde, e insieme un promemoria per ricordare ai cittadini quello che il sindaco sta facendo per loro.
Nella stressante Seul, “senza accorgersene la gente diventa meno amichevole, irritabile” dice Lee. “Cambiando l’ambiente urbano spero che i cittadini possano diventare più rilassati”.
Nelle giornate serene, i parchi di Seul, i luoghi più appartati, i templi buddisti spiccano nel verde vivo all’ombra dei grattacieli. Nei fine settimana, a migliaia vanno sulle montagne a solo un’ora di metropolitana dal centro, che risuona delle dimostrazioni di vari colori, di chi chiama Roh “il nemico dei lavoratori”, il presidente George W. Bush “imperialista”, e il leader nord-coreano Kim Jong Il “diavolo” da bruciare almeno in effige.
La maggior parte delle persone sembra non rendersi conto di vivere a soli 50 chilometri dal confine più armato del mondo, a portata di missile e tiro d’artiglieria dalla Corea del Nord comunista.
Una delle trasformazioni che sia Roh che Lee sostengono, è lo spostamento della truppe USA dalla base di Dragon Hill, giusto al centro di Seul. Quando il trasferimento sarà completato, tra qualche anno, finirà un secolo di presenza militare straniera a Seul: prima le truppe cinesi, poi i colonialisti giapponesi, infine i soldati USA rimasti dopo aver combattuto la Guerra di Corea.
Un tempo simbolo di sicurezza, la base USA di 265 ettari ha iniziato ad essere considerata fonte di congestione da traffico, e un’offesa all’orgoglio nazionale fra i più giovani.
E se il Ministro della Difesa vuole vendere i terreni ai costruttori, e utilizzare il ricavato per finanziare la rilocalizzazione dei militari americani, Lee spera di trasformare l’area in uno spazio fronzuto che rivaleggi col Central Park di New York.
”La città sta diventando verde pezzo per pezzo ovunque”, dice Lee, che deve ancora esplicita re le proprie ambizioni presidenziali, ma già parla come un candidato. “I cittadini lo capiscono”.
Nota: il testo originale al sito dello Herald Tribune (f.b.)
Titolo originale: Council rejects Wal-Mart – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
VANCOUVER – È stato uno choc per tutti.
Il Wal-Mart “verde” pensato appositamente per Vancouver è stato respinto a schiacciante maggioranza martedì dal consiglio municipale, dopo che i costruttori avevano passato quattro anni lavorando al progetto, e gli oppositori altrettanti facendo battaglia contro.
Solo il sindaco Larry Campbell e due consiglieri di opposizione della Non-Partisan Association hanno sostenuto il negozio big-box in un’area già destinata a commercio di automobili, sulla Southeast Marine Drive a Main.
In un raro caso di unità su un problema controverso, entrambe le fazioni dell’alleanza di centro-sinistra che compone la Coalition of Progressive Electors hanno votato insieme l’opposizione al progetto: una mossa che è stata una sorpresa per il gruppo COPE Classic, più a sinistra.
Tutti hanno poi votato nello stesso modo contro un grosso negozio di pneumatici della Canadian Tire proposto per un’area vicina.
Questa decisione a sorpresa ha entusiasmato gente come Louise Seto, abitante del sud-est Vancouver che ha guidato una campagna contro entrambi i negozi big-box.
”Credo che abbiano dato un senso all’idea di visione complessiva per la città. Hanno messo i denti dietro le parole” dice.
Ma chi ha lavorato sui progetti di Wal-Mart e Canadian Tire è rimasto esterrefatto dalla decisione, che molti credevano molto più equilibrata del secco 8 a 3 emerso martedì.
L’architetto Peter Busby, noto per i suoi orientamenti verso la progettazione sostenibile che ha progettato un Wal-Mart con turbine a vento sul tetto, luce naturale, e un significativo livello di efficienza energetica, dichiara di essere terribilmente sconcertato.
”Vancouver ha perso una importante occasione. La cosa è diventata un fatto politico. Non c’entra il progetto. Non c’entrano le questioni urbanistiche”.
Il consulente immobiliare locale di Wal-Mart, Darren Kwiatkowski della First-Pro Shopping, si dichiara “sbalordito e disorientato” per il fatto che il consiglio abbia respinto una proposta sostenuta sia dal gruppo di progettazione che dagli uffici municipali responsabili.
Anche se, dice, è troppo presto per capire cosa voglia fare la Wal-Mart, che non necessariamente rinuncerà al progetto.
”Il terreno è loro. E col sostegno degli esperti e della città faranno quello che possono per continuare”.
Non è il primo Wal-Mart respinto al mondo, e nemmeno nell’area della Lower Mainland. Surrey ha bocciato un progetto qualche anno fa, anche se il consiglio poi alla fine ha approvato un negozio in un’area vicina.
Ma la cosa diventa immensamente simbolica nel caso di Vancouver, come una battaglia fra la libera impresa e la tutela dei quartieri.
Probabilmente sarà una questione centrale nelle elezioni del prossimo novembre.
Gli oppositori sostengono che avrebbe distrutto tutto quello che la città ha fatto sinora per tutelare i centri di quartiere e sostenere la vivibilità urbana, oltre a portare nella zona congestione da traffico e inquinamento.
Il consigliere Anne Roberts, che ha guidato la carica contro Wal-Mart in città da prima di essere eletta, dice che la zona sud di Vancouver “non è una discarica per commercio big-box”.
Il consigliere Jim Green sostiene che semplicemente non ha senso economico.
”Quello che ci fa essere una buona comunità d’affari è la nostra unicità”.
Due consiglieri, Tim Louis e Ellen Woodsworth, sono gli unici ad affrontare la spinosa questione delle politiche d’impresa di Wal-Mart.
Nel suo caratteristico stile senza peli sulla lingua, Louis ha definito la compagnia “uno dei più grandi criminali a livello mondiale”, che consente ai fornitori di sfruttare il lavoro minorile, e regala soldi al regime di Bush negli Stati Uniti.
Louis sbeffeggia la progettazione ambientalista del negozio.
”Una fabbrica di armi con un mulino a vento resta pur sempre una fabbrica d’armi” dice.
I consiglieri Peter Ladner e Sam Sullivan sostengono che la città ha predisposto una zona commerciale servita da grandi arterie stradali allo scopo specifico di contenere esercizi come questi, e che è uno schiaffo alle attività economiche far spendere alle imprese migliaia di dollari in buona fede per progetti che vengono bocciati per motivi ideologici.
Il sindaco Campbell crede che Vancouver avrebbe potuto avere di più spingendo Wal-Mart alla progettazione ecologica, e magari favorendo per la prima volta la presenza del sindacato nel negozio, piuttosto che chiudendolo fuori dalla città.
La gente si aspettava che qualcuno dei consiglieri COPE, che normalmente sostengono Campbell, la fazione COPE Lite che comprende Tim Stevenson, Raymond Louie, e Green, avrebbe sostenuto il progetto.
È stata questa convinzione a incoraggiare i promotori di Wal-Mart a proseguire il lavoro in collaborazione col consiglio.
Ma nessuno l’ha fatto, si ritiene da parte di alcuni per continuare a ricevere sostegno elettorale dai gruppi sindacali nelle prossime elezioni municipali. Organizzazioni come la Canadian Union of Public Employees o la Vancouver and District Labour Council hanno regolamente offerto cospicue somme di denaro, giocando un ruolo importante.
Ma Green dice di non aver niente a che fare con questo.
Dice di ricevere donazioni sia da gruppi economici che sindacali, e che “Non ho mai cercato voti negli interessi economici”.
Nota: il testo originale al sito del Vancouver Sun (f.b.)
Titolo originale: Female Mall – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Dopo Bangalore, Kolkata potrà presto vantare il primo centro commerciale solo per donne a Park Street. Potete chiamarlo la liberazione economica delle donne di Kolkata, o l’ascesa delle famiglie a doppio stipendio in città. Le indagini sui consumatori indicano che sono le donne ad aver sempre avuto un ruolo centrale nelle decisioni di acquisto. Ora sono riuscite a trascinare i giganti della distribuzione a rivolgersi a loro, in modo esclusivo.
”I concept malls esistono, e ora abbiamo deciso di costruirne uno per le donne, per la novità. D’altra parte, la domanda di consumi è in gran parte orientata dalle donne” dice Anirudh Daga, direttore del gruppo immobiliare che sta realizzando il centro.
La USP [ Unique Selling Position n.d.T.] di un centro commerciale del genere sarà nella capacità di coprire l’intera gamma dei desideri femminili. Così, ciascuno dei sette piani offrirà articoli di design, abbigliamento locale e occidentale, calzature, articoli in pelle, abbigliamento per la notte, accessori e bigiotteria, cosmetici e articoli per la casa. “Il punto centrale è di non fare semplicemente shopping, ma di trasformare ogni visita in un’esperienza completa. Ci saranno sezioni per la cura della pelle e degli occhi, un salone di bellezza, una caffetteria. Prevedendo parecchie clienti con bambini, abbiamo realizzato una sezione con giocattoli, dove possono divretirsi mentre le loro mamme fanno acquisti” aggiunge Daga. Cosa faranno gli uomini? Beh, gli uomini potranno entrare nel centro commerciale, ma solo per aiutare le signore e mettersi in mostra!
Manoj Gupta, direttore generale del settore immobiliare di un’impresa di gestione, responsabile di uno dei principali centri commerciali in città, spiega che gli studi sul comportamento d’acquisto nei malls mostrano come il rapporto di ingressi fra donne e uomini sia 75:25. “Abbigliamento femminile, calzature, accessori, sono gli articoli più acquistati, qui” dice.
Gli esperti di costruzione di centri commerciali intuiscono che le donne desiderino ambienti specifici per fare acquisti, a amano passare più tempo a provarsi le cose prima di comprare. Con il loro potere d’acquisto in crescita, cambiano anche gli atteggiamenti. Spiega il costruttore Rahul Saraf, “Se un centro commerciale per signore funziona benissimo in una metropoli, può non aver successo a Bhubaneshwar, dove sono gli uomini a prendere la maggior parte delle decisioni di spesa e acquisti. Il desiderio dei commercianti di blandire le signore è comprensibile se molte di loro comprano in base al semplice desiderio”.
Kalyan Ghosh, direttore (per il settore commerciale) di un’importante gruppo di consulenza, che sta promuovendo il progetto, esprime un parere, “Park Street, coi suoi negozi di sari e gioielleria, è già in sé un mercato per donne. Questo centro commerciale spingerà ancora di più nella stessa direzione”.
Per le acquirenti donne della città, è solo un sogno che si avvera. Racconta June, attrice, “Sono una shopping-dipendente e per me questa sarà un’esperienza fenomenale. Il solo pensiero di un intero centro commerciale dedicato alle donne è eccitante. Ma spero che consentirà di entrare anche ai mariti e fidanzati, altrimenti chi paga?”. Tina, modella, aggiunge, “Sembra molto bello, dato che troveremo tutto sotto il medesimo tetto. E ci sentiremo tutte molto più comode e a nostro agio visto che soprattutto gireremo per il mall”.
Nota: il testo originale al sito di Times of India (f.b.)
«Salirò ancora»: rastrellato il 13,5% l'immobiliarista Ricucci è già il primo azionista di Rcs-Corriere della Sera ma vuole di più. L'altro immobiliarista Coppola: «Rcs piace anche a me». E il primo giornale italiano sciopera, e oggi non esce E' in atto una metamorfosi del potere e i nuovi padroni sono quelli dell'edilizia: carichi di immobili rivalutati dal boom, coccolati dalle banche, protetti dal governo, con sponde a sinistra. Arriva la banda del mattone
Immobiliaristi all'assalto di via Solferino
BRUNO PERINI
Nella scalata al Corsera Stefano Ricucci non si ferma. Anzi, a lui si affianca un altro immobiliarista: Danilo Coppola. Mentre scendono in campo i giornalisti, gli azionisti pensano di togliere il titolo Rcs dalla Borsa. Un'operazione costosissima
La «banda del mattone» all'assalto del Corriere della Sera. Potrebbe essere questo il titolo di giornata della battaglia che si sta giocando in via Solferino e dintorni per il controllo del più importante quotidiano italiano. Non si tratta soltanto di un'aspra guerra finanziaria che si gioca sul terreno editoriale ma di una vera e propria metamorfosi del potere: i nuovi rantiers, carichi di liquidità proveniente dall'alto valore degli immobili, foraggiati per questo da potenti istituti bancari come Capitalia, Popolare di Lodi o Intesa, protetti da alcuni settori del governo Berlusconi interessati a destabilizzare il Corriere della Sera, alleati in alcuni casi a centri di potere vicini ai Ds, come Unipol e Monte dei Paschi di Siena, sono dappertutto, nella battaglia per il controllo di Antonveneta, nella disfida in corso per il comando della Banca Nazionale del Lavoro e in mille altri meandri della comunità degli affari, pronti a dare l'assalto ai centri nevralgici del capitale a colpi di miliardi. Ieri, mentre l'immobiliarista Stefano Ricucci, snobbando le dichiarazioni di Giampiero Pesenti, Cesare Geronzi e Marco Tronchetti Provera, sfidava il patto di sindacato di Rcs, annunciando di essere pronto a rastrellare altro capitale del colosso editoriale controllato da Mediobanca, Fiat, gruppo Pesenti, Banca Intesa, Pirelli-Telecom, un altro esponente della «banda del mattone», tale Danilo Coppola, dichiarava alla stampa: «Il gruppo Rcs? Ci potrebbe interessare. Stiamo valutando cosa fare, potrebbe essere interessante entrare in questa partita». Ci manca una dichiarazione dell'immobiliarista Giuseppe Statuto, alleato di Coppola e Ricucci in Bnl, e la «banda del mattone» è al completo.Chi c'è dietro gli aggressivi raiders? A cosa mira Ricucci? Perchè continua a rastrellare azioni nonostante la potente barriera di sbarramento dei grandi azionisti di Rcs? Queste sono le domande più difficili a cui neppure esponenti di primo piano del gruppo editoriale sanno rispondere. Di certo Stefano Ricucci è visto di buono occhio dall'entourage di Palazzo Chigi e da alcuni esponenti della Lega, legati a loro volta al patron della Popolare di Lodi, Giampiero Fiorani, finanziatore dell'immobiliarista. Al governo Berlusconi non piace per nulla la piega che ha preso il Corsera di Paolo Mieli e piace ancora di meno quel salotto di signori che controlla il gruppo Rcs; dunque se qualcuno lo destabilizzasse non gli dispiacerebbe affatto. Il Cavaliere si toglierebbe una spina nel fianco una volta per tutte. Vi è tuttavia un altro asse politico finanziario al quale Ricucci è legato, che passa attraverso la società Hopa di Emilio Gnutti, (con il quale condivide un accusa di aggiotaggio e insider trading), l'Unipol, socio e membro del patto di sindacato di Hopa, e il Monte dei Paschi di Siena che ha come riferimento politico dichiarato il presidente dei Ds Massimo D'Alema. Sono le cosiddette «relazioni pericolose» dei Democratici di sinistra. Non è un caso che i Ds tacciano su tutta la questione e non è neppure un caso che nelle battaglie per il controllo delle banche, vedi Antonveneta e Bnl, l'Unipol sia sempre dalla parte più «innaturale», ovvero sia alleata con gruppi finanziari filo governativi. Si dice che Fassino non veda di buon occhio queste anomale alleanze ma l'Unipol risponde cinicamente che gli affari sono affari. Ieri sono scesi in campo anche i giornalisti del Corriere della Sera. I fronti aperti dalla redazione di via Solferino sono due: uno contro «una minaccia esterna crescente che ogni giorno occupa le cronache di Borsa», di fronte alla quale «non c'è una capacità di difesa dell'azienda», e l'altro contro l'atteggiamento «ottuso e burocratico del management, ovvero dell'amministratore delegato Vittorio Colao, che rifiuta di fornire al giornale «le risorse indispensabili, in uomini e mezzi, perché il Corriere possa difendersi ed onorare il primato in edicola». L'accusa nei confronti di Colao che viene sussurrata nei corridoi della redazione è pesantissima: «E' un ragioniere, è soltanto in grado di guardare ai conti e alla gara di redditività con la Repubblica ma è miope e ottuso quando si tratta di valutare la situazione da un punto di vista politico ed editoriale. Se non intervengono gli azionisti, la guerra con lui sarà durissima».Le parole dei giornalisti sono altrettanto affilate nei confronti di Stefano Ricucci: «Il rastrellamento di azioni da parte di Stefano Ricucci, in assoluta mancanza di trasparenza, alimenta inquetudini... continua infatti a mancare la decisione da parte dei protagonisti di rendere il Corriere inespugnabile». Cosa significa rendere inespugnabile il Corsera? L'ipotesi migliore che viaggia in via Solferino è quella di una fondazione o un'accomandita che faccia da garante al quotidiano, l'ipotesi peggiore è che il gruppo Rcs venga tolto dalla Borsa in modo da impedire qualsiasi scalata. Un'ipotesi questa che comporterebbe un enorme esborso di quattrini perché il patto di sindacato dovrebbe lanciare un'opa oltre la sua quota di controllo, acquistando a prezzi molto alti anche il pacchetto nelle mani di Stefano Ricucci.
L'ambita preda
FRANCO CARLINI
Non chiamateli palazzinari. Quelli che stanno assaltando il Corriere della Sera, i cui redattori sono oggi in sciopero, hanno sì iniziato la loro carriera con qualche tonnellata di cemento, ma nulla hanno a che fare con la leggendaria generazione del sacco di Roma. I quali avevano orizzonti da agro pontino e ambizioni limitate all'arricchimento personale. Con quei costruttori Stefano Ricucci ha in comune solo il gonfiore del volto e il petto villoso che lo fanno assomigliare a un personaggio di Alberto Sordi, ma per il resto il grande gioco, di cui sembra attore non protagonista, ha ben altro rilievo: banalmente è un pezzo della democrazia in Italia, se quel valore si fonda, tra le altre cose, su una stampa almeno relativamente indipendente. Il Corriere della Sera non è mai stato un giornale aggressivo con i poteri economici e politici. Anzi spesso è stato spontaneamente e spietatamente dalla loro parte, ma da almeno tre direttori in qua ha accentuato il suo ruolo critico, nelle cronache prima ancora che nei commenti. Insomma ha fatto del giornalismo. Andrà anche notato che un analogo ruolo severo sta svolgendo negli ultimi mesi il quotidiano della Confindustria e questo fenomeno non è banalmente attribuibile a un Montezemolo in versione antigovernativa: evidentemente la degenerazione del paese è troppo acuta per vivacchiare.
La leggendaria risposta di una riga di Ferruccio De Bortoli a un articolo dell'avvocato Previti che lo invitava a cena, resterà da manuale di giornalismo. Diceva soltanto «No grazie. fdb». Ma anche così sarebbe sbagliato vedere nella scalata in atto solo una reazione rabbiosa del berlusconismo ferito. Non è detto affatto che Ricucci sia l'ultimo terminale di una catena che comincia con B come Berlusconi, continua con C come Caltagirone e prepara la Reconquista di via Solferino. Appassionati del complotto potrebbero sostenere che la C di Caltagirone porta anche a Casini, e dunque ad altri scenari della politica.
Ci si asterrà dunque dal filosofare, ma per gli storici sarà interessante ragionare sul segreto: l'amministrazione Bush ha dichiarato guerra apertamente a Newsweek, chiedendo scuse che non verranno, e lo stesso fece Tony Blair nei confronti della Bbc, la cui direzione è riuscito a rimuovere. Questi conflitti durissimi sono almeno avvenuti in pubblico e ognuno può prenderne atto e parte.
Nella vicenda di Rcs Media Group emerge invece il peggio del capitalismo finanziario ed è un peggio organico, non una degenerazione: un ex signor nessuno, stipulando un'alleanza di potere con altri poteri, può andare in una banca di provincia e ottenere credito per comprare allo scoperto miliardi di azioni altrui, di qua e di là, senza altra garanzia che altre azioni acquistate a credito. Come lui possono fare lo stesso una ventina di altri finanzieri di Brescia: sono fabbricanti d'armi o di tondino, ma la materia prima non conta, quello che importa è l'essere nel giro del denaro a pronta presa. Tra di loro ci sono dei pregiudicati (persone già condannate per insider trading) ma sembrano godere del tacito favore del maggior partito della sinistra italiana il cui silenzio sull'intera faccenda bancaria davvero preoccupa, così come Antonio Fazio, nel ruolo presuntuoso di riorganizzatore del capitalismo italiano, è ormai indifendibile. Che poi nell'occasione i colleghi del Corriere pensino che sia anche il momento di chiedere qualche soldo in più aggiunge un piccolo tocco di bizzarria all'intera faccenda. Più solidarietà avrebbero chiedendo lo sciopero generale della categoria.
ROMA - Il Salento, la Val d'Orcia, Monterubbiano nelle Marche, Bolzano e la Val di Cornia. Apparentemente questi cinque posti non hanno nulla in comune essendo lontani per distanza geografica, per tradizioni e per vocazioni produttive. Ma in realtà, secondo Legambiente, condividono qualcosa di molto importante. Sono infatti cinque esempi di come l'Italia potrebbe uscire dalla crisi che l'attanaglia e scongiurare il pericolo di declino.
Perché, anche se spesso chi usa questa parola viene sospettato di disfattismo e catastrofismo, è a questo destino che il nostro Paese si deve sottrarre. Il cammino dell'Italia verso il declino, secondo l'associazione ecologista, è infatti nei numeri che il rapporto Ambiente Italia 2005 mette in fila impietosamente. Lo studio, che Legambiente ogni anno realizza con la collaborazione dell'Istituto di ricerche Ambiente Italia, è infatti una raccolta di 100 indicatori, dall'industria all'energia, dall'agricoltura all'inquinamento, dalle risorse idriche ai trasporti, che fotografano un Paese in forte difficoltà.
"Il lungo periodo di stagnazione economica - ha spiegato nella conferenza stampa di presentazione il presidente di Legambiente Roberto Della Seta - ha paralizzato l'Italia, ma non ha ridotto, come ci si poteva attendere, la pressione sull'ambiente". Il rapporto, che analizza la situazione sui dati statistici del 2003, rivela, sempre secondo Della Seta, che c'è "un disaccoppiamento tra crescita e impatto ambientale". La prima frena, ma il secondo cresce. Aumentano infatti i consumi energetici (+2,6 da un anno all'altro, compresi quelli prodotti con risorse vecchie e inquinanti come il carbone), le emissioni di gas serra (+9,9), lo smog e anche lo sfruttamento del territorio, con cemento e asfalto sempre più invadenti (+6% a partire dal 1990).
In questo quadro desolante non mancano alcuni dati positivi, come la lenta ma continua crescita della raccolta differenziata dei rifiuti (tra il 2000 e il 2003 la quantità di spazzatura abbandonata in discarica è scesa dal 67% al 44%), i passi avanti fatti nella cura dell'ambiente urbano, il consolidamento di agricoltura biologica e agriturismo, ma secondo Legambiente "restano però modesti e discontinui".
La risposta giusta per invertire la rotta, secondo l'associazione ambientalista, è apparentemente semplice: "Ambiente versus declino, qualità ambientale come antidoto alla perdita di dinamismo socio-economico", innovazione e ricerca per imporsi nella sfida della globalizzazione e alle economie emergenti dell'Asia con prodotti in grado di imporsi per il loro valore aggiunto. "Bisogna trarre forza dalla bellezza per produrre ricchezza, dobbiamo saper capitalizzare l'immaginario positivo che l'Italia evoca all'estero", ha spiegato il presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci.
Una ricetta che hanno già adottato con successo piccole realtà territoriali o imprenditoriali come il Salento, la Val d'Orcia, l'azienda Faam di Monterubbiano, la Val di Cornia o l'industria edilizia di Bolzano. La Val d'Orcia, ha ricordato ancora Realacci, ha deciso di puntare con decisione sulla tutela ambientale, sulla valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti tipici ed è stata premiata con una crescita del valore aggiunto decisamente superiore sia alla media nazionale (+28%) che a quella della stessa Toscana (+15%). E lo stesso discorso vale per il tasso di occupazione, cresciuto del 21% rispetto al 6% della media nazionale.
Un percorso simile a quello che più recentemente ma con altrettanto successo ha deciso di percorrere il Salento scommettendo su uno sviluppo che punta a valorizzare le sue bellezze naturali e artistiche, affiancate alle sue tradizioni culturali e enogastronomiche. Discorso analogo anche quello relativo a un'altra valle toscana, la Val di Cornia, che ha saputo realizzare una rete di parchi naturali in grado di attrarre turismo, sottraendosi con successo alle difficoltà del polo siderurgico della vicina Piombino.
L'esempio di Bolzano chiama invece in causa un caso di innovazione applicata allo sviluppo sostenibile, con una città che si è posta all'avanguardia nella ricerca di soluzioni per il risparmio energetico nell'edilizia, producendo importanti profitti per le sue imprese.
Così come è all'avanguardia, in un mix di innovazione tecnologica e lungimiranza ambientale, la Faam, impresa marchigiana che nello stabilimento di Monterubbiano produce veicoli elettrici e batterie tra le migliori del mondo. "Si parla tanto della minaccia cinese, ma la Faam è tra le poche aziende che in Cina i suoi prodotti li esporta", ha ricordato Realacci.
La soluzione proposta da Legambiente, fare dell'Italia una sorta di grande museo a cielo aperto di bellezze artistiche e naturali, costellato qua e là da alcuni poli di eccellenza industriale, può sembrare un bel libro dei sogni destinato a restare tale, ma l'associazione ecologista non è l'unica a credere che sia invece questa la strada giusta. Il Rapporto Ambiente Italia 2005, è arricchito infatti dagli interventi di una schiera di autorevoli esponenti del mondo dell'industria, della politica e dell'economia che, seppure con diverse sfumature, sembrano sposare l'impostazione di Legambiente. Si va dalla presidente dei giovani industriali Anna Maria Artoni al segretario della Cgil Guglielmo Epifani, dal presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni al sociologo Luciano Gallino.
Nota preliminare: questo articolo era stato pubblicato originariamente col titolo The New Urbanism and the Communitarian Trap, sullo Harvard Design Magazine, inverno/primavera 1997; la lettrice Laura Zumin ce l'ha segnalato nella versione spagnola, El nuevo urbanismo y la trampa comunitaria, proposta da La Vanguardia(Barcelona), nel numero del 26 novembre 2000. La presente traduzione per Eddyburg è dall'originale inglese, e ovviamente ringraziamo Laura Zumin per la segnalazione e gli altri interventi sui temi del New Urbanism (Fabrizio Bottini)
Tornando a Oakland dopo molti anni di assenza, Gertrude Stein osservava “non c’è un lì, lì”. Questo è spesso preso come semplice condanna dell’impoverita qualità della vita urbana americana, un commento che sorge naturale da chi considera l’America suo paese natale, e Parigi la sua casa. Questa lettura si colloca in una lunga linea di commenti critici e spesso indignati sulla “assenza di luoghi” e mancanza di “autenticità” che caratterizzano tante città americane, in un processo di urbanizzazione che produce quanto James Kunstler (in The Geography of Nowhere, 1993, e Home from Nowhere, 1996) stigmatizza “la geografia del nulla” (a comporre questo acido mosaico: suburbi senz’anima, demenziali edge cities, centri città frammentati e che cadono a pezzi). Scopo dell’architettura e della progettazione urbana diventa così l’eroica battaglia contro tali mostruose deformità. Ma a ben vedere l’osservazione della Stein era una risposta, molto personale ed emotiva, alla rapidità del cambiamento nelle città americane, al quel processo di continua ricostruzione che oblitera e cancella memorie infantili di luoghi e persone. Il modo per recuperare storia, tradizione, memoria collettiva e identità, diventa così la ricerca del santo graal.
Queste due tematiche, non necessariamente si escludono a vicenda. E in quello che oggi si propone come Nuovo Urbanesimo (vedi Peter Calthorpe, The Next American Metropolis, 1993, e Peter Katz, The New Urbanism: Toward an Architecture of Community, 1994), assistiamo alla loro deliberata convergenza entro una dichiarazione programmatica. La vita urbana può essere radicalmente migliorata, resa più autentica e consapevole dei luoghi, si sostiene, tornando ai concetti di vicinato e comunità che un tempo hanno dato alle città tanta coerenza, vivacità, continuità e stabilità. La memoria collettiva di un passato più civico può essere recuperata attraverso un adeguato richiamo ai simboli tradizionali.
C’è molto da encomiare, in questo movimento, oltre lo scatto di adrenalina del dichiarare guerra al senso comune ormai radicato in tante istituzioni (costruttori, finanza, politica, trasporti, interessi vari). In primo luogo, c’è la voglia di pensare lo spazio di un particolare intervento nel quadro dell’area nel suo insieme, e perseguire un ideale più organico, olistico, di cosa potrebbero essere città e regioni. Nel farlo, si supera il penchant postmoderno per la frammentazione, e vengono resuscitati Raymond Unwin, il New York Regional Plan del 1929, e Luwis Mumford, come guide all’azione migliori della Carta d’Atene. E ancora, c’è un forte interesse per le forme conchiuse e integrate di insediamento che escludano la concezione piuttosto ridicola della città a zonizzazione orizzontale e a grandi lotti. Questo libera l’interesse per le architetture civiche e la strada come arene di socialità. Permette, anche, nuovi modi di pensare alle relazioni fra vita e lavoro, facilita una dimensione ecologica nel progetto, che in qualche modo vada oltre l’alta qualità ambientale intesa come bene di consumo (nonostante se ne usi parecchia); e inizia a prestare attenzione allo spinoso problema di cosa fare coi dissipatori bisogni energetici dell’urbanizzazione basata sull’automobile, che ha dominato gli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale.
Ma c’è anche spazio per lo scetticismo. Ad esempio, la presunzione che l’America sia “piena di persone che aspirano a vivere in vere comunità, ma che hanno solo una pallida idea di cosa ciò significhi in termini di progettazione fisica” (Kunstler, 1996) tradisce una certa arroganza. Ma ci sono obiezioni più sostanziali. Non è chiaro ad esempio se la preferenza per il vicinato e la comunità (ammesso che esista) possa sostituire facilmente la storia d’amore dell’America con l’automobile, anche se questo spostamento è economicamente fattibile. La maggior parte dei progetti realizzati, in più, sono insediamenti “greenfield” in gran parte per ricchi, e sembrano più orientati a rendere il suburbio “un posto migliore per vivere” (Philip Langdon, A Better Place to Live: Reshaping the American Suburb, 1994) che a rivitalizzare i centri urbani in decadenza. E non è neppure chiaro a Vincent Scully, alleato scettico del movimento, se i ricchi stiano scegliendo la “comunità” o invece “l’immagine” della comunità (“The Architecture of Community” in Katz, The New Urbanism). La memoria collettiva si recupera o si inventa? Più seriamente, il new urbanism non può caricarsi la croce dell’impoverimento e crisi urbana. Quando scompaiono posti di lavoro, come sottolinea William Julius Wilson in When Work Disappears, l’intero tessuto sociale stracciato a pezzi, invocare la comunità e i quartieri tradizionali (del tipo progettato da Andres Duany e Elizabeth Plater-Zyberk) sembra irrilevante per il destino della “nuova” metropoli americana che si va formando tutto intorno a noi. In assenza di lavoro e prodigalità governativa, gli auspici “civici” del new urbanism suonano particolarmente vuoti.
Ma la mia vera preoccupazione è che il movimento ripeta fondamentalmente gli stessi errori degli stili architettonici e urbanistici che critica. Detto in modo semplice, non continua nell’idea secondo cui la definizione di un ordine spaziale sia, o possa diventare, fondamento di un nuovo ordine morale ed estetico? Non presume che adeguate qualità architettoniche e progettuali potranno essere la salvezza non solo delle città americane, ma della vita sociale, economica e politica in genere? Pochi sostenitori del movimento esporrebbero una tesi tanto netta (anche se Kunstler ci va vicino). Ma questa presunzione pervade gli scritti dei nuovi urbanisti come una sorta di sub-testo subliminale. Il movimento non riconosce che la fondamentale difficoltà del modernismo è stata la costante abitudine a privilegiare le forme spaziali rispetto ai problemi sociali. Ciò, come dimostra L. Marin (in Utopics: Spatial Play, 1984), è centrale in tutte le forme di utopismo classico (a cominciare da Thomas More, le cui descrizioni di Utopia sono preoccupantemente simili a quelle proposte dal new urbanism). L’effetto è di distruggere le possibilità della storia, assicurando stabilità sociale attraverso il contenimento di tutti i processi entro una cornice spaziale. Il new urbanism cambia la cornice spaziale, ma non la presunzione dell’ordine spaziale come veicolo per controllare i processi e la storia.
I legami tra forme e processi sociali qui si costruiscono attraverso la correlazione fra il progetto di architettura e una certa ideologia della comunità. Il New Urbanism assembla molto del proprio potere retorico e politico entro un nostalgico appello alla “comunità” come panacea per tutti i nostri mali sociali, economici, e urbani. VincentScully, ad esempio, commentando Seaside, icona del New Urbanism(in Katz, The New Urbanism), nota che sia “riuscita oltre qualunque altro lavoro di architettura dei nostri tempi .... a creare un’immagine di comunità, un simbolo del posto della cultura umana entro la vastità della natura”. E continua:
”Non si può fare a meno di sperare che la lezione di Seaside e delle altre città nuove che stanno prendendo forma possa applicarsi al problema delle case per i poveri. È qui che c’è più bisogno di comunità, e dove essa è stata più disastrosamente distrutta. I centri città dovrebbero davvero essere spezzati entro i propri quartieri interni se ciò succedesse lì. È triste pensare che tutto questo sarebbe stato tanto più facile prima dell’era del Redevelopment, quando esisteva ancora una struttura base dei quartieri ... Quindi è un problema concreto, se il “centro città” così come lo conosciamo possa mai essere conformato come il tipo di spazio in cui vuole vivere la maggioranza degli americani”.
La presunzione, qui, è che i quartieri siano in qualche misura “intrinseci”, che la forma corretta delle città sia una qualche “struttura per quartieri”, che “quartiere” sia l’equivalente di “comunità”, e che la “comunità” sia ciò che la maggior parte degli americani vuole, e di cui ha bisogno (che lo sappiano o meno).
Ma la “comunità” può davvero salvarci dal mondo agonizzante della dissoluzione sociale, del materialismo arraffa-arraffa e della cupidigia individualista, egoista, market-oriented? Comunità ha sempre significato cose diverse per persone diverse, e dunque qualle tipo di comunità si intende nella filosofia del New Urbanism? È qui che il richiamare un passato mitologico porta con sé un carico pericoloso.
Il New Urbanism di fatto si lega al facile tentativo contemporaneo di trasformare grandi e brulicanti città, apparentemente fuori controllo, in una serie di “villaggi urbani” collegati l’uno all’altro dove, si ritiene, ognuno possa relazionarsi in modi civili e urbani con chiunque altro. In Gran Bretagna, il Principe Carlo ha guidato questa carica emotiva al “villaggio urbano” come locus della rigenerazione urbana. Leon Krier, uno spesso citato cultore del New Urbanism, è uno dei suoi principali battistrada per l’architettura. E l’idea attira, trovando il sostegno dei gruppi etnici marginalizzati, delle classi lavoratrici impoverite e combattive, lasciate in secca dalla deindustrializzazione, dai nostalgici dei ceti medi e alti, che lo vedono come una forma civilizzata di costruzione che offre caffè sul marciapiede, aree pedonali, negozi di Laura Ashley.
Il lato oscuro di questo comunitarismo, resta non detto: sin dalle prime fasi della massiccia urbanizzazione nel segno dell’industria, “lo spirito della comunità” è stato usato come antidoto per qualunque minaccia di disordine sociale, lotta di classe, violenza rivoluzionaria. “Comunità” è sempre stato uno dei luoghi chiave di controllo e sorveglianza sociale, ai confini dell’esplicita repressione. Le comunità stabili spesso escludono, definiscono sé stesse contro gli altri, erigono ogni sorta di segnali “alla larga” (quando non mura tangibili). Come sottolinea M. Young (in Justice and the Politics of Difference, 1990), “Razzismo, sciovinismo etinco, svalutazione di classe ... crescono in parte dal desiderio di comunità” in modo che “l’identificazione positiva di alcuni gruppi è spesso realizzata qualificando innanzitutto gli altri gruppi come altro, il semi-umano di valore inferiore”. Come conseguenza, la comunità spesso è stata una barriera anziché un facilitatore per il progresso sociale, e molta della migrazione popolare dai villaggi (sia rurali che urbani) nasce precisamente da fatto che sono oppressivi per lo spirito umano e superflui come forma di organizzazione sociopolitica (si vedano ad esempio R. Blythe, Akenfield: Portrait of an English Village, 1969, e Richard Sennett, The Uses of Disorder, 1970). Tutto ciò che rende la città così eccitante – l’inaspettato, i conflitti, lo stimolo di esplorare spazi sconosciuti – sarà strettamente controllato e delimitato da grandi segnali che recitano “qui non si accettano comportamenti devianti”. Non importa: l’idea del villaggio urbano o di qualche tipo di soluzione comunitaria (vedi Michael Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, 1982, e Amitai Etzioni, The Spiritof Community: Rights, Responsibilities, and the Communitarian Agenda, 1993, per tesi sociali di tipo simile) per i nostri mali urbani si scava insidiosamente la strada nella coscienza collettiva, col New Urbanism come una delle sue forme di articolazione.
Un antidoto più adeguato all’implicito determinismo spaziale che caratterizzasia il modernismo che il new urbanism non è l’abbandono di tutta la discussione sulla città (o sulla possibilità dell’utopia) in quanto tale, ma comprendere che l’urbanizzazione come insieme di processi fluidi in correlazione dialettica con la forma dello spazio che essi suscitano e che a sua volta esso contiene. L’utopianesimo dei processi appare molto diverso da quello della forma spaziale. Il problema allora è di arruolarsi nella battaglia per proporre un socialmente più giusto, politicamente emancipatorio, ed ecologicamente sano processo di produzione di miscele spazio-temporali, anziché accondiscendere a quelli imposti da una incontrollata accumulazione capitalistica, sostenuta dal privilegio di classe e da vistose ineguaglianze di potere politici-economico. Costruire qualcosa che chiamiamo comunità insieme ad una politica dei luoghi può offrire una sorta di base fondativa per una lotta del genere (ne discuto in Justice, Nature and the Geography of Difference, 1996). Ma il New Urbanism non presta attenzione a questo: costruisce un’immagine di comunità e una retorica dell’orgoglio civico basata sui luoghi, sulla consapevolezza per chi non ne ha bisogno, abbandonando chi ne ha al proprio destino di “ underclass”.
La logica dell’accumulazione capitalistica e del privilegio di classe, per quanto egemonica, non può sempre controllare ogni sfumatura dell’urbanizzazione (per non parlare dello spazio discorsivo e immaginario sempre associato alle discussioni sulla città); l’intensificarsi delle contraddizioni nell’urbanizzazione contemporanea, anche per i privilegiati (alcuni dei quali illuminati dal New Urbanism), crea ogni genere di spazi interstiziali entro cui possono fiorire possibilità liberatorie ed emancipatrici. Il New Urbanism individua alcuni di questi spazi, ma il suo conservatorismo, il suo comunitarianesimo, il suo rifiuto di confrontarsi con l’economia politica del potere, ne smussa il potenziale rivoluzionario.
Titolo originale: The Eventual Atlantic Mega-Tsunami – Gee-Gees – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il fianco occidentale del vulcano Cumbre Vieja, sull’isola La Palma nelle Canarie, un giorno scivolerà nell’Atlantico: una frattura diagonale l’ha già separato dal corpo principale del vulcano, e solo l’attrito lo tiene ancora al suo posto. “Quel giorno, probabilmente collasserà in 90 secondi” ci dice il Professor Bill McGuire, direttore del Benfield Grieg Hazard Research Centre allo University College di Londra.
E quando succederà, probabilmente durante un’eruzione, l’impatto sull’acqua provocherà un mega-tsunami che attraverserà l’intero Atlantico, sommergendo le linee di costa.
Per fortuna la costa più vicina alle Canarie, dove le onde arriveranno alte circa 100 metri al momento dell’impatto, è l’area poco popolata del Sahara Occidentale. Comunque sopravviveranno poche delle persone sulle coste del Marocco, nel sud-ovest di Spagna e Portogallo, ma le onde diminuiranno in altezza durante il viaggio. Le sponde dell’Irlanda meridionale e dell’Inghilterra sud-occidentale riceveranno pure un colpo, ma per allora l’onda sarà scesa a un’altezza di 10 metri.
Il vero massacro ci sarà sul lato occidentale dell’Atlantico, dalla provincia settentrionale del Newfoundland, giù per la costa orientale del Canada e degli Stati Uniti, fino a Cuba, Hispaniola, le Antille Minori e il Brasile nord-orientale.
In corsa libera attraverso l’Atlantico, il muro d’acqua sarà ancora alto fra i 20 e i 50 metri nel momento dell’impatto sui margini orientali del Nord America, e continuerà a colpire per dieci-quindici minuti.
I punti più deboli saranno baie ed estuari, che incanalano le onde verso l’entroterra: addio Halifax, Boston, New York, Filadelfia, Baltimora e Washington, DC. Miami e l’Avana andranno quasi completamente sotto, insieme alle isole più basse, come le Bahamas e le Barbados. Perdita di vite umane, in mancanza di evacuazione di massa preventiva? Cento milioni di persone, con un’oscillazione del cinquanta per cento.
L’ultima volta che il vulcano ha eruttato, nel 1949, l’intero fianco occidentale è scivolato in giù di 4 metri verso il mare, e anche adesso, molto lentamente, sta ancora andando verso il basso. Viste le dimensioni della catastrofe nel caso la montagna si schiantasse nell’acqua, il Dr. McGuire is è furioso perché ci sono troppe poche apparecchiature di rilevamento a La Palma, per dare l’allarme anticipato. “Il governo USA deve essere consapevole della minaccia di La Palma. Devono di sicuro preoccuparsi, e insieme a loro gli stati-isola nei Caraibi, che subiranno tutto il peso del crollo. Ora non lo stanno prendendo sul serio” conclude McGuire. “I governi cambiano ogni quattro o cinque anni, e in genere non sono interessati a queste cose”.
È uno scenario classico, che si ripete in ogni film sulle catastrofi naturali: scienziati militanti che invocano governi inetti ad agire, politicanti squallidi che ignorano l’appello, i giornalisti scientifici che non vedono l’ora di veder stampati i propri articoli.
Ma, aspettate un momento: non abbiamo già sentito parlare prima, di questa minaccia?
Cosa c’è di nuovo, stavolta? Niente, salvo che non c’è stata nessuna corsa a tappezzare La Palma di sismografi. E perché, pensate voi?
Supponiamo che i governi le cui linee di costa sono a rischio, dal Marocco agli USA, siano avvertiti che il Cumbre Vieja si sta risvegliando.
Cosa se ne farebbero, dell’avvertimento? Evacuare per un tempo indefinito cento o duecento milioni di persone dalle aree a quota più bassa?
Non sanno se ci sarà davvero un’eruzione (la sismologia non è così tanto precisa), o quanto grande sarà, o se sarà davvero quella destinata a scuotere e liberare in modo definitivo i fianchi della montagna. Questo potrebbe succedere in un’altra eruzione, più tardi, ma potrebbe anche non succedere per mille anni a venire.
Nessun leader nazionale ha voglia di evacuare l’intera area costiera per un periodo indefinito di tempo, provocando una crisi economica e di profughi altrettanto indefinita, delle dimensioni di una guerra mondiale, per quello che potrebbe rivelarsi un falso allarme. Ma nessuno vuole ignorare del tutto il preavviso, ed essere magari responsabile di decine di milioni di morti. Dal punto di vista politico, è meglio non avere nessun preavviso.
Le catastrofi naturali che possono riguardare tutto il pianeta sono chiamate dagli scienziati “ global geophysical events”, o gee-gees in breve, e sono di due tipi: quelle per cui si può fare qualcosa di utile, e quelle per cui non si può far niente. Quando i governi si trovano di fronte quelle del primo tipo, possono anche reagire in modo sensibile.
Da quando abbiamo scoperto vent’anni fa che asteroidi e comete schiantandosi sulla Terra hanno causato parecchie estinzioni di massa, un programma governativo USA ha iniziato a identificare e seguire circa 3.000 “oggetti vicini alla Terra”, le cui orbite li rendono potenzialmente pericolosi. Nel tempo di una generazione, potremo anche essere capaci di deviare quelli che si trovano su una rotta di collisione: se esiste un gee-gee che si vuole evitare sopra tutti gli altri, è proprio questo. Ma non si vede per ora all’orizzonte nessuna soluzione per vulcani, o terremoti, o gli tsunami che possono provocare. Possiamo, solo, incrociare le dita.
Nota: il testo originale, sul sito di Planetizen; su Eddyburg, un articolo correlato, scritto dopo lo “tsunami di Natale”, sui temi del territorio (f.b.)
Titolo originale: The charms of Budapest unveiled – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Paragonata a Praga, il cui magnifico centro storico oggi attira compratori di appartamenti quanto turisti, la più grande Budapest è stata meno magnetica per i cacciatori di proprietà in Centro Europa.
Sino a poco fa.
Dopotutto, a Budapest non manca certo il fascino. La collina del Castello nella zona alta di Buda, guarda a est oltre il Danubio; Hosok ter, o Piazza degli Eroi, a Pest, attira irresistibilmente gli ungheresi nelle giornate di festa nazionali; la tranquilla isola di Margaret, nel Danubio tra le due parti della città, sono solo alcune delle cose interessanti.
L’ingresso dell’Ungheria nell’Unione Europea l’anno scorso, insieme alle attese di entrare nell’area Euro entro il 2010, ha spinto verso l’alto i prezzi dei solidi edifici urbani di epoca asburgica e di altri tipi di alloggio.
Gli edifici nuovi, che secondo gli agenti immobiliari sono in generale un orientamento più sicuro per gli acquirenti esteri, vendono anche a prezzi più alti, anche se la carenza di spazi edificabili in centro ha mantenuto l’attività edilizia al minimo.
”Il rubinetto, per quanto riguarda la zona centrale, si chiuderà definitivamente fra circa 18 mesi: l’offerta di sistemazioni di alta qualità, semplicemente, non può tenere il passo con la domanda” dice Robert Beck della Avatar International, che in Ungheria è specializzata in edifici di nuova costruzione.
Ma anche altri fattori stanno aumentando l’interesse degli stranieri per Budapest.
I voli regolari di EasyJet, Jet2 e altre compagnie a basso costo dalle città dell’Europa occidentale hanno reso Budapest più accessibile ed economica da raggiungere.
I tassi di interesse sono scesi, mentre lo sviluppo del mercato finanziario – in un paese dove si effettuavano solo transazioni in contanti sino a dieci anni – ha reso le cose più facili. E le procedure legali sono diventate più semplici e trasparenti: anziché dover formare una società o trovare un associato ungherese, ora basta un’autorizzazione municipale, che di solito si riesce ad ottenere in un giorno.
Nel frattempo, i progetti di rinnovo urbano hanno trasformato spazi senza particolari caratteristiche in luoghi di incontro. Tipici la pedonalizzata via Kiraly, nel vecchio quartiere ebraico di Pest, che ora ospita alcuni degli immobili di più alto valore della città, o la piazza Franz Liszt, vicono a Oktogon in cento a Pest, ricca di bar e ristoranti di moda all’aperto.
Howard Duff, uomo d’affari britannico del Galles settentrionale, è stato a Budapest solo una volta prima di comperare un appartamento da 70 metri quadrati. L’ha pagato 30 milioni di forint ungheresi, pari a 150.000 dollari, nel Distretto VI, a cinque minuti a piedi dal Teatro dell’Opera in centro a Pest.
”Sono rimasto impressionato da cosa offriva la città” dice. “È dinamica e sofisticata, e nonostante l’aumento dei prezzi, le cose costano ancora molto meno che nelle città dell’Europa occidentale”.
A differenza della maggior parte degli acquirenti stranieri, che comprano per investimento, Duff pensa di usare il suo appartamento come pied-à-terre. “Raggiungo l’aeroporto di Manchester in 45 minuti e prendo un volo di due ore e mezza per Budapest” dice. “Si fa prima che andare in macchina a Londra”.
Ma se dovesse cambiare idea, potrebbe realizzare un profitto netto dal suo acquisto.
Valerie Power della Eastern European Properties, compagnia irlandese che opera su Ungheria e Slovacchia, dice che i prezzi edifici storici e nuovi si rivalutano rispettivamente almeno del 10 e 30 per cento l’anno, e la tendenza aumenterà in futuro. Gli affitti tipici nell’area sono del 6 per cento.
”L’interesse principale è per chi compra sperando di vedere i propri investimenti salire moltissimo di valore nei prossimi anni” dice Power, osservando che gli acquirenti britannici e irlandesi, esclusi dai mercati interni, sono diventati fondamentali per quelli esteri.
Beck, della Avatar, sostiene che il desiderio di profitti è un buon motivo per cui gli stranieri dovrebbero valutare attentamente prima di comprare.
”Gli edifici storici nel centro di Pest sono magnifici da vedere, ma se guardiamo oltre l’intonaco si trovano problemi strutturali e di altro tipo” dice, aggiungendo che anche vecchi ascensori, poca sicurezza, e assenza di cose come piscine e palestre sono tutti fattori negativi.
Dunque, cose e dove comprare, a Budapest?
Le zone preferite dagli stranieri sono da tempo i Distretti V, VI e VII, in centro a Pest. Ma gli agenti sostengono che il Distretto V – che ospita i principali alberghi a cinque stelle di Budapest e Vaci ut, la più bella via commerciale – è esaurito, e stanno diventando rare anche le possibilità di buoni investimenti negli altri due quartieri. Ciò si deve in parte allo spostamento verso il centro delle persone che si erano a suo tempo trasferite nella fascia verde esterna, per evitare spostamenti pendolari; la M0, strada di circonvallazione di Budapest, è ancora incompleta, e gli abitanti dicono che ci vuole più di un’ora dal centro ai sobborghi.
Ci sono possibilità in altre zone. Anche se sono costosi (alcuni agenti usano il termine “sovraprezzati”), i Distretti I e II - a Buda – sono tranquilli, e l’aria è migliore grazie ai limiti per le auto private nella zona della collina del Castello.
Uno dei più importanti interventi del Distretto I è senza dubbio la Anjou Residence, due edifici per un totale di 52 appartamenti di lusso, molti dei quali con vista sul Danubio. Un appartamento di 77 metri quadrati si vende per circa 78 milioni di forint ungheresi.
Altrove, sempre nel settore lusso, ci sono appartamenti da 98 a 128 metri quadri alla Riverside Apartment House nel Distretto XIII nel nord di Pest . Il prezzo di partenza è di 55 milioni di forint, si ha accesso alla piscina, sauna e altre strutture.
Per chi preferisce l’ old style, la scelta è il Distretto II, e in particolare Rozsadomb, o Collina delle Rose, vicino al ponte Margaret a Buda, con grandi ville e molte ambasciate. La mancanza di spazi e gli alti prezzi dei terreni riducono la quantità dei nuovi interventi, ma sono disponibili appartamenti di alto livello a Pusztaszeri ut.
Julie Molnar della Budapest Resources descrive questo intervento come unico, con isolamento di altissima qualità, tubature di rame e altri elementi.
I prezzi vanno da 67 milioni di forint a circa 130 milioni, col prezzo più alto per gli appartamenti all’ultimo piano con terrazzo.
Nota: un altro contributo su Eddyburg allo stesso tema riguarda il “turnover proprietario” dei casali in Toscana; il testo originale di questo articolo su Budapest, alle pagine immobiliari del sito International Herald Tribune (f.b.)
Titolo originale: MPs call for transparency in Olympic venue deals – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il governo è sollecitato a garantire “completa trasparenza” negli accordi fra settore pubblico e privato che comprendono la realizzazione multimilionaria del campus per i giochi olimpici di Londra del 2012.
Membri del parlamento hanno evidenziato le preoccupazioni riguardo ai piani del governo di utilizzare la collaborazione pubblico-privato per realizzare le strutture, dopo che sono emersi alcuni dettagli di accordi fra le autorità olimpiche finanziate pubblicamente, e un consorzio di costruttori privati.
Tessa Jowell, ministro responsabile per le olimpiadi, ha dichiarato che si stanno “esplorando le opzioni per attirare i finanziamenti privati, oltre ad altre forme di condivisione del rischio e alle società miste”. Ma è emerso che alcuni di questi accordi sono già stati presi, anche prima della decisione sulle Olimpiadi.
Il consorzio, Stratford City Developments, progetta una mini-città da 4 miliardi di sterline a Stratford, a est di Londra, adiacente al villaggio olimpico. Nel 2003 si è accordata con la London Development Agency sul principio chiave di non “agire a scopo di ostacolare” gli altri progetti, e collaborare a spianare la strada a entrambi gli insediamenti.
Un direttore del consorzio privato, Sir Stuart Lipton, era anche fra i principali consulenti del governo per i progetti olimpici al tempo di questo accordo di cooperazione. In seguito è stato obbligato a dimettersi dalla sua posizione di presidente della Commissione per l’Architettura a l’Ambiente Costruito, per accuse di conflitto di interesse fra il ruolo di consigliere del governo e quello di costruttore privato.
Sono stati destinati 2,4 miliardi di sterline di denaro pubblico, per realizzare le infrastrutture e organizzare i giochi, ma le autorità olimpiche hanno bisogno che la Stratford City Developments converta normali appartamenti in alloggi per 4.500 atleti.
L’area di Stratford City si sovrappone al settore nord-ovest della zona olimpica nella bassa valle del Lee a est di Londra, dove ci saranno lo stadio principale, alcuni complessi sportivi minori e le strutture per ospitare gli atleti.
Sir Stuart non è stato coinvolto nell’esame dei progetti, ma le conclusioni dei commissari sono state favorevoli a entrambi i progetti.
Il piano olimpico è stato salutato come “un piano di massima di classe mondiale”, che aiuterà a “trasformare l’area e riportarla all’attività e a funzioni produttive”. Si aggiunge che il progetto della Stratford City Developments “si mescola molto bene con le proposte olimpiche, ed è esemplare sotto molti altri aspetti”.
Si ritiene che l’area di Stratford City attirerà notevoli interessi da parte degli investitori, ora che Londra si è aggiudicata i giochi olimpici.
La scoperta di questo accordo, attraverso documenti pubblicati dalla rivista Building Design ai sensi del Freedom of Information Act, ha provocato richieste di esame parlamentare di tutti i contratti connessi alle Olimpiadi.
Il deputato laburista Clive Betts, che aveva indagato sul conflitto di interesse del doppio ruolo di consulente governativo e costruttore di Sir Stuart, ha sollevato il caso alla Camera dei Comuni la scorsa settimana, durante il dibattito sul progetto di legge per le Olimpiadi.
”Non ci sono prove che Sir Stuart abbia partecipato all’ iter di approvazione dei progetti, ma non è evidente, il bisogno di completa trasparenza in tutti i casi di collaborazione pubblico-privata necessari a completare il progetto?” ha chiesto. “Ci sarà un adeguato esame parlamentare di tutti questi accordi”. Più tardi ha aggiunto che si formerà un comitato per questo esame dei contratti olimpici.
Un altro degli accordi fra il consorzio Stratford City e il gruppo di lavoro delle Olimpiadi prevede che la Stratford City riceva fondi pubblici dalla London Development Agency per sostenere la conversione di case ad alloggi per gli atleti.
”È un accordo per aiutare il più possibile le Olimpiadi” afferma Sir Stuart. “Abbiamo lavorato per facilitarle, non per avvantaggiare Stratford City”.
La parte pubblica spenderà 2,38 miliardi di sterline per i giochi del 2012 e relative infrastrutture. Circa 750 milioni saranno ricavati da una lotteria lanciata mercoledì, e 200 milioni verranno spesi in misure di sicurezza.
Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
ROMA — Nel mondo ovattato e un po' snob di Italia Nostra è avvenuta di colpo una piccola rivoluzione. Si è dimessa la presidente Desideria Pasolini dall'Onda, che fu tra i fondatori della rinomata associazione ambientalista. Con lei se n'è andata l'urbanista Gaia Pallottino, che era segretario generale, e hanno abbandonato ben otto membri del consiglio direttivo, tutti personaggi storicamente impegnati nella difesa ambientale, come Arturo Osio, Gianfranco Amendola, l'urbanista Vezio De Lucia.
Una nuova squadra è subentrata. Un autentico ribaltone che ha portato alla segreteria generale Giuseppe Giliberti, un manager industriale, e potrebbe far balzare alla presidenza Carlo Ripa di Meana, noto esponente della galassia dei Verdi.
“Mi hanno sfiduciata — lamenta l'ex segretaria Pallottino — . Si sono coalizzati contro di me e non so per quale motivo”. La resa dei conti sembra dovuta a problemi economici. Arrivata al mezzo secolo di vita ( fu fondata nel 1955), Italia Nostra si ritrova con le casse vuote. “Non possiamo pagare i fornitori, abbiamo scoperti in banca e gli stipendi sono a rischio” spiega il neosegretario Giliberti che spera, con l'esperienza dimanager, di far quadrare i conti.
“Bisognava allargare il numero degli associati, far pagare a tutti una quota — recrimina la Pallottino — . Invece ha sempre vinto la linea un po' snobistica del pochi ma buoni. La vecchia guardia era anche ostile a ogni innovazione. Quando fui eletta segretaria, nel ' 96, il senatoreCifarelli, scandalizzato, trovò disdicevole affidare incarichi importanti ai giovani. Avevo 56 anni” .
Nel frattempo avevano fatto irruzione nel campo ambientalista altre sigle dinamiche e aggressive come Legambiente.
Italia Nostra non riusciva a tenere il passo. Agiva nell'ombra. Magari prendeva anche iniziative nobili e meritorie, ma nessuno ne era al corrente. Fece un progetto agrario apprezzato dagli specialisti i quali sentenziarono che “Italia Nostra realizza cose bellissime ma riesce sempre a nasconderle” . La Pallottino cercò di rimediare, dando più visibilità ai programmi. Mise in campo un'elegante rivista, pubblicizzò le iniziative, organizzò grandi convegni. Tutto questo però nel giro degli anni ha comportato spese che le entrate non riescono a coprire. “Siamo precipitati — dice Ripa di Meana — in una situazione debitoria molto grave, serve una drastica cura dimagrante” . Un convegno sul paesaggio è costato un mucchio di soldi, “e ancora dobbiamo pagare i debiti” protesta il neosegretario Giliberti. Associazione paludata, ostinata a rimanere pura, senza sponsor e senza chiedere sacrifici ai suoi soci, Italia Nostra scopre che le iniziative culturali costano e bisogna accettare i compromessi, bussare per ottenere finanziamenti.
Qualcuno ha suggerito di dare in pegno alle banche gli immobili storici di cui l'associazione dispone. Di fronte a questa proposta le tradizionali rivalità fra vecchia e nuova guardia sono cadute.
Si è formato uno schieramento trasversale che ha dato vita a una nuova gestione. Al consiglio direttivo del 23 luglio dovrebbe essere eletto il nuovo presidente. “Mi è stato chiesto di ricoprire quella carica — dice Carlo Ripa di Meana — . Ma i miei impegni sono tanti. Vedremo” .
Italia Nostra si considera apolitica. Ma nei fatti un nuovo gruppo dirigente comporta scelte diverse. Per esempio, la vecchia gestione non era del tutto contraria all'energia eolica, la nuova la respinge decisamente.
Titolo originale: Building a Sustainable Future – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il bisogno di ripondere agli impatti dell’uomo sull’ambiente non è mai stato più urgente. Gli scienziati prevedono che la Terra si riscalderà da 1,4 a 5,8 gradi Celsius entro il 2100: più di quanto si ritenga siano cambiate le temperature dall’alba dell’umanità.
È ora ampiamente accettato come ciò sia in gran parte dovuto alla crescente concentrazione dei gas serra: il più rilevante la CO2.
Nel mondo sviluppato, gli edifici consumano metà dell’energia che produciamo e sono responsabili per la metà delle emissioni di CO2, col rimanente suddiviso fra industria e trasporti.
Questo è già abbastanza allarmante. Ma cosa succederà quando entrerà in gioco il mondo in via di sviluppo?
La Cina prevede un raddoppio del prodotto nazionale lordo del 2000 nel 2010, e il Kazakistan, una delle economie in crescita più rapida, ha avuto un’incredibile aumento del 9,5 per cento nel 2002.
In Cina, il boom edilizio non ha precedenti, rapido e furioso. Città come Pechino o Shanghai praticamente cambiano ogni giorno, con implicazioni ambientali preoccupanti.
Per evitare una catastrofe ambientale globale, ciascun paese deve adottare strategie di sviluppo sostenibile.
La sostenibilità richiede di pensare in modo olistico: localizzazione e funzione di un edificio, la sua flessibilità e tempo di vita, il suo orientamento, la forma e struttura; i sistemi di riscaldamento e ventilazione, i materiali utilizzati, tutto ha impatti sulle quantità di energia impiegate per costruirlo, gestirlo e mantenerlo.
Virtualmente ogni nuovo edificio può essere progettato per consumare solo una frazione delle attuali quantità di energia. Ma questa è solo una parte del problema. Ci sono altre due questioni cruciali: la crescita della popolazione e lo spostamento verso le città.
La popolazione mondiale è ora di 6,4 miliardi; in 10 anni ci si aspetta che raggiunga i 7,5 miliardi. Entro il 2015 ci saranno 23 “mega-città” con popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti. Diciannove di esse saranno nei paesi in via di sviluppo, dove metà della popolazione sarà urbanizzata.
Le città diffuse sono di gran lunga meno efficienti dal punto di vista energetico di quelle progettate in modo denso. Gli spostamenti in macchina sono un fattore cruciale. Immaginatevi qualcuno che guida 20 chilometri per andare al lavoro tutti i giorni. La sua famiglia (di lui o di lei) consumerà 720 litri di carburante l’anno, il posto di lavoro 285 litri, il trasporto 900 litri. Questo ci dice che anche se gli edifici fossero a consumo energetico zero, e senza emissioni di anidride carbonica, avremmo ancora dei problemi.
È allarmante il fatto che in molti paesi l’uso dell’auto sia ancora in aumento. Per ridurre gli spostamenti in automobile dobbiamo incoraggiare città compatte, e nuova edificazione ad alta densità.
I critici sostengono che densità maggiori portano a realizzare ambienti “poveri”. Ma non è detto. Monaco e Macao, le comunità urbane più dense del mondo, stanno alle estremità opposte dello spettro economico.
A Londra alcune delle zone più densamente popolate offrono gli stili di vita più desiderabili: Kensington e Chelsea hanno densità di popolazione sino a tre superiori ai quartieri più poveri della città.
Il ragionale olistico deve essere applicato nello stesso modo alle infrastrutture: sistemi di trasporto, strade, spazi pubblici: il “collante urbano” che tiene insieme le città. La qualità delle infrastrutture impatta direttamente sulla qualità della vita urbana.
La natura non inquinante della maggior parte del lavoro post-industriale significa che i luoghi di lavoro possono essere combinati alle abitazioni, ed è possibile sostenere comunità ben localizzate quando i collegamenti di trasporto, le attività, scuole e negozi sono ad una distanza da casa percorribile e piedi o in bicicletta.
Gli architetti hanno un ruolo vitale nel promuovere soluzioni sostenibili. Ma c’è bisogno anche di costruttori progressisti e di politici con il coraggio di fissare obiettivi e incentivi che la società possa seguire.
Alcuni paesi indicano la via: la Germania ha capito da tempo il bisogno di ridurre i consumi e adottare fonti di energia rinnovabili, e questo si riflette nei regolamenti edilizi.
Altri in vari gradi sono più indietro. Non esistono barriere tecnologiche allo sviluppo sostenibile, ma solo quelle della volontà politica.
Se vogliamo evitare i danni ambientali costruiti dalle pratiche insostenibili del passato, le economie sviluppate e quelle emergenti devono agire all’unisono e con urgenza, prima che sia troppo tardi.
Nota: qui il testo originale sul sito della CNN (f.b.)
Altro che Ponte sullo Stretto, antico sogno mussoliniano, mutuato nei decenni prima da Craxi, poi da Berlusconi. Totò Cufaro da Raffadali, noto zu’ vasa vasa (zio bacia bacia) per i tremila e passa baci che egli stesso dichiarò di aver dispensato agli elettori nella campagna elettorale che lo vide incoronato con un milione e mezzo di voti presidente della Regione Sicilia per il Cdu di Follini, valica a piè pari la vieta retorica meridionalista del Ponte e getta il cuore in Africa.
”Il Ponte si fa”, ha garantito per l’ennesima volta Berlusconi, autoprecettatosi per la campagna elettorale del suo gerontologo Scapagnini uscito vincitore a Catania. E si deve fare perché così se uno di Reggio Calabria ha per caso un grande amore a Messina “ci potrà andare anche alle quattro del mattino senza aspettare i traghetti”. Ma se uno sciagurato la una fidanzata poniamo a Tunisi e di notte gli viene l’uzzolo di incontrarla per una cosa magari rapida ma passionale, come fa? Ci pensa zio Totò che, nonostante l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio, è un cuore d’oro. È lui, l’ex ombra di Calogero Mannino, che sta progettando l’opera che farà impallidire tutti i ponti e i tunnel del mondo, dal Bianco alla Manica, da Shangai alla Normandia, compreso il Ponte sullo Stretto, targato Forza Italia in una Sicilia che il governatore vagheggia di nuovo tutta democristiana.
II tunnel sottomarino di Cuffaro collegherà la siciliana Mazara del Vallo, anzi Pizzolato, borgata di poveri pescatori disoccupati, con Capo Bon, in Tunisia: due corsie di 150 chilometri, quasi il triplo del tunnel giapponese di Sei Kan lungo un po’ meno di 54 chilometri, destinate ai treni merci guidati dai robot e una terza corsia per i treni passeggeri. Centotrentasei chilometri completamente sommersi e quattro isole artificiali sottomarine di snodo. Costo dell’opera 20 miliardi di euro, più del doppio del Ponte. Ma ci sono già finanziatori ansiosi di sborsare il necessario per far contento il governatore. Sarebbe una cordata di tanti piccoli coreani. Magari gli stessi che dovevano costruire il Ponte sullo Stretto, ma che sono evaporati, o quelli che, secondo le informazioni di Cuffaro, starebbero costruendo il tunnel tra Cina e Taiwan, per fargli fare meglio la guerra, o la galleria sottomarina tra Giappone e Corea.
A progettare il sogno di Totò ha lavorato l’Enea, che ha pubblicato un progetto di
fattibilità di 48 pagine con corredino di disegni e di slides per conferenze al Rotary. Non solo per l’Enea il tunnellone è fattibile, ma sarà una mano santa per tutta la Sicilia perché produrrà ben 400 milioni di ore lavorative. Direte: ma come si risolve la noiosa questione costi-ricavi ? Nessun problema, secondo la relazione, se si pensa alle “Potenzialità turistico-archeologiche delle due sponde del Canale di Sicilia”. E chi vedrà tra i viventi questa meraviglia? I nostri nipoti? Niente affatto. Tempo di realizzazione previsto: sette anni. Chissà, si è chiesto Claudio Fava, se nel frattempo sarà riaperto anche il tratto dell’autostrada Messina-Palermo inaugurato nel dicembre scorso dal neoministro Miccicchè e subito dopo chiuso perché l’asfalto un po’ taroccato non ha retto al passaggio del terzo Tir.
Totò Cuffaro, detto anche “Puffaro” per la statura piccolina e tondetta, prima di diventare azionista di maggioranza dell’Udc di Casini e Buttiglione, di cui rappresenta circa un quarto, faceva il medico. Poi si lanciò in attività varie e lucrose: non solo gli autotrasporti di famiglia, ma anche le cliniche, l’agricoltura, il vino e il cemento. Se ora gli prende la sindrome Lunardi, l’uomo dei tunnel detto El Talpa, se davvero pensa di costruirsi il monumento sottomarino tra l’Europa e l’Africa, ne vedremo delle belle. Al punto che, sfidando l’ironia del New York Times, dovremo invocare: aridateci il Ponte sullo stretto.
Nota: qui di seguito scaricabile lo studio di fattibilità dell’ ENEA, altri particolari al sito della Regione Sicilia (f.b.)
Tunnel Tunisia (sic)
Titolo originale: Great expectations for theme park – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
È una storia di due secoli. Fra i moderni progetti per urbanizzare il Thames Gateway è emerso un piano per realizzare un parco a tema da 62 milioni di sterline, a celebrare vita e opere del gigante letterario del XIX secolo, Charles Dickens.
Il parco a tema, che sarà realizzato nell’ex cantiere navale di Chatham, nel Kent, si baserà su attrazioni tratte da classico come la “Storia di due città”, il “Circolo Pickwick”, “David Copperfield”, o “Grandi Speranze”.
Saranno anche ricreati ambienti urbani della Londra del XIX secolo, tanto presenti nei romanzi.
La costruzione di Dickens World dovrebbe cominciare entro i prossimi due mesi.
I costruttori sperano di riuscire ad aprire nell’aprile 2007, e di attirare 300.000 visitatori l’anno.
Il progetto è promosso da Kevin Christie, uomo d’affari di Londra con un passato nell’industria del divertimento. Ha dichiarato che il parco a tema avrà una collocazione ideale. “Rochester e Chatham in Kent rappresentano uno sfondo ideale per un progetto basato su Charles Dickens. Non solo Dickens ha abitato qui, ma è il posto dove ha concepito molte delle sue storie”.
Christie sostiene che il parco aiuterà a rendere popolale il lavoro di Dickens fra i giovani.
”È un uomo che ha scritto 15 romanzi e 23 romanzi brevi, ma si farebbe fatica a trovare qualcuno con meno di trent’anni che ne sa citare cinque”. Dickens trascorse cinque anni dell’infanzia a Chatham, e inserì alcuni personaggi della cittadina nei suoi libri.
Nota: qui il testo originale al sito del Guardian ; qualche particolare in più, compresa un'immagine del progetto, sul sito della South East England Development Agency (f.b.)
Titolo originale: Supersized Highways – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Uno dei luoghi comuni a proposito dei texani è che non sia facile separarli dalle loro automobili. E se il governatore Rick Perry riuscirà a imporre il suo sistema di super- highways ( Trans-Texas Corridor), avrà spianato la strada a molti altri texani e alle loro auto.
Il TTC, una rete di 6.000 chilometri di asfalto, consiste di strisce larghe circa mezzo chilometro. Immaginatevi sei corsie per le auto e quattro per i camion. Aggiungeteci poi sei linee di binari ferroviari, e anche lo spazio per oleodotti, gasdotti, e altre reti, compresi i tralicci dell’alta tensione.
Scopo principale di queste nuove strade: rispondere all’incremento di attività generato dal North American Free Trade Agreement del 1993, che ha significato ancora più camion su autostrade già affollate. Effettivamente questo traffico ha contribuito a intasare la Interstate-35, un’arteria di connessione nord-sud che attraversa tutto il Texas da Laredo al confine con l’Oklahoma.
Ma non è detto che sia meglio tutto quanto è più grosso.
Lo stato prevede di acquisire i terreni tramite diritto di esproprio (le strade avranno bisogno complessivamente di circa 23.000 chilometri quadrati) e poi di cederne le parti non utilizzate in vendita o affitto a privati. Anche se, così, sembra un finanziamento attraverso fondi privati, i contribuenti devono ancora prestare attenzione. Ci saranno da pagare pedaggi sul TTC. Sinora le autostrade in Texas sono state pagate attraverso le tasse sui carburanti.
Quali sono gli effetti ambientali di una rete stradale così mastodontica sui vari ecosistemi, come le praterie e zone umide? Anche gli allevatori texani non sono tanto convinti: perderanno parecchi terreni a pascolo. Come si risolveranno i problemi di sicurezza su un’enorme striscia di mobilità del genere? E cosa succede, diciamo ai confini con l’Oklahoma, quando questo corridoio gigante si immette in una interstate di dimensioni normali?
Certo, assicurare il flusso di merci e servizi legato agli accordi di libero scambio resta un obiettivo valido, ma non a spese di questioni di più lungo periodo. Invece di questo colosso, perché non inventare una più piccola autostrada dedicata esclusivamente ai “camion NAFTA”, e dedicare più tempo dei legislatori statali allo studio di ferrovie ad alta velocità e altre opzioni di trasporto per i cittadini?
Nota: qui il testo originale al sito del Christian Science Monitor; qui il sito dell’agenzia statale del Texas dedicata al TTCcon le informazioni ufficiali (f.b.)
Alta velocità e binari unici
di Giovanni Valentini
UN ALTRO incidente ferroviario, l’ennesimo scontro fra due treni nella nebbia, ci costringe purtroppo ancora una volta alla triste e dolorosa contabilità delle vittime e dei feriti. Ma contemporaneamente richiama tutti, governanti e governati, politici e cittadini, amministratori e amministrati, all’inventario delle responsabilità, delle decisioni e delle scelte individuali o collettive. Guasto tecnico o errore umano, toccherà agli inquirenti accertare in concreto le colpe e le omissioni del disastro che ha tolto la vita ieri a tredici persone come noi, mentre viaggiavano in treno sulla linea Bologna-Verona.
Prima o poi, qualcuno dovrà stabilire se il tirante di uno scambio maledetto era stato piegato o meno ed eventualmente da chi, come e quando. Se un segnale rosso era acceso o spento; se è stato rispettato oppure no. Quello che più importa, tuttavia, è la condizione generale di sicurezza - o meglio, di insicurezza - in cui quel tratto di strada ferrata, come molti altri in tutta la Penisola, è rimasto per tanto tempo fino a oggi.
In un’epoca sempre più progredita e tecnologica, scandita ormai dall’"alta velocità" e non solo ferroviaria, dove i treni più moderni volano a dieci o venti centimetri da terra, la sola idea del "binario unico" risulta tanto anacronistica quanto inverosimile e inquietante. Ma come si fa ancora a concepire, nel XXI secolo, in un Paese fra i più industrializzati del mondo, nel cuore di quella Padania che spesso viene evocata come un totem della civiltà, come si fa a tollerare una tale strozzatura, un imbuto, un budello, proprio nel centro nevralgico di una rete su cui transitano ogni giorno centinaia di convogli carichi di persone e di merci? E com’è possibile, nell’era dei telefonini, degli sms, dei messaggini futili e frivoli, che un capostazione, un capotreno o un macchinista non abbia in dotazione uno strumento così semplice per comunicare in caso di necessità o d’emergenza?
Da pochi mesi sotto la guida di un nuovo presidente che - per ironia della sorte - viene proprio dalla cultura informatica, come Elio Catania, già amministratore delegato dell’Ibm per l’Europa, le nostre povere Ferrovie dello Stato sembrano consegnate ancora all’iconografia del Far West, del treno a vapore, delle locomotive sbuffanti e sferraglianti, delle carrozze sporche e malandate. Qualche punta di modernità e di eccellenza, tipo Eurostar o Pendolino, viene sistematicamente diluita in una mistura di incuria e arretratezza. Quando, per paradosso, non diventa il benchmark in negativo, il metro di paragone per misurare appunto la vetustà dell’intera rete ferroviaria, materiale rotabile - come viene chiamato - e rotaie, treni e binari, scambi e stazioni.
C’è evidentemente un "gap", una distanza troppo grande fra i cantieri dell’alta velocità in corso d’opera e i "binari unici" in attesa di essere raddoppiati, come quello fra Bologna e Verona. E anzi, vorremmo sapere quanti altri ne esistono nel resto della Penisola. Si può capire, e in qualche misura anche apprezzare, lo slancio e lo sforzo per adeguare le ferrovie italiane a quelle degli altri paesi europei. Ma in una scala di priorità forse sarebbe più opportuno cominciare dal basso, dalle linee a più alta intensità di traffico, dai treni dei pendolari e dai treni merci, anche per non continuare a pagare un prezzo troppo alto in termini di sicurezza, di incolumità o addirittura di vite umane.
In una visione complessiva del trasporto pubblico, il treno è o dovrebbe essere il perno di un sistema nazionale più efficiente, più affidabile, più economico e anche più ecologico. Una risorsa per decongestionare il traffico privato automobilistico e in particolare quello delle merci, sempre più penalizzato dalle normative europee anti-inquinamento. Per ragioni antiche, invece, in Italia è ancora un mezzo sottosviluppato e sottoutilizzato, il simbolo di un "Jurassic Park" ferroviario che ospita mostri preistorici pronti a divorare i passeggeri.
E’ quantomeno di cattivo gusto, se non proprio inopportuno e fuori luogo, ingaggiare in simili circostanze polemiche di ordine politico. Ma è stato ieri il ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, a lanciare per primo il sasso accusando i governi di sinistra di aver rallentato in passato il potenziamento della rete. I governi precedenti, tutti i governi, anche quelli formati e guidati dagli antenati dell’attuale maggioranza, in qualche caso rappresentati addirittura da alcuni esponenti di questo stesso centrodestra, sono corresponsabili più o meno in ugual misura del degrado in cui versa il nostro sistema ferroviario.
L’accusa di Lunardi, tuttavia, assomiglia molto a quelle dell’ex ministro Tremonti sul presunto "buco" prodotto dal centrosinistra nei conti pubblici e rischia allo stesso modo di diventare un boomerang. Siamo ormai oltre la metà della legislatura, il centrodestra governa (o sgoverna) da tre anni e mezzo, dispone in Parlamento di una maggioranza sufficientemente ampia per imporre la sua agenda, il suo ordine del giorno, i suoi provvedimenti. Dalle elezioni del giugno 2001, dunque, c’è stato tutto il tempo per raddoppiare il "binario unico" Bologna-Verona e gli altri che ancora aspettano di essere adeguati.
Nell’irresponsabile e improduttiva esaltazione delle "grandi opere", piuttosto, il governo Berlusconi ha perseguito finora obiettivi propagandistici, disseminando prime pietre a cui seguiranno chissà quando le seconde e inaugurando ponti o autostrade già avviati da tempo. Fin dal suo show elettorale in tv, con tanto di lavagna e carta geografica dell’Italia, il presidente del Consiglio s’è preoccupato più di annunciare nuovi progetti che di realizzare vecchie necessità. E questo, spiace dirlo oggi, vale anche per l’ultimo disastro ferroviario.
Il disastro annunciato
di Giorgio Bocca
CHI ha previsto, sull’impatto del grande maremoto, che questo sarà l’anno dei disastri sembra confermato nel suo pessimismo dalle notizie che giungono da Crevalcore, una piccola stazione ferroviaria sulla linea Bologna-Verona: un treno merci si è scontrato a velocità sostenuta con un interregionale: i morti sono 13 e moltissimi i feriti. Unica ma non sufficiente spiegazione del disastro, il tirante danneggiato di uno scambio che doveva spostare il merci su un binario, di deviata. Mentre si lavora per liberare dalle lamiere contorte le vittime, fra cui i quattro macchinisti dei due treni, è già iniziato fra i politici lo scambio dolente quanto deludente delle giustificazioni.
Il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi non ha dato prova di grande fantasia: «Questo governo - ha dichiarato - ha fatto della sicurezza stradale e ferroviaria una delle questioni centrali. Il raddoppio della linea ferroviaria Bologna-Verona è inserito nella legge obiettivo, i relativi progetti sono già approvati, i finanziamenti già stanziati. Tuttavia in passato i governi di sinistra hanno rallentato il potenziamento delle reti».
Ha subito risposto l’eurodeputato Pierluigi Bersani dirigente dei Ds «anche di fronte alle tragedie il ministro Lunardi non esita a tirare in ballo i governi di sinistra».
Sembrano più convincenti le dichiarazioni dei ferrovieri: «Il numero dei guasti e degli incidenti ferroviari che coinvolgono le linee locali è in continuo aumento, noi abbiamo l’impressione di essere di fronte a una tragedia annunciata e a precise responsabilità». Una certezza non una impressione è la politica usuale in Italia ma anche in altri paesi avanzati della coperta corta tirata da tutte le parti per coprire i bisogni reali e soprattutto le ambizioni di chi governa. Non occorrono indagini specializzate per scoprire che la manutenzione ferroviaria sulle linee minori è largamente sproporzionata alle spese folli e spesso truffaldine per l’alta velocità, l’ultimo mito inventato per sfondare tutte le previsioni di spesa.
Una volta bastavano e avanzavano le guerre per mettere a tacere i controllori della spesa pubblica, adesso il ventaglio si è allargato a tutti i miti di massa, sportivi, filantropici, patriottici. Basta passare sull’autostrada Milano-Torino parallela alla nuova linea dell’alta velocità per vedere quale immane spreco di cemento, di scavi, di opere inutili si vada facendo. Ma per le ferrovie normali, per quelle del viaggiatore comune si va avanti a consumo di mezzi antiquati. I macchinisti muoiono ma le locomotive sono antiquate, mancano di estintori, con finestre piccole dalle quali non si può scappare. Il presidente del comitato dei pendolari di Crevalcore ricorda che i lavori per il raddoppio della linea Bologna-Verona sono in corso dal 1988 e sarebbero dovuti finire l’anno seguente e invece i cantieri si sono riaperti solo il mese scorso.
Senza il raddoppio i treni merci o gli accelerati devono dare il passo ai treni veloci sistemandosi in uno dei tratti di devianza a doppio binario. Ma siamo al governo e alla finanza delle grandi opere e quattordici morti e settanta feriti non fermeranno certo la politica della coperta stretta da tirare dalle parti delle inaugurazioni ufficiali con fanfare, taglio di nastri e televisioni.
Toccherà alla generazione successiva capire quanto è costato tirare la coperta e chiedere commissioni di inchiesta inutili od orientate.
Rientrando la sera, al Cairo, ci si rende conto di esserci lasciato alle spalle un tracciato che ha abbandonato la sua logica dimenticando la direzione prefissa per seguire una linea che si spezza di continuo, tentando di cogliere i segni di epoche, civiltà ed architetture diverse e successive, che ora coesistono, aggrovigliate, attraversate ogni giorno da 17 milioni di persone. Una densa miscela di inquinamento e umidità ingabbia e diffonde una luce così compatta da far strizzare gli occhi, ricoprendo oggi quella che per i faraoni era una periferia del regno bagnata dal Nilo, ma che con i romani prima e gli arabi poi si è sviluppata in dimensioni e importanza fino a diventare una delle città del mondo maggiormente popolate. Un enorme contenitore di storie, un sistema estremamente dinamico e al contempo, a detta degli egiziani stessi, immobile (o immobilizzante). Capitale amministrativa ed economica, soprattutto dagli anni della rivoluzione nasseriana (1952) e poi con la open door policy degli anni Settanta, il Cairo ha costituito e tuttora costituisce un irresistibile magnete per la popolazione egiziana e per il turismo (e gli investimenti) dall'estero, rappresentando perciò anche visivamente uno spazio dove i processi paralleli di urbanizzazione, crescita demografica e speculazione edilizia hanno subito una drastica e incontrollata accelerazione, intrecciandosi sempre di più alle disparità sociali preesistenti. E poiché nella realtà le disparità e le disuguaglianze sono ben rappresentate da confini sensibili, salire gli scalini del ponte di ferro che attraversa l'autostrada alle spalle della cittadella di Mohammed Ali può dare una percezione abbastanza chiara della separazione che si percepisce entrando nella «città dei morti».
Emergere dalla confusione
E' un'altra parte, in tutti i sensi. E' un'emersione dalla confusione, dalla frenesia, dal senso di saturazione che il Cairo ti lascia addosso: per le strade del cimitero una grande calma, pochissime macchine, il respiro e la vista si distendono lungo le viuzze sterrate, seguendo la linea delle cupole finemente decorate che muovono il profilo basso della Qarafah, ciò che è rimasto delle aree riservate alla sepoltura dei morti della Cairo fatimida, mamelucca (soprattutto) e poi ottomana.
Situato a est del Nilo e del centro del Cairo, il cimitero si estende alle zone a nord (Bab el-Nasr, Darrasa) e sud della cittadella, alle pendici della montagna Moqattam (Imam Ech-Chefe'i). Ritagliato dal resto del tessuto urbano da superstrade a otto corsie e circondato dalle nuove aree residenziali, nate nel secolo scorso per «ricollocare» la popolazione cairota, il cimitero è a sua volta abitato. Tradizionalmente, infatti, le tombe includono uno spazio per i morti, una o due stanze adiacenti e una corte chiusa, così da permettere ai parenti dei defunti di visitare i propri morti per lunghi periodi, in base alla credenza secondo la quale gli spiriti transitano o si manifestano accanto alla loro tomba, fra il giovedì ed il venerdì.
Questa concezione di essenziale vicinanza con la morte, il cui spazio rimane pur sempre nettamente delimitato e separato dallo spazio dei vivi, ha origine secondo l'interpretazione di alcuni nell'epoca dei faraoni; altri sostengono si tratti piuttosto di una devianza locale dell'islam (che prevede invece sepolture semplici).
La spiritualità del luogo è ulteriormente rafforzata dalla presenza di numerose tombe/mausolei di santi sufi e importanti imam (Ech-Chefe'i, Al-Leithi), facendo sì che fin dal XV secolo la necropoli cairota venisse popolata da pellegrini in transito sulla via di terra che unisce l'Africa alla Mecca, così come da guardiani ed operai che, stanziatisi nel cimitero, si occupavano della sua custodia e mantenimento. Anche diversi sultani (Qaytbey, Barquq) decisero di venire seppelliti qui, decorando la propria dinastia nella morte come nella vita con capolavori di architettura mamelucca che hanno accolto scuole e moschee, accanto alle quali sorgono poi le tombe di poeti, ricchi dignitari, militari e famiglie benestanti.
In ogni caso, anche l'altissima e crescente pressione demografica, il cattivo stato delle case popolari costruite negli anni del socialismo nasseriano e la mancata armonizzazione fra salari e costi degli immobili di recente costruzione hanno portato, già dall'inizio del secolo scorso, a una situazione di insediamento duraturo anche per altre parti della popolazione cairota. È un processo avvenuto per alcuni tramite l'occupazione (pro manutenzione) delle tombe di famiglia, per altri attraverso un «regolare» procedimento di assegnazione delle tombe abbandonate dalla discendenza e gestito storicamente dai becchini; costoro costituiscono perciò la classe più agiata del variegato e vivace microcosmo del cimitero, popolato oggi da circa 15.000 persone (cifra fra l'ufficiale e l'ufficioso, che ne segnala ben di più): impiegati, lavoratori giornalieri e gestori di piccoli commerci, laboratori e officine di vetro e di altri materiali di riciclo.
Sentendoci chiedere informazioni in arabo, Rasha ci ferma: le traduciamo una breve lettera, sul retro della foto lasciatale da un'amica inglese che le fa visita periodicamente perché al Cairo viene a studiare la danza del ventre. Rasha è venuta ad abitare qui coi genitori e i sei fratelli, in seguito al terremoto che nel `93 ha abbattuto un intero settore della città vecchia (ma anche nel gennaio scorso una palazzina di nove piani è crollata a Madinat Naser, nuovo quartiere a est del Cairo: di piani doveva averne per legge cinque).
Altri arrivano da zone rurali della regione o dell'Egitto meridionale, dove gli effetti imprevisti delle dighe sul Nilo hanno contribuito a una crescente siccità, e contano fino a due o tre generazioni di neo-cairoti che nel cimitero sono nati e vissuti. Eppure, gradualmente, questa promiscuità fra vivi e morti si assimila, e il sovrapporsi dei due spazi determina una «convivenza» assurdamente naturale: i panni stesi, i bambini che giocano per strada usciti da scuola, l'impressionante massa di gente che si riversa a tutto vendere e comprare nel gigantesco, incredibile mercato del venerdì (Suq el-Guma'a) a ridosso del cavalcavia che chiude un lato del cimitero sud.
«Vicini tranquilli»
Segnali di vita quotidiana nel cimitero, dove non si ignorano i morti che «almeno - dice Rasha scherzando - sono vicini tranquilli». Ma è pur vero che è inevitabile percepire la repulsione o quantomeno la diffidenza della restante popolazione cairota che dall'esterno preferisce ignorare l'esistenza della necropoli e dei suoi abitanti, i quali a loro volta nascondono volentieri la loro provenienza. È senza dubbio un quartiere a parte, una zona di economia informale che accoglie molti fantasmi (alle volte visibili alla guida di luccicanti Mercedes un po' sospette: le voci parlano di traffici di droghe, di organi, di prostituzione...), un settore che nelle carte stradali del Cairo viene rappresentato in bianco, come se fosse vuoto...
Eppure, in alcune sezioni del cimitero, i servizi base sono garantiti (scuola elementare, acqua, elettricità, fognature, infermeria, linee di autobus) o automuniti (cavi televisivi, antenne satellitari), riflettendo una contraddizione non risolta anche nell'atteggiamento delle autorità: il discorso politico, infatti, continua ad indicare il cimitero come l'estremo e degradato margine della società cairota, a giustificare l'incapacità del governo di gestire questa situazione, e con la finalità nemmeno troppo velata di lasciare il campo a nuove e redditizie speculazioni edilizie. Il rischio è quello della demolizione totale del cimitero (come è già successo, nella metà degli anni Novanta, per una parte del cimitero di Bab el-Nasr), a sfregio non solo dei suoi abitanti ma anche dell'allarme lanciato dall'Unesco (1980).
Alle considerazioni umanitarie si sommano gli appelli di diversi accademici locali e internazionali, che sottolineano l'altissimo valore architettonico ed artistico da restaurare e conservare; c'è infine chi tenta di valorizzarne anche le peculiarità tradizionali e sociali, come l'antropologa italiana Anna Tozzi (anna_tozzi@hotmail.com) che da cinque anni vive nel cimitero, studiando da vicino questa realtà e organizzando piccole visite guidate, tentando di mettere in pratica un turismo sostenibile che, senza essere invasivo e anzi suggerendo una possibile feconda interazione, faccia conoscere gli abitanti e la vita della città dei morti.