Non è facile descrivere la vulnerabilità del territorio italiano, meglio di quanto lo faccia l'immagine di quel vagone sospeso nel vuoto. Essa spiega molte cose.
Ci dice che, le piogge concentrate e dalle conseguenze sempre più disastrose, (in una settimana piove quanto in un intero anno) sono figlie di un cambiamento climatico che nessuno sembra voler seriamente affrontare.
Ma quell'immagine non ci racconta solo di ritardi ed inadempienze, evidenzia anche colpe e responsabilità: di tante infrastrutture costruite in aree a rischio o di interi territori incapaci di assorbire le piogge perché ricoperti di cemento ed asfalto.
E più quella foto la si guarda e più ci dice che la riduzione e la prevenzione del rischio nel quale viviamo è una priorità assoluta di un programma di governo. Farne però una priorità non significa definire un elenco di opere, di appalti o soldi da distribuire, ma prendere un insieme di decisioni che affermino che sono finiti gli usi speculativi ed abusivi del territorio, per lasciare il posto a quelli sostenibili.
Nel corso di questi anni questo giornale ha più volte ripetuto che la principale opera pubblica da fare, in questo paese, è un piano di riassetto idrogeologico.
Quel treno sospeso nel vuoto rappresenta con forza l'Italia che ci lascia Berlusconi.
Non basterà però cacciarlo, per avere un territorio più sicuro, se il governo che gli succederà non saprà affermare una nuova cultura della terra e delle acque. Una cultura fatta di tre ingredienti: conoscenza (elaborare in un anno una carta geologica a scala 1:5000 che fornisca una mappa vera del rischio) di prevenzione (misure di salvaguardia, vincoli, delocalizzazioni e revisione delle concessioni) e di manutenzione diffusa della terra e delle acque (piani di rimboschimento, lotta agli incendi, demolizioni delle case abusive).
Una cultura che per affermarsi ha però bisogno di una moratoria o almeno un ripensamento concreto delle decisioni prese di ulteriore infrastrutturazione pesante del paese (come ad esempio le nuove autostrade, il Mose, il ponte sullo stretto).
Speriamo, che la fortuna e la bravura dei macchinisti, che hanno fermato quel treno sull'orlo del baratro, facciano capire a Romano Prodi che il declino di questo paese può essere fermato e che il riassetto idrogeologico del territorio è il patto con gli italiani che s'impegna a sottoscrivere.
Titolo originale: Chicago’s “Mayor for Life” seems less so - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
CHICAGO – il sindaco Richard M. Daley stava spiegando il superamento per 48 milioni di dollari del costo di un terminal all’Aeroporto Internazionale O’Hare quando un frequentatore regolare delle sue conferenze stampa ha chiesto se, fra cinque o dieci anni, presenterà scuse del genere per il fatto che il suo ampliamento dell’aeroporto da 15 miliardi ha sforato il preventivo.
“Sarò ancora qui, fra cinque o dieci anni?” l’ha interrotto Daley, cercando di sfuggire alla questione con un sussulto di sorpresa. “Grazie!”
Nel passato, nessuno avrebbe messo in dubbio la longevità di Daley, un Democratico i cui incredibili margini di vantaggio in quattro rielezioni gli hanno fatto ereditare il titolo originariamente appartenente a suo padre, il leggendario boss politico Richard J. Daley: Sindaco a Vita. Le cose sono cambiate quest’anno con l’esplodere di un enorme scandalo di corruzione su consulenze e contratti che ha portato a 30 incriminazioni, una dozzina di dimissioni dal gabinetto del sindaco, e all’interrogatorio dello stesso Daley dai magistrati federali.
Ora, anche se Daley continua ad essere celebrato a livello nazionale come il miglior primo cittadino degli Stati Uniti – audace e visionario costruttore che ha rivitalizzato il centro e rinnovato le scuole pubbliche – si trova di fronte a un’opposizione senza precedenti in un Consiglio che controllava da lungo tempo, e potrebbe trovarsi di fronte il primo serio sfidante alle elezioni da quando è entrato in carica.
Burbero e sarcastico, propenso alle gaffes, il sessantatreenne Daley in quest’ultimo difficile anno è pubblicamente scoppiato in lacrime e di rabbia, ma si scrolla di dosso qualunque traccia degli scandali quando afferma in una intervista recente “Si va avanti, non si può vivere nel passato”.
Così continua a parlare della sua passione di sempre, l’istruzione, o della nuova ossessione, la concorrenza della Cina. Ha festeggiato il trionfo nelle World Series dei suoi amati White Sox. E attraversando le strade dei più remoti quartieri della terza più grande città d’America, prende nota di lampioni rotti, fioriere vuote e recinzioni da riparare, assicurandosi poi personalmente che venga fatto.
Ma la corruzione è stata l’oggetto della prima domanda – cambierà la sua agenda? – dopo un discorso a un gruppo organizzato. La nomina di tre nuovi commissari lo scorso mese è stata oscurata dalle voci secondo cui c’erano problemi nell’attirare competenze al Municipio. Durante il suo ultimo discorso alla presentazione del bilancio annuale, c’erano manifestanti all’ingresso con cartelli che dicevano “Soldi per la gente, non per gli scandali”.
“Il suo guaio principale è col governo federale” dice John Callaway, osservatore di lunga data della politica cittadina ed ex conduttore di un programma di questioni pubbliche, “ Chicago Tonight”. “Chi sono le persone di grado più elevato sinora incriminate o sentite? Cosa diranno di quanto sapeva il sindaco, mentre lui dice di non sapere?”
I magistrati hanno dipinto un quadro di “frode pervasiva” nelle nomine, dicendo che la città sistematicamente ha violato le ordinanze della corte federale contro i favoritismi utilizzando criteri politici anziché di merito, come base per selezionare i candidati a incarichi pubblici. Il sindaco insiste di non essersi mai interessato di nomine, avendo spostato a un ufficio apposito tutte le decisioni sul personale, nominando anche un controllore interno con un grasso bilancio.
Il deputato Jesse Jackson Jr., figlio dell’altro famoso uomo politico cittadino e principale candidato alla carica di sindaco per il 2007, ha detto che secondo un sondaggio commissionato in novembre gli elettori si sentivano offesi dallo scandalo, ma che avevano ancora un elevato giudizio del sindaco.
“Cambiare il sindaco è come cambiare Chicago,” dice Jackson. “Tanta gente non vuole la corruzione, ma non vuole nemmeno cambiare la città”.
Chicago ha avuto un Sindaco Daley per tutti gli ultimi 50 anni, tranne 13: Richard Primo, come chiamano ora il padre, dal 1955 sino alla morte nel 1976, e “Little Richie,” il figlio maggiore, dal 1989. Richard M. firma documenti e posa per le foto dietro l’enorme scrivania di legno che fu di suo padre (e un ritratto di Richard J. guarda sul lungo tavolo riunioni dove il sindaco svolge gran parte del lavoro quotidiano, senza giacca).
Ex eletto all’assemblea statale e procuratore, Daley è stato allevato per questo incarico, e non aspira ad altro.
“Non vuole diventare governatore, senatore, presidente, vice presidente, membro di gabinetto, niente di tutto questo” dice suo fratello William Daley, segretario al commercio durante la presidenza di Bill Clinton e ora vicepresidente della banca Chase. “Il suo interesse è totalmente su una unica cosa: la città”.
Cattolico di origine irlandese, il sindaco non beve più caffè dall’anno scorso come fioretto di quaresima, sostituito da tè verde a colazione, succhi di frutta durante la giornata. Non guida una macchina da un quarto di secolo, ma percorre spesso le strade della città in bicicletta. È da poco nonno, e suo figlio è entrato da poco nell’Esercito; un altro figlio è morto di spina bifida a due anni.
Sostenuto da un’economia dei servizi in forte crescita e parallela caduta della criminalità negli anni ‘90, Daley ha guidato la rinascita di questa ex capitale industriale sulle coste del Lago Michigan, invertendo la perdita di popolazione con grossi investimenti nei quartieri più vicini al centro terziario, di cui è fra i 70.000 residenti con la moglie, fra gli edifici sviluppati in altezza e i lofts che sbocciano come fiori. Gioiello della corona, qui, il Millennium Park, pezzo da 475 milioni di dollari, esposizione di architetture e sculture che, nonostante il ritardo di quattro anni nell’inaugurazione e il costo doppio del preventivo, ha entusiasmato turisti, residenti e critici d’arte.
Nel 1995, Daley si è impossessato del controllo del consiglio scolastico, primo di molti altri sindaci di grandi città che l’hanno seguito. Ha pompato 4 miliardi dentro al sistema per realizzare 38 nuovi edifici, ha esteso i programmi pre-scolastici, post-scolastici ed estivi, portando a un costante aumento nei livelli standard di valutazione, che restano comunque bassi.
“Per quanto riguarda le scuole pubbliche, è stato davvero il nostro Mosé” dice J. Thomas Cochran, direttore della U.S. Conference of Mayors. “Con Daley abbiamo avuto due anni di valutazioni 101, 102, 103 e 104 delle scuole pubbliche. Dieci anni fa non ne parlavamo, ma lui ci ha insegnato che se non si fanno funzionare le scuole la gente abbandona le città”.
Lo stesso Daley afferma che “la priorità centrale di questa amministrazione, una e unica, sono le scuole pubbliche”.
L’eredità forse più tangibile di Daley è l’aspetto esteriore di Chicago, sia nei luccicanti quartieri centrali che nei numerosi quartieri popolari un tempo famigeratamente degradati. Da quando è entrato in carica, nella città si sono piantati 400.000 alberi, si sono aggiunti spazi verdi per 80 ettari, e realizzate fasce verdi stradali che si estendono per 110 chilometri. In primavera i viali sono tappezzati da migliaia di tulipani colorati, i fiori preferiti dalla moglie.
Fra le principali differenze col Sindaco Daley Primo, ci sono i profondi rapporti che ha saputo sviluppare con le minoranze, in una città i cui 2,9 milioni di abitanti sono per il 36% afroamericani, 31% bianchi, 26% ispanici. Eletto la prima volta col solo 2% del voto nero, ora ha il consenso di almeno il 25% dei neri, e ha evitato una vera opposizione, in questa città di tribù politiche etniche, almeno in parte investendo nei quartieri delle minoranze.
Ma Jackson dice che la Chicago di Daley è stata “la storia di due città” il centro brillante sul lungolago o i quartieri settentrionali che vantano “tre posti di lavoro per ogni persona”, e le parti meridionali (rappresentate da Jackson) “dove ci sono più o meno sessanta persone ogni posto di lavoro”.
I dissidenti, che di solito erano zittiti rapidamente, sull’onda degli scandali hanno iniziato a trovare seguito in Consiglio. Questo mese è stata approvata un’ordinanza che vieta il fumo nei ristoranti, a cui si opponevano il sindaco e i suoi sostenitori nel mondo degli affari.
Una proposta per introdurre contratti di privatizzazione è stata oggetto di numerose riunioni quest’estate, e sarà portata al voto probabilmente molto presto. Nelle assemblee sul bilancio, i membri del consiglio sono stati molto più critici di quanto non si ricordi sia mai accaduto prima, nei confronti sia del sindaco che dei suoi capi dipartimento.
Anche se sono stati i titoli di prima pagina di quest’anno sullo scandalo corruzione ad aver intaccato maggiormente il capitale politico di Daley, il punto di svolta è collocabile poco dopo la sua rielezione nel 2003 quando, nel cuore della notte, con decisione unilaterale chiuse Meigs Field, il piccolo aeroporto del centro città, mandando le ruspe a tagliare delle grandi X sulla pista.
Daley parlò di problemi di sicurezza legati agli attacchi terroristici del 2001, ma molti videro solo una mossa dittatoriale per realizzare il sogno a lungo coltivato di trasformare quell’aeroporto, vicino a casa sua, in un parco sul lungolago.
“La gente diceva lo so che è arrogante, lo so che ha troppo potere, lo so che non ha opposizione politica” ricorda Callaway, analista politico di lunga data, “ma è il modo in cui ha chiuso Meigs Field, credo, che ha spezzato la fiducia di molte persone”.
Secondo Callaway, Daley e suo padre condividono una grande debolezza: “non si fidano davvero di nessuno”. Ecco perché, dice, nessuno dei Daley ha fatto niente per allevarsi un successore.
Invece, Richard il Giovane ha iniziato ancora una raccolta di fondi e nominato un nuovo responsabile del comitato per la sua campagna.
Quando gli hanno chiesto se avrebbe concorso per un sesto mandato - e quindi a una durata superiore a quella di suo padre - Daley ha risposto “Il giorno in cui sarò stanco, mi ritirerò”.
Titolo originale:In Zimbabwe, Mugabe razes more than slums – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
BULAWAYO, Zimbabwe – il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe ha una parole per definire le notizie secondo cui l’operazione Drive Out Trash, campagna di demolizioni urbane mirata agli slum che il suo governo descrive come programma di miglioramento civico, abbia fatto dei cittadini più poveri dei senza casa.
”Sciocchezze” ha dichiarato alla ABC News in un’intervista trasmessa negli Stati Uniti il 3 novembre. “Migliaia, migliaia, migliaia. Dove sono queste migliaia? Andate là adesso e guardate se ci sono queste migliaia. Dove sono? Uno scherzo dell’immaginazione”.
Forse Mugabe non è stato a Bulawayo, la seconda città dello Zimbabwe, ultimamente.
Solo cinque chilometri a ovest del centro di Bulawayo, Robson Tembo e sua moglie, Ticole, vivono all’aria aperta in un piccolo recinto, 3,5x3,5 metri, fatto di pezzi di legno e rottami. File di sacchetti della spesa di plastica contengono la storia completa dei loro 72 anni.
Otto chilometri a nord, Nokuthula Dube, 22 anni, le sue due figlie e due piccoli parenti orfani se ne stanno accovacciati in una casa di due stanze non terminata fratta di cemento scadente. Quando di recente c’è andato un giornalista, c’era una sconosciuta rannicchiata sul pavimento dell’unico sgabuzzino, addormentata.
Nella parte opposta della città, Gertrude Moyo, 28 anni, vive coi suoi quattro bambini e sette altre famiglie nelle tende piantate fra i cespugli.
C’è più del solo essere senza casa, a legare queste tre famiglie. Fino a qualche mese fa, vivevano tutti a Killarney, una baraccopoli che ospitava i cittadini meno fortunati di Bulawayo sin dai primi anni ‘80.
Oggi, Killarney è un paesaggio lunare di terra cotta dal sole, sterpaglie e spazzatura bruciacchiata. Nello scorso maggio e giugno, i poliziotti hanno fatto a pezzi le baracche, bruciato quel che rimaneva, e cacciato via i più di 800 abitanti, nel quadro dell’Operazione Drive Out Trash.
”Avevano delle spranghe lunghe così” racconta Robson Tembo della polizia, allargando le mani. “Hanno demolito parzialmente tutte le capanne, e poi ci hanno ordinato di distruggere il resto”.
Dice di aver rifiutato, e che allora il lavoro è stato finito dalla polizia, che ha raso al suolo le sue due stanze fatte di pali di legno e pareti di metallo.
A più di cinque mesi dall’inizio delle demolizioni, il governo dello Zimbabwe insiste nell’affermare che la distruzione di 133.000 alloggi, secondo i suoi calcoli, è stata un’operazione di slum-clearance che era necessaria da lungo tempo, e che ha causato ai cittadini solo disagi temporanei.
Il governo sostiene che la gran massa di chi è stato privato dell’alloggio è stata trasferita verso i villaggi rurali dove viveva prima di migrare verso le città, soprattutto alla ricerca di lavoro. Altri, afferma, saranno collocati nelle migliaia di nuove case in corso di costruzione per sostituire le capanne illegali rase al suolo.
Mugabe ha respinto il tentativo delle Nazioni Unite di raccogliere 30 milioni di dollari per aiutare le vittime dell’Operazione Drive Out Trash, affermando che in Zimbabwe non c’è nessuna crisi. Nonostante l’appello pubblico del Segretario Generale ONU Kofi Annan, il 31 ottobre, il governo ha respinto qualunque sostegno che implichi propri cittadini in stato di disagio.
E pure molti lo sono, in stato di grave disagio. Sulla base delle stime del governo dello Zimbabwe, le Nazioni Unite affermano che sono state sgombrate 700.000 persone nel corso delle demolizioni di maggio e giugno, e della successiva campagna, Operazione Going Forward, No Turning Back, quando la polizia ha respinto quanti cercavano di ritornare verso le città e ricostruire.
Un’indagine di agosto su più di 23.000 famiglie dello Zimbabwe condotta da un gruppo di sostegno del Sud Africa, ActionAid International, calcola le persone private di abitazione sino a 1,2 milioni: più di uno su dieci Zimbabweani.
Dove siano finiti molti è un mistero. Il governo ne ha trasportati migliaia in campi di raccolta che poi sono stati smistati, e altre migliaia su camion sino all’aperta campagna, dove sono stati lasciati, apparentemente nei pressi delle loro abitazioni rurali. Si tratta di persone registrate dalle autorità locali, ma quasi certamente sono solo di una piccola parte del totale.
E allora, dove sono i senza casa?
“Questa è ciò che definisco una crisi umanitaria invisibile: invisibile agli occhi internazionali, e il motivo è che gli sgomberati sono stati dispersi” dice David Mwaniki, coordinatore di ActionAid in Zimbabwe.
Molti sono probabilmente con dei parenti; alcuni hanno lasciato il paese.
Altri sono nella savana, e sopravvivono della pietà dei vicini. Molti altri sono svaniti dentro a qualche catapecchia, tenda o casa costruita a metà.
Le Nazioni Unite affermano che 32.000 dei 675.000 abitanti di Bulawayo hanno perso la loro casa, ed è stato loro ordinato di andarsene dalla città durante la campagne di demolizione; i funzionari locali pubblici parlano di 45.000. Torden Moyo, che dirige un coordinamento di gruppi civici chiamato Bulawayo Agenda, sostiene che non ci sono dubbi su dove siano andati.
”Il novantanove per cento ora è tornato” dice. “Sono ancora nei guai, ancora senza casa, ancora senza un centesimo, senza un posto dove stare. Sono stati trasformati in profughi nel loro stesso paese”.
Killarney è la prova di tutto questo. Prima delle demolizioni, era povera sino all’osso ma viva, divisa in tre villaggi con negozi e servizi. Tutto questo è stato raso al suolo e bruciato. A nord-est della città, non lontano dalla strada per l’aeroporto di Bulawayo, ci sono una decina di piante di granturco e qualche vegetale che cresce in un orto improvvisato fuori dalla casa non terminata dove stanno Dube e la sua famiglia, ma cinque di loro sopravvivono con la farina donata da una vicina chiesa
Dube è tornata dalla scuola del nipote un giorno in giugno, e ha trovato la sua casa al Villaggio Uno di Killarney distrutta e in fiamme. Senza casa e incinta, ha perso il suo lavoro di donna delle pulizie in un vicino sobborgo. Suo marito, Nomen Moyo, ha dovuto andarsene per mantenere il lavoro di giardiniere. Dube racconta che lei e i bambini hanno camminato per settimane, dormendo sul ciglio della strada, prima di trovare il guscio dove vivono ora.
Ha settembre, Dube ha partorito una bambina, Mtokhozisi. Ha lasciato soli la figlia di tre anni, Nomathembe, e i due orfani, Pentronella di dieci e Kevin di quattordici, durante il parto in ospedale. Poi è tornata a casa a piedi con la neonata.
”Sono uscita al mattino” racconta “e tornata verso le 3”.
Qualche settimana fa è comparso un uomo.
“Voleva che ce ne andassimo” dice. “Sostiene che questa è la sua casa”.
Se le chiedete dove andranno risponde “Solo Dio lo sa”.
Dall’altra parte della città Moyo, che abitava da 23 anni a Killarney quando è stato sgombrata l’11 giugno, ora vive in una tenda tre metri per cinque coi suoi quattro bambini. Il marito è morto un anno fa. Dice che la polizia prima ha trasportato la famiglia in un campo di raccolta temporanea per senza casa, poi alla tenda. Moyo racconta che le hanno detto di aspettare per una nuova casa.
Il governo sta costruendo una schiera di case di fianco alla tenda, e si dice che siano per chi ha perso l’alloggio per le demolizioni. Moyo dice però che la polizia le detto che la sua famiglia non avrà una nuova casa, ma un pezzo di terra agricola a nord della città.
Nota: il testo originale ripreso dal sito dello Internationale Herald Tribune (f.b.)
Titolo originale: Can New Orleans survive its rebirth? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
NEW ORLEANS – L’ottimismo scarseggia da queste parti. E mentre la gente inizia a frugare nelle distruzioni lasciate dall’urgano Katrina, si insinua la sensazione che il colpo finale debba ancora arrivare, e che cancellerà irrevocabilmente il passato della città.
Il primo segno premonitore è comparso quando il sindaco C. Ray Nagin ha annunciato che il modello per la rinascita sarebbe stato quello dell’insediamento pseudo-suburbano chiamato River Garden, nel Lower Garden District. La sola idea ha allarmato i conservazionisti, che temono il rifacimento dei quartieri storici in forma di lottizzazioni senza carattere servite da negozi big-box.
Più di recente, Nagin ha preso in considerazione la possibilità di sospendere le norme di tutela storica, per rendere New Orleans più invitante per i costruttori: evocando così la possibilità di devastazioni architettoniche e avidità senza limiti.
Ma non sono solo politici e costruttori ad avere colpe, qui. Per decenni la mainstream architettonica ha accettato il presupposto che le città possano esistere in un punto fisso del tempo storico. Ne risulta una versione fiabesca della storia, le cui conseguenze potrebbero essere particolarmente gravi per New Orleans, che era già sulla buona strada per diventare un’immagine da cartoline del proprio passato anche prima che l’uragano colpisse.
Ora, con la città nelle condizioni più vulnerabili, queste voci minacciano di sovrastare tutte le altre. Un dibattito sulla ricostruzione della Costa del Golfo tenuto di recente in Mississippi [vedi link su Eddyburg a pie’ di pagina n.d.T.] è stato dominato dai sostenitori del New Urbanism, che esprime una visione sentimentale e storicista del funzionamento delle città. Nel frattempo chi sostiene una lettura più complessa della storia urbana – ovvero che comprenda la realtà del XX e XXI secolo oltre al fascino di New Orleans del XIX – rischia di essere relegata ai margini.
Il destino che minaccia la città si può verificare a River Garden, il modello futuro preferito dal sindaco. Poche settimane dopo la tempesta, ho attraversato la zona insieme a Wayne Troyer, architetto del luogo che si oppone alla visione del sindaco. Per suggerire alcune caratteristiche da quartiere tradizionale di New Orleans, qui le case sono progettate secondo una miscela di stili. C’è una fila di edifici a schiera su Laurel Street, con le ringhiere di ferro battuto che riprendono molto liberamente quelle del Quartiere Francese. Poco lontano, edifici bifamiliari un po’ più grandi sono modellati sui bungalows tradizionali, con tetti puntuti, portici poco profondi e finestre con persiane decorate a graziose tonalità di rosa, giallo, e azzurro.
Si vedono tutti i segni caratteristici di una lottizzazione suburbana convenzionale. I fili del telefono sono invisibili, sepolti, e le case un po’ più distanti una dall’altra delle loro corrispondenti nella New Orleans vera, per lasciar spazio all’ingresso pavimentato per l’auto. La maggior distanza vorrebbe offrire privacy ma fa pensare invece a diffidenza; il percorso per l’auto tiene la gente lontana dalla strada, e coltiva il senso di isolamento. L’indizio più evidente del fatto che siamo entrati in un ambiente surreale, è la vista di carrelli della spesa vuoti in mezzo ai prati. Vengono dal vicino Wal-Mart, che ha da tempo rimpiazzato i negozi locali in tutti gli Stati Uniti. Al giorno d’oggi, gli ubiqui scatoloni e insegne bianco-blu di Wal-Mart rappresentano la nostra ritirata dentro a un mondo sigillato e omogeneizzato.
Quello che manca del tutto, da River Garden, sono naturalmente i dettagli sottili della vita quotidiana, che si costruiscono nei decenni, e che pure quel quartiere afferma di avere.
A parere di Troyer, l’evidenza più visibile è tutto quel che rimane: cinque solidi edifici di mattoni, unica traccia del quartiere di case popolari St. Thomas Hope, costruito nei primi anni ‘40. Le forme semplici, sormontate da tetti in tegole piatte, rappresentano esattamente il tipo di edilizia pubblica disprezzato dai funzionari pubblici ai nostri giorni.
Ma per Troyer e molti altri architetti della sua generazione, le semplici strutture a tre piani, attorno a una piccola core centrale, hanno dimensioni umane che le distinguono dai grossi interventi. Anche coi propri difetti, riflettono un patto sociale – la promessa di una casa decorosa a basso costo per ogni cittadino – infranto molto tempo fa, e che molto probabilmente non sarà certo ricomposto dalla gentrification urbana.
E River Garden non rappresenta ancora lo scenario peggiore. Guidando lungo il canale industriale qualche giorno dopo, sono arrivato a Abundance Square, un quartiere residenziale per famiglie a redditi misti. Le strade nude del quartiere incrostate di fango sono fiancheggiate da abitazioni che vorrebbero evocare l’immagine di una comunità tradizionale. Ma qui, il risultato è una formula genericamente suburbana: case col medesimo aspetto a scatola, regolarmente separate dagli accessi per le auto, prati vuoti e un sistema di vie privatizzate.
L’argomento a favore di quartieri del genere, naturalmente, sarebbe che New Orleans deve essere ricostruita in fretta, e la formula delle case standardizzate è meglio di niente. È l’argomento delle aspettative troppo modeste, che serve gli interessi dei costruttori e priva la città di tutta la sua vita.
Il presupposto è che l’unica alternativa sarebbe quella di non far niente. Ma in realtà, il modo in cui gli architetti pensano alle città si è evoluto per un certo periodo di tempo; la questione è se la città voglia attingere alle risorse intellettuali che ha a disposizione. Stephanie Bruno, per esempio, dirige il progetto Comeback del Preservation Resource Center. Negli ultimi dieci anni il centro ha restaurato case di architettura vernacolare locale del XIX secolo dette shotgun e bungalows creoli nei quartieri più poveri della città. L’intero programma, rara miscela di conservazione e prospettiva sociale, era parte di una strategia più ampia per far risorgere le zone più povere. Legando continuità storica e orgoglio di appartenenza locale, dimostra che la rivitalizzazione urbana non può essere ridotta a formule ottuse.
Appena a su della St. Claude Avenue, nella Ninth Ward,molte delle abitazioni restaurate appaiono relativamente intatte dalla strada, anche se sono fortemente danneggiate all’interno. Comunque, molte possono ancora essere salvate, dato che sono costruite in acero, un legno duro che di solito resta intatto anche dopo le inondazioni.
Sarà un lavoro difficile, individuare cosa possa essere restaurato. Richiederà il tipo di sostegno pubblico che è diventato una rarità, in un paese che tende a mettere sullo stesso piano interessi privati e benessere collettivo. Quello che la signora Bruno e altri temono di più, è che queste case siano semplicemente spazzate via con le ruspe, come espediente per far spazio a insediamenti di grossa scala come Abundance Square (dopotutto, perché costruire una casa o due quando si può spazzar via un intero quartiere, ricostruirlo, e ammassare profitti enormi?)
Anche se si salveranno molte delle umili case shotgun della signora Bruno, i paesaggi urbani del XX secolo molto probabilmente troveranno pochi difensori. Realizzata nel catino a basso livello, la zona di Mid City simboleggia l’abbraccio della modernità. La sua mescolanza di bungalows in stile California case tardo-vittoriane, ora seriamente danneggiate, ha più elementi in comune con gli sterminati paesaggi di Los Angeles che con le immagini romantiche delle radici europee della città. E come tale, probabilmente sarà ignorata dai custodi locali del passato architettonico.
Solo per ritenere, magari, che gli stili storici rigidamente compartimentati della città possano essere riproposti entro quartieri interamente ricostruiti, sostenendo così una versione del passato in forma di parco a tema.
Senza dubbio grandi parti di New Orleans dovranno essere ricostruite dalle fondamenta. Ma i migliori architetti al lavoro, oggi, probabilmente guarderanno per ispirazione al cavernoso Superdome come alle spirali della Cattedrale di St. Louis. Perché comprendono come le innovazioni della città nel XX secolo – dai bungalows ai canali alle freeways – sono parte integrale della sua identità, tanto quanto l’architettura vernacolare del XIX.
Questo ci lascia meglio attrezzati ad affrontare le questioni della New Orleans del XXI secolo. Passato e futuro devono imparare a vivere insieme.
Nota: il testo originale ripreso dal sito dello International Herald Tribune; l’approccio dei Nuovi Urbanisti citato implicitamente più volte, qui su Eddyburg nell’articolo ripreso da New Urban News (f.b.)
Il centro-sinistra si sta spaccando le ossa sulla Tav Torino-Lione prima ancora di essere messo alla prova come maggioranza di un futuro governo. È quasi una beffa. La Tav Torino-Lione non si farà mai. È un’opera quattro volte più costosa del famigerato ponte sullo stretto di Messina; quattro volte più inutile quanto a volumi di traffico previsti (che anche artatamente gonfiati a 20milioni di tonnellate/ anno non coprono che la metà della capacità da installare); quattro volte tecnicamente più incerta quanto alla sua effettiva fattibilità tecnica: Il ponte rischia di lasciare dietro di sé solo due giganteschi piloni in cemento armato mozzi, con i ferri che spuntano dalle cime, come nei tanti edifici abusivi in attesa di sopraelevazione costruiti nel Mezzogiorno, senza che in mezzo venga steso nulla.
Quanto alla Tav Torino-Lione, nessuno sa ancora che cosa si troverà sotto quelle montagne; si sa comunque che la principale società di perforazione del mondo si è ritirata dall’affare - verosimilmente per le difficoltà incontrate - lasciando il suo posto alla Rocksoil del ministro Lunardi, debitamente nascosta dietro una catena di subappalti.
I costi della sicurezza
Non ho competenze per valutare i rischi connessi alla presenza di amianto e uranio nelle montagne da perforare; posso anche ammettere che esistano e si possano attivare a costi abbordabili interventi di contenimento del rischio (ma qui parlare di costi significa comunque mettere in gioco una montagna quasi inimmaginabile di denaro). Ma per un’opera che promette di trasformare un’intera valle - già dissestata da una viabilità quasi esclusivamente di transito (cioè senza ricadute economiche o sociali di qualche peso) ñ in un cantiere della durata programmata di oltre 13-15 anni, destinati verosimilmente, sulla base di tutte le esperienze pregresse, a raddoppiare, e per il quale si prevede di scaricare sul fondo valle diversi milioni di tonnellate di detriti inquinati e inquinanti, una verifica seria sulle alternative praticabili con interventi meno pesanti sarebbe stata doverosa.
Molti esperti, compreso il presidente delle Ferrovie dello Stato, fautore del progetto, ci dicono che questa alternativa non solo è praticabile, ma è già in parte in corso di realizzazione, e porterà in pochi anni la capacità di trasporto dell’attuale linea Torino-Lione vicino al livello del traffico “previsto” tra venti anni per la Tav Torino-Lione. Ma questa alternativa non è stata inserita nella valutazione di impatto che ha dato il benestare al nuovo progetto; valutazione peraltro mai portata a termine, in violazione della normativa dell’Unione europea, grazie all’esenzione prevista dalla Legge-obiettivo del ministro Lunardi. Ma chi ha detto che il traffico effettivo di merci tra Torino e Lione tra venticinque anni (2030) corrisponderà quello programmato? L’alta velocità Torino-Lione è stata pensata come linea di trasporto passeggeri, e inclusa come tale nel Libro bianco della Commissione europea Crescita, Competitività, Occupazione, noto come Rapporto Delors, che risale al 1994; solo successivamente è stata estesa al trasporto merci come tratta del corridoio 5, trasformandola in una cosiddetta “autostrada ferroviaria”: cioè una tratta lungo la quale i tir in transito sullo stesso itinerario dovrebbero essere caricati su vagoni (in uno scalo ancora da definire, prossimo a Torino), per poi esserne scaricati una volta superata la tratta alpina francese; o viceversa.
Una soluzione che dal 2016 sarà obbligatoria per tutti i tir in transito attraverso la Svizzera, indotta a questa soluzione dal fatto che prima e dopo l’attraversamento del suo territorio, cioè in Francia, Germania e soprattutto in Italia, i tir che effettuano trasporti anche di lunga percorrenza sono liberi di circolare ovunque.
E i tir scorrazzano liberi
L’impossibilità di adottare la stessa soluzione lungo l’attuale tratta ferroviaria, anche rimodernata, è la principale ragione addotta per giustificare l’opera. Ma caricare i tir su una singola tratta, quando sono liberi di scorrazzare nel resto del paese, non ha ovviamente lo stesso significato che proibirne o limitarne il transito di lunga percorrenza su tutto il territorio nazionale. E se limitazioni del genere fossero introdotte anche in Italia, il concetto stesso di autostrada ferroviaria non avrebbe più alcun senso. Che cosa c’entri poi l’alta velocità - che fa guadagnare al massimo due o tre ore lungo il percorso, ma che ne impiega molte di più nelle operazioni di carico e scarico dei tir con il trasporto pesante di merci, nessuno lo ha ancora spiegato. Ma anche il cosiddetto corridoio 5 Lisbona- Kiev è puramente virtuale, non molto diverso dalle linee tracciate con il pennarello da Berlusconi quando illustrava a Bruno Vespa il suo programma. Intanto, tutta la tratta del corridoio a est di Trieste, che potrebbe avere un ruolo fondamentale nel rilancio del suo porto, non è neppure in fase di progettazione, per non parlare del suo finanziamento, non incluso in alcuna previsione budgetaria dell’Unione europea o dei paesi interessati.
In secondo luogo, non esiste alcun traffico di merci pesanti tra Lisbona e Kiev o viceversa. Esiste un intenso traffico in crescita - di merci provenienti dall’estremo o dal medio Oriente, che sbarcano e sbarcheranno sempre più nei porti del Mediterraneo: Barcellona, Marsiglia, Genova, Ravenna e Trieste; ma anche, dopo il trasbordo, Livorno, Napoli, Gioia Tauro, Atene, Bari, ecc. Queste merci poi prendono la via del nord e del centro Europa, o dell’Europa dell’est, risparmiandosi così, fino a che l’effetto serra non avrà sciolto completamente i ghiacci dell’Artico, la circumnavigazione dell’Europa per arrivare a Le Havre, Rotteram e Amburgo. E viceversa.
I“corridoi” che servono questo traffico sono già tutti in funzione (Tarvisio, Brennero, Gottardo, Sempione) o di prossima apertura (Loetchberg) e in via di potenziamento; il che contribuirà non poco a ridurre ulteriormente il traffico in transito tra Torino e Lione. Basta comunque guardare una cartina geografica per capire che la Torino-Lione non è che il più periferico degli itinerari nord-sud; tanto è vero che per raggiungere Lione il collegamento virtuale tra Lisbona e Kiev deve compiere una vistosissima deviazione verso nord.
L’autostrada ferroviaria
In terzo luogo, per trasformare la Tav Torino- Lione in un’”autostrada ferroviaria” occorre che i tir e i loro autisti siano disposti a salirci sopra (a pagamento). Per questo la presidente della Regione Piemonte, schierata a favore del progetto, continua a chiedere “garanzie”: il che vuol dire rendere la cosa obbligatoria. Ma finché non si riforma il trasporto autostradale - oggi in mano a decine di migliaia di padroncini, italiani e sempre più est-europei, peraltro tutti in subappalto, attraverso una catena spesso assai lunga, dei grandi operatori multinazionali della logistica, quasi tutti stranieri inducendoli ad associarsi per ottimizzare carichi, percorsi, consegne e veicoli, sarà ben difficile per governi, di destra e di sinistra, costringere i tir a salire su un vagone. Tanto più che quei governi, finora, non sono stati capaci nemmeno di abolire gli sconti sulle accise del combustibile, perché questi operatori sono in grado di bloccare immediatamente, per protesta, tutti valichi interni e internazionali del paese.
Una vera intermodalità
In quarto luogo, la riforma del trasporto nasce di qui: non accoppiando treni e tir lungo i valichi, o navi e tir nel trasporto marittimo, facendo salire gli uni sugli altri, raddoppiando così vettori e costi; ma promuovendo una vera intermodalità, che permetta di disaccoppiare le motrici dai rimorchi (o dai container che trasportano); di caricare sui treni e sulle navi soltanto questi ultimi, e di farli riagganciare, alla stazione di arrivo, da altre motrici: operazione molto semplice dal punto di vista tecnico; complicatissima in termini economici e organizzativi. Perché presuppone strutture consortili, anche internazionali, che oggi non ci sono, ma che potrebbero essere l’unico argine contro il supersfruttamento dei “padroncini” da parte delle multinazionali del trasporto.
Questo ci riporta al concetto di “corridoio”, che non è solo né soprattutto un tracciato ferroviario o stradale (o entrambi), bensì un sistema logistico di cui i tracciati, debitamente attrezzati, potenziati e messi in sicurezza, non sono che una componente. Ci vogliono poi operatori logistici in grado di valorizzare le opportunità offerte dall’intermodalità, interporti per lo scambio intermodale tra i diversi vettori e tra il trasporto di lunga percorrenza e quello di prossimità; e centri logistici per le rotture e le ricomposizioni dei carichi (comprese molte operazioni di assemblaggio e disassemblaggio di componenti, che è assai opportuno effettuare in questi centri).
Mentre quello che si sa è che la Tav Torino- Lione salterà l’efficiente interporto torinese di Orbassano, per costruirne (forse) uno ancora tutto da progettare e finanziare vicino a Chivasso; che per l’utilizzo dell’”autostrada ferroviaria” non è prevista alcuna “garanzia “; che le alternative offerte dal Sempione e dal Loetchberg sottrarranno altro traffico alla Torino-Lione, i cui costi comunque non verranno mai coperti dall’introito tariffario, tanto è vero che per quest’opera, a differenza che per il ponte sullo stretto, l’operazione del project-financing non è stata neppure tentata.
Infatti quest’opera non è finanziata, se non con un contributo dell’Unione europea destinato a svanire, se si prolungheranno i rinvii dell’apertura dei cantieri, o se non verranno stanziati fondi adeguati per le tratte francese e italiana: quest’ultima per un importo previsto di 6,5miliardi, interporti esclusi, destinato probabilmente a raddoppiare. Con i chiari di luna che il prossimo governo si troverà ad affrontare qualunque sia la futura maggioranza questa sarà sicuramente la prima grande opera a cadere sotto la mannaia degli indispensabili tagli.
In sesto luogo, previsioni così a lungo termine (venticinque anni al 2030) dovrebbero prendere in considerazione scenari più elastici, e non una proiezione lineare dell’attuale trend dei traffici. E in corso un processo di “dematerializzazione” dell’economia che avrà come principale conseguenza la riduzione in peso e in volume dei beni scambiati. È in corso, nonostante i molti processi di delocalizzazione, un ripensamento sull’opportunità di sguarnire completamente i territori delle loro capacità manifatturiere e soprattutto agroalimentari, il che porterà a un ridimensionamento dei volumi trasportati in molti comparti merceologici. È in corso un processo di recupero e valorizzazione degli scarti e dei materiali ricavati dai beni dimessi che farà sempre più delle città una fonte locale di materie prime per l’industria. È in corso un drastico aumento del prezzo del petrolio e anche un processo di progressivo esaurimento delle sue disponibilità che si ripercuoterà inevitabilmente sui costi di trasporto e sulle sue convenienze, rivalutando le produzioni di prossimità. Dove mai si è tenuto conto, anche solo in via ipotetica, di tutto ciò nel progettare la Tav Torino-Lione?
Il consenso preventivo
Per concludere, l’opera non è stata discussa né tantomeno negoziata con le popolazioni della Val di Susa né dai precedenti governi nazionali, né da quelli regionali. Adesso, mentre il ministero dell’interno è passato alle maniere forti, si cerca di correre ai ripari per conquistare “il consenso” delle popolazioni coinvolte. Ma quale consenso? Si è forse disposti a mettere in discussione il tracciato, o la validità dell’intervento? Oppure si tratta solo di far digerire la pillola alle sue recalcitranti vittime.
Ma quale cultura della negoziazione ambientale è mai questa? I negoziati ambientali bisogna farli prima di definire gli interventi, presentando diverse alternative (compresa quella di non fare niente) e prospettando costi e benefici di ogni opzione, eventualmente rinforzati con interventi di mitigazione del danno o di incentivazione o penalizzazione delle diverse situazioni. Fatto a posteriori, quando un ministro dichiara che comunque l’opera si farà, difenderla è solo un suicidio.
Nota: qui su Eddyburg dello stesso Autore, un intervento sul tema Nimby; sugli stessi temi di "sistema", un estratto dal Piano Direttore del Canton Ticino (f.b.)
I due presidenti di Legambiente
In un paese in cui per sostenibilità si intende sopportabilità il compito delle associazioni ambientaliste potrebbe essere notevole. In realtà non è così, anche per la grande confusione di ruoli, di cui questo articolo di Aprile online del 15 novembre 2005 testimonia un aspetto
Francesco Rutelli, qualche giorno fa, ha incontrato i rappresentanti della Margherita del Piemonte per ribadire che, con tutti i controlli e le garanzie ambientali del caso, la Tav sulla Torino-Lione dovrà essere realizzata. Ermete Realacci, deputato della Margherita e presidente onorario di Legambiente (dopo esserlo stato a tutti gli effetti per quasi un ventennio), ha assunto ovviamente la stessa posizione anche se la sua associazione è pienamente impegnata nel movimento popolare che da alcune settimane anima la Val di Susa con cortei e dibattiti contro il progetto di alta velocità.
Roberto Della Seta, il vero presidente di Legambiente, a differenza del presidente ad honorem della stessa associazione, ha infatti espresso il sostegno alla difficile vertenza apertasi in Val di Susa, annunciando la propria presenza alla manifestazione del 16 novembre: "Vogliamo testimoniare la nostra vicinanza a un movimento che, grazie al forte esempio di coesione di un'intera comunità locale, ha posto all'intero paese un interrogativo sulle infrastrutture di sviluppo e di cui i circoli Legambiente della Val di Susa e del Piemonte sono da sempre tra gli animatori". "La Tav – continua Della Seta – non è solo una nuova ferita in una valle già gravata da troppe infrastrutture di trasporto, è anche la risposta più sbagliata, inefficiente e costosa per rispondere alla necessità di ridurre il traffico autostradale e razionalizzare il trasporto internazionale delle merci".
Non è solo il vero presidente di Legambiente a pensarla in questo modo. La Commissione intergovernativa italo-francese ha a disposizione i dati dello studio da lei stessa commissionato nel 2000. In base a questa ricerca, la nuova trasversale ferroviaria non avrà nessun effetto rilevante sul traffico autostradale attuale. Si stima infatti che essa servirà a trasferire su ferro meno dell'1% delle merci che viaggiano su strada dirette al tunnel del Frejus. A seguito di questi dati, ma anche per effetto di una continua diminuzione di domanda di trasporto lungo le direttrici transalpine tra Italia e Francia, i nostri vicini d'oltralpe hanno ridotto fortemente la propria disponibilità a investire su questo collegamento, che - sebbene si svolga per due terzi in territorio francese - sarà in gran parte a carico delle già magre finanze italiane.
"Per ridurre il traffico stradale occorrono infrastrutture che migliorino l'accessibilità alla ferrovia esistente, che dispone di immense capacità inutilizzate, ma anche credibili politiche di limitazione del traffico stradale e incentivi al suo trasferimento su ferro – fa sapere Vanda Bonardo, presidente di Legambiente in Piemonte – La Svizzera lo sta facendo, dimostrando non solo che è possibile ridurre il traffico pesante, ma anche favorire la nascita di gruppi industriali competitivi e moderni capaci di gestire con efficienza il trasporto intermodale. Il tunnel del Frejus servirà solo a chi lo costruirà e non al trasporto ferroviario. La finanziaria ha ridotto fortemente i fondi per le Ferrovie legati agli interventi ordinari di adeguamento, manutenzione e acquisto dei treni e vogliamo spendere 15 miliardi di euro per quest'opera pronta tra dieci anni?".
"Se come speriamo – sostengono ancora Roberto Della Seta e Vanda Bonardo in una dichiarazione congiunta – la lotta della popolazione della Val di Susa avrà successo, forse i soldi che il nostro paese risparmierà potranno essere finalmente investiti per attivare politiche e infrastrutture di vero sviluppo. Per questo, il conflitto sostenuto dai cittadini della Val di Susa è benefico per il nostro paese e per la sua competitività sul medio e lungo periodo". La stessa posizione si può leggere su "la Nuova ecologia" (www.lanuovaecologia.it), il mensile di Legambiente.
Allora, qual è la vera posizione di Legambiente? Quella del presidente onorario Realacci o quella del presidente effettivo Della Seta e della presidente della sezione Piemonte della più blasonata associazione ambientalista d'Italia? Per non generare equivoci, basterebbe che chi fa il deputato e ha scelto questo modo di fare politica non svolgesse anche altre funzioni, seppure ad honorem. L'autonomia tra associazioni, movimenti e partiti dovrebbe essere un dato acquisito per non generare antipatici conflitti d'interessi.
«Il cemento del potere - Storia di Emilio Colombo e della sua città» fu il pamphlet dello scrittore e storico Leonardo Sacco che nel 1982 squarciò il velo su Potenza, «città a misura di ministro», contribuendo a inquadrare in termini più politici il sacco urbanistico del capoluogo lucano. Un saccheggio certamente inserito nel disastro ambientale che la classe dirigente democristiana era andata compiendo nella penisola. Ma a Potenza la tragedia aveva anche connotati squisitamente meridionali, emanazione di un «partito dell'edilizia» che sovrastava qualsiasi altro gruppo di potere, con investimenti che diventavano sempre più fini a se stessi, e in genere lontani da indici corretti di sviluppo. Insomma, l'affermazione di una sorta di «baronato edile urbano» famelico e distruttivo dei caratteri della storia della città.
Cristo si è fermato a Matera
La Lucania però, è stata anche terreno di sperimentazioni urbanistiche d'avanguardia nell'altro capoluogo di provincia, quella Matera che la presenza di un nucleo antico di grande pregio come i Sassi, oltre allo straordinario effetto che ebbe ovunque il racconto dell'avventura di Carlo Levi, avrebbe portato all'attenzione di tutti in Italia e all'estero e ne avrebbe fatto centro di discussioni culturali e politiche. Ma soprattutto, uno dei laboratori dell'urbanistica italiana del dopoguerra. Fu così che si venne formando un'idea della città in cui gli interventi, nei tre settori in cui è possibile dividerla (centro antico-Sassi, centro storico, nuovi insediamenti), avrebbero dovuto avere un andamento armonico e razionale, l'uno in funzione dell'altro. Le cose non andarono così, ma la storia di quel passato in cui Matera divenne punto di riferimento per l'urbanistica italiana più avveduta, è fondamentale per capire quello che sta accadendo adesso in un territorio governato dal centro sinistra in tutte le sue varianti.
Il grido d'allarme che un gruppo di intellettuali da sempre attenti allo sviluppo sostenibile della città ha lanciato dalle colonne di un numero speciale di Basilicata, vecchio giornale di battaglia che ha contribuito in passato all'apertura di inchieste e dibattiti (vedi l'articolo a lato), ha urtato una classe dirigente che non sa reagire alle critiche. Prevale un mugugno tutto meridionale, mitigato da repentine e non molto credibili aperture alla società civile, nell'illusione di andare avanti come se niente fosse, quando invece è evidente che a Matera non sta scoppiando soltanto una questione locale. Perché, in modo del tutto particolare, si intravede una questione più ampia, cioè la linea che il centro sinistra in tema di urbanistica e di «nuove manipolazioni edilizie» sta portando avanti da tempo in molte città meridionali (e italiane) governate dallo stesso schieramento. Ma quali sono i punti che stanno stravolgendo ulteriormente la città lucana? Si va dai palazzoni del centro direzionale con volumetrie ingiustificate, alle operazioni speculative della zona 33 di ingresso alla città, con quello che ironicamente la popolazione ha battezzato il grattacielo, dai complessi residenziali dell'ex Mulino Padula che grava sui Sassi come un orrendo mostro, all'espansione di una città di cinquantamila abitanti che porta alle estreme conseguenze la divaricazione degli anni Settanta.
Una mirabile costruzione tufacea
Nei Sassi non va meglio. Oltre a tagliare cipressi secolari per far posto a ridicoli parcheggi, si va a tentoni con interventi spesso demandati ai privati che disaggregano un sito storico che ha valore solo nella sua interezza e nel suo rapporto con la Murgia dirimpettaia. Oltre che con il retroterra delle cave di estrazione del tufo, ancora abbandonate a se stesse quando invece potrebbero essere il «biglietto da visita» di una cultura del lavoro di grande pregio (i Sassi sono una mirabile costruzione tufacea di grande ingegneria spontanea e non una teoria di grotte). Colpisce in tutto questo l'intreccio tra imprese, tecnici del comune e politici, come se la storia del passato non avesse insegnato nulla. E mentre è difficile mettere il naso nel vespaio di ditte edili, dove spicca la solita impresa Tamburrino, più facile è indagare sull'intreccio tra politici e tecnici comunali. Nel marzo scorso la magistratura ha arrestato il capo dell'ufficio tecnico comunale, architetto Franco Gravina, che oggi è ritornato al lavoro al comune (con altre mansioni). Il tecnico è inquisito per la discutibile gestione dei «Progetti integrati di sviluppo urbano», un affare da 32 milioni di euro. Lo stesso Gravina, insieme all'ex assessore Vincenzo Santochirico, sta poi dietro alla «Eolica Craco», una società edile costituita con l'ambigua copertura delle firme delle mogli, che si propone di costruire, contrastato da un movimento di protesta, la megacentrale elettrica tra Ferrandina e Pisticci.
Racconta Leonardo Sacco, memoria storica delle forze democratiche lucane oltre che direttore di Basilicata: «Il quadro della manipolazione edilizia, sia negli antichi rioni che nella parte nuova della città, è sconcertante. Si impongono oggi riflessioni rigorose, fuori dagli attendismi fiduciosi che fino a poco tempo fa hanno caratterizzato molti convegni. Il fatto è che Matera si è distinta nel panorama dell'urbanistica italiana degli anni Cinquanta del secolo scorso per effetto di un movimento culturale che però allora non poteva riscuotere una convinta partecipazione, per il proibitivo clima politico nazionale e le chiusure della tradizionale società locale. Oggi Matera può essere compresa nella media della cattiva urbanistica nazionale, ma qui è più grave per il suo passato. I poteri locali hanno agito fuori e contro piani e progetti. Hanno avviato con enormi ritardi e maldestri interventi il risanamento degli antichi quartieri dei Sassi, e hanno manipolato fino a travolgerla la pianificazione della parte nuova della città». «Il problema - prosegue lo storico ed ex deputato comunista Raffaele Giura Longo - è che nell'ultimo decennio, dominato dal centro sinistra con tutta la sinistra parte attiva (e qui è l'amarezza per noi), si è irrobustita, non solo negli eredi dell'ex democrazia cristiana, la pratica degli affari personali delle lobby di carta, in cui l'intreccio di interessi tra imprese edili e amministratori ha avuto il sopravvento sulla politica un tempo vigile delle sinistre materane. La pubblica amministrazione, in pratica, assume un ruolo centrale nel selezionare uomini e interessi da avvantaggiare, attraverso un sapiente e mai disinteressato uso del go-and-stop, applicato in versione aggiornata: si fermano negli uffici le pratiche spesso più equilibrate e razionali per accelerare quelle più consone agli interessi lobbystici, che a conti fatti risultano essere anche le più improvvisate e rozze».
Alfonso Pontrandolfi, tecnico ed esperto di bonifica, aggiunge: «La contraddizione più appariscente dell'attuale situazione è la permanenza in posizione dominante delle tradizionali forze consolidatesi nel tempo, sia intorno alle politiche espansive urbano-edilizie, sia intorno al mai abbandonato modello clientelare e assistenziale della spesa pubblica. Il ricomposto centro-sinistra che da un decennio amministra la città, sembra così assicurare una sorta di continuità con il passato, nell'azione politica come nei metodi dell'amministrazione». La scelta di dare gratuitamente in concessione per 99 anni un immobile nei Sassi (i quartieri sono proprietà demaniale) a condizione che lo si risani con un importo a fondo perduto che va dal 40 al 60%, ha fatto sì che si ristrutturi con la più fervida fantasia, al di fuori di qualsiasi rispetto dell'unitarietà del luogo. Tommaso Giura Longo, docente di architettura oltre che autore di articoli sul nostro giornale del destino dei centri storici e dei Sassi in particolare, è come sempre puntuale: «La collocazione casuale degli immobili per abitazione e per attività produttive e la mancanza tra di loro di una rete dei servizi sociali, commerciali, di trasporto pubblico, hanno impedito che tra le persone oggi insediate nei Sassi si ripropongano quei civilissimi legami di mutuo scambio e di solidarietà umana che caratterizzavano i rapporti tra il vicinato. Perciò, oggi i Sassi non si presentano più come una parte di città abitata, ma soltanto frequentata. Suoi frequentatori sono anche coloro che li abitano e che vanno a lavorare altrove e anche coloro che vi esercitano una qualche attività di artigianale. Girando oggi per i Sassi, si può constatare che gli interventi a ruota libera dei privati, né guidati né arginati da significativi interventi pubblici, sembrano proporre spesso falsificate operazioni di presunte manifestazioni popolari».
La vittoria di Mel Gibson
Raffaele Giura Longo riprende l'analisi, cercando di mettere il dito nella piaga di questi anni: il rilancio dei Sassi come una sorta di Disneyland dell'affare e del divertimento: «Sono stati anni di grande sbando per i Sassi, con l'affiorare di vecchie tendenze oleografiche, populiste e avventuriste. Messa la mordacchia a ogni seria sperimentazione socio-culturale, quasi del tutto inascoltata è rimasta la voce di coloro che avevano proposto anni fa lo slogan virtuoso «i Sassi attirano ma la città accoglie», per dire dell'unitarietà dell'intervento tra i Sassi, il centro storico dal Settecento in poi e la parte nuova. Alla fine ha vinto Mel Gibson con il suo bisogno dell'orrido scenografico». Ma non è detto. Perché in città si respira un'atmosfera critica verso il comportamento delle amministrazioni degli ultimi anni. Quattromila cittadini hanno firmato un documento di protesta contro la politica urbanistica comunale; gli abitanti del borgo rurale di Venusio, nato negli anni Venti con i fondi dei combattenti della 1° guerra mondiale, sono scesi in piazza contro gli stravolgimenti dei nuovi insediamenti, mentre non si fa nulla per la riqualificazione del loro villaggio; nei Sassi ci sono state proteste di un comitato di quartiere contro l'uso scorretto dell'antica città. Saprà Matera essere punto di riferimento, oggi, contro un uso sconsiderato del territorio da parte di un centrosinistra che si fa scudo della politica berlusconiana sul piano nazionale per perpetrare i vecchi vizi del trasformismo sul terreno locale?
In queste ore il centrodestra ripropone, di fatto, in Finanziaria la vendita delle spiagge demaniali ai privati concedendo gli arenili pubblici più intatti a chi vi costruirà grandi alberghi. In queste ore il centrodestra va all'attacco dell'ambiente con una legge delega scandalosamente al ribasso sul piano delle salvaguardie per parchi, rifiuti, inquinamenti, valutazioni di impatto ambientale, ecc. In queste ore il centrodestra progetta un «colpo basso alla Merloni» (come ha scritto il Corriere Economia supplemento del Corriere della Sera) cancellando cioè, con decreto legislativo, le garanzie di concorrenzialità e di trasparenza negli appalti. E continuano ad essere tempi da lupi per l'urbanistica: vola sempre bassa sul cielo del Senato la minaccia della legge Lupi (Forza Italia) già passata alla Camera. Per liberalizzare? Apparentemente. In realtà per dare il governo del territorio in mano a pochi grandi detentori di aree. Il criterio di fondo è ovunque lo stesso: il patrimonio pubblico viene privatizzato, ma non per liberalizzarlo. Si tratti di ambiente, di spiagge libere, di appalti, di aree fabbricabili, il fine è quello di trasferirne il controllo a gruppi di interessi forti, a privati potenti. L'interesse pubblico viene ancora una volta abbattuto e divelto in nome di una serie di interessi privati privilegiati. Dietro queste leggi spunta, inesorabile, la logica del Berlusconi immobiliarista.
Il disegno è chiarissimo e va in un senso preciso: privilegiare e premiare non già il profitto di impresa bensì la rendita fondiaria speculativa. Il tutto a colpi di accetta o di mazza, con leggi la cui struttura e scrittura appaiono delle più rozze, delle più primordiali. Come il capitalismo del quale risultano al servizio. Prendiamo la legge Lupi per l'urbanistica. Su di essa è appena uscito un libro utilissimo, a più mani ("La controriforma urbanistica", Editore Alinea di Firenze, con contributi di Edoardo Salzano, Vezio e Luca De Lucia, Luigi Scano, Paolo Urbani ed altri, 12 euro), che consente di mettere a fuoco quel percorso di dissoluzione della pianificazione urbanistica, operata cioè in nome dell'interesse generale, sul quale si sono già messi Comuni (Milano in testa) e Regioni (la Lombardia, ma la stessa Regione Lazio con un disegno di legge molto discusso).
Con la legge Lupi, viene interrotto "il plurisecolare tentativo dell'autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare" (Salzano), in nome della più schietta cultura liberale tesa a trasferire le risorse da impieghi improduttivi (la rendita) a impieghi produttivi (il profitto). Interviene dunque un cambiamento epocale: i piani regolatori non sono più atti "autoritativi" del potere pubblico elettivo, bensì "atti negoziali". Con chi? Coi cittadini, si risponde ipocritamente. In realtà, con quanti posseggono aree e/o diritti edificabili. Ecco un altro punto essenziale (e micidiale): se un costruttore ha avuto una concessione edilizia pubblica su propri terreni, acquisisce, a vita, un "diritto edificatorio" che può liberamente commercializzare, scambiare (Luca De Lucia). Come se fosse un bene giuridico a se stante, separato dalla proprietà dell'area per cui era stato concesso. Meccanismo infernale perché, prima o poi, tutti i diritti edificatorii acquisiti dovranno essere soddisfatti, indipendentemente dall'interesse pubblico, dalla sostenibilità ambientale, dai valori paesaggistici, ecc. Quale sarà, allora, il potere dell'Ente pubblico (Regione, Provincia, Comune) nei confronti dei proprietari di aree urbanizzabili e di diritti edificatorii? Nient'altro che quello di negoziare, rinunciando così a pianificare in base a criteri di interesse collettivo.
Secondo il rito ambrosiano (che qui diventa legge dello Stato), spiega Vezio De Lucia, "progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il PRG che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate". Conseguenze? Si cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio; si incentiva il consumo di suoli; si azzerano gli standard urbanistici nazionali; si elimina la tutela dei beni culturali, ambientali e paesistici dai PRG locali. Uno Tsunami.
Un ultimo dato fra i tanti: il consumo di suolo non urbanizzato. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, con strumenti diversi, si adottano leggi per "risparmiare" sul consumo di suolo, agricolo o comunque non urbanizzato. In quei Paesi "lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene comune" (Antonio di Gennaro), utile alla produzione agricola, al riciclo di risorse e alla ricostituzione di aria, acqua, terra, ecc., al mantenimento degli ecosistemi, delle biodiversità, del paesaggio. Da noi, no. Eppure, in poco più di mezzo secolo, ci siamo "mangiati", ricoprendolo di cemento e asfalto, quasi il 40 per cento della superficie non urbanizzata del 1951. Ad un ritmo, come minimo, doppio di quello tedesco il quale sta sui 47.000 ettari l'anno. Noi superiamo i 100.000 e talora i 200.000 ettari. Un impazzimento collettivo.
Ma, mentre l'Europa più avanzata, ne discute e vara misure di "risparmio" del suolo, di riciclo delle aree già urbanizzate, ecc. noi, il Bel Paese dove il paesaggio è ricchezza anche turistica, non ci pensiamo per niente. Anzi, con la legge Lupi, il centrodestra propone di potenziare la logica di quella devastante "abbuffata" territoriale che già ora ha cancellato i confini fra città e città, facendo sparire la campagna. Fermare, battere la società Asfalto&Cemento si può, si deve. Prima che sia davvero troppo tardi.
Titolo originale: Livingstone turns screw on Stratford landowners – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il sindaco di Londra Ken Livingstone ieri ha avvertito gli interessati ai terreni destinati ai Giochi Olimpici che non verrà consentito in nessun modo di ritardare i preparativi per il 2012, e ha difeso la sua decisione di utilizzare un’ordinanza di esproprio per acquisire le proprietà necessarie al Villaggio Olimpico. Parte delle superfici in seguito saranno destinate al grande progetto di Stratford City, insediamento di residenze, negozi, alberghi e uffici che costituirà praticamente una nuova città nella fascia orientale di Londra.
Gli interessati si sono dichiarati “colpiti, stupiti, e profondamente perplessi” dal fatto che la London Development Agency del sindaco abbia acquisito i terreni usando i poteri di esproprio. Sostengono che l’agenzia abbia incamerato più del necessario, cedendo a una “frenesia di controllo”.
Ma alla sua conferenza stampa settimanale Livingstone ha detto che l’ordinanza era necessaria perché le contrattazioni si stavano muovendo troppo lentamente. “Abbiamo avvertito i proprietari che il termine ultimo era la settimana scorsa e che non ci saremmo spostati da lì. Saremmo stati lieti di concordare prima ma non potevamo evitare il CPO [ compulsory purchase order] se ci si metteva troppo”.
”In questi casi, quando diciamo che c’è una scadenza che non possiamo rinviare, la gente deve accettare il fatto che stiamo parlando seriamente, e la data non sarà cambiata. Non vogliamo mettere a rischio la preparazione dei Giochi Olimpici in tempo ed entro il budget fissato per non seguire la tabella di marcia”.
Ha poi proseguito sul tema dei tempi da rispettare. “Se non avessimo emesso il CPO saremmo stati dipendenti dalla cooperazione [dei proprietari] sulle consegne per tempo. Sarebbe stato il più grosso ricatto nella storia delle costruzioni e avremmo dovuto pagare decine di migliaia per avere l’area”.
”Non possiamo metterci in una posizione in cui possiamo essere minacciati. Non daremo ad alcun operatore privato il diritto si modificare i tempi”.
Livingstone ha affermato che le contrattazioni possono continuare per la modifica dei termini del CPO. Che il progetto di Stratford City non sarà messo in pericolo e che le proteste erano solo “una posa”. Una fonte degli interessati ha dichiarato: “Questa è semplice frenesia di controllo da parte della LDA, e tra l’altro rischiano di farsi nemiche le grosse e prestigiose imprese internazionali di cui avranno bisogno per le realizzazioni olimpiche. Se si comportano così, chi vorrà più far affari con loro?”
Un portavoce della London & Continental Railways, proprietaria di alcuni terreni destinati alle Olimpiadi, ha dichiarato che in negoziati continuano. Ha aggiunto: “Alla luce degli attuali rapporti siamo sorpresi dal linguaggio emotivo utilizzato dal sindaco”.
Anche se la LDA sostiene di essere lieta di raggiungere accordi con le imprese ed enti interessati, la questione è controversa. La prossima settimana l’agenzia terrà una riunione fondamentale con le imprese interessate che possiedono i terreni necessari allo Stadio Olimpico, a Marshgate Lane, Stratford.
Gli interessati sostengono che la LDA ha cercato di ottenere le superfici a prezzi stracciati, affermazione fortemente negata. Livingstone ieri ha ripetuto la sua contestata tesi secondo cui in alcuni casi le negoziazioni con la LDA erano finite in un vicolo cieco per sinistri motivi. “Alcune imprese hanno perseguito una vasta campagna politica tentando di convincere il Comitato Olimpico Internazionale ad assegnare i giochi a un’altra città” ha detto.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Titolo originale: In China, a golf community on a supergrand scale – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Shenzen – La grandeur ha sempre fatto parte della sensibilità cinese, e il complesso da golf del Mission Hill Golf Club and Resort sembra coerente con il fatto che le dimensioni contano.
Dal maggio 2004 il Guinness dei Primati ha ufficialmente inserito questo intervento, a sola mezz’ora d’automobile da Hong Kong, come il più grande complesso del mondo.
Ma anche colle sue 180 buche sparse per oltre 7.700 ettari, i costruttori ricordano che Mission Hills non è stata creata solo per battere dei primati. È pensata piuttosto per rendere più facili gli affari: una specie di ufficio all’aria aperta circondato da residenze che sono tra le più care del paese.
”Non abbiamo costruito questo complesso di dieci campi per soddisfare il nostro ego” dice Ken Chu, vicepresidente del Mission Hills Group e figlio di David Chu, il presidente dell’impresa. “È puramente una struttura di sostegno allo sviluppo economico della regione, di Shenzhen e Guangdong”.
La provincia di Guangdong è uno dei poli principali per l’esportazione in Cina sin da quando l’area è stata aperta all’investimento estero nel 1978 nel quadro delle riforme economiche di Deng Xiaoping. Concentra circa un terzo del volume d’affari con l’estero del paese.
Ma per anni ci sono state poche occasioni di intrattenimento per gli uomini d’affari, e così secondo Chu il complesso di Mission Hills è stato pensato come spazio entro ciu potessero abitare e socializzare. “Non è solo golf, o proprietà immobiliare, si tratta di costruire una città” sostiene Chu.
Se si parla di grandeur, il golf è solo uno degli elementi per misurare dimensioni e ambizioni del complesso. Mission Hills vanta parecchie cose “ top in Asia”: il maggior numero di campi da tennis, 51; il percorso da golf più difficile, disegnato da Greg Norman; la più grossa sede di club, e qullo che sarà il più grande complesso palestra una volta finito l’anno prossimo.
Le residenze, sino a 864 metri quadrati, si vendono a circa 2.500 dollari il metro: care per la Cina, ma appena un decimo delle case di lusso a Hong Kong.
Mission Hills non rende noti i dati di vendita, anche se sono state cedute più di mille proprietà e sono in corso di completamento 80 case di lusso nel primo lotto di residenze. Tutti gli alloggi sono stati acquistati prima dell’inizio delle costruzioni. Si prevedono altre tre fasi di realizzazione nei prossimi tre anni.
È comunque il golf che ha consentito a Mission Hills di conquistarsi una visibilità su scala mondiale in un tempo tanto breve. I campi sono disegnati da alcuni dei principali nomi del golf, come Jack Nicklaus, Vijay Singh, Ernie Els, Annika Sorenstam, e Norman.
E ci sono voluti solo dieci anni per realizzare tutti i dieci campi, con gli ultimi cinque completati contemporaneamente in due anni. Una crescita tanto rapida rispecchia l’incredibile velocità del progresso economico cinese, e le crescenti domande della fiorente middle-class locale.
”L’unico rivale possibile è il Pinehurst” dice Colin Hegarty, presidente e fondatore del Golf Research Group, con riferimento al complesso su otto campi del North Carolina. Ma aggiunge, “Là si costruisce un campo più o meno in quindici anni. Cinque campi in due anni è una cosa davvero insolita”.
”Nei prossimi dieci anni la gente rimarrà stupefatta dalla quantità di campi realizzati in Cina” conclude.
Il numero al momento non è noto, dato che non ci sono organizzazioni che ne tengano il conto. Ma Han Liebao, professore alla Forestry University di Pechino, sta conducendo un’indagine per conto del governo. Ritiene che ci siano 306 campi, compresi quelli in corso di costruzione. Di questi, solo due sono aperti al pubblico, ed entrambi si trovano a Shenzhen.
L’idea del campo da golf unito ai complessi residenziali è nuova, qui, e alcuni costruttori preparano terreni con le ruspe per sola “immagine”. Ma l’anno scorso, Pechino ha congelato le realizzazioni.
”La preoccupazione è che il paese continui a perdere terreni agricoli per realizzare campi da golf, il che minaccia la produzione alimentare” dice Han.
Secondo lo studio, che sarà pubblicato in novembre, solo l’8,57% dei terreni ora utilizzati per il golf sono arabili. “Il governo non capisce che raramente i campi da golf sottraggono terra agricola” dice. “La maggior parte sono costruiti su rive di fiume, zone inutilizzate, pietrose, o sabbiose”.
Altra preoccupazione del governo è l’uso di pesticidi per i campi, che secondo alcuni funzionari minaccia le scorte idriche.
Mission Hills sembra aver rispettato la proprie promesse in termini ambientali. Sono stati sradicati centinaia di alberi durante la costruzione su questi terreni un tempo inutilizzati, ma poi sono stati ripiantati lungo i margini dei percorsi. Nelle fasi iniziali è stato sviluppato un massiccio programma di fertilizzazione dei suoli per sostenere il prato, ma ora è il personale di 2.400 caddies a strappare le erbacce, per evitare l’uso di pesticidi.
Quando i Chu hanno iniziato il progetto di Mission Hills, sono stati ingaggiati statunitensi e italiani, per dare alle abitazioni un ambiente occidentale. Le case hanno interni spaziosi, con corridoi aerati e soffitti alti sette metri e mezzo; gli esterni hanno un aspetto europeo, con tetti a tegole.
Le abitazioni sono fornite senza arredi, e attico e seminterrato non sono compresi nel prezzo per unità di superficie.
”Per la gente che vive qui, si tratta di Oriente che incontra l’Occidente” dice Carol Chu, direttore esecutivo di Mission Hills e figlia del fondatore. “Molti hanno scelto di vivere in Cina, ma hanno abitato in tanti posti in tutto il mondo. Così, vogliono vivere in qualcosa che appare loro familiare”.
Degli abitanti di Mission Hills, più della metà proviene da Hong Kong, e poi da Taiwan o altre zone dell’Asia. Ci sono industriali, imprenditori, politici, tutti attratti dalle caratteristiche e dal prestigio del complesso.
Nel corso di una recente promozione, per esempio, gli acquirenti sono stati invitati a un concerto di Roberta Flack e omaggiati con anelli di diamanti da 2 carati.
Mission Hills ha anche copiato l’uso occidentale di collocare le case vicino ai campi. Gli appartamenti cinesi di norma sono realizzati in grossi complessi, e anche le case singole spesso hanno vedute limitate. Ma a Mission Hills, ogni abitazione ha una vista, almeno parziale, sul percorso da golf.
”In tutto il mondo le visuali più costose sono sul verde e sul blu; il blu vuol dire mare, corsi d’acqua, oceano, e il verde sta per giardini, montagne, o campi da golf” dice Ken Chu. E qui sta la principale differenza. Abbiamo sistemato me case in modo strategico per aumentare al massimo la visuale”.
Se Mission Hills imita l’Occidente, le sue dimensioni superano di parecchio quelle dei complessi simili di successo. Uno studio su 1.200 complessi degli USA condotto dal Golf Research Group di Hegarty, mostra che sono quelli sui campi più piccoli a dare maggiori profitti.
”Le persone accorte costruiscono con un occhio al bilancio. L’idea è di mantenere le dimensioni contenute in modo da cogliere l’aumento di valore degli immobili, senza avere un grosso carico che può affondare l’investimento” dice Hegarty.
Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune (f.b.)
"Il partito di Falcone e dei ragazzini" non aveva un comitato centrale o uno stemma, ma in realtà era l'unico partito esistente in Sicilia, oltre alla mafia. Il rumore di fondo, in quegli anni, era costituito dalle dichiarazioni dei sindaci che escludevano l'esistenza della mafia nella loro città, dai giornali ad azionariato mafioso che invocavano silenzio, dalla brava gente che lavorava chiassosamente all'autodistruzione della sinistra, e dai colpi di pistola. Furono i ragazzini di Palermo a scendere in campo per primi. Il liceo Meli, l'Einstein, il Galilei, poi via via tutti gli altri. Si passava sotto il Palazzo di Giustizia e il corteo, che fino a quel momento aveva gridato a voce altissima i Nomi, faceva improvvisamente silenzio. Là dentro lavoravano i nostri magistrati. Falcone, Borsellino, Di Lello, Ayala, Agata Consoli, Conte: metà del Partito erano loro. L'altra metà, i liceali. A Catania, fra il 1984 e il 1986, furono almeno trecento i ragazzi che in una maniera o nell'altra parteciparono, da militanti, alle iniziative dei Siciliani Giovani: furono i primi a gridare in piazza i nomi dei Cavalieri e a lavorare quotidianamente - il volantino, il centro sociale, l'assemblea - per strappargli dagli artigli la città. A Gela, a Niscemi, a Castellammare del Golfo, nei paesini dove i padroni hanno la dittatura militare, essi vennero fuori e lottarono, paese per paese e città per città. "La Sicilia non è mafiosa – affermavano orgogliosamente - La Sicilia è militarmente occupata dalla mafia". La Sicilia, dove ancora nel 1969 un ragazzo fu fatto uccidere dal padre - boss mafioso - perché era iscritto alla Fgci. La Sicilia che ha combattuto, che non s'è arresa mai.
Ha combattuto, ed ha fatto politica, ha ragionato. La politica come partecipazione, come trasversalità, come società civile nasce nelle lotte palermitane e catanesi di quegli anni: oggi è common sense dappertutto. La fine del vecchio ceto politico, di tutta la vecchia storia, fu intuita per la prima volta qui. Non è un caso se il movimento studentesco, due anni fa, è ripartito da Palermo, e se là dura tuttora. Non è un caso se Palermo è l'unica città d'Italia dove sia cresciuta un'opposizione di massa, dove l'opposizione sia vincente. Non è un caso se a Catania il più totale black-out di tv e stampa non riesca - due volte in due anni - a fermare i candidati dell'opposizione. Non è un caso se a Capo d'Orlando i commercianti si ribellano, non è un caso se a Gela gli studenti restano organizzati; e non è un caso se a Palermo la gente non reagisce invocando la pena di morte ma individuando lucidamente le responsabilità dei politici di governo e prendendosela con loro. Dal 1983 - e sono ormai nove anni - in Sicilia è in atto, con alti e bassi ma con una sostanziale continuità; non ancora maggioritario ma già ben lontano dal minoritarismo. - un vero e proprio movimento di liberazione. Contro la mafia, ma anche contro tutto ciò che essa porta con sé.
Questo movimento avrebbe potuto essere esattamente l'anello che mancava alla sinistra italiana, il punto di partenza per ricostruire tutto. Invece, è rimasto solo. Solo a livello di palazzi, di comitati centrali, di radical-chic, di giornali: non a livello di ragazzini. Domani, ad esempio - ma non è una novità, perché avviene regolarmente ogni settimana - c'è assemblea dei liceali dell'Antimafia a Roma. Sono i soli, in Italia, a non avere paura dello sfascio. Perché sanno che c'è una classe dirigente pronta a prendere la responsabilità del Paese anche domattina, se fosse necessario - e non è detto che non lo sia. Orlando, Claudio Fava, Carmine Mancuso, Dalla Chiesa? Sì: ma anche - e soprattutto - Davide Camarrone del liceo Meli, Antonio Cimino di Corso Calatafimi, Fabio Passiglia, Nuccio Fazio, Vito Mercadante, Angela Lo Canto, Carmelo Ferrarotto di Siciliani Giovani, Nando Calaciura, Tano Abela, il professor D'Urso: avete mai letto questi nomi sui giornali? Benissimo. Infatti, neanche i nomi dei primi socialisti uscivano sui giornali, cent'anni fa.
Una metà del "partito" oggi non c'è più. Martelli, il giudice Carnevale, Pannella e Cossiga sono riusciti, ognuno con i suoi mezzi, a svuotare il Palazzo dai nostri magistrati e lo stesso Falcone, ben prima d'essere ucciso, era già stato messo in condizione di non essere più quello di prima. Dei "vecchi", solo Borsellino e Conte sono rimasti al loro posto. Ma nel frattempo sono cresciuti i Felice Lima, i Di Pietro, i Casson.
Care amiche e cari amici, qui di seguito, sottopongo alla vostra attenzione una mia riflessione sul tema delle periferie che tanto sta facendo discutere.
Tutt’altro che una novità, le mie parole sulle periferie e il loro malessere sono l’espressione di una mia preoccupazione antica: ne ho sempre parlato nei miei interventi in giro per l’Italia ed era un tema affrontato già nel 1995 in una delle 88 tesi per il Programma dell’Ulivo, la numero 65 intitolata “Ricostruire la città costruita: una politica per la città”. Ne cito alcuni passaggi: “occorre cambiare completamente direzione - vi si legge -…riqualificare l’esistente…valorizzare le periferie…ricostruire la città costruita , come nell’esperienza di alcune amministrazioni locali, in modo da riqualificare la città, promuovendo luoghi e spazi per la comunità. Di importanza dominante è affrontare il problema drammatico delle periferie (dove si concentra il maggior malessere di vita del nostro paese) con interventi sui servizi, le infrastrutture, il verde pubblico e privato, con la manutenzione delle zone comuni”.
In quelle poche righe, frutto del lavoro di tanti, è già indicata sinteticamente una direzione per affrontare un problema che si è progressivamente aggravato nel tempo ed è il frutto di una somma di elementi. Da quelli che hanno a che fare con la pianificazione territoriale e con un’edilizia non pensata per la comunità e per le persone che ci devono vivere e non solo dormire, a quelli della disoccupazione e della scarsità di servizi, da quelli della povertà e dell’esclusione sociale fino a quelli (più recenti per il nostro Paese) legati ai flussi di immigrazione.
So benissimo che non siamo Parigi. Ma penso che occorra cogliere per tempo, anche da noi, i segnali di disagio piccoli o grandi che siano. E i segnali ai quali mi riferisco - lo hanno detto in questi giorni diversi esperti di scienze sociali- non riguardano soltanto le situazioni più drammatiche di alcuni quartieri di alcune città soprattutto del nostro mezzogiorno (e non solo) ma anche la vita quotidiana di città ricche. Sono segnali, per esempio, le famiglie che iscrivono i figli nelle scuole di quartieri diversi da quelli in cui vivono, le persone che evitano, più o meno giustificatamente, di attraversare certe zone cittadine, caseggiati o quartieri che vengono progressivamente abitati (dati in affitto o venduti da cittadini italiani) soltanto da persone straniere. Tutti fenomeni che segnalano una comunità che si sta frantumando e nella quale gli anziani vivono in solitudine, i bambini crescono senza spazi per loro, e dove rimangono a vivere le famiglie con più problemi.
La “geografia della città”, cioè la trasformazione urbana, richiede “una regia”. Non nego che molte amministrazioni abbiano già cominciato da tempo ad affrontare il problema con anche qualche buon risultato. Ma gli equilibri raggiunti sono delicatissimi e sempre da tenere sotto osservazione. Su di essi infatti si scaricano sempre le nuove emergenze. Si può dotare un quartiere di servizi e far funzionare un centro di aggregazione sociale, illuminare le strade e rinnovare l’arredo urbano, e tanto altro. In questo modo si riesce a ridar vita a quel quartiere. Ma se, in modo non programmato (e oggi le occasioni sono moltissime), ti arrivano improvvisi insediamenti di nuclei familiari con tanti problemi, devi ricominciare da capo. Programmare una città vuol dire arrivare a capire prima (e, quindi, prevenire) ed evitare che i problemi si concentrino in una sola area. Altrimenti fai i quartieri “ghetto”.
Ecco perché condivido l’opinione secondo cui le città devono tornare al centro dell’agenda politica italiana. Sempre più spesso la città entra nel dibattito politico per le pur giustificate preoccupazioni sulla sicurezza e non come il luogo in cui crescono le persone, i nostri figli, dove dobbiamo vivere noi stessi, i nostri anziani e i nuovi cittadini. Un luogo che richiede anche innovazione amministrativa, tecnologica, sociale, ed economica.
Qualche giorno fa, su “La Stampa”, la sociologa Chiara Saraceno ha efficacemente sottolineato le diversità e le somiglianze tra la situazione francese (dove i problemi sono vissuti in particolare dalla terza generazione di immigrati) e quella del nostro Paese (dove invece il disagio riguarda tanto ancora gli italiani). E proprio sui quartieri in disagio si rovesciano quasi inevitabilmente i problemi degli immigrati. Finiamo così con il chiedere ai più deboli di farsi carico anche della convivenza con altre culture.
La politica deve dunque occuparsi primariamente delle origini del disagio che sono ancora una volta il lavoro precario o mancante, la casa che non c’è, la scarsità di servizi, una scuola che promette troppo poco.
Occorre inoltre una grande attenzione quotidiana allo spazio intorno a noi, una vera e propria “politica della manutenzione”, perché è importante vivere in luoghi “curati”. Io sono nato in una città, Reggio Emilia, in cui si è sempre teorizzato che una scuola bella è un ulteriore maestro: “l’ambiente è un insegnante in più. In ambienti migliori si apprende meglio”. Lo diceva il pedagogista che ha progettato la “celebre” rete delle scuole materne reggiane. Ed è per questo che mi dispiace che le periferie siano spesso così esteticamente brutte.
Per tutte queste ragioni, ci vuole sinergia tra politiche economiche e del lavoro, politiche dell’immigrazione, politiche sociali soprattutto finalizzate all’inclusione, politiche urbanistiche ed abitative, affinché sappiano creare case e quartieri vivi e non ghettizzanti, con verde e spazi comuni, in cui la gente possa vivere meglio. Bisogna tornare ad impegnarsi nell’edilizia sociale (siamo rimasti molto indietro rispetto agli altri Paesi europei).
E, dunque, nessun equivoco. A queste cose pensavo quando, intervenendo qualche giorno fa ad un gruppo di studio sul welfare alla Fabbrica, ho lanciato l’allarme sulle nostre periferie. Oggi prendo atto che la mia preoccupazione è condivisa da più parti, a cominciare dal ministro dell’Interno le cui parole non sono interpretate da nessuno come l’invito a provocare rivolte incendiarie in giro per l’Italia. Me ne rallegro: segno che qualche spazio di confronto, benchè faticosamente strappato a strumentali polemiche di parte, ancora sussiste.
Lo ribadisco: Parigi non è qui ma, se non agiamo per tempo, potrebbe non essere così lontana. L’ho detto anche in relazione al fatto che questa Finanziaria che interviene in un momento di grande crisi del Paese in cui si allarga sempre di più la forbice tra ricchi e poveri, taglia risorse proprio a quelle amministrazioni locali che dovrebbero aiutare le periferie più disagiate.
Io voglio luoghi in cui tutti noi possiamo vivere meglio
La tempesta che ha distrutto New Orleans si è materializzata dai mari tropicali a 125 miglia a largo delle Bahamas. Inizialmente classificata come «depressione tropicale 12» il 23 agosto, rapidamente si è intensificata diventando «tempesta tropicale Katrina»: l'undicesimo uragano cui sia stato assegnato un nome in una delle stagioni più ricche di uragani della storia. Attraversando la Florida e raggiungendo il Golfo del Messico, dove ha vagato per quattro giorni, Katrina ha subito una trasformazione mostruosa e in gran parte inattesa. Distraendo grandi quantitativi di energia dalle acque del Golfo, calde in modo abnorme (tre gradi centigradi sopra la temperatura media di agosto), Katrina è cresciuta improvvisamente diventando uno spaventoso uragano di classe 5, con venti a 290 km/h che alimentavano onde degne di uno tsunami, alte quasi dieci metri. (Come ha poi spiegato Nature, Katrina ha assorbito dal Golfo talmente tanto calore, che «dopo il suo passaggio la temperatura dell'acqua è scesa fortemente, scendendo in alcune regioni da 30 a 26 gradi centigradi»).
La mattina di lunedì 29 agosto, quando ha raggiunto la terraferma presso la foce del fiume Mississippi a Plaquemines Parish, Louisiana, Katrina era scesa alla categoria 4 (venti a 210-249 km/h): una ben magra consolazione per gli impianti petroliferi, i bacini ittici e i villaggi cajun che si trovavano sul suo cammino. A Plaquemines, e poi ancora sulla Gulf Coast in Mississippi e Alabama, Katrina ha sconvolto i bayou (zone paludose, ndt) con rabbia irrefrenabile, lasciandosi alle spalle un paesaggio così devastato che pareva una Hiroshima immersa nell'acqua.
Un calvario annunciato
La morte di New Orleans, naturalmente, era stata predetta. Anzi, nessun disastro della storia americana era stato previsto in anticipo così accuratamente.
Il segretario alla sicurezza interna Michael Chertoff ha poi dichiarato che «le dimensioni dell'uragano superavano qualunque cosa il suo Dipartimento potesse prevedere» ma questo, semplicemente, non è vero. Anche se sono stati sorpresi dall'improvvisa trasformazione di Katrina in un uragano gigantesco, gli scienziati avevano la cupa certezza di ciò che New Orleans poteva aspettarsi dall'arrivo di un grande uragano. «La cosa triste - ha detto un ricercatore dopo il passaggio di Katrina - è che l'avevamo previsto al 100%».
Sin dalla brutta esperienza dell'uragano Betsy, una tempesta di categoria 2 che nel settembre 1965 inondò molte zone orientali di Orleans Parish, ora nuovamente sommerse da Katrina, la vulnerabilità di New Orleans alle onde create dagli uragani è stata ampiamente studiata e pubblicizzata. Nel 1998, dopo un incontro ravvicinato con l'uragano Georges, la ricerca si è intensificata. Un sofisticato studio computerizzato della Louisiana State University metteva in guardia sulla «virtuale distruzione» della città da parte di un uragano di categoria 4 che si fosse avvicinato da sud-ovest. Gli argini e le barriere di New Orleans sono progettati per resistere solo a un uragano di categoria 3, ma anche questa soglia di protezione si è rivelata illusoria nelle simulazioni al computer fatte lo scorso anno dal genio militare ( Army Corps of Engineers).
La continua erosione delle isole della Louisiana meridionale, che costituiscono una barriera, e le paludi dei bayou, (una perdita annuale di fascia costiera stimata in 60-100 chilometri quadrati) fa aumentare l'altezza delle onde che spazzano New Orleans mentre la città stessa, insieme ai suoi argini, sta lentamente affondando. Il risultato è che anche un uragano di categoria tre, pur muovendosi lentamente, oggi inonderebbe gran parte della città.
L'amministrazione Bush ha reagito a queste previsioni respingendo le pressanti richieste di maggiore protezione dalle inondazioni: il fondamentale progetto Coast 2005 per recuperare zone paludose di protezione - il risultato di un decennio di ricerche e trattative - è stato accantonato e gli stanziamenti per gli argini, compreso il completamento dei baluardi intorno al Lago Pontchartrain, sono stati ripetutamente tagliati. In parte, questa scelta è stata una conseguenza delle nuove priorità di Washington che hanno compresso il budget del genio militare: un grosso taglio alle tasse per i ricchi, il finanziamento della guerra in Iraq e, ironicamente, i costi di Homeland Security, il Dipartimento per la sicurezza interna. Eppure, senza alcun dubbio, vi è anche un motivo sfacciatamente politico: New Orleans è una città solidamente democratica, è abitata in maggioranza da neri e i suoi elettori frequentemente decidono l'esito delle elezioni statali. Perché un'amministrazione così implacabilmente «di parte» dovrebbe ricompensare questa spina nel fianco autorizzando i 2,5 miliardi di dollari che, secondo le stime del genio militare, sarebbero necessari per costruire intorno a New Orleans un baluardo di protezione da un uragano di categoria 5?
I vandali della protezione civile
Oltre ad avere finanziato in modo insufficiente il ripristino della fascia costiera e l'edificazione degli argini, la Casa Bianca ha anche vandalizzato la Fema in modo irresponsabile. Sotto la direzione di James Lee Witt (che aveva il rango di membro del governo) la Fema era stata il fiore all'occhiello dell'amministrazione Clinton, guadagnandosi elogi bipartisan per l'efficienza dei suoi interventi di ricerca e soccorso, e per il pronto invio di aiuti federali dopo le inondazioni del fiume Mississippi nel 1993 e il terremoto di Los Angeles nel 1994. Quando però nel 2001 sono subentrati i repubblicani, l'agenzia è stata trattata alla stregua di un territorio nemico: il nuovo direttore Joe M. Allbaugh, ex manager della campagna di Bush, ha bollato l'assistenza nei disastri come un «programma assistenziale sovradimensionato» e ha chiesto agli americani di fare maggiore affidamento sull'Esercito della salvezza ed altri gruppi religiosi. Allbaugh ha puntualmente tagliato molti dei programmi principali che dovevano mitigare l'effetto delle inondazioni e degli uragani. Poi, nel 2003, si è dimesso per diventare un consulente pagato a peso d'oro dalle imprese che aspiravano ad avere contratti in Iraq. (Com'è nel suo stile, recentemente è riapparso in Louisiana come mediatore d'affari per le imprese che mirano ad aggiudicarsi i remunerativi appalti per la ricostruzione dopo il passaggio di Katrina.).
Così c'era ogni ragione di preoccupazione, se non di panico, quando domenica 28 agosto Max Mayfield, il direttore del National Hurricane Center di Miami, ha avvertito in video-conferenza il presidente Bush (ancora in vacanza in Texas) e i funzionari di Homeland Security che Katrina avrebbe devastato New Orleans. Eppure il direttore Brown, di fronte alla possibile morte di 100.000 persone, appariva tracotante: «siamo pronti. Ci siamo preparati a questo tipo di disastro per molti anni perché abbiamo sempre saputo di New Orleans...».
Ma mentre le acque inghiottivano New Orleans e i suoi sobborghi, era difficile trovare qualcuno che rispondesse al telefono o che assumesse il comando delle operazioni di soccorso. «Un sindaco del mio distretto - ha detto al Wall Street Journal un furibondo deputato repubblicano - ha cercato di ottenere soccorsi per i suoi concittadini, che erano stati colpiti direttamente dall'uragano. Ha telefonato per chiedere aiuto, l'hanno lasciato in attesa per 45 minuti. Alla fine, un burocrate gli ha promesso che avrebbe scritto un promemoria per il suo superiore».
Un sindaco fuori uso
Anche il municipio di New Orleans avrebbe avuto bisogno dei soccorsi: l'unità di crisi al nono piano è stata fuori uso fin dalle prime fasi dell'emergenza perché non c'era il carburante diesel per il generatore autonomo.
Per due giorni, il sindaco Nagin e i suoi collaboratori sono stati completamente tagliati fuori dal mondo esterno per il mancato funzionamento delle linee telefoniche terrestri e dei telefoni cellulari. Questo crollo dell'apparato di comando e controllo della città è sconcertante in considerazione dei 18 milioni di dollari in sovvenzioni federali che la città ha speso a partire dal 2002 in addestramento per affrontare esattamente contingenze di questo tipo. Ancor più misteriosa è stata la relazione tra Nagin e i suoi interlocutori statali e federali. Come il sindaco ha detto sinteticamente in seguito, il piano di emergenza cittadino era «far andare la popolazione in zone più elevate e farle inviare i soccorsi in elicottero dai federali e dallo stato», eppure il responsabile della sicurezza interna di Nagin, il colonnello Terry Ebbert, ha stupito i giornalisti ammettendo che non aveva «mai parlato con la Fema del piano di emergenza statale». In seguito Nagir ha cercato di giustificarsi dicendo che la Fema non aveva distribuito preventivamente aiuti.
Com'è inevitabile, molti di coloro che sono stati abbandonati ad annegare nei loro quartieri interpreteranno la negligente incoscienza del municipio nel contesto delle aspre divisioni economiche e razziali che da lungo tempo fanno di New Orleans la città più tragica degli Stati uniti. Non è un segreto che le élite affaristiche di New Orleans e i loro alleati nel Municipio vorrebbero sospingere fuori della città i segmenti più poveri della popolazione, accusati dell'alto tasso di criminalità.
Caseggiati adibiti storicamente ad alloggi popolari sono stati demoliti per fare spazio alle case di un ceto più abbiente e a un Wal-Mart. In altri insediamenti popolari, gli inquilini vengono regolarmente sfrattati per atti illeciti futili come la violazione del coprifuoco da parte dei loro figli. L'obiettivo finale sembra quello di trasformare New Orleans in un parco a tema per turisti - una Las Vegas sul Mississippi - nascondendo la povertà cronica nei bayou, nelle aree per roulotte e nelle carceri fuori città. .
Piccole pulizie etniche
Non sorprende che alcuni sostenitori di una New Orleans più bianca e più sicura vedano in Katrina un piano divino. «Finalmente abbiamo fatto piazza pulita delle case popolari a New Orleans» ha confidato un influente repubblicano della Louisiana ai lobbisti di Washington. «Noi non potevamo farlo, ma Dio lo ha fatto». Similmente, il sindaco Nagin si è vantato delle sue strade vuote e dei suoi quartieri distrutti. «Questa città è per la prima volta libera dalle droghe e dalla violenza, e abbiamo intenzione di mantenerla così». La parziale pulizia etnica di New Orleans sarà un fatto compiuto, senza che le amministrazioni locali e quella federale debbano fare grossi sforzi per dare una casa a prezzi abbordabili alle decine di migliaia di inquilini poveri attualmente dispersi nei rifugi per profughi in tutto il paese. Già si discute sulla possibilità di trasformare alcuni dei quartieri più poveri che sorgono in basso, come Lower Ninth Ward, in bacini di ritenzione idrica per proteggere le zone più ricche della città. Come il Wall Street Journal ha giustamente sottolineato, «questo significherebbe impedire ad alcuni degli abitanti più poveri di New Orleans di fare ritorno nel loro quartiere».
L'amministrazione Bush nel frattempo spera di trovare la propria resurrezione in una combinazione di rampante keynesismo fiscale e ingegneria sociale fondamentalista. Naturalmente, l'effetto immediato di Katrina sul Potomac è stato un calo talmente brusco della popolarità del presidente - e, parallelamente, dell'occupazione Usa in Iraq - che la stessa egemonia Repubblicana è improvvisamente apparsa in pericolo. Per la prima volta dagli scontri di Los Angeles del 1992, le questioni poste dai «vecchi Democratici» come la povertà, l'ingiustizia razziale e gli investimenti pubblici si sono momentaneamente imposte al dibattito pubblico, e il Wall Street Journal ha avvisato i repubblicani che devono «tornare all'offensiva politica e intellettuale» prima che qualche liberal alla Ted Kennedy possa riproporre un rimedio stile New Deal, come ad esempio una grossa agenzia federale per il controllo delle inondazioni o il ripristino della fascia costiera lungo la Gulf Coast.
Su questa linea, la Heritage Foundation ha ospitato riunioni protrattesi fino a tarda sera in cui ideologi conservatori, quadri del Congresso e fantasmi del passato Repubblicano (come Edwin Meese, ex segretario alla giustizia di Nixon) hanno presentato una strategia per salvare Bush dalle conseguenze nefaste del calo di popolarità della Fema. Jackson Square a New Orleans, illuminata a giorno ma vuota, è diventata il fondale spettrale del discorso che il presidente ha tenuto il 15 dicembre sulla ricostruzione dopo l'uragano. È stata una performance straordinaria.
Un laboratorio per il neoliberismo
Con aria radiosa, Bush ha promesso ai due milioni di vittime di Katrina che la Casa Bianca si accollerà gran parte delle spese per i danni, stimati in 200 miliardi di dollari: una spesa pubblica in disavanzo talmente alta che avrebbe fatto girare la testa persino a Keynes. (Il presidente sta ancora proponendo un altro grosso taglio delle tasse per i super-ricchi). Bush ha poi corteggiato la sua base politica con un elenco di riforme sociali cui i conservatori aspirano da tempo: buoni per la scuola e per la casa, l'assegnazione alle chiese di un ruolo centrale, una lotteria «per una casa in città», ampie agevolazioni fiscali alle imprese, la creazione di una Gulf Opportunity Zone, e la sospensione di fastidiose norme governative (come i minimi salariali nell'edilizia e le norme ambientali sulle trivellazioni off-shore).
Per i conoscitori della «Bush-lingua», il discorso di Jackson Square è stato un momento di squisito déjà vu: promesse simili non erano forse state fatte sulle rive dell'Eufrate? Come ha cinicamente osservato Paul Krugman, la Casa Bianca, avendo tentato di fare dell'Iraq «un laboratorio per le politiche economiche conservatrici» e non essendoci riuscita, può ora fare i suoi esperimenti sui traumatizzati abitanti di Biloxi e di Ninth Ward. Il deputato Mike Pence, un leader del potente Republican Study Group - che ha contribuito a scrivere l'agenda del presidente per la ricostruzione - ha sottolineato che i Repubblicani faranno della devastazione causata dall'uragano un'utopia capitalistica. «Vogliamo fare della Gulf Coast un magnete per la libera impresa. L'ultima cosa che vogliamo, dove un tempo c'era New Orleans, è una città federale ».
Significativamente, come ha scritto di recente il New York Times, attualmente il genio militare di New Orleans è guidato dallo stesso personaggio che in precedenza supervisionava i contratti in Iraq. Lower Ninth Ward potrebbe non esistere mai più, ma i proprietari dei bar e dei locali di strip-tease nel quartiere francese stanno già pregustando i guadagni che li attendono, quando i lavoratori della Halliburton, i mercenari della Blackwater e gli ingegneri della Bechtel lasceranno a Bourbon Street i loro stipendi federali. Come si dice nel Vieux Carré e alla Casa Bianca: laissez les bon temps roulez!
Nota: qui su Eddyburg vedi anche : Rimpicciolire New Orleans? di Jon E. Hilsenrath, oltre ai molti altri testi sulla ricostruzione della città (l.t.)
Titolo originale: How green is their tunnel? Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Mentre la torcia olimpica corre verso Torino, un’ombra si allunga sui vicini giochi olimpici invernali dell’anno prossimo.
La disputa sui progetti per un grosso tunnel che corre per 53 chilometri sotto le Alpi è sfociata due volte in violenze nell’ultima settimana. Giovedì, la polizia in assetto antisommossa ha usato i gas lacrimogeni contro i dimostranti, dopo che decine di migliaia di persone avevano approfittato della giornata di festa per manifestare contro i piani per la Val di Susa, che ospita molte delle principali strutture olimpiche.
Gli scontri hanno avuto luogo quando alcuni oppositori del progetto hanno cercato di raggiungere il cantiere già occupato dai contestatori e violentemente sgombrato dalla polizia. Circa venti persone, tra cui cinque poliziotti, sono stati trasportati via in ambulanza dopo gli incidenti, e le tensioni che ne sono risultate devono ancora placarsi.
A dire il vero, queste sono state ulteriormente alimentate dal ministro delle infrastrutture del governo di Silvio Berlusconi, Pietro Lunardi, ingegnere specializzato in gallerie e ardente sostenitore del progetto, il quale mercoledì ha dichiarato che la questione ha smesso di essere responsabilità del suo dicastero, diventando un “problema di ordine pubblico”.
Berlusconi, per parte sua, ha insistito che il progetto deve andare avanti, e che “dal punto di vista ambientale, ha tutte le the [necessarie] garanzie”.
Non è certo quello che pensa la maggior parte degli abitanti, o la maggior parte degli ambientalisti italiani. Essi sostengono che la linea ferroviaria, che collega Torino a Lione, rovinerà la bellezza della valle.
Affermano anche che la montagna contiene depositi sia di uranio che di amianto. Temono che lo scavo del tunnel porterà alla creazione in valle di luoghi di scarico dei rifiuti da cui i pericolosi sedimenti potranno diffondersi nell’aria.
Ma non si tratta solo di uno scontro diretto fra campioni del progresso e dello sviluppo da un lato, e amici dell’ambiente dall’altro. All’inizio di questa settimana la causa degli oppositori del tunnel ha ricevuto un duro colpo da una direzione inattesa.
Gérard Leras, leader dei Verdi nella regione Rhône-Alpes della Francia sud-orientale, ha rilasciato un’intervista al quotidiano italiano Il Corriere della Sera nella quale accusa i suoi colleghi italiani di aver imboccato una direzione sbagliata opponendosi a un progetto che ridurrà l’inquinamento da autocarri nelle Alpi.
Ha dichiarato al giornale: “Un conto è essere ecologisti, un altro essere localisti. Non si può dire sempre di NO”.
Leras sostiene che la zona di Maurienne sul versante francese del confine “non può più sostenere 5-6000 camion al giorno: gli stessi che attraversano e inquinano la Val Susa”.
Ma il progetto dell’alta velocità ferroviaria li toglierà dalla strada? I contestatori italiani sostengono di no. E all’inizio del mese si sono guadagnati il sostegno di un importante esperto di trasporti, Marco Ponti, che insegna al Politecnico di Milano.
Ha raccontato alla rivista L'Espresso di non riuscire a trovare una “motivazione razionale” per costruire il collegamento Torino-Lione. Ponti dice: “La capacità dell’attuale rete [ferroviaria] è già in eccesso rispetto alla domanda, e le merci che viaggiano su ferrovia non hanno bisogno di muoversi a 300km l’ora”.
Per quanto riguarda i passeggeri, continua, hanno già un collegamento ad alta velocità. Si chiama voli low-cost.
Il vertice del comitato olimpico ha dichiarato questa settimana di contare su una tregua, che impedisca alla protesta di riversarsi sui Giochi. Ma con la tensione ai livelli attuali, non c’è alcuna garanzia.
Nota: il testo originale in Inglese: le opinioni di Marco Ponti citate da Hooper, sono meglio argomentate con dati tecnici nell'articolo scritto in collaborazione con Andrea Boitani sul sito La Voce (f.b.)
La Biennale di Tirana cade negli anni dispari insieme alle biennali di Venezia, Valencia, Mosca, Praga e Istanbul; come se non bastasse, nel 2007 si troverà anche a coincidere con la dodicesima edizione della quinquennale Documenta di Kassel. Un affollamento che certo non contribuisce ad attirare nella capitale albanese l’ormai stremato establishment del circuito internazionale dell’arte, ma che in compenso impone alle manifestazioni più “periferiche” un orientamento fortemente site-specific.
La ricerca di una relazione osmotica con il territorio e la popolazione di un paese o di una determinata area geografica rappresenta di fatto uno dei modi più efficaci di arginare la serialità delle biennali: non ci si limita a passare in rassegna le nuove tendenze o le punte eccellenti della produzione artistica internazionale, ma si organizza un tipo di evento in cui gli artisti sono invitati a reagire criticamente alla situazione sociale e politica del luogo, a intervenire nel contesto ambientale e a interloquire con gli abitanti. Cinicamente, si potrebbe persino ipotizzare che la ragione del successo di questa formula sia un interesse voyeuristico nei confronti di regioni di cui si sa poco, un nuovo genere di esotismo.
L’operazione che ha dato notorietà a Tirana e alla sua biennale risale al 2003, quando gli artisti ridipinsero un numero consistente di palazzi con i colori più chiassosi, concordandoli con i residenti: si trattava di un’opera pubblica partecipata, e per di più con una chiara valenza simbolica (spazzare via la grigia impronta dell’era comunista), che non poteva mancare di suscitare l’entusiasmo generale.
La terza edizione della mostra, Sweet Taboos (10 settembre-10 novembre 2005), scaglionata in cinque episodi, continua a riflettere sul postcomunismo. Gli edifici che ospitano la mostra, la Galleria Nazionale d’Arte, di epoca comunista, e il Kompleksi ‘Vila Goldi’, un enorme centro commerciale ancora in costruzione, sono metafore fin troppo didascaliche del passaggio brusco da un sistema rigido a un vuoto di regole che non accenna a essere colmato.
Il terzo episodio, Democracies, curato dalla slovena Zdenka Badovinac, è quello più strettamente politico. Le opere raccolte mettono in questione il tabù che le economie parallele (dalla privatizzazione selvaggia al traffico di donne, agli insediamenti e mestieri informali) rappresentano per i modelli europei di democrazia. La sezione di Hou Hanrou è focalizzata sul confronto con l’arte del realismo socialista all’interno della galleria (Go Inside), mentre Bittersweet, della svedese Joa Ljungberg, esplora le relazioni tra sesso e potere. I due direttori della biennale, Edi Muka e Gëzim Qëndro, hanno curato Temptations, sul potere come tabù, che mostra in primo piano, tra le infinite interpretazioni del tema, un quadro del 1974 raffigurante il Congresso degli 81 partiti comunisti di Mosca, una sorta di palinsesto della censura: la fitta trama delle cancellature, delle distorsioni e delle segregazioni che ha subito racconta la storia dell’isolamento politico dell’Albania.
Dalle fotografie perturbanti di Annee Oloffson, autoritratti deformati dall’intrusione delle mani del padre o della madre, alle installazioni di Platforma 9.81 o di Rubin Mandija che denunciano l’appropriazione dello spazio pubblico, sono molte le opere interessanti.
Tuttavia l’eccezionalità di questa biennale, l’elemento che la rende un’esperienza del tutto atipica, non è il frutto di una scelta deliberata dei curatori. È, al contrario, un fenomeno di resistenza da parte della città, un’opposizione sorda che impedisce allo spettacolo di realizzarsi. I colori dei palazzi, orgoglio dell’amministrazione del sindaco-artista Edi Rama, sbiadiscono inesorabili, il proiettore del cinema Agimi si inceppa, i lavori stradali rendono impraticabile il viale d’accesso alla Galleria Nazionale il giorno del vernissage, la performance di Regina Galindo – che si fa appendere nuda, in attesa di mestruazioni chimicamente indotte, nel garage del kompleksi Goldi, davanti a operai che sbalorditi continuano a lavorare – fallisce, mentre un guardiano si apposta in una saletta video qualche metro più in là, nella sezione Bittersweet, per molestare le donne sole che gli capitano a tiro.
Roberto Pinto, che nell’episodio To Loose Without Being a Looser propone un’idea della sconfitta come rifiuto di partecipare all’ideologia della competizione e della vittoria a ogni costo, è fortemente tentato di appropriarsi di questa rugosità del reale, di farla sua, ma la specificità di Tirana sfugge anche alla sua presa. Uno spiritello situazionista si aggira per le vie, senza che peraltro nessuno lo abbia chiamato.
Quello che la biennale non coglie, se non in minima parte, è la dialettica tra il rifiuto iconoclasta nei confronti di qualunque spazio, uso od oggetto associabile alla dittatura comunista, condizione comune a tutta l’area postcomunista, e il pensiero che alcune componenti di questo rifiuto appartengano alla sfera degli stereotipi. Uno di questi è certamente lo squallore attribuito alla città comunista: pur non avendo un vero e proprio centro storico, Tirana (e anche una parte di Bucarest, come si evince dall’appassionante libro di Giuseppe Cinà sull’argomento appena pubblicato da Unicopli) possiede un bell’impianto urbano, strade alberate e palazzi di epoca comunista che nonostante l’aspetto scalcinato mostrano un buon design, e l’insieme di questi elementi non ha prodotto solo una città civile, ma anche piena di fascino, in cui i caffè, i locali e i negozi aperti dopo la caduta del regime di Enver Hoxha si sono inseriti nel modo più naturale. Bar e ristoranti sono però solo uno degli aspetti della liberalizzazione: circa un terzo della popolazione rurale si è riversato su Tirana, raddoppiandone la popolazione e trasformandola in una sorta di laboratorio di urbanizzazione accelerata. Nel giro di un decennio la città è stata sommersa prima da baracche e chioschi abusivi – in parte rasi al suolo dal sindaco – poi da una speculazione selvaggia che respinge i poveri ai margini. L’energia convulsa di queste migliaia di persone e automobili in lotta per l’accaparramento dello spazio vitale si osserva ancora meglio dall’alto, dove la prospettiva, invece di aprirsi come di consueto, viene soffocata da alti palazzi color pastello, pieni di archetti e timpani postmoderni, a distanza di cinquanta centimetri l’uno dall’altro.
Di fronte a questo scenario di prevaricazione viene da pensare che il vero tabù, ciò di cui è più difficile parlare e proprio per questo bisogna parlare, sia quel conglomerato di desideri e aspirazioni a una “buona vita”, a un uso pubblico, razionale e condiviso della propria esistenza che, a prescindere dalle sue realizzazioni storiche novecentesche, si è sempre celato e insieme rivelato nella parola “comunismo”.
Titolo originale: The Virtues of Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Dalla Pasco County appena fuori Tampa, alle zone dei ranch a nord di Dallas, fino a Phoenix, e Las Vegas e Boise, i chilometri di lottizzazioni appena costruite sono la scelta ufficiale di milioni di americani. I demografi utilizzano oggi il termine “esurbano” a descrivere questo tipo di localizzazione, in zone aperte nelle fasce più esterne alle zone già suburbane, dove è completamente assente qualunque tipo di relazione tradizionale con una grande città. Pianificatori, ambientalisti, architetti, chiamano tutto questo lo spreco dello sprawl, e spingono per un tipo di urbanizzazione più compatta.
Ma nonostante i prezzi della benzina in crescita, che rendono sempre più costoso accedere a questi paesaggi diffusi, alcuni studiosi e commentatori sostengono che lo sprawl, a dire il vero, non è tanto male.
Alcune realizzazioni recenti fuori Los Angeles, Phoenix, e Dallas sono lontane, ma abbastanza dense, ad esempio, e fanno pensare a qualche tipo di strisciante efficienza che si insinua nella continua suburbanizzazione d’America. Una ricerca della Brookings Institution sull’area di Los Angeles ha rilevato una media di venti abitanti ettaro nelle zone di nova urbanizzazione (1982-1997), ovvero tre volte le quantità dell’area metropolitana di New York. Se si guarda alla popolazione per chilometro quadrato, Los Angeles – che per quanto sia ampia è delimitata dalle montagne e dall’oceano – è più densa di Chicago, secondo il Census Bureau. E le immagini delle case unifamiliari stipate tutte insieme, hanno provocato qualche brontolio sul fatto che questa nuova generazione di suburbi non offra abbastanza spazio.
La densità è solo uno dei fattori, nell’analisi dell’insediamento disperso. Dato che tutte le funzioni della vita quotidiana – case, negozi, divertimenti, posti di lavoro – sono rigidamente separate e diffuse, tutti hanno bisogno dell’auto per muoversi. Ciò significa lunghi spostamenti pendolari, ingorghi stradali, meno tempo da passare con la famiglia. Le amministrazioni locali rischiano la bancarotta tentando di estendere le reti idriche e fognarie o alte infrastrutture verso le aree esterne, anche se poi sono dense, una volta che ci si arriva. Lo sprawl si mangia terre agricole e spazi aperti, e l’investimento verso le zone di insediamento diffuso è avvenuto a spese delle zone centrali urbane, peggiorandone la frammentazione sociale ed economica.
Ma è tutta una storia negativa? Può anche darsi, dice Robert Bruegmann, professore di storia dell’arte, architettura e urbanistica alla University of Illinois di Chicago, che individua alcune buone cose riguardo allo sprawl. “Non è meglio o peggio di altri modi di urbanizzazione” sostiene Bruegmann. “Funziona, perché soddisfa molti bisogni. Quando se lo può permettere, la gente esce dalle città. Ora ci sono decine di milioni di persone che possono fare quello che un tempo era consentito solo a una piccola minoranza.
Bruegmann, il cui nuovo libro Sprawl: A Compact History (Chicago), sarà pubblicato alla fine del mese, si aggiunge allo scrittore e consulente Joel Kotkin, all’editorialista del New York Times David Brooks, e ad altri, nel trovare ispirazione nelle lottizzazioni, quasi fossero delle Jane Jacobs di suburbia. Il sostegno all’insediamento disperso segue una lunga tradizione, iniziata da Thomas Jefferson e proseguita da Frank Lloyd Wright. Oggi, Bruegmann e gli altri sentono come importante individuare ciò che di buono esiste nell’urbanizzazione diffusa, perché lo sprawl è stato martellato per oltre vent’anni da attivisti che auspicano una smart growth, o un New Urbanism, quest’ultimo un movimento architettonico che promuove la progettazione di quartieri tradizionali compatti.
Lo sprawl ci da’ “decentramento e democrazia” sostiene Bruegmann says: un tipo di uso ordinato dello spazio che avvicina classe lavoratrice e ceti medi, consentendo un avanzamento economico e sociale. Le abitazioni nei nuovi insediamenti, nel Sud e nell’Ovest, di solito partono da 120.000 dollari. Tentare di arginare lo sprawl significa mettersi di traverso allo sbocciare del sogno americano.
”È un modo per avere cose un tempo riservate solo a pochi”, prosegue Bruegmann. “ Privacy, mobilità – fisica e sociale – possibilità di scelta”.
E lo sprawl non è un fenomeno nuovo. Dalle antiche Roma e Cina, alla Londra del XIX secolo, a Parigi o Los Angeles oggi, la società si è diffusa sul territorio nei fasi positive dell’economia. “Appena le persone possono permetterselo, si verifica una massiccia migrazione verso le zone esterne” dice Bruegmann. Quindi, può darsi che dovremmo tutti smettere di preoccuparci, e imparare ad amare le lottizzazioni.
Naturalmente, altri osservatori del panorama nazionale di insediamento diffuso vedono un futuro più nero. James Howard Kunstler, campione del New Urbanism e autore di The Long Emergency: Surviving the Converging Catastrophes of the 21st Century (2005), sostiene che quando non sarà più disponibile petrolio a buon mercato, l’economia suburbana collasserà: l’organizzazione fisica che richiede lunghi spostamenti per recarsi ovunque si rivelerà una follia. Kunstler prevede solo erbacce secche rotolanti nelle lunghe strisce commerciali davanti ai Wal-Mart.
”Le nostre città in genere sono organismi ipertrofici: sono diventate troppo grandi nel secolo scorso, grazie alla crescita consentita dall’energia a buon mercato” dice Kunstler. “Qualunque cosa siano oggi, certamente dovranno contrarsi nel XXI secolo. Il processo probabilmente comporterà una densificazione dei vecchi centri o sulle sponde, nella generale contrazione”. L’organizzazione attuale delle nostre vite, sostiene Kunstler, “segue l’incessante logica del cancro, dell’ipertrofia, e si dimostrerà auto-limitante, dato che consuma e distrugge il portatore”.
La gran parte degli attivisti smart-growth oggi non occupa il proprio tempo a criticare lo sprawl o a prevedere la caduta del suburbio. L’attenzione principale è rivolta all’offrire una scelta più ampia a chi non desidera abitare nello sprawl: modificando norme di zoning superate che impediscono insediamenti a funzioni miste vicino a stazioni ferroviarie, per esempio.
”La smart growth non afferma che tutto lo sprawl sia orribile” dice John Frece, direttore associato del National Center for Smart Growth Research all’Università del Maryland. “Non si tratta di impedire la possibilità di costruire sprawl: solo di aggiungere quella di fare cose diverse, e metterla sul medesimo piano. Poi deciderà il mercato”.
Bruegmann sostiene di essere piuttosto aperto all’idea che gli americani scelgano diversi modi di vita in diversi momenti dell’esistenza. E, giusto a complicare ulteriormente le idee di tutti, prevede anche che con l’aumento della ricchezza nelle società, più persone desiderano tornare in città. Si tratta solo di capire in che modo l’agiatezza condiziona la domanda di vari ambienti fisici.
”Se si hanno soldi a sufficienza, la vita nell’alta densità può essere molto attraente” dice. “Credo che ci sarà sempre qualcuno che desidera vivere in spazi di tipo suburbano, comunque. Ma se si ha un appartamento spazioso sulla Fifth Avenue con un portinaio, e se si può prendere un taxi o camminare fino al Metropolitan Museum of Art ... ci sono milioni di persone che adorerebbero farlo”.
In definitiva, sostiene Kotkin, autore di The City: A Global History (2005), “I problemi dello sprawl dovranno essere risolti nel contesto dello sprawl. Non si può fermarlo. Non si può riprogrammare la società facendo tornare tutti a Boston. Dimenticatevelo. Non succederà”.
Lo sprawl sta migliorando, dice Kotkin says: più denso, e alla fine con una migliore combinazione funzionale, e negozi e posti di lavoro più vicini alle abitazioni. Kotkin prevede una crescita di questi villaggi suburbani, che chiama “ new suburbanism”, riecheggiando deliberatamente il New Urbanism. Con l’aiuto della tecnologia, più persone saranno in grado di lavorare da casa, o comunque più vicino a casa. Gli spostamenti in auto saranno ancora necessari, ma potranno essere più brevi, e fatto usando veicoli ibridi e ad uso efficiente dell’energia.
”Nella California meridionale diciamo queste cose da anni: semplicemente, è un nuovo tipo di città” sostiene Kotkin. “È come se qualcuno dalla Firenze rinascimentale arrivasse nella Manchester del XIX secolo. Direbbe: dov’è la chiesa nel mezzo? È semplicemente diverso. L’urbanizzazione di suburbia è la grande sfida della pianificazione all’inizio del XXI secolo in America”.
Nota: il testo originale al sito del Boston Globe (f.b.)
Sotto accusa la attuale maggioranza governativa, e, soprattutto, i comuni ricchi ed egoisti delle banlieues metropolitane, i loro sindaci conservatori e il loro maître-à-penser: l’incauto e provocatorio ministro dell’interno Nicolas Sarkozy che sta boicottando in prima persona l’applicazione della legge. Da leggere per riflettere sulle affinità con la questione abitativa e la emergenza casa in Italia, e sui rischi che si potrebbero correre anche nelle nostre grandi città: se non cambiano le cose (m.c.g.).
Titolo originale: Ces banlieues riches qui poussent au crime - Traduzione per Eddyburg di Maria Cristina Gibelli
Dopo le rivolte urbane nella periferia parigina e in provincia, il problema delle case popolari è tornato in primo piano e, con esso, quello della attuazione della legge SRU (Solidarité et renouvellement urbain). Molti comuni della banlieue parigina, come ad esempio Neuilly-sur-Seyne e Saint-Maur-des-Fossés, preferiscono restare “fra ricchi”, lasciando agli altri il compito di risolvere i problemi di mixité sociale.
Concentrare le famiglie povere, gli stranieri, i disoccupati nei quartieri periferici degradati ha costituito da molto tempo un modo sicuro per non vedere i problemi – pagato con episodi di protesta sociale manifestatisi nel corso del tempo in diverse località. Le violenze che hanno scosso la Francia nel novembre 2005, e che hanno reso necessaria la proclamazione dello stato di emergenza nazionale, costringono ad aprire gli occhi.
Il mensile Alternatives Economiques, in un dossier premonitore pubblicato in ottobre (Pas de rélance pour le logement social), aveva già descritto una situazione allarmante: 100.000 famiglie solo a Parigi sono in attesa di un alloggio (con un ritmo di attribuzione di 12.000 alloggi per anno); ogni anno in Francia vengono resi disponibili soltanto 50.000 alloggi supplementari, di cui 35.000 nuovi (complessivamente, meno dell’1% del parco alloggi esistente). Le risorse finanziarie destinate all’edilizia sociale, che rappresentavano lo 0,4% del PIL all’inizio degli anni ’80, si sono dimezzate dall’inizio degli anni ’90. Un decennio più tardi, nel 2001, si è scesi allo 0,1% del PIL.
Secondo l’INSEE, la Francia contava nel 2002 3,5 milioni di persone in condizione abitativa precaria. Nel settore dell’HLM (edilizia economico-popolare), il 22% degli abitanti sono disoccupati, e più della metà hanno un reddito inferiore al 60% del reddito minimo di accesso .
Per cercare di invertire la tendenza, la legge RSU, adottata nel 2000 dal governo Jospin, ha fisssato un obiettivo a 20 anni: 20% di alloggi sociali per tutti i comuni con più di 1.500 abitanti in regione parigina, e con più di 3.500 abitanti in provincia. I comuni inadempienti si espongono a delle sanzioni pecuniarie, tutto sommato neanche molto elevate.
Così, il ricco comune di Saint-Maur-des-Fossés (Val-de-Marne), già famoso per essere una delle ultime città in Francia ad aver sempre rifiutato la raccolta differenziata, paga soltanto 800.000 euro di ammenda all’anno per l’assenza di un impegno sia pur minimo in materia di edilizia sociale.
“Case popolari” sì, ma per popolazione a buon livello di reddito
In un volantino distribuito agli abitanti di Saint-Maur, il sindaco Jean-Luis Beaumont invita a firmare una petizione per l’abrogazione della SRU (indicata come “legge SRU-Gayssot, dal nome del deputato comunista relatore della legge stessa, per spaventare un po’ di più i suoi elettori). Egli scrive che l’applicazione della legge “darebbe luogo a un saccheggio della buona urbanistica” e che “non vi è niente di sociale nell’addensare le abitazioni, nel momento in cui molti di quelli che ci vivono si augurano la scomparsa dei grands ensembles”. Si gioca sull’accostamento fra paura e un’immagine univoca dell’edilizia popolare: quella della tipologia degli edifici a torre (Creteil è a due passi…)
Saint-Maur propone di favorire l’accesso alla proprietà in 30 o 40 anni per le coppie che “dispongano di 2.000-3.000 euro di reddito mensile” (ricordiamo che il reddito medio lordo mensile è di 1.218 euro!); di “esonerare dal pagamento dei diritti di successione diretta, allorché questa successione o donazione riguardi un alloggio in cui l’erede elegge la sua residenza principale” (misura che favorisce i proprietari agiati e che non incide minimamente sull’edilizia sociale, occupata da affittuari), o ancora “di esonerare dalle spese notarili per l’acquisto della prima casa” (mentre il problema per i più poveri è, appunto, di accedere all’affitto).
E il sindaco di Saint-Maur vanta le realizzazioni in corso di edilizia sociale nel suo comune.. un centinaio di alloggi in tutto. Morale: restiamo in buona compagnia e infischiamocene degli altri…
Ma si deve a Nicolas Sarkozy un record ancora più scandaloso. Neuilly-sur-Seyne, di cui è stato sindaco per lungo tempo, si è data l’obiettivo di un tasso di edilizia sociale del 2.6%. Salutiamo questo sforzo, anche se la quota si è fermata all’1,3% nel 2002. Ecco da chi ci vengono date lezioni su come intervenire sulle periferie…
Felicitazioni anche a Ville-d’Avray (3,1%), Celle-Saint Cloud (3,6%), Vincennes (6,4%), Maisons-Laffitte (6,9%) !
Sempre meno abitazioni, sempre meno edilizia popolare
Non basta certo costruire abitazioni popolari. Occorre che siano accessibili a chi ne ha bisogno. E questo non è il caso dei 4 milioni di alloggi disponibili nel nostro paese (di cui la metà in affitto).
In primo luogo, l’aumento dei valori immobiliari spinge gli affittuari a permanere negli alloggi sociali più a lungo, e il tasso di rotazione è in costante diminuzione. Inoltre, i comuni che hanno accolto la maggiore quota di parco sociale, accumulano le difficoltà che si accompagnano alla concentrazione elevata di popolazione pauperizzata e non possono più costruirne di nuovi. Bisogna dunque contare sui comuni più altolocati che, però, non hanno una grande propensione a dedicarsi all’edilizia sociale (e a rischiare una mutazione del proprio elettorato).
Del resto, l’edilizia sociale più costosa (il cosiddetto PLS: Pret Locatif Social) costituisce oggi più del 20% della nuova offerta, contro il 13% di quattro anni fa. Questi alloggi sociali “haut de gamme”, in un mercato già saturo, attirano anche le classi medie. Il fatto è che, poiché questa offerta garantisce affitti più elevati, richiede minori sovvenzioni statali ed è quindi preferita anche a livello centrale.
Le abitazioni per i gruppi più svantaggiati sono sempre più una questione che riguarda il parco privato più degradato. E, per peggiorare le cose, lo Stato in questi ultimi anni ha fortemente ridotto il suo impegno in favore della riqualificazione del patrimonio abitativo più vetusto.
Aggiungete il fatto che la legge Besson del 1999 è stata rimpiazzata dalla legge Robien del 2002 (che prevede che gli aiuti finanziari alle operazioni di riqualificazione abitativa sono concessi a condizione di un impegno economico molto più elevato da parte degli affittuari destinatari degli aiuti stessi): la situazione dell’edilizia sociale non potrà che peggiorare.
E le sommosse ricominceranno per denunciare questa cecità.
Nota : il testo originale al sito ANNU:ART Sullo stesso argomento su Liberation “ 140 villes restent de marbre face à la loi SRU”(m.c.g.)
Titolo originale: Madrid mayor: Visionary or ‘pharaoh’? Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
MADRID – Più o meno ogni due settimane, Alberto Ruiz-Gallardón guida fino a una zona diversa della città, ringrazia gli abitanti per la loro pazienza, e sancisce formalmente l’ultimazione – o la parziale ultimazione – di uno degli oltre 70 grandi progetti di costruzione di Madrid.
Gallardón, sindaco di Madrid serio e che pensa in grande, ha sopportato più di due anni di lamentele e critiche da parte di abitanti stufi per i rinvii, gli ingorghi del traffico, le deviazioni il rumore e la polvere diventati parte della vita quotidiana da quando sono iniziati i grandi progetti, poco dopo la sua elezione nel 2003.
Ma il quarantaseienne Gallardón dice che sarà valsa la pena di questi inconvenienti alla fine dell’opera nel 2007, e Madrid chiede di diritto il suo posto fra le grandi città moderne d’Europa.
”Madrid ha un’ambizione: farsi carico della guida, in Spagna e oltre” ha dichiarato il sindaco giovedì in municipio dopo aver comunicato ai giornalisti la proposta di un nuovo progetto di rinnovamento per un’altra zona della città, stavolta sul margine meridionale del principale parco, la Casa del Campo.
Membro del conservatore Partido Popular, Gallardón sta mantenendo una promessa: è entrato in carica facendo voto di cambiare la faccia di Madrid. La città era considerata da lungo tempo arretrata rispetto ad altre capitali europee: un luogo sovraccarico di tradizione, lento a modernizzarsi.
Anche rispetto al resto della Spagna, la capitale appariva letargica, immobile mentre Barcellona, Bilbao e Valencia si rinnovavano, ravvivavano e reinventavano come città alla moda con appeal globale, alzando il proprio profilo internazionale a attirando turisti.
Ma ora la cronica trascuratezza di Madrid per la sua immagine è finita. Con Gallardón, la città si è trasformata in un grande cantiere, con scavi, gru, martelli pneumatici e cavalletti a bloccare le strade praticamente ad ogni angolo.
”Al momento Madrid sta attraversando il più grande processo di trasformazione urbana della sua storia, e uno dei più ambiziosi d’Europa” ha dichiarato il sindaco in un’intervista via e-mail. “Si sta scrollando di dosso una certa pigrizia del passato”.
E i progetti del sindaco vanno oltre il rinnovo delle infrastrutture. Parla di utilizzare gli enormi tesori artistici della città per proiettare una vivace e seduttiva immagine di Madrid al mondo. Ciò comporta modernizzare l’area attorno al “triangolo d’oro” dei musei d’arte, come il Prado, a creare “uno spazio pubblico veramente unico al mondo” sottolineato da fontane e alberature.
Descrivendo i suoi grandiosi piani, Gallardón si propone come un visionario. Ma i critici lo chiamano “il faraone”.
Proprio come i sovrani dell’antico Egitto, dicono, è ossessionato dall’idea di lasciare un’impronta duratura attraverso mastodontici progetti di costruzioni, senza badare ai costi. Quando terminerà il suo primo mandato nel 2007, si prevede che il debito per la città si avvicini ai 6 miliardi di Euro, circa cinque volte quello di quando è entrato in carica.
I critici contestano che questi progetti non solo stanno portando alla bancarotta la municipalità, ma azzoppano anche l’economia rendendo più difficile per i clienti raggiungere i negozi nelle zone delle costruzioni, e obbligando gli abitanti a impiegare più tempo per gli spostamenti quotidiani. In più, dicono, i lavori danneggiano l’ambiente e peggiorano la qualità della vita.
“La città è collassata” ha dichiarato in un’intervista Trinidad Jiménez, consigliera municipale per il Partito Socialista e probabilmente la critica più radicale del sindaco. “Ha creato il caos assoluto in città, con tutte le sue costruzioni”.
Gli abitanti impiegano in media 30 minuti in più al giorno per spostarsi in città, sostiene la signora, riducendo il tempo a disposizione per lavorare, per la famiglia e per il sonno. “Il problema non sono tanto le costruzioni” aggiunge la Jiménez. “È che ha deciso di fare tutto in una volta”.
La federazione dei tassisti dice che i propri aderenti perdono in media due viaggi al giorno, ovvero l’equivalente di 250 al mese, a causa dei lavori, e ha chiesto al sindaco di sospendere tutte le opere principali sin quando non sarà predisposto un piano per minimizzare gli effetti sul traffico.
Alcune delle critiche più dure si concentrano sulle conseguenze ambientali dei progetti; la signora Jiménez dice che sinora sono andati persi 25.000 alberi. Il sindaco ha promesso di ripiantarne molti, e di raddoppiare quasi il numero di quelli lungo le strade entro la fine del mandato. Ma i critici sostengono che ci vorranno decenni prima che gli alberi crescano maturi a sufficienza per ricostruire il paesaggio.
Gallardón nega che la città sia nel caos, sostenendo che il traffico nelle zone dei cantieri non è più lento che altrove, e che la città è ben lontana dall’essere paralizzata. “Il caos arriverebbe se non modernizzassimo in fretta le nostre infrastrutture, e ci sarebbe un collasso per mancata preveggenza” dice.
Ex procuratore e madrileno di nascita, Gallardón è al centro della politica della città da più di dieci anni, presidente per due mandati della regione madrilena prima di diventare sindaco nel maggio 2003. Conservatore moderato, è popolare in entrambi gli schieramenti ed è stato considerato a lungo un potenziale candidato per la presidenza del consiglio dei ministri.
Ma l’ampiezza della sua popolarità è forse la sua maggior debolezza, dice Carlos Mendo, amico del sindaco e editorialista del quotidiano El País.
”Il guaio con Alberto è che ha più fascino con l’uomo medio che con la base” racconta riferendosi alla base conservatrice del partito. “È un po’ troppo liberal per loro”.
Gallardón ha fatto infuriare i conservatori del partito sostenendo i diritti degli omosessuali. Ha anche suscitato scontento concentrandosi più sull’integrazione degli immigrati che nello scoraggiarli, o invitando alla moderazione nei rapporti con le regioni spagnole a cultura autonomista come quella basca e catalana.
Il sindaco afferma che non ha intenzione di presentarsi come candidato alla presidenza del consiglio alle prossime elezioni parlamentari previste per il 2008. Ma, come ricorda Mendo, Gallardón è abbastanza giovane per poter scegliere il proprio momento, e aspettare un turno in cui il pendolo del partito si sia spostato un po’ più a sinistra.
Gallardón ha dimostrato di aver fascino con gli elettori. Sposato e padre di quattro figli, ama andare in moto e suonare il piano, a sentire gli amici, e le sue conoscenze di musica classica possono rivaleggiare con quelle di uno studioso. Non molto tempo fa, un direttore di El País gli chiese di diventare il critico musicale del giornale: per scherzo, secondo Mendo.
La decisione di Gallardón di concorrere alla carica di sindaco nel 2003 è apparsa come un passo indietro, una mossa sorprendente per un giovane politico in ascesa. Ma sembrava attratto dalla possibilità per un sindaco di incontrare personaggi stranieri importanti e capi di stato, in visita a Madrid tutti gli anni, offrendo un’opportunità ideale per aumentare non solo la propria statura internazionale ma anche quella della città.
Una pietra miliare della sua strategia era vincere la candidatura alle Olimipiadi del 2012, che sosteneva avrebbero fatto alla città quello che era riuscito con i giochi del 1992 a Barcellona:trasformarsi in una delle metropoli più trendy d’Europa. Aver perso la scommessa con Londra in luglio è stato un passo indietro devastante, secondo gli amici.
In molti modi, le trasformazioni di Gallardón riflettono una tendenza. Favorite da una delle più lunghe fasi di espansione economica del continente, le città spagnole hanno ricostruito se stesse per oltre un decennio, modernizzando le infrastrutture e tentando di distinguersi attraverso specifiche architetture.
Seguendo l’esempio di Bilbao e del suo museo Guggenheim, che ha aiutato a trasformare la città da grigio centro industriale a una destinazione turistica di tendenza dopo l’inaugurazione del 1997, centri come Valencia, Barcellona e Córdoba di recente hanno ingaggiato architetti innovativi per aggiungere linee moderne alle proprie skylines.
Il rifacimento di Madrid comprende le immaginose espansioni dell’aeroporto e del museo di arte contemporanea Reina. È uno dei tre, insieme al Prado e al Thyssen-Bornemisza, che formano il “triangolo d’oro” della città e sono al centro del più decantato progetto di Gallardón. Il sindaco sta lavorando con costruttori privati per aggiungere un quarto museo e riunirli tutti in un unico quartiere che possa essere promosso all’estero come emblema delle ricchezze culturali della città.
In molti modi, la visione di Gallardón per Madrid è meno ambiziosa di quel che sembra. La città è ben nota per i suoi musei, l’esuberanza della vita notturna e la quantità praticamente infinita di bar, pochi dei quali sembrano mai vuoti. È anche il motore di una delle più vivaci economie d’Europa, una calamita per un numero crescente di immigrati, dall’unione Europea e da fuori.
Oggi sarebbero in pochi a definire Madrid quelloc he appariva solo qualche decennio fa: una grande città politica, dominata appunto da politici, scrittori, giornalisti e burocrati. Se mancava qualcosa, forse era un venditore: e Gallardón si presenta proprio come the man for the job.
Ai critici dei lavori di rinnovamento il sindaco risponde che non c’è scelta. Senza questi, avverte Gallardón, Madrid rischia di diventare un centro di secondo piano. Con le opere, prevede, Madrid volerà in alto, affermandosi non solo dal punto di vista della forza economica, ma come centro culturale e artistico con pochi rivali in Europa.
Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune; altri articoli della serie sui sindaci delle grandi metropoli del mondo in questa stessa sezione Eddyburg/Megalopoli (f.b.)
UNA DELEGAZIONE di costruttori edili americani, in visita da Chicago, è stordita dall´ammirazione: «Nel tempo in cui noi costruiamo un grattacielo, qui costruiscono da zero una città intera». È l´exploit estremo mai realizzato dalla Cina, che pure di grandi opere ha un´esperienza unica al mondo. In una zona dove fino a pochi mesi fa c´erano solo campi, tra un anno sorgerà dal nulla una città di centomila abitanti, Nuova Zhengzhou.
In meno di dieci anni sarà diventata una metropoli da un milione e mezzo di persone. È un record assoluto, una Dubai innalzata di colpo come un miraggio sulle rive del Fiume Giallo. E non avrà nulla in comune con altri tour de force della scatenata urbanistica cinese. Stop al gigantismo mostruoso e volgare che ha devastato Pechino, Shanghai e Canton, megalopoli-piovre di ipergrattacieli e autostrade urbane, metastasi impazzite della globalizzazione. Nuova Zhengzhou è la prima Utopia post-comunista della Repubblica popolare, la Venezia del terzo millennio, un´Arcadia ambientalista, oasi d´acqua e di giardini, di università tecnologiche e aria pulita.
Questo sogno meraviglioso, 30.000 operai con centinaia di gru e scavatrici lo stanno già costruendo a tappe forzate di giorno e di notte, senza pause né domeniche né vacanze. Il potere ha scelto un luogo simbolico, il cuore primordiale dell´Impero di Mezzo. La vecchia Zhengzhou è capitale di una provincia (Henan) che ha gli abitanti di Francia e Italia messe assieme. Ha 3.500 anni di storia. È un centro nevralgico all´incrocio esatto fra la ferrovia nord-sud Pechino-Canton e quella est-ovest che dal Mar Giallo arriva in Tibet. Tra quei due assi intasati di traffico, la vecchia Zhengzhou e i suoi 2,5 milioni di abitanti stavano soffocando. Così tre anni fa il governo locale ha partorito un progetto senza precedenti. Creare un´altra città più in là, molto più là, in mezzo alla vasta campagna semivuota. Costruirla da zero, in tutti i sensi. Non farsi vincolare dagli errori del passato, non sovrapporre cemento nuovo sul cemento vecchio. Su una pagina bianca disegnare la città-modello, l´ambiente ideale del nostro tempo. Hanno tradotto in mandarino dei concetti – qualità della vita, sviluppo sostenibile – che sembravano un lusso per la Cina. Con un miliardo e 300 milioni di abitanti, tra cui 800 milioni di contadini ancora fermi nel Terzo mondo, la crescita del Pil ad ogni costo ha avuto la precedenza.
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Zhengzhou ha visto Chongqing, Pechino e Shanghai lanciate verso il collasso, proiettate oltre i 20, i 30 milioni di abitanti, strangolate negli ingorghi e nelle nebbie tossiche da inquinamento. Zhengzhou si è ribellata all´ineluttabilità di quel destino. I suoi amministratori hanno organizzato una gara internazionale tra architetti sfidandoli a progettare la Città-Simbiosi: con la natura, con la cultura e la tradizione cinese. Hanno fatto vincere un architetto-filosofo, artista e idealista, per di più giapponese: Kisho Kurokawa, l´autore del museo di arte contemporanea di Hiroshima e del museo Van Gogh di Amsterdam. Kurokawa non li ha delusi. La sua Nuova Zhengzhou è una sapiente e raffinata alternativa alle brutture che sfigurano le megalopoli cinesi. Restaura la civiltà urbana di questo paese: il tessuto dell´antica convivenza sociale favorito dagli hutong, vicoli stretti e nemici delle auto; dai siheyuan, le case familiari a un solo piano, armoniosi quadrilateri col cortile e il giardino interno. Nuova Zhengzhou è una città carosello immersa in un reticolo di canali, eco-corridoi che si collegano a 34 fiumi. Ha un lago artificiale di 800 ettari, il più grande della Cina. Si circonda di parchi e giardini vasti fino a raggiungere le foreste delle vicine montagne per proteggere la biodiversità della regione. Ha anche i suoi bei grattacieli, disposti lungo due girotondi e un arco sinuoso che visto dal cielo, e illuminato di notte, riproduce il carattere cinese riyu, simbolo di appagamento dei sensi. Ha un sistema di trasporti fondato sui vaporetti nei canali, i tram leggeri in superficie, un treno ad alta velocità verso l´aeroporto. Ha un parco tecnologico e tre campus universitari con dieci facoltà, inclusa l´Accademia della medicina tradizionale cinese e un Istituto per la conservazione dell´acqua.
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È il Giardino dell´Eden. La potenza industriosa della Cina lo sta creando sotto i nostri occhi alla velocità della luce. Il pedaggio d´ingresso nel paradiso terrestre però è elevato: più di 300.000 euro per un appartamento di 80 metri quadri. I contadini a cui il governo ha espropriato le terre fanno la fila all´ufficio di collocamento, per essere assunti come manovali nell´esercito proletario che innalza l´Utopia metropolitana. Nella Nuova Zhengzhou la legge del mercato ha già escluso che ci sia posto per loro. La vecchia Zhengzhou, intanto, è la città-pilota per un altro esperimento di ingegneria sociale. È la prima municipalità ad avere reclutato i nuovi corpi speciali della polizia cinese, le teste di cuoio anti-sommossa.
APPENDICI (estratti e traduzioni per Eddyburg di Fabrizio Bottini)
Dal sito della Municipalità
La nuova zona di Zhengdong
Col nuovo secolo, Zhengzhou ha saputo cogliere le significative opportunità dell’ingresso della Cina nel WTO, il grande sviluppo della zona occidentale, e l’approvazione da parte dello stato del Piano Generale della Municipalità di Zhengzhou per la Costruzione della Municipalità Centrale Regionale, e ha fissato i propri obiettivi strategici per l’economia nazionale e lo sviluppo sociale nel “Decimo Piano Quinquennale” [...]
Nel quadro degli obiettivi del piano quinquennale, la Nuova Area di Zhengdong sarà costruita con un alto livello, dal punto di partenza ai risultati, in modo da ampliare il quadro generale della città. La zona pianificata di Zhengdong inizia a ovest dalla Strada Statale n. 107, e raggiunge la progettata autostrada di Jing Zhu a est; a nord inizia dalla autostrada di Lian Huo, e arriva sino all’arteria veloce per l’aeroporto. L’Area copre un totale di circa 150 chilometri quadrati, ed è prevista una popolazione di 1,5 milioni di abitanti. Nel progetto e realizzazione sono contemplati concetti avanzati come la Città a sviluppo contemporaneo [ Co-growth City], Città Metabolica [ Metabolistic City] e Città ad Anello [ Ring-shaped City]. E verranno anche osservati principi come eguale attenzione alle traformazioni della città vecchia e sviluppo della nuova, edificazione coordinata, crescita e prosperità condivise, bisogni della popolazione in primo piano, priorità alla pianificazione, nel migliorare l’aspetto della città vecchia e accrescere la qualità dell’ambiente urbano. L’obiettivo finale è di realizzare Zhengzhou passo dopo passo, verso una città moderna, socialista, commerciale e di scambi, con le caratteristiche culturali delle Pianure Centrali, una capitale regionale nelle campagne.
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Dal sito Zhenzhou Dahua
Il Nuovo Distretto Orientale di Zhengdong
La realizzazione del nuovo distretto di Zhengdong è un grande progetto a cui partecipano sia la Provincia di Henan che la Municipalità di Zhengzhou, per accelerare lo sviluppo della città. Il giapponese Kisho Kurokawa, maestro dell’architettura e dell’urbanistica apprezzato a livello mondiale, ha redatto il Progetto Concettuale Generale. Il piano adotta i concetti avanzati di città ecologica, simbiotica, metabolica e ad anello. Kisho Kurokawa è stato insignito del Cities Award for Excellence, all’incontro annuale dell’Unione Internazionale degli Architetti. Il nuovo distretto comprende, un Central Business District (CBD) con funzioni finanziarie, di affari, uffici, residenze. A nord-ovest, si prevede lo specchio d’acqua artificiale del Lago del Dragone, su circa 6 chilometri quadrati, circondato da bassi edifici residenziali. Il sub-core della zona degli affari, area principalmente turistica e residenziale, sarà organizzato sulla penisola protesa nel lago del Dragone. Il CBD si collega al sub-core attraverso un lungo canale che diventerà l’asse centrale commerciale e culturale della città su entrambe le rive, sulle quali si collocano alti edifici residenziali; centri logistici e industrie sono raggruppati in una fascia produttiva a forma di “V”. In più, lungo i corsi d’acqua, il lago, le strade trasversali e quella ad anello, ci sono ampi spazi a verde con funzione ecologica.
Ad ora, è stato attuato il piano per l’area iniziale di 45 chilometri quadrati, dove le strutture base come la rete stradale sono state quasi completate. Sono in corso di rapido sviluppo la vendita e organizzazione degli spazi, oltre al lavoro relativo all’immigrazione e ricollocamento entro il nuovo distretto. Fra i 18 progetti previsti nel CBD, sono in corso di costruzione il Centro Esposizioni Internazionale e quello Radio e Televisione; sono nella fase preparatoria del sito il Centro Belle Arti di Henan e la Città Universitaria; la Città della Tecnologia è agli inizi. La promozione degli investimenti ha avuto successo, e il totale ha raggiunto 1,2 miliardi.
Altri particolari disponibil al sito NHBY; di seguito due files immagine e un file estratto da China Daily sullo sviluppo della città (f.b.)
International Herald Tribune, 4 dicembre 2005; Titolo originale:For Swedish mayor, a monumental task – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
STOCCOLMA – Gli autori della guida di Stoccolma della Time Out descrivono la città “di una bellezza mozzafiato”, “barometro del cool”,persino “meta per buongustai”: in breve, un gran bel posto dove andare e in cui stare.
E questo, dice il sindaco Annika Billstrom, è uno dei più grossi problemi.
”Tendiamo a pensare di condurre una vita la migliore possibile” racconta l’esponente socialdemocratica. “Ma Stoccolma è di fronte a una sfida: come è possibile per una piccola città del nord Europa giocare un ruolo mondiale maggiore di quello attuale? O affrontiamo questa sfida, o restiamo ai margini”.
Anche se l’area metropolitana di Stoccolma è la più popolosa della Scandinavia, con quasi due milioni di abitanti, quelli che abitano in città arrivano solo a circa 750.000.
La signora Billstrom, 49 anni, vuole attirare più residenti e visitatori. La sua idea per rivitalizzare la città comprende la realizzazione di quelli che chiama “edifici monumentali”.
”Un collega mi ha chiesto se potevo nominare due importanti opere terminate negli anni ’90, e non ci sono riuscita” dice la Billstrom, politica di carriera e primo sindaco donna di Stoccolma. “Siamo così incredibilmente nella media. Non ci impegniamo mai a dimostrare quello che sappiamo fare”.
Nel corso dell’intervista, nel suo ufficio dentro l’opulento municipio dove sabato si terrà il banchetto del Nobel, la signora Billstrom delinea i suoi piani per trasformare Stoccolma in una “autentica città mondiale” elencando puntigliosamente quello di cui c’è bisogno: un grosso stadio, una nuova biblioteca pubblica, un museo permanente del Nobel, un centro di mostra e promozione del design svedese. Questi edifici, dice, devono essere “innovativi”: preferibilmente “capolavori”. La maggior parte di questi progetti ha un ampio sostegno, e si prevede siano approvati dal consiglio comunale entro il prossimo anno.
Un secondo caposaldo del programma riguarda il ruolo di Stoccolma come “motore della crescita”. La capitale svedese, sostiene il sindaco suonando più affaristicamente “blairiana” che socialista tradizionale, ha bisogno di sostenere le imprese e stimolare un “tripla spirale” ascendente fatta di imprese, pubblica amministrazione, università. La Billstrom si lancia un po’ anche contro il welfare state svedese – amata creatura del suo partito – per come ha giocato un ruolo fondamentale nel creare il tipo di statica soddisfazione che la preoccupa.
Allo stesso tempo, una delle più discusse porposte della Billstrom da quando è entrata in carica nel 2002 è decisamente di sinistra: sta tentando di proibire qualunque cambiamento nella gestione dei restanti 100.000 alloggi di proprietà municipale ad affitto controllato di Stoccolma. Il suo predecessore, il conservatore Carl Cederschiold, aveva consentito la vendita di un’ondata di questi appartamenti. La Billstrom è stata eletta anche per la sua promessa di fermare la privatizzazione. Ma il potere a Stoccolma passa di mano ad ogni elezione dal 1973, e i sondaggi di opinione indicano che Billstrom e i suoi Socialdemocratici perderanno le elezioni del prossimo anno.
”Quando parlo alle persone che abitano in quegli appartamenti, mi dicono di essere soddisfatti della propria condizione” dice la Billstrom. “E se rinunciassi ad uno dei fondamenti del nostro stato sociale, non svolgere la mia funzione”.
La signora Billstrom si è trasferita a Stoccolma dalla piccola cittadina settentrionale di Harnosand nel 1976. A quel tempo la città era una calamita di immigrati da altre zone della Svezia. Oggi attira ancora nuovi residenti, ma la maggior parte vengono dall’estero: gli immigrati rappresentano il 20% della popolazione della città.
Col numero di abitanti in crescita fra gli anni ’60 e ’70 Stoccolma – come ad esempio Parigi – costruì città satellite lontane dal centro. Ora combatte contro la segregazione.
”Nonostante un avanzato sistema di welfare, abbaimo problemi seri con la segregazione etnica” racconta Roger Andersson dell’Istituto di Ricerche Urbane e per l’Abitazione. Gli immigrati hanno difficoltà a trovar casa nelle aree centrali pià attraenti, dove le occasioni di affitto sono rare e costose (i prezzi dei condomini in centro sono aumentati del 20% lo scorso anno).
Per evitare il crearsi del tipo di situazione che ha infiammato Parigi nell’autunno, dice la Billstrom, c’è bisogno di una migliore istruzione e case a buon mercato. Nel lungo termine, si spera che la città possa integrarsi.
”È un problema serio” dice. “E ci vorrà tempo per risolverlo, forse 15-20 anni, ma credo si possa fare”.
La miscela della Billstrom, di socialismo scandinavo e centrismo orientato al mercato, rispecchia il percorso della sua vita dalla povertà al successo. La minore di sei figli, ha visto i genitori divorziare quando aveva solo tre mesi ed è stata cresciuta dalla sola madre, che lavorava come cameriera. Oggi la Billstrom, che ha svolto attività politica per la maggior parte della propria, vive in un ampio appartamento in una zona alla moda di Stoccolma, e indica il golf come sport preferito. È sposata a un uomo d’affari, Lennart Weiss, e ha un figlio di 21 anni, Alexander.
Anche se definisce il suo stile e filosofia politica “attenti soprattutto ai risultati”, sono evidenti le tracce di un giovanile radicalismo. Colloca la nascita della propria consapevolezza politica agli anni ’70, citando spesso il colpo di stato del 1973 il Cile come momento importante per la propria coscienza.
La sua filosofia composita, e forse il fatto di essere una donna decisa in una posizione tradizionalmente occupata da uomini, l’hanno resa un personaggio discusso, sia tra gli oppositori politici che all’interno del suo stesso partito. Non passa giorno senza che la stampa non riferisca di qualche voce di lotte fra i socialdemocratici riguardo al sindaco. Viene regolarmente attaccata nelle pagine dei commenti, definita “goffa”, “arrogante”, “provocatoria”.
La Billstrom – che appare pacata e intelligente – non cerca di stare sulla difensiva. Sostiene che i fatti parlano da soli, e troverà la sua rivincita il giorno delle elezioni in settembre.
”Voglio diventare un caso storico, rompendo questa tendenza al cambio delle maggioranze” dice. “La gente di Stoccolma capisce quanto abbiamo realizzato”.
Billstrom indica alcune iniziative molto diverse, come l’accesso a internet in banda larga nelle case comunali, le scuole di lingua svedese per gli immigrati più recenti, la migliore pulizia delle neve nei rigidi inverni di Stoccolma.
Ma si prevede che le elezioni saranno dominate da un plebiscito sulla tariffa da congestione del traffico, simile a quella imposta a Londra per ridurre il numero delle auto private circolanti sulle strade. L’esperimento – che qui si chiama “tariffe ambientali” – comincerà il 3 gennaio e continuerà sino a luglio. Gli abitanti di Stoccolma voteranno sul mantenere la tariffa in modo permanente in un referendum contemporaneo all’elezione del sindaco; e la maggior parte degli osservatori ritiene che questo la influenzerà.
Impopolarità della tariffa a parte – circa il 70% degli abitanti di Stoccolma sono contrari, secondo i sondaggi – la Billstrom durante l’ultima campagna aveva promesso che non la si sarebbe applicata. Ha rinnegato la sua promessa cedendo alle pressioni del partito a livello nazionale, che ha bisogno dell’appoggio dei Verdi per il nuovo governo.
Secondo qualcuno, la questione ha qualificato il sindaco come persona debole e poco affidabile.
”Credo che sia orribile quello che ha fatto con questa tassa” dice Eva Wolf, infermiera in pensione di 79 anni, su un marciapiede non lontano dalla casa della Billstrom. “Di solito voto i socialdemocratici, lei ha un bell’aspetto e parla bene: ma è una cosa semplicemente ingiusta”.
La Billstrom, che sembra un po’ provata dalle critiche, è stata evidentemente segnata dal suo turbolento mandato. Se il partito perderà il prossimo anno – uno scenario che dice di non voler nemmeno prendere in considerazione – non è certa di voler continuare la sua battaglia.
”Molti sono stupiti dal fatto che io non sia stata distrutta da quanto accaduto negli ultimi quattro anni” dice. “Ma non ho ancora deciso cosa farò se non dovessimo vincere”.
Poi la “sopravvissuta” – altro nomignolo che si è guadagnato sulla stampa – alza il mento, come ha l’abitudine di fare. “Comunque, per me c’è solo un obiettivo: vincere nel 2006”.
Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune; per i vari temi citati nell’articolo si veda tra l’altro sul mio sito in costruzione Eddyburg-MALL un esauriente documento degli anni ’60 sul sistema dei centri commerciali di Stoccolma nel quadro delle città satellite di iniziativa pubblica; per il processo di integrazione degli immigrati in Svezia e non solo, su Eddyburg si veda il saggio dell’economista Peter Elmlund sul loro ruolo nella rivitalizzazione urbana ripreso anche sull'ultimo numero della rivista Metronomie (f.b.)
Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che sì, e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perché da noi il luogo del tumulto è la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato «sì, ma». Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si è formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e più cresce più si separa per censo. La città europea è gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro è dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuità urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grande aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi più verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perché in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la città. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi.
E' la città tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il post industriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si può leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantità di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano né scuole né chiese né moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, è finito.
Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli è preclusa. Gli è venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono è l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'età e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non è vero che siano infiltrati dalla criminalità della droga, più che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: «Rispetto, vogliamo rispetto». E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia è stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro è venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui però nessuno è in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella età, mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso.
Non si fa in un giorno quel che si è reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di più tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi è sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo è il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perché le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere. Non succede anche da noi?
Ha ragione il critico William J.R. Curtis a dire che quando sarà scritta la «verità storica» sullo sviluppo dell'architettura della fine del ventesimo secolo, Raj Rewal prenderà il posto che si merita. L'architettura moderna, infatti, ha «radici indiane» e Raj Rewal è di sicuro tra i suoi massimi e originali interpreti. Ne è una dimostrazione la mostra dei suoi progetti in corso a Parma fino al 25 settembre, allestita nei meravigliosi spazi del Teatro Farnese in occasione del Festival dell'Architettura, e curata con passione da Claudio Pavesi. Nato in Punjab nel 1934, Rewal ha studiato a Delhi e a Londra, e ha poi trascorso qualche anno a Parigi nello studio di Michel Ecochard. Di ritorno in India nel 1963, oltre a partecipare e a vincere numerosi concorsi di architettura per edifici pubblici e privati, ha insegnato fino al 1972 Teoria del progetto e Storia dell'architettura indiana a Delhi, presso la locale Scuola di urbanistica e architettura. La sua opera architettonica si concentra per lo più a Nuova Dehli e i suoi esordi rientrano nell'ambito dell'edilizia residenziale: nel corso degli anni firma fra l'altro gli alloggi per il personale di servizio dell'Ambasciata di Francia (1967-69), il complesso di alloggi Sheikh Sarai (1970-82), il complesso di alloggi Zakir Hussain (1979-84).
Raj Rewal sperimenta e realizza una edilizia compatta, ad alta densità, dai forti connotati morfologici, memore delle problematiche del Team Ten e dei «reticoli urbani» di Candilis, Josic e Woods per Tolosa e Berlino. La «trasparenza labirintica» di quei modelli urbani, l'architetto indiano l'ha conosciuta durante il suo soggiorno in occidente, ma è la stessa che egli ritrova in India nelle città di Jaisalmer e Fatehpur Sikri caratterizzate da un ordito orizzontale che - come ha scritto Daniel Treiber - sembra echeggiare i modelli insediativi di Van Eyck e di Hertzberger. Per Rewal è semplice comprendere le profonde ragioni che accomunano le antiche testimonianze indiane e i progetti urbani del Team Ten: entrambi ricercano uno spazio collettivo vivibile, attento alle relazioni tra i residenti, con una identità estetica e funzionale che siano espressione di valori sociali condivisi.
A Nuova Delhi, sia nel villaggio olimpico per i Giochi Asiatici (1980-82) sia negli alloggi per l'Istituto nazionale d'immunologia (1983-85), Rewal chiarisce con precisione la sua idea di architettura fondata sul rispetto della tradizione e dell'ambiente. La sua «architettura climatica», con poche eccezioni, non è mai un oggetto isolato e autoreferente, ma un organismo complesso regolato da una maglia strutturale all'interno della quale si articolano le unità abitative e gli spazi all'aperto: una architettura che si ammira per le sue qualità morfologiche e il suo carattere polifunzionale e per il modo in cui si integra al paesaggio, autentico «guscio-contenitore di umanità».
Nella Biblioteca del Parlamento (1993-2000) Rewal si è confrontato con maggiore decisione con l'architettura coloniale, ma anche in questo caso ha preferito compiere un gesto antidogmatico, al tempo stesso simbolico e del tutto originale. Lo sconosciuto architetto di Fatehpur Sikri gli ha insegnato che per raggiungere Dio ci sono molti modi, e che di conseguenza non bisogna mai restare bloccati a ripetere sempre la stessa soluzione ma ricercarne sempre di diverse.
Abbiamo incontrato Rewal durante il suo breve soggiorno a Parma e con lui abbiamo cercato di comprendere meglio la sua architettura in relazione con quella indiana, tradizionale e contemporanea.
Lei appartiene alla terza generazione degli architetti modernisti indiani. Giovanissimo, ha conosciuto l'eclisse dell'impero coloniale britannico e ha partecipato alle recenti evoluzioni della storia dell'architettura occidentale. Può spiegarci quale è stata la sua formazione di architetto e quali sono i suoi riferimenti culturali?
Come molti architetti della mia generazione, ho appreso che il primo principio della buona architettura è un onesto edificio funzionale, dove i principi costruttivi sono osservati e i materiali vengono espressi francamente. Grazie alle mie osservazioni sull'architettura indiana tradizionale, ho imparato a tenere conto di altri attributi, come i valori umani e le situazioni climatiche. La mia terza scoperta è stata l'espressione architettonica: la Cappella di Ronchamp di Le Corbusier ha certamente incrinato il principio della sincerità funzionale nell'edificio, ma ha introdotto un elemento poetico o - per usare un termine sanscrito - il gusto spirituale « rasa». La corretta espressione per le differenti tipologie di edifici è per me un principio importante, ma rimango fedele agli ideali di una architettura onesta e umana.
Cosa è stata secondo lei l'architettura indiana dopo l'Indipendenza e quali sono le sue relazioni con l'architettura coloniale e lo storicismo, ad esempio, con opere come quella di Lutyens a Delhi?
Sono cresciuto a Nuova Delhi che era stata disegnata come una città-giardino da Lutyens. L'aspetto imperiale della città aveva trasformato il tessuto democratico dell'India. La casa del vicerè britannico viene ora usata come sede del presidente indiano, e la sua sala delle cerimonie è utilizzata per le funzioni democratiche. La biblioteca principale che ho costruito è separata rispetto al complesso di Lutyens, perché rappresenta una estensione dell'edificio del Parlamento. Per me si trattava di una sfida: come elaborare un progetto che tenesse conto della vicinanza con il contesto coloniale, ma affermasse allo stesso tempo i valori democratici indiani? La funzione centrale della Biblioteca del Parlamento è di essere una «casa della conoscenza», simbolicamente un luogo di illuminazione. Poiché ci eravamo prefissi lo scopo di individuare una espressione architettonica di basso tono che esprimesse prudenza e eleganza spirituale, senza cercare di competere con la potenza del Parlamento, il progetto ha quindi concepito un edificio interno che riflettesse la specifica scelta per uno spazio recintato e subalterno, piuttosto che le forme della magnificenza coloniale-imperialistica. Mettendo a confronto la proposta della biblioteca con il Parlamento già esistente, può emergere in certo senso una analogia con la relazione che intercorre tra un guru e il re. In entrambi gli edifici, visivamente e simbolicamente, la sala centrale del Parlamento (che connota il potere dei popoli, il consenso e la democrazia) è unita con la parte centrale del nuovo complesso - emblema di conoscenza - su un asse centrale, attraverso una sequenza di spazi che culminano in un auditorium per 1100 persone. Abbiamo così concepito dentro la tradizione indiana una struttura formale, costruita però con un idioma contemporaneo, allo scopo di catturare l'essenza senza imitare gli stili storici del passato.
A proposito ancora della Biblioteca del Parlamento di Nuova Dehli, Krishna Menon, ha scritto che l'edificio dimostra che si può risolvere il perenne problema di «come è possibile scovare le proprie radici ed essere ancora moderni».
Rispetto alla Biblioteca del Parlamento, le soluzioni progettuali richiedevano che si tenesse conto di alcune importanti considerazioni. In primo luogo, l'edificio era stato costruito in quello che è forse il più importante sito dell'India, le cui ragioni storiche, culturali e urbane non potevano essere ignorate. Il mio obiettivo dunque era di disegnare un edificio che risuonasse con quella idea di istruzione che avevo percepito nelle tradizionali costruzioni buddiste e nei templi jain, ma di costruire con la tecnologia dei nostri tempi. Ho quindi ricercato il rispetto delle dimensioni degli edifici circostanti e ho costruito in armonia con il contesto.
È possibile parlare di una «architettura indiana», con una identità legata alla sua realtà politica di nazione, in presenza di un paese così vasto, che presenta una notevole varietà tra nord e sud, est ed ovest? E potrebbe chiarirci che cosa sia la «identità indiana» in architettura, ammesso che essa esista, e se siano individuabili i suoi principi generali?
L'immensa varietà dell'architettura tradizionale indiana può essere compresa sotto vari aspetti. Le storie dell'architettura l'hanno divisa in periodi: hindu, buddista, islamica e coloniale. Ma nell'architettura indiana alla base di monumenti, complessi civici e edifici vernacolari, esiste anche una secolare tendenza che spesso è stata ignorata nella letteratura, e i cui temi ricorrono in varie fasi dello sviluppo, emergendo nelle forme della contemporaneità. Gli architetti possono quindi guardare al passato per trarre ispirazione, oppure al contrario possono provare essi stessi a contraddire gli antichi modelli. Il metodo del costruire, le condizioni sociali e il clima hanno determinato l'evolversi dell'architettura indiana. E se le tecniche, così come le modalità della vita quotidiana, stanno fortunatamente cambiando, il fattore climatico rimane invece costante. Gli elementi tradizionali del progetto basati sul caldo clima indiano hanno quindi da sempre una forte rilevanza nei caratteri del nostro lavoro. Uno dei miei primi edifici era un complesso per una esposizione permanente di una fiera campionaria, costruito nel 1972 a Nuova Delhi. Lo spazio formato dal sistema strutturale segue le prescrizioni principali dell'architettura moderna per la copertura di ampie sale e la sua costruzione si adattava all'intenso lavoro dell'industria indiana. La pianta è composta di una vasta sala collegata a quattro sale più piccole con rampe intermedie, e include una corte centrale per mostre all'aperto e meeting. Come nei modelli della tradizione indiana degli spazi pubblici, la corte emerge come il punto focale dello schema. La sua geometria spaziale rimanda alla struttura mughal della tomba di Humayun. Personalmente fui sorpreso di aver ripreso, senza neanche rendermene conto, quel particolare riferimento. Ma compresi che le strutture formali indiane di tutti i periodi avevano una certa affinità secondo la disposizione degli spazi o la modulazione dei recinti. In dettaglio, il sistema strutturale del complesso espositivo era impiegato per rifrangere il sole e ideato nei termini della tradizione indiana jali, un modello geometrico di fori che compongono un elemento principale sulla facciata che serve a ostruire i raggi diretti del sole permettendo all'aria di circolare.
Tra la modernizzazione del vernacolare e la monumentalità del moderno - penso ai casi esemplari degli edifici di le Corbusier a Chandigarh e di Kahn a Dhaka - la sua architettura appartiene insieme a quella di Charles Correa a quel «postmodernismo indigeno», come è stato definito, che evoca la tradizione senza rinunciare alla lezione dei maestri dell'architettura occidentale. Cosa significa - e come si esprime nella sua opera architettonica - la modernità a confronto con la storia millenaria dell'India?
Noi abbiamo appreso da Le Corbusier e Kahn l'importante lezione che l'architettura moderna è in grado di esprimere profonde emozioni. Io non so se sia possibile definire la mia architettura come «postmoderna». Spero di avere evitato gli sterili aspetti del modernismo, così come il cliché di imitare il manierismo storico del passato, tipico di certi postmodernisti. Non credo che si possano trasferire i motivi architettonici dal passato negli edifici di oggi, ma sono convinto che l'architettura tradizionale possa darci delle importanti lezioni. Nel campo delle considerazioni climatiche, le città del Rajasthan e le città storiche italiane, con la loro tradizionale morfologia, hanno insegnato moltissimo per la loro bassa altezza e lo sviluppo ad alta densità delle abitazioni, e questo fattore ha direttamente influenzato il mio progetto di cinquecento unità di abitazioni a Nuova Dehli per il Villaggio dei Giochi Asiatici. Viene qui rigettato lo sterile modello istituzionale di abitazioni promosso dagli ingegneri dipartimentali per i lavori pubblici, basato su una infinita ripetizione di uno schema. Al contrario, è stato fatto un tentativo per creare norme urbane da una rete di strade pedonali e piazze. Una strada tangente il complesso consente l'accesso veicolare da due parcheggi terminali, circondati da sentieri pedonali che si collegano ai garage delle abitazioni. Il Villaggio dei Giochi Asiatici reinterpreta molti degli elementi salienti del design vernacolare che ha resistito alla prova del tempo.
Lo scorso anno, al Forum delle Culture di Barcellona lei ha usato parole molto critiche sulla «città verticale» e ha criticato il modello di crescita urbana che si sta sviluppando in Asia, in particolare modo in Cina. Contro la proliferazione dei grattacieli delle mega città di Shangai, Hong Kong e Beijing lei è il più strenuo difensore degli edifici a «scala umana». Ci può spiegare nel dettaglio come immagina la crescita delle città indiane e quali sono i suoi riferimenti teorici e gli esempi già realizzati che considera più interessanti?
Mi rendo conto che le «città verticali» sono inevitabili nelle zone-isola come Manhattan a New York o nelle città-stato come Singapore dove sono richieste eccezionalmente altissime densità abitative. Ma non vedo alcuna logica nella crescita verso l'alto di edifici destinati ad abitazioni in molte città asiatiche. In nome della globalizzazione povere copie dei luccicanti grattacieli made in Usa sono stati imposti a grandi città come Dubai, Beijing o Gurgaon, dove in realtà non hanno alcuna pertinenza né dal punto di vista climatico né da quello culturale. In tutti questi luoghi le forme sembrano seguire la finanza piuttosto che la funzione: ora, è inevitabile che il senso comune veda gli immobiliaristi perseguire la ricchezza, ma ciò non dovrebbe accadere a scapito dei valori umani. La mia opinione è che la bassa altezza e l'alta densità delle abitazioni è la soluzione umana. I nostri progetti per il Villaggio dei Giochi Asiatici o l'Istituto Nazionale di Immunologia sono due possibili esempi. Infatti, la scala delle città potrebbe derivare dai principi di sostenibilità e dagli armoniosi valori del vicinato.
Dai suoi interessi per l'espressione delle strutture deriva quello per lo sviluppo di tipologie e tecnologie per la costruzione di edifici a basso costo per i più poveri. Qual è la situazione in questo momento nel suo paese e a Dehli dove l'attività di Sharma e dell'agenzia Hudco (Housing and Urban Development Corporation) negli anni Ottanta è stata un'esperienza molto importante?
In India noi siamo fortunati a lavorare sotto l'ombrello dell'Hudco e altre organizzazioni pubbliche per progetti di abitazioni a basso costo. Il mio lavoro nel Nuovo Mumbai (Bombay) per abitazioni per poveri è stato un esempio interessante. Invece di costruire larghi blocchi monolitici paralleli di tetre dimensioni, noi abbiamo optato per specie differenti di modelli insediativi. È il caso del progetto per un vasto numero di unità residenziali, frammentato all'interno da più piccole aggregazioni che racchiudono una varietà di spazi e che possono essere congiuntamente ordinate sul versante di una collinetta e disposte insieme con sentieri pedonali. Ma modulando e cambiando le formazioni dei gruppi basati sullo spazio standard, si possono ottenere differenti unità residenziali. A causa del costo dovuto, non è possibile aumentare lo spazio standard per l'abitazione sociale, ma sicuramente un vocabolario di soluzioni progettuali può essere elaborato per gli spazi esterni, al tempo stesso privati e pubblici. Le città del Rajasthan e i villaggi mediterranei forniscono importanti lezioni in questo senso per lo sviluppo ad alta densità. Studi di modelli tradizionali di convivenza forniscono spunti per luoghi che possono promuovere attività collettive, come gli spazi di riunione per gli adulti o le aree per il gioco dei bambini. Il nostro scopo era creare piacevoli recinti di vicinato per la socializzazione e la ricreazione: l'ambiente in casi del genere incoraggia l'amicizia tra le persone di diverse esperienze.
Titolo originale: Charles Plan Would Require Clustered Development – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Una proposta pensata per tutelare le zone rurali della Charles County e scoraggiare lo sprawl ha suscitato un vivo dibattito sul tipo di edificazione che sarà consentita per l’80% del territorio.
Le norme chiedono ai costruttori di realizzare le case per gruppi, su appezzamenti di piccole dimensioni, e conservare gli spazi aperti come campagne e boschi.
La proposta, presentata lunedì in una riunione della Planning Commission, ha sollevato appassionate proteste da parte dei coltivatori, che sostengono che così le loro proprietà diventeranno meno appetibili per i costruttori, rendendo più difficile ritirarsi dall’attività o cedere i terreni ai figli.
”Non ci sono più molti coltivatori” ha detto Gilbert Bowling di Newport al comitato, di fronte a un pubblico di circa 70 persone. “L’agricoltura è in difficoltà e ha bisogno di sostegni. Questo non lo è”.
Le norme di zoning della contea richiedono circa 1,2 ettari per ogni abitazione costruita, ovvero circa 40 ettari per ogni 33 case. Per un nuovo insediamento di sei o più abitazioni, le modifiche proposte prevedono che il proprietario dei terreni conservi il 65% delle superfici, concentrando gli interventi sul restante 35%. Le regole non valgono per lottizzazioni con superfici di 8 ettari, o meno di sei abitazioni.
Si discute, se le proposte modifiche – per le aree di conservazione agricola e rurale della contea, 100.000 ettari – riducano la quantità di abitazioni che è possibile edificare.
”È possibile garantire che concentrando non si perda qualche lotto? No” dice il direttore per l’urbanistica David Umling. “Non esistono verità assolute”.
Umling sostiene che il numero di abitazioni edificabili dipenderà dalle caratteristiche delle proprietà, come in fatto che il suolo in alcune zone sia adatto al filtraggio delle acque.
Una risposta che non soddisfa i coltivatori e gli altri, convinti che la contea sia più preoccupata di proteggere le vedute paesaggistiche che non i diritti dei proprietari.
”State semplicemente obbligandoci a rinunciare al 65% della nostra proprietà” dice il coltivatore Jim Maus di Nanjemoy. E aggiunge un po’ per scherzo,”Ho una ventina di ettari, sarei lieto di venderveli”.
La quantità di terre agricole è diminuita rapidamente nella contea di Charles, zone un tempo dominata dalla produzione di tabacco. Ce n’erano 22.000 ettari nel 2002, contro i 27.500 del 1987. Il numero delle aziende è sceso del 7%, sino a 418 unità, dal 1997 al 2002.
Un piccolo gruppo di proponenti, ha dichiarato alla riunione di lunedì che queste norme sono urgentemente necessarie, perché molti dei contratti di sovvenzione statali del tabacco scadranno nel 2011. Con la fine di questi pagamenti, potrebbero rendersi disponibili all’edificazione oltre 4.000 ettari di terreni.
Alcuni residenti approvano la proposta perché tenta di prevenire un’edificazione continua. “La bellezza del paesaggio rurale attira edificazione, che però per prima cosa distrugge le caratteristiche naturali che hanno attirato le persone” dice Cheryl Thomas di Welcome, membro della Conservancy of Charles County.
Agli oppositori, le norme proposte riecheggiano un piano dell’anno scorso, che richiedeva otto ettari per ogni abitazione. La proposta fu respinta dal consiglio della Charles County.
All’epoca, quattro su cinque componenti si dichiararono invece favorevoli all’obbligo di clustering dell’edificazione. Charles Rice, urbanista responsabile per le zone agricole della contea, dice che la concentrazione degli interventi potrebbe attirare i costruttori, dato che consente più edifici su meno suoli.
Almeno altre sette contee del Maryland richiedono questo clustered development, con indicazioni variabili per quanto riguarda gli spazi aperti. La proposta della Charles per il l 65% si colloca in una posizione intermedia. Le contee Calvert e Baltimore prevedono rispettivamente di conservare 80 e 70 per cento. La St. Mary la Wicomico richiedono entrambe il 50% di spazi aperti.
Un progettista locale che ha lavorato su 14 insediamenti concentrati all’interno della contea, sostiene che queste norme potrebbero avere effetti indesiderati.
Timothy Lessner di Waldorf dice che la proposta va “molto, molto oltre” quanto raccomandato nel 2002 da una commissione di cittadini. I limiti per le zone agricole spingerebbero l’edificazione verso le aree boschive. “È l’esatto opposto dell’obiettivo di ridurre al minimo l’impatto sui boschi” ha scritto alla commissione urbanistica.
La commissione esaminerà le osservazioni del pubblico a partire dal 14 ottobre, e discuterà ancora il problema, prima di esprimere le proprie raccomandazioni al consiglio di contea.
Nota: il testo originale al sito del Washington Post (f.b.)
Titolo originale: Suburbs look to serve seniors – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
STANDISH — Dopo 30 anni, Betty Edwards si è abituata alla vita qui a Standish: gli amici che incontra quotidianamente, i negozi che hanno tutto quello di cui ha bisogno, la bellezza e tranquillità di stare sul Sebago Lake.
La signora Edwards, novantenne attiva, se la cava bene. Ma si preoccupa perché un cambio nella sua situazione potrebbe significare andarsene da Standish, cosa che non vuole fare.
La popolazione di età superiore ai 65 anni è in crescita nei sobborghi a ovest di Portland, una tendenza che sta accentuando la domanda di abitazioni. I nuclei che non rispondono a questa domanda rischiano di perdere i residenti più anziani.
”Sarebbe davvero odioso andarmene da Standish” dice la signora Edwards.
Il sentimento è reciproco. La cittadina recentemente ha istituito un comitato per trovare soluzioni per le abitazioni degli anziani, di cui la signora Edwards è membro.
Secondo il censimento del 2000, i residenti anziani sono il 15% della popolazione nella regione dei Laghi, lo stesso che a Portland. Le cittadine di Bridgton, Casco, Gorham, Naples, Raymond, Sebago, Standish e Windham hanno tutte visto un aumento degli abitanti senior.
Larry Gross, direttore della Southern Maine Area Agency on Aging, afferma che questo fenomeno si chiama “ aging in place” ovvero che gli anziani tendono a fermarsi, invecchiando.
Questo può diventare un problema se le amministrazioni non sono preparate a offrire servizi come trasporti, centri medici, attività sociali e abitazioni, dice Gross.
Gli anziani offrono una ricchezza di conoscenze ed esperienza che le città devono cercare di trattenere.
”Mi piace pensare che le cittadine stiano cominciando a riconoscere come sia importante il contributo della popolazione anziana al tessuto sociale” dice Gross.
L’amministrazione di Windham ha risposto alla domanda di abitazioni. Avesta Housing, l’agenzia che sovrintende la costruzione di quartieri a prezzo controllato nel su del Maine, gestisce ora un complesso del genere, New Marblehead Manor, e sta per aprirne un altro, Unity Gardens. Entrambi hanno lunghe liste d’attesa.
Questa primavera, l’agenzia ha avuto l’approvazione per un progetto di appartamenti per anziani dentro un complesso residenziale nella zona di Little Falls, vicono al confine tra le circoscrizioni di Windham e Gorham.
Deborah Keller della Avesta dice che l’agenzia gestisce nove complessi residenziali nella fascia occidentale dei sobborghi, come Stone Crest, struttura per anziani a Standish con 12 alloggi e una lista d’attesa. La maggior parte dei progetti sono realizzati e gestiti con l’aiuto di fondi federali. I complessi migliori sono quelli che favoriscono l’indipendenza, stanno vicini a servizi come il supermercato, e offrono attività sociali.
Ma i costruttori devono affrontare anche alcuni problemi, dal reperimento di fondi sufficienti a quello di un’area adatta allo scopo. Keller dice che ci possono volere mesi o anni per trovare terreni adeguati. In tutti i centri, i costruttori si trovano anche di fronte a norme e regole che possono rendere difficile l’edificazione, dice.
La consigliera municipale di Standish, Cindy Hopkins, afferma che esistono parecchie forze che tendono a spingere gli anziani fuori dalle loro case, come la difficoltà di pagare le tasse immobiliari. Hopkins fa parte del comitato cittadino che si occupa della carenza di residenze per anziani.
Nella ricerca delle risposte ai problemi, il comitato ha chiesto consiglio a funzionari del Maine Department of Health and Human Services, o a costruttori specializzati in case a prezzi controllati per anziani. È stato condotto anche un sondaggio telefonico informale sui residenti più anziani per individuarne i bisogni. Il comitato spera di presentare al consiglio municipale un rapporto sui risultati dell’indagine entro un mese.
Hopkins, residente di lunga data a Standish, dice che la cittadina deve ai suoi residenti anziani la ricerca dei modi per farli restare. “Se possono restare a Standish, dicono di poter restare a casa”.
Jolene Webber, altro membro del comitato, che abita a Standish dal 1951, dice di poter nominare parecchi amici che hanno dovuto spostarsi a causa di un problema con la casa.
A partire da lavoro col comitato e dalle discussioni con amici, Webber, di 75 anni, ha iniziato a chiedersi cosa avrebbero fatto lei e suo marito se fossero stati costretti ad andarsene dalla città. “Un centro come Standish dovrebbe prendersi cura della sua gente” dice. “Si dovrebbe cominciare a fare progetti a questo proposito”.
Per parte sua, la signora Edwards sa che non sarà facile andarsene, se dovesse arrivare quel giorno.
”é una decisione molto dura, per chi ha vissuto qui per tanto tempo”, dice.
Ma Edwards è ancora ottimista per il futuro. Auspica quella che chiama una “comunità di adulti attivi”. È una persona sociale, e desidera un luogo con piccoli appartamenti e attività comunitarie, vicino ai negozi.
Se Standish avesse un posto come quello, ci andrebbe in un secondo. Pensa che ci sarà, un giorno.
Nota: qui il testo originale al sito del Portland Press Herald ; qui su Eddyburg, un articolo dei "nuovi urbanisti" Duany e Plater-Zyberk dedicato all'insieme dei problemi suburbani, compreso quello degli anziani (f.b.)