Questione a margine dei tumulti periferici di Francia, ma per niente marginale: perché in Italia le periferie non sono più un soggetto politico? Perché sono sempre più lontane dell'attenzione, oltre che della città? Perché non producono segnali, culture, dissenso, come avveniva nel Novecento? Ci volevano gli incendi nelle lontane notti parigine per ricordarsi che anche da noi ci sono quartieri dormitorio desolati e potenzialmente esplosivi? Ed è un incendiario Romano Prodi, quando dichiara che abbiamo le peggiori periferie d’Europa, che non dobbiamo crederci cosi diversi da Parigi, perché è solo questione di tempo?
“Macché incendiario: Prodi è uno dei pochi con del sale in zucca. Questo disinteresse ha un’unica ragione: la politica ha rinunciato al governo dell’urbanistica, delegandolo agli immobiliaristi, cioè al mercato. E le città senza un governo pubblico diventano agglomerati di costruzioni” dice Edoardo Salzano, che ha insegnato urbanistica all’Università di Venezia ed è stato consulente per la pianificazione territoriale di molti Comuni. “Nella capitale del capitale, New York, lo capirono nel 1811, quando fu steso il primo piano regolatore al mon do. Lo richiesero i commercianti, i costruttori, gli imprenditori: il mercato, insomma. Razionalizzare significava lavorare meglio e guadagnare di più”.
Il piano di edilizia popolare del dopoguerra, su cui Fanfani investiva per l’avanzata del Paese e della Dc. La trombatura anni ‘60 di un altro notabile bianco, Fiorentino Sullo, sostenitore di una riforma urbanistica un po’ lesiva degli interessi fondiari. Gli immani scioperi per la casa. L’utopia anni ‘70 che, monumentalizzando la casa popolare, produsse anche quelli che oggi definiamo ecomostri. Per molto tempo, a partire dal Ventennio, le case per i lavoratori, e quindi le periferie, sono state materia di conflitto, progettazione, creatività. È bastato il mercato a uccidere tanta vitalità? Tutti a casa, finita la grande edificazione negli anni 80? “No. La caduta del muro di Berli no si è portata dietro quella delle ideo logie. Negli anni ’60-‘70 le periferie non costituivano solo serbatoi di voti, ma la speranza di dare cittadinanza ai diseredati. Speranza oggi caduta” sentenzia Salzano, che nel suo sito di urbanistica, società, politica eddyburg.it, tiene un’eroica sezione banlieues.
Tutti a casa fino a un certo punto: “Ne1 1984 si costruirono 35 mila alloggi sovvenzionati; nel 2004, 1400” osserva Giovanni Caudo, ricercatore di Urbanistica a Roma Tre. E la recente promessa di Silvio Berlusconi, 500 mila alloggi, segnala che l’emergenza torna elettorale. “La nostra edilizia sociale è l’ultima in Europa” continua Caudo. “In Olanda è al 35 per cento, da noi al 4”.
Le cartolarizzazioni hanno diviso le periferie fra proprietari e sfrattati: chi poteva ha comprato, gli altri, il 25 per cento, ha ripiegato sugli alloggi popolari fuori mercato, di qualità quasi nulla. Gianni Belli, segretario dell’Unione inquilini della Lombardia, dice che i quartieri della cintura milanese scoppiano. Di casi limite: immigrati senza risorse, abusivi, pensionati con la mini ma, dissociati. “Se metti uno schizofrenico fra dieci sani puoi controllarlo, ma se riempi un ghetto di disperazione non puoi far nulla. Prevale il senso di impotenza, se poni i problemi nessuno li raccoglie”. Sulla solidarietà prevale la diffidenza, e la periferia non produce più un’identità coesa. “I vecchi se la prendono con gli ecuadoriani che fanno festa, i comitati di quartiere chiedono cancellate invece che spazi comuni, c’è stato l’imborghesimento: conta il posto macchina, non la vivibilità” commenta Vincenzo Simoni, che dell’unione inquilini è segretario nazionale. Un tempo, specie al Nord, iquartieri popolari sorgevano Intorno alle fabbriche, vero fulcro della socialità. Con la deindustrializzazione, sono saltati i fulcri. "Venti, trent’ anni fa, le periferie avevano un proletariato giovane, politicizzato. Comitato di quartiere e consiglio di fabbrica lavoravano insieme” ricorda Simoni. “La casa del popolo, diretta da un ex partigiano, era il centro: i giovani ci litigavano ma c’era affetto. Oggi è tutto più silenzioso, non è sempre un disastro: le periferie delle città fino a 400 mila abitanti sono dignitose, però nessuna riesce a essere propulsiva. Ma non so dire cos’è propulsivo, oggi”.
La caduta della speranza è un elemento ricorrente. “Un disagio senza coscienza non colmato da niente” secondo Ascanio Celestini, cantastorie antropologo che nonostante il successo non ha lasciato Casal Morena, ex borghetto tra Roma e i Colli Albani. “A settembre, ho organizzato un festival al X Municipio: ci siamo accorti che l’i dea di spazi comuni non è stata proprio concepita. Che funzione avevano se la gente torna qui solo per mangiare e dormire? Trent’anni fa, in periferia si pensava che le cose sarebbero migliorate, oggi si sa che non c’è futuro: figli del benessere senza benessere”.
Eppure ironia della sorte e regime del suoli seminano al margini delle città totem del benessere: i centri commercialI. Dalla finestra di un mio amico di Tor Vergata si vedono ben due Carrefour”, ride amaro Celestini. Se un tempo Dario Fo stabiliva la Comune nella cintura milanese, oggi in tutt’Italia tocca a Ikea, agli outlet, agli ipermercati. “I Comuni, impoveriti, cedono i terreni in cambio di un po’ di servizi. La manovra a volte può produrre un circolo virtuoso, molte altre no” spiega Giovanni Caudo, che critica anche certi recuperi: “Fanno nuove piazze senza indagare dove la gente preferisce raggrupparsi”.
Quando era assessore all’Urbanistica della prima giunta Bassolino, a Napoli, Vezio De Lucia voleva trasferire due facoltà universitarie alle Vele di Scampia: “Non so come è finita, ma abbatte re certa edilizia pubblica mi sembra un’idiozia. Non sono costruzioni abusive, demolirle conferma ulteriormente la defezione dello Stato. E basta discutere se è giusto costruire belle architetture moderne nei centri storici: lascia moli come sono e portiamo un po’ di bellezza ai margini delle città. Ritenere frivola la bellezza, quando si parla di edilizia sociale, da’ l’idea di come vengono consideriate le periferie”.
Anche Renato Nicolini che, quando era assessore alla Cultura prima a Roma e poi a Napoli, fu il primo ad attrarre con i suoi eventi gli abitanti dei sobborghi in centro, pensa sia ora di invertire la direzione. “E va rivisto il concetto di periferia, quel che un tempo lo era, oggi non lo è più. Possiamo definire periferia ciò che somiglia a un non luogo: stazioni, grandi alberghi, aero porti. Solo nei film di Spielberg si può vivere negli air terminal.
Quindi la sospensione, l’estraneità. Allora anche Corviale, a Roma, dove bisognò dipingere i corridoi di colori diversi sennò i bambini si perdevano, o lo Zen di Palermo, vent’anni senza fogne, o le Vele di 13 piani con l’ascensore fermo, erano non luoghi. Il dibattito si accende. Gli architetti che li hanno realizzati accusano di latitanza lo Stato: nessun servizio, né vigilanza sulla legalità. Salzano ribatte che l’architetto deve prendersi le sue responsabilità, controllare se la committenza è affidabile. Il sociologo Franco Ferrarotti taglia corto: “Le amministrazioni pubbliche hanno colpe enormi, ma chi ha fatto quelle case alveare ha confuso la responsabilità sociale con la libertà individuale”.
In Italia “i periferici” sono quattro milioni, contro i sei francesi, di cui circa 5,5 stretti intorno a Parigi. E le nostre banlieues sono abitate prevalentemente da italiani: è il caso di chiedere al sociologo se le previsioni di Prodi sono incendiarie. “Il sottosuolo sociale si riproduce più lontano delle periferie strutturate. Il problema vero degli immigrati è avere punti di ritrovo e culto interetnici. Ma il nuovo povero non è l’extracomunitario, è l’impiegato, il maestro che non può mandare la moglie a servizio. Nei sobborghi la ricchezza slitta dai locali agli stranieri, che hanno più iniziativa autonoma e adattabilità”.
Un tessuto più difficile da raccontare, rispetto ai tempi di Pasolini. Ma Antonio Bocola, regista con Paolo Vari di Fame chimica, piccolo cult sull’hinterland milanese, prepara un altro film: sulla predestinazione criminale di un adolescente. Tra periferie e politica, dice, c’è disinteresse reciproco: “Il modello fabbrica è sconfitto, l’associazionismo pure. Oggi diventi leader se spacci. Io racconto questa poetica a chi non vede o non vuol vedere. Non la assolvo, però le riconosco dignità di cultura giovanile. Di unico modo per affermarsi”. Forse ce n’è un altro: a Roma, il primo dicembre, Sandro Medici, presi dente del X Municipio, indagato per aver requisito e consegnato 12 appartamenti sfitti a famiglie disagiate, ha organizzato, con altri sei Municipi, la prima marcia delle periferie.
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Sarebbe stata venduta ( secondo l’Espresso e La Nuova Sardegna) a un ricco russo una casa in Costa Smeralda, località Romazzino, per la somma di 35 milioni di euro.
Nel tempo della finanza d’invenzione e del consumismo più spettacolare è lecito aspettarsi di tutto. Così succede che l’indiscrezione stia nel registro delle bizzarrie mondane d’estate, proprio mentre si fa un gran parlare di rendite immobiliari, meglio d’immobiliaristi. Il clamore è giustificato, se si pensa che ai tempi della lira una casa più o meno dello stesso rango poteva essere venduta per una decina di miliardi, che pure sembrava, anche a quelli più avvezzi a questo genere di transazioni, un prezzo notevole.
La notizia potrebbe essere capziosa, utile per fare crescere i valori delle case (da anni d’estate si diffondono notizie di supervendite a uno dei soliti sceicchi sauditi, messe in giro da intermediari che mirano a sollevare le quotazioni anche di bilocali in terza fila). D’altronde l’abilità degli immobiliaristi (qualcuno fa notare in questi giorni che sono altra cosa rispetto ai costruttori), sta proprio in questa capacità di comprare e rivendere fruttuosamente in tempi brevi.
Le vicende che riguardano i vari Coppola e Ricucci, dicono appunto anche di queste cose, di speculazioni che alimentano investimenti finanziari, di scalate, di bolle possibili, ecc. E il fatto stesso che si possa solo parlare di somme così rilevanti la dice lunga su cosa gira nel mondo del mercato immobiliare di fascia alta. Anche in Sardegna, ovviamente.
Allora due conti. Il costo di costruzione di queste tipologie di edifici non è diverso da quello che si può riscontrare in altri luoghi del Paese. Anche a immaginare l’impiego di materiali preziosi ( escludendo i metalli nobili ) il costo di un metro quadro finito di casa si può aggirare, esagerando un po’, sui 2000-2500 euro.
Ecco: la casa in questione, pare di alcune centinaia di metri quadri, costa, costerebbe per realizzarla, poco più di un milione di euro.
Il resto del valore – per arrivare a 35 milioni – è dato dalla magica condizione del contesto Un grande salto, si converrà, pure con un notevole lotto di pertinenza più accessori, un’impareggiabile vista sul mare, un vicinato molto ma molto altolocato, ecc. Così è per questo genere di merci e ogni giudizio, come dire, dalla parte dei poveri o nel nome della parsimonia, è del tutto superfluo. E a poco serve osservare che qualche ettaro di terreno agricolo a una trentina di chilometri da qui vale molto poco e non si vende anche con l’aggiunta di un buon gregge di pecore lattifere. Come si legge in tanti sconsolati annunci che dicono di quei “naufraghi di terra” di cui ha scritto nel suo libro recente Salvatore Niffoi.
Qui si vuole solo osservare, per chi non lo avesse ancora capito, che di queste ricchezze, prodotte senza rischi, con notevole danno ai paesaggi sardi, non resta quasi nulla alle popolazioni locali. Spiccioli a qualche manutentore e giardiniere e l’Ici che, come è facile intuire, è del tutto scriteriata in questi casi. Andrebbe meglio un corrispettivo lasciato al buon cuore: le mance che si lasciano da queste parti sono più generose.
Occorre tenerne conto nel caso si volesse ancora concedere questi privilegi, che una volta fatte le case fatte resta il solo compiacimento della presenza di tanta bella gente da queste parti ( “ajò a vedere le ville dei ricchi in Costa …”). L’ alterazione irreversibile dei connotati di spiagge e scogliere, la chiusura degli accessi al mare, la preclusione di un uso produttivo di vaste aree, procurano grandi vantaggi a pochi che spesso neppure sanno dove sono le case preziose che possiedono,
Queste concessioni a edificare non c’entrano neppure nulla con l’ uso (spesso si tratta di case che si abitano una settimana all’anno) e che sono nel novero degli investimenti ( e c’è chi appunto ne possiede sei o sette di villone in Gallura). Si tratta di quei beni nel ciclo denaro-merce-denaro che il nuovo capitalismo italiano predilige, come spiegano bene le cronache di questa stagione.
E’ singolare che nella riflessione che si è aperta su questi temi in Sardegna qualcuno porti l’argomento dell’incremento dei prezzi delle case esistenti nelle coste, cioè del favore – scandaloso per i liberisti – che viene loro da una linea di contenimento delle trasformazioni ambientali. Così – è il suggerimento sottinteso – per non avvantaggiare gli immobiliaristi spazio ai costruttori. Come se per impedire l’incremento di valore di residenze esclusive nel centro di Roma, per ampliare l’offerta come di dice, si lasciasse via libera ai palazzinari di densificare Trastevere. Gli esempi potrebbero essere tanti e si sa che i paesaggi naturali più pregiati e le cosiddette città d’arte sono ai primi posti nell’attenzione di speculatori molto potenti. Per questo occorre intensificare e affinare l’impegno per tutelare i beni comuni.
Nei giorni immediatamente successivi agli attentati terroristici islamici a Londra in cui morirono 56 persone, le autorità britanniche stabilirono che tutti gli uomini bomba erano integralisti islamici nati cittadini britannici. Nell'immaginario collettivo i terroristi erano al contrario forestieri, stranieri, alieni. Ciò doveva spiegare perché ai fautori di attacchi suicidi non importava nulla delle vite che si accingevano a distruggere. Invece i terroristi londinesi erano connazionali, membri della stessa comunità cui appartenevano le loro vittime. Ma dove è andata a finire la coesione dovuta alla cittadinanza? Perché i legami che ci uniscono sono così deboli?
Questo autunno le stesse domande si sono riproposte anche in Francia, quando i quartieri abitati da immigrati nelle grandi città sono stati sconvolti da settimane di rivolta. Gli europei incominciarono a interrogarsi se il loro modello di integrazione, basato sulla garanzia della concessione della cittadinanza, fosse definitivamente andato in crisi oppure no.
Prima di tutto è bene chiarirsi le idee su ciò che non è andato male. Milioni di immigrati musulmani in Europa e in America del Nord hanno superato le resistenze e il risentimento trasformando la loro immigrazione in un'esperienza positiva. La stragrande maggioranza di queste persone evita i disordini e disprezza la violenza terrorista.
Secondo, è importante distinguere i tumulti dagli attentati di Londra. Gli attacchi con le bombe erano guidati dall'integralismo islamico, gli incidenti di Parigi erano causati da rabbia a oltranza. Mentre gli attentati suicidi mirano a distruggere la società libera democratica, la maggior parte dei poveri, disoccupati o sottopagati dei sobborghi urbani che hanno bruciato macchine nelle periferie di Parigi protestano perché vogliono l'integrazione. Ma proprio riuscire ad integrarsi è stato praticamente impossibile per molti. L'errore è stato di presumere che i diritti all'assistenza offrono sempre una via d'uscita dalla povertà, oppure che i sussidi per l'affitto possano conferire un senso di appartenenza.
Il welfare potrebbe essere in realtà parte del problema, non della soluzione: l'assistenza intrappola gli immigrati nel risentimento e nella dipendenza. In Gran Bretagna il 63 per cento dei figli di pachistani o bangladesi vivono nella miseria. Laddove la razza, la classe sociale, la religione e la povertà messe insieme producono emarginazione, la sola concessione della cittadinanza non può funzionare.
I teorici hanno definito le nazioni «comunità immaginarie». Gli attentatori che hanno attaccato i loro concittadini a Londra potrebbero aver scelto di arruolarsi nella jihad per battersi in favore di una comunità immaginaria in grado di offrire loro un maggiore senso di appartenenza. Per la gioia di essere accettati e il piacere di sentirsi coinvolti, piuttosto di accontentarsi della misera consolazione di acquisire la cittadinanza in una società democratica. Gli attentatori suicidi si uniscono a ciò che loro considerano la comunità internazionale degli Umma, i credenti musulmani. Essa offre al giovane cittadino una causa nobile per cui battersi — la difesa dei musulmani ovunque — e un ideale brillante, il martirio in difesa di una fede. Considerare gli uomini-bomba dei fanatici vuol dire non cogliere il più profondo fascino morale di questa forma alternativa di appartenere.
Grazie a Internet e ai prezzi bassi dei voli internazionali, gli immigrati e i loro figli non devono più legarsi una volta per tutte ai nuovi Paesi adottivi.
Possono avere doppi passaporti e passare mesi a respirare l'atmosfera politica di Peshawar, Qetta o Algeri piuttosto che quella di Bedford, Leeds o Clichy- sous-Bois.
Nessuno con un minimo di buon senso potrebbe pensare di eliminare i benefici della globalizzazione, tra cui Internet e i viaggi a basso costo, soltanto perché ciò potrebbe indebolire i legami che ci uniscono come cittadini. Ma è importante capire che per una piccola minoranza di giovani musulmani i rimedi attuali — più programmi di assistenza per gli immigrati poveri, l'espulsione per coloro che violano le leggi e le penalità più severe per i mullah e i predicatori dell'odio — non offrono più il modello di una città terrena che può competere con la promessa di una città divina proposta dai sostenitori della violenza.
L'unica causa che offre la democrazia è il motto storico «libertà, eguaglianza e fratellanza». Ma queste parole svaniscono se i sindacati forti escludono i lavoratori immigranti, se i professionisti si oppongono all'entrata di nuovi cittadini specializzati e se le istituzioni elitarie non reclutano nuovi talenti emergenti, provenienti da Paesi stranieri.
Il problema fondamentale non è il fatto che i governi europei non hanno speso cifre sufficienti per aiutare gli immigrati. Il problema è che non hanno aperto i battenti delle loro scuole elitarie, della burocrazia e dei partiti politici ai migliori e ai più brillanti tra i nuovi cittadini. L'ostacolo insormontabile è la mancata inclusione dei nuovi arrivati nei ceti più alti della società. Quando si vedono foto di gruppo dei leader europei nei loro conclavi dell'Ue non si notano volti di colore, donne con i capelli nascosti sotto i foulard o personalità della fede musulmana. Ci vorrà molto tempo prima che questo accada.
Fino a quando i cittadini immigrati non vedranno alcuni dei loro ai vertici, saranno scettici — e a ragione — nei confronti delle promesse della democrazia. La democrazia è in concorrenza con le ideologie fondamentaliste per la salvezza dell'anima, e in questo momento sta perdendo la sfida.
Nota: il sito del corriere: Città invisibili
Titolo originale: Ski in the desert? It could only happen in Dubai ... – Traduzione di Fabrizio Bottini
Ci sono 35 gradi, fuori, ed è appena cominciato a nevicare. Non contento delle spiagge a temperatura controllata, degli alberghi a sette stelle e di un arcipelago artificiale, l’emirato cotto dal sole di Dubai ha deciso di introdurre condizioni climatiche alpine in pieno deserto. Il luogo di questa stranezza meteorologica è Ski Dubai, la terza discesa al coperto del mondo, dove i visitatori presto potranno concedersi un rapido slalom fra le sessioni di abbronzatura.
Due settimane prima della prevista apertura del 2 dicembre, siamo stati invitati per una rapida visita preliminare. Mentre il feroce sole di mezzogiorno arrostisce i turisti sulle vicine spiagge di Jumeirah, noi indossiamo scarponi da sci, guanti e abiti termici. Equipaggiati in perfetto stile Scott-eroe-dell’Antartico ci avviciniamo alle colossali porte del complesso, con gran divertimento dei clienti del vicino centro commerciale, in calzoncini e sandali.
Mentre attraversiamo l’entrata una folata di vento glaciale si fa strada sino alla base dei nostri polmoni, e sentiamo lo scricchiolare alieno della neve fresca sotto le suole. Davanti a noi sta una scena strappata direttamente da una cartolina di Natale. Due giovani eccitati si tirano palle di neve, alberi di pino pesanti di brina e una manciata di visitatori vestiti di nero che si arrampicano su una ripida altura bianca di neve, come un branco di pinguini migratori. Al centro di questa istantanea di perfezione invernale ci sono due Emiri in tuniche bianche e fazzoletti a scacchi rossi inginocchiati in venti centimetri di polvere, che lasciano scivolare la neve tra le dita ridacchiando alla semplice gelida follia di tutto questo.
Anche in questa città dalle ambizioni sconfinate, portare temperature di 45° sino a sotto zero sembrava una pazzia. Ma questo è un posto che rifiuta di essere chiuso dentro a bazzecole come la logica, la fisica, la geografia. La momento la città è impegnata in una serie di superprogetti surreali: realizzare il primo albergo subacqueo, completo di sala per spettacoli pure subacquei; costruire un parco a tema (fantasiosamente chiamato Dubailand) più grande della stessa città; erigere la torre più alta del mondo (il Burj Dubai, la cui altezza è un segreto gelosamente custodito). Il prossimo anno vedrà l’inaugurazione del primo complesso dell’Isola delle Palme, un vasto arcipelago artificiale che si estende nel Golfo Persico. A Dubai, “moderazione” è una parolaccia sporca.
Ski Dubai sporge dal Mall degli Emirati – il più grosso centro commerciale fuori dagli USA – come un gigantesco gomito metallico. Di fianco alla via Sceicco Zayed, la strada principale di Dubai, le strutture a forma di tubo sono piuttosto lontane dall’essere carine, cosa insolita in questa città esteticamente consapevole. Ma l’interno è una meraviglia. Allungando il collo per vedere tutto il cavernoso spazio da 22.500 metri quadrati (che dichiara di contenere oltre 6.000 tonnellate di neve), arranchiamo attorno a finte montagne e veri igloo ai piedi della complessa arena a quattro discese. A differenza dello snow park – la zona dove non si scia ai piedi della collina – le discese non sono ancora aperte al pubblico e la vista di questo bianco manto vergine che si estende verso l’alto fino a sparire alla vista è magica e intimidante. Mentre ci spingiamo oltre snowmobiles abbandonate e una colossale seggiovia incrostata di ghiaccioli, la sensazione è più da apocalisse dell’era glaciale che da nuova attrazione turistica alla moda. Ma entro un paio di settimane questa neve vergine sarà incisa da 1.500 sciatori e snowboard.
Raggiungiamo la metà del percorso sorridenti ma senza fiato. È il punto dello Avalanche Cafe, in stile Zermatt, uno chalet con balconi che presto riscalderà gli sciatori con fonduta, cioccolata bollente, e il piacere piuttosto dubbio del vino speziato analcolico (“la nostra deliziosa ricetta della casa di Vimto caldo e sciroppo di zucchero in infusione di spezie”).
Per ora ci lasciano arrivare solo fin qui, ma dietro l’angolo, in cima agli 85 metri dell’edificio, sta la pista più lunga di Ski Dubai. Presentata come il primo percorso “nero” al coperto, è lunga 400 metri con un dislivello di 60: qualcosa in meno delle terribili pendenze di Portes du Soleil, e probabilmente più una rossa o blu, per uno sciatore esperto.
Lì vicino, la zona della rampa per snowboard – che purtroppo manca di qualunque ostacolo, ringhiera, piano di tavolo – e le due piste toboga non basteranno a soddisfare i tossicodipendenti da neve a caccia di adrenalina.
Ma la parte per bambini – caverna di ghiaccio da 3.000 metri quadrati, decantata come “il più grande snow park del mondo” – è una fantasia infantile degna dello squisito ingegno di un Roald Dahl. Collocata dietro le pendenze e già aperta al pubblico, questa sezione offre slitte-bob, collinette artificiali per toboga, un campetto per giocare a palle di neve e spazi dedicati alla costruzione di pupazzi di neve. Dentro la “caverna della neve” bambini infreddoliti si aprono barcollando la strada in un labirinto ghiacciato, tentando di restare in equilibrio su un ondeggiante “ghiaccio galleggiante”, e facendo amicizia con un enorme dragone fatto di enormi blocchi di ghiaccio scolpito.
Una patina di didattica è fornita dalla sala proiezioni della caverna di neve, che secondo le nostre guide “mostrerà alcuni film divertenti e al tempo stesso istruttivi ... sui pinguini, gli orsi polari, informando sul clima e cose di questo tipo”.
Completato il nostro giro tra le varie strutture, torniamo al calore di una poltroncina nel San Moritz Cafe, affacciato sul grande spazio. Guardando attraverso gli alberi di plastica – quelli veri sarebbero stati pericolosi per gli incendi – e le scritte giganti che proclamano le virtù delle Vacanze negli Emirati, è stupefacente osservare la semplice dimensione dell’opera di ingegneria che si presenta.
Utilizzando tecniche simili a quelle che si trovano nei sistemi di condizionamento d’aria che rendono abitabile la città, la temperatura è stata abbassata fino a – 8° per il periodo iniziale, di formazione della neve. A questa temperatura minima, l’acqua allo stato liquido viene spruzzata fino a creare una nube all’interno dell’edificio, a cui vengono aggiunti minuscole particelle di ghiaccio, a formare neve che cade in forma di fiocchi: neve artificiale allo stato puro. Fortunatamente, quando Ski Dubai sarà aperto al pubblico il ciclo di formazione della neve avverrà solo di notte, e nei normali periodi di sci ci sarà una meno feroce temperatura di soli due gradi sotto zero.
Gli abitanti di Dubai annoiati dal lusso senza alcun dubbio si abitueranno rapidamente a considerare lo sci a temperature estive di 45° come un’attività corrente. Nondimeno, Ski Dubai sta facendo ogni sforzo per trasformare gli abitanti del deserto in abili slalomisti. Ci sono almeno 25 maestri di sci a portata di mano per le lezioni, e un paio di immigrati dalla Scandinavia ha preventivamente organizzato uno Dubai Ski Club per organizzare gite sociali sulle piste. Ha già più di 300 soci. Una volta diventati appassionati di questo prestigioso nuovo passatempo, i dubaiani possono iniziare ad attrezzarsi adeguatamente, scegliendo fra tavole Rossignol, scarponi Sidas e giacconi Barts nel negozio Snow Pro interno.
Cosa ci riserva il futuro per Ski Dubai? Potrebbe iniziare a erodere il primato delle tradizionali mete sciistiche del Medio Oriente, in Libaro e Iran? Susan Mikloska, direttrice per il marketing, ne è convinta. “Certamente ne ha il potenziale” dice “perché Dubai ora offre un’ampia gamma di attrazioni ai visitatori, e la possibilità di sciare nel pomeriggio e stare all’esterno sulla sabbia o in acqua il resto della giornata è molto attraente”. E possiamo aspettarci che le nuove piste in città creino una rivoluzione stile Cool Runnings nella comunità sportiva? Mikloska ne è certa. “In Europa molti dei migliori sciatori e atleti olimpici hanno iniziato su alture più piccole delle nostre, quindi abbiamo un ottimo potenziale per formare ottimi atleti” afferma. “C’è speranza che entro qualche anno potremo far partecipare qualcuno a delle gare”.
Anche se le glorie olimpiche possono essere piuttosto lontane, gli abitanti si godono in pieno la novità di stare al freddo. “È piuttosto strano, ma meraviglioso” dice Raed Al Yousofi, meravigliato alla vista dei primi fiocchi di neve. “Ora Dubai ha tutto, e tutti vorranno visitarla. Io sono troppo vecchio per imparare, ma nostri figli saranno buoni sciatori”.
Nota: il testo originale (con schede tecniche informative dettagliate sul progetto e sull’operazione Dubai) al sito dell’Observer; qui su Eddyburg, sull’argomento si veda almeno il bell’articolo di Mike Davis proposto qualche tempo fa (f.b.)
L'ONU inserisce il diritto alla casa fra i diritti umani universali (art. 25). In Italia oltre l'11% delle famiglie vive in povertà relativa (Istat 2005), le famiglie sotto sfratto sono 600.000, gli allogi sfitti circa 2 milioni...C'è chi manda le ruspe contro le baracche degli immigrati e chi cerca soluzioni immediate per calmierare situazioni di disagio sociale ormai al limite in molte nostre città: legalità da un lato, giustizia dall'altro. La questione della casa, a Roma come a Bologna non è un problema di ordine pubblico, ma un'emergenza sociale che va allargandosi. (m.p.g.)
Briciole di welfare
GALAPAGOS
Soldi ce ne sono pochi: è l'alibi di Berlusconi e Tremonti per giustificare la pochezza della finanziaria e i tagli alla spesa sociale necessari per centrare gli impegni con Bruxelles. Soldi, invece, ce ne sono tanti. D'altra parte lo stesso Berlusconi ci ha ossessionato negli ultimi tempi con lo slogan «gli italiani sono ricchi». E' vero: i ricchi da quando c'è lui al governo sono aumentati di molto, ma sono aumentati ancora di più i poveri. Certo, l'Istat parla di «povertà relativa», però quanto c'è di relativo per una famiglia a dover vivere, anzi sopravvivere, con poche centinaia di euro al mese in città come Roma o Milano? L'Italia è ricca, ma milioni di italiani sono poveri. Non è una contraddizione: è il risultato di una politica economica che tende a esasperare le differenze. E la povertà è il risultato di un sistema fiscale iniquo - nel quale il lavoro paga più tasse della rendita - e inefficiente, visto che sfuggono ogni anno al fisco redditi per un ammontare superiori ai 150 miliardi di euro (300 mila miliardi di lire per semplificare). Ieri un quasi ignoto deputato di An - Giampaolo Landi di Chiavenna, come specificava l'Agi - ha sostenuto che «tassare i patrimoni e le rendite è un errore che la Casa delle libertà non può permettersi». Perché non può permetterselo? Non certo in base alla teoria economica; sicuramente non in base all'evidenza empirica che ci dice che sono i paesi del Nord Europa a guidare la classifica dell'efficienza economica, del benessere, della solidarietà e quindi della civiltà. Il problema è che anche An è diventata schiava di Berlusconi e della ideologia di classe che il cavaliere rappresenta.
Eppure spazi per fare e fare bene ce ne sono. Invece si litiga sulle briciole, con l'Udc che minaccia la rottura per circa 200 milioni di euro tagli alle famiglie. Ma perché poi «famiglie»? Perché non chiamarli tagli ai «cittadini», ai diritti di ognuno di noi, a cominciare di chi è diverso, da chi non vuole farsi o non può farsi una famiglia?
L'Italia è un paese di contraddizioni: ricchezza e povertà; cittadini di serie A e di serie B. Ma anche proprietari di case e cittadini che la casa non ce l'hanno, ne hanno bisogno, ma non riescono a averla. Le statistiche dicono che ci sono 600 mila cittadini sotto sfratto. Molti di loro sono «morosi», ma nessuno lo è per hobby: il mercato li strangola con affitti mostruosi. Le case non mancano: sono circa 2 milioni quelle sfitte. Ma in questo caso la legge della domanda e dell'offerta non funziona. Il livello degli affitti è determinato dal prezzo delle abitazioni; i prezzi delle case sono imposti dagli immobiliaristi che fanno rimpiangere i vecchi palazzinari. Il mercato delle abitazioni è un mercato asimmetrico dove il potere ce l'ha solo il proprietario e dove l'inqulino deve prendere o lasciare. E lasciare significa spesso finire in mezzo a una strada o in precarie coabitazioni con umiliazioni pesanti per quanto riguarda i giovani .
Il tutto favorito da una offerta pubblica quasi inesistente; da cartolarizzaioni dismissioni fatte solo per fare cassa e non per dare nuovo impulso al'attività edilizia come suggeriscono giustamente anche quelli dell'Ance, i costruttori. Sandro Medici ha fatto un gesto coraggioso anche se qualcuno dice che non ha fatto che «copiare» quello che alcuni decenni fa aveva deciso di fare Giorgio la Pira indifesa dei senza casa fiorentini. Per i benpensanti non è questo il sistema per risolvere il problema della casa. Forse, anche se in situazioni di emergenza si ricorre a misure di emergenza. In ogni caso Medici ci ha insegnato una cosa: la soluzione per risolvere i problemi degli emarginati non può essere la legalità invocata da Cofferati.
CASA
Giusta causa
SANDRO MEDICI
Fino a qualche tempo fa circolava una convinzione: che saremmo diventati tutti proprietari delle nostre case. Risolvendo così, alla radice, uno dei problemi sociali che ciclicamente emergono nelle nostre città, a Roma più che altrove. Quello dell'abitare, di avere un tetto sulla testa, di poter soddisfare quell'elementare bisogno di due camere e cucina. Nell'acme della stagione del furore liberista, si pensò infatti di avviare quello sciagurato processo di dismissioni delle proprietà immobiliari degli enti pubblici (para o semi che fossero): di quell'enorme patrimonio di edifici d'abitazione che per decenni erano riusciti (e non completamente) a calmierare il mercato. La chiamarono cartolarizzazione. Aveva il duplice obiettivo di accumulare risorse per la spesa pubblica e consentire al popolo dei locatari di realizzare il sogno della casa in proprietà.
Obiettivo raggiunto per una parte, e anche cospicua, ma fallito per un'altra, seppur minore. In molti aderirono all'offerta di vendita, indebitandosi allo stremo, mettendo a rischio il proprio stesso futuro. Ma in molti altri restarono fuori, impossibilitati ad acquistare a causa di redditi insufficienti e/o precari. E ora sono proprio questi ultimi, esclusi e impoveriti, a ritrovarsi sotto sfratto: cacciati dalle case in cui hanno vissuto per decenni, senza alcuna prospettiva di ricambio perché schiacciati da un mercato per loro irraggiungibile.
Sono tuttavia solo gli ultimi arrivati nell'ampia schiera dei senzacasa, quell'insieme di sfuggenti figure sociali che cronicamente vivono nell'insicurezza economica. Gente che campa sbattendosi tra un alloggio di fortuna e un'ospitata da amici e parenti, famiglie povere annidate in appartamenti che nel frattempo sono stati messi in vendita o già venduti, immigrati vecchi e nuovi alla continua ricerca di una sistemazione decorosa. Sono quelli che affollano le liste dei destinatari di alloggi popolari che i Comuni non sono in grado d'offrire perché semplicemente mancanti. C'è poi un ultimo flusso che va a completare questa preoccupante massa critica. Sono l'acido frutto dell'impoverimento progressivo delle nostre società.
Quelli che non riescono più a pagare il mutuo o l'affitto, le coppie che non mettono su casa perché non ce la fanno a star dietro al mercato, così come i giovani che restano dai genitori, i pensionati non più autosufficienti costretti a convivere con figli e nipoti, ecc. ecc. Se non fossero passati esattamente cinquant'anni, sembrerebbe di essere tornati ai tempi degli sfollati di via Donna Olimpia raccontati da Pier Paolo Pasolini in Ragazzi di vita. E il peggio è che di tutto ciò non si accorgono che in pochi: i sindacati, qualche sindaco e poco più. Siamo di fronte a una clamorosa smentita delle strategie privatizzatrici, ingannevoli quanto feroci, che sta producendo un accumulo di disagio sociale angosciante, che qua e là già si manifesta con occupazioni e conflitti. E non c'è traccia di una politica una per attenuare questa pressione. Anzi, anno dopo anno, il governo sforna leggi finanziarie che riducono i contributi sociali per l'affitto, lasciando sole e indebolite le amministrazioni locali, che s'arrangiano come possono.
Affrontare e risolvere questo acutissimo problema avrebbe bisogno di ripensare alla radice una politica per la casa, che riconsegni centralità al diritto sociale all'abitare, un diritto che l'Onu ha dichiarato universale. Ci vorranno anni e sicuramente un altro governo. Ma nel frattempo tutti i senzacasa che vagano penosamente nelle nostre città, dove li mettiamo?
L'ordinanza di requisizione di alcuni alloggi sfitti e inutilizzati recentemente emanata nel X Municipio di Roma, peraltro prontamente messa sotto inchiesta dalla magistratura, non sarà certo la soluzione. Ma non è più possibile tollerare gli indecenti interessi della rendita immobiliare proveniente dalle migliaia e migliaia di case vuote, che s'accumula parassitariamente solo grazie al tempo che passa, senza per questo venir minimamente tassata. L'egoismo sociale, la smania accumulatrice non può tener sequestrati beni necessari alla collettività, soprattutto di fronte a un'emergenza che sta per travolgerci tutti.
Diritto alla casa, la cura di Medici
Sabato a Roma manifestazione nazionale contro l'emergenza abitativa. I promotori: «Sfiliamo anche per il presidente del X Municipio». Che ha requisito alloggi per gli sfrattati come fece La Pira a Firenze ma è finito sotto inchiesta. Silenzio di Veltroni e dell'Unione
ANGELO MASTRANDREA
ROMA - E'attaccato dalla stampa di destra che lo accusa di «esproprio proletario» e violazione della proprietà privata, a qualcuno della sua maggioranza la mossa non è piaciuta particolarmente e anche il sindaco Veltroni per il momento tace su una vicenda che pone il centrosinistra di fronte a un bivio: se privilegiare il diritto di proprietà a quello alla casa, la speculazione immobiliare rispetto agli sfrattati. Ma Sandro Medici, presidente del X municipio, non demorde e conquista le organizzazioni di inquilini, cartolarizzati, sfrattati e senza casa che da tempo denunciano le speculazioni immobiliari e l'esistenza di un vasto patrimonio abitativo privato che rimane inutilizzato. Tanto che l'Unione inquilini invita a partecipare in massa alla manifestazione nazionale per il diritto alla casa che si svolgerà sabato a Roma. E così, nei giorni in cui il sindaco di Bologna Cofferati fa a pugni con studenti e occupanti di case e rompe con Rifondazione sul tema della legalità, da un municipio romano arriva un esempio che si pone all'estremo opposto. Il presidente del X Municipio ha infatti requisito con un'ordinanza 12 dei 50 appartamenti di un palazzo di proprietà di una società privata, la 3A, e abbandonato da 15 anni. Un provvedimento dettato dall'esigenza di dare un tetto a una quarantina di sfrattati, in maggioranza persone anziane e malate.
In questo Medici ha un precedente illustre nel sindaco di Firenze Giorgio La Pira, democristiano e beatificato, che negli anni `60 requisì temporaneamente alcuni palazzi del centro per dare un alloggio agli sfrattati dell'Isolotto. Attaccato in consiglio comunale, dichiarò che il diritto all'abitazione viene prima di quello alla proprietà. Ma questa volta il presidente del popolare municipio romano di Cinecittà è finito sotto inchiesta per abuso d'ufficio.
«Il reato contestatogli si risolverà in un boomerang nei confronti della rendita immobiliare speculativa e parassitaria», dice il segretario dell'Unione Inquilini Massimo Pasquini, che cita a favore di Medici, ex giornalista del manifesto ed eletto come indipendente nelle file del Prc, l'articolo 11 del Trattato internazionale sui diritti umani che garantisce il diritto alla casa. E forse non a caso, visto che proprio qualche mese fa una commissione dell'Onu ha visitato la capitale proprio per monitorare il problema casa. «Ci auguriamo che i giudici mettano mano anche ai quotidiani abusi d'ufficio perpetrati da proprietari che tutti i giorni affittano, senza averne apposita licenza, stanze e posti letto a canoni neri e perseguano anche quei proprietari, piccoli e grandi, che eseguono, previo sfratto anche di anziani e portatori di handicap, cambi di destinazione d'uso illegali, nel centro storico, per trasformare i propri immobili in redditizi bed and breakfast», dice ancora Pasquini. Anche Giovanni Russo Spena del Prc difende l'operato di Medici: «Mi sembra che dal punto di vista sia sociale che giuridico abbia indicato la strada per risolvere un problema, mentre l'accusa è semplicemente un atto repressivo che non risponde nemmeno all'applicazione corretta del sistema di garanzie dello stato di diritto».
La giunta capitolina appena pochi mesi fa ha approvato una delibera sull'emergenza abitativa elaborata dalle organizzazioni dei senza casa, e già quando militanti di Action erano finiti sotto inchiesta per associazione a delinquere per aver occupato edifici abbandonati di proprietà privata, ne aveva invece riconosciuto l'importante funzione sociale. Il ruolo di mediazione del sindaco era stato importante anche nella risoluzione di alcuni sgomberi che rischiavano di provocare tensioni sociali. Del resto, che il problema casa a Roma sia una questione di carattere sociale più che di ordine pubblico era stato lo stesso prefetto Achille Serra a dirlo.
Per questo Cento chiede all'Unione e a Veltroni «un atto esplicito di sostegno alla iniziativa del presidente del X Municipio». Anzi, per l'esponente dei Verdi «requisire le case abbandonate e destinate alla speculazione immobiliare è un atto di civiltà, soprattutto di fronte all'emergenza casa di Roma e delle altre grandi città».
E'normale che il tempo rompa verso la fine di agosto e quindi ci siano perturbazioni e temporali. E' molto meno normale che, ormai da anni, maltempo e piogge, che annunciano la fine dell'estate, abbiano sempre conseguenze così devastanti e drammatiche. Quest'anno è successo nell'Europa centrale e orientale, Austria, Svizzera e Romania purtroppo già contano morti, dispersi e migliaia di sfollati. Già sappiamo, però, che se i venti spingessero in Italia quella perturbazione le devastazioni e le conseguenze sarebbero altrettanto gravi. Di fronte al ripetersi di quelle che, una classe dirigente incolta e incapace, si ostina a chiamare calamità naturali, un interrogativo si pone: perché mai qualsiasi pioggia cada, normale o eccezionali che sia, le conseguenze per persone e cose sono sempre le più gravi? Intensità delle precipitazioni e loro concentrazione (in pochi giorni cade la pioggia di una stagione) ci dicono che è in corso un cambiamento climatico. Anche quest'estate abbiamo avuto segnali forti che evidenziano che il cambio di clima non è il futuro a cui dobbiamo prepararci, ma un drammatico presente da fronteggiare. Non ce ne parla solo la tragedia rumena, svizzera ed austriaca di questi giorni o il moltiplicarsi di tifoni ed uragani, che purtroppo colpiscono i paesi più poveri e meno responsabili delle alterazioni al clima, ma anche il drammatico scioglimento di un'area ghiacciata della Siberia grande come la Francia e la Germania, a cui la stampa nazionale non ha dedicato alcuno spazio. Insomma i fatti ci confermano che le previsioni del terzo rapporto Onu sul clima sono ormai una realtà con cui fare i conti. A nulla serve però attribuire al clima che cambia la responsabilità della tragedia che ha colpito l'Europa centro-orientale, soprattutto non è accettabile che il cambiamento climatico venga invocato come giustificazione da chi avrebbe dovuto agire e non l'ha fatto per fronteggiarlo.
Alle popolazioni rumene, svizzere ed austriache così duramente colpite la migliore solidarietà che si può esprimere è la denuncia delle inadempienze e del vuoto di strategie politiche con cui le classi dirigenti non solo politiche e non solo di governo hanno affrontato il cambiamento del clima. Kyoto, che rappresenterebbe solo un piccolo segnale di inversione di tendenza è sì entrato in vigore, ma per ora le emissioni che alterano il clima aumentano anziché diminuire. In realtà il mito dell'eterna crescita continua ad essere l'orizzonte culturale delle politiche economiche delle destre come delle sinistre, senza alcuna preoccupazione di quanti gas climalteranti si manderanno in atmosfera per realizzarla. Ed allora si dia un segnale alle popolazioni colpite convocando un vertice europeo in cui si prendano decisioni su una nuova politica energetica basata sul risparmio e sulle fonti rinnovabili. Ma non è solo il cambiamento climatico e l'incapacità evidente di governarne le manifestazioni la causa di tante devastazioni. Anzi più si guarda e si va a fondo della questione e più emergono le colpe: di territori incapaci di assorbire le piogge perché la speculazione li ha ricoperti di cemento, asfalto e costruzioni, o di fiumi le cui aree di pertinenza, quelle in cui dovrebbero espandersi le piene risultano invece costruite, coltivate, infrastrutturate pesantemente, o di colline rase al suolo da un'agricoltura industriale parassitaria ed eccedentaria, o di un'attività edificatoria senza soste e di un'abusivismo sempre tollerato e sanato.
Da più parti si invocheranno nuove opere idrauliche per governare fiumi e frane e piogge senza capire che se non si mettono in discussione gli usi sbagliati e speculativi del territorio non si potrà governare le conseguenze del maltempo e del cambio di clima. Anche qui servono segnali chiari e non solo parole. Il centro sinistra che si avvia alle primarie dichiari che il riassetto idrogeologico del territorio è la principale ed unica opera pubblica che intende realizzare se governerà, un'opera pubblica fatta non di cemento e asfalto, ma di conoscenza dei territori manutenzione e cura della terra e perché no di qualche demolizione.
Titolo originale: The regional revolution – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Prezzi delle case da far piangere, pendolarismo caotico e ritmi di vita surriscaldati: Londra ha parecchi degli svantaggi che vi aspettereste da una metropoli. Così molte imprese britanniche e i loro dipendenti stanno iniziando a capire che esiste vita anche fuori dalla capitale.
Mentre il governo cerca di rimediare ai problemi e riattirare posti di lavoro e investimenti verso Londra, le agenzie di sviluppo regionale del paese lavorano per convincere le imprese provviste di risorse che esiste la possibilità di avere di più in cambio di quel denaro – oltre ad una migliore qualità della vita per i dipendenti – in Scozia, Galles, o nell’Inghilterra del nord.
Gli uffici governativi hanno promesso di dare l’esempio, con decine di migliaia di posti di lavoro rilocalizzati da Whitehall ad altre parti del paese nei prossimi anni.
Molte delle capitali regionali del Regno Unito - Manchester, Birmingham, Leeds, Glasgow – stanno rinascendo, riprendendo dal punto in cui avevano lasciato quando iniziò il lungo e lento declino della loro tradizione industriale più di 50 anni fa.
Oggi spuntano imprese della comunicazione là dove un tempo c’erano fabbriche (spesso anche letteralmente, quando gli edifici industriali abbandonati del XIX secolo vengono riaggiustati e rioccupati). E l’eredità della tradizione imprenditoriale, dell’assunzione di rischi e dell’innovazione che aveva contribuito alla rivoluzione industriale sta trovando nuovi sbocchi nella scienza, nella ricerca e sviluppo, nella progettazione d’avanguardia.
Appartamenti di città all’ultima moda attirano di nuovo giovani professionisti nei quartieri centrali, dove un tempo stavano zone inaccessibili, e attorno sono spuntati bar, ristoranti, negozi. Compagnie di venerabile tradizione stanno spostando parte delle proprie attività verso zone del paese dove non avrebbero mai pensato di andare vent’anni fa; e nascono nuove imprese, qualche volta con un pizzico di denaro pubblico.
Costi inferiori degli immobili e della manodopera, spesso solo una frazione di quelli della Capitale, e lavoratori formati, contribuiscono ad offrire solide basi economiche a questo trasferimento di interesse da Londra. Aiutano anche i solidi collegamenti nei trasporti, e la congestione inferiore a quella della Capitale. E l’alta qualità della vita, la vicinanza alla costa, i magnifici parchi naturali del Lake District o del Peak District, ad esempio, possono essere un enorme incentivo.
Questo rinascimento urbano non è arrivato certo dappertutto, ovviamente: ci sono ancora sacche di alta disoccupazione e stenti sparse per il Regno Unito, non toccate dalla ripresa economica degli ultimi anni.
E nonostante la quantità di impressionanti vicende positive, sarebbe pericoloso dare per scontata la ripresa di queste regioni. Le RDA [ Regional Development Authorities n.d.T.] sono in concorrenza per gli investimenti non soltanto con Londra o Francoforte, ma anche con la Repubblica Ceca, la Polonia, che ora fanno parte della nuova Unione Europea allargata: oltre che con la Cina o l’India, i giganti low-cost in rapida crescita economica nell’estremo oriente.
Le capacità dei lavoratori britannici, l’inventività degli imprenditori, la qualità della vita, diventeranno sempre più importanti perché le attività arrivate in questi luoghi possano mettere radici profonde e prosperare.
Nei giorni in cui la banlieue della sua Parigi bruciava, Renzo Piano lavorava alla nuova sede della Columbia University a Harlem, il simbolo dei ghetti che sta diventando uno dei motori del rilancio di New York. L’immagine basta a illustrare l’abisso di attenzione che separa gli Stati Uniti e la vecchia Europa sul problema delle periferie. Passata la rivolta, il rischio è di dimenticare, in attesa del prossimo incendio. Il ruolo di ambasciatore Unesco per le città e le decine di progetti sparsi in quattro continenti, hanno portato Piano a conoscere come forse nessun altro le periferie del mondo. O come dice lui, «un mondo di città spesso ridotte a una sconfinata periferia».
Cominciamo naturalmente dalla banlieue francese, una rivolta annunciata. Si è citato molto un bel film, L’Odio, ma si potrebbe parlare anche di decine di tesi di laurea. Lei stesso, l’anno scorso, aveva lanciato l’allarme.
«È spiacevole fare ora il grillo parlante ma non occorreva essere profeti. Il problema delle banlieues è che sono ghetti di cui quasi nessuno in Francia si vergogna. Non la destra ma nemmeno la sinistra. È raro trovare un paese dove l’intera classe dirigente rimane così indifferente ai problemi dell’integrazione. È un dramma che la Francia vive dai tempi della guerra d’Algeria. Ogni tanto esplode, se ne discute un po’ e si torna a rimuoverlo. La rivolta è già stata archiviata da Sarkozy come "opera della solita feccia". Ora non dico che non ci siano i teppisti. Ma la feccia esiste anche nella Parigi borghese o nella Milano bene. Se diventa la guida di una rivolta, è evidente che il problema non si risolve soltanto con una brillante operazione di polizia».
La banlieue parigina non è più povera di altre periferie europee, per non dire delle bidonville di mezzo pianeta. E allora perché tanta disperazione?
«Non è una questione di estrema povertà ma di esclusione, di negazione dell’identità che produce odio. Tutte le città sono egoiste, tendono a trattenere nel centro le attività d’interesse e a relegare le periferie nel ruolo di dormitori. Ma le città francesi sono particolarmente ingenerose nei confronti delle periferie, ridotte a deserti affettivi dove non c’è nulla da fare, nulla in cui sperare. Sarebbe facile dire che si tratta di un fallimento della politica della destra, ma ripeto che neppure ai tempi di Jospin s’era fatto molto. Magari le rivolte servissero a far nascere una sinistra nuova»
Romano Prodi ha detto che una rivolta potrebbe scatenarsi anche nelle periferie italiane. È d’accordo?
«No. Con tutta la stima che ho per Prodi, stavolta sbaglia. Anche se l’approssimazione della politica rischia di innescare la miccia. Bisognerebbe cercare di non ripetere gli errori dei francesi. Ma almeno i nostri politici si pongono il problema, sia pure in maniera maldestra».
Più che altro si fanno grandi annunci, splendidi convegni, pose di prime pietre. Sono vent’anni che si sente parlare del recupero dell’hinterland milanese o delle barriere torinesi ma il paesaggio delle periferie del Nord rimane un dopoguerra industriale, con gli stabilimenti ormai ruderi. E fra le rovine s’avanza una nuova umanità di mutanti, dimenticati da tutti.
«Il problema in Italia è che la politica fa molto spettacolo. Quando Umberto Veronesi era ministro avevamo studiato insieme un progetto per portare nelle periferie gli ospedali. Un lavoro magnifico, avevamo raccolto un consenso entusiastico e bipartisan, poi al cambio di ministero si sono dileguati. Con i sindaci va un po’ meglio. Per esempio i progetti di Ponte Lambro a Milano e soprattutto del recupero del waterfront di Genova - una specie di risarcimento storico del Ponente industriale - vanno avanti, magari lentamente. Soltanto che la politica italiana è scandita dai tempi elettorali e queste non sono faccende da taglio dei nastri alla vigilia del voto. Dove si lavora meglio è nei piccoli centri. A Sesto San Giovanni per esempio, l’ex Stalingrado d’Italia, ho trovato finalmente la libertà di progettare un nuovo modello di trasformazione, con grandi centri di ricerca, parchi, vivaio d’imprese ad alta tecnologia. Soprattutto la libertà di cominciare il lavoro rifiutando la soluzione convenzionale per il recupero delle aree industriali: il centro commerciale. Per carità, basta con gli shopping center»
Le periferie che in Europa sono un problema in America diventano un’occasione. La metamorfosi di Harlem è affascinante, da ghetto a nuova frontiera di Manhattan, con i politici che fanno la fila per aprire i loro uffici, a partire da Bill Clinton, la Columbia University che progetta una grande sede. Che cosa è successo?
«È vero, Harlem è in qualche modo la risposta alle banlieue. È successo che la politica ha imboccato decisamente la strada opposta, quella dell’apertura, dell’investimento nel futuro. Forse perché gli americani hanno avuto le rivolte prima di noi, hanno imparato la lezione. Oppure perché la cultura delle periferie ha avuto successo, pensiamo al rap, alla street dance di West Harlem. Conta anche il coraggio della classe dirigente. A chiamarmi per la nuova sede di Harlem è stato il presidente della Columbia, Lee Bollinger. È stata sua l’idea di portare l’università dove scorre la vita, nel cuore della realtà, piuttosto che in un bel campus con parchi e piscine. Ed è un’emozione straordinaria costruire una biblioteca nella piazza che negli anni Sessanta fu il quartier generale dei Black Panthers. Ma anche il sindaco di Atlanta, Sherley Franklyn, una donna di colore che conosce bene i ghetti, sta puntando tutte le risorse nella creazione di un campus culturale. Lo stesso accade a Los Angeles, che è una specie di metafora della periferia universale, una città gigantesca e senza centro. Qui per la prima volta togliamo un immenso parcheggio sul Wilshire Boulevard per fare una piazza e un parco intorno al museo»
E in Europa invece non si muove nulla. Ma c’è anche una responsabilità degli architetti?
«Il dibattito in architettura di questi ultimi anni è deprimente. Troppo ruota intorno all’equazione fra architettura e scultura. Una colossale perdita di tempo oltre che un’idiozia pericolosa. Sarebbe bene troncare questi tormenti da artistoidi e tornare a occuparsi di faccende serie come appunto le periferie. Il mestiere di architetto serve in definitiva a far vivere meglio la gente, non a mettere il proprio segno sul paesaggio. Un architetto deve parlare con la gente, esplorare la città, capire i cambiamenti, altrimenti a che diavolo dà forma?»
Lei parla di periferie del mondo, di periferia universale contrapposta all’idea stessa di città.
«Non è un’astrazione ma un richiamo ai valori che formano la città e dunque la nostra civiltà. Lo stesso termine periferia ormai è ambiguo, più aggettivo che sostantivo. Che cos’è, dov’è la periferia? È il luogo dove i valori della città muoiono. Può esserci periferia anche nel cuore di una metropoli. Nella mia esperienza, il plateau Beaubourg prima del centro Pompidou, oppure Postdamerplatz a Berlino o ancora la zona dell’Auditorium a Roma, pur non essendo ai margini, erano pezzi di periferia imprigionati nel tessuto urbano. Luoghi dove erano spariti i valori della città, l’incontro, il lavoro, lo scambio fisico. Quei valori della città che per estensione diventano urbanità, civitas. E quando mancano producono odio. A Beabourg, Postdamer, l’Auditorium c’è un tratto comune che si potrebbe definire di allegria urbana. Sono luoghi allegri, vitali, al di là delle diverse e legittime opinioni estetiche dei critici».
Esiste un sistema per ridare vita a luoghi spenti?
«La questione è considerare una piazza, una strada, un parco dal punto di vista di chi ci deve andare. Non da quello del committente o del critico o dell’architetto che progetta. Le città sono lo specchio della nostra società e dunque oggi stanno perdendo i luoghi d’appartenenza, di partecipazione. Diventano città virtuali, dove ci si limita a guardare e a essere guardati. Allora le differenze diventano una minaccia. La banlieue è il punto in cui questo processo di negazione dell’identità collettiva è massimo e disperato. Perché stupirsi se in questo deserto di confine avanzano i barbari?»
Renzo Piano è certamente un bravo architetto e un uomo intelligente. Dovendo intervistare un architetto, la scelta del giornale è ragionevole. Ma possibile che sulle periferie ci si appelli esclusivamente a questi professionisti e non, per esempio, a sociologi o, addirittura, ad urbanisti? Poi è inevitabile che il problema delle periferie venga presentato come necessità di buone architetture (magari entrando in contraddizione con la critica al formalismo dell’architettura di oggi). O che si arrivi ad auspicare come modello una Harlem che ha assunto certamente maggiore vivibilità, ma solo perchè si è lasciata mano libera al mercato, il quale ha esportato un po’ più in là i ghetti. Il problema delle periferie, italiane o francesi che siano, è quello della capacità di governare il territorio con una pianificazione efficace e dotata di risorse, non di costruire qua e là qualche oggetto più o meno bello.
Come Robin Hood non ha voluto sentire ragioni. Ha preso ai ricchi, quelli che in piena emergenza abitativa si permettono il lusso di tenere le case sfitte, per destinarli ai poveri, i tanti sfrattati che nella zona di Cinecittà chiedono un tetto dove dormire. E così ieri Sandro Medici, minisindaco del X municipio, si è beccato un´accusa per abuso d´ufficio: la procura ha aperto un fascicolo sulla vicenda dei 12 appartamenti vuoti in via Lucio Calpurnio Bibulo 13 requisiti temporaneamente dal municipio, iscrivendo nel registro degli indagati il presidente, firmatario dell´ordinanza. Gli accertamenti, affidati ai pm Vitello e Palaia, sono partiti sulla base di una segnalazione della Digos.
«Vedremo come va a finire», replica Medici per nulla intimorito, «anche se la tempestività dell´inchiesta dice almeno una cosa: che abbiamo toccato l´intoccabile, ovvero il patrimonio immobiliare inutilizzato, uno scandalo tutto italiano che consente ad alcune persone di non rispondere a una responsabilità sociale per godere di fonti di reddito e di guadagno parassitarie». Ostenta serenità il minisindaco eletto come indipendente nelle fila di Rifondazione: «Io penso di aver fatto solo il mio dovere di amministratore: da qui a giugno nel mio municipio dovrebbero essere eseguiti qualcosa come 2.000 sfratti. Sono convinto che i diritti sociali non possono essere trattati come gli altri diritti, perciò non è giusto che siano oggetto di inchieste giudiziarie».
Un´iniziativa però sostenuta solo da Rifondazione e dal consigliere comunale "disobbediente" Nunzio D´Erme. La Cdl ha chiesto le immediate dimissioni di Medici. E anche il Campidoglio, per bocca dell´assessore al Patrimonio Claudio Minelli, prende le distanze: «I provvedimenti di requisizione hanno un significato di protesta di fronte al dramma acutissimo dell´emergenza casa, ma non possono rappresentare, in fatto di politica abitativa, una scelta di governo».
Titolo originale: Bursting boom town holds key to a stable China – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
KORLA, CINA – L’aeroplano a elica pieno di uomini d’affari plana su questa un tempo sonnolenta città-oasi nell’estremo ovest della Cina, volando basso sulla spettacolare catena delle montagne Tian Shan, ora coperte di neve.
Nel minuscolo, primitivo aeroporto, dove si deve aspettare all’aperto nel freddo pungente per i bagagli, un cartellone sopra lo scassato terminal annuncia chiaramente che qualcosa è cambiato: dice “ Hotel Petrolio”, in cinese, inglese, e nella grafia araba usata dalla minoranza regionale etnica Uighur.
Di notte, le fiamme dai nuovi campi petroliferi accendono l’orizzonte lungo strade desolate che si diramano in ogni direzione da questa città sui margini di uno dei più vasti deserti del mondo, il Taklimakan.
Di giorno, i treni scaricano passeggeri: i nuovi arrivati migranti cinesi dalle affollate campagne dell’est, o nella stagione dei raccolti i lavoratori giornalieri a decine di migliaia, per raccogliere il cotone e la frutta che cresce nelle distese di proprietà dei grandi investitori della costa orientale.
Queste brulicanti “ insta-cities” sono piuttosto comuni sulla prospera costa orientale. Ma in molti modi quello che sta accadendo a Korla e nelle altre città simili nella Regione Autonoma dello Xinjiang Uighur è molto più impressionante. E a un livello che pochi sospettano la nell’est, il futuro del paese dipende dal successo qui.
La Cina ha una sete inesauribile di petrolio e gas, e lo Xinjiang li produce entrambi in quantità sempre maggiori. In più, grazie alla vicinanza all’Asia Centrale, la regione è diventata il percorso preferito degli oleodotti dal Kazakhstan e oltre.
Dato che questa è la regione o provincia più vasta della Cina in termini di superficie, abitata dalla principale minoranza di popolazione musulmana, quello che succede in Xinjiang è cruciale per la futura stabilità del paese. Come per il Tibet a sud, il controllo cinese sullo Xinjiang è piuttosto recente. Molti delle minoranze Uighur e Kazakh aspirano da lungo tempo all’indipendenza.
Pechino ha represso duramente il separatismo e ha vietato le scuole religiose in Xinjiang, per paura che potessero fomentare radicalismo e separatismo islamico. Ma ora, come accade altrove in Cina, il governo sembra scommettere sulla forte crescita economica come il modo migliore per consolidare il proprio controllo.
Le recenti scoperte petrolifere nella regione hanno certamente creato un’atmosfera di fiducia fra politici e mondo degli affari, in gran parte proveniente dall’est. La produzione di gas naturale è raddoppiata negli ultimi cinque anni, e quella di petrolio sta pure crescendo velocemente, in particolare nel vicino bacino del Tarim.
”Questo posto pompa e brilla” racconta Jim Scott, esuberante americano che trascorre la maggior parte dell’anno in Xinjiang, a vendere valvole ad alta pressione e altri macchinari per l’industria estrattiva alle compagnie cinesi. “Ve lo garantisco, qui c’è un boom in corso. Ci sono più trivellazioni e ricerche di quanto possiate immaginare”.
Oltre agli stranieri del petrolio, l’esplosione estrattiva sta attirando migliaia di imprenditori cinesi dalle città costiere, come Shanghai.
Alcuni arrivano già ricchi, pronti a investire. Altri, come Qian Bolun, 36 anni, che abita qui da 15, cercava fortuna a Korla quando era poco più di un villaggio polveroso.
Un tempo il livello di affari auspicato da Qian era passare da bevande per un quinto di yuan (15 cents), a quelle da uno yuan. Ora tratta esclusivamente prodotti come generatori industriali, trattori, attrezzature per l’estrazione.
La nuova economia del petrolio ha lasciato il segno dappertutto a Korla, dai grandi magazzini e centri commerciali allineati lungo l’ampia via del centro, fino al grande quartiere dei locali notturni immerso nella luce dei neon dopo il tramonto.
Ora la città ha 420.000 abitanti, e cresce di 20.000 all’anno.
Con tutti questi successi economici, i problemi con le minoranze a Korla non sono stati risolti, ma semplicemente accantonati. Lungo le strade del quartiere centrale, i negozi gestiti da Uighur sono una rarità, e gli stessi Uighur in giro sono pochi. Al di là del fiume che taglia la città in due, tra parte vecchia e nuova, la proporzione si inverte.
”Gli Uighur di solito non tengono una vetrina. Affittano uno spazio d’angolo” dice Hao Lin, 32 anni, commerciante di personal computer in un nuovo centro commerciale specializzato in informatica. “I loro clienti sono Uighur. Molto pochi di loro fanno affari con la compagnia petrolifera Tarim. Quelli li fanno gli Han”, ovvero membri, come lui, del principale gruppo etnico cinese.
In una bottega di barbiere al di là del fiume rispetto al centro città, tre uomini Uighur siedono davanti a una stufa a carbone.
”Ho studiato all’università di Urumqi” la capitale provinciale “per tre anni, ingegneria meccanica” dice il barbiere Uighur, Yasen Keyimu, 25anni, “ma non riesco a trovare un lavoro nell’industria petrolifera. Tanta formazione superiore, e non trovo lavoro”.
La metropoli di ieri che contiene quella di domani, è la sua filosofia, l'assunto per dare un futuro vivibile al nostro passato. Pier Luigi Cervellati ha legato il suo nome a grandi progetti di recupero dei centri storici e dedicato la vita a salvare l'anima alle città per una modernità non da perseguire, ma da proiettare culturalmente.
Una giustizia senza debolezza. È questa la soluzione per arginare la rivolta delle banlieues parigine?
La giustizia, che non deve essere né forte né debole, ma solo giustizia, dev'essere fatta nei confronti degli emarginati. Violenza è la stessa banlieue. L'unica soluzione è eliminare il degrado, l'emarginazione, invece si continua a produrre periferie anche nei centri.
Quali invece le cause di disagio delle città italiane?
La perdita del senso della città intesa come bene comune, la massiccia privatizzazione di ciò che apparteneva alla comunità. Cattive amministrazioni locali, pessimi indirizzi statali, fameliche speculazioni, immobiliaristi che si arricchiscono producendo periferia e piani regolatori sbagliati hanno finito per omogenizzare i centri urbani. Siamo uno dei paesi con il maggior numero di case in proprietà. Le strade un tempo luogo di convivenza sono occupate da auto in sosta o in movimento. I luoghi pubblici sono scarsi e in genere lontani, squallidi.
E allora in che modo si possono fare interventi seri con l'edilizia?
In realtà bisognerebbe per almeno un decennio non produrre edilizia, ma recuperare, riqualificare.
Nelle città italiane esiste un disegno urbanistico complessivo?
No purtroppo. E la legge cosiddetta “Merli” [evidentemente Lupi - es] discussa da un ramo del parlamento, senza troppa opposizione, è una tale catastrofe da far temere che se sarà approvata, l'urbanistica italiana sarà materia solo di storia del recente passato.
Qualità dell'architettura e condono. Sarebbe interessante capire la relazione considerato che si profila il terzo condono edilizio in 18 anni.
La bella architettura è un miserabile paravento. Quando non si ha un'idea del futuro della città si ricorre alla bella architettura. Quando si vuol far passare indenne un nuovo condono edilizio, si ricorre al concorso di bella architettura. Chissà perché non si parla mai di città bella, perché non si parla di città. Di che significato, oggi, attribuiamo a questo termine. Eppure siamo in una fase cruciale per il futuro dei centri urbani per il nostro stesso avvenire.
Priva di zone d'espansione, Cagliari vede riempito con il cemento ogni suo spazio. Parcheggi multipiano, centri commerciali, zone residenziali. Quale futuro?
Cagliari ha rinunciato (o non ha saputo o voluto) alla costruzione della città metropolitana. Eppure era avvantaggiata dalla separazione di alcuni comuni che erano stati incorporati nei primi decenni del Novecento. Le cause sono molte. Il Comune maggiore non vuole raccordarsi con quelli minori che ha trattato per decenni come discariche. Sarebbe indispensabile pianificare - e Cagliari potrebbe diventare un esempio straordinario - la città di città. Città metropolitana non significa “grande città” bensì, città mad re . Ma il capoluogo stenta a decentrare quello che ritiene la sua forza, il suo potere, economico soprattutto, e così paga il prezzo della congestione. Produce solo periferia e non capisce che sta diventando essa stessa banlieue. La città di città richiede saggezza amministrativa, volontà pianificatoria, capacità di coordinarsi nell'interesse comune, nel bene della collettività. La perdita di abitanti che si sta registrando nel centro costituisce la premessa per accentuare la perdita del senso di città. Il centro non può essere scambiato per un super mercato con parcheggi, così operando, Cagliari, come luogo di convivenza civile, non esisterà più. Ma non diventerà neanche un centro direzionale e commerciale importante, ma solo uno dei tanti luoghi sparsi nel mondo soffocato dalla periferia. Il capoluogo sardo nell'ultimo decennio ha perduto la sua identità, la sua anima. Ci dobbiamo chiedere: in cambio di cosa?
Non è facile descrivere la vulnerabilità del territorio italiano, meglio di quanto lo faccia l'immagine di quel vagone sospeso nel vuoto. Essa spiega molte cose.
Ci dice che, le piogge concentrate e dalle conseguenze sempre più disastrose, (in una settimana piove quanto in un intero anno) sono figlie di un cambiamento climatico che nessuno sembra voler seriamente affrontare.
Ma quell'immagine non ci racconta solo di ritardi ed inadempienze, evidenzia anche colpe e responsabilità: di tante infrastrutture costruite in aree a rischio o di interi territori incapaci di assorbire le piogge perché ricoperti di cemento ed asfalto.
E più quella foto la si guarda e più ci dice che la riduzione e la prevenzione del rischio nel quale viviamo è una priorità assoluta di un programma di governo. Farne però una priorità non significa definire un elenco di opere, di appalti o soldi da distribuire, ma prendere un insieme di decisioni che affermino che sono finiti gli usi speculativi ed abusivi del territorio, per lasciare il posto a quelli sostenibili.
Nel corso di questi anni questo giornale ha più volte ripetuto che la principale opera pubblica da fare, in questo paese, è un piano di riassetto idrogeologico.
Quel treno sospeso nel vuoto rappresenta con forza l'Italia che ci lascia Berlusconi.
Non basterà però cacciarlo, per avere un territorio più sicuro, se il governo che gli succederà non saprà affermare una nuova cultura della terra e delle acque. Una cultura fatta di tre ingredienti: conoscenza (elaborare in un anno una carta geologica a scala 1:5000 che fornisca una mappa vera del rischio) di prevenzione (misure di salvaguardia, vincoli, delocalizzazioni e revisione delle concessioni) e di manutenzione diffusa della terra e delle acque (piani di rimboschimento, lotta agli incendi, demolizioni delle case abusive).
Una cultura che per affermarsi ha però bisogno di una moratoria o almeno un ripensamento concreto delle decisioni prese di ulteriore infrastrutturazione pesante del paese (come ad esempio le nuove autostrade, il Mose, il ponte sullo stretto).
Speriamo, che la fortuna e la bravura dei macchinisti, che hanno fermato quel treno sull'orlo del baratro, facciano capire a Romano Prodi che il declino di questo paese può essere fermato e che il riassetto idrogeologico del territorio è il patto con gli italiani che s'impegna a sottoscrivere.
Titolo originale: Chicago’s “Mayor for Life” seems less so - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
CHICAGO – il sindaco Richard M. Daley stava spiegando il superamento per 48 milioni di dollari del costo di un terminal all’Aeroporto Internazionale O’Hare quando un frequentatore regolare delle sue conferenze stampa ha chiesto se, fra cinque o dieci anni, presenterà scuse del genere per il fatto che il suo ampliamento dell’aeroporto da 15 miliardi ha sforato il preventivo.
“Sarò ancora qui, fra cinque o dieci anni?” l’ha interrotto Daley, cercando di sfuggire alla questione con un sussulto di sorpresa. “Grazie!”
Nel passato, nessuno avrebbe messo in dubbio la longevità di Daley, un Democratico i cui incredibili margini di vantaggio in quattro rielezioni gli hanno fatto ereditare il titolo originariamente appartenente a suo padre, il leggendario boss politico Richard J. Daley: Sindaco a Vita. Le cose sono cambiate quest’anno con l’esplodere di un enorme scandalo di corruzione su consulenze e contratti che ha portato a 30 incriminazioni, una dozzina di dimissioni dal gabinetto del sindaco, e all’interrogatorio dello stesso Daley dai magistrati federali.
Ora, anche se Daley continua ad essere celebrato a livello nazionale come il miglior primo cittadino degli Stati Uniti – audace e visionario costruttore che ha rivitalizzato il centro e rinnovato le scuole pubbliche – si trova di fronte a un’opposizione senza precedenti in un Consiglio che controllava da lungo tempo, e potrebbe trovarsi di fronte il primo serio sfidante alle elezioni da quando è entrato in carica.
Burbero e sarcastico, propenso alle gaffes, il sessantatreenne Daley in quest’ultimo difficile anno è pubblicamente scoppiato in lacrime e di rabbia, ma si scrolla di dosso qualunque traccia degli scandali quando afferma in una intervista recente “Si va avanti, non si può vivere nel passato”.
Così continua a parlare della sua passione di sempre, l’istruzione, o della nuova ossessione, la concorrenza della Cina. Ha festeggiato il trionfo nelle World Series dei suoi amati White Sox. E attraversando le strade dei più remoti quartieri della terza più grande città d’America, prende nota di lampioni rotti, fioriere vuote e recinzioni da riparare, assicurandosi poi personalmente che venga fatto.
Ma la corruzione è stata l’oggetto della prima domanda – cambierà la sua agenda? – dopo un discorso a un gruppo organizzato. La nomina di tre nuovi commissari lo scorso mese è stata oscurata dalle voci secondo cui c’erano problemi nell’attirare competenze al Municipio. Durante il suo ultimo discorso alla presentazione del bilancio annuale, c’erano manifestanti all’ingresso con cartelli che dicevano “Soldi per la gente, non per gli scandali”.
“Il suo guaio principale è col governo federale” dice John Callaway, osservatore di lunga data della politica cittadina ed ex conduttore di un programma di questioni pubbliche, “ Chicago Tonight”. “Chi sono le persone di grado più elevato sinora incriminate o sentite? Cosa diranno di quanto sapeva il sindaco, mentre lui dice di non sapere?”
I magistrati hanno dipinto un quadro di “frode pervasiva” nelle nomine, dicendo che la città sistematicamente ha violato le ordinanze della corte federale contro i favoritismi utilizzando criteri politici anziché di merito, come base per selezionare i candidati a incarichi pubblici. Il sindaco insiste di non essersi mai interessato di nomine, avendo spostato a un ufficio apposito tutte le decisioni sul personale, nominando anche un controllore interno con un grasso bilancio.
Il deputato Jesse Jackson Jr., figlio dell’altro famoso uomo politico cittadino e principale candidato alla carica di sindaco per il 2007, ha detto che secondo un sondaggio commissionato in novembre gli elettori si sentivano offesi dallo scandalo, ma che avevano ancora un elevato giudizio del sindaco.
“Cambiare il sindaco è come cambiare Chicago,” dice Jackson. “Tanta gente non vuole la corruzione, ma non vuole nemmeno cambiare la città”.
Chicago ha avuto un Sindaco Daley per tutti gli ultimi 50 anni, tranne 13: Richard Primo, come chiamano ora il padre, dal 1955 sino alla morte nel 1976, e “Little Richie,” il figlio maggiore, dal 1989. Richard M. firma documenti e posa per le foto dietro l’enorme scrivania di legno che fu di suo padre (e un ritratto di Richard J. guarda sul lungo tavolo riunioni dove il sindaco svolge gran parte del lavoro quotidiano, senza giacca).
Ex eletto all’assemblea statale e procuratore, Daley è stato allevato per questo incarico, e non aspira ad altro.
“Non vuole diventare governatore, senatore, presidente, vice presidente, membro di gabinetto, niente di tutto questo” dice suo fratello William Daley, segretario al commercio durante la presidenza di Bill Clinton e ora vicepresidente della banca Chase. “Il suo interesse è totalmente su una unica cosa: la città”.
Cattolico di origine irlandese, il sindaco non beve più caffè dall’anno scorso come fioretto di quaresima, sostituito da tè verde a colazione, succhi di frutta durante la giornata. Non guida una macchina da un quarto di secolo, ma percorre spesso le strade della città in bicicletta. È da poco nonno, e suo figlio è entrato da poco nell’Esercito; un altro figlio è morto di spina bifida a due anni.
Sostenuto da un’economia dei servizi in forte crescita e parallela caduta della criminalità negli anni ‘90, Daley ha guidato la rinascita di questa ex capitale industriale sulle coste del Lago Michigan, invertendo la perdita di popolazione con grossi investimenti nei quartieri più vicini al centro terziario, di cui è fra i 70.000 residenti con la moglie, fra gli edifici sviluppati in altezza e i lofts che sbocciano come fiori. Gioiello della corona, qui, il Millennium Park, pezzo da 475 milioni di dollari, esposizione di architetture e sculture che, nonostante il ritardo di quattro anni nell’inaugurazione e il costo doppio del preventivo, ha entusiasmato turisti, residenti e critici d’arte.
Nel 1995, Daley si è impossessato del controllo del consiglio scolastico, primo di molti altri sindaci di grandi città che l’hanno seguito. Ha pompato 4 miliardi dentro al sistema per realizzare 38 nuovi edifici, ha esteso i programmi pre-scolastici, post-scolastici ed estivi, portando a un costante aumento nei livelli standard di valutazione, che restano comunque bassi.
“Per quanto riguarda le scuole pubbliche, è stato davvero il nostro Mosé” dice J. Thomas Cochran, direttore della U.S. Conference of Mayors. “Con Daley abbiamo avuto due anni di valutazioni 101, 102, 103 e 104 delle scuole pubbliche. Dieci anni fa non ne parlavamo, ma lui ci ha insegnato che se non si fanno funzionare le scuole la gente abbandona le città”.
Lo stesso Daley afferma che “la priorità centrale di questa amministrazione, una e unica, sono le scuole pubbliche”.
L’eredità forse più tangibile di Daley è l’aspetto esteriore di Chicago, sia nei luccicanti quartieri centrali che nei numerosi quartieri popolari un tempo famigeratamente degradati. Da quando è entrato in carica, nella città si sono piantati 400.000 alberi, si sono aggiunti spazi verdi per 80 ettari, e realizzate fasce verdi stradali che si estendono per 110 chilometri. In primavera i viali sono tappezzati da migliaia di tulipani colorati, i fiori preferiti dalla moglie.
Fra le principali differenze col Sindaco Daley Primo, ci sono i profondi rapporti che ha saputo sviluppare con le minoranze, in una città i cui 2,9 milioni di abitanti sono per il 36% afroamericani, 31% bianchi, 26% ispanici. Eletto la prima volta col solo 2% del voto nero, ora ha il consenso di almeno il 25% dei neri, e ha evitato una vera opposizione, in questa città di tribù politiche etniche, almeno in parte investendo nei quartieri delle minoranze.
Ma Jackson dice che la Chicago di Daley è stata “la storia di due città” il centro brillante sul lungolago o i quartieri settentrionali che vantano “tre posti di lavoro per ogni persona”, e le parti meridionali (rappresentate da Jackson) “dove ci sono più o meno sessanta persone ogni posto di lavoro”.
I dissidenti, che di solito erano zittiti rapidamente, sull’onda degli scandali hanno iniziato a trovare seguito in Consiglio. Questo mese è stata approvata un’ordinanza che vieta il fumo nei ristoranti, a cui si opponevano il sindaco e i suoi sostenitori nel mondo degli affari.
Una proposta per introdurre contratti di privatizzazione è stata oggetto di numerose riunioni quest’estate, e sarà portata al voto probabilmente molto presto. Nelle assemblee sul bilancio, i membri del consiglio sono stati molto più critici di quanto non si ricordi sia mai accaduto prima, nei confronti sia del sindaco che dei suoi capi dipartimento.
Anche se sono stati i titoli di prima pagina di quest’anno sullo scandalo corruzione ad aver intaccato maggiormente il capitale politico di Daley, il punto di svolta è collocabile poco dopo la sua rielezione nel 2003 quando, nel cuore della notte, con decisione unilaterale chiuse Meigs Field, il piccolo aeroporto del centro città, mandando le ruspe a tagliare delle grandi X sulla pista.
Daley parlò di problemi di sicurezza legati agli attacchi terroristici del 2001, ma molti videro solo una mossa dittatoriale per realizzare il sogno a lungo coltivato di trasformare quell’aeroporto, vicino a casa sua, in un parco sul lungolago.
“La gente diceva lo so che è arrogante, lo so che ha troppo potere, lo so che non ha opposizione politica” ricorda Callaway, analista politico di lunga data, “ma è il modo in cui ha chiuso Meigs Field, credo, che ha spezzato la fiducia di molte persone”.
Secondo Callaway, Daley e suo padre condividono una grande debolezza: “non si fidano davvero di nessuno”. Ecco perché, dice, nessuno dei Daley ha fatto niente per allevarsi un successore.
Invece, Richard il Giovane ha iniziato ancora una raccolta di fondi e nominato un nuovo responsabile del comitato per la sua campagna.
Quando gli hanno chiesto se avrebbe concorso per un sesto mandato - e quindi a una durata superiore a quella di suo padre - Daley ha risposto “Il giorno in cui sarò stanco, mi ritirerò”.
Titolo originale:In Zimbabwe, Mugabe razes more than slums – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
BULAWAYO, Zimbabwe – il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe ha una parole per definire le notizie secondo cui l’operazione Drive Out Trash, campagna di demolizioni urbane mirata agli slum che il suo governo descrive come programma di miglioramento civico, abbia fatto dei cittadini più poveri dei senza casa.
”Sciocchezze” ha dichiarato alla ABC News in un’intervista trasmessa negli Stati Uniti il 3 novembre. “Migliaia, migliaia, migliaia. Dove sono queste migliaia? Andate là adesso e guardate se ci sono queste migliaia. Dove sono? Uno scherzo dell’immaginazione”.
Forse Mugabe non è stato a Bulawayo, la seconda città dello Zimbabwe, ultimamente.
Solo cinque chilometri a ovest del centro di Bulawayo, Robson Tembo e sua moglie, Ticole, vivono all’aria aperta in un piccolo recinto, 3,5x3,5 metri, fatto di pezzi di legno e rottami. File di sacchetti della spesa di plastica contengono la storia completa dei loro 72 anni.
Otto chilometri a nord, Nokuthula Dube, 22 anni, le sue due figlie e due piccoli parenti orfani se ne stanno accovacciati in una casa di due stanze non terminata fratta di cemento scadente. Quando di recente c’è andato un giornalista, c’era una sconosciuta rannicchiata sul pavimento dell’unico sgabuzzino, addormentata.
Nella parte opposta della città, Gertrude Moyo, 28 anni, vive coi suoi quattro bambini e sette altre famiglie nelle tende piantate fra i cespugli.
C’è più del solo essere senza casa, a legare queste tre famiglie. Fino a qualche mese fa, vivevano tutti a Killarney, una baraccopoli che ospitava i cittadini meno fortunati di Bulawayo sin dai primi anni ‘80.
Oggi, Killarney è un paesaggio lunare di terra cotta dal sole, sterpaglie e spazzatura bruciacchiata. Nello scorso maggio e giugno, i poliziotti hanno fatto a pezzi le baracche, bruciato quel che rimaneva, e cacciato via i più di 800 abitanti, nel quadro dell’Operazione Drive Out Trash.
”Avevano delle spranghe lunghe così” racconta Robson Tembo della polizia, allargando le mani. “Hanno demolito parzialmente tutte le capanne, e poi ci hanno ordinato di distruggere il resto”.
Dice di aver rifiutato, e che allora il lavoro è stato finito dalla polizia, che ha raso al suolo le sue due stanze fatte di pali di legno e pareti di metallo.
A più di cinque mesi dall’inizio delle demolizioni, il governo dello Zimbabwe insiste nell’affermare che la distruzione di 133.000 alloggi, secondo i suoi calcoli, è stata un’operazione di slum-clearance che era necessaria da lungo tempo, e che ha causato ai cittadini solo disagi temporanei.
Il governo sostiene che la gran massa di chi è stato privato dell’alloggio è stata trasferita verso i villaggi rurali dove viveva prima di migrare verso le città, soprattutto alla ricerca di lavoro. Altri, afferma, saranno collocati nelle migliaia di nuove case in corso di costruzione per sostituire le capanne illegali rase al suolo.
Mugabe ha respinto il tentativo delle Nazioni Unite di raccogliere 30 milioni di dollari per aiutare le vittime dell’Operazione Drive Out Trash, affermando che in Zimbabwe non c’è nessuna crisi. Nonostante l’appello pubblico del Segretario Generale ONU Kofi Annan, il 31 ottobre, il governo ha respinto qualunque sostegno che implichi propri cittadini in stato di disagio.
E pure molti lo sono, in stato di grave disagio. Sulla base delle stime del governo dello Zimbabwe, le Nazioni Unite affermano che sono state sgombrate 700.000 persone nel corso delle demolizioni di maggio e giugno, e della successiva campagna, Operazione Going Forward, No Turning Back, quando la polizia ha respinto quanti cercavano di ritornare verso le città e ricostruire.
Un’indagine di agosto su più di 23.000 famiglie dello Zimbabwe condotta da un gruppo di sostegno del Sud Africa, ActionAid International, calcola le persone private di abitazione sino a 1,2 milioni: più di uno su dieci Zimbabweani.
Dove siano finiti molti è un mistero. Il governo ne ha trasportati migliaia in campi di raccolta che poi sono stati smistati, e altre migliaia su camion sino all’aperta campagna, dove sono stati lasciati, apparentemente nei pressi delle loro abitazioni rurali. Si tratta di persone registrate dalle autorità locali, ma quasi certamente sono solo di una piccola parte del totale.
E allora, dove sono i senza casa?
“Questa è ciò che definisco una crisi umanitaria invisibile: invisibile agli occhi internazionali, e il motivo è che gli sgomberati sono stati dispersi” dice David Mwaniki, coordinatore di ActionAid in Zimbabwe.
Molti sono probabilmente con dei parenti; alcuni hanno lasciato il paese.
Altri sono nella savana, e sopravvivono della pietà dei vicini. Molti altri sono svaniti dentro a qualche catapecchia, tenda o casa costruita a metà.
Le Nazioni Unite affermano che 32.000 dei 675.000 abitanti di Bulawayo hanno perso la loro casa, ed è stato loro ordinato di andarsene dalla città durante la campagne di demolizione; i funzionari locali pubblici parlano di 45.000. Torden Moyo, che dirige un coordinamento di gruppi civici chiamato Bulawayo Agenda, sostiene che non ci sono dubbi su dove siano andati.
”Il novantanove per cento ora è tornato” dice. “Sono ancora nei guai, ancora senza casa, ancora senza un centesimo, senza un posto dove stare. Sono stati trasformati in profughi nel loro stesso paese”.
Killarney è la prova di tutto questo. Prima delle demolizioni, era povera sino all’osso ma viva, divisa in tre villaggi con negozi e servizi. Tutto questo è stato raso al suolo e bruciato. A nord-est della città, non lontano dalla strada per l’aeroporto di Bulawayo, ci sono una decina di piante di granturco e qualche vegetale che cresce in un orto improvvisato fuori dalla casa non terminata dove stanno Dube e la sua famiglia, ma cinque di loro sopravvivono con la farina donata da una vicina chiesa
Dube è tornata dalla scuola del nipote un giorno in giugno, e ha trovato la sua casa al Villaggio Uno di Killarney distrutta e in fiamme. Senza casa e incinta, ha perso il suo lavoro di donna delle pulizie in un vicino sobborgo. Suo marito, Nomen Moyo, ha dovuto andarsene per mantenere il lavoro di giardiniere. Dube racconta che lei e i bambini hanno camminato per settimane, dormendo sul ciglio della strada, prima di trovare il guscio dove vivono ora.
Ha settembre, Dube ha partorito una bambina, Mtokhozisi. Ha lasciato soli la figlia di tre anni, Nomathembe, e i due orfani, Pentronella di dieci e Kevin di quattordici, durante il parto in ospedale. Poi è tornata a casa a piedi con la neonata.
”Sono uscita al mattino” racconta “e tornata verso le 3”.
Qualche settimana fa è comparso un uomo.
“Voleva che ce ne andassimo” dice. “Sostiene che questa è la sua casa”.
Se le chiedete dove andranno risponde “Solo Dio lo sa”.
Dall’altra parte della città Moyo, che abitava da 23 anni a Killarney quando è stato sgombrata l’11 giugno, ora vive in una tenda tre metri per cinque coi suoi quattro bambini. Il marito è morto un anno fa. Dice che la polizia prima ha trasportato la famiglia in un campo di raccolta temporanea per senza casa, poi alla tenda. Moyo racconta che le hanno detto di aspettare per una nuova casa.
Il governo sta costruendo una schiera di case di fianco alla tenda, e si dice che siano per chi ha perso l’alloggio per le demolizioni. Moyo dice però che la polizia le detto che la sua famiglia non avrà una nuova casa, ma un pezzo di terra agricola a nord della città.
Nota: il testo originale ripreso dal sito dello Internationale Herald Tribune (f.b.)
Titolo originale: Can New Orleans survive its rebirth? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
NEW ORLEANS – L’ottimismo scarseggia da queste parti. E mentre la gente inizia a frugare nelle distruzioni lasciate dall’urgano Katrina, si insinua la sensazione che il colpo finale debba ancora arrivare, e che cancellerà irrevocabilmente il passato della città.
Il primo segno premonitore è comparso quando il sindaco C. Ray Nagin ha annunciato che il modello per la rinascita sarebbe stato quello dell’insediamento pseudo-suburbano chiamato River Garden, nel Lower Garden District. La sola idea ha allarmato i conservazionisti, che temono il rifacimento dei quartieri storici in forma di lottizzazioni senza carattere servite da negozi big-box.
Più di recente, Nagin ha preso in considerazione la possibilità di sospendere le norme di tutela storica, per rendere New Orleans più invitante per i costruttori: evocando così la possibilità di devastazioni architettoniche e avidità senza limiti.
Ma non sono solo politici e costruttori ad avere colpe, qui. Per decenni la mainstream architettonica ha accettato il presupposto che le città possano esistere in un punto fisso del tempo storico. Ne risulta una versione fiabesca della storia, le cui conseguenze potrebbero essere particolarmente gravi per New Orleans, che era già sulla buona strada per diventare un’immagine da cartoline del proprio passato anche prima che l’uragano colpisse.
Ora, con la città nelle condizioni più vulnerabili, queste voci minacciano di sovrastare tutte le altre. Un dibattito sulla ricostruzione della Costa del Golfo tenuto di recente in Mississippi [vedi link su Eddyburg a pie’ di pagina n.d.T.] è stato dominato dai sostenitori del New Urbanism, che esprime una visione sentimentale e storicista del funzionamento delle città. Nel frattempo chi sostiene una lettura più complessa della storia urbana – ovvero che comprenda la realtà del XX e XXI secolo oltre al fascino di New Orleans del XIX – rischia di essere relegata ai margini.
Il destino che minaccia la città si può verificare a River Garden, il modello futuro preferito dal sindaco. Poche settimane dopo la tempesta, ho attraversato la zona insieme a Wayne Troyer, architetto del luogo che si oppone alla visione del sindaco. Per suggerire alcune caratteristiche da quartiere tradizionale di New Orleans, qui le case sono progettate secondo una miscela di stili. C’è una fila di edifici a schiera su Laurel Street, con le ringhiere di ferro battuto che riprendono molto liberamente quelle del Quartiere Francese. Poco lontano, edifici bifamiliari un po’ più grandi sono modellati sui bungalows tradizionali, con tetti puntuti, portici poco profondi e finestre con persiane decorate a graziose tonalità di rosa, giallo, e azzurro.
Si vedono tutti i segni caratteristici di una lottizzazione suburbana convenzionale. I fili del telefono sono invisibili, sepolti, e le case un po’ più distanti una dall’altra delle loro corrispondenti nella New Orleans vera, per lasciar spazio all’ingresso pavimentato per l’auto. La maggior distanza vorrebbe offrire privacy ma fa pensare invece a diffidenza; il percorso per l’auto tiene la gente lontana dalla strada, e coltiva il senso di isolamento. L’indizio più evidente del fatto che siamo entrati in un ambiente surreale, è la vista di carrelli della spesa vuoti in mezzo ai prati. Vengono dal vicino Wal-Mart, che ha da tempo rimpiazzato i negozi locali in tutti gli Stati Uniti. Al giorno d’oggi, gli ubiqui scatoloni e insegne bianco-blu di Wal-Mart rappresentano la nostra ritirata dentro a un mondo sigillato e omogeneizzato.
Quello che manca del tutto, da River Garden, sono naturalmente i dettagli sottili della vita quotidiana, che si costruiscono nei decenni, e che pure quel quartiere afferma di avere.
A parere di Troyer, l’evidenza più visibile è tutto quel che rimane: cinque solidi edifici di mattoni, unica traccia del quartiere di case popolari St. Thomas Hope, costruito nei primi anni ‘40. Le forme semplici, sormontate da tetti in tegole piatte, rappresentano esattamente il tipo di edilizia pubblica disprezzato dai funzionari pubblici ai nostri giorni.
Ma per Troyer e molti altri architetti della sua generazione, le semplici strutture a tre piani, attorno a una piccola core centrale, hanno dimensioni umane che le distinguono dai grossi interventi. Anche coi propri difetti, riflettono un patto sociale – la promessa di una casa decorosa a basso costo per ogni cittadino – infranto molto tempo fa, e che molto probabilmente non sarà certo ricomposto dalla gentrification urbana.
E River Garden non rappresenta ancora lo scenario peggiore. Guidando lungo il canale industriale qualche giorno dopo, sono arrivato a Abundance Square, un quartiere residenziale per famiglie a redditi misti. Le strade nude del quartiere incrostate di fango sono fiancheggiate da abitazioni che vorrebbero evocare l’immagine di una comunità tradizionale. Ma qui, il risultato è una formula genericamente suburbana: case col medesimo aspetto a scatola, regolarmente separate dagli accessi per le auto, prati vuoti e un sistema di vie privatizzate.
L’argomento a favore di quartieri del genere, naturalmente, sarebbe che New Orleans deve essere ricostruita in fretta, e la formula delle case standardizzate è meglio di niente. È l’argomento delle aspettative troppo modeste, che serve gli interessi dei costruttori e priva la città di tutta la sua vita.
Il presupposto è che l’unica alternativa sarebbe quella di non far niente. Ma in realtà, il modo in cui gli architetti pensano alle città si è evoluto per un certo periodo di tempo; la questione è se la città voglia attingere alle risorse intellettuali che ha a disposizione. Stephanie Bruno, per esempio, dirige il progetto Comeback del Preservation Resource Center. Negli ultimi dieci anni il centro ha restaurato case di architettura vernacolare locale del XIX secolo dette shotgun e bungalows creoli nei quartieri più poveri della città. L’intero programma, rara miscela di conservazione e prospettiva sociale, era parte di una strategia più ampia per far risorgere le zone più povere. Legando continuità storica e orgoglio di appartenenza locale, dimostra che la rivitalizzazione urbana non può essere ridotta a formule ottuse.
Appena a su della St. Claude Avenue, nella Ninth Ward,molte delle abitazioni restaurate appaiono relativamente intatte dalla strada, anche se sono fortemente danneggiate all’interno. Comunque, molte possono ancora essere salvate, dato che sono costruite in acero, un legno duro che di solito resta intatto anche dopo le inondazioni.
Sarà un lavoro difficile, individuare cosa possa essere restaurato. Richiederà il tipo di sostegno pubblico che è diventato una rarità, in un paese che tende a mettere sullo stesso piano interessi privati e benessere collettivo. Quello che la signora Bruno e altri temono di più, è che queste case siano semplicemente spazzate via con le ruspe, come espediente per far spazio a insediamenti di grossa scala come Abundance Square (dopotutto, perché costruire una casa o due quando si può spazzar via un intero quartiere, ricostruirlo, e ammassare profitti enormi?)
Anche se si salveranno molte delle umili case shotgun della signora Bruno, i paesaggi urbani del XX secolo molto probabilmente troveranno pochi difensori. Realizzata nel catino a basso livello, la zona di Mid City simboleggia l’abbraccio della modernità. La sua mescolanza di bungalows in stile California case tardo-vittoriane, ora seriamente danneggiate, ha più elementi in comune con gli sterminati paesaggi di Los Angeles che con le immagini romantiche delle radici europee della città. E come tale, probabilmente sarà ignorata dai custodi locali del passato architettonico.
Solo per ritenere, magari, che gli stili storici rigidamente compartimentati della città possano essere riproposti entro quartieri interamente ricostruiti, sostenendo così una versione del passato in forma di parco a tema.
Senza dubbio grandi parti di New Orleans dovranno essere ricostruite dalle fondamenta. Ma i migliori architetti al lavoro, oggi, probabilmente guarderanno per ispirazione al cavernoso Superdome come alle spirali della Cattedrale di St. Louis. Perché comprendono come le innovazioni della città nel XX secolo – dai bungalows ai canali alle freeways – sono parte integrale della sua identità, tanto quanto l’architettura vernacolare del XIX.
Questo ci lascia meglio attrezzati ad affrontare le questioni della New Orleans del XXI secolo. Passato e futuro devono imparare a vivere insieme.
Nota: il testo originale ripreso dal sito dello International Herald Tribune; l’approccio dei Nuovi Urbanisti citato implicitamente più volte, qui su Eddyburg nell’articolo ripreso da New Urban News (f.b.)
Il centro-sinistra si sta spaccando le ossa sulla Tav Torino-Lione prima ancora di essere messo alla prova come maggioranza di un futuro governo. È quasi una beffa. La Tav Torino-Lione non si farà mai. È un’opera quattro volte più costosa del famigerato ponte sullo stretto di Messina; quattro volte più inutile quanto a volumi di traffico previsti (che anche artatamente gonfiati a 20milioni di tonnellate/ anno non coprono che la metà della capacità da installare); quattro volte tecnicamente più incerta quanto alla sua effettiva fattibilità tecnica: Il ponte rischia di lasciare dietro di sé solo due giganteschi piloni in cemento armato mozzi, con i ferri che spuntano dalle cime, come nei tanti edifici abusivi in attesa di sopraelevazione costruiti nel Mezzogiorno, senza che in mezzo venga steso nulla.
Quanto alla Tav Torino-Lione, nessuno sa ancora che cosa si troverà sotto quelle montagne; si sa comunque che la principale società di perforazione del mondo si è ritirata dall’affare - verosimilmente per le difficoltà incontrate - lasciando il suo posto alla Rocksoil del ministro Lunardi, debitamente nascosta dietro una catena di subappalti.
I costi della sicurezza
Non ho competenze per valutare i rischi connessi alla presenza di amianto e uranio nelle montagne da perforare; posso anche ammettere che esistano e si possano attivare a costi abbordabili interventi di contenimento del rischio (ma qui parlare di costi significa comunque mettere in gioco una montagna quasi inimmaginabile di denaro). Ma per un’opera che promette di trasformare un’intera valle - già dissestata da una viabilità quasi esclusivamente di transito (cioè senza ricadute economiche o sociali di qualche peso) ñ in un cantiere della durata programmata di oltre 13-15 anni, destinati verosimilmente, sulla base di tutte le esperienze pregresse, a raddoppiare, e per il quale si prevede di scaricare sul fondo valle diversi milioni di tonnellate di detriti inquinati e inquinanti, una verifica seria sulle alternative praticabili con interventi meno pesanti sarebbe stata doverosa.
Molti esperti, compreso il presidente delle Ferrovie dello Stato, fautore del progetto, ci dicono che questa alternativa non solo è praticabile, ma è già in parte in corso di realizzazione, e porterà in pochi anni la capacità di trasporto dell’attuale linea Torino-Lione vicino al livello del traffico “previsto” tra venti anni per la Tav Torino-Lione. Ma questa alternativa non è stata inserita nella valutazione di impatto che ha dato il benestare al nuovo progetto; valutazione peraltro mai portata a termine, in violazione della normativa dell’Unione europea, grazie all’esenzione prevista dalla Legge-obiettivo del ministro Lunardi. Ma chi ha detto che il traffico effettivo di merci tra Torino e Lione tra venticinque anni (2030) corrisponderà quello programmato? L’alta velocità Torino-Lione è stata pensata come linea di trasporto passeggeri, e inclusa come tale nel Libro bianco della Commissione europea Crescita, Competitività, Occupazione, noto come Rapporto Delors, che risale al 1994; solo successivamente è stata estesa al trasporto merci come tratta del corridoio 5, trasformandola in una cosiddetta “autostrada ferroviaria”: cioè una tratta lungo la quale i tir in transito sullo stesso itinerario dovrebbero essere caricati su vagoni (in uno scalo ancora da definire, prossimo a Torino), per poi esserne scaricati una volta superata la tratta alpina francese; o viceversa.
Una soluzione che dal 2016 sarà obbligatoria per tutti i tir in transito attraverso la Svizzera, indotta a questa soluzione dal fatto che prima e dopo l’attraversamento del suo territorio, cioè in Francia, Germania e soprattutto in Italia, i tir che effettuano trasporti anche di lunga percorrenza sono liberi di circolare ovunque.
E i tir scorrazzano liberi
L’impossibilità di adottare la stessa soluzione lungo l’attuale tratta ferroviaria, anche rimodernata, è la principale ragione addotta per giustificare l’opera. Ma caricare i tir su una singola tratta, quando sono liberi di scorrazzare nel resto del paese, non ha ovviamente lo stesso significato che proibirne o limitarne il transito di lunga percorrenza su tutto il territorio nazionale. E se limitazioni del genere fossero introdotte anche in Italia, il concetto stesso di autostrada ferroviaria non avrebbe più alcun senso. Che cosa c’entri poi l’alta velocità - che fa guadagnare al massimo due o tre ore lungo il percorso, ma che ne impiega molte di più nelle operazioni di carico e scarico dei tir con il trasporto pesante di merci, nessuno lo ha ancora spiegato. Ma anche il cosiddetto corridoio 5 Lisbona- Kiev è puramente virtuale, non molto diverso dalle linee tracciate con il pennarello da Berlusconi quando illustrava a Bruno Vespa il suo programma. Intanto, tutta la tratta del corridoio a est di Trieste, che potrebbe avere un ruolo fondamentale nel rilancio del suo porto, non è neppure in fase di progettazione, per non parlare del suo finanziamento, non incluso in alcuna previsione budgetaria dell’Unione europea o dei paesi interessati.
In secondo luogo, non esiste alcun traffico di merci pesanti tra Lisbona e Kiev o viceversa. Esiste un intenso traffico in crescita - di merci provenienti dall’estremo o dal medio Oriente, che sbarcano e sbarcheranno sempre più nei porti del Mediterraneo: Barcellona, Marsiglia, Genova, Ravenna e Trieste; ma anche, dopo il trasbordo, Livorno, Napoli, Gioia Tauro, Atene, Bari, ecc. Queste merci poi prendono la via del nord e del centro Europa, o dell’Europa dell’est, risparmiandosi così, fino a che l’effetto serra non avrà sciolto completamente i ghiacci dell’Artico, la circumnavigazione dell’Europa per arrivare a Le Havre, Rotteram e Amburgo. E viceversa.
I“corridoi” che servono questo traffico sono già tutti in funzione (Tarvisio, Brennero, Gottardo, Sempione) o di prossima apertura (Loetchberg) e in via di potenziamento; il che contribuirà non poco a ridurre ulteriormente il traffico in transito tra Torino e Lione. Basta comunque guardare una cartina geografica per capire che la Torino-Lione non è che il più periferico degli itinerari nord-sud; tanto è vero che per raggiungere Lione il collegamento virtuale tra Lisbona e Kiev deve compiere una vistosissima deviazione verso nord.
L’autostrada ferroviaria
In terzo luogo, per trasformare la Tav Torino- Lione in un’”autostrada ferroviaria” occorre che i tir e i loro autisti siano disposti a salirci sopra (a pagamento). Per questo la presidente della Regione Piemonte, schierata a favore del progetto, continua a chiedere “garanzie”: il che vuol dire rendere la cosa obbligatoria. Ma finché non si riforma il trasporto autostradale - oggi in mano a decine di migliaia di padroncini, italiani e sempre più est-europei, peraltro tutti in subappalto, attraverso una catena spesso assai lunga, dei grandi operatori multinazionali della logistica, quasi tutti stranieri inducendoli ad associarsi per ottimizzare carichi, percorsi, consegne e veicoli, sarà ben difficile per governi, di destra e di sinistra, costringere i tir a salire su un vagone. Tanto più che quei governi, finora, non sono stati capaci nemmeno di abolire gli sconti sulle accise del combustibile, perché questi operatori sono in grado di bloccare immediatamente, per protesta, tutti valichi interni e internazionali del paese.
Una vera intermodalità
In quarto luogo, la riforma del trasporto nasce di qui: non accoppiando treni e tir lungo i valichi, o navi e tir nel trasporto marittimo, facendo salire gli uni sugli altri, raddoppiando così vettori e costi; ma promuovendo una vera intermodalità, che permetta di disaccoppiare le motrici dai rimorchi (o dai container che trasportano); di caricare sui treni e sulle navi soltanto questi ultimi, e di farli riagganciare, alla stazione di arrivo, da altre motrici: operazione molto semplice dal punto di vista tecnico; complicatissima in termini economici e organizzativi. Perché presuppone strutture consortili, anche internazionali, che oggi non ci sono, ma che potrebbero essere l’unico argine contro il supersfruttamento dei “padroncini” da parte delle multinazionali del trasporto.
Questo ci riporta al concetto di “corridoio”, che non è solo né soprattutto un tracciato ferroviario o stradale (o entrambi), bensì un sistema logistico di cui i tracciati, debitamente attrezzati, potenziati e messi in sicurezza, non sono che una componente. Ci vogliono poi operatori logistici in grado di valorizzare le opportunità offerte dall’intermodalità, interporti per lo scambio intermodale tra i diversi vettori e tra il trasporto di lunga percorrenza e quello di prossimità; e centri logistici per le rotture e le ricomposizioni dei carichi (comprese molte operazioni di assemblaggio e disassemblaggio di componenti, che è assai opportuno effettuare in questi centri).
Mentre quello che si sa è che la Tav Torino- Lione salterà l’efficiente interporto torinese di Orbassano, per costruirne (forse) uno ancora tutto da progettare e finanziare vicino a Chivasso; che per l’utilizzo dell’”autostrada ferroviaria” non è prevista alcuna “garanzia “; che le alternative offerte dal Sempione e dal Loetchberg sottrarranno altro traffico alla Torino-Lione, i cui costi comunque non verranno mai coperti dall’introito tariffario, tanto è vero che per quest’opera, a differenza che per il ponte sullo stretto, l’operazione del project-financing non è stata neppure tentata.
Infatti quest’opera non è finanziata, se non con un contributo dell’Unione europea destinato a svanire, se si prolungheranno i rinvii dell’apertura dei cantieri, o se non verranno stanziati fondi adeguati per le tratte francese e italiana: quest’ultima per un importo previsto di 6,5miliardi, interporti esclusi, destinato probabilmente a raddoppiare. Con i chiari di luna che il prossimo governo si troverà ad affrontare qualunque sia la futura maggioranza questa sarà sicuramente la prima grande opera a cadere sotto la mannaia degli indispensabili tagli.
In sesto luogo, previsioni così a lungo termine (venticinque anni al 2030) dovrebbero prendere in considerazione scenari più elastici, e non una proiezione lineare dell’attuale trend dei traffici. E in corso un processo di “dematerializzazione” dell’economia che avrà come principale conseguenza la riduzione in peso e in volume dei beni scambiati. È in corso, nonostante i molti processi di delocalizzazione, un ripensamento sull’opportunità di sguarnire completamente i territori delle loro capacità manifatturiere e soprattutto agroalimentari, il che porterà a un ridimensionamento dei volumi trasportati in molti comparti merceologici. È in corso un processo di recupero e valorizzazione degli scarti e dei materiali ricavati dai beni dimessi che farà sempre più delle città una fonte locale di materie prime per l’industria. È in corso un drastico aumento del prezzo del petrolio e anche un processo di progressivo esaurimento delle sue disponibilità che si ripercuoterà inevitabilmente sui costi di trasporto e sulle sue convenienze, rivalutando le produzioni di prossimità. Dove mai si è tenuto conto, anche solo in via ipotetica, di tutto ciò nel progettare la Tav Torino-Lione?
Il consenso preventivo
Per concludere, l’opera non è stata discussa né tantomeno negoziata con le popolazioni della Val di Susa né dai precedenti governi nazionali, né da quelli regionali. Adesso, mentre il ministero dell’interno è passato alle maniere forti, si cerca di correre ai ripari per conquistare “il consenso” delle popolazioni coinvolte. Ma quale consenso? Si è forse disposti a mettere in discussione il tracciato, o la validità dell’intervento? Oppure si tratta solo di far digerire la pillola alle sue recalcitranti vittime.
Ma quale cultura della negoziazione ambientale è mai questa? I negoziati ambientali bisogna farli prima di definire gli interventi, presentando diverse alternative (compresa quella di non fare niente) e prospettando costi e benefici di ogni opzione, eventualmente rinforzati con interventi di mitigazione del danno o di incentivazione o penalizzazione delle diverse situazioni. Fatto a posteriori, quando un ministro dichiara che comunque l’opera si farà, difenderla è solo un suicidio.
Nota: qui su Eddyburg dello stesso Autore, un intervento sul tema Nimby; sugli stessi temi di "sistema", un estratto dal Piano Direttore del Canton Ticino (f.b.)
I due presidenti di Legambiente
In un paese in cui per sostenibilità si intende sopportabilità il compito delle associazioni ambientaliste potrebbe essere notevole. In realtà non è così, anche per la grande confusione di ruoli, di cui questo articolo di Aprile online del 15 novembre 2005 testimonia un aspetto
Francesco Rutelli, qualche giorno fa, ha incontrato i rappresentanti della Margherita del Piemonte per ribadire che, con tutti i controlli e le garanzie ambientali del caso, la Tav sulla Torino-Lione dovrà essere realizzata. Ermete Realacci, deputato della Margherita e presidente onorario di Legambiente (dopo esserlo stato a tutti gli effetti per quasi un ventennio), ha assunto ovviamente la stessa posizione anche se la sua associazione è pienamente impegnata nel movimento popolare che da alcune settimane anima la Val di Susa con cortei e dibattiti contro il progetto di alta velocità.
Roberto Della Seta, il vero presidente di Legambiente, a differenza del presidente ad honorem della stessa associazione, ha infatti espresso il sostegno alla difficile vertenza apertasi in Val di Susa, annunciando la propria presenza alla manifestazione del 16 novembre: "Vogliamo testimoniare la nostra vicinanza a un movimento che, grazie al forte esempio di coesione di un'intera comunità locale, ha posto all'intero paese un interrogativo sulle infrastrutture di sviluppo e di cui i circoli Legambiente della Val di Susa e del Piemonte sono da sempre tra gli animatori". "La Tav – continua Della Seta – non è solo una nuova ferita in una valle già gravata da troppe infrastrutture di trasporto, è anche la risposta più sbagliata, inefficiente e costosa per rispondere alla necessità di ridurre il traffico autostradale e razionalizzare il trasporto internazionale delle merci".
Non è solo il vero presidente di Legambiente a pensarla in questo modo. La Commissione intergovernativa italo-francese ha a disposizione i dati dello studio da lei stessa commissionato nel 2000. In base a questa ricerca, la nuova trasversale ferroviaria non avrà nessun effetto rilevante sul traffico autostradale attuale. Si stima infatti che essa servirà a trasferire su ferro meno dell'1% delle merci che viaggiano su strada dirette al tunnel del Frejus. A seguito di questi dati, ma anche per effetto di una continua diminuzione di domanda di trasporto lungo le direttrici transalpine tra Italia e Francia, i nostri vicini d'oltralpe hanno ridotto fortemente la propria disponibilità a investire su questo collegamento, che - sebbene si svolga per due terzi in territorio francese - sarà in gran parte a carico delle già magre finanze italiane.
"Per ridurre il traffico stradale occorrono infrastrutture che migliorino l'accessibilità alla ferrovia esistente, che dispone di immense capacità inutilizzate, ma anche credibili politiche di limitazione del traffico stradale e incentivi al suo trasferimento su ferro – fa sapere Vanda Bonardo, presidente di Legambiente in Piemonte – La Svizzera lo sta facendo, dimostrando non solo che è possibile ridurre il traffico pesante, ma anche favorire la nascita di gruppi industriali competitivi e moderni capaci di gestire con efficienza il trasporto intermodale. Il tunnel del Frejus servirà solo a chi lo costruirà e non al trasporto ferroviario. La finanziaria ha ridotto fortemente i fondi per le Ferrovie legati agli interventi ordinari di adeguamento, manutenzione e acquisto dei treni e vogliamo spendere 15 miliardi di euro per quest'opera pronta tra dieci anni?".
"Se come speriamo – sostengono ancora Roberto Della Seta e Vanda Bonardo in una dichiarazione congiunta – la lotta della popolazione della Val di Susa avrà successo, forse i soldi che il nostro paese risparmierà potranno essere finalmente investiti per attivare politiche e infrastrutture di vero sviluppo. Per questo, il conflitto sostenuto dai cittadini della Val di Susa è benefico per il nostro paese e per la sua competitività sul medio e lungo periodo". La stessa posizione si può leggere su "la Nuova ecologia" (www.lanuovaecologia.it), il mensile di Legambiente.
Allora, qual è la vera posizione di Legambiente? Quella del presidente onorario Realacci o quella del presidente effettivo Della Seta e della presidente della sezione Piemonte della più blasonata associazione ambientalista d'Italia? Per non generare equivoci, basterebbe che chi fa il deputato e ha scelto questo modo di fare politica non svolgesse anche altre funzioni, seppure ad honorem. L'autonomia tra associazioni, movimenti e partiti dovrebbe essere un dato acquisito per non generare antipatici conflitti d'interessi.
«Il cemento del potere - Storia di Emilio Colombo e della sua città» fu il pamphlet dello scrittore e storico Leonardo Sacco che nel 1982 squarciò il velo su Potenza, «città a misura di ministro», contribuendo a inquadrare in termini più politici il sacco urbanistico del capoluogo lucano. Un saccheggio certamente inserito nel disastro ambientale che la classe dirigente democristiana era andata compiendo nella penisola. Ma a Potenza la tragedia aveva anche connotati squisitamente meridionali, emanazione di un «partito dell'edilizia» che sovrastava qualsiasi altro gruppo di potere, con investimenti che diventavano sempre più fini a se stessi, e in genere lontani da indici corretti di sviluppo. Insomma, l'affermazione di una sorta di «baronato edile urbano» famelico e distruttivo dei caratteri della storia della città.
Cristo si è fermato a Matera
La Lucania però, è stata anche terreno di sperimentazioni urbanistiche d'avanguardia nell'altro capoluogo di provincia, quella Matera che la presenza di un nucleo antico di grande pregio come i Sassi, oltre allo straordinario effetto che ebbe ovunque il racconto dell'avventura di Carlo Levi, avrebbe portato all'attenzione di tutti in Italia e all'estero e ne avrebbe fatto centro di discussioni culturali e politiche. Ma soprattutto, uno dei laboratori dell'urbanistica italiana del dopoguerra. Fu così che si venne formando un'idea della città in cui gli interventi, nei tre settori in cui è possibile dividerla (centro antico-Sassi, centro storico, nuovi insediamenti), avrebbero dovuto avere un andamento armonico e razionale, l'uno in funzione dell'altro. Le cose non andarono così, ma la storia di quel passato in cui Matera divenne punto di riferimento per l'urbanistica italiana più avveduta, è fondamentale per capire quello che sta accadendo adesso in un territorio governato dal centro sinistra in tutte le sue varianti.
Il grido d'allarme che un gruppo di intellettuali da sempre attenti allo sviluppo sostenibile della città ha lanciato dalle colonne di un numero speciale di Basilicata, vecchio giornale di battaglia che ha contribuito in passato all'apertura di inchieste e dibattiti (vedi l'articolo a lato), ha urtato una classe dirigente che non sa reagire alle critiche. Prevale un mugugno tutto meridionale, mitigato da repentine e non molto credibili aperture alla società civile, nell'illusione di andare avanti come se niente fosse, quando invece è evidente che a Matera non sta scoppiando soltanto una questione locale. Perché, in modo del tutto particolare, si intravede una questione più ampia, cioè la linea che il centro sinistra in tema di urbanistica e di «nuove manipolazioni edilizie» sta portando avanti da tempo in molte città meridionali (e italiane) governate dallo stesso schieramento. Ma quali sono i punti che stanno stravolgendo ulteriormente la città lucana? Si va dai palazzoni del centro direzionale con volumetrie ingiustificate, alle operazioni speculative della zona 33 di ingresso alla città, con quello che ironicamente la popolazione ha battezzato il grattacielo, dai complessi residenziali dell'ex Mulino Padula che grava sui Sassi come un orrendo mostro, all'espansione di una città di cinquantamila abitanti che porta alle estreme conseguenze la divaricazione degli anni Settanta.
Una mirabile costruzione tufacea
Nei Sassi non va meglio. Oltre a tagliare cipressi secolari per far posto a ridicoli parcheggi, si va a tentoni con interventi spesso demandati ai privati che disaggregano un sito storico che ha valore solo nella sua interezza e nel suo rapporto con la Murgia dirimpettaia. Oltre che con il retroterra delle cave di estrazione del tufo, ancora abbandonate a se stesse quando invece potrebbero essere il «biglietto da visita» di una cultura del lavoro di grande pregio (i Sassi sono una mirabile costruzione tufacea di grande ingegneria spontanea e non una teoria di grotte). Colpisce in tutto questo l'intreccio tra imprese, tecnici del comune e politici, come se la storia del passato non avesse insegnato nulla. E mentre è difficile mettere il naso nel vespaio di ditte edili, dove spicca la solita impresa Tamburrino, più facile è indagare sull'intreccio tra politici e tecnici comunali. Nel marzo scorso la magistratura ha arrestato il capo dell'ufficio tecnico comunale, architetto Franco Gravina, che oggi è ritornato al lavoro al comune (con altre mansioni). Il tecnico è inquisito per la discutibile gestione dei «Progetti integrati di sviluppo urbano», un affare da 32 milioni di euro. Lo stesso Gravina, insieme all'ex assessore Vincenzo Santochirico, sta poi dietro alla «Eolica Craco», una società edile costituita con l'ambigua copertura delle firme delle mogli, che si propone di costruire, contrastato da un movimento di protesta, la megacentrale elettrica tra Ferrandina e Pisticci.
Racconta Leonardo Sacco, memoria storica delle forze democratiche lucane oltre che direttore di Basilicata: «Il quadro della manipolazione edilizia, sia negli antichi rioni che nella parte nuova della città, è sconcertante. Si impongono oggi riflessioni rigorose, fuori dagli attendismi fiduciosi che fino a poco tempo fa hanno caratterizzato molti convegni. Il fatto è che Matera si è distinta nel panorama dell'urbanistica italiana degli anni Cinquanta del secolo scorso per effetto di un movimento culturale che però allora non poteva riscuotere una convinta partecipazione, per il proibitivo clima politico nazionale e le chiusure della tradizionale società locale. Oggi Matera può essere compresa nella media della cattiva urbanistica nazionale, ma qui è più grave per il suo passato. I poteri locali hanno agito fuori e contro piani e progetti. Hanno avviato con enormi ritardi e maldestri interventi il risanamento degli antichi quartieri dei Sassi, e hanno manipolato fino a travolgerla la pianificazione della parte nuova della città». «Il problema - prosegue lo storico ed ex deputato comunista Raffaele Giura Longo - è che nell'ultimo decennio, dominato dal centro sinistra con tutta la sinistra parte attiva (e qui è l'amarezza per noi), si è irrobustita, non solo negli eredi dell'ex democrazia cristiana, la pratica degli affari personali delle lobby di carta, in cui l'intreccio di interessi tra imprese edili e amministratori ha avuto il sopravvento sulla politica un tempo vigile delle sinistre materane. La pubblica amministrazione, in pratica, assume un ruolo centrale nel selezionare uomini e interessi da avvantaggiare, attraverso un sapiente e mai disinteressato uso del go-and-stop, applicato in versione aggiornata: si fermano negli uffici le pratiche spesso più equilibrate e razionali per accelerare quelle più consone agli interessi lobbystici, che a conti fatti risultano essere anche le più improvvisate e rozze».
Alfonso Pontrandolfi, tecnico ed esperto di bonifica, aggiunge: «La contraddizione più appariscente dell'attuale situazione è la permanenza in posizione dominante delle tradizionali forze consolidatesi nel tempo, sia intorno alle politiche espansive urbano-edilizie, sia intorno al mai abbandonato modello clientelare e assistenziale della spesa pubblica. Il ricomposto centro-sinistra che da un decennio amministra la città, sembra così assicurare una sorta di continuità con il passato, nell'azione politica come nei metodi dell'amministrazione». La scelta di dare gratuitamente in concessione per 99 anni un immobile nei Sassi (i quartieri sono proprietà demaniale) a condizione che lo si risani con un importo a fondo perduto che va dal 40 al 60%, ha fatto sì che si ristrutturi con la più fervida fantasia, al di fuori di qualsiasi rispetto dell'unitarietà del luogo. Tommaso Giura Longo, docente di architettura oltre che autore di articoli sul nostro giornale del destino dei centri storici e dei Sassi in particolare, è come sempre puntuale: «La collocazione casuale degli immobili per abitazione e per attività produttive e la mancanza tra di loro di una rete dei servizi sociali, commerciali, di trasporto pubblico, hanno impedito che tra le persone oggi insediate nei Sassi si ripropongano quei civilissimi legami di mutuo scambio e di solidarietà umana che caratterizzavano i rapporti tra il vicinato. Perciò, oggi i Sassi non si presentano più come una parte di città abitata, ma soltanto frequentata. Suoi frequentatori sono anche coloro che li abitano e che vanno a lavorare altrove e anche coloro che vi esercitano una qualche attività di artigianale. Girando oggi per i Sassi, si può constatare che gli interventi a ruota libera dei privati, né guidati né arginati da significativi interventi pubblici, sembrano proporre spesso falsificate operazioni di presunte manifestazioni popolari».
La vittoria di Mel Gibson
Raffaele Giura Longo riprende l'analisi, cercando di mettere il dito nella piaga di questi anni: il rilancio dei Sassi come una sorta di Disneyland dell'affare e del divertimento: «Sono stati anni di grande sbando per i Sassi, con l'affiorare di vecchie tendenze oleografiche, populiste e avventuriste. Messa la mordacchia a ogni seria sperimentazione socio-culturale, quasi del tutto inascoltata è rimasta la voce di coloro che avevano proposto anni fa lo slogan virtuoso «i Sassi attirano ma la città accoglie», per dire dell'unitarietà dell'intervento tra i Sassi, il centro storico dal Settecento in poi e la parte nuova. Alla fine ha vinto Mel Gibson con il suo bisogno dell'orrido scenografico». Ma non è detto. Perché in città si respira un'atmosfera critica verso il comportamento delle amministrazioni degli ultimi anni. Quattromila cittadini hanno firmato un documento di protesta contro la politica urbanistica comunale; gli abitanti del borgo rurale di Venusio, nato negli anni Venti con i fondi dei combattenti della 1° guerra mondiale, sono scesi in piazza contro gli stravolgimenti dei nuovi insediamenti, mentre non si fa nulla per la riqualificazione del loro villaggio; nei Sassi ci sono state proteste di un comitato di quartiere contro l'uso scorretto dell'antica città. Saprà Matera essere punto di riferimento, oggi, contro un uso sconsiderato del territorio da parte di un centrosinistra che si fa scudo della politica berlusconiana sul piano nazionale per perpetrare i vecchi vizi del trasformismo sul terreno locale?
In queste ore il centrodestra ripropone, di fatto, in Finanziaria la vendita delle spiagge demaniali ai privati concedendo gli arenili pubblici più intatti a chi vi costruirà grandi alberghi. In queste ore il centrodestra va all'attacco dell'ambiente con una legge delega scandalosamente al ribasso sul piano delle salvaguardie per parchi, rifiuti, inquinamenti, valutazioni di impatto ambientale, ecc. In queste ore il centrodestra progetta un «colpo basso alla Merloni» (come ha scritto il Corriere Economia supplemento del Corriere della Sera) cancellando cioè, con decreto legislativo, le garanzie di concorrenzialità e di trasparenza negli appalti. E continuano ad essere tempi da lupi per l'urbanistica: vola sempre bassa sul cielo del Senato la minaccia della legge Lupi (Forza Italia) già passata alla Camera. Per liberalizzare? Apparentemente. In realtà per dare il governo del territorio in mano a pochi grandi detentori di aree. Il criterio di fondo è ovunque lo stesso: il patrimonio pubblico viene privatizzato, ma non per liberalizzarlo. Si tratti di ambiente, di spiagge libere, di appalti, di aree fabbricabili, il fine è quello di trasferirne il controllo a gruppi di interessi forti, a privati potenti. L'interesse pubblico viene ancora una volta abbattuto e divelto in nome di una serie di interessi privati privilegiati. Dietro queste leggi spunta, inesorabile, la logica del Berlusconi immobiliarista.
Il disegno è chiarissimo e va in un senso preciso: privilegiare e premiare non già il profitto di impresa bensì la rendita fondiaria speculativa. Il tutto a colpi di accetta o di mazza, con leggi la cui struttura e scrittura appaiono delle più rozze, delle più primordiali. Come il capitalismo del quale risultano al servizio. Prendiamo la legge Lupi per l'urbanistica. Su di essa è appena uscito un libro utilissimo, a più mani ("La controriforma urbanistica", Editore Alinea di Firenze, con contributi di Edoardo Salzano, Vezio e Luca De Lucia, Luigi Scano, Paolo Urbani ed altri, 12 euro), che consente di mettere a fuoco quel percorso di dissoluzione della pianificazione urbanistica, operata cioè in nome dell'interesse generale, sul quale si sono già messi Comuni (Milano in testa) e Regioni (la Lombardia, ma la stessa Regione Lazio con un disegno di legge molto discusso).
Con la legge Lupi, viene interrotto "il plurisecolare tentativo dell'autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare" (Salzano), in nome della più schietta cultura liberale tesa a trasferire le risorse da impieghi improduttivi (la rendita) a impieghi produttivi (il profitto). Interviene dunque un cambiamento epocale: i piani regolatori non sono più atti "autoritativi" del potere pubblico elettivo, bensì "atti negoziali". Con chi? Coi cittadini, si risponde ipocritamente. In realtà, con quanti posseggono aree e/o diritti edificabili. Ecco un altro punto essenziale (e micidiale): se un costruttore ha avuto una concessione edilizia pubblica su propri terreni, acquisisce, a vita, un "diritto edificatorio" che può liberamente commercializzare, scambiare (Luca De Lucia). Come se fosse un bene giuridico a se stante, separato dalla proprietà dell'area per cui era stato concesso. Meccanismo infernale perché, prima o poi, tutti i diritti edificatorii acquisiti dovranno essere soddisfatti, indipendentemente dall'interesse pubblico, dalla sostenibilità ambientale, dai valori paesaggistici, ecc. Quale sarà, allora, il potere dell'Ente pubblico (Regione, Provincia, Comune) nei confronti dei proprietari di aree urbanizzabili e di diritti edificatorii? Nient'altro che quello di negoziare, rinunciando così a pianificare in base a criteri di interesse collettivo.
Secondo il rito ambrosiano (che qui diventa legge dello Stato), spiega Vezio De Lucia, "progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il PRG che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate". Conseguenze? Si cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio; si incentiva il consumo di suoli; si azzerano gli standard urbanistici nazionali; si elimina la tutela dei beni culturali, ambientali e paesistici dai PRG locali. Uno Tsunami.
Un ultimo dato fra i tanti: il consumo di suolo non urbanizzato. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, con strumenti diversi, si adottano leggi per "risparmiare" sul consumo di suolo, agricolo o comunque non urbanizzato. In quei Paesi "lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene comune" (Antonio di Gennaro), utile alla produzione agricola, al riciclo di risorse e alla ricostituzione di aria, acqua, terra, ecc., al mantenimento degli ecosistemi, delle biodiversità, del paesaggio. Da noi, no. Eppure, in poco più di mezzo secolo, ci siamo "mangiati", ricoprendolo di cemento e asfalto, quasi il 40 per cento della superficie non urbanizzata del 1951. Ad un ritmo, come minimo, doppio di quello tedesco il quale sta sui 47.000 ettari l'anno. Noi superiamo i 100.000 e talora i 200.000 ettari. Un impazzimento collettivo.
Ma, mentre l'Europa più avanzata, ne discute e vara misure di "risparmio" del suolo, di riciclo delle aree già urbanizzate, ecc. noi, il Bel Paese dove il paesaggio è ricchezza anche turistica, non ci pensiamo per niente. Anzi, con la legge Lupi, il centrodestra propone di potenziare la logica di quella devastante "abbuffata" territoriale che già ora ha cancellato i confini fra città e città, facendo sparire la campagna. Fermare, battere la società Asfalto&Cemento si può, si deve. Prima che sia davvero troppo tardi.
Titolo originale: Livingstone turns screw on Stratford landowners – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il sindaco di Londra Ken Livingstone ieri ha avvertito gli interessati ai terreni destinati ai Giochi Olimpici che non verrà consentito in nessun modo di ritardare i preparativi per il 2012, e ha difeso la sua decisione di utilizzare un’ordinanza di esproprio per acquisire le proprietà necessarie al Villaggio Olimpico. Parte delle superfici in seguito saranno destinate al grande progetto di Stratford City, insediamento di residenze, negozi, alberghi e uffici che costituirà praticamente una nuova città nella fascia orientale di Londra.
Gli interessati si sono dichiarati “colpiti, stupiti, e profondamente perplessi” dal fatto che la London Development Agency del sindaco abbia acquisito i terreni usando i poteri di esproprio. Sostengono che l’agenzia abbia incamerato più del necessario, cedendo a una “frenesia di controllo”.
Ma alla sua conferenza stampa settimanale Livingstone ha detto che l’ordinanza era necessaria perché le contrattazioni si stavano muovendo troppo lentamente. “Abbiamo avvertito i proprietari che il termine ultimo era la settimana scorsa e che non ci saremmo spostati da lì. Saremmo stati lieti di concordare prima ma non potevamo evitare il CPO [ compulsory purchase order] se ci si metteva troppo”.
”In questi casi, quando diciamo che c’è una scadenza che non possiamo rinviare, la gente deve accettare il fatto che stiamo parlando seriamente, e la data non sarà cambiata. Non vogliamo mettere a rischio la preparazione dei Giochi Olimpici in tempo ed entro il budget fissato per non seguire la tabella di marcia”.
Ha poi proseguito sul tema dei tempi da rispettare. “Se non avessimo emesso il CPO saremmo stati dipendenti dalla cooperazione [dei proprietari] sulle consegne per tempo. Sarebbe stato il più grosso ricatto nella storia delle costruzioni e avremmo dovuto pagare decine di migliaia per avere l’area”.
”Non possiamo metterci in una posizione in cui possiamo essere minacciati. Non daremo ad alcun operatore privato il diritto si modificare i tempi”.
Livingstone ha affermato che le contrattazioni possono continuare per la modifica dei termini del CPO. Che il progetto di Stratford City non sarà messo in pericolo e che le proteste erano solo “una posa”. Una fonte degli interessati ha dichiarato: “Questa è semplice frenesia di controllo da parte della LDA, e tra l’altro rischiano di farsi nemiche le grosse e prestigiose imprese internazionali di cui avranno bisogno per le realizzazioni olimpiche. Se si comportano così, chi vorrà più far affari con loro?”
Un portavoce della London & Continental Railways, proprietaria di alcuni terreni destinati alle Olimpiadi, ha dichiarato che in negoziati continuano. Ha aggiunto: “Alla luce degli attuali rapporti siamo sorpresi dal linguaggio emotivo utilizzato dal sindaco”.
Anche se la LDA sostiene di essere lieta di raggiungere accordi con le imprese ed enti interessati, la questione è controversa. La prossima settimana l’agenzia terrà una riunione fondamentale con le imprese interessate che possiedono i terreni necessari allo Stadio Olimpico, a Marshgate Lane, Stratford.
Gli interessati sostengono che la LDA ha cercato di ottenere le superfici a prezzi stracciati, affermazione fortemente negata. Livingstone ieri ha ripetuto la sua contestata tesi secondo cui in alcuni casi le negoziazioni con la LDA erano finite in un vicolo cieco per sinistri motivi. “Alcune imprese hanno perseguito una vasta campagna politica tentando di convincere il Comitato Olimpico Internazionale ad assegnare i giochi a un’altra città” ha detto.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Titolo originale: In China, a golf community on a supergrand scale – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Shenzen – La grandeur ha sempre fatto parte della sensibilità cinese, e il complesso da golf del Mission Hill Golf Club and Resort sembra coerente con il fatto che le dimensioni contano.
Dal maggio 2004 il Guinness dei Primati ha ufficialmente inserito questo intervento, a sola mezz’ora d’automobile da Hong Kong, come il più grande complesso del mondo.
Ma anche colle sue 180 buche sparse per oltre 7.700 ettari, i costruttori ricordano che Mission Hills non è stata creata solo per battere dei primati. È pensata piuttosto per rendere più facili gli affari: una specie di ufficio all’aria aperta circondato da residenze che sono tra le più care del paese.
”Non abbiamo costruito questo complesso di dieci campi per soddisfare il nostro ego” dice Ken Chu, vicepresidente del Mission Hills Group e figlio di David Chu, il presidente dell’impresa. “È puramente una struttura di sostegno allo sviluppo economico della regione, di Shenzhen e Guangdong”.
La provincia di Guangdong è uno dei poli principali per l’esportazione in Cina sin da quando l’area è stata aperta all’investimento estero nel 1978 nel quadro delle riforme economiche di Deng Xiaoping. Concentra circa un terzo del volume d’affari con l’estero del paese.
Ma per anni ci sono state poche occasioni di intrattenimento per gli uomini d’affari, e così secondo Chu il complesso di Mission Hills è stato pensato come spazio entro ciu potessero abitare e socializzare. “Non è solo golf, o proprietà immobiliare, si tratta di costruire una città” sostiene Chu.
Se si parla di grandeur, il golf è solo uno degli elementi per misurare dimensioni e ambizioni del complesso. Mission Hills vanta parecchie cose “ top in Asia”: il maggior numero di campi da tennis, 51; il percorso da golf più difficile, disegnato da Greg Norman; la più grossa sede di club, e qullo che sarà il più grande complesso palestra una volta finito l’anno prossimo.
Le residenze, sino a 864 metri quadrati, si vendono a circa 2.500 dollari il metro: care per la Cina, ma appena un decimo delle case di lusso a Hong Kong.
Mission Hills non rende noti i dati di vendita, anche se sono state cedute più di mille proprietà e sono in corso di completamento 80 case di lusso nel primo lotto di residenze. Tutti gli alloggi sono stati acquistati prima dell’inizio delle costruzioni. Si prevedono altre tre fasi di realizzazione nei prossimi tre anni.
È comunque il golf che ha consentito a Mission Hills di conquistarsi una visibilità su scala mondiale in un tempo tanto breve. I campi sono disegnati da alcuni dei principali nomi del golf, come Jack Nicklaus, Vijay Singh, Ernie Els, Annika Sorenstam, e Norman.
E ci sono voluti solo dieci anni per realizzare tutti i dieci campi, con gli ultimi cinque completati contemporaneamente in due anni. Una crescita tanto rapida rispecchia l’incredibile velocità del progresso economico cinese, e le crescenti domande della fiorente middle-class locale.
”L’unico rivale possibile è il Pinehurst” dice Colin Hegarty, presidente e fondatore del Golf Research Group, con riferimento al complesso su otto campi del North Carolina. Ma aggiunge, “Là si costruisce un campo più o meno in quindici anni. Cinque campi in due anni è una cosa davvero insolita”.
”Nei prossimi dieci anni la gente rimarrà stupefatta dalla quantità di campi realizzati in Cina” conclude.
Il numero al momento non è noto, dato che non ci sono organizzazioni che ne tengano il conto. Ma Han Liebao, professore alla Forestry University di Pechino, sta conducendo un’indagine per conto del governo. Ritiene che ci siano 306 campi, compresi quelli in corso di costruzione. Di questi, solo due sono aperti al pubblico, ed entrambi si trovano a Shenzhen.
L’idea del campo da golf unito ai complessi residenziali è nuova, qui, e alcuni costruttori preparano terreni con le ruspe per sola “immagine”. Ma l’anno scorso, Pechino ha congelato le realizzazioni.
”La preoccupazione è che il paese continui a perdere terreni agricoli per realizzare campi da golf, il che minaccia la produzione alimentare” dice Han.
Secondo lo studio, che sarà pubblicato in novembre, solo l’8,57% dei terreni ora utilizzati per il golf sono arabili. “Il governo non capisce che raramente i campi da golf sottraggono terra agricola” dice. “La maggior parte sono costruiti su rive di fiume, zone inutilizzate, pietrose, o sabbiose”.
Altra preoccupazione del governo è l’uso di pesticidi per i campi, che secondo alcuni funzionari minaccia le scorte idriche.
Mission Hills sembra aver rispettato la proprie promesse in termini ambientali. Sono stati sradicati centinaia di alberi durante la costruzione su questi terreni un tempo inutilizzati, ma poi sono stati ripiantati lungo i margini dei percorsi. Nelle fasi iniziali è stato sviluppato un massiccio programma di fertilizzazione dei suoli per sostenere il prato, ma ora è il personale di 2.400 caddies a strappare le erbacce, per evitare l’uso di pesticidi.
Quando i Chu hanno iniziato il progetto di Mission Hills, sono stati ingaggiati statunitensi e italiani, per dare alle abitazioni un ambiente occidentale. Le case hanno interni spaziosi, con corridoi aerati e soffitti alti sette metri e mezzo; gli esterni hanno un aspetto europeo, con tetti a tegole.
Le abitazioni sono fornite senza arredi, e attico e seminterrato non sono compresi nel prezzo per unità di superficie.
”Per la gente che vive qui, si tratta di Oriente che incontra l’Occidente” dice Carol Chu, direttore esecutivo di Mission Hills e figlia del fondatore. “Molti hanno scelto di vivere in Cina, ma hanno abitato in tanti posti in tutto il mondo. Così, vogliono vivere in qualcosa che appare loro familiare”.
Degli abitanti di Mission Hills, più della metà proviene da Hong Kong, e poi da Taiwan o altre zone dell’Asia. Ci sono industriali, imprenditori, politici, tutti attratti dalle caratteristiche e dal prestigio del complesso.
Nel corso di una recente promozione, per esempio, gli acquirenti sono stati invitati a un concerto di Roberta Flack e omaggiati con anelli di diamanti da 2 carati.
Mission Hills ha anche copiato l’uso occidentale di collocare le case vicino ai campi. Gli appartamenti cinesi di norma sono realizzati in grossi complessi, e anche le case singole spesso hanno vedute limitate. Ma a Mission Hills, ogni abitazione ha una vista, almeno parziale, sul percorso da golf.
”In tutto il mondo le visuali più costose sono sul verde e sul blu; il blu vuol dire mare, corsi d’acqua, oceano, e il verde sta per giardini, montagne, o campi da golf” dice Ken Chu. E qui sta la principale differenza. Abbiamo sistemato me case in modo strategico per aumentare al massimo la visuale”.
Se Mission Hills imita l’Occidente, le sue dimensioni superano di parecchio quelle dei complessi simili di successo. Uno studio su 1.200 complessi degli USA condotto dal Golf Research Group di Hegarty, mostra che sono quelli sui campi più piccoli a dare maggiori profitti.
”Le persone accorte costruiscono con un occhio al bilancio. L’idea è di mantenere le dimensioni contenute in modo da cogliere l’aumento di valore degli immobili, senza avere un grosso carico che può affondare l’investimento” dice Hegarty.
Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune (f.b.)
Titolo originale: The city that will be – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Trent’anni fa, nel loro libro Tremila anni di sviluppo urbano, gli storici Tertius Chandler e Gerald Fox avevano calcolato che, fra tutte le città alluvionate, bruciate, saccheggiate rase a terra da un terremoto, sepolte dalla lava, o in un modo o nell’altro distrutte – fra 1100 e 1800 in tutto il mondo – solo qualche decina era stata abbandonata per sempre. In altre parole, le città tendono ad essere ricostruite, sempre.
Ci hanno assicurato che accadrà così anche per New Orleans. Abitanti e amministratori – e insieme a loro gli abitanti e amministratori di tutta la costa della Louisiana e del Mississippi – hanno promesso di tornare e ricostruire, e il governo federale ha promesso di sostenerli. “La grande città di New Orleans sarà di nuovo in piedi”, ha detto il presidente Bush mercoledì. “E l’America sarà più forte per questo”.
Ma, dopo quello che si presenta come uno sforzo erculeo di pulizia, come apparirà New Orleans? Quanto assomiglierà a sé stessa prima del diluvio?
La risposta facile è che, ora come ora, non lo sa nessuno. Con tutti concentrati sui soccorsi agli abitanti sfollati e per il ristabilimento di un minimo di ordine, con poche idee di cosa si troverà quando le acque defluiranno, e con la città che probabilmente resterà inabitabile per molti mesi a venire, è comprensibile che molti funzionari abbiano detto poco riguardo al futuro non immediato. Eppure, secondo Paul Farmer, direttore esecutivo della American Planning Association (APA), una volta che le persone ritornano nelle città devastate “c’è spesso una corsa alla ricostruzione troppo rapida”, senza tante discussioni su cosa esattamente vada costruito.
E il dibattito, quando arriva, è aspro. “Ci sono miriadi di soggetti interessati, da abitanti e proprietari immobiliari, ad amministratori locali e statali, ad interessi economici vari” dice Jerold Kayden, co-presidente del Department of Urban Planning and Design alla Graduate School of Design di Harvard. Che tipo di piano generale emerge da questo intrico di interessi nessuno può immaginarlo, ma è possibile anche da ora avere un’idea delle possibilità. Il fatto che alcune di esse siano piuttosto radicali, serve solo a ricordare meglio – se ce ne fosse bisogno – la difficoltà di costruire una New Orleans più sicura.
Anche se nessuno vuole parlare del caso di New Orleans in termini diversi da quelli di una tragedia epica, architetti e urbanisti concordano sul fatto che, dal punto di vista storico, le devastazioni spesso hanno creato un varco alla possibilità di affrontare problemi strutturali profondi e antichi. Dopo il grande incendio di Chicago del 1871, per esempio, la città fu trasformata da un’edificazione prevalentemente in legno a una (molto meno infiammabile) in mattoni. “Ci fu un radicale mutamento culturale nella progettazione edilizia” sostiene James Schwab, ricercatore dell’APA specializzato in ricostruzione dopo eventi calamitosi, “una determinazione a far sì che, se non si vuole che le cose che non si desiderano accadano ancora, occorre un profondo mutamento nel modo di agire”.
Nel caso di New Orleans, l’idea forse più provocatoria è che la città, o almeno parte della città, sia spostata verso una localizzazione meno precaria. Il portavoce della Camera Dennis Hastert ha provocato furori suggerendo, in un intervento su un giornale locale di Chicago, che non aveva senso spendere miliardi per ricostruire New Orleans ancora sotto il livello del mare, ma i pianificatori continuano a dire che è davvero qualcosa a cui val la pena di pensare. Per dirla con David Godschalk, professore emerito di pianificazione urbana e regionale alla University of North Carolina, “La domanda da un milione di dollari in questo caso, è se ricostruirla dove sta, oppure no. Il fatto è che in primo luogo lì non si sarebbe dovuto costruire niente, cosa ora piuttosto chiara”.
Kayden crede che il muovere o meno la città dipenda in parte da quanto di essa resterà dopo l’alluvione: “Spero che ci sarà ancora parecchio tessuto urbano al suo posto, ma se non è così – se ci sarà una tabula rasa, se ci saranno enormi spazi inutilizzabili – allora cosa ci sarà da ricostruire? Perché farlo sotto il livello del mare?”
I particolari di un progetto del genere sarebbero diabolicamente complessi, e solleverebbero questioni che vanno da quelle pratiche (dove la mettiamo?) ad un livello quasi filosofico (sarebbe ancora la stessa città?). Lawrence Vale, direttore del Department of Urban Studies and Planning al MIT, e tra i curatori del recente libro The Resilient City: How Modern Cities Recover from Disaster (Oxford), vede parecchie questioni di carattere economico e politico che renderebbero contraddittorio il dibattito sulla proposta. “Ho la sensazione che la quantità di persone che solleverebbe obiezioni, sarebbe direttamente proporzionale alla loro distanza da New Orleans” dice. “L’insieme delle quantità di investimenti finanziari già presenti in città, e di quelle di attaccamento emotivo al luogo, rende davvero molto difficile pensare di muovere la città”.
Forse ancora più ambiziosa, la possibilità di spostare semplicemente il fiume. Per dirla con Godschalk “Potremmo pensare a riorientare il Mississippi, uno dei fattori che ha fatto precipitare la situazione”. Anche se suona fantastico, il fatto è che oggi il fiume scorre dentro a New Orleans grazie a un sistema assiduamente mantenuto di dighe a monte e argini. Il fiume ha cambiato percorso parecchie volte nella sua esistenza, ed è solo per via di un massiccio sforzo ingegneristico che non ha cambiato direzione cinquant’anni fa, fissandosi all’attuale letto.
Naturalmente, anche se un’opera del genere dovesse essere considerata fattibile, i costi finanziari e sociali sarebbero inimmaginabili e complessi. Ci sono interi insediamenti urbani e industriali cresciuti lungo il fiume. Godschalk ammette subito l’enormità dei processi di negoziazione necessari: “Che dovremo fare di tutte le proprietà, di singoli e imprese, padroni di casa e via dicendo? Come è possibile risarcire tutta questa gente?”
Un’altra idea sul versante del fiume viene da un programma della Harvard Graduate School of Design coordinato da Joan Busquets, professore già impegnato nell’ufficio pianificazione di Barcellona negli anni di riorganizzazione della città per le Olimpiadi del 1988. Questa primavera, il gruppo di studenti di architettura di Busquets ha studiato modi per rivitalizzare New Orleans, che anche prima di Katrina era una città economicamente depressa. La soluzione trovata è stata di concentrare gli interventi sui docklands lungo il Mississippi. Guardando all’esempio di Rotterdam, altra città porto sotto il livello del mare (e in un paese che è stato in gran parte sottratto al mare), si è ipotizzato che New Orleans spostasse la gran parte delle proprie derelitte attività navali ai margini esterni della città, trasformando la zona – che comprende alcune delle località a livello più elevato – in un distretto commerciale e residenziale.
Ora, dopo Katrina, sostiene Busquets, il nuovo intervento potrebbe assorbire molti degli abitanti delle zone più basse e vulnerabili, che potrebbero essere abbandonate a fungere da fascia di interposizione per gli allagamenti, ripristinando in parte la logica originaria dell’insediamento urbano. “Per decenni o secoli – spiega Busquets – la città ha scelto sempre i terreni più elevati da adibire a residenza. Quelli più bassi erano scarichi in caso di forti piogge”.
Ci sono anche aggiustamenti con minori trasformazioni, che potrebbero aiutare in qualche modo. “Una delle cose che si usa spesso nei terreni alluvionali costieri è l’edificazione rialzata” dice Schwab. “Semplicemente, lasciare i piani bassi vuoti, così che l’acqua possa passare senza toccare le parti abitate”. In altre parole, si tratterebbe di alzare le abitazioni su palafitte. Si potrebbero usare materiali diversi. “Legno e intonaco non tengono bene” continua Schwab . “Il cemento lavora molto meglio”.
Modifiche del genere trasformerebbero il carattere architettonico particolare della città, il suo famoso aspetto storico e l’atmosfera. Ma come dice Vale “una città sostenibile deve interagire non solo con la propria storia, ma anche con l’ambiente”.
Il modo in cui New Orleans è stata costruita, dopo tutto, non solo ha mancato di proteggerla, ma potrebbe addirittura aver aumentato gli effetti dell’uragano Katrina. A partire dall’inizio del XX secolo, sottolineano gli urbanisti, il prosciugamento e bonifica delle aree umide per l’edificazione, e il fatto di impedire le regolari esondazioni del Mississippi con gli argini, ha privato New Orleans delle difese naturali contro gli uragani. Gli acquitrini aiutano ad assorbire le onde di tempesta, le esondazioni distribuiscono la forza del fiume e lasciano sedimenti che contribuiscono a contrastare l’affondamento costante della città.
Nota: il testo originale al sito del Boston Globe ; i medesimi dubbi sull'opportunità di ricostruire New Orleans, in un'intervista del Corriere della Sera al geofisico Klaus Jacob riportata su Eddyburg (f.b.)
I bisbigli Ricucci e Corriere Sera non c'entrano. La ricerca per un libro (titolo provvisorio Cuore di mattone) fa scoprire come possano crescere in modo diverso due città già diverse per tradizioni, dimensione e per quel mare sul quale Bari si affaccia lontana dalla nebbia degli inverni di Parma. La differenza è l'informazione.
A Bari la città programma il cambiamento urbanistico offrendo le proposte al dibattito di un'opinione pubblica informata in modo corretto. La gente discute, gli esperti confrontano tesi opposte; giornali e Tv spiegano a lettori-spettatori cosa sta succedendo. Naturalmente le lobbies hanno il loro peso, ma è un peso equamente distribuito e la gente «sa». Anche per Bari la piega è nuova: dopo 30 anni di governo dei partiti-mattone, il centro sinistra ha conquistato comune, provincia e regione e il dibattito covato nei mugugni di chi non aveva parola, finalmente è aperto. “Cuore di mattone” prova a disegnare la mappa dell'Italia di certi costruttori: da Messina a Bolzano trasformano le aree agricole in quartieri irrespirabili sollecitando varianti urbanistiche che ne soddisfano gli appetiti e confortano le ambizioni dei politici al guinzaglio. Nascono città orribilmente diverse dalle città ereditate da signori non democratici ma innamorati della bellezza. Insomma, le città di ieri restano il fiore da mostrare agli stranieri nelle visite ufficiali nascondendo sotto il tappeto le punte Perotti di oggi: campionario che non finisce mai.
Mentre Bari, con una certe cautela, programma l'appalto per distruggere il suo mostro, Parma sta finendo di costruire l'ultima punta Perotti: imitazione in scala minore perché la città è piccola, ma la ferita non cambia. Si sono mai viste le stanze del campus di un'università concentrate in un palazzo-balena, 440 posti letto isolati in mezzo a una campagna? Bilocali offerti in vendita a chi specula sull'affitto degli studenti; appartamentini il cui affitto oscilla attorno ai 500 euro al mese, naturalmente luce, gas e condominio a parte. Comprano in pochi e come un angelo liberatore arriva l'Inail, sollecitata chissà da chi: investe e forse stimola l'ottimismo per il secondo allungo, magari un terzo se l'affare va bene. Quando alla sera chiudono i cancelli delle facoltà scientifiche, e si spengono le luci del supermercato che assedia il campus, ragazze e ragazzi chiusi nelle loro stanze, senza sale di lettura, o biblioteca o bar dove incontrarsi per scambiare chiacchiere nel ventre della balena, cosa possono fare se non attraversare la nebbia per raggiungere la città irraggiungibile? Si annuncia l'arrivo di un metrò. Serve solo a chi lo costruisce, ma inutile alla normalità dei ragazzi se nelle ore piccole non funziona. Il sospetto è che il treno raggiunga terreni già “opzionati”, neologismo della speculazione, annuncio di una futura città satellite o quartieri frastagliati a caso. Chissà quando. Isolati e impacchettati, gli studenti diventano cavie accessibili alla tentazione che gli psicologi attribuiscono alle polveri proibite: fuga per sopravvivere al tumulto di una giovinezza messa al confino.
Bari e Parma si trovano occasionalmente legate da un progetto la cui definizione è nata nel sud ed è stata trascinata a nord dallo stesso imprenditore Pizzarotti: cittadella della giustizia, cittadella della carta. L'ingegnere Michele Cutolo, che rappresenta la Pizzarotti barese, ha già inventato quattro cittadelle e dopo quella della giustizia progetta la cittadella degli studenti, evitando - immagino - il modello Perotti-Parma. Ecco che la parola Cittadella riunisce occasionalmente due città: Nord che copia il Sud come un pappagallo.
L'attraversare l'Italia dei cuori di mattone è l'avventura che raccoglie avventure impensate. Non solo soldi e carriere politiche, pacche amichevoli sulle spalle degli uomini-partito - «Sono con voi, disposto ad ogni sacrificio» - ma anche sparatorie, poliziotti che portano in galera riveriti presidenti, dalla Calabria a Bolzano, suicidi in anticamera, pastette di quart'ordine trascurate da procure occupate da uomini d'onore a volte troppo deboli verso la ricchezza per la quale provano inconscio rispetto. Il buon cuore dei politici di riferimento scomoda sottosegretari e ministri per strappare all'umiliazione della cella persone ben disposte a soccorrere i partiti. Giurano sull'ingenuità dell'imprenditore, il quale, poveretto, nulla sapeva dei controlli truccati degli ispettori infedeli Anas. Se qualche giornale avanza dubbi, pioggia di querele, denunce intimidatorie. Pretendono risarcimenti da nababbi non nei riti pubblici dei processi penali, ma fra le quinte dei giudizi del privato. Nessuno deve sapere. E nessun giornale di provincia può sopportarne il peso. Non solo per l'entità di una somma che metterebbe in ginocchio, ma per l'uso politico della denuncia. Non sempre, ma succede: prima che ne abbiano conoscenza i protagonisti dell'errore, viene distribuita copia della denuncia-sbarramento a partiti in qualche modo vicini ai giornali. Dai vertici nazionali ai consiglieri della regione e delle province. Operazione terra bruciata: giornalisti lebbrosi, guai dar loro retta. «Come mai un movimento politico serio come il vostro non condanna lo scandalismo ingiustificato di un giornale (o di una tv) impegnati a dimostrare quali vantaggi ho tratto da opere pubbliche mai realizzate, perché mai ho lavorato a Messina, Bari, Parma, Milano, Bolzano o Pordenone, eccetera; mai costruito campus, mai dragato o sistemato fiumi, come si è ingiustamente scritto?». Si può sorridere scorrendo l'elenco delle opere stese al sole, ma è meglio ingoiare e far finta di niente.
Non è il caso di Pizzarotti. Imprenditore straordinario, ormai potentissimo: allarga l'appalto dell'alta velocità Milano-Bologna comprando aziende che hanno in tasca l'alta velocità della Milano-Verona. Poi il ponte di Messina. Nel suo pedigree Disenyland francese e Charles De Gaulle. Un elenco interminabile che ne dimostra la serietà. Ecco perché non gli servono padrini politici. Appartiene al medioevo la presentazione al ministro Prandini da parte del segretario amministrativo della Dc emiliana, andreottiano doc. A differenza dell'ultima armata Brancaleone-Parmalat, i suoi cantieri sono affidati a professionisti eccellenti; quadri di prestigio, esecuzioni la cui funzionalità non teme collaudi. E le procure non hanno nulla su cui indagare, anche se leggende metropolitane attribuiscono disavventure che non trovano riscontro nella realtà. Purtroppo (e ce ne scusiamo) siamo caduti in una di queste leggende. Il processo per lo scandalo Malpensa non è stato trasferito a Parma dove il procuratore generale Panebianco, per caso inquilino Pizzarotti, basso prezzo di un super attico nel centro della città, avrebbe lasciato scivolare i termini fino alla prescrizione. Non è andata così. Tutto è rimasto regolarmente a Milano. Travolto da scandali che lo legano all'ex presidente della Fondazione Cariparma, Silingardi (a sua volta rinviato a giudizio crac Parmalat), Panebianco deve rispondere a Firenze di certi favori ad amici degli amici non lontani da qualche sottomafia.
A dire il vero, con tante imprese e centinaia di cantieri, anche Pizzarotti qualche guaio l'ha sfiorato ponendovi subito rimedio. L'Italia dei rompipalle non nascondeva certe meraviglie e protestava. 1993, Angelo Martelli, geometra del genio civile in pensione a Parma, si stupisce per il cambio di destinazione di un verde agricolo che il progetto della tangenziale trasformava in verde urbano sul quale non poteva fiorire neanche una panchina. Come mai nel 1990 la società Diana 2 (sede nella sede Pizzarotti, presidente il direttore generale della Pizzarotti) compra 83 biolche di terra che non vale niente pagando ogni biolca (3081 metri quadrati) 120 milioni di lire, dodici volte il prezzo di un buon campo di grano? Il geometra scrive ai giornali locali: cosa sa Pizzarotti sulla vera destinazione dei terreni incolti? Lettera troppo lunga, nessuno vuol pubblicarla. Allora Martelli bussa alle autorità: ancora silenzio. E Diana 2 querela. Il Maigret in pensione si rivolge al Corriere della Sera che gli dedica una pagina su Sette, supplemento illustrato. A questo punto la pigrizia della procura delle nebbie ha un sussulto. Affida agli esperti la perizia sul prezzo dei terreni. Diana 2 ha il buonsenso di far telefonare dal suo avvocato Gian Carlo Artoni (poeta elegante) all'avvocato Volponi, difensore del Martelli: ritira la denuncia, paga spese e onorari. Non vuole dibattiti. E neanche una riga di malumore al Corriere.
Poi la variante trasforma l'erba in oro mentre la Pizzarotti vince l'appalto per la costruzione di case dove abiteranno agenti carcerari e altri poliziotti. La legge Amato ne proibisce l'isolamento nell'area ex agricola. Ecco che attorno alle case nasce un quartiere con apposito supermarket. Purtroppo i subappaltatori falliscono e mentre si annuncia il raddoppio del quartiere su ciò che è rimasto delle 83 biolche, i cinque palazzi civetta somigliano agli scheletri di Hirsohima. L'altro cerotto è di qualche giorno fa: dopo una rincorsa di 12 anni, un politico accusato di concussione dimostra in Cassazione di non aver concusso: la verità era diversa. Piccole cose, coriandoli che in fondo sottolineano contraddizioni sorprendenti tra la Pizzarotti Cittadella della Giustizia di Bari e la Pizzarotti Cittadella della Carta di Parma. A Bari trasparenza e chiarezza; a Parma ermetismo e silenzi. A Bari progetti proiettati per due volte in consiglio comunale. Ogni giornalista ottiene il Dvd per studiare virtù e difetti sul televisore di casa. L'ingegnere Cutolo distribuisce con dovizia immagini e documenti. A Parma reticenza, mistero, irritazione.
Ancora una volta Pizzarotti non c'entra. La qualità dei politici del Sud (centro sinistra) e dei politici del Nord (centro destra) chiariscono o incupiscono i sospetti. Ubaldi, sindaco di Parma inventore della città cantiere, non sopporta chi mette il naso nel cantiere dove vorrebbe trasformare in albergo, negozi e resindence l'Ospedale Vecchio, palazzo che da ottocento anni veglia sulla città, sede dell'archivio che raccoglie i secoli di un ducato e carte di scrittori, storici e poeti come Attilio Bertolucci. Il progetto disperde manoscritti che segnano storia di una piccola capitale, in luoghi non definiti dentro casse sorvegliate da chi non si sa. Da Parigi scrive Jacques Le Goff, supplicando con gentilezza dal suo amato medioevo. Appello respinto, troppo vecchio, cosa ne sa? Questa l'eleganza del sindaco. Mario Lavaggetto è il primo a saggista a protestare con un bellissimo intervento sull'Unità. Torna il disprezzo del primo cittadino padrone. Perché se ne impicciano certi pseudo intellettuali? Ma le buone maniere non sono il problema: il problema è che il progetto non viene presentato con la chiarezza barese, ma raccontato a bocconi, nascondendo all'opposizione, senza spiegare carte alla mano, cosa davvero si vorrebbe fare. Inutilmente protestano i cinque sindaci che hanno preceduto il centro destra: buttati via con parole di compassione. Bisogna dire che il potere di chi decide è aiutato dagli svolazzi di un'altra pasta di intellettuali la cui debolezza fa qualche calcolo: un grande imprenditore può sempre finanziare libri e iniziative, insomma, risorsa da non far arrabbiare. Anche il sindaco diventato traumaticamente assessore alla cultura, va coltivato con garbo. Plach, plach italiano con giornali e tv locali schierati sull'entusiasmo. Evviva, evviva la Cittadella della Carta. Solo il piccolo Polis e le sue cronache fanno i conti nel rispetto della verità.
Per fortuna si muove un'altra città anche se tenuta sottoriga. Da Isa Guastalla che discende dalla tradizione di “Palatina” e del “Raccoglitore”, all'architetto Maria Pia Ranza, fino alle ultime generazioni, Anna Zaniboni, nipote del pittore Mattioli. Poi Marzio Dall'Acqua, responsabile dell'Archivio: alle sue lettere disperate fa eco l'indignazione di studiosi di ogni parte del mondo. Si raccolgono attorno all'avvocato Allegri: per difendere gratuitamente crociere e affreschi dell'Ospedale da manipolare, fonda l'associazione culturale Monumenta e apre una battaglia misconosciuta dall'informazione locale. Affidandosi alle regole che la legge prevede, Allegri ottiene finalmente il progetto, lo distribuisce ai partiti del centrosinistra che reagiscono con proposte presentate al teatro Regio: Serventi, Ds; Ablondi che guida con piglio battagliero una Rifondazione battagliera; Libera la Libertà di Mario Tommasini e La Margherita. Pretendono chiarezza e avanzano un progetto per salvare il palazzo. L'avvocato Allegri impugna la decisione del sindaco e il modo in cui è stata scelta la proposta “sacrilega” della Pizzarotti. Un mese fa il Tar gli dà ragione. I lavori non cominciano, le trombe per il momento tacciono. E la giunta non nasconde la rabbia, ma ancora oggi gran parte della cittadinanza non sa bene cosa sia successo perché l'informazione è il nodo che distingue Bari da Parma. 1 - continua
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