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Allora voi qui siete socialisti? Il vicesindaco Erik Sten, 37 anni, allenta il nodo della cravatta. Si vede che deve far spazio a una risposta che aveva in canna da molto tempo: “Be’, qualcuno dovrà esserlo”. I Bush non hanno mai messo piede a Portland, è come se Berlusconi andasse a Livorno. Nella “repubblica cristiana d’America” dell’era teocon questa è certo la città del Diavolo. Èinvece il paradiso in terra e la mecca laica per l’altra metà degli americani: “ Portland, la città perfetta” ha titolato recentemente il New York Times, per citare solo uno dei grandi giornali che negli ultimi mesi hanno raccontato il fenomeno della piccola - circa 600 mila abitanti -metropoli ribelle del Nord West, nell’Oregon, la nuova frontiera dello spirito “ radical” (ma non chic, perché anche il bostoniano Kerry, che qui l’anno scorso prese l’80 per cento dei voti, “non diventerebbe neanche assessore” garantisce Sten).

Tanto per cominciare, diversamente dal resto degli Stati Uniti, “pubblico” non è una parolaccia a Portland. Anzi, è la parola chiave per scoprire il segreto della sua diversità, e la pronunciano tutti quasi con ostentazione, così che sembra l’ultima trovata tecnologica, una cosa appena scoperta, moderna e rivoluzionaria.

Il 90 per cento dei bambini frequenta la scuola pubblica

Un mese fa, a dichiarazione dei redditi già presentata, il 70 per cento della popolazione ha votato sì a un referendum comunale che chiedeva un aiutino extra per sanare il bilancio delle Superiori pubbliche. Il comune, senza incontrare ostacoli, ha piazzato 900 case popolari nel Pearl District, ex quartiere operaio oggi sofisticato centro artistico e professionale di Portland: “Non siamo contro il privato, ma ci piace di più se c’ è anche una buona dose di pubblico” spiega Sten “il rosso”. Per gli homeless (quelli che qui arrivano in abbondanza, triturati dal liberismo) i servizi sociali hanno costruito fuori porta un villaggio tutto per loro: Dignity Village si chiama, basta rubare una volta per tornare sotto i ponti. Ma è sul fronte energia che Portland fa notizia. Ricordate Enron, il colosso dello scandalo? Ecco: era il maggiore fornitore d’energia in città, ma il comune ha comprato le centrali spendendo un’iradiddio, perche Portland sta diventando il laboratorio ambientale d’America, si gioca tutto sul verde.

Un incubo per Bush: questi rompiscatole hanno avuto il coraggio, unici negli Usa, di applicare gli accordi di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. I dati sono usciti proprio mentre eravamo lì: dal 1993 il livello di emissioni pro capite è diminuito del 13 per cento. “Kyoto avrebbe distrutto la nostra economia” dice Bush. E a Portland rispondono: “Kyoto ci ha resi più ricchi e più sani”. E giù con l’elenco: meno tasse per tutti spese in energia, trasporto pubblico (soprattutto tram) così efficiente ed economico che in quattro anni il traffico è calato del 25 per cento, mille chilometri di piste ciclabili, una generazione di “cervelli verdi” richiesti in tutto il mondo e che è volano per l’eco-economia locale: hanno addirittura inventato lampadine per semafori che consumano l’80 per cento in meno di elettricità e fanno risparmiare un milione di dollari l’anno. “Un successo che va controllato” dice Ken Rost, 32 anni, manager pubblico che ha rinunciato a un megastipendio della portlandese Nike: “C’è la corsa a venire a vivere qui, soprattutto dopo la guerra in Iraq e la rielezione di Bush. E diversamente dalle altre città qui tutti vogliono abitare in centro; i prezzi aumentano e dobbiamo difendere il tessuto comunitario, evitare divari tra ricchi e poveri, continuare a essere l’anti corporated city”.

E il privato? La forza diabolica di Portland (chi legge Chuck Palahniuk, il vate dell’America “altra”, già lo sa) è soprattutto nell’arte di vivere controcorrente. Nelle storie, per esempio, di gente come Naomi e Michael Hebberoy. Sono chef, “chef anarchici”. Se gli chiedi quanti anni hanno rispondono “non abbastanza per ricordarci l’amministrazione Reagan”. Li hanno giudicati tra i dieci più influenti ristoratori d’America. Sei anni fa erano una coppia disoccupata: “Sapevamo solo fare buon sesso. E buoni piatti dopo il sesso”. Concepirono un piano: costruirono un grande tavolo e invitarono a casa trenta amici, il prezzo: una sedia. La volta successiva gli amici degli amici dovevano portare una bottiglia e lasciare cinque dollari. Da quel ristorante clandestino è nato Family Supper, il primo locale per sole famiglie degli Usa. Lì c’è ancora lo stesso tavolo. Ora gli Hebberoy gestiscono tre ristoranti, hanno cento dipendenti e un fatturato annuo di sette milioni di dollari. Eppure Michael sta per pubblicare un libro intitolato Kill the restaurant: “Voglio creare una rete nazionale di ristoranti illegali, underground. Mangiare bene deve essere un diritto per tutti”. Micidiale: ha rifiutato la prenotazione di 15 executive della Monsanto, quella che ha il monopolio mondiale delle coltivazioni Ogm. “Non voglio il nemico in casa” gli ha detto.

Portland è una città slow food. L’85 per cento dei ristoranti acquista prodotti biologici dai contadini della regione. “Qui è difficile trovare i pomodori in dicembre” dice Haward Silverman del centro Ecotrust, nato per difendere le risorse locali: “Prendi il salmone. Con la nostra politica quello non coltivato costa un terzo meno di quello d’allevamento”. Un mondo a parte che richiama sul Pacifico carovane di “pionieri dell’anima” come li definisce Palahniuk, il più famoso tra tanti scrittori adottati dalla città americana che legge di più, tanto che vanta il più grande negozio di libri usati del mondo, Powell’s Books, 15 mila metri quadrati, un intero isolato. “Siamo tutti resistenti, profughi e fuggiaschi” dice il regista Gus van Sant, che come Todd Haynes ha lasciato Los Angeles per venire qui. Viaggi “one way” come quello di Jeffrey Kovel, 32 anni, l’architetto del “costruire sostenibile” più corteggiato degli Usa che ha lasciato New York “perché la noia mi uccideva. Qui - racconta - ho trovato il Rinascimento”.

Ogni ultimo venerdì del mese nel Pearl District banche, poste, fruttivendoli, boutique diventano gallerie d’arte. I nuovi cercatori d’oro sono però soprattutto musicisti in cerca d’ispirazione più che di gloria. Portland è diventata l’ultimo avamposto delle band. C’è chi sfonda come I Pink Martini e ci sono i musicisti sconosciuti della scuderia di John Askew, il più noto dell’etichetta Film-Guerriero, cooperativa che pubblica solo cd di nicchia: “La vita costa poco, nessuno parla mai di soldi e di religione, ci sono duecento locali, comprese le panetterie, dove puoi suonare e poi, se ti viene un cancro, puoi suicidarti in santa pace” dice Askew, riferendosi all’ultima conquista della secolare Portland, l’assisted suicide, legge che permette ai malati terminali di ingoiare una manciata di barbiturici prescritti dal medico. Pare che la Corte Suprema si prepari ad abolirla, come è accaduto per altre leggi progressiste votate nella città del Diavolo. “Non accettiamo il conformismo, fino alla fine” dice Susan Tolle, direttrice del Centro per l’Etica e la Salute. “Siamo diversi. Per tanti americani la morte è una sconfitta. Per noi può essere una conquista. Ma siamo un’isola in un mare d’ipocrisia”.

Nota: qui su Eddyburg molti articoli trattano le politiche urbanistiche e ambientali a Portland, come quello sul Piano 2040; altri testi che contengono riferimenti alla città si possono trovare semplicemente utilizzando il “cerca” del sito con la parola chiave Portland (f.b.)

Difficile trattenere la rabbia. Ma forse il modo più coerente per sostenere la straordinaria popolazione della Valle Susa è non farsi spezzare il filo del ragionamento, riuscire ad essere più tenaci dei manganelli; non smettere di argomentare, avere fede nel convincimento.

E se la violenza repressiva del Governo delle destre lesiona i corpi, spezza gli arti, produce dolore fisico (altra forza non conoscono), una sofferenza non meno amara produce l’incomprensione di tanta parte dei rappresentati del centrosinistra, che propugnano una urbanistica e un ambientalismo contrattato, una sorta di compromesso tra le ragioni del vivere e quelle del mercato.

Chiamparino, Bresso, persino Ciampi… che pure sono persone studiate e intelligenti, non riescono a comprendere la novità dei conflitti territoriali di “nuova generazione”che stanno impegnando intere comunità di abitanti in vertenze territoriali di straordinaria radicalità.

Valle di Susa è l’ultimo e più drammatico, ma evidentemente non hanno prestato sufficiente attenzione ai premonitori Scanzano, Acerra, Civitavecchia, Marghera e molti altri che non hanno avuto nemmeno il sostegno delle cronache. Ciò perché non solo le destre, ma anche la cultura tradizionale della sinistra sono così stregate dall’idolatria della crescita, dello sviluppo, del progresso tecnologico, da dimenticare di porsi la più semplice delle domande: "Perchè lo si fa, a quale scopo, a favore di cosa, a discapito di chi altri?". Siamo in un mondo - diceva Rossana Rossanda in Appunti di fine secolo - in cui la febbre del fare strumentale soffoca l’essere.

Insomma, abbiamo perso il senso, il significato, la ragione finale del nostro agire produttivo. Siamo immersi in un mondo che dà per scontato che il bene coincida con la quantità di denari che si riescono ad investire, con la quantità di metricubi che si riescono a costruire, con la quantità di merci che si riescono a produrre, con la velocità con cui le materie prime si trasformano in merci e le merci in rifiuti. Se metti in dubbio questi assiomi ti prendono per pazzo: "Come? Non vuoi che le merci corrano più veloci? che le fabbriche costruiscano più vagoni? che gli ingegneri progettino sistemi sempre più evoluti? Ma allora sei contro il progresso!".

La loro logica è totalizzante, impenetrabile, un “pensiero unico” ossessivamente ripetuto: l’occupazione, il salario, la ricchezza, il benessere… la felicità, in definitiva, dipendono dai capitali investiti e messi a valore in produzione. Il presidente della Patria declama: "Non possiamo essere tagliati fuori dall’Europa". Ma in realtà pensa che non si può rinunciare ad un investimento europeo così grande. Il professor Prodi titola: “Sviluppo o declino” e alle nostre orecchie suona come una minaccia.

Da professoressa di Ecologia ambientale Bresso, spiega: "I treni sono meglio dei Tir". In realtà pensa che la logistica sia il settore strategico per il futuro dell’economia. Come si fa a rifiutare questo ben di Dio? Retrogradi ed egoisti!

Premesso che la prospettiva di vivere in un “corridoio”, per quanto numerato “5” e dalle origini e destinazioni affascinati (Barcellona-Kiev), non può attrarre nessuna persona di buon senso; superato ciò che non si può superare, cioè l’irreversibilità di alcuni impatti ambientali; fingendo di non sentire le bugie francesi secondo cui i Tir viaggerebbero ad Alta velocità; messe da parte le incongruenze progettuali e le alternative mai comparate (Valutazione strategica del progetto) … rimane la questione di fondo: è proprio vero che far transitare più merci e più passeggeri lungo la Pianura padana comporti qualche beneficio ai suoi legittimi abitanti?

Oppure, più crudemente, ci viene chiesto di immolare un ulteriore pezzo della nostra terra e della nostra vita al dio della crescita, del progresso e della redditività dei capitali delle banche europee?

Vista dal satellite la Pianura padana ha l’aspetto di una megalopoli “senza forma e senza sentimento”, una non-città maleodorante, un fenomeno cancrenoso cui insiste permanentemente una nube brunastra di gas tossici, densa solo quanto quella stazionante su Bombay. Vista da dentro la città diffusa padana è un’“ampia poltiglia” di cemento e asfalto a servizio delle più casuali, bizzarre, inquinanti iniziative economiche dove è sempre più difficile muoversi, respirare, vivere.

E’ questo lo sviluppo “effettivamente esistente” che gli abitanti in carne e ossa conoscono. Ed è questo il “modello” che la Tav è destinata a servire e ad incrementare. Non c’è, quindi, nulla da stupirsi se qualche comunità locale non ancora disintegrata nelle sue relazioni umane dall’avanzare della città capitalistica diffusa abbia deciso di opporre un rifiuto (rifiuti analoghi li hanno posti gli svizzeri, gli austriaci, gli sloveni). Se ciò avviene non è per merito dell’ecomarxismo e nemmeno dell’anarcolocalismo. Avviene semplicemente perché la saturazione è un fenomeno naturale conosciuto sia in fisica (ancorché ignorato dagli economisti) che in sociologia (ancorché contrastato con i manganelli della polizia).

In altri termini, molte persone hanno preso coscienza dei propri luoghi e non credono più alla bugia della diffusione del benessere per trickle down effect. Per “sgocciolamento” o per “percolazione” sul territorio arrivano solo i reflui inquinati delle grandi opere.

7 dicembre 2005

Gli abitanti della Val Susa che si oppongono alla costruzione del mega tunnel per l´alta velocità ferroviaria hanno ragione sia in linea teorica che pratica ma temiamo che saranno sconfitti perché le follie e le illusioni dello sviluppo sono irresistibili. Da Rutelli a Fassino la sinistra che dovrebbe difendere gli uomini dalla rincorsa cieca e autolesionista allo sviluppo dissennato, ha già alzato bandiera bianca. Il governo della ragione può aspettare, quello dei sogni e delle illusioni disastrose deve continuare. Che il mito dell´alta velocità si risolva in pratica nel suo contrario se ignora la ragione e segue solo gli interessi di chi ci guadagna sopra, è sotto gli occhi di tutti: nelle grandi città traffico e trasporti sono più lenti oggi che un secolo fa, si passa più tempo nelle code automobilistiche che quando si andava a piedi o in carrozza. Gli abitanti della valle di Susa marciano con bandiere e cartelli per dire no all´alta velocità ferroviaria che per cominciare rovinerebbe la qualità della vita nella valle per almeno quindici anni, lavori in corso con frastuoni, inquinamenti, avvelenamenti. Ma temiamo che dovranno cedere, rassegnarsi, l´opinione pubblica vincente è quella che applaude il Celentano, che celebra il rock scattante, veloce contro il retrogrado lento. È tornato il futurismo, compagno di strada del fascismo.

Ha scritto Hanna Arendt: «Sembra che fra le principali caratteristiche di questo tempo ci sia la mancanza di pensiero. Quello che io propongo è molto semplice, niente di più che pensare a quello che facciamo».

Ma chi ti lascia il tempo per pensare, come puoi pensare se la regola di vita dominante nel capitalismo come nel comunismo è quella di fare ciò che vogliono le élites al potere? La pianura padana da Torino a Novara è stata squarciata, devastata, cementata dalla linea ferroviaria dell´alta velocità.

Non l´abbiamo pensata perché le aziende delle costruzioni e del cemento non avevano alcun interesse a discuterne con gli italiani, e ora in moltissimi siamo di fronte al fatto compiuto, la linea ad alta velocità è quasi pronta.

Per risparmiare un quarto d´ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d´Italia una gigantesca linea Maginot. La più indecente delle speculazioni, milioni di metri cubi di cemento per sovrappassi faraonici, viadotti giganteschi che si torcono, si intrecciano fra cielo e terra senza alcuna utilità come serpenti creati dall´uomo per soffocare la sua specie maledetta, cacciata dall´Eden. Il ministro della devastazione Lunardi ha già percorso la linea su un treno speciale che fra Torino e Novara ci ha messo dieci minuti in meno. Ci sono dei retrogradi che si chiedono se non sarebbe meglio per i cittadini metterci dieci minuti in più ma in carrozze più comode e senza le cimici e magari avere una rete più sicura, ponti che non cadono ad ogni alluvione, treni riscaldati per gli operai, vetture letti e ristoranti decenti.

L´alta velocità della Val Susa, i cinquantadue chilometri in galleria che ne cambieranno gli equilibri hanno il consenso di tutti i rock italiani.

Mussolini queste cose le aveva capite da bravo populista, offrì agli italiani il primato aereo di velocità di un prototipo e poi mandò migliaia di aviatori alla morte su aerei vecchi e mal costruiti. Imitato oggi dai berlusconiani delle grandi opere che scavano una galleria di settanta chilometri sotto gli Appennini da Modena a Firenze per guadagnare venti minuti ma non hanno speso una lira per dare acqua alle regioni assetate del sud. E naturalmente si sono messi sotto accusa per aiutare il finto progresso i politici «lenti», come Sergio Vallero, presidente del Consiglio provinciale di Torino o i sindaci di Condovea e di Chianocco perseguiti per «resistenza a pubblico ufficiale e blocco stradale». Ma non sono di buon senso le cose dette da Sergio Vallero, «Ci hanno messo di fronte a uno scontro istituzionale nocivo mentre noi abbiamo sempre cercato il dialogo e la mediazione»? Bisogna stare attenti con il decisionismo berlusconiano in una valle come quella di Susa delle poche in Piemonte ad essere una valle «urbana», non una società montanara addormentata nella tradizione ma industrializzata, passata per le lotte operaie e per la resistenza che ha conosciuto anche il movimentismo feroce di Prima linea. Non abbiamo alcun rimpianto per i disperati alla Sergio Segio o alla Fabrizio Giai che si autonominarono avanguardia degli sfruttati e seminarono morte nella valle come nei sobborghi torinesi ma un consiglio alla prudenza ci sembra opportuno, la resistenza degli abitanti della Val Susa va affrontata con sapienza politica, con rispetto degli altri, di quelli che per i decisionisti non contano. C´è sempre un ceto di proprietari che pensa in grande alle spalle degli altri, che fa sacrificare gli altri per le sorti progressive dell´umanità, che in pratica sono quasi sempre le sorti progressive del loro potere e dei loro redditi. Forse è arrivata l´ora che il decisionismo assuma la sua responsabilità e fronteggi i suoi rischi. Le rivolte delle periferie parigine come, in piccolo, la resistenza della Val Susa all´alta velocità, dicono che bisogna anche occuparsi del consenso. Ma il buon senso conta nella storia umana?

Titolo originale: Give these people an inch and they take a city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Provate a camminare verso ovest sul lungomare di Brighton. Lasciate perdere l’orrore del centro congressi. Ignorate la triste carcassa del Molo Occidentale in rovina. Ignorate anche tutti i detriti di mezzo secolo di urbanistica fallimentare.

Al vecchio confine di Hove l’umore migliora. L’ordine regna nella solida Brunswick Terrace. Brunswick Square è un’ondata di stucchi travolgente, una delle piazze più nobili d’Inghiliterra. Adelaide Crescent è un crescendo di architetture e spazi verdi che supera qualunque altra cosa a Bath. Hove, sul mare, per usare le parole di Betjeman è una delle poche città inglesi che si possono tranquillamente chiamare “lei”. È bellissima.

Ora, alzate gli occhi verso ovest, ancora, e immaginatevi due grossi “Prescott” che vi colpiscono in faccia (un Prescott è una torre situata ovunque, che piaccia al vicepresidente del consiglio, come quelle da cinquanta piani che ha appena approvato a Vauxhall sul Tamigi). Le due torri di Hove, una di 25 piani, sono intese a coronamento di un piano da 250 milioni di sterline per il lungomare. Il leader del consiglio municipale di Brighton e Hove, Ken Bodfish, sostiene che le torri faranno di Hove “la città di questo secolo”. Presumo che sia questo, quello che vogliono i cittadini, anche se mi suona nuova.

E sin qui la cosa sarebbe ancora di interesse locale. Ma qui non si tratta di edifici normali. Il loro vero senso, sta nell’essere progettati da un architetto davvero ispirato, il canadese Frank Gehry. Avere un edificio di Gehry in qualunque località d’Inghilterra sarebbe un onore (abbiamo solo la sua piccola clinica Maggie’s Centre in Scozia). Ha anche chiesto la collaborazione dello scultore Antony Gormley. Riconosce anche un contributo dal suo “apprendista”, l’attore con la passione dell’architettura Brad Pitt. Da qui la battuta locale che chiama già gli edifici “i Pitt”.

Sarei disposto a dare molto per un progetto di Gehry. Avrei sacrificato la centrale elettrica sulla riva alla Tate Modern per il suo Guggenheim di Bilbao, che a dire il vero costa di meno. Sacrificherei certamente la desolazione cementizia della South Bank per la sua Disney Hall di Los Angeles. Il suo uso esotico delle forme, colori e materiali può essere entusiasmante, e grazie al cielo odia le grandi superfici a vetro. Di sicuro Brighton meritebbe un progetto di Gehry.

Questo, però, non vuol dire qualunque progetto di Gehry, messo in qualunque posto. Un edificio è arte, nel contesto più pubblico possibile. Un piccolo edificio si rivolge ad una strada. Una torre si rivolge a tutta la città. Ciascun cittadino ha diritto ad esprimere un punto di vista sulla sua realizzazione o meno, o dove debba essere costruita. La gran parte del lavoro di Gehry è costituita da un sofisticato intreccio di piani, spesso influenzato da tematiche marine. Possono essere ispiratori, divertenti, acuti, intelligenti.

Le torri di Hove sono solo sciocche. Sembrano fogli di carta appallottolati messi l’uno sull’altro, avvolti in un malsano involucro che riecheggia il World Trade Centre che implode. Gehry le descrive come evocanti “i movimenti di un vestito da dama edoardiana sul lungomare”, rafforzando la mia opinione secondo cui gli architetti, qualunque cosa facciano, non dovrebbero parlare.

Nella maggior parte dei lavori di Gehry ci sono logica e disciplina. Le torri di Hove sembrano non avere né l’una né l’altra. E anche così, le loro superfici sbucciate e i lineamenti caotici non interesserebbero tanto, se il complesso fosse poco sviluppato in altezza. Il vicino centro sportivo King Alfred, ben attaccato al suolo ha un aspetto attraente, e si deve fare. Le torri sono una faccenda diversa. Sono un grido, non un mormorio. Urlano su tutta Hove, impongono attenzione.

Abbiamo perso la sensibilità per regolamentare gli edifici urbani. La catastrofe degli interventi pronti a spuntare dappertutto a Londra è una tragica replica di quanto accadde negli anni ’60 e ‘70. Ogni veduta, per quanto solenne, sarà riempita da una punta di vetro, o una piramide, o una scheggia, cuneo, tubo. Lo skyline di Londra sembrerà il banale recinto da gioco di un bambino sparpagliato di giocatoli geometrici. Le torri non mostrano alcun rispetto per le immediate vicinanze, figuriamoci l’orizzonte. Sono pezzi architettonici da museo, che usano la città come vetrina e catalogo.

Questo museo un tempo era curato dall’urbanistica. Ma in Gran Bretagna l’urbanistica ha perso la sua tradizionale battaglia contro un potere asservito al denaro: in gran parte contro John Prescott e gli interessi della lobby edilizia. A Londra, l’epoca in cui i Very High Buildings (VHB) erano destinati a raccogliersi lontano dalle zone residenziali e storiche, è finita. Architetti e costruttori odiano i raggruppamenti, per la semplice ragione che gli altri VHB sono infernali da avere attorno. Ognuno vuole essere isolato, con la propria visibilità da lontano. Non sanno più tenere un rapporto con le strade, conversare coi quartieri. Sanno solo dare pugni in faccia. La progettazione di ambiente si risolve nel famigerato “stronzo in mezzo alla piazza”.

Bernard Levin auspicava che si sparasse a un architetto all’anno, pour encourager les autres. Non è leale. Gli architetti lavorano. Se affermano di fare arte, allora c’è qualcun altro che deve pagare. La colpa dei cattivi edifici è di chi avrebbe il compito di controllarli in nome del pubblico, approvando quelli buoni e respingendo quelli non buoni. È a loro, e a quelli a cui loro rispondono, che si dovrebbe sparare, quando si verifica un’offesa.

Una buona urbanistica è il segno sicuro di una comunità civile. Senza di essa, resterebbero pochi vecchi edifici nei centri delle città britanniche. L’intera zona centrale di Londra sarebbe il sogno del sindaco Bodfish, una “città di questo secolo”. Sappiamo esattamente che aspetto avrebbe avuto, perché è stata pensata negli anni dopo la seconda guerra mondiale da pianificatori come Abercrombie e Buchanan. Sarebbe stata una città di piastre di cemento e torri, una Stalingrado-sul-Tamigi. Date un dito a questa gente, e si prendono tutta la città.

Guardate cos’hanno fatto con Brasilia, Canberra, Cumbernauld e Milton Keynes.

Le vedute dal lungomare di Hove dovrebbero essere un monumento nazionale. È qui che negli anni ’20 del XIX secolo gli architetti Charles Busby, Amon Wilds e Decimus Burton volevano creare in riva al mare una versione ancora più splendente della contemporanea Regent’s Park di John Nash a Londra. Ci sono riusciti.

Niente dovrebbe intromettersi, in questo splendore. La vista da est verso il centro di Brighton è già stata profanata da tozzi appartamenti, le catapecchie di un centro congressi e divertimenti, un molo in rovina, che tutti farebbero vincere a Brighton qualunque premio “comune delle schifezze”. Ma i meravigliosi complessi di Kemptown e Hove restano intatti. Sono la gloria del sud Inghilterra.

Il genio di Gehry non si diminuisce dicendogli di diminuire la dimensione dei suoi progetti, per restare entro il campo visivo del sito. L’ha già fatto una volta. Se i capolavori di Busby, Wilds e Burton non pretendono di offendere la sua opera, perché dovrebbe farlo lui con le loro? La Tate non mette i lavori di Rothko nella stessa sala di quelli di Turner. E Prescott non mette le sue torri in Parliament Square o i suoi uffici amministrativi a Dovedale (non ancora).

Anche la mente più prosaica ha qualche residuo di DNA che riesce a distinguere il brutto o l’inadeguato dal bello. Sa capire la stupidità della massima secondo cui “la bellezza sta nell’occhio del padrone”. C’è una cosa che si chiama estetica pubblica, ed è il motivo per cui si fa tanto per salvare la grande arte. Eppure, ci importa tanto poco della forma d’arte più pubblica, la forma della città.

Le città moderne stanno diventando come zoo che contengono solo elefanti. Hove ha ancora uccelli del paradiso. Perché calpestarli?

Nota: il testo originale al sito del Guardian ; altri particolari e links sul progetto di Gehry, a questa pagina del sito Europaconcorsi (f.b.)

Supermarket e piccoli negozi alimentari, spesso messi in piedi da immigrati o a gestione familiare. Ma con orari flessibili che prevedono chiusure a tarda ora e attività anche nei fine settimana.

A dispetto delle statistiche, che evidenziano un’avanzata inarrestabile della grande distribuzione organizzata, i negozi di vicinato sono tornati di moda, soprattutto nelle città di mediograndi dimensioni. "Colpa" della congiuntura economica negativa, che spinge le famiglie a spendere solo piccole cifre ogni volta, oltre che di una popolazione sempre più anziana, con mobilità ridotta e quindi impossibilitata a raggiungere con una certa frequenza gli ipermercati situati in periferia.

Tra le città più interessate da questo fenomeno Bologna. Nel capoluogo emiliano sono sorti 140 negozi di vicinato, situati nelle periferie, soprattutto ai margini poco fuori il centro cittadino. Gestiti da immigrati indiani o nordafricani, ma non solo etnici: nella maggior parte si tratta di piccoli market alimentari con prodotti generalisti. «Un fenomeno — osserva Maurizio Gattiglia, amministratore di Sogegross, catena di alimentari presente a Genova e nella maggior parte dei centri del Nord e Centro Italia — che si spiega con la convergenza di ragioni congiunturali e strutturali. I consumatori si trovano a fare i conti con una contrazione della loro capacità di spesa rispetto a qualche anno fa e per questo sono diventati più prudenti nella spesa. Preferiscono affidarsi ai piccoli centri commerciali, dove spendono piccole cifre per volta». Una percezione più psicologica, che reale. Infatti, è un dato di fatto che i prezzi della grande distribuzione sono mediamente più bassi del piccolo commercio. «È così — prosegue Gattiglia — ma la congiuntura negativa spinge i consumatori a diffidare dei "consumi indotti" dagli ipermercati». A questo si aggiunge il mutamento della tipologia di consumatori. «La popolazione italiana anziana — prosegue — è in rapida crescita. Le persone avanti con gli anni hanno difficoltà a spostarsi, utilizzano l’automobile di rado e per questo preferiscono punti vendita sotto casa o situati a breve distanza dall’abitazione».

Dello stesso avviso Paolo Palomba, direttore marketing di Sigma: «Oltre all’innalzamento dell’età media pesa anche la maggiore incidenza di singoli e nuclei familiari di piccole dimensioni rispetto al passato. Così la grande spesa presso l’ipermercato diventa una necessità episodica».

Un ritorno, quello del piccolo commercio, che tuttavia non trova riscontro nei dati statistici. Secondo le ultime rilevazioni di Unioncamere, tra luglio e settembre le vendite al dettaglio hanno registrato complessivamente una flessione pari allo 0,9% rispetto allo stesso trimestre del 2004. In particolare, sono state proprio le imprese commerciali di piccole dimensioni (cioè gli esercizi con meno di sei addetti) a registrare i cali maggiori (—2,2%). Una maggiore capacità di tenuta è stata, invece, evidenziata dagli esercizi di maggiori dimensioni (+1,4% nella grande distribuzione alimentare). "Nonostante questi dati — annota Carlo Mochi, direttore del Centro Studi di Confcommercio — è un dato di fatto che oggi sono sempre più i piccoli esercizi che aprono i battenti nelle aree ad alta densità abitativa. Negozi che intercettano una domanda che vede i consumatori interessati non solo ai prezzi, ma anche alla convenienza in termini logistici della spesa. Resta il fatto — prosegue — che per sopravvivere i negozi di prossimità devono accontentarsi margini di guadagno, ma anche adottare orari di apertura più rigidi del passato». Questo trend fa felici le organizzazioni dei consumatori, che da sempre si battono per il mantenimento dei negozi di quartiere a fianco dei grandi centri commerciali. «L’esperienza della Francia osserva Paolo Landi, presidente dell’Adiconsum insegna che la corsa sfrenata agli ipermercati non risponde alle caratteristiche della domanda, che è molto variegata. Non è un caso, dunque, che molte grandi catene transalpine oggi aprono molti più punti di medie dimensioni rispetto al passato». Per Landi «è sbagliato pensare che ipermercati e supermarket o mercatini rionali siano in competizione fra loro. Le famiglie hanno abitudini di spesa articolate: di solito si recano una volta a settimana nei grandi centri, dove trovano maggiori occasioni di risparmio, mentre per i piccoli acquisti preferiscono i negozi sotto casa».

In questo trend si inserisce anche il ritorno di interesse per i mercati rionali. «Un fenomeno di costume tutto italiano — aggiunge, invece, Carlo Mochi — ogni volta che un’amministrazione comunale decide la chiusura di un mercato scoppia il finimondo perché i cittadini trovano estremamente comodo questo modello di consumo».

Il rinnovato interesse per i negozi di prossimità trova riscontro nelle strategie delle aziende della grande distribuzione. Sia Sogegross che Sigma confermano il maggiore interesse per l’apertura dei classici supermarket, con una forte specializzazione sui prodotti tipici del luogo, rispetto alle grandi strutture. Il mutamento della domanda dei consumatori trova conferma anche nelle strategie di un’azienda specializzata nel mercato delle directory come Seat, che ha messo a punto una guida di copertura del territorio, InZona, riservato ai piccoli acquisti cittadini. Un’iniziativa nata in seguito a uno studio realizzato con la società di ricerca Aaster, da cui è emerso che il contesto sociale delle grandi città è cambiato negli ultimi anni. I piccoli esercizi vengono valutati non più solo in base alle politiche di prezzo che adottano, ma anche per la possibilità di socializzazione che sono in grado di offrire, cosa che manca negli ipermercati. Resta da vedere, infine, se queste nuove dinamiche del mercato avranno influssi sulle politiche di assunzioni delle aziende. «Al momento non riscontriamo grossi discostamenti rispetto al recente passato — annota Antonella Severino, della società di selezione Mcs — né tra i grandi, né tanto meno tra i piccoli. Se la tendenza proseguirà potrebbero però esservi dei mutamenti nei prossimi mesi».

Prodi lancia l'allarme «In Italia rischiamo tante piccole Parigi»

ROMA — Le fiamme che continuano a illuminare i sobborghi di Parigi si propagheranno in Italia? Per Romano Prodi è solo questione di tempo. «Abbiamo le peggiori periferie d'Europa. Non crediamo di essere così diversi da Parigi — ha detto il leader dell'Unione —. Se non facciamo interventi seri, sul piano sociale e con l'edilizia, avremo tante Parigi: ci sono condizioni di vita pessime e infelicità anche dove sono tutti italiani». Prodi proporrà al sindaco di Roma Walter Veltroni una riunione tra amministratori delle grandi città europee «per scambiare informazioni e aiuti riguardo a questi grandi problemi». L'opposizione non ha dubbi: si rischia la rivolta. Nel centrodestra convivono giudizi apocalittici sull'immigrazione irregolare e ottimismo. Il ministro delle Riforme Roberto Calderoli (Lega) ritiene che la guerriglia metropolitana arriverà anche in Italia e propone la linea dura: «Reprimiamo i comportamenti illeciti dei centri sociali, allontaniamo gli irregolari, destiniamo ad altro servizio le toghe colorate politicamente o ideologicamente». Invece il ministro del Welfare, Roberto Maroni, anche lui leghista, osservando quanto accade nella «civilissima» Parigi conclude: «Allora in Italia le condizioni non sono così disperate».

L'emergenza-banlieue infiamma le polemiche. Il deputato di An Enzo Fragalà attacca il leader dell'Unione e punta il dito sulle «miserabili dichiarazioni con le quali Romano Prodi cerca di instillare il seme dell'odio e della violenza nelle giovani generazioni italiane». Una nota di ottimismo viene invece dal direttore generale del Censis, Giuseppe Roma. «Italia e Francia sono contesti diversi. Intanto — spiega — in Italia non abbiamo raggiunto livelli così elevati nè per numero di abitanti nè per percentuale di immigrati. Luoghi come la banlieue parigina non esistono a Roma e neppure a Milano. L'unica dimensione comparabile potrebbe essere l'area napoletana, ma lì il fenomeno ha radici diverse ed è legato soprattutto alla criminalità organizzata».

«Guerriglieri? No, autolesionisti che bruciano le loro scuole»

PARIGI — Se non saranno le scuse di Sarkozy, saranno le sberle dei genitori a fermarli. O nient'altro. Tanto meno la polizia. I piromani notturni delle periferie di Parigi sono in trappola, bloccati in un vicolo cieco almeno quanto il loro grande nemico, il ministro degli Interni Nicolas Sarkozy: più si ostinano a dar fuoco alle polveri, più danno ragione a chi li condanna. Lo pensa e lo scrive Jean Michel Thénard, opinionista del quotidiano di sinistra Libération. «Le auto che incendiano ogni notte, sono le auto dei loro vicini. Le scuole che bruciano, sono le loro scuole. Gli autobus che attaccano, sono quelli che portano al lavoro i loro genitori e a scuola i loro fratelli. La donna disabile che hanno ustionato era anche lei una diseredata di periferia — riflette Thénard —. Prima o poi saranno i loro stessi familiari a imporre di farla finita con la guerriglia urbana».

Ma se non andrà così, la violenza che stringe d'assedio Parigi non farà altro che esasperare sempre più l'opinione pubblica e mettere in imbarazzo la sinistra, che ha sempre difeso gli immigrati.

«È vero, la sinistra ha sempre sostenuto le ragioni di chi è discriminato. Ma aveva cercato di prevenire la violenza con la sicurezza. È stato il governo di destra a smantellare la polizia di quartiere istituita dall'ex primo ministro Lionel Jospin. Gli agenti locali entravano in contatto con la popolazione dei quartieri più difficili, ci vivevano. Conoscevano le persone e si facevano conoscere. Sarkozy, nel 2002, ha stabilito che interpreta la sicurezza solo come repressione».

La via d'uscita?

«Una possibilità è che Sarkozy si scusi delle espressioni usate nei confronti di questi giovani, definiti una "feccia". Ma non sembra intenzionato a farlo, per il momento. La seconda è che siano gli adulti, i genitori a dire basta. E poi c'è un aspetto da non sottovalutare in questa rivolta: quello ludico».

Ludico?

«Certo. Questi ragazzi sono sulle prime pagine di tutti i giornali, ci sono le telecamere, arrivano giornalisti da tutto il mondo. La collera è soltanto uno degli elementi incendiari. Che non ci sia una strategia o una guida politica è dimostrato dai loro obiettivi. Devastano i loro stessi quartieri: se ragionassero politicamente, andrebbero a dar fuoco alle auto parcheggiate a Neully, dove vive il ministro degli Interni».

Ma a sinistra, la coscienza è davvero a posto? Nessuna responsabilità, nessun ripensamento?

«Sul piano della sicurezza direi di no. Sul piano politico invece sì. Il problema delle periferie ha almeno vent' anni e la sinistra ha governato per 15 degli ultimi 24 anni: in materia di integrazione, scuola, servizi sociali, occupazione avrebbe potuto fare di più».

Periferie francesi, la notte più violenta

PARIGI — Nemmeno elicotteri, fotocellule e tremila poliziotti fermano l'onda di violenza nelle periferie francesi. Ripetitiva e preordinata, la guerriglia è ricominciata sabato sera, sfiorando il centro di Parigi, con tre auto incendiate nella terza circoscrizione. Gruppi di giovani (sono stati fermati ragazzini di 10 e 12 anni, con bottiglie incendiarie) hanno assaltato scuole, asili, centri sociali, stazioni di polizia. Una furia cieca, che suscita la reazione della popolazione esasperata, rimette in circolo parole d'ordine xenofobe, destabilizza il governo francese e il suo uomo forte, il ministro dell'Interno Nicolas Sarkozy.

All'ombra di blocchi di cemento uguali, alti e grigi, le carcasse di auto bruciate fanno ormai parte del paesaggio: più di 300, nella decima notte di vandalismi, assalti a negozi e luoghi pubblici, aggressioni a tutto ciò che rappresenta la Francia bianca, dai pompieri agli agenti, dai sindaci agli operatori sociali spediti da queste parti, con una montagna di sussidi, a predicare integrazione nei valori della

République.

Parigi è davvero vicina e lontanissima. La «Nazionale 3» attraversa cittadine appiccicate alla metropoli. Una grande Brianza più povera, zeppa di fabbriche, autosaloni, supermercati, shopping center, depositi. Ma anche di asili nido, campi gioco, licei, ritrovi. Non c'è nulla di più falso dell' immagine di bidonville abitata da disperati. L'apartheid è territoriale. Si traduce nel senso di esclusione di una generazione nata e cresciuta in Francia. Si rafforza con i confini invisibili delle bande, della piccola criminalità, del sommerso che garantisce sopravvivenza e consumi. I proclami di Sarkozy sono stati benzina sul fuoco, hanno prodotto rivalsa e umiliazione generalizzata, attizzato micce in tante altre città della Francia, da Strasburgo a Marsiglia, da Rennes a Tolosa. Ieri sera persino sulla Costa Azzurra, da Cannes a Nizza.

L'effetto moltiplicatore di televisione, blog, cellulari è stato devastante. Estremisti e mestatori hanno trovato facile consenso. Un sindacato di poliziotti denuncia la presenza di islamisti radicali nei disordini, il che è possibile in quartieri da cui sono partiti anche volontari per l'Iraq. Al tramonto, si preparano bottiglie molotov. Le bande si spostano da un quartiere all'altro, decidono obiettivi da colpire. «Sarkozy ci considera tutti teppisti? Glielo abbiamo dimostrato. Adesso ci deve chiedere scusa». Ma la cenere è incandescente da tempo: la mente corre ad un episodio premonitore di tre anni fa, quando la nazionale di calcio, infarcita di campioni maghrebini, venne fischiata da migliaia di giovani che sostenevano la squadra avversaria, l'Algeria.

Clichy-sur-Bois è stato l'avvio della rivolta. Qui è deserto anche il McDonald's. E sembra un angolo di Occidente in un quartiere di donne velate, caffetani colorati e insegne arabe e africane.

Gruppetti di giovani — incappucciati nelle felpe abbondanti da rappeur — tirano dritto, con occhi bassi che tradiscono rancore e paura. Qui sono morti i due adolescenti che si erano rifugiati in una centrale elettrica per sfuggire alla polizia. E qui si è compiuto il misfatto che fa temere una deriva religiosa della protesta: tre lacrimogeni finiti dentro la moschea, mentre la gente pregava. «Incidente», secondo le versioni ufficiali, ma qui tutti credono il contrario. «Non c'era motivo di attaccarci. Questa è una comunità tranquilla. Ci sono piccoli delinquenti, come dappertutto. Sopravviviamo, come hanno fatto i nostri padri venuti dall' Algeria», spiega un giovane. Le cifre parlano per lui: la metà dei 28 mila abitanti ha meno di 25 anni, un quarto sono disoccupati. Ma qui il governo ha stanziato 330 milioni di euro per rinnovare 4.000 alloggi. «Adesso siamo tutti in collera, ma almeno si parla di noi. Cattivi e famosi, evviva».

I soli che sembrano in grado di calmare la rivolta sono gli adulti di questa generazione «no future». Genitori, insegnanti, operatori sociali, capi religiosi, sindaci che stanno dando la più dignitosa dimostrazione di civiltà alla Francia impaurita, ostile, preoccupata per la sua immagine. Anche i genitori delle vittime di Clichy hanno rivolto un appello di pace. A Epinay, una marcia silenziosa, per solidarietà con l'impiegato pestato a morte nelle notti scorse. Una marcia turbata da estremisti di destra, venuti qui a urlare «questa gente odia la Francia». A Aulnay, tremila sono sfilati dietro uno striscione «No alla violenza, si al dialogo». Ci sono anche coraggiosi come Mourad, operatore sociale maghrebino, che ha cercato di fermare una banda con bottiglie incendiarie. Lo hanno insultato e picchiato: «Mi senso umiliato. Il mio lavoro non conta più. Ma di chi è la colpa?».

Meigneux/Ansa

Alcune note firme dell´architettura italiana si sono lamentate per l´invasione nel nostro territorio di architetti stranieri: hanno ragione e hanno torto contemporaneamente. Hanno ragione quando sostengono che gli italiani sono altrettanto se non più bravi degli stranieri: la recente esposizione tenutasi al palazzo della Triennale dimostra che le nostre facoltà di architettura sono capaci di presentare progetti seri, approfonditi, encomiabili.

Merito di studenti impegnati e di docenti preparati. Perché ricorrere a professionisti d´oltralpe, o d´oltre mediterraneo, quando a casa nostra e per cose nostre siamo già eccellenti ed invidiabili?

I protestatari tuttavia hanno torto quando tacciono sul modo con cui vengono dati gli incarichi. La loro protesta è rivolta solamente contro la burocrazia degli organi ufficiali, accusati di frenare e deviare il decorso delle pratiche edilizie, ma non contro la colpevole reticenza degli enti, sia statali che locali, nel promuovere e bandire concorsi pubblici; e contro la deplorevole assenza di questi enti nell´indirizzare e controllare le gare private, quando queste sono di interesse collettivo. Oggi i concorsi pubblici sono evitati con cura; e non sembra che in futuro tornino ad essere adottati con regolarità.

Il più clamoroso intervento monumentale di questi ultimi anni, la ristrutturazione, o meglio il rifacimento quasi integrale, del teatro alla Scala di Milano è stato eseguito dal Comune di Milano senza bandire un concorso.

Peggio: l´intervento di ristrutturazione è stato manovrato in modo tale da sfuggire all´obbligo del concorso, mascherando surrettiziamente i costi di costruzione per evitare i limiti di spesa fissati dalle norme europee. Così facendo si è potuto far progettare l´opera in un primo tempo da un anonimo tecnico, scelto dell´ente scaligero; e in un secondo tempo a un architetto straniero, scelto dal sottosegretario ai Beni culturali. Anche il teatro degli Arcimboldi è stato progettato senza concorso. Battezzato frettolosamente con questo nome solo dopo aver percepito i pericoli che suscitava la iniziale denominazione di "Scala bis", il teatro è stato costruito con notevoli investimenti pubblici; avrebbe quindi dovuto obbligatoriamente sottostare ad un pubblico concorso di progetto, in osservanza alle norme europee. L´infrazione è stata severamente stigmatizzata dagli organi di tutela europea, avvertiti coraggiosamente dal presidente dell´Ordine degli architetti di Milano, Piero De Amicis. I concorsi di progettazione, per effetto di una recente legge capestro relativa agli appalti banditi da enti pubblici, sono condizionati da pesanti ed inique clausole: queste sbarrano la possibilità di accedere ai concorsi anzitutto ai giovani; e in seguito anche a chi non può vantare bilanci professionali stratosferici, o non ha avuto recenti incarichi di dimensione colossale.

Il torto di chi protesta contro gli architetti stranieri, e contro la loro calata da dominatori in Italia, sta proprio in questo: nel tacere la deplorevole prassi degli attuali concorsi di progettazione, nell´ignorare e non richiedere, per ragioni di interesse professionale, procedure più eque, più imparziali, più democratiche. Guerra internazionale di stelle: ma guerra che appunto si svolge in alto, sopra le nostre teste, e che quaggiù lascia i comuni mortali costretti ad arrangiarsi come possono.

Nota: sullo stesso tema, qui su Eddyburg l'articolo di Pierluigi Panza dal Corsera, e la lettera di Filippo Ciccone(f.b.)

"Coinvolgere le popolazioni nelle scelte": è la frase che echeggia dalla Val di Susa fino a Roma, ed è una frase terribile. Non perché sia sbagliata, anzi: "coinvolgere le popolazioni nelle scelte" è solo un modo per dire democrazia, niente di più, niente di meno. La frase è terribile perché, solo a udirla, ci si rende conto della sua totale inapplicabilità, e cioè dell´inapplicabilità della democrazia. I centri di potere economico e tecnocratico sono pochi e impenetrabili, e pianificano il futuro di tutti in superba autarchia: giuste o sbagliate che siano, le famose scelte strategiche arrivano alle "popolazioni" già confezionate e ultimative. E il contraccolpo inevitabile è quasi sempre la rivolta, e il rimedio proposto, quando è oramai tardi, è spesso demagogico e assemblearista, emotivo e insofferente, paralizzante. E´ come se fossero spariti, tra potere e "gente", gli ammortizzatori, i livelli intermedi, i luoghi di discussione e di analisi, dove far decantare i conflitti e costruire senso comune. Quel luogo sarebbe la politica, quel luogo erano i partiti politici quando esistevano e funzionavano. La politica-spettacolo, quella dei leader e dei proclami, del marketing e dei salotti televisivi, è una politica lazzarona: non fa più il suo lavoro, e il prezzo lo paghiamo tutti.

Ne ha parlato il presidente Soru l'altra sera a Ballarò: il valore degli immobili nelle pregiate coste sarde, è argomento finalmente ricorrente anche per via di recenti eccezionali compravendite. Un ricco russo avrebbe acquistato una casa in Costa Smeralda per la somma di 35 milioni di euro, ma la notizia è stata rubricata tra le bizzarrie mondane estive pure nel gran parlare di rendite immobiliari. Una somma notevole, se si pensa che qualche anno fa una casa dello stesso rango poteva essere ceduta per una decina di miliardi di lire, che sembrava, anche a quelli che di case qui ne possiedono sei o sette, un prezzo notevole. Allora per riflettere due conti, che dicono dell'abilità di chi per mestiere compra e rivende case in tempi brevi con vantaggi non comuni. Anche immaginando l'impiego di materiali preziosissimi, il costo di costruzione di un metro quadro finito di casa si può aggirare, esagerando, sui 2000-2500 euro. Ecco: la casa in questione, alcune centinaia di metri quadri, costerebbe, è costata per realizzarla, poco più di un milione di euro.

Il resto del valore - per arrivare a 35 milioni - è dato dalla speciale condizione del paesaggio che noi mettiamo a disposizione. Grande plusvalenza, pure con un lotto accessoriato, una supervista sul mare, dirimpettai molto ma molto altolocati. Per queste merci è così. E ogni giudizio pensando ai tanti senza casa o nel segno della parsimonia, è superfluo. E' così. Anche se sgomenta pensare che una decina di ettari di terra, poco distanti da qui, valgono molto poco e non si vendono neppure con l'aggiunta di un gregge di pecore lattifere.

Per stare alle questioni poste da Soru. È bene ripeterlo: queste ricchezze, prodotte con tanti guasti ai luoghi, non rendono nulla alle comunità locali. Spiccioli a qualche manutentore e spiccioli per l'Ici (le mance che si lasciano da queste parti sono più generose).

Anche questi investimenti stanno nel genere delle delocalizzazioni. Gli stessi che spostano le fabbriche dove il costo del lavoro è più conveniente e i capitali dove torna utile, realizzano case dove il mare non ha rivali.

Convenienza per convenienza, occorre uno sforzo di fantasia perché la finanza creativa non sia a senso unico e tassare adeguatamente questi ingenti patrimoni che devono tutto ai paesaggi che corrompono. Questo per l'esistente.

Poi, occorre dirlo chiaro per chi ritiene ancora di concedere questi privilegi, che una volta fatte le case resta comunque troppo poco alla Sardegna al di là del compiacimento della presenza di tanta bella gente da queste parti ( «ajò a vedere le ville dei ricchi a Porto Cervo»).

La cancellazione dei connotati di spiagge e scogliere procurano vantaggi a pochi che spesso non hanno idea di dove siano le case preziose che possiedono.

Queste concessioni a edificare non c'entrano nulla con l' uso (case che si abitano una settimana all'anno) e che sono appunto nel novero delle speculazioni. Al centro quei beni nel ciclo denaro-merce-denaro ( ne ha scritto Valentino Parlato) che il nuovo capitalismo italiano predilige.

Occorre intensificare l'impegno per tutelare i nostri interessi quelli delle giovani generazioni che vorranno mettere a frutto i nostri beni ambientali.

Attenzione. Perché nella riflessione che si è aperta su questi temi in Sardegna, qualcuno nel centrodestra porta l'argomento dell'incremento dei prezzi delle case esistenti nelle coste, dato dal vantaggio - uno scandalo per i liberisti - che verrebbe da una politica di contenimento delle trasformazioni dei litorali. Quindi: «più case al mare per tutti», come nel comizio di Albanese.

Titolo originale: Scaling Back New Orleans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il portavoce Dennis Hastert ha imparato nel modo peggiore i pericoli che si corrono prendendo a calci una città quando è già a terra. Un quotidiano dell’Illinois riferisce che poco dopo l’uragano Katrina abbia detto come New Orleans “poteva essere spianata con le ruspe”, e gli oppositori l’hanno presto zittito con accuse di insensibilità e spietatezza.

L’uragano ha mostrato chiaramente come New Orleans ospiti infrastrutture di trasporto ed energetiche vitali per l’economia nazionale. È città ricca di storia, con un ambiente culturale vivace (e festoso) che tutta la nazione tiene in alta considerazione. Ed è la casa di quasi 500.000 persone legate alla propria comunità. Tutti questi, sono argomenti decisivi per stimolare una grande sforzo affinché la città si riprenda velocemente. La storia dimostra, tra l’altro, che le città hanno la forza di reagire dopo le crisi (pensiamo al grande incendio di Chicago più di un secolo fa).

Ma alcuni economisti iniziano a chiedersi se Mr. Hastert non abbia in qualche modo colto il segno, sull’essere cauti parlando della ricostruzione di New Orleans, per quanto rozzamente l’abbia espresso. Non sono solo gli svantaggi naturali della città (la cui gran parte sta sotto il livello del mare) a preoccupare gli studiosi. È anche il suo stato economico – povertà crescente, e un esodo di persone e imprese già prima che l’uragano colpisse – e la necessità di evitare nuovi incentivi che possano portare ad uno sviluppo non meno vulnerabile.

”Abbiamo degli obblighi nei confronti della popolazione, non dei luoghi” ha detto Edward Glaeser, professore di Harvard specializzato in economia urbana. “Calcolato quanto costerebbe pro-capite ricostruire New Orleans in tutta la sua gloria precedente, sarebbe molto meglio consegnare a parecchi dei residenti un assegno da 10.000 dollari e un biglietto d’autobus per Houston”.

Il paradosso del Buon Samaritano

Gli economisti si misurano da anni coi modi di affrontare le conseguenze dei disastri naturali. Gary Becker, economista premio Nobel che insegna all’Università di Chicago, dice che i decisori politici devono prendere in considerazione quello che lui chiama il “paradosso del Buon Samaritano”. L’istinto di chiunque dopo una calamità naturale è quello di soccorrere le vittime. “È difficile per un paese stare lì seduto a guardare gente in condizioni miserabili dopo un disastro”, dice. “Non è auspicabile”.

Ma gli aiuti, le promesse di ricostruzione, sono anche un incentivo perché le persone continuino a risiedere in località pericolose. Come Glaeser, anche Becker è favorevole agli aiuti. Ma anche a limitarne gli incentivi perversi. Becker sostiene che qualunque sforzo di ricostruzione dovrebbe essere gestito con mano amorosa ma ferma dal governo, ad esempio con rigidi vincoli urbanistici nelle aree a rischio di alluvione, e con altrettanto rigide norme sulle assicurazioni.

E non si tratta del solo premio Nobel che sostiene la cautela nella ricostruzione di New Orleans. “La migliore politica è quella di non consentire la ricostruzione di New Orleans nelle zone dove è possibile l’allagamento” dice Edward Prescott, ricercatore alla Federal Reserve Bank di Minneapolis, famoso per aver utilizzato gli investimenti nelle pianure alluvionate come esempi di politiche di breve termine che invece innescano incentivi di lungo periodo. Richard Posner, giurista conservatore che condivide un sito web con Becker, propone che la città diventi qualcosa come la Williamsburg coloniale: un sito turistico a sé senza una vera città.

Naturalmente, ci sono alte probabilità che la città venga comunque ricostruita. Oltre l’inerzia della decisione politica, i vari oppositori non possono non valutare le pressioni delle attività economiche al ritorno, dice Loren Scott, economista a Baton Rouge. Le imprese chimiche, i cantieri navali, le aziende energetiche, hanno enormi investimenti nell’area, privi di valore quando non operativi: “Torneranno molto velocemente” dice.

Ma le persone potrebbero non farlo. Secondo i calcoli del censimento, la popolazione di New Orleans è diminuita del 4%, pari a 21.000 unità, fra il 2000 e il 2004, agli attuali 462.000 abitanti. Fra le città più popolose della nazione, l’unica con un declino più pronunciato in quell’arco di tempo è stata Detroit. Circa il 24% delle famiglie di New Orleans vivono al di sotto del livello di povertà secondo il Census Bureau, contro il 9% a livello nazionale.

Fuga dalla Città

Molti se ne sono andati nei suburbi in cerca di scuole migliori. Anche alcuni grossi investitori se ne sono andati. ExxonMobil, Shell e ChevronTexaco, per esempio, hanno eliminato o spostato centinaia di posti di lavoro verso Houston negli ultimi anni, proseguendo un esodo dalla città che dura da vent’anni. Risultato: anche se il settore energetico sta attraversando una fase di boom, New Orleans non ne ha beneficiato gran che. Nel 2004, i livelli occupazionali nel settore privato in città erano ancora sotto a quelli del 1997.

Mr. Glaeser sostiene che ci sono problemi di lungo periodo dietro le difficoltà pre-Katrina. Negli anni ’40 del XIX secolo New Orleans era una delle tre città più popolose, insieme a New York e Philadelphia. A quei tempi, il trasporto via acqua era il modo dominante di spostare persone e merci, e l’economia era in gran parte agricola. I collegamenti col Sud e col Mississippi facevano di New Orleans un polo fondamentale e integrale del commercio. Secondo Glaeser, l’ascesa dei trasporti ferroviari e automobilistici, insieme all’industrializzazione del secolo successivo, hanno cambiato tutto questo e innescato il lungo, lento declino della città. Quelle che oggi crescono più rapidamente, nota, sono posti come Las Vegas o Atlanta, organizzate sullo sprawl suburbano e non circondate dall’acqua.

”New Orleans è un luogo che ha raggiunto il proprio massimo livello economico negli USA 160 anni fa” dice Glaeser. “Certo ora non offriva un grande futuro, alla maggioranza dei propri abitanti”.

C’è anche una questione di tempi. Solo due settimane dopo Katrina, città come Baton Rouge o Houston fremono di persone e imprese che tentano di continuare vita e lavoro. Quando il piano di ricostruzione per New Orleans sarà stato steso e attuato, probabilmente migliaia di persone si saranno già stabilite altrove. Come promemoria di quanto lungo – e dibattuto – possa diventare un processo di ricostruzione, resta ancora vuoto, quattro anni dopo l’attacco terroristico su New York dell’11 settembre, lo spazio che era il World Trade: una cicatrice di terreno inedificato.

I questi primi giorni di crisi, Washington non sembra orientata verso la circospezione. Lo stanziamento di 62 miliardi per soccorrere le vittime è solo il primo passo di una spesa che potrebbe raggiungere i 200 miliardi. Ma prima di impegnare questi miliardi a rimediare alla tragedia urbana, questi economisti sostengono che i decisori politici dovrebbero pensare meglio alla condizione in cui era New Orleans, ed essere ben certi di non ricacciarcela.

Nota: il testo originale ripreso dal sito Sito Real Estate Journal ; qui su Eddyburg, tra i molti articoli su New Orleans dopo l'uragano, dubbi sui modi di ricostruzione sono espressi ad esempio da Drake Bennet del Boston Globe (f.b.)

La lettera di Luigi Burla

Prendo spunto dalla recente proposta di legge di riforma urbanistica in discussione in Parlamento.

Mi viene in mente, in contrapposizione, il tentativo di riforma del ministro Fiorentino Sullo nel 1963.

Se la riforma fosse stata approvata avrebbe in un sol colpo eliminato la speculazione edilizia e tutta la corruzione politica a essa legata e avvicinato l'Italia alle nazioni più civili nel governo del territorio. Perché, la «rivoluzionaria» riforma Sullo è stata tanto osteggiata anche da esponenti del suo stesso partito, la Dc?

La risposta di Sergio Romano

Caro Burla, non credo che la riforma proposta da Sullo avrebbe eliminato «in un solo colpo» la speculazione edilizia e la corruzione. Ma l'episodio evocato nella sua lettera fu effettivamente un passaggio importante della storia repubblicana e merita di essere ricordato. Fiorentino Sullo fu per alcuni anni uno degli uomini politici più promettenti della Democrazia cristiana. Era nato nel 1921, aveva partecipato ai lavori dell'Assemblea costituente e apparteneva alla «corrente di base», vale a dire alla sinistra del suo partito. Fu ministro dei Trasporti nel 1960, dei Lavori pubblici nel 1962, della Pubblica istruzione nel 1968. Nel gennaio 1969, mentre dirigeva il ministero di Viale Trastevere, firmò una circolare con la quale veniva riconosciuto il diritto di assemblea degli studenti nelle scuole medie superiori e riformò gli esami di maturità. Negli anni Settanta non condivise la posizione del suo partito sul divorzio e passò ai socialdemocratici con cui si candidò alle elezioni del 1979. Ma ritornò alla Dc nel 1985 e morì nel 2000. Il progetto di riforma urbanistica risale a quella fase della politica italiana in cui Amintore Fanfani e Aldo Moro stavano spostando la Dc a sinistra e incontravano forti opposizioni nell'ala moderata del partito. Il momento cruciale fu la formazione del quarto governo Fanfani nel febbraio 1962. Per dare un segnale di fedeltà all'Alleanza atlantica e agli Stati Uniti, il presidente del Consiglio autorizzò l'installazione dei missili Polaris in Italia. Per ottenere l'appoggio esterno del partito socialista italiano, assunse una serie di impegni «progressisti»: la scuola media unica, l'obbligo scolastico a 14 anni, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la istituzione di una commissione antimafia, una riforma urbanistica. Il compito di scrivere quest'ultima spettò per l'appunto a Fiorentino Sullo che si ispirò a certe misure adottate dal governo laburista di Clement Attlee in Gran Bretagna subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. I sindaci avrebbero avuto il diritto di espropriare i terreni destinati allo sviluppo delle loro città e avrebbero concesso ai privati la licenza di costruire dopo avere realizzato le opere di urbanizzazione. I primi malumori per il programma del governo Fanfani cominciarono a manifestarsi dopo la nazionalizzazione della energia elettrica soprattutto negli ambienti della Confindustria. Quando il presidente dell'associazione, Furio Cicogna, disse nella sua relazione annuale che alcune riforme del centrosinistra avevano scosso la fiducia degli imprenditori, la Dc capì che correva il rischio di perdere, nelle elezioni politiche previste per la fine di aprile del 1963, buona parte del voto moderato e corse ai ripari. Il 16 aprile il Popolo, quotidiano della Democrazia cristiana, pubblicò una nota della segreteria del partito che sconfessava, di fatto, il progetto di Fiorentino Sullo. Il fallimento della riforma ebbe certamente l'effetto di dare mano libera alle urbanizzazioni selvagge di cui soffrirono, da allora, quasi tutte le città italiane. Ma l'esproprio, nel momento in cui la Democrazia cristiana si apprestava a concludere un patto di governo con il partito socialista, suscitava la preoccupazione di molti cittadini che non erano necessariamente speculatori e palazzinari. Se la classe politica italiana avesse voluto impedire gli eccessi e i maneggi degli anni successivi avrebbe potuto farlo con altri mezzi giuridici e amministrativi, più rispettosi della proprietà privata.

Postilla

L’ex ambasciatore, nell’ultima parte della risposta, accredita la tesi che Sullo volesse espropriare “molti cittadini”. La tesi che la proposta dell’esproprio generalizzato significasse l’esproprio delle case non trova alcun riscontro nella proposta di legge. Fu propalata dalla stampa (primo fra tutti il Tempo ), e non sufficientemente contrastata. In effetti, Sullo proponeva ciò che veniva da decenni praticato nell’Europa progredite: la preliminare espropriazione delle aree inedificate, fuori dal perimetro urbano, là dove il PRG aveva deciso di espandere la città costruendo nuovi quartieri. Era una norma, tra l’altro, già in parte presente nella legge urbanistica del 1942 che, all’articolo 18, prevedeva la possibilità dei comuni di espropriare le aree d’espansione. La proposta Sullo trasformava questa possibilità nella regola generale di espansione della città. Non venivano perciò “colpiti” i proprietari di case, ma solo quelli di aree agricole o lasciate incolte “in attesa di edificazione”, ed erano “colpite” con un congruo indennizzo commisurato al valore reale dell’area e alla sua redditività. L’indennizzo non riconosceva la capacità edificatoria dell’area, ma questa dipende da una decisione pubblica, quindi non si capisce perchè il vantaggio debba spettare al proprietario dell’area in aggiunta al valore reale. "Rispettare la proprietà privata", come ammonisce Sergio Romano, significa forse consentirle di approfittare delle decisioni pubbliche senza impiegare nè lavoro nè rischio nè imprenditorialità? I liberali e i liberisti non la pensavano così, signor ambasciatore!

Purtroppo in Italia si era costituito in quegli anni (come ha accuratamente analizzato Valentino Parlato in un suo famoso saggio del 1970) il “blocco edilizio”: un blocco sociale, molto composito, che aggregava attorno agli interessi della speculazione tutti gli interessi proprietari, grandi e piccoli e piccolissimi. Questo blocco allora vinse, grazie a una profonda campagna di disinformazione debolmente contrastata. Non è stato dissolto negli anni successivi, si è trasformato e rafforzato grazie alla "distrazione" della politica e della cultura, sta vincendo di nuovo, con la legge Lupi, alla grande, approfondendo ulteriormente il distacco tra l’Italia e il resto d’Europa

Fiorentino Sullo raccontò la vicenda della legge in un libro oggi introvabile, Lo scandalo urbanistico, Vallecchi 1964. Uno stralcio è qui

Val di Susa è una valle stretta. E anche molto bella, o almeno di questo sono convinti gli abitanti, che amano molto le loro montagne, intorno. Ora questa bellezza e questo bene comune sono messi a rischio dalla costruzione di una nuova linea ferroviaria, cui proprio ieri si sarebbe dovuto dare inizio, piantando i primi pali. E contro queste prime attività concrete di recinzione, per l’appunto una prima sottrazione di territorio, simbolo di tutto il resto che dovrebbe seguire, c’erano i sindaci della Val di Susa a manifestare, insieme alla popolazione, contro la Tav, la linea ad alta velocità-capacità, tra Torino e Lione.

Le ragioni degli abitanti della Valle sono vere e sono profondamente radicate in quindici anni di lotta. Rifiutano la linea Tav e il modello di sviluppo connesso che consiste nell’occupazione del territorio da parte del Corridoio 5 e la sostanziale estromissione di tutti loro. E ancora; è previsto un cantiere lungo dodici o quindici anni, molto costoso, e utile soltanto per arricchire gli impresari e i costruttori. Oltre tutto, la strada ferrata c’è già e potrebbe essere aggiornata per soddisfare le nuove esigenze di trasporto; invece la si lascia deperire, spostando tutto il traffico su gomma, lungo un’autostrada che insiste anch’essa nella valle e comporta un passaggio di migliaia di camion ogni giorno. Una eventuale nuova via ferroviaria avrebbe un periodo di costruzione effettiva di una dozzina di anni, nel corso dei quali il traffico e il disordine aumenterebbero ancora di molto, proprio per le esigenze dei cantieri, senza portare alla valle – stretta come prima, fragile come prima – alcun vantaggio.

Ma non è tutto. Il monte Ambin, sotto cui dovrebbe passere il tracciato, è notoriamente ricco di amianto. Il minerale, scavato in grande quantità, darebbe luogo a molte polveri e le polveri avrebbero buon gioco nel disperdersi lungo tutta la valle e anche più in là, molto più in là. C’è poi un’altra ricchezza nelle viscere della montagna: l’uranio. E anche questo verrebbe portato alla luce, con la sua bassa intensità radioattiva. Poi c’è l’acqua. O meglio c’era perché gli scavi precedenti, per l’autostrada, per la centrale elettrica dell’Aem, hanno intaccato le falde, creando un vero lago sotterraneo che poi è stato riassorbito; ma ormai il sistema di raccolta delle acque, ricchezza della terra, era irrimediabilmente sconvolto.

La montagna, la valle, il suolo, l’acqua, lo spazio stesso nel territorio, sono tutti beni comuni. Tutti li devono rispettare. Non sono in particolare degli abitanti della valle, ma essi ne sono i custodi e per ora hanno svolto bene il loro compito, anche se hanno subìto molti attacchi. Ora c’è questa forza contro di loro, travestita da progresso, ma in realtà capace solo di fare buchi costosi, buchi osceni nella montagna, buchi lunghi 50 chilometri; e si serve della menzogna quando dice di avere ottenuto l’autorizzazione del Cipe che invece non c’è ancora, come non c’è la delibera della Corte dei conti per la spesa distruttiva. Si dirà che i sindaci e gli abitanti della valle sono contro il progresso: non credeteci. Sono gli altri che vogliono solo giocare ai trenini; e farseli anche pagare – e da noi – molto cari.

Nota: al sito di Legambiente Val di Susa una cronaca illustrata delle manifestazioni popolari contro l'Alta Velocità del 31 ottobre 2005, e altre informazioni sul progetto; per il problema generale dei collegamenti Torino-Lione si vedano anche gli interventi di vari Autori sul sito LaVoce (f.b.)

Titolo originale: Among the Ruins, Something to Build On – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

NEW ORLEANS – È difficile immaginare che una città abbia mai avuto un aspetto del genere. Se si prendesse una città del mondo famosa per i suoi canali – diciamo Amsterdam, o Venezia in Italia – e la si scuotesse violentemente girandola di lato, in modo tale da allagare metà dei quartieri, e lasciare l’altra metà a marcire e puzzare nel sole di fine estate, ecco, così si potrebbe cominciare ad avvicinarsi a quello che l’uragano Katrina e la successiva inondazione hanno fatto a New Orleans e ai suoi begli edifici scrostati e poliglotti.

Nascosta sotto lo strato di acque putride che copre ancora più di mezza città, c’è una quantità di danni che non potrà essere valutata per settimane, forse mesi. Ma sembra chiaro che la gran parte, se non tutta la città a nord e a est del centro dovrà essere rasa al suolo.

Ancora giovedì, nella zona di Lakeview, c’erano intere schiere di isolati fatti di case suburbane in stile ranch, costruite soprattutto dagli anni ’40 in poi, dentro a un paio di metri d’acqua. Intanto le parti asciutte della città – l’intero Quartiere Francese e Faubourg Marigny, insieme al Garden District, Uptown e gran parte dell’area terziaria centrale – non hanno subito molto più di qualche albero o linea elettrica abbattuti.

Nel Quartiere Francese, Jackson Square e i decantati edifici ad appartamenti Pontalba sono in buono stato, sorvegliati da militari svogliati che stanno seduti all’ombra sui gradini della Cattedrale di St. Louis. Solo un sinistro senso di vuoto impedisce ad alcuni isolati sulla Bourbon Street di apparire totalmente normali. Lungo St. Charles Avenue, sul lato occidentale, gli edifici rustici universitari delle Tulane e Loyola, o le grandi case private, mostrano a malapena qualche graffio.

Lo stato di queste zone in gran parte non danneggiate, e che contengono quasi tutti gli elementi più famosi caratterizzanti New Orleans e le attrazioni turistiche, fanno propendere per l’ottimismo riguardo al futuro della città. Sono i mattoni su cui edificare la sua possibili rinascita, e sembrano sorprendentemente solidi.

Ma questa è una città il cui fascino, come posto da visitare e per vivere, ha sempre avuto più a che fare con un complesso e diffuso tessuto di quartieri residenziali, che con poche icone architettoniche. Tennessee Williams sottolineava proprio queste qualità nelle indicazioni teatrali per Un Tram chiamato Desiderio: la parte di città attorno alla Elysian Fields Avenue, scriveva, “è povera, ma a differenza dei quartieri del genere in altre città americane possiede un fascino dissoluto”.

E in verità, profonde divisioni razziali e di classe a parte, New Orleans è uno dei pochi posti d’America che dimostra la sua età, nel senso migliore del termine.

Anche se molto vulnerabile alle calamità, quasi tutti i quartieri sono riusciti nel tempo a evitare tutti i progetti di rinnovo urbano o crassamente commerciali di cui altrove si è pagato il prezzo. Ciò si deve in parte all’intrattabile povertà di qui, che ha reso grandi parti di New Orleans poco attraenti per i grandi costruttori nazionali, e in parte a un movimento di conservazione di lunga data.

Katrina, in altre parole, è riuscita a fare a questa città quello che non sarebbe riuscito a una palla da demolizione.

E se esiste un obiettivo per cui architetti e urbanisti americani si sono battuti negli ultimi decenni, è il tentativo di creare dalle macerie edifici legati alla storia urbana, senza per questo apparire banali o sdolcinati. Una volta seppelliti i morti e con la città in ripresa – non dimentichiamo che sta di fronte a quello che probabilmente è il più grosso problema di ripulitura da veleni della storia americana – questo sarà l’obiettivo per New Orleans.

Di solito, vagabondare attorno e guardare gli edifici è esperienza completamente visuale. Ma farsi una breve passeggiata architettonica qui, questa settimana, significava avere tutti i cinque sensi all’erta, spesso letteralmente aggrediti.

C’erano i suoni degli elicotteri, delle imbarcazioni, dei cani randagi nell’aria. Gli antifurto delle auto e dei sistemi di sicurezza degli edifici suonavano incessantemente. Gli aeratori su una moderna torre a uffici su Lafayette Square rombavano come un 747. L’acqua ferma puzzava di fogna, o peggio; avvicinandosi, bisognava badare a dove si mettevano i piedi, a qualunque cosa si toccasse. Quando gli edifici prendevano fuoco – e accadeva spesso all’inizio della settimana – la prima sensazione dell’incendio era un sapore acido sulla lingua.

Solo verso il margine sud-occidentale della città, vicino a Audubon Park, c’era una sensazione di calma. La stupefacente assenza di qualunque danno, lì, non era ovviamente un caso: le famiglie che ci hanno costruito le case più ricche della zona erano pienamente consapevoli della differenza fra terre alte e terre basse, a New Orleans.

Su Chestnut Street nel Garden District, su una delle finestre del secondo piano in una casa dall’aspetto particolarmente solido col tetto a abbaini, era inchiodato un pezzo di compensato con scritto: No Way, Ivan. A quanto pare non solo la casa, ma anche l’asse di compensato erano usciti intatti dall’uragano dell’anno scorso, Ivan.

Sono gli edifici più nuovi ad aver subito il peggio dalle frustate di vento di Katrinae dalla successiva alluvione. Il Superdome traballava già prima che migliaia di sfollati si piazzassero lì. Decine di finestre all’ultimo piano dell’albergo Hyatt sono state spazzate via. Lungo la Interstate 10 a ovest della città, almeno una delle nuove torri con pareti a specchio aveva avuto strappate via dalla tempesta intere parti delle facciate.

La maggior parte dei più noti edifici di New Orleans del XX secolo, però, non ha subito danni significativi. Si tratta ad esempio dei due palazzi per uffici di Gordon Bunshaft dello studio Skidmore, Owings & Merrill, o della Piazza d’Italia di Charles Moore del 1978, uno spazio postmoderno il cui colori vivaci e stile impertinente la fanno sembrare a casa, qui.

L’idea della scorsa settimana del portavoce della Camera J. Dennis Hastert (dell’Illinois) secondo cui “non ha senso” usare fondi federali per ricostruire la città sul sito attuale può non essere stata ben ponderata riguardo ai tempi, ma non è completamente illogica. New Orleans continua ad affondare, un po’ di più ogni anno, il che significa che proteggerla dagli uragani futuri può richiedere non solo argini più solidi, ma sollevare l’intera città.

Ma sarebbe peggio che macabro, lasciare semplicemente vuoti i quartieri più colpiti, o addirittura restituirli per sempre al fondo del lago. Una delle possibilità che si stanno discutendo è di realizzare un enorme parco – magari estendendo City Park lungo il lago a est e ovest per la maggior parte dell’area che ora è sommersa- sostenendo contemporaneamente il trasferimento degli abitanti altrove, in città o nella regione (ci sarà anche bisogno, certamente, di un monumento commemorativo).

La promessa di sostanziosi aiuti federali e privati fa già sognare architetti e urbanisti, su cosa potrebbe diventare, questo parco: oltre che ad altri interventi sulla città e i trasporti già contemplati.

Queste fantasticherie hanno un precedente nella storia di New Orleans: fu il denaro federale – per essere esatti, quello della Works Progress Administration durante il New Deal – a sostenere la realizzazione di gran parte di City Park. E lo stesso vale per i primi sforzi di restauro nel Quartiere Francese. E fu quando l’interesse di Washington per la città declinò, che i progetti infrastrutturali, come quelli per gli argini, restarono disastrosamente abbandonati.

Nota: il testo originale al sito del Los Angeles Times ; su temi analoghi di carattere storico, tradotto qui su Eddyburg si veda almeno l'articolo di Gary Strauss da USA Today sul "genius loci" di New Orleans (f.b.)

C’è la Matera dei Sassi e c’è la Matera nuova. Questa si espande in larghezza, ma soprattutto in altezza, accatastando pezzi su pezzi in modo sconclusionato, consumando terreno e aria, sfidando i dislivelli e imponendosi a chi arriva da fuori, dalla statale che attraversa i campi di ulivi e di quercioli della Murgia, con uno spettacolo vertiginoso. E contro un paravento di cemento va a sbattere lo sguardo di chi aveva letto che Matera era diversa da molte città del Mezzogiorno, divorate dalla speculazione. Qui aveva lavorato Adriano Olivetti. Poi, muovendosi nella sua scia, alcuni architetti hanno studiato come risanare i Sassi e come cucire le due parti della città, quella moderna e quella antica, con le caverne trogloditiche e le case costruite con il tufo cavato dalla roccia calcarenitica - senza che la prima tracimasse nella seconda e senza che questa si ritirasse in una riserva, diventando un museo a cielo aperto.

Molte speranze sono nate allora e poi si sono esaurite. Ora la città nuova cresce senza regole e sui Sassi incombono alcune vistose manipolazioni. La denuncia vibra dalle pagine di un numero speciale della rivista Basilicata, un periodico che ha cinquant’anni di vita e padri illustri (lo stesso Olivetti, gli azionisti, Guido Dorso, Carlo Levi, Tommaso Fiore, Manlio Rossi-Doria), ma che ora esce con cadenza irregolare. E diretto da Leonardo Sacco, ottantadue anni spesi quasi tutti studiando, lavorando in case editrici, inventando giornali e facendo opposizione ai fascisti, ai democristiani di Emilio Colombo e ora a un centrosinistra che nella regione supera il sessanta per cento, a Matera il settanta.

La prima tappa nei Sassi minacciati è lungo i suoi bordi, dove un tempo sorgeva un mulino che negli anni Cinquanta venne ampliato con una torre. Serviva più spazio, si disse, servivano posti di lavoro. Il proprietario era il sindaco di Matera e anche se i Sassi ne uscivano deturpati, in quegli anni pochi si preoccupavano dell’integrità di quelle costruzioni che anzi venivano abbandonate perché, si diceva, erano indegne come abitazioni. Passarono i decenni e un giorno il mulino chiuse. Era l’occasione per demolire la torre e ripristinare l’integrità paesaggistica. E infatti nei primi anni Novanta i redattori di una variante al piano regolatore avevano previsto di buttarla giù. Ma una commissione regionale ai beni ambientali sancì che quella torre aveva «carattere storico», venendo così incontro ai desideri della nuova proprietà che al posto del mulino voleva farci appartamenti e altre residenze. La torre la stanno ultimando in queste settimane, l’edificio è ancora avvolto dalle impalcature, e con la sua mole e le finestre a strapiombo continuerà a opprimere i Sassi.

I Sassi occupano un’area di trenta ettari. Si distendono lungo il fianco di una rupe che scende verso il torrente Gravina. A sinistra è il Sasso Barisano, che guarda verso Bari, a destra il Caveoso. Non sono solo caverne. La costruzione dei Sassi iniziò alla fine del Cinquecento, quando sempre più numerose le case presero a disporsi come un collare intorno alla Chiesa Madre, costruita nel 1270. E un paesaggio aspro, un anfiteatro che sembra uscire dal ventre della terra. Pier Paolo Pasolini lo scelse per girarvi il Vangelo secondo Matteo, Mel Gibson per ambientarvi La Passione. Per secoli ha custodito la vita, il lavoro, i culti dei materani. Una strada sinuosa lo attraversa, tocca il limite basso del Gravina e poi torna a inerpicarsi. Dopo una curva sbuca davanti alla chiesa cinquecentesca di Sant’Agostino. Nel convento che è annesso ha sede la Soprintendenza ai beni architettonici e ambientali e proprio davanti agli uffici c’era un grande giardino con alcuni filari di cipressi secolari. C’era: al suo posto ci sono grandi buche e montagne di terra rimossa e tutto intorno corre la recinzione di un cantiere. Cos’è successo lo spiega Raffaele Giura Longo, storico dell’età moderna all’Università di Bari, per tre legislature prima deputato e poi senatore come indipendente nel Pci: «La Soprintendenza, alla quale spetta la tutela dei Sassi, ha pensato bene di costruirsi un parcheggio per non so quanti posti, senza neanche consultare il Comune. Ha avviato i lavori, ma per fortuna siamo riusciti a bloccarli e il cantiere è rimasto così, abbandonato. Però i cipressi non ci sono più».

Giura Longo fa parte con Sacco del gruppo che pubblica Basilicata, viene da una storica famiglia materana. Dal terrazzo di casa sua mi mostra una torretta sorta sul tetto di un edificio proprio lì davanti. «E alta quattro metri», insiste Giura Longo, «l’ha costruita il figlio del presidente del Tribunale di Matera per rivestire l’impianto di un ascensore. Noi abbiamo fatto un esposto e il Comune ha fermato i lavori. Il proprietario ha pagato una multa e i lavori sono ripresi». Ci infiliamo nelle strade che portano al Duomo. Da una loggia Giura Longo indica un cantiere sulla sommità di un palazzo seicentesco, il Palazzo Venusio. E una struttura con delle aperture ad archi. «Guardi lì, quella sopraelevazione non c’era, ora è quasi completa. Il proprietario del palazzo è il fratello di Guido Viceconte, Forza Italia, sottosegretario al ministero delle Infrastrutture. Si dice che voglia farne un albergo e un centro congressi».

La percezione dei Sassi non è stravolta da queste costruzioni. Ma in un contesto così delicato ogni piccola trasformazione produce effetti a catena, sono ferite che inducono un senso di impunità. I Sassi sono tutelati da una legge del 1986 che affida il loro risanamento al Comune. Ma la storia moderna dei Sassi è più lunga, inizia nel dopoguerra ed è densa di progetti e di illusioni. E’ un laboratorio in cui si fondono discipline antiche come l’archeologia e modernissime come l’urbanistica, che in quegli anni andava rifondandosi, o come la sociologia urbana appena approdata da oltreoceano in un Mezzogiorno di grandi fermenti. L’Italia scoprì i Sassi dalla descrizione che ne fece Carlo Levi e venne a sapere che quasi ventimila persone abitavano quelle case, ammassandosi spesso insieme alle bestie in tuguri senza luce. Su mille bambini nati, si calcolò, ne morivano 436. Vennero alimentate pulsioni opposte: quella regressiva di un ritorno a condizioni di esistenza premoderne e quella semplificatoria, contratta nello slogan: svuotiamo i Sassi.

La via più impegnativa la percorse Olivetti che nel 1951 istituì una commissione di studi di cui fecero parte gli urbanisti Federico Gorio e Ludovico Quaroni e che era ispirata dal sociologo americano Frederick Friedmann (dal 1948 l’imprenditore di Ivrea era presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica e Quaroni era il suo vice). L’indagine accertò che solo una parte del patrimonio edilizio dei Sassi era irrecuperabile, mentre la maggioranza delle case, quasi duemilacinquecento, aveva bisogno solo di interventi di recupero per essere restituita a chi l’abitava, perché solo abitandoli i Sassi sarebbero sopravvissuti. Contemporaneamente bisognava costruire moderni quartieri popolari.

Seguendo queste linee fu approvato un ambizioso piano regolatore redatto da Luigi Piccinato, figura illustre dell’urbanistica di quegli anni. Ma già dal 1952, quando venne varata la prima legge per Matera, i Sassi cominciavano a essere abbandonati. Furono allestiti quartieri-modello, almeno sulla carta, come La Martella, un borgo rurale progettato da Quaroni che avrebbe dovuto conservare un legame stretto con la campagna e che invece appassì, riducendosi al rango di periferia disagiata. Nel frattempo i Sassi, ormai vuoti, erano diventati un ferro vecchio, un muto documento etnologico.

Soltanto nel 1977 l’attenzione sui Sassi si concretizzò in un concorso internazionale che aveva lo scopo di arrestarne il degrado. Ma il concorso ebbe un esito paradossale. Prevalse, ma senza che venisse proclamato vincitore (l’amministrazione comunale volle continuare a mantenersi le mani libere), il gruppo guidato dall’urbanista Tommaso Giura Longo, fratello di Raffaele, che insieme a Luigi Acito, Carlo Melograni, Lorenzo Rota e altri, misero a punto un progetto di risanamento in linea con gli studi olivettiani: i Sassi dovevano tornare a vivere e ospitare abitazioni restaurate e servizi per circa quattromila persone.

Qualche progetto fu avviato, ad opera del pubblico e di privati. Molti manifestarono interesse a tornare nei Sassi. Ma mancò un piano sistematico. Il Comune aveva più a cuore l’espansione della Matera moderna che non la cucitura dei nuovi insediamenti con l’anima rupestre della città.

A quasi trent’anni dal progetto Giura Longo molte abitazioni sono restaurate e in esse vivono duemilacinquecento persone, molte attività di pregio vi si sono insediate, gallerie d’arte, centri culturali, la sede dell’Ente Parco della Murgia. Ma tantissimi, troppi, sono gli edifici trasformati in alberghi o in bed and breakfast (si calcolano circa ottocento posti letto, anche se molte ristrutturazioni sono state realizzate correttamente). Tantissimi sono i ristoranti, i pub, le pizzerie, che producono uno straniante effetto luna-park, tantissime le macchine, tanti i materani che si improvvisano imprenditori e che ottengono licenze per impiantare nei Sassi attività molto effimere. «Alle regole di una corretta urbanistica», spiega Tommaso Giura Longo, «si preferisce un’urbanistica "creativa", dando credito a interventi singoli e disaggregati, che favoriscono il profitto privato e scartano invece le iniziative unitarie, dirette dalla mano pubblica».

Ma i Sassi deperiscono anche perché su di essi incombe la Matera moderna, quella che in questi anni sta divorando tutto lo spazio disponibile. Dopo quello di Piccinato, un nuovo piano regolatore è stato avviato, ma ancora non se ne vede la fine. Nel frattempo il Comune e i costruttori hanno contrattato in questi anni interventi imponenti, come il Centro direzionale o la cosiddetta Zona 33, una smisurata foresta di grattacieli che sperimentano gli stili più disparati e i materiali più fantasiosi. Le vicende edilizie hanno conosciuto anche tribolazioni giudiziarie. Nell’aprile scorso è finito agli arresti domiciliari (poi revocati) il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune, l’architetto Francesco Gravina, accusato di peculato, abuso d’ufficio e falso ideologico nella gestione dei Pisu (Progetti integrati di sviluppo urbano), una trentina di interventi finanziati con 32 milioni di euro. E un mese fa si è dimesso l’architetto Mimmo Fascella assunto al Comune neanche un anno prima per rimettere ordine dopo lo scandalo dei Pisu: se n’è andato sbattendo la porta e contestando le scelte urbanistiche dell’amministrazione.

La Matera «nuova» cresce sfiorando altezze da capogiro e sfoggiando architetture pretenziose. In alcune zone lo scarto provoca un sapore acido. Come in quel lembo di città che sfila verso la campagna, dove un esercito di palazzoni con i vetri a specchio sovrasta un piccolo, ordinato quartiere di edilizia popolare. Li divide una strada che qualcuno, ingenuamente, ha voluto intitolar

Marina Lecis, minuta, iperattiva, occhi brillanti sotto una cascata di riccioli rossicci, sarda trapiantata in Cadore, corrispondente da Cortina d'Ampezzo per il Corriere delle Alpi, scopre, il giorno di ferragosto di quest'anno, che circa un mese prima, il 21 luglio era stato pubblicato su Repubblica e Gazzettino un avviso che annunciava la procedura di partecipazione alla valutazione d'impatto ambientale di un'opera di cui nessuno, fino a quel momento, aveva segnalato l'esistenza. Un'opera che avrebbe stravolto l'Ampezzano e l'intero territorio di Cortina: una circonvallazione di 11,328 km, chiamata «Ss 51 di Alemagna-Variante all'abitato di Cortina d'Ampezzo».

Tutti i no della Soprintendenza

La mattina del 16 agosto si precipita in Comune dove però non riesce a farsi consegnare il progetto. Si appella al capogruppo della minoranza in Comune, Francesco De Menego, ma anch'egli non ne sa nulla. Decide allora di agire in proprio e si precipita a Venezia presso la Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, dove, oltre a prendere visione della documentazione e della sintesi non tecnica della valutazione d'impatto percepisce che la Soprintendenza sta per redigere un parere tutt'altro che favorevole all'opera. Il parere avrà la data del 23 agosto. Marina Lecis ne scrive, verificando poi sul territorio gli impatti segnalati dalle osservazione della Soprintendenza che ha scritto, nudo e crudo: «Per quanto riguarda l'impatto paesaggistico della variante proposta, si rileva che questo risulta eccessivo e tale da comportare l'alterazione dei tratti caratteristici della località protetta che sono la ragione stessa per la quale l'intero territorio comunale di Cortina d'Ampezzo è stato sottoposto a vincolo, ai sensi della normativa di tutela ambientale attualmente vigente».

La Soprintendenza segnalava problemi per la galleria Zuel (impatto su frane attive, falde e biotopi), impatti paesistici del viadotto-bretella di collegamento tra lo svincolo di Cortina Sud e l'Albergo Miramonti, l'irrimediabile alterazione di una delle poche aree naturali cortinesi con lo svincolo di Cortina Sud, la compromissione della sinistra orografica e ripariale del fiume Boite con la bretella di collegamento tra Cortina Sud e la statale 48 per il passo Falzarego, la compromissione della frazione di Alverà. Lecis si reca ad Alverà per capire se la popolazione ne sa qualcosa e si rende conto che nessuno sa dell'opera.

Nel frattempo, i suoi articoli allarmano la giunta forzista di Cortina che aveva cercato di occultare il progetto. Il sindaco avvocato Giacomno Giacobbi e l'ex sindaco, ora assessore, Paolo Franceschi immediatamente invitano consiglieri comunali e stampa a una seduta di presentazione del progetto Anas. Un'ufficializzazione che non sarebbe mai avvenuta senza il lavoro della Lecis.

Nel corso dell'incontro, gli amministratori non prestano attenzione ai problemi ambientali. Si dichiarano in perfetta sintonia con il ministro Lunardi, attivo frequentatore di Cortina. Una sola idea hanno per la testa: i soldi, quei 441 milioni di euro per la realizzazione dell'opera che vanno subito reperiti nei fondi europei, collocando il progetto nell'ambito del «Corridoio 5» e nulla importa se, nella realtà, la realizzazione di quest'opera rappresenterebbe il completo sconvolgimento della valle e la negazione di alcuni fondamentali principi di metodo e analisi cui la valutazione d'impatto ambientale dovrebbe attenersi.

Il tracciato non tiene assolutamente conto dei concetti base della legge 97/1994 (Nuove disposizioni per le zone montane), i quali ribadiscono come lo sviluppo della montagna debba avvenire tramite tutela-valorizzazione delle qualità ambientali e delle potenzialità endogene dell'habitat montano e prescinde da una delle fondamentali leggi regionali del Veneto, la 11/2004 (Norme per il governo del territorio), la quale prevede il non avvio di interventi progettuali impattanti in assenza di una valutazione strategica dei piani, sulla base della Direttiva 2001/42 Ce del 27 giugno 2001. Me lo ricorda l'arch. Marco Stevanin dello Studio Terra di San Donà di Piave. Lo stesso presidente della Provincia di Belluno, Sergio Reolon, a capo di una giunta di centro-sinistra mi ribadisce che questo genere di infrastrutture dovrebbe essere pianificato sulla base di un piano strategico che, per ora, manca e che la Provincia dovrebbe varare entro 6 mesi.

Marco Stevanin, con l'avvocato Luigi Ceruti, si è posto completamente al servizio dei cittadini di Cortina insorti contro un tale scempio, grazie all'impegno ed al coordinamento di un pensionato, ex fondista, Sergio Maioni, la cui placida serenità nel porsi in posizione antagonista al potere forzitaliota e la cui costante dedizione alla salvaguardia e alla tutela del territorio, lo renderebbero degno di sfidare gli attuali, compromessi amministratori, per la carica di sindaco, nel 2007.

L'analisi ecosistemica

Maioni ha imparato molto dalla frequentazione di Lecis, Stevanin e Ceruti. Sa che il territorio interessato dall'infrastruttura, nel suo delicato equilibrio tra ambiente naturale ed ambiente antropico, disegnato dalle «Regole», non può essere esaminato e valutato prescindendo dai principi stessi della Landscape Ecology, ovvero da un'analisi ecosistemica delle relazioni dinamiche che esistono tra le fondamentali componenti naturali, aree cotonali, aree sorce-sink e l'insieme della rete ecologica. Sa che quest'inutile infrastruttura lineare, in un ambito segnato dal delicato equilibrio uomo-natura, interromperà fondamentali connessioni ecologiche, distruggerà habitat e biotopi.

Mi ricorda che il progetto non tiene conto dei numerosi impatti già esistente in valle, come il campo da golf di 18 buche di Fraina-Noulù, in comune di Cortina e della centrale idroelettrica del Rio Falzarego-Ponte di Landries. «Certo - dice - a nessuno degli amministratori di Cortina importa degli impatti cumulativi. Vedono solo la possibilità di meglio collegarsi con il corridoio europeo numero 5, sul tracciato Lisbona-Kiev, per accogliere le nuove, possibili clientele invernali ed estive dell'est».

C'è anche dell'altro. Il progetto, in sé non considera alcuno scenario alternativo, quale il ripristino della linea ferroviaria Calalzo di Cadore-Cortina d'Ampezzo-Dobbiaco o il progetto della viabilità presentato dalla minoranza in consiglio comunale, un'ipotesi di modesto impatto ambientale, teso a migliorare la circolazione nell'Ampezzano.

L'amministrazione forzista di Cortina dovrebbe ricordarsi, nel suo accecato sostenere l'infrastruttura e nel suo negarsi a qualsiasi confronto con i cittadini, del fatto che le opere più impattanti del progetto, la galleria Piè Rosà, la galleria Meleres, lo svincolo Cortina Sud, le gallerie Riva e Zuel, sono localizzate nei margini cotonali di sistemi ambientali dalla forte criticità, identificati, dal Piano regolatore generale, quali aree di interesse naturalistico: la zona umida di Noulù, il lago Marzo ed il bosco in località Fraina, la zona umida del Pisandro di Fiames, il biotopo lungo le sponde del fiume Boite.

Anche le opere di cantiere non debbono essere sottovalutate in un ambito come quello Ampezzano. Come reagirà il turismo ad almeno 6 anni di cantieri e a un feroce andirivieni di un totale di 160.000 camion che sposteranno non meno di un milione e mezzo di metri cubi di smarino? Che ne sarà della frazione di Alverà e delle residenze prossime all'imbocco della galleria sud del Piè Rosà, irreversibilmente segnate da queste opere? Cortina perderà anche il percorso storico della passeggiata Convento a Campo di Sopra, trasformata in strada di collegamento del cantiere.

Infine il problema clou, il vero problema. La geologa Maria Luisa Perissinotto della Società Terra ed il professor Rinaldo Genevois dell'Università di Padova, sottolineano la gravità delle problematiche geologiche dell'area. Genevois da 8 anni si occupa delle colate detritiche dell'area di Cortina. Ne ha censite ben 329. Le gallerie si inseriranno in questi corpi di frana. La testimonianza di Genevois che ha al suo attivo 35 anni di docenza in geologia applicata presso una prestigiosa università come Padova, non sembra interessare gli amministratori. Lui non sapeva nulla di questo progetto e sconsolato mi dice: «La soluzione, come presentata, non è buona».

1400-1600 tir al giorno

La giunta di Cortina resta indifferente, anche al fatto che se, dopo la realizzazione dell'opera, anche solo il 20% del traffico del Brennero prendesse la via della Val Punteria e della Valle del Boite, nell'Ampezzano si riverserebbe un traffico di transito di 1.400-1.600 tir/giorno. Forza Italia non ascolta neppure il commissario all'urbanistica della minoranza in consiglio, Stefano Verocai, il quale ricorda come il Consiglio comunale abbia deliberato la creazione di un gruppo di lavoro ad hoc che discutesse sulla realizzazione non di una tangenziale, ma di una strada di scorrimento. Per Verocai il progetto Anas è figlio di un input preciso della giunta: la realizzazione del parcheggio scambiatore in area Convento. Verocai confessa, anche per smentire il sindaco, che non si dispone di dati specifici sul traffico in entrata e uscita da Cortina e che una viabilità più adeguata per la valle del Boite non è certo quella disegnata dal progetto Anas.

Forse sarebbe utile che l'amministrazione di Cortina fosse meno spocchiosa, che si confrontasse con la gente, (non lo ha fatto nel corso dell'incontro voluto dai cittadini e patrocinato dalla Università Iuav di Venezia, presso il PalaVolkswagen, sabato 26 novembre,) e che si acculturasse un pochino, magari leggendo il bel libro Managing Mountain Protected Areas: Challanges and Responsures for the 21st Century, curato da David Harmon e Grame Worboys per l'Editrice Andromeda, dove sono raccolti gli atti del Convegno promosso a Durban nel 2003 dalla Uicn. I testi che il volume raccoglie rappresentano quanto di più avanzato sia stato prodotto nell'ultimo decennio dagli operatori tecnico-scientifici e dalla gestione del territorio sul tema della tutela del territorio montano, temi e problemi affrontati oggi dai cittadini di Cortina a fronte di un'opera infrastrutturale distruttiva dell'ambiente montano.

Titolo originale: New homes plan thrown into chaos – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

I progetti per costruire milioni di abitazioni in tutto il Regno Unito sono stati messi in dubbio dopo le osservazioni fortemente critiche di due importanti organismi governativi.

La notizia colpisce al cuore i piani del Labour per risolvere la crisi abitativa della Gran Bretagna costruendo case su ampie distese di campagna, e sarà fonte di grave imbarazzo per il governo.

Si devono realizzare oltre 4 milioni di nuove case in tutto il paese. Uno dei progetti nella regione orientale dell’Inghilterra – che riguarda 500.000 abitazioni – è considerato l’esempio simbolo.

Ma la Countryside Agency e English Nature in un rapporto reso pubblico questa settimana mettono in guardia sul fatto che questo piano mette “ seriamente a rischio” “ paesaggi e habitat di rilevanza nazionale”.

Se attuato il piano causerebbe “ danni significativi” degradando i caratteri del paesaggio inglese, frammentando gli habitat naturali, inducendo prelievi d’acqua con impatti insostenibili sull’ambiente.

Il rapporto è un grave colpo alla credibilità delle promesse governative di mettere a disposizione case a prezzi accessibili.

Le due agenzie complessivamente condannano il Sustainable Communities Plan del Labour, e altre politiche nazionali su cui si basano le strategie di sviluppo regionale. L’approccio governativo è “ contrario al concetto di sostenibilità”, affermano.

”Sembra [il governo] poco serio riguardo allo sviluppo sostenibile e alla tutela dell’ambiente, perché a quanto pare ritiene di poter fare progetti e poi attuarne dei pezzi. Le conseguenze sono un probabile degrado della qualità ambientale e di quella della vita nella regione” dice Henry Oliver della Campaign to Protect Rural England.

Ma l’Ufficio di Vicepresidenza del Consiglio difende la sua politica. “La pressione per nuove abitazioni non è determinata dal governo, ma da una popolazione in crescita e invecchiata, da più persone che abitano da sole” sostiene un portavoce. “Negli ultimi trent’anni abbiamo visto un incremento del 30% nel numero dei nuclei familiari, contro una caduta del 50% delle abitazioni realizzate. Questo non è sviluppo sostenibile”.

Il rapporto sarà allegato alla documentazione ufficiale della riunione sui piani per l’est Inghilterra, prevista dalla regional spatial strategy (RSS), che si inaugura martedì. Il progetto, il principale e il primo ad essere sottoposto a vaglio ufficiale completo, propone quasi mezzo milione di nuove abitazioni, impianti produttivi e spazi per attività terziarie, oltre a 67 piani stradali.

A livello nazionale i progetti del governo sono stati criticati per aver sovrastimato le dimensioni dell’intervento necessario, concentrando troppe costruzioni nelle già affollate zone del sud-est inglese, e per non aver insistito sufficientemente su rigidi standard ambientali, come la progettazione a basso consumo energetico.

Lo Environmental Audit Committee – dominato dal Labour – ha anche ricordato che gli impatti ambientali “meritano un’attenzione molto maggiore”.

In quest’ultimo rapporto le due agenzia, che presto si fonderanno, riconoscono “ la necessità di prevedere e localizzare costruzioni” e lodano anche alcuni aspetti di una strategia “ raccomandabile e che deve essere sostenuta”. Ma affermano anche che “ non c’è alcuna traccia” della verifica che questi progetti non possano danneggiare “ elementi ambientali di base”, e che la valutazione indipendente di sostenibilità li aveva giudicati di “ danno significativo” per paesaggi, habitat naturali e acque.

Il rapporto continua: “ Raggiungere un equilibrio implica uno scambio fra due obiettivi concorrenti, dove è necessario accettare il fatto che una perdita dal punto di vista di una componente sia necessaria per avere vantaggi un un’altra”. E aggiunge: “ Secondo gli obiettivi di crescita proposti l’effetto finale del RSS potrebbe NON [enfatizzazione degli Autori ] garantire un futuro sostenibile per la regione. Questo risultato sarebbe contrario agli obiettivi istituzionali del sistema di pianificazione ... In più le presenti agenzie ritengono che alcune delle basi del progetto non diano sufficiente conto delle questioni ambientali e di qualità della vita, e di conseguenza definiscano un contesto inadeguato su cui basare le strategie”.

Il rapporto chiede invece che le regioni valutino quanta crescita sia sopportabile dal proprio ambiente, e poi prevedano misure per la mitigazione degli impatti “ giustificati”.

”Non stiamo dicendo che non vogliamo edificazione” dice Graham Smith, responsabile di area per English Nature. “Si deve adeguare il ritmo di realizzazione, per non sacrificare un obiettivo sull’altare di un altro”.

Il gruppo di verifica indipendente, nominato dal governo, riferirà al Vicepresidente del Consiglio, che si prevede renderà pubbliche le eventuali modifiche nel rapporto finale atteso per il 2007.

Nota: il testo originale al sito del Guardian/Observer (f.b.)

Titolo originale: EL PORTAL: Laredo envisions huge retail project – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

LAREDO – il Rio Grande separa due città, una con aspettative economiche e l’altra che porta il peso dei cartelli della droga, violenti e armati. Il destino dell’una potrebbe plasmare il futuro dell’altra.

Laredo, negli Stati Uniti, progetta di realizzare un progetto commerciale da 85 milioni di dollari, con al un mall, che dovrebbe attirare clienti messicani, principalmente da Monterrey, città industriale a due ore di distanza con la più grossa percentuale di milionari del Messico.

Nuevo Laredo rappresenta la faccia messicana di questo “portale”, con 120 morti quest’anno e una quarantina di rapimenti in tempi recenti, attribuibili ai cartelli della droga.

La violenza ha devastato l’attività turistica di Nuevo Laredo.

I tentativi della città di contrastare il crimine devono avere successo, perché anche sul versante messicano del confine si realizzino i benefici economici del mall, chiamato El Portal, dice Octavio Almanza, direttore della promozione turistica a Nuevo Laredo.

“La gente qui in Messico è attratta dai centri commerciali degli Stati Uniti, perché offrono prezzi più bassi” continua Almanza.

”Stiamo facendo piccoli passi in avanti per quanto riguarda il problema della violenza, così che i clienti possano sentirsi sicuri nell’attraversare il confine a Nuevo Laredo”.

Gli investitori del Mall non hanno comunicato i marchi dei negozi con cui sono in trattative.

Comunque, gli operatori commerciali nei pressi del futuro complesso credono che sia necessario attirare grossi nomi per creare il tipo di flussi e benefici economici sperati.

Alcuni consiglieri comunali osservano però che colpisce la priorità conferita al progetto El Portal quando appena oltre confine c’è tanta violenza incontrollata.

”Speriamo che sia di vantaggio alla città, ma forse dovremmo fare qualcosa a proposito della violenza, e solo dopo iniziare a parlare di sviluppo economico” dice Joe Guerra, ex consigliere di Laredo.

Mike Garza, direttore dei servizi allo United Independent School District di Laredo, suggerisce altri modi di investimento per le risorse della città.

”Le infrastrutture mi sembrano un elemento critico. E per la violenza, c’è bisogno di più polizia per proteggerci” dice Garza.

Ma certo gli investitori non ci metterebbero milioni, se la zona non fosse sicura per i clienti, dice Allan Davidov, investitore in questo progetto e socio della Morgan Stern Realty di Beverly Hills, California.

Il piano El Portal è un investimento misto pubblico-privato rivolto ai 9 milioni di pedoni e 17 milioni di veicoli che annualmente attraversano questo punto del confine.

Il potenziale, sostengono gli interessati, comprende la rivitalizzazione del centro città, un nuovo gettito fiscale per le casse municipali, e il rafforzamento delle relazioni col Messico per lo sviluppo economico della fascia di confine.

Le costruzioni, per quanto riguarda la parte della città, sono già iniziate, e si stima una spesa di 25 milioni di dollari, che saranno pagati da emissioni garantite dai pedaggi di attraversamento del ponte. La Horizon Group Properties di Chicago, proprietaria di 10 complessi commerciali in tutto il paese, rappresenta in con la consociata Morgan Stern Realty la parte privata del progetto.

Una volta completato, il complesso commerciale metterà a disposizione circa 40.000 metri quadrati, a 50 negozi.

Nota: il testo originale ripreso dalla Associated Press, al sito Houston Chronicle ; un altro caso di "funzione anomala" dei centri commerciali riportato su Eddyburg, era quello sudafricano di Soweto (f.b.)

Ormai è stato detto tutto, o quasi tutto, sulla questione dei territori meno favoriti della Repubblica; perciò non avrei voluto aggiungere la mia voce al concerto delle spiegazioni. La violenza non è legittima, e qualunque spiegazione, che lo si voglia o meno, diventa una giustificazione. Comprendere vuol già dire scusare. Ma il fenomeno presenta la particolarità di chiamare in causa vari attori, ciascuno dei quali ha i suoi torti: gli architetti, per aver concepito luoghi di vita mostruosi; lo Stato, per aver lasciato che la segregazione urbana si sviluppasse fino a limiti estremi; i "giovani" delle banlieues per le violenze commesse.

L´etnicizzazione dei conflitti comporta due atteggiamenti contraddittori: da un lato, il rifiuto delle minoranze definite non integrabili, e dall´altro la compassione per le fasce di popolazione nei cui confronti la Repubblica avrebbe mancato ai suoi doveri. Da parte mia vorrei però scegliere un´altra strada, lontana dai buoni sentimenti e a distanza abissale dalla bestia immonda del razzismo. Quali sono i fattori obiettivi che conducono alla segregazione e alla dissociazione? Nel 2003, insieme ad altri due economisti (Eloi Laurent e Joël Maurice) ho consegnato al primo ministro un rapporto dal titolo "Segregazione urbana e integrazione sociale". Uno dei tanti documenti su questo tema. L´industria dei rapporti è tanto più fiorente, quanto più i problemi trattati restano irrisolti.

Da almeno un quarto di secolo, la principale disfunzione delle nostre società è la disoccupazione di massa. Certo, è una realtà nota a tutti; ma dato che il problema persiste, chi ne parla rischia di suscitare una forte impressione di déjà vu, tanto da non produrre più altro che la noia dovuta alla ripetizione. Da tempo ormai la disoccupazione è divenuta parte del paesaggio, e questo ci fa pensare che la società possa continuare a conviverci. Di fatto però, come abbiamo scritto nel rapporto sopra citato, "nel cuore del nostro sistema la disoccupazione di massa è come un buco nero in espansione, che inghiotte tutte le logiche di integrazione". Allungare la distanza tra la popolazione e la possibilità di trovare lavoro vuol dire contribuire a dissociare i luoghi della vita attiva dalle periferie, e il presente dal futuro. Per comprenderlo dobbiamo pensare alla disoccupazione come a una serie di file d´attesa ai diversi sportelli delle imprese e delle amministrazioni, ordinati a seconda delle qualificazioni e dei diplomi. Le file d´attesa più lunghe corrispondono ai titoli più modesti. Il perdurare della disoccupazione di massa significa che la lunghezza delle file d´attesa rimane più o meno costante nel tempo (con qualche variazione a seconda delle fluttuazioni congiunturali). Ma queste file non funzionano secondo il principio della precedenza garantita ai primi arrivati, bensì in base ai criteri di reclutamento delle imprese. Se prendiamo ad esempio lo sportello dei lavoratori qualificati, il posto che ciascuno occupa nella fila dipende dal prestigio del suo diploma, dalle precedenti esperienze di lavoro, dagli indirizzi collezionati nella sua rubrica o in quella dei suoi genitori, dalla durata dei periodi di disoccupazione pregressi, dal genere, dall´età e talvolta da criteri ancor meno pronunciabili.

A parità di titoli di studio, una donna di cinquant´anni avrà minori probabilità di raggiungere lo sportello dei suoi coetanei maschi, che però a loro volta si vedranno passare davanti i pari grado trentacinquenni. Nella fila d´attesa più lunga - quella dei lavoratori meno qualificati - continueranno a valere tutti i criteri precedenti, ma un peso molto maggiore sarà attribuito a considerazioni che esulano dalla capacità lavorativa del candidato: si terrà conto dell´indirizzo, del cognome, dell´aspetto fisico ecc. Ora, si dà il caso che gli stranieri, o "ritenuti tali" (terribile espressione, pure correntemente ammessa!) sono rappresentati in percentuali molto superiori alla media nella categoria dei lavoratori meno qualificati, i quali ultimi si concentrano in determinate aree del territorio. Uno squilibrio sociale durevole come quello legato alla disoccupazione non è mai astratto, nel senso che ha inevitabilmente una connotazione spaziale. Di conseguenza i lavoratori meno qualificati, che abitano nelle zone periferiche delle città e per di più hanno nomi stranieri, si ritrovano sistematicamente relegati agli ultimi posti delle file d´attesa, con scarsissime probabilità di arrivare davanti allo sportello. Questo fenomeno di discriminazione non ha molto a che fare con l´immigrazione, ma piuttosto con la perdurante lunghezza delle file d´attesa. Anche se la popolazione fosse perfettamente omogenea dal punto di vista delle origini, si inventerebbero altri criteri di differenziazione. Di fatto, ogni processo di selezione diventa tanto più complesso e arbitrario, quanto più ampia è la possibilità di scelta tra i candidati (ossia la lunghezza della fila d´attesa). In altri tempi la discriminazione sarebbe avvenuta sulla base della regione d´origine, della professione dei genitori, del luogo di residenza, della religione, o magari di altre caratteristiche meno confessabili.

Il problema è che quando il fenomeno all´origine delle discriminazioni perdura nel tempo, queste ultime possono trovare una giustificazione ex-post. Gli individui stigmatizzati, concentrati (per ragioni imperative di costi) in determinate aree, ove i tassi di disoccupazione sono molto superiori alla media nazionale e i posti di lavoro meno remunerati, percepiscono di avere possibilità sempre più scarse di integrarsi negli spazi sociali, che sono quelli del lavoro, della scuola, delle strutture collettive e della laicità. E alcuni sono tentati da forme di integrazione sostitutiva - economia sotterranea, bande organizzate, comunitarismo ecc. - che in qualche modo convalidano la loro segregazione. Anche perché in quelle aree è più problematico il funzionamento dei servizi pubblici, primo tra tutti la scuola. L´istruzione, per la sua stessa essenza, è una promessa di futuro, ma al suo adempimento fanno ostacolo le discriminazioni. E gli incoraggiamenti allo studio perdono la loro efficacia quando gli adolescenti si sentono presi in giro, vedendo così svalutate le loro prospettive. La condizione particolare dell´immigrato può insegnarci qualcosa sul funzionamento complessivo della nostra società: il patto repubblicano riposa sia sull´integrazione civica che su quella sociale.

Per il problema della segregazione urbana non esistono risposte chiavi in mano. Tutte le possibilità di cui si è discusso in seguito ai noti episodi vanno nella direzione giusta, ma sono sempre risposte parziali. Se non bastano i posti a sedere al grande banchetto occupazionale, e se troppi devono accontentarsi di uno strapuntino, bisognerà pure che nelle nostre società civilizzate si trovi qualche territorio dove mandare le persone "in eccedenza". Ma in questo modo, per le categorie meno favorite si allungherebbe ancora la distanza, non solo sociale ma anche fisica, dalla possibilità di un posto di lavoro. E´ un fatto che in ogni epoca le città sono state caratterizzate da quartieri ricchi e quartieri poveri; ma la segregazione non subentra se non nel momento in cui la mobilità tra queste realtà viene ridotta o impedita. Ora, è precisamente questa la conseguenza dell´allungamento delle distanze dai posti di lavoro. Occorre dunque agire su tutte le dimensioni della mobilità per restituire dinamismo alla società. E soprattutto impegnare tutte le energie per combattere la nostra accettazione implicita della disoccupazione, poiché contribuisce a rendere effettive le discriminazioni che altrimenti sarebbero rimaste virtuali.

Traduzione di Elisabetta Horvat Français

Questione a margine dei tumulti periferici di Francia, ma per niente marginale: perché in Italia le periferie non sono più un soggetto politico? Perché sono sempre più lontane dell'attenzione, oltre che della città? Perché non producono segnali, culture, dissenso, come avveniva nel Novecento? Ci volevano gli incendi nelle lontane notti parigine per ricordarsi che anche da noi ci sono quartieri dormitorio desolati e potenzialmente esplosivi? Ed è un incendiario Romano Prodi, quando dichiara che abbiamo le peggiori periferie d’Europa, che non dobbiamo crederci cosi diversi da Parigi, perché è solo questione di tempo?



“Macché incendiario: Prodi è uno dei pochi con del sale in zucca. Questo disinteresse ha un’unica ragione: la politica ha rinunciato al governo dell’urbanistica, delegandolo agli immobiliaristi, cioè al mercato. E le città senza un governo pubblico diventano agglomerati di costruzioni” dice Edoardo Salzano, che ha insegnato urbanistica all’Università di Venezia ed è stato consulente per la pianificazione territoriale di molti Comuni. “Nella capitale del capitale, New York, lo capirono nel 1811, quando fu steso il primo piano regolatore al mon do. Lo richiesero i commercianti, i costruttori, gli imprenditori: il mercato, insomma. Razionalizzare significava lavorare meglio e guadagnare di più”.

Il piano di edilizia popolare del dopoguerra, su cui Fanfani investiva per l’avanzata del Paese e della Dc. La trombatura anni ‘60 di un altro notabile bianco, Fiorentino Sullo, sostenitore di una riforma urbanistica un po’ lesiva degli interessi fondiari. Gli immani scioperi per la casa. L’utopia anni ‘70 che, monumentalizzando la casa popolare, produsse anche quelli che oggi definiamo ecomostri. Per molto tempo, a partire dal Ventennio, le case per i lavoratori, e quindi le periferie, sono state materia di conflitto, progettazione, creatività. È bastato il mercato a uccidere tanta vitalità? Tutti a casa, finita la grande edificazione negli anni 80? “No. La caduta del muro di Berli no si è portata dietro quella delle ideo logie. Negli anni ’60-‘70 le periferie non costituivano solo serbatoi di voti, ma la speranza di dare cittadinanza ai diseredati. Speranza oggi caduta” sentenzia Salzano, che nel suo sito di urbanistica, società, politica eddyburg.it, tiene un’eroica sezione banlieues.

Tutti a casa fino a un certo punto: “Ne1 1984 si costruirono 35 mila alloggi sovvenzionati; nel 2004, 1400” osserva Giovanni Caudo, ricercatore di Urbanistica a Roma Tre. E la recente promessa di Silvio Berlusconi, 500 mila alloggi, segnala che l’emergenza torna elettorale. “La nostra edilizia sociale è l’ultima in Europa” continua Caudo. “In Olanda è al 35 per cento, da noi al 4”.

Le cartolarizzazioni hanno diviso le periferie fra proprietari e sfrattati: chi poteva ha comprato, gli altri, il 25 per cento, ha ripiegato sugli alloggi popolari fuori mercato, di qualità quasi nulla. Gianni Belli, segretario dell’Unione inquilini della Lombardia, dice che i quartieri della cintura milanese scoppiano. Di casi limite: immigrati senza risorse, abusivi, pensionati con la mini ma, dissociati. “Se metti uno schizofrenico fra dieci sani puoi controllarlo, ma se riempi un ghetto di disperazione non puoi far nulla. Prevale il senso di impotenza, se poni i problemi nessuno li raccoglie”. Sulla solidarietà prevale la diffidenza, e la periferia non produce più un’identità coesa. “I vecchi se la prendono con gli ecuadoriani che fanno festa, i comitati di quartiere chiedono cancellate invece che spazi comuni, c’è stato l’imborghesimento: conta il posto macchina, non la vivibilità” commenta Vincenzo Simoni, che dell’unione inquilini è segretario nazionale. Un tempo, specie al Nord, iquartieri popolari sorgevano Intorno alle fabbriche, vero fulcro della socialità. Con la deindustrializzazione, sono saltati i fulcri. "Venti, trent’ anni fa, le periferie avevano un proletariato giovane, politicizzato. Comitato di quartiere e consiglio di fabbrica lavoravano insieme” ricorda Simoni. “La casa del popolo, diretta da un ex partigiano, era il centro: i giovani ci litigavano ma c’era affetto. Oggi è tutto più silenzioso, non è sempre un disastro: le periferie delle città fino a 400 mila abitanti sono dignitose, però nessuna riesce a essere propulsiva. Ma non so dire cos’è propulsivo, oggi”.

La caduta della speranza è un elemento ricorrente. “Un disagio senza coscienza non colmato da niente” secondo Ascanio Celestini, cantastorie antropologo che nonostante il successo non ha lasciato Casal Morena, ex borghetto tra Roma e i Colli Albani. “A settembre, ho organizzato un festival al X Municipio: ci siamo accorti che l’i dea di spazi comuni non è stata proprio concepita. Che funzione avevano se la gente torna qui solo per mangiare e dormire? Trent’anni fa, in periferia si pensava che le cose sarebbero migliorate, oggi si sa che non c’è futuro: figli del benessere senza benessere”.

Eppure ironia della sorte e regime del suoli seminano al margini delle città totem del benessere: i centri commercialI. Dalla finestra di un mio amico di Tor Vergata si vedono ben due Carrefour”, ride amaro Celestini. Se un tempo Dario Fo stabiliva la Comune nella cintura milanese, oggi in tutt’Italia tocca a Ikea, agli outlet, agli ipermercati. “I Comuni, impoveriti, cedono i terreni in cambio di un po’ di servizi. La manovra a volte può produrre un circolo virtuoso, molte altre no” spiega Giovanni Caudo, che critica anche certi recuperi: “Fanno nuove piazze senza indagare dove la gente preferisce raggrupparsi”.

Quando era assessore all’Urbanistica della prima giunta Bassolino, a Napoli, Vezio De Lucia voleva trasferire due facoltà universitarie alle Vele di Scampia: “Non so come è finita, ma abbatte re certa edilizia pubblica mi sembra un’idiozia. Non sono costruzioni abusive, demolirle conferma ulteriormente la defezione dello Stato. E basta discutere se è giusto costruire belle architetture moderne nei centri storici: lascia moli come sono e portiamo un po’ di bellezza ai margini delle città. Ritenere frivola la bellezza, quando si parla di edilizia sociale, da’ l’idea di come vengono consideriate le periferie”.

Anche Renato Nicolini che, quando era assessore alla Cultura prima a Roma e poi a Napoli, fu il primo ad attrarre con i suoi eventi gli abitanti dei sobborghi in centro, pensa sia ora di invertire la direzione. “E va rivisto il concetto di periferia, quel che un tempo lo era, oggi non lo è più. Possiamo definire periferia ciò che somiglia a un non luogo: stazioni, grandi alberghi, aero porti. Solo nei film di Spielberg si può vivere negli air terminal.

Quindi la sospensione, l’estraneità. Allora anche Corviale, a Roma, dove bisognò dipingere i corridoi di colori diversi sennò i bambini si perdevano, o lo Zen di Palermo, vent’anni senza fogne, o le Vele di 13 piani con l’ascensore fermo, erano non luoghi. Il dibattito si accende. Gli architetti che li hanno realizzati accusano di latitanza lo Stato: nessun servizio, né vigilanza sulla legalità. Salzano ribatte che l’architetto deve prendersi le sue responsabilità, controllare se la committenza è affidabile. Il sociologo Franco Ferrarotti taglia corto: “Le amministrazioni pubbliche hanno colpe enormi, ma chi ha fatto quelle case alveare ha confuso la responsabilità sociale con la libertà individuale”.

In Italia “i periferici” sono quattro milioni, contro i sei francesi, di cui circa 5,5 stretti intorno a Parigi. E le nostre banlieues sono abitate prevalentemente da italiani: è il caso di chiedere al sociologo se le previsioni di Prodi sono incendiarie. “Il sottosuolo sociale si riproduce più lontano delle periferie strutturate. Il problema vero degli immigrati è avere punti di ritrovo e culto interetnici. Ma il nuovo povero non è l’extracomunitario, è l’impiegato, il maestro che non può mandare la moglie a servizio. Nei sobborghi la ricchezza slitta dai locali agli stranieri, che hanno più iniziativa autonoma e adattabilità”.

Un tessuto più difficile da raccontare, rispetto ai tempi di Pasolini. Ma Antonio Bocola, regista con Paolo Vari di Fame chimica, piccolo cult sull’hinterland milanese, prepara un altro film: sulla predestinazione criminale di un adolescente. Tra periferie e politica, dice, c’è disinteresse reciproco: “Il modello fabbrica è sconfitto, l’associazionismo pure. Oggi diventi leader se spacci. Io racconto questa poetica a chi non vede o non vuol vedere. Non la assolvo, però le riconosco dignità di cultura giovanile. Di unico modo per affermarsi”. Forse ce n’è un altro: a Roma, il primo dicembre, Sandro Medici, presi dente del X Municipio, indagato per aver requisito e consegnato 12 appartamenti sfitti a famiglie disagiate, ha organizzato, con altri sei Municipi, la prima marcia delle periferie.


Orio al serio (Bergamo) - La ragazza con le trecce biondissime e le gote infuocate che si guarda intorno sperduta arriva da Tallin, Estonia. Deve andare a cercare la sua scuola di design, via Amatore Sciesa. Ma a Milano. Questo è Orio al Serio, l´aeroporto dei miracoli, il primo centro italiano della rivoluzione low cost. 149 euro l´andata, altrettanto il ritorno. Mezz´ora da Bergamo, quarantacinque minuti da Milano, ma non si va troppo per il sottile. La tratta si chiama Tallin-Milano lo stesso, e pazienza se dopo il volo, tre ore, più una di fuso, c´è un´ora di pullman: è comodissimo, il piazzale davanti all´aerostazione è piccolo che non serve andarlo tanto a cercare e costa 11 euro. Dallo sbarco al ritiro bagagli non passano più di quindici minuti. Al bar, ad assaggiare gli spuntini a base di taleggio, il formaggio locale, coppie non più giovanissime arrivate da Amburgo; studenti di Barcellona in gita e anche manager da Dublino le cui aziende hanno adottato la politica del risparmio.

I numeri del miracolo di Bergamo sono materia di studio: la Sacbo, la società privata di gestione dell´aeroporto, ha commissionato una ricerca sull´impatto socio-economico dell´impresa. Risulta che dal 2002, data del precedente rapporto, a oggi, il milione e poco più di passeggeri sono diventati i 4,3 dell´anno in corso con una crescita complessiva di traffico del 300 per cento. L´occupazione è passata da 3.601 dipendenti diretti a 9.639; quelli totali, compreso quindi l´indotto, erano 7.290 e ora sono 17.751. La produzione complessiva sfiora i 2,2 miliardi di euro; tenendo conto dell´inflazione, la crescita reale dell´impatto economico è stata del 785 per cento. Nemmeno l´Italia del boom economico aveva potuto fare tanto. E neppure la bergamasca, terra tradizionalmente di piccola impresa, avrebbe mai potuto immaginare di inventarsi negli anni più duri una vocazione turistica.

Bergamo è solo un esempio, il "caso" da laboratorio. Ma Ciampino, Pisa, Treviso, Brindisi, Reggio Calabria, Bolzano, seguono lo stesso, tumultuoso sviluppo. Il motore portante di questa avanzata è - come accade per Orio, Ciampino, da un mese anche Pisa - essere "base" di una compagnia aerea, in questo caso la Ryanair. Che deposita 4, 5 e 1 velivolo anche la notte e di giorno si sbizzarisce in 18, 21 e 10 rotte, destinazioni da Londra (Stansted), a Eindhoven (Dublino); da Skavsta (Stoccolma), a Santander (Bilbao) fino a Beauvais (Parigi). Per altri, Olbia, ad esempio, il moltiplicatore del traffico si chiama Easyjet e Hapag Lloyd. Per Treviso, Alpi Eagles. Paghi poco e vai dove vuoi.

Al ceck-in, pronti alla partenza, ci sono diciassette studenti della facoltà di economia dell´Università di Lubecca. A Bergamo erano già stati tre anni fa, ma il viaggio, allora, lo avevano fatto sul pullman. «Ora - spiega uno di loro - abbiamo speso meno così». Si sono fermati una settimana; hanno dormito al Nuovo Ostello della Gioventù di Monterosso; approfittato della gentilezza di Alessandra, la ragazza che sta al desk dell´agenzia per lo sviluppo e la promozione turistica e che ha imparato a "vendere" il museo di Donizetti come fosse la pinacoteca di Brera, la piazza vecchia, costruita per volontà della famiglia Colleoni in Città Alta, come fosse piazza della Scala. Ma, dove è arrivato il low cost, è accaduto ovunque così: a Girona, cento chilometri da Barcellona; ad Hahn, proposto come l´aeroporto di Francoforte da cui invece dista quasi due ore di autobus.

Il fenomeno low cost ha cambiato la geografia dei luoghi; ha dato un impulso straordinario all´economia locale; è diventato - come dicono gli studiosi incaricati dalla Sacbo a proposito di Orio - «uno strumento di marketing, capace di agire come un magnete nei confronti di un´ampia gamma di imprese industriali e commerciali e di costituire un significativo asset strategico per la regione in cui opera». Ma ha cambiato anche il modo di vivere: i nuovi clienti del traffico aereo sono persone che prima viaggiavano in pullman, in treno, oppure se ne stavano a casa. «Con i voli a bassa tariffa - dice il direttore commerciale di Orio - è accaduto quel che è successo coi treni quando dall´Orient Express si è passati all´Intercity». Tornano dall´estero in aereo gli emigranti; ma vanno in vacanza in posti lontani anche i pensionati che prima mai avevano volato. Ha raccontato L´Eco, il giornale locale, che un pompiere londinese innamorato della Città Alta vive a Bergamo e va a lavorare a Londra, come un pendolare qualsiasi. Mentre a Olbia è normale che durante l´inverno atterrino coppie da Hannover per trascorrere il week-end al tepore (per loro, s´intende) della Sardegna.

Sarebbe stata venduta ( secondo l’Espresso e La Nuova Sardegna) a un ricco russo una casa in Costa Smeralda, località Romazzino, per la somma di 35 milioni di euro.

Nel tempo della finanza d’invenzione e del consumismo più spettacolare è lecito aspettarsi di tutto. Così succede che l’indiscrezione stia nel registro delle bizzarrie mondane d’estate, proprio mentre si fa un gran parlare di rendite immobiliari, meglio d’immobiliaristi. Il clamore è giustificato, se si pensa che ai tempi della lira una casa più o meno dello stesso rango poteva essere venduta per una decina di miliardi, che pure sembrava, anche a quelli più avvezzi a questo genere di transazioni, un prezzo notevole.

La notizia potrebbe essere capziosa, utile per fare crescere i valori delle case (da anni d’estate si diffondono notizie di supervendite a uno dei soliti sceicchi sauditi, messe in giro da intermediari che mirano a sollevare le quotazioni anche di bilocali in terza fila). D’altronde l’abilità degli immobiliaristi (qualcuno fa notare in questi giorni che sono altra cosa rispetto ai costruttori), sta proprio in questa capacità di comprare e rivendere fruttuosamente in tempi brevi.

Le vicende che riguardano i vari Coppola e Ricucci, dicono appunto anche di queste cose, di speculazioni che alimentano investimenti finanziari, di scalate, di bolle possibili, ecc. E il fatto stesso che si possa solo parlare di somme così rilevanti la dice lunga su cosa gira nel mondo del mercato immobiliare di fascia alta. Anche in Sardegna, ovviamente.

Allora due conti. Il costo di costruzione di queste tipologie di edifici non è diverso da quello che si può riscontrare in altri luoghi del Paese. Anche a immaginare l’impiego di materiali preziosi ( escludendo i metalli nobili ) il costo di un metro quadro finito di casa si può aggirare, esagerando un po’, sui 2000-2500 euro.

Ecco: la casa in questione, pare di alcune centinaia di metri quadri, costa, costerebbe per realizzarla, poco più di un milione di euro.

Il resto del valore – per arrivare a 35 milioni – è dato dalla magica condizione del contesto Un grande salto, si converrà, pure con un notevole lotto di pertinenza più accessori, un’impareggiabile vista sul mare, un vicinato molto ma molto altolocato, ecc. Così è per questo genere di merci e ogni giudizio, come dire, dalla parte dei poveri o nel nome della parsimonia, è del tutto superfluo. E a poco serve osservare che qualche ettaro di terreno agricolo a una trentina di chilometri da qui vale molto poco e non si vende anche con l’aggiunta di un buon gregge di pecore lattifere. Come si legge in tanti sconsolati annunci che dicono di quei “naufraghi di terra” di cui ha scritto nel suo libro recente Salvatore Niffoi.

Qui si vuole solo osservare, per chi non lo avesse ancora capito, che di queste ricchezze, prodotte senza rischi, con notevole danno ai paesaggi sardi, non resta quasi nulla alle popolazioni locali. Spiccioli a qualche manutentore e giardiniere e l’Ici che, come è facile intuire, è del tutto scriteriata in questi casi. Andrebbe meglio un corrispettivo lasciato al buon cuore: le mance che si lasciano da queste parti sono più generose.

Occorre tenerne conto nel caso si volesse ancora concedere questi privilegi, che una volta fatte le case fatte resta il solo compiacimento della presenza di tanta bella gente da queste parti ( “ajò a vedere le ville dei ricchi in Costa …”). L’ alterazione irreversibile dei connotati di spiagge e scogliere, la chiusura degli accessi al mare, la preclusione di un uso produttivo di vaste aree, procurano grandi vantaggi a pochi che spesso neppure sanno dove sono le case preziose che possiedono,

Queste concessioni a edificare non c’entrano neppure nulla con l’ uso (spesso si tratta di case che si abitano una settimana all’anno) e che sono nel novero degli investimenti ( e c’è chi appunto ne possiede sei o sette di villone in Gallura). Si tratta di quei beni nel ciclo denaro-merce-denaro che il nuovo capitalismo italiano predilige, come spiegano bene le cronache di questa stagione.

E’ singolare che nella riflessione che si è aperta su questi temi in Sardegna qualcuno porti l’argomento dell’incremento dei prezzi delle case esistenti nelle coste, cioè del favore – scandaloso per i liberisti – che viene loro da una linea di contenimento delle trasformazioni ambientali. Così – è il suggerimento sottinteso – per non avvantaggiare gli immobiliaristi spazio ai costruttori. Come se per impedire l’incremento di valore di residenze esclusive nel centro di Roma, per ampliare l’offerta come di dice, si lasciasse via libera ai palazzinari di densificare Trastevere. Gli esempi potrebbero essere tanti e si sa che i paesaggi naturali più pregiati e le cosiddette città d’arte sono ai primi posti nell’attenzione di speculatori molto potenti. Per questo occorre intensificare e affinare l’impegno per tutelare i beni comuni.

Nei giorni immediatamente successivi agli attentati terroristici islamici a Londra in cui morirono 56 persone, le autorità britanniche stabilirono che tutti gli uomini bomba erano integralisti islamici nati cittadini britannici. Nell'immaginario collettivo i terroristi erano al contrario forestieri, stranieri, alieni. Ciò doveva spiegare perché ai fautori di attacchi suicidi non importava nulla delle vite che si accingevano a distruggere. Invece i terroristi londinesi erano connazionali, membri della stessa comunità cui appartenevano le loro vittime. Ma dove è andata a finire la coesione dovuta alla cittadinanza? Perché i legami che ci uniscono sono così deboli?

Questo autunno le stesse domande si sono riproposte anche in Francia, quando i quartieri abitati da immigrati nelle grandi città sono stati sconvolti da settimane di rivolta. Gli europei incominciarono a interrogarsi se il loro modello di integrazione, basato sulla garanzia della concessione della cittadinanza, fosse definitivamente andato in crisi oppure no.

Prima di tutto è bene chiarirsi le idee su ciò che non è andato male. Milioni di immigrati musulmani in Europa e in America del Nord hanno superato le resistenze e il risentimento trasformando la loro immigrazione in un'esperienza positiva. La stragrande maggioranza di queste persone evita i disordini e disprezza la violenza terrorista.

Secondo, è importante distinguere i tumulti dagli attentati di Londra. Gli attacchi con le bombe erano guidati dall'integralismo islamico, gli incidenti di Parigi erano causati da rabbia a oltranza. Mentre gli attentati suicidi mirano a distruggere la società libera democratica, la maggior parte dei poveri, disoccupati o sottopagati dei sobborghi urbani che hanno bruciato macchine nelle periferie di Parigi protestano perché vogliono l'integrazione. Ma proprio riuscire ad integrarsi è stato praticamente impossibile per molti. L'errore è stato di presumere che i diritti all'assistenza offrono sempre una via d'uscita dalla povertà, oppure che i sussidi per l'affitto possano conferire un senso di appartenenza.

Il welfare potrebbe essere in realtà parte del problema, non della soluzione: l'assistenza intrappola gli immigrati nel risentimento e nella dipendenza. In Gran Bretagna il 63 per cento dei figli di pachistani o bangladesi vivono nella miseria. Laddove la razza, la classe sociale, la religione e la povertà messe insieme producono emarginazione, la sola concessione della cittadinanza non può funzionare.

I teorici hanno definito le nazioni «comunità immaginarie». Gli attentatori che hanno attaccato i loro concittadini a Londra potrebbero aver scelto di arruolarsi nella jihad per battersi in favore di una comunità immaginaria in grado di offrire loro un maggiore senso di appartenenza. Per la gioia di essere accettati e il piacere di sentirsi coinvolti, piuttosto di accontentarsi della misera consolazione di acquisire la cittadinanza in una società democratica. Gli attentatori suicidi si uniscono a ciò che loro considerano la comunità internazionale degli Umma, i credenti musulmani. Essa offre al giovane cittadino una causa nobile per cui battersi — la difesa dei musulmani ovunque — e un ideale brillante, il martirio in difesa di una fede. Considerare gli uomini-bomba dei fanatici vuol dire non cogliere il più profondo fascino morale di questa forma alternativa di appartenere.

Grazie a Internet e ai prezzi bassi dei voli internazionali, gli immigrati e i loro figli non devono più legarsi una volta per tutte ai nuovi Paesi adottivi.

Possono avere doppi passaporti e passare mesi a respirare l'atmosfera politica di Peshawar, Qetta o Algeri piuttosto che quella di Bedford, Leeds o Clichy- sous-Bois.

Nessuno con un minimo di buon senso potrebbe pensare di eliminare i benefici della globalizzazione, tra cui Internet e i viaggi a basso costo, soltanto perché ciò potrebbe indebolire i legami che ci uniscono come cittadini. Ma è importante capire che per una piccola minoranza di giovani musulmani i rimedi attuali — più programmi di assistenza per gli immigrati poveri, l'espulsione per coloro che violano le leggi e le penalità più severe per i mullah e i predicatori dell'odio — non offrono più il modello di una città terrena che può competere con la promessa di una città divina proposta dai sostenitori della violenza.

L'unica causa che offre la democrazia è il motto storico «libertà, eguaglianza e fratellanza». Ma queste parole svaniscono se i sindacati forti escludono i lavoratori immigranti, se i professionisti si oppongono all'entrata di nuovi cittadini specializzati e se le istituzioni elitarie non reclutano nuovi talenti emergenti, provenienti da Paesi stranieri.

Il problema fondamentale non è il fatto che i governi europei non hanno speso cifre sufficienti per aiutare gli immigrati. Il problema è che non hanno aperto i battenti delle loro scuole elitarie, della burocrazia e dei partiti politici ai migliori e ai più brillanti tra i nuovi cittadini. L'ostacolo insormontabile è la mancata inclusione dei nuovi arrivati nei ceti più alti della società. Quando si vedono foto di gruppo dei leader europei nei loro conclavi dell'Ue non si notano volti di colore, donne con i capelli nascosti sotto i foulard o personalità della fede musulmana. Ci vorrà molto tempo prima che questo accada.

Fino a quando i cittadini immigrati non vedranno alcuni dei loro ai vertici, saranno scettici — e a ragione — nei confronti delle promesse della democrazia. La democrazia è in concorrenza con le ideologie fondamentaliste per la salvezza dell'anima, e in questo momento sta perdendo la sfida.

Nota: il sito del corriere: Città invisibili

Titolo originale: Ski in the desert? It could only happen in Dubai ... – Traduzione di Fabrizio Bottini

Ci sono 35 gradi, fuori, ed è appena cominciato a nevicare. Non contento delle spiagge a temperatura controllata, degli alberghi a sette stelle e di un arcipelago artificiale, l’emirato cotto dal sole di Dubai ha deciso di introdurre condizioni climatiche alpine in pieno deserto. Il luogo di questa stranezza meteorologica è Ski Dubai, la terza discesa al coperto del mondo, dove i visitatori presto potranno concedersi un rapido slalom fra le sessioni di abbronzatura.

Due settimane prima della prevista apertura del 2 dicembre, siamo stati invitati per una rapida visita preliminare. Mentre il feroce sole di mezzogiorno arrostisce i turisti sulle vicine spiagge di Jumeirah, noi indossiamo scarponi da sci, guanti e abiti termici. Equipaggiati in perfetto stile Scott-eroe-dell’Antartico ci avviciniamo alle colossali porte del complesso, con gran divertimento dei clienti del vicino centro commerciale, in calzoncini e sandali.

Mentre attraversiamo l’entrata una folata di vento glaciale si fa strada sino alla base dei nostri polmoni, e sentiamo lo scricchiolare alieno della neve fresca sotto le suole. Davanti a noi sta una scena strappata direttamente da una cartolina di Natale. Due giovani eccitati si tirano palle di neve, alberi di pino pesanti di brina e una manciata di visitatori vestiti di nero che si arrampicano su una ripida altura bianca di neve, come un branco di pinguini migratori. Al centro di questa istantanea di perfezione invernale ci sono due Emiri in tuniche bianche e fazzoletti a scacchi rossi inginocchiati in venti centimetri di polvere, che lasciano scivolare la neve tra le dita ridacchiando alla semplice gelida follia di tutto questo.

Anche in questa città dalle ambizioni sconfinate, portare temperature di 45° sino a sotto zero sembrava una pazzia. Ma questo è un posto che rifiuta di essere chiuso dentro a bazzecole come la logica, la fisica, la geografia. La momento la città è impegnata in una serie di superprogetti surreali: realizzare il primo albergo subacqueo, completo di sala per spettacoli pure subacquei; costruire un parco a tema (fantasiosamente chiamato Dubailand) più grande della stessa città; erigere la torre più alta del mondo (il Burj Dubai, la cui altezza è un segreto gelosamente custodito). Il prossimo anno vedrà l’inaugurazione del primo complesso dell’Isola delle Palme, un vasto arcipelago artificiale che si estende nel Golfo Persico. A Dubai, “moderazione” è una parolaccia sporca.

Ski Dubai sporge dal Mall degli Emirati – il più grosso centro commerciale fuori dagli USA – come un gigantesco gomito metallico. Di fianco alla via Sceicco Zayed, la strada principale di Dubai, le strutture a forma di tubo sono piuttosto lontane dall’essere carine, cosa insolita in questa città esteticamente consapevole. Ma l’interno è una meraviglia. Allungando il collo per vedere tutto il cavernoso spazio da 22.500 metri quadrati (che dichiara di contenere oltre 6.000 tonnellate di neve), arranchiamo attorno a finte montagne e veri igloo ai piedi della complessa arena a quattro discese. A differenza dello snow park – la zona dove non si scia ai piedi della collina – le discese non sono ancora aperte al pubblico e la vista di questo bianco manto vergine che si estende verso l’alto fino a sparire alla vista è magica e intimidante. Mentre ci spingiamo oltre snowmobiles abbandonate e una colossale seggiovia incrostata di ghiaccioli, la sensazione è più da apocalisse dell’era glaciale che da nuova attrazione turistica alla moda. Ma entro un paio di settimane questa neve vergine sarà incisa da 1.500 sciatori e snowboard.

Raggiungiamo la metà del percorso sorridenti ma senza fiato. È il punto dello Avalanche Cafe, in stile Zermatt, uno chalet con balconi che presto riscalderà gli sciatori con fonduta, cioccolata bollente, e il piacere piuttosto dubbio del vino speziato analcolico (“la nostra deliziosa ricetta della casa di Vimto caldo e sciroppo di zucchero in infusione di spezie”).

Per ora ci lasciano arrivare solo fin qui, ma dietro l’angolo, in cima agli 85 metri dell’edificio, sta la pista più lunga di Ski Dubai. Presentata come il primo percorso “nero” al coperto, è lunga 400 metri con un dislivello di 60: qualcosa in meno delle terribili pendenze di Portes du Soleil, e probabilmente più una rossa o blu, per uno sciatore esperto.

Lì vicino, la zona della rampa per snowboard – che purtroppo manca di qualunque ostacolo, ringhiera, piano di tavolo – e le due piste toboga non basteranno a soddisfare i tossicodipendenti da neve a caccia di adrenalina.

Ma la parte per bambini – caverna di ghiaccio da 3.000 metri quadrati, decantata come “il più grande snow park del mondo” – è una fantasia infantile degna dello squisito ingegno di un Roald Dahl. Collocata dietro le pendenze e già aperta al pubblico, questa sezione offre slitte-bob, collinette artificiali per toboga, un campetto per giocare a palle di neve e spazi dedicati alla costruzione di pupazzi di neve. Dentro la “caverna della neve” bambini infreddoliti si aprono barcollando la strada in un labirinto ghiacciato, tentando di restare in equilibrio su un ondeggiante “ghiaccio galleggiante”, e facendo amicizia con un enorme dragone fatto di enormi blocchi di ghiaccio scolpito.

Una patina di didattica è fornita dalla sala proiezioni della caverna di neve, che secondo le nostre guide “mostrerà alcuni film divertenti e al tempo stesso istruttivi ... sui pinguini, gli orsi polari, informando sul clima e cose di questo tipo”.

Completato il nostro giro tra le varie strutture, torniamo al calore di una poltroncina nel San Moritz Cafe, affacciato sul grande spazio. Guardando attraverso gli alberi di plastica – quelli veri sarebbero stati pericolosi per gli incendi – e le scritte giganti che proclamano le virtù delle Vacanze negli Emirati, è stupefacente osservare la semplice dimensione dell’opera di ingegneria che si presenta.

Utilizzando tecniche simili a quelle che si trovano nei sistemi di condizionamento d’aria che rendono abitabile la città, la temperatura è stata abbassata fino a – 8° per il periodo iniziale, di formazione della neve. A questa temperatura minima, l’acqua allo stato liquido viene spruzzata fino a creare una nube all’interno dell’edificio, a cui vengono aggiunti minuscole particelle di ghiaccio, a formare neve che cade in forma di fiocchi: neve artificiale allo stato puro. Fortunatamente, quando Ski Dubai sarà aperto al pubblico il ciclo di formazione della neve avverrà solo di notte, e nei normali periodi di sci ci sarà una meno feroce temperatura di soli due gradi sotto zero.

Gli abitanti di Dubai annoiati dal lusso senza alcun dubbio si abitueranno rapidamente a considerare lo sci a temperature estive di 45° come un’attività corrente. Nondimeno, Ski Dubai sta facendo ogni sforzo per trasformare gli abitanti del deserto in abili slalomisti. Ci sono almeno 25 maestri di sci a portata di mano per le lezioni, e un paio di immigrati dalla Scandinavia ha preventivamente organizzato uno Dubai Ski Club per organizzare gite sociali sulle piste. Ha già più di 300 soci. Una volta diventati appassionati di questo prestigioso nuovo passatempo, i dubaiani possono iniziare ad attrezzarsi adeguatamente, scegliendo fra tavole Rossignol, scarponi Sidas e giacconi Barts nel negozio Snow Pro interno.

Cosa ci riserva il futuro per Ski Dubai? Potrebbe iniziare a erodere il primato delle tradizionali mete sciistiche del Medio Oriente, in Libaro e Iran? Susan Mikloska, direttrice per il marketing, ne è convinta. “Certamente ne ha il potenziale” dice “perché Dubai ora offre un’ampia gamma di attrazioni ai visitatori, e la possibilità di sciare nel pomeriggio e stare all’esterno sulla sabbia o in acqua il resto della giornata è molto attraente”. E possiamo aspettarci che le nuove piste in città creino una rivoluzione stile Cool Runnings nella comunità sportiva? Mikloska ne è certa. “In Europa molti dei migliori sciatori e atleti olimpici hanno iniziato su alture più piccole delle nostre, quindi abbiamo un ottimo potenziale per formare ottimi atleti” afferma. “C’è speranza che entro qualche anno potremo far partecipare qualcuno a delle gare”.

Anche se le glorie olimpiche possono essere piuttosto lontane, gli abitanti si godono in pieno la novità di stare al freddo. “È piuttosto strano, ma meraviglioso” dice Raed Al Yousofi, meravigliato alla vista dei primi fiocchi di neve. “Ora Dubai ha tutto, e tutti vorranno visitarla. Io sono troppo vecchio per imparare, ma nostri figli saranno buoni sciatori”.

Nota: il testo originale (con schede tecniche informative dettagliate sul progetto e sull’operazione Dubai) al sito dell’Observer; qui su Eddyburg, sull’argomento si veda almeno il bell’articolo di Mike Davis proposto qualche tempo fa (f.b.)

L'ONU inserisce il diritto alla casa fra i diritti umani universali (art. 25). In Italia oltre l'11% delle famiglie vive in povertà relativa (Istat 2005), le famiglie sotto sfratto sono 600.000, gli allogi sfitti circa 2 milioni...C'è chi manda le ruspe contro le baracche degli immigrati e chi cerca soluzioni immediate per calmierare situazioni di disagio sociale ormai al limite in molte nostre città: legalità da un lato, giustizia dall'altro. La questione della casa, a Roma come a Bologna non è un problema di ordine pubblico, ma un'emergenza sociale che va allargandosi. (m.p.g.)

Briciole di welfare

GALAPAGOS

Soldi ce ne sono pochi: è l'alibi di Berlusconi e Tremonti per giustificare la pochezza della finanziaria e i tagli alla spesa sociale necessari per centrare gli impegni con Bruxelles. Soldi, invece, ce ne sono tanti. D'altra parte lo stesso Berlusconi ci ha ossessionato negli ultimi tempi con lo slogan «gli italiani sono ricchi». E' vero: i ricchi da quando c'è lui al governo sono aumentati di molto, ma sono aumentati ancora di più i poveri. Certo, l'Istat parla di «povertà relativa», però quanto c'è di relativo per una famiglia a dover vivere, anzi sopravvivere, con poche centinaia di euro al mese in città come Roma o Milano? L'Italia è ricca, ma milioni di italiani sono poveri. Non è una contraddizione: è il risultato di una politica economica che tende a esasperare le differenze. E la povertà è il risultato di un sistema fiscale iniquo - nel quale il lavoro paga più tasse della rendita - e inefficiente, visto che sfuggono ogni anno al fisco redditi per un ammontare superiori ai 150 miliardi di euro (300 mila miliardi di lire per semplificare). Ieri un quasi ignoto deputato di An - Giampaolo Landi di Chiavenna, come specificava l'Agi - ha sostenuto che «tassare i patrimoni e le rendite è un errore che la Casa delle libertà non può permettersi». Perché non può permetterselo? Non certo in base alla teoria economica; sicuramente non in base all'evidenza empirica che ci dice che sono i paesi del Nord Europa a guidare la classifica dell'efficienza economica, del benessere, della solidarietà e quindi della civiltà. Il problema è che anche An è diventata schiava di Berlusconi e della ideologia di classe che il cavaliere rappresenta.

Eppure spazi per fare e fare bene ce ne sono. Invece si litiga sulle briciole, con l'Udc che minaccia la rottura per circa 200 milioni di euro tagli alle famiglie. Ma perché poi «famiglie»? Perché non chiamarli tagli ai «cittadini», ai diritti di ognuno di noi, a cominciare di chi è diverso, da chi non vuole farsi o non può farsi una famiglia?

L'Italia è un paese di contraddizioni: ricchezza e povertà; cittadini di serie A e di serie B. Ma anche proprietari di case e cittadini che la casa non ce l'hanno, ne hanno bisogno, ma non riescono a averla. Le statistiche dicono che ci sono 600 mila cittadini sotto sfratto. Molti di loro sono «morosi», ma nessuno lo è per hobby: il mercato li strangola con affitti mostruosi. Le case non mancano: sono circa 2 milioni quelle sfitte. Ma in questo caso la legge della domanda e dell'offerta non funziona. Il livello degli affitti è determinato dal prezzo delle abitazioni; i prezzi delle case sono imposti dagli immobiliaristi che fanno rimpiangere i vecchi palazzinari. Il mercato delle abitazioni è un mercato asimmetrico dove il potere ce l'ha solo il proprietario e dove l'inqulino deve prendere o lasciare. E lasciare significa spesso finire in mezzo a una strada o in precarie coabitazioni con umiliazioni pesanti per quanto riguarda i giovani .

Il tutto favorito da una offerta pubblica quasi inesistente; da cartolarizzaioni dismissioni fatte solo per fare cassa e non per dare nuovo impulso al'attività edilizia come suggeriscono giustamente anche quelli dell'Ance, i costruttori. Sandro Medici ha fatto un gesto coraggioso anche se qualcuno dice che non ha fatto che «copiare» quello che alcuni decenni fa aveva deciso di fare Giorgio la Pira indifesa dei senza casa fiorentini. Per i benpensanti non è questo il sistema per risolvere il problema della casa. Forse, anche se in situazioni di emergenza si ricorre a misure di emergenza. In ogni caso Medici ci ha insegnato una cosa: la soluzione per risolvere i problemi degli emarginati non può essere la legalità invocata da Cofferati.

CASA

Giusta causa

SANDRO MEDICI

Fino a qualche tempo fa circolava una convinzione: che saremmo diventati tutti proprietari delle nostre case. Risolvendo così, alla radice, uno dei problemi sociali che ciclicamente emergono nelle nostre città, a Roma più che altrove. Quello dell'abitare, di avere un tetto sulla testa, di poter soddisfare quell'elementare bisogno di due camere e cucina. Nell'acme della stagione del furore liberista, si pensò infatti di avviare quello sciagurato processo di dismissioni delle proprietà immobiliari degli enti pubblici (para o semi che fossero): di quell'enorme patrimonio di edifici d'abitazione che per decenni erano riusciti (e non completamente) a calmierare il mercato. La chiamarono cartolarizzazione. Aveva il duplice obiettivo di accumulare risorse per la spesa pubblica e consentire al popolo dei locatari di realizzare il sogno della casa in proprietà.

Obiettivo raggiunto per una parte, e anche cospicua, ma fallito per un'altra, seppur minore. In molti aderirono all'offerta di vendita, indebitandosi allo stremo, mettendo a rischio il proprio stesso futuro. Ma in molti altri restarono fuori, impossibilitati ad acquistare a causa di redditi insufficienti e/o precari. E ora sono proprio questi ultimi, esclusi e impoveriti, a ritrovarsi sotto sfratto: cacciati dalle case in cui hanno vissuto per decenni, senza alcuna prospettiva di ricambio perché schiacciati da un mercato per loro irraggiungibile.

Sono tuttavia solo gli ultimi arrivati nell'ampia schiera dei senzacasa, quell'insieme di sfuggenti figure sociali che cronicamente vivono nell'insicurezza economica. Gente che campa sbattendosi tra un alloggio di fortuna e un'ospitata da amici e parenti, famiglie povere annidate in appartamenti che nel frattempo sono stati messi in vendita o già venduti, immigrati vecchi e nuovi alla continua ricerca di una sistemazione decorosa. Sono quelli che affollano le liste dei destinatari di alloggi popolari che i Comuni non sono in grado d'offrire perché semplicemente mancanti. C'è poi un ultimo flusso che va a completare questa preoccupante massa critica. Sono l'acido frutto dell'impoverimento progressivo delle nostre società.

Quelli che non riescono più a pagare il mutuo o l'affitto, le coppie che non mettono su casa perché non ce la fanno a star dietro al mercato, così come i giovani che restano dai genitori, i pensionati non più autosufficienti costretti a convivere con figli e nipoti, ecc. ecc. Se non fossero passati esattamente cinquant'anni, sembrerebbe di essere tornati ai tempi degli sfollati di via Donna Olimpia raccontati da Pier Paolo Pasolini in Ragazzi di vita. E il peggio è che di tutto ciò non si accorgono che in pochi: i sindacati, qualche sindaco e poco più. Siamo di fronte a una clamorosa smentita delle strategie privatizzatrici, ingannevoli quanto feroci, che sta producendo un accumulo di disagio sociale angosciante, che qua e là già si manifesta con occupazioni e conflitti. E non c'è traccia di una politica una per attenuare questa pressione. Anzi, anno dopo anno, il governo sforna leggi finanziarie che riducono i contributi sociali per l'affitto, lasciando sole e indebolite le amministrazioni locali, che s'arrangiano come possono.

Affrontare e risolvere questo acutissimo problema avrebbe bisogno di ripensare alla radice una politica per la casa, che riconsegni centralità al diritto sociale all'abitare, un diritto che l'Onu ha dichiarato universale. Ci vorranno anni e sicuramente un altro governo. Ma nel frattempo tutti i senzacasa che vagano penosamente nelle nostre città, dove li mettiamo?

L'ordinanza di requisizione di alcuni alloggi sfitti e inutilizzati recentemente emanata nel X Municipio di Roma, peraltro prontamente messa sotto inchiesta dalla magistratura, non sarà certo la soluzione. Ma non è più possibile tollerare gli indecenti interessi della rendita immobiliare proveniente dalle migliaia e migliaia di case vuote, che s'accumula parassitariamente solo grazie al tempo che passa, senza per questo venir minimamente tassata. L'egoismo sociale, la smania accumulatrice non può tener sequestrati beni necessari alla collettività, soprattutto di fronte a un'emergenza che sta per travolgerci tutti.

Diritto alla casa, la cura di Medici

Sabato a Roma manifestazione nazionale contro l'emergenza abitativa. I promotori: «Sfiliamo anche per il presidente del X Municipio». Che ha requisito alloggi per gli sfrattati come fece La Pira a Firenze ma è finito sotto inchiesta. Silenzio di Veltroni e dell'Unione

ANGELO MASTRANDREA



ROMA - E'attaccato dalla stampa di destra che lo accusa di «esproprio proletario» e violazione della proprietà privata, a qualcuno della sua maggioranza la mossa non è piaciuta particolarmente e anche il sindaco Veltroni per il momento tace su una vicenda che pone il centrosinistra di fronte a un bivio: se privilegiare il diritto di proprietà a quello alla casa, la speculazione immobiliare rispetto agli sfrattati. Ma Sandro Medici, presidente del X municipio, non demorde e conquista le organizzazioni di inquilini, cartolarizzati, sfrattati e senza casa che da tempo denunciano le speculazioni immobiliari e l'esistenza di un vasto patrimonio abitativo privato che rimane inutilizzato. Tanto che l'Unione inquilini invita a partecipare in massa alla manifestazione nazionale per il diritto alla casa che si svolgerà sabato a Roma. E così, nei giorni in cui il sindaco di Bologna Cofferati fa a pugni con studenti e occupanti di case e rompe con Rifondazione sul tema della legalità, da un municipio romano arriva un esempio che si pone all'estremo opposto. Il presidente del X Municipio ha infatti requisito con un'ordinanza 12 dei 50 appartamenti di un palazzo di proprietà di una società privata, la 3A, e abbandonato da 15 anni. Un provvedimento dettato dall'esigenza di dare un tetto a una quarantina di sfrattati, in maggioranza persone anziane e malate.

In questo Medici ha un precedente illustre nel sindaco di Firenze Giorgio La Pira, democristiano e beatificato, che negli anni `60 requisì temporaneamente alcuni palazzi del centro per dare un alloggio agli sfrattati dell'Isolotto. Attaccato in consiglio comunale, dichiarò che il diritto all'abitazione viene prima di quello alla proprietà. Ma questa volta il presidente del popolare municipio romano di Cinecittà è finito sotto inchiesta per abuso d'ufficio.

«Il reato contestatogli si risolverà in un boomerang nei confronti della rendita immobiliare speculativa e parassitaria», dice il segretario dell'Unione Inquilini Massimo Pasquini, che cita a favore di Medici, ex giornalista del manifesto ed eletto come indipendente nelle file del Prc, l'articolo 11 del Trattato internazionale sui diritti umani che garantisce il diritto alla casa. E forse non a caso, visto che proprio qualche mese fa una commissione dell'Onu ha visitato la capitale proprio per monitorare il problema casa. «Ci auguriamo che i giudici mettano mano anche ai quotidiani abusi d'ufficio perpetrati da proprietari che tutti i giorni affittano, senza averne apposita licenza, stanze e posti letto a canoni neri e perseguano anche quei proprietari, piccoli e grandi, che eseguono, previo sfratto anche di anziani e portatori di handicap, cambi di destinazione d'uso illegali, nel centro storico, per trasformare i propri immobili in redditizi bed and breakfast», dice ancora Pasquini. Anche Giovanni Russo Spena del Prc difende l'operato di Medici: «Mi sembra che dal punto di vista sia sociale che giuridico abbia indicato la strada per risolvere un problema, mentre l'accusa è semplicemente un atto repressivo che non risponde nemmeno all'applicazione corretta del sistema di garanzie dello stato di diritto».

La giunta capitolina appena pochi mesi fa ha approvato una delibera sull'emergenza abitativa elaborata dalle organizzazioni dei senza casa, e già quando militanti di Action erano finiti sotto inchiesta per associazione a delinquere per aver occupato edifici abbandonati di proprietà privata, ne aveva invece riconosciuto l'importante funzione sociale. Il ruolo di mediazione del sindaco era stato importante anche nella risoluzione di alcuni sgomberi che rischiavano di provocare tensioni sociali. Del resto, che il problema casa a Roma sia una questione di carattere sociale più che di ordine pubblico era stato lo stesso prefetto Achille Serra a dirlo.

Per questo Cento chiede all'Unione e a Veltroni «un atto esplicito di sostegno alla iniziativa del presidente del X Municipio». Anzi, per l'esponente dei Verdi «requisire le case abbandonate e destinate alla speculazione immobiliare è un atto di civiltà, soprattutto di fronte all'emergenza casa di Roma e delle altre grandi città».

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