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In queste ore il centrodestra ripropone, di fatto, in Finanziaria la vendita delle spiagge demaniali ai privati concedendo gli arenili pubblici più intatti a chi vi costruirà grandi alberghi. In queste ore il centrodestra va all'attacco dell'ambiente con una legge delega scandalosamente al ribasso sul piano delle salvaguardie per parchi, rifiuti, inquinamenti, valutazioni di impatto ambientale, ecc. In queste ore il centrodestra progetta un «colpo basso alla Merloni» (come ha scritto il Corriere Economia supplemento del Corriere della Sera) cancellando cioè, con decreto legislativo, le garanzie di concorrenzialità e di trasparenza negli appalti. E continuano ad essere tempi da lupi per l'urbanistica: vola sempre bassa sul cielo del Senato la minaccia della legge Lupi (Forza Italia) già passata alla Camera. Per liberalizzare? Apparentemente. In realtà per dare il governo del territorio in mano a pochi grandi detentori di aree. Il criterio di fondo è ovunque lo stesso: il patrimonio pubblico viene privatizzato, ma non per liberalizzarlo. Si tratti di ambiente, di spiagge libere, di appalti, di aree fabbricabili, il fine è quello di trasferirne il controllo a gruppi di interessi forti, a privati potenti. L'interesse pubblico viene ancora una volta abbattuto e divelto in nome di una serie di interessi privati privilegiati. Dietro queste leggi spunta, inesorabile, la logica del Berlusconi immobiliarista.

Il disegno è chiarissimo e va in un senso preciso: privilegiare e premiare non già il profitto di impresa bensì la rendita fondiaria speculativa. Il tutto a colpi di accetta o di mazza, con leggi la cui struttura e scrittura appaiono delle più rozze, delle più primordiali. Come il capitalismo del quale risultano al servizio. Prendiamo la legge Lupi per l'urbanistica. Su di essa è appena uscito un libro utilissimo, a più mani ("La controriforma urbanistica", Editore Alinea di Firenze, con contributi di Edoardo Salzano, Vezio e Luca De Lucia, Luigi Scano, Paolo Urbani ed altri, 12 euro), che consente di mettere a fuoco quel percorso di dissoluzione della pianificazione urbanistica, operata cioè in nome dell'interesse generale, sul quale si sono già messi Comuni (Milano in testa) e Regioni (la Lombardia, ma la stessa Regione Lazio con un disegno di legge molto discusso).

Con la legge Lupi, viene interrotto "il plurisecolare tentativo dell'autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare" (Salzano), in nome della più schietta cultura liberale tesa a trasferire le risorse da impieghi improduttivi (la rendita) a impieghi produttivi (il profitto). Interviene dunque un cambiamento epocale: i piani regolatori non sono più atti "autoritativi" del potere pubblico elettivo, bensì "atti negoziali". Con chi? Coi cittadini, si risponde ipocritamente. In realtà, con quanti posseggono aree e/o diritti edificabili. Ecco un altro punto essenziale (e micidiale): se un costruttore ha avuto una concessione edilizia pubblica su propri terreni, acquisisce, a vita, un "diritto edificatorio" che può liberamente commercializzare, scambiare (Luca De Lucia). Come se fosse un bene giuridico a se stante, separato dalla proprietà dell'area per cui era stato concesso. Meccanismo infernale perché, prima o poi, tutti i diritti edificatorii acquisiti dovranno essere soddisfatti, indipendentemente dall'interesse pubblico, dalla sostenibilità ambientale, dai valori paesaggistici, ecc. Quale sarà, allora, il potere dell'Ente pubblico (Regione, Provincia, Comune) nei confronti dei proprietari di aree urbanizzabili e di diritti edificatorii? Nient'altro che quello di negoziare, rinunciando così a pianificare in base a criteri di interesse collettivo.

Secondo il rito ambrosiano (che qui diventa legge dello Stato), spiega Vezio De Lucia, "progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il PRG che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate". Conseguenze? Si cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio; si incentiva il consumo di suoli; si azzerano gli standard urbanistici nazionali; si elimina la tutela dei beni culturali, ambientali e paesistici dai PRG locali. Uno Tsunami.

Un ultimo dato fra i tanti: il consumo di suolo non urbanizzato. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, con strumenti diversi, si adottano leggi per "risparmiare" sul consumo di suolo, agricolo o comunque non urbanizzato. In quei Paesi "lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene comune" (Antonio di Gennaro), utile alla produzione agricola, al riciclo di risorse e alla ricostituzione di aria, acqua, terra, ecc., al mantenimento degli ecosistemi, delle biodiversità, del paesaggio. Da noi, no. Eppure, in poco più di mezzo secolo, ci siamo "mangiati", ricoprendolo di cemento e asfalto, quasi il 40 per cento della superficie non urbanizzata del 1951. Ad un ritmo, come minimo, doppio di quello tedesco il quale sta sui 47.000 ettari l'anno. Noi superiamo i 100.000 e talora i 200.000 ettari. Un impazzimento collettivo.

Ma, mentre l'Europa più avanzata, ne discute e vara misure di "risparmio" del suolo, di riciclo delle aree già urbanizzate, ecc. noi, il Bel Paese dove il paesaggio è ricchezza anche turistica, non ci pensiamo per niente. Anzi, con la legge Lupi, il centrodestra propone di potenziare la logica di quella devastante "abbuffata" territoriale che già ora ha cancellato i confini fra città e città, facendo sparire la campagna. Fermare, battere la società Asfalto&Cemento si può, si deve. Prima che sia davvero troppo tardi.

Titolo originale: Livingstone turns screw on Stratford landowners – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il sindaco di Londra Ken Livingstone ieri ha avvertito gli interessati ai terreni destinati ai Giochi Olimpici che non verrà consentito in nessun modo di ritardare i preparativi per il 2012, e ha difeso la sua decisione di utilizzare un’ordinanza di esproprio per acquisire le proprietà necessarie al Villaggio Olimpico. Parte delle superfici in seguito saranno destinate al grande progetto di Stratford City, insediamento di residenze, negozi, alberghi e uffici che costituirà praticamente una nuova città nella fascia orientale di Londra.

Gli interessati si sono dichiarati “colpiti, stupiti, e profondamente perplessi” dal fatto che la London Development Agency del sindaco abbia acquisito i terreni usando i poteri di esproprio. Sostengono che l’agenzia abbia incamerato più del necessario, cedendo a una “frenesia di controllo”.

Ma alla sua conferenza stampa settimanale Livingstone ha detto che l’ordinanza era necessaria perché le contrattazioni si stavano muovendo troppo lentamente. “Abbiamo avvertito i proprietari che il termine ultimo era la settimana scorsa e che non ci saremmo spostati da lì. Saremmo stati lieti di concordare prima ma non potevamo evitare il CPO [ compulsory purchase order] se ci si metteva troppo”.

”In questi casi, quando diciamo che c’è una scadenza che non possiamo rinviare, la gente deve accettare il fatto che stiamo parlando seriamente, e la data non sarà cambiata. Non vogliamo mettere a rischio la preparazione dei Giochi Olimpici in tempo ed entro il budget fissato per non seguire la tabella di marcia”.

Ha poi proseguito sul tema dei tempi da rispettare. “Se non avessimo emesso il CPO saremmo stati dipendenti dalla cooperazione [dei proprietari] sulle consegne per tempo. Sarebbe stato il più grosso ricatto nella storia delle costruzioni e avremmo dovuto pagare decine di migliaia per avere l’area”.

”Non possiamo metterci in una posizione in cui possiamo essere minacciati. Non daremo ad alcun operatore privato il diritto si modificare i tempi”.

Livingstone ha affermato che le contrattazioni possono continuare per la modifica dei termini del CPO. Che il progetto di Stratford City non sarà messo in pericolo e che le proteste erano solo “una posa”. Una fonte degli interessati ha dichiarato: “Questa è semplice frenesia di controllo da parte della LDA, e tra l’altro rischiano di farsi nemiche le grosse e prestigiose imprese internazionali di cui avranno bisogno per le realizzazioni olimpiche. Se si comportano così, chi vorrà più far affari con loro?”

Un portavoce della London & Continental Railways, proprietaria di alcuni terreni destinati alle Olimpiadi, ha dichiarato che in negoziati continuano. Ha aggiunto: “Alla luce degli attuali rapporti siamo sorpresi dal linguaggio emotivo utilizzato dal sindaco”.

Anche se la LDA sostiene di essere lieta di raggiungere accordi con le imprese ed enti interessati, la questione è controversa. La prossima settimana l’agenzia terrà una riunione fondamentale con le imprese interessate che possiedono i terreni necessari allo Stadio Olimpico, a Marshgate Lane, Stratford.

Gli interessati sostengono che la LDA ha cercato di ottenere le superfici a prezzi stracciati, affermazione fortemente negata. Livingstone ieri ha ripetuto la sua contestata tesi secondo cui in alcuni casi le negoziazioni con la LDA erano finite in un vicolo cieco per sinistri motivi. “Alcune imprese hanno perseguito una vasta campagna politica tentando di convincere il Comitato Olimpico Internazionale ad assegnare i giochi a un’altra città” ha detto.

Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

Titolo originale: In China, a golf community on a supergrand scale – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Shenzen – La grandeur ha sempre fatto parte della sensibilità cinese, e il complesso da golf del Mission Hill Golf Club and Resort sembra coerente con il fatto che le dimensioni contano.

Dal maggio 2004 il Guinness dei Primati ha ufficialmente inserito questo intervento, a sola mezz’ora d’automobile da Hong Kong, come il più grande complesso del mondo.

Ma anche colle sue 180 buche sparse per oltre 7.700 ettari, i costruttori ricordano che Mission Hills non è stata creata solo per battere dei primati. È pensata piuttosto per rendere più facili gli affari: una specie di ufficio all’aria aperta circondato da residenze che sono tra le più care del paese.

”Non abbiamo costruito questo complesso di dieci campi per soddisfare il nostro ego” dice Ken Chu, vicepresidente del Mission Hills Group e figlio di David Chu, il presidente dell’impresa. “È puramente una struttura di sostegno allo sviluppo economico della regione, di Shenzhen e Guangdong”.

La provincia di Guangdong è uno dei poli principali per l’esportazione in Cina sin da quando l’area è stata aperta all’investimento estero nel 1978 nel quadro delle riforme economiche di Deng Xiaoping. Concentra circa un terzo del volume d’affari con l’estero del paese.

Ma per anni ci sono state poche occasioni di intrattenimento per gli uomini d’affari, e così secondo Chu il complesso di Mission Hills è stato pensato come spazio entro ciu potessero abitare e socializzare. “Non è solo golf, o proprietà immobiliare, si tratta di costruire una città” sostiene Chu.

Se si parla di grandeur, il golf è solo uno degli elementi per misurare dimensioni e ambizioni del complesso. Mission Hills vanta parecchie cose “ top in Asia”: il maggior numero di campi da tennis, 51; il percorso da golf più difficile, disegnato da Greg Norman; la più grossa sede di club, e qullo che sarà il più grande complesso palestra una volta finito l’anno prossimo.

Le residenze, sino a 864 metri quadrati, si vendono a circa 2.500 dollari il metro: care per la Cina, ma appena un decimo delle case di lusso a Hong Kong.

Mission Hills non rende noti i dati di vendita, anche se sono state cedute più di mille proprietà e sono in corso di completamento 80 case di lusso nel primo lotto di residenze. Tutti gli alloggi sono stati acquistati prima dell’inizio delle costruzioni. Si prevedono altre tre fasi di realizzazione nei prossimi tre anni.

È comunque il golf che ha consentito a Mission Hills di conquistarsi una visibilità su scala mondiale in un tempo tanto breve. I campi sono disegnati da alcuni dei principali nomi del golf, come Jack Nicklaus, Vijay Singh, Ernie Els, Annika Sorenstam, e Norman.

E ci sono voluti solo dieci anni per realizzare tutti i dieci campi, con gli ultimi cinque completati contemporaneamente in due anni. Una crescita tanto rapida rispecchia l’incredibile velocità del progresso economico cinese, e le crescenti domande della fiorente middle-class locale.

”L’unico rivale possibile è il Pinehurst” dice Colin Hegarty, presidente e fondatore del Golf Research Group, con riferimento al complesso su otto campi del North Carolina. Ma aggiunge, “Là si costruisce un campo più o meno in quindici anni. Cinque campi in due anni è una cosa davvero insolita”.

”Nei prossimi dieci anni la gente rimarrà stupefatta dalla quantità di campi realizzati in Cina” conclude.

Il numero al momento non è noto, dato che non ci sono organizzazioni che ne tengano il conto. Ma Han Liebao, professore alla Forestry University di Pechino, sta conducendo un’indagine per conto del governo. Ritiene che ci siano 306 campi, compresi quelli in corso di costruzione. Di questi, solo due sono aperti al pubblico, ed entrambi si trovano a Shenzhen.

L’idea del campo da golf unito ai complessi residenziali è nuova, qui, e alcuni costruttori preparano terreni con le ruspe per sola “immagine”. Ma l’anno scorso, Pechino ha congelato le realizzazioni.

”La preoccupazione è che il paese continui a perdere terreni agricoli per realizzare campi da golf, il che minaccia la produzione alimentare” dice Han.

Secondo lo studio, che sarà pubblicato in novembre, solo l’8,57% dei terreni ora utilizzati per il golf sono arabili. “Il governo non capisce che raramente i campi da golf sottraggono terra agricola” dice. “La maggior parte sono costruiti su rive di fiume, zone inutilizzate, pietrose, o sabbiose”.

Altra preoccupazione del governo è l’uso di pesticidi per i campi, che secondo alcuni funzionari minaccia le scorte idriche.

Mission Hills sembra aver rispettato la proprie promesse in termini ambientali. Sono stati sradicati centinaia di alberi durante la costruzione su questi terreni un tempo inutilizzati, ma poi sono stati ripiantati lungo i margini dei percorsi. Nelle fasi iniziali è stato sviluppato un massiccio programma di fertilizzazione dei suoli per sostenere il prato, ma ora è il personale di 2.400 caddies a strappare le erbacce, per evitare l’uso di pesticidi.

Quando i Chu hanno iniziato il progetto di Mission Hills, sono stati ingaggiati statunitensi e italiani, per dare alle abitazioni un ambiente occidentale. Le case hanno interni spaziosi, con corridoi aerati e soffitti alti sette metri e mezzo; gli esterni hanno un aspetto europeo, con tetti a tegole.

Le abitazioni sono fornite senza arredi, e attico e seminterrato non sono compresi nel prezzo per unità di superficie.

”Per la gente che vive qui, si tratta di Oriente che incontra l’Occidente” dice Carol Chu, direttore esecutivo di Mission Hills e figlia del fondatore. “Molti hanno scelto di vivere in Cina, ma hanno abitato in tanti posti in tutto il mondo. Così, vogliono vivere in qualcosa che appare loro familiare”.

Degli abitanti di Mission Hills, più della metà proviene da Hong Kong, e poi da Taiwan o altre zone dell’Asia. Ci sono industriali, imprenditori, politici, tutti attratti dalle caratteristiche e dal prestigio del complesso.

Nel corso di una recente promozione, per esempio, gli acquirenti sono stati invitati a un concerto di Roberta Flack e omaggiati con anelli di diamanti da 2 carati.

Mission Hills ha anche copiato l’uso occidentale di collocare le case vicino ai campi. Gli appartamenti cinesi di norma sono realizzati in grossi complessi, e anche le case singole spesso hanno vedute limitate. Ma a Mission Hills, ogni abitazione ha una vista, almeno parziale, sul percorso da golf.

”In tutto il mondo le visuali più costose sono sul verde e sul blu; il blu vuol dire mare, corsi d’acqua, oceano, e il verde sta per giardini, montagne, o campi da golf” dice Ken Chu. E qui sta la principale differenza. Abbiamo sistemato me case in modo strategico per aumentare al massimo la visuale”.

Se Mission Hills imita l’Occidente, le sue dimensioni superano di parecchio quelle dei complessi simili di successo. Uno studio su 1.200 complessi degli USA condotto dal Golf Research Group di Hegarty, mostra che sono quelli sui campi più piccoli a dare maggiori profitti.

”Le persone accorte costruiscono con un occhio al bilancio. L’idea è di mantenere le dimensioni contenute in modo da cogliere l’aumento di valore degli immobili, senza avere un grosso carico che può affondare l’investimento” dice Hegarty.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune (f.b.)

"Il partito di Falcone e dei ragazzini" non aveva un comitato centrale o uno stemma, ma in realtà era l'unico partito esistente in Sicilia, oltre alla mafia. Il rumore di fondo, in quegli anni, era costituito dalle dichiarazioni dei sindaci che escludevano l'esistenza della mafia nella loro città, dai giornali ad azionariato mafioso che invocavano silenzio, dalla brava gente che lavorava chiassosamente all'autodistruzione della sinistra, e dai colpi di pistola. Furono i ragazzini di Palermo a scendere in campo per primi. Il liceo Meli, l'Einstein, il Galilei, poi via via tutti gli altri. Si passava sotto il Palazzo di Giustizia e il corteo, che fino a quel momento aveva gridato a voce altissima i Nomi, faceva improvvisamente silenzio. Là dentro lavoravano i nostri magistrati. Falcone, Borsellino, Di Lello, Ayala, Agata Consoli, Conte: metà del Partito erano loro. L'altra metà, i liceali. A Catania, fra il 1984 e il 1986, furono almeno trecento i ragazzi che in una maniera o nell'altra parteciparono, da militanti, alle iniziative dei Siciliani Giovani: furono i primi a gridare in piazza i nomi dei Cavalieri e a lavorare quotidianamente - il volantino, il centro sociale, l'assemblea - per strappargli dagli artigli la città. A Gela, a Niscemi, a Castellammare del Golfo, nei paesini dove i padroni hanno la dittatura militare, essi vennero fuori e lottarono, paese per paese e città per città. "La Sicilia non è mafiosa – affermavano orgogliosamente - La Sicilia è militarmente occupata dalla mafia". La Sicilia, dove ancora nel 1969 un ragazzo fu fatto uccidere dal padre - boss mafioso - perché era iscritto alla Fgci. La Sicilia che ha combattuto, che non s'è arresa mai.

Ha combattuto, ed ha fatto politica, ha ragionato. La politica come partecipazione, come trasversalità, come società civile nasce nelle lotte palermitane e catanesi di quegli anni: oggi è common sense dappertutto. La fine del vecchio ceto politico, di tutta la vecchia storia, fu intuita per la prima volta qui. Non è un caso se il movimento studentesco, due anni fa, è ripartito da Palermo, e se là dura tuttora. Non è un caso se Palermo è l'unica città d'Italia dove sia cresciuta un'opposizione di massa, dove l'opposizione sia vincente. Non è un caso se a Catania il più totale black-out di tv e stampa non riesca - due volte in due anni - a fermare i candidati dell'opposizione. Non è un caso se a Capo d'Orlando i commercianti si ribellano, non è un caso se a Gela gli studenti restano organizzati; e non è un caso se a Palermo la gente non reagisce invocando la pena di morte ma individuando lucidamente le responsabilità dei politici di governo e prendendosela con loro. Dal 1983 - e sono ormai nove anni - in Sicilia è in atto, con alti e bassi ma con una sostanziale continuità; non ancora maggioritario ma già ben lontano dal minoritarismo. - un vero e proprio movimento di liberazione. Contro la mafia, ma anche contro tutto ciò che essa porta con sé.

Questo movimento avrebbe potuto essere esattamente l'anello che mancava alla sinistra italiana, il punto di partenza per ricostruire tutto. Invece, è rimasto solo. Solo a livello di palazzi, di comitati centrali, di radical-chic, di giornali: non a livello di ragazzini. Domani, ad esempio - ma non è una novità, perché avviene regolarmente ogni settimana - c'è assemblea dei liceali dell'Antimafia a Roma. Sono i soli, in Italia, a non avere paura dello sfascio. Perché sanno che c'è una classe dirigente pronta a prendere la responsabilità del Paese anche domattina, se fosse necessario - e non è detto che non lo sia. Orlando, Claudio Fava, Carmine Mancuso, Dalla Chiesa? Sì: ma anche - e soprattutto - Davide Camarrone del liceo Meli, Antonio Cimino di Corso Calatafimi, Fabio Passiglia, Nuccio Fazio, Vito Mercadante, Angela Lo Canto, Carmelo Ferrarotto di Siciliani Giovani, Nando Calaciura, Tano Abela, il professor D'Urso: avete mai letto questi nomi sui giornali? Benissimo. Infatti, neanche i nomi dei primi socialisti uscivano sui giornali, cent'anni fa.

Una metà del "partito" oggi non c'è più. Martelli, il giudice Carnevale, Pannella e Cossiga sono riusciti, ognuno con i suoi mezzi, a svuotare il Palazzo dai nostri magistrati e lo stesso Falcone, ben prima d'essere ucciso, era già stato messo in condizione di non essere più quello di prima. Dei "vecchi", solo Borsellino e Conte sono rimasti al loro posto. Ma nel frattempo sono cresciuti i Felice Lima, i Di Pietro, i Casson.

Care amiche e cari amici, qui di seguito, sottopongo alla vostra attenzione una mia riflessione sul tema delle periferie che tanto sta facendo discutere.

Tutt’altro che una novità, le mie parole sulle periferie e il loro malessere sono l’espressione di una mia preoccupazione antica: ne ho sempre parlato nei miei interventi in giro per l’Italia ed era un tema affrontato già nel 1995 in una delle 88 tesi per il Programma dell’Ulivo, la numero 65 intitolata “Ricostruire la città costruita: una politica per la città”. Ne cito alcuni passaggi: “occorre cambiare completamente direzione - vi si legge -…riqualificare l’esistente…valorizzare le periferie…ricostruire la città costruita , come nell’esperienza di alcune amministrazioni locali, in modo da riqualificare la città, promuovendo luoghi e spazi per la comunità. Di importanza dominante è affrontare il problema drammatico delle periferie (dove si concentra il maggior malessere di vita del nostro paese) con interventi sui servizi, le infrastrutture, il verde pubblico e privato, con la manutenzione delle zone comuni”.

In quelle poche righe, frutto del lavoro di tanti, è già indicata sinteticamente una direzione per affrontare un problema che si è progressivamente aggravato nel tempo ed è il frutto di una somma di elementi. Da quelli che hanno a che fare con la pianificazione territoriale e con un’edilizia non pensata per la comunità e per le persone che ci devono vivere e non solo dormire, a quelli della disoccupazione e della scarsità di servizi, da quelli della povertà e dell’esclusione sociale fino a quelli (più recenti per il nostro Paese) legati ai flussi di immigrazione.

So benissimo che non siamo Parigi. Ma penso che occorra cogliere per tempo, anche da noi, i segnali di disagio piccoli o grandi che siano. E i segnali ai quali mi riferisco - lo hanno detto in questi giorni diversi esperti di scienze sociali- non riguardano soltanto le situazioni più drammatiche di alcuni quartieri di alcune città soprattutto del nostro mezzogiorno (e non solo) ma anche la vita quotidiana di città ricche. Sono segnali, per esempio, le famiglie che iscrivono i figli nelle scuole di quartieri diversi da quelli in cui vivono, le persone che evitano, più o meno giustificatamente, di attraversare certe zone cittadine, caseggiati o quartieri che vengono progressivamente abitati (dati in affitto o venduti da cittadini italiani) soltanto da persone straniere. Tutti fenomeni che segnalano una comunità che si sta frantumando e nella quale gli anziani vivono in solitudine, i bambini crescono senza spazi per loro, e dove rimangono a vivere le famiglie con più problemi.

La “geografia della città”, cioè la trasformazione urbana, richiede “una regia”. Non nego che molte amministrazioni abbiano già cominciato da tempo ad affrontare il problema con anche qualche buon risultato. Ma gli equilibri raggiunti sono delicatissimi e sempre da tenere sotto osservazione. Su di essi infatti si scaricano sempre le nuove emergenze. Si può dotare un quartiere di servizi e far funzionare un centro di aggregazione sociale, illuminare le strade e rinnovare l’arredo urbano, e tanto altro. In questo modo si riesce a ridar vita a quel quartiere. Ma se, in modo non programmato (e oggi le occasioni sono moltissime), ti arrivano improvvisi insediamenti di nuclei familiari con tanti problemi, devi ricominciare da capo. Programmare una città vuol dire arrivare a capire prima (e, quindi, prevenire) ed evitare che i problemi si concentrino in una sola area. Altrimenti fai i quartieri “ghetto”.

Ecco perché condivido l’opinione secondo cui le città devono tornare al centro dell’agenda politica italiana. Sempre più spesso la città entra nel dibattito politico per le pur giustificate preoccupazioni sulla sicurezza e non come il luogo in cui crescono le persone, i nostri figli, dove dobbiamo vivere noi stessi, i nostri anziani e i nuovi cittadini. Un luogo che richiede anche innovazione amministrativa, tecnologica, sociale, ed economica.

Qualche giorno fa, su “La Stampa”, la sociologa Chiara Saraceno ha efficacemente sottolineato le diversità e le somiglianze tra la situazione francese (dove i problemi sono vissuti in particolare dalla terza generazione di immigrati) e quella del nostro Paese (dove invece il disagio riguarda tanto ancora gli italiani). E proprio sui quartieri in disagio si rovesciano quasi inevitabilmente i problemi degli immigrati. Finiamo così con il chiedere ai più deboli di farsi carico anche della convivenza con altre culture.

La politica deve dunque occuparsi primariamente delle origini del disagio che sono ancora una volta il lavoro precario o mancante, la casa che non c’è, la scarsità di servizi, una scuola che promette troppo poco.

Occorre inoltre una grande attenzione quotidiana allo spazio intorno a noi, una vera e propria “politica della manutenzione”, perché è importante vivere in luoghi “curati”. Io sono nato in una città, Reggio Emilia, in cui si è sempre teorizzato che una scuola bella è un ulteriore maestro: “l’ambiente è un insegnante in più. In ambienti migliori si apprende meglio”. Lo diceva il pedagogista che ha progettato la “celebre” rete delle scuole materne reggiane. Ed è per questo che mi dispiace che le periferie siano spesso così esteticamente brutte.

Per tutte queste ragioni, ci vuole sinergia tra politiche economiche e del lavoro, politiche dell’immigrazione, politiche sociali soprattutto finalizzate all’inclusione, politiche urbanistiche ed abitative, affinché sappiano creare case e quartieri vivi e non ghettizzanti, con verde e spazi comuni, in cui la gente possa vivere meglio. Bisogna tornare ad impegnarsi nell’edilizia sociale (siamo rimasti molto indietro rispetto agli altri Paesi europei).

E, dunque, nessun equivoco. A queste cose pensavo quando, intervenendo qualche giorno fa ad un gruppo di studio sul welfare alla Fabbrica, ho lanciato l’allarme sulle nostre periferie. Oggi prendo atto che la mia preoccupazione è condivisa da più parti, a cominciare dal ministro dell’Interno le cui parole non sono interpretate da nessuno come l’invito a provocare rivolte incendiarie in giro per l’Italia. Me ne rallegro: segno che qualche spazio di confronto, benchè faticosamente strappato a strumentali polemiche di parte, ancora sussiste.

Lo ribadisco: Parigi non è qui ma, se non agiamo per tempo, potrebbe non essere così lontana. L’ho detto anche in relazione al fatto che questa Finanziaria che interviene in un momento di grande crisi del Paese in cui si allarga sempre di più la forbice tra ricchi e poveri, taglia risorse proprio a quelle amministrazioni locali che dovrebbero aiutare le periferie più disagiate.

Io voglio luoghi in cui tutti noi possiamo vivere meglio

La tempesta che ha distrutto New Orleans si è materializzata dai mari tropicali a 125 miglia a largo delle Bahamas. Inizialmente classificata come «depressione tropicale 12» il 23 agosto, rapidamente si è intensificata diventando «tempesta tropicale Katrina»: l'undicesimo uragano cui sia stato assegnato un nome in una delle stagioni più ricche di uragani della storia. Attraversando la Florida e raggiungendo il Golfo del Messico, dove ha vagato per quattro giorni, Katrina ha subito una trasformazione mostruosa e in gran parte inattesa. Distraendo grandi quantitativi di energia dalle acque del Golfo, calde in modo abnorme (tre gradi centigradi sopra la temperatura media di agosto), Katrina è cresciuta improvvisamente diventando uno spaventoso uragano di classe 5, con venti a 290 km/h che alimentavano onde degne di uno tsunami, alte quasi dieci metri. (Come ha poi spiegato Nature, Katrina ha assorbito dal Golfo talmente tanto calore, che «dopo il suo passaggio la temperatura dell'acqua è scesa fortemente, scendendo in alcune regioni da 30 a 26 gradi centigradi»).

La mattina di lunedì 29 agosto, quando ha raggiunto la terraferma presso la foce del fiume Mississippi a Plaquemines Parish, Louisiana, Katrina era scesa alla categoria 4 (venti a 210-249 km/h): una ben magra consolazione per gli impianti petroliferi, i bacini ittici e i villaggi cajun che si trovavano sul suo cammino. A Plaquemines, e poi ancora sulla Gulf Coast in Mississippi e Alabama, Katrina ha sconvolto i bayou (zone paludose, ndt) con rabbia irrefrenabile, lasciandosi alle spalle un paesaggio così devastato che pareva una Hiroshima immersa nell'acqua.

Un calvario annunciato

La morte di New Orleans, naturalmente, era stata predetta. Anzi, nessun disastro della storia americana era stato previsto in anticipo così accuratamente.

Il segretario alla sicurezza interna Michael Chertoff ha poi dichiarato che «le dimensioni dell'uragano superavano qualunque cosa il suo Dipartimento potesse prevedere» ma questo, semplicemente, non è vero. Anche se sono stati sorpresi dall'improvvisa trasformazione di Katrina in un uragano gigantesco, gli scienziati avevano la cupa certezza di ciò che New Orleans poteva aspettarsi dall'arrivo di un grande uragano. «La cosa triste - ha detto un ricercatore dopo il passaggio di Katrina - è che l'avevamo previsto al 100%».

Sin dalla brutta esperienza dell'uragano Betsy, una tempesta di categoria 2 che nel settembre 1965 inondò molte zone orientali di Orleans Parish, ora nuovamente sommerse da Katrina, la vulnerabilità di New Orleans alle onde create dagli uragani è stata ampiamente studiata e pubblicizzata. Nel 1998, dopo un incontro ravvicinato con l'uragano Georges, la ricerca si è intensificata. Un sofisticato studio computerizzato della Louisiana State University metteva in guardia sulla «virtuale distruzione» della città da parte di un uragano di categoria 4 che si fosse avvicinato da sud-ovest. Gli argini e le barriere di New Orleans sono progettati per resistere solo a un uragano di categoria 3, ma anche questa soglia di protezione si è rivelata illusoria nelle simulazioni al computer fatte lo scorso anno dal genio militare ( Army Corps of Engineers).

La continua erosione delle isole della Louisiana meridionale, che costituiscono una barriera, e le paludi dei bayou, (una perdita annuale di fascia costiera stimata in 60-100 chilometri quadrati) fa aumentare l'altezza delle onde che spazzano New Orleans mentre la città stessa, insieme ai suoi argini, sta lentamente affondando. Il risultato è che anche un uragano di categoria tre, pur muovendosi lentamente, oggi inonderebbe gran parte della città.

L'amministrazione Bush ha reagito a queste previsioni respingendo le pressanti richieste di maggiore protezione dalle inondazioni: il fondamentale progetto Coast 2005 per recuperare zone paludose di protezione - il risultato di un decennio di ricerche e trattative - è stato accantonato e gli stanziamenti per gli argini, compreso il completamento dei baluardi intorno al Lago Pontchartrain, sono stati ripetutamente tagliati. In parte, questa scelta è stata una conseguenza delle nuove priorità di Washington che hanno compresso il budget del genio militare: un grosso taglio alle tasse per i ricchi, il finanziamento della guerra in Iraq e, ironicamente, i costi di Homeland Security, il Dipartimento per la sicurezza interna. Eppure, senza alcun dubbio, vi è anche un motivo sfacciatamente politico: New Orleans è una città solidamente democratica, è abitata in maggioranza da neri e i suoi elettori frequentemente decidono l'esito delle elezioni statali. Perché un'amministrazione così implacabilmente «di parte» dovrebbe ricompensare questa spina nel fianco autorizzando i 2,5 miliardi di dollari che, secondo le stime del genio militare, sarebbero necessari per costruire intorno a New Orleans un baluardo di protezione da un uragano di categoria 5?

I vandali della protezione civile

Oltre ad avere finanziato in modo insufficiente il ripristino della fascia costiera e l'edificazione degli argini, la Casa Bianca ha anche vandalizzato la Fema in modo irresponsabile. Sotto la direzione di James Lee Witt (che aveva il rango di membro del governo) la Fema era stata il fiore all'occhiello dell'amministrazione Clinton, guadagnandosi elogi bipartisan per l'efficienza dei suoi interventi di ricerca e soccorso, e per il pronto invio di aiuti federali dopo le inondazioni del fiume Mississippi nel 1993 e il terremoto di Los Angeles nel 1994. Quando però nel 2001 sono subentrati i repubblicani, l'agenzia è stata trattata alla stregua di un territorio nemico: il nuovo direttore Joe M. Allbaugh, ex manager della campagna di Bush, ha bollato l'assistenza nei disastri come un «programma assistenziale sovradimensionato» e ha chiesto agli americani di fare maggiore affidamento sull'Esercito della salvezza ed altri gruppi religiosi. Allbaugh ha puntualmente tagliato molti dei programmi principali che dovevano mitigare l'effetto delle inondazioni e degli uragani. Poi, nel 2003, si è dimesso per diventare un consulente pagato a peso d'oro dalle imprese che aspiravano ad avere contratti in Iraq. (Com'è nel suo stile, recentemente è riapparso in Louisiana come mediatore d'affari per le imprese che mirano ad aggiudicarsi i remunerativi appalti per la ricostruzione dopo il passaggio di Katrina.).

Così c'era ogni ragione di preoccupazione, se non di panico, quando domenica 28 agosto Max Mayfield, il direttore del National Hurricane Center di Miami, ha avvertito in video-conferenza il presidente Bush (ancora in vacanza in Texas) e i funzionari di Homeland Security che Katrina avrebbe devastato New Orleans. Eppure il direttore Brown, di fronte alla possibile morte di 100.000 persone, appariva tracotante: «siamo pronti. Ci siamo preparati a questo tipo di disastro per molti anni perché abbiamo sempre saputo di New Orleans...».

Ma mentre le acque inghiottivano New Orleans e i suoi sobborghi, era difficile trovare qualcuno che rispondesse al telefono o che assumesse il comando delle operazioni di soccorso. «Un sindaco del mio distretto - ha detto al Wall Street Journal un furibondo deputato repubblicano - ha cercato di ottenere soccorsi per i suoi concittadini, che erano stati colpiti direttamente dall'uragano. Ha telefonato per chiedere aiuto, l'hanno lasciato in attesa per 45 minuti. Alla fine, un burocrate gli ha promesso che avrebbe scritto un promemoria per il suo superiore».

Un sindaco fuori uso

Anche il municipio di New Orleans avrebbe avuto bisogno dei soccorsi: l'unità di crisi al nono piano è stata fuori uso fin dalle prime fasi dell'emergenza perché non c'era il carburante diesel per il generatore autonomo.

Per due giorni, il sindaco Nagin e i suoi collaboratori sono stati completamente tagliati fuori dal mondo esterno per il mancato funzionamento delle linee telefoniche terrestri e dei telefoni cellulari. Questo crollo dell'apparato di comando e controllo della città è sconcertante in considerazione dei 18 milioni di dollari in sovvenzioni federali che la città ha speso a partire dal 2002 in addestramento per affrontare esattamente contingenze di questo tipo. Ancor più misteriosa è stata la relazione tra Nagin e i suoi interlocutori statali e federali. Come il sindaco ha detto sinteticamente in seguito, il piano di emergenza cittadino era «far andare la popolazione in zone più elevate e farle inviare i soccorsi in elicottero dai federali e dallo stato», eppure il responsabile della sicurezza interna di Nagin, il colonnello Terry Ebbert, ha stupito i giornalisti ammettendo che non aveva «mai parlato con la Fema del piano di emergenza statale». In seguito Nagir ha cercato di giustificarsi dicendo che la Fema non aveva distribuito preventivamente aiuti.

Com'è inevitabile, molti di coloro che sono stati abbandonati ad annegare nei loro quartieri interpreteranno la negligente incoscienza del municipio nel contesto delle aspre divisioni economiche e razziali che da lungo tempo fanno di New Orleans la città più tragica degli Stati uniti. Non è un segreto che le élite affaristiche di New Orleans e i loro alleati nel Municipio vorrebbero sospingere fuori della città i segmenti più poveri della popolazione, accusati dell'alto tasso di criminalità.

Caseggiati adibiti storicamente ad alloggi popolari sono stati demoliti per fare spazio alle case di un ceto più abbiente e a un Wal-Mart. In altri insediamenti popolari, gli inquilini vengono regolarmente sfrattati per atti illeciti futili come la violazione del coprifuoco da parte dei loro figli. L'obiettivo finale sembra quello di trasformare New Orleans in un parco a tema per turisti - una Las Vegas sul Mississippi - nascondendo la povertà cronica nei bayou, nelle aree per roulotte e nelle carceri fuori città. .

Piccole pulizie etniche

Non sorprende che alcuni sostenitori di una New Orleans più bianca e più sicura vedano in Katrina un piano divino. «Finalmente abbiamo fatto piazza pulita delle case popolari a New Orleans» ha confidato un influente repubblicano della Louisiana ai lobbisti di Washington. «Noi non potevamo farlo, ma Dio lo ha fatto». Similmente, il sindaco Nagin si è vantato delle sue strade vuote e dei suoi quartieri distrutti. «Questa città è per la prima volta libera dalle droghe e dalla violenza, e abbiamo intenzione di mantenerla così». La parziale pulizia etnica di New Orleans sarà un fatto compiuto, senza che le amministrazioni locali e quella federale debbano fare grossi sforzi per dare una casa a prezzi abbordabili alle decine di migliaia di inquilini poveri attualmente dispersi nei rifugi per profughi in tutto il paese. Già si discute sulla possibilità di trasformare alcuni dei quartieri più poveri che sorgono in basso, come Lower Ninth Ward, in bacini di ritenzione idrica per proteggere le zone più ricche della città. Come il Wall Street Journal ha giustamente sottolineato, «questo significherebbe impedire ad alcuni degli abitanti più poveri di New Orleans di fare ritorno nel loro quartiere».

L'amministrazione Bush nel frattempo spera di trovare la propria resurrezione in una combinazione di rampante keynesismo fiscale e ingegneria sociale fondamentalista. Naturalmente, l'effetto immediato di Katrina sul Potomac è stato un calo talmente brusco della popolarità del presidente - e, parallelamente, dell'occupazione Usa in Iraq - che la stessa egemonia Repubblicana è improvvisamente apparsa in pericolo. Per la prima volta dagli scontri di Los Angeles del 1992, le questioni poste dai «vecchi Democratici» come la povertà, l'ingiustizia razziale e gli investimenti pubblici si sono momentaneamente imposte al dibattito pubblico, e il Wall Street Journal ha avvisato i repubblicani che devono «tornare all'offensiva politica e intellettuale» prima che qualche liberal alla Ted Kennedy possa riproporre un rimedio stile New Deal, come ad esempio una grossa agenzia federale per il controllo delle inondazioni o il ripristino della fascia costiera lungo la Gulf Coast.

Su questa linea, la Heritage Foundation ha ospitato riunioni protrattesi fino a tarda sera in cui ideologi conservatori, quadri del Congresso e fantasmi del passato Repubblicano (come Edwin Meese, ex segretario alla giustizia di Nixon) hanno presentato una strategia per salvare Bush dalle conseguenze nefaste del calo di popolarità della Fema. Jackson Square a New Orleans, illuminata a giorno ma vuota, è diventata il fondale spettrale del discorso che il presidente ha tenuto il 15 dicembre sulla ricostruzione dopo l'uragano. È stata una performance straordinaria.

Un laboratorio per il neoliberismo

Con aria radiosa, Bush ha promesso ai due milioni di vittime di Katrina che la Casa Bianca si accollerà gran parte delle spese per i danni, stimati in 200 miliardi di dollari: una spesa pubblica in disavanzo talmente alta che avrebbe fatto girare la testa persino a Keynes. (Il presidente sta ancora proponendo un altro grosso taglio delle tasse per i super-ricchi). Bush ha poi corteggiato la sua base politica con un elenco di riforme sociali cui i conservatori aspirano da tempo: buoni per la scuola e per la casa, l'assegnazione alle chiese di un ruolo centrale, una lotteria «per una casa in città», ampie agevolazioni fiscali alle imprese, la creazione di una Gulf Opportunity Zone, e la sospensione di fastidiose norme governative (come i minimi salariali nell'edilizia e le norme ambientali sulle trivellazioni off-shore).

Per i conoscitori della «Bush-lingua», il discorso di Jackson Square è stato un momento di squisito déjà vu: promesse simili non erano forse state fatte sulle rive dell'Eufrate? Come ha cinicamente osservato Paul Krugman, la Casa Bianca, avendo tentato di fare dell'Iraq «un laboratorio per le politiche economiche conservatrici» e non essendoci riuscita, può ora fare i suoi esperimenti sui traumatizzati abitanti di Biloxi e di Ninth Ward. Il deputato Mike Pence, un leader del potente Republican Study Group - che ha contribuito a scrivere l'agenda del presidente per la ricostruzione - ha sottolineato che i Repubblicani faranno della devastazione causata dall'uragano un'utopia capitalistica. «Vogliamo fare della Gulf Coast un magnete per la libera impresa. L'ultima cosa che vogliamo, dove un tempo c'era New Orleans, è una città federale ».

Significativamente, come ha scritto di recente il New York Times, attualmente il genio militare di New Orleans è guidato dallo stesso personaggio che in precedenza supervisionava i contratti in Iraq. Lower Ninth Ward potrebbe non esistere mai più, ma i proprietari dei bar e dei locali di strip-tease nel quartiere francese stanno già pregustando i guadagni che li attendono, quando i lavoratori della Halliburton, i mercenari della Blackwater e gli ingegneri della Bechtel lasceranno a Bourbon Street i loro stipendi federali. Come si dice nel Vieux Carré e alla Casa Bianca: laissez les bon temps roulez!



Nota: qui su Eddyburg vedi anche : Rimpicciolire New Orleans? di Jon E. Hilsenrath, oltre ai molti altri testi sulla ricostruzione della città (l.t.)

Titolo originale: How green is their tunnel? Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Mentre la torcia olimpica corre verso Torino, un’ombra si allunga sui vicini giochi olimpici invernali dell’anno prossimo.

La disputa sui progetti per un grosso tunnel che corre per 53 chilometri sotto le Alpi è sfociata due volte in violenze nell’ultima settimana. Giovedì, la polizia in assetto antisommossa ha usato i gas lacrimogeni contro i dimostranti, dopo che decine di migliaia di persone avevano approfittato della giornata di festa per manifestare contro i piani per la Val di Susa, che ospita molte delle principali strutture olimpiche.

Gli scontri hanno avuto luogo quando alcuni oppositori del progetto hanno cercato di raggiungere il cantiere già occupato dai contestatori e violentemente sgombrato dalla polizia. Circa venti persone, tra cui cinque poliziotti, sono stati trasportati via in ambulanza dopo gli incidenti, e le tensioni che ne sono risultate devono ancora placarsi.

A dire il vero, queste sono state ulteriormente alimentate dal ministro delle infrastrutture del governo di Silvio Berlusconi, Pietro Lunardi, ingegnere specializzato in gallerie e ardente sostenitore del progetto, il quale mercoledì ha dichiarato che la questione ha smesso di essere responsabilità del suo dicastero, diventando un “problema di ordine pubblico”.

Berlusconi, per parte sua, ha insistito che il progetto deve andare avanti, e che “dal punto di vista ambientale, ha tutte le the [necessarie] garanzie”.

Non è certo quello che pensa la maggior parte degli abitanti, o la maggior parte degli ambientalisti italiani. Essi sostengono che la linea ferroviaria, che collega Torino a Lione, rovinerà la bellezza della valle.

Affermano anche che la montagna contiene depositi sia di uranio che di amianto. Temono che lo scavo del tunnel porterà alla creazione in valle di luoghi di scarico dei rifiuti da cui i pericolosi sedimenti potranno diffondersi nell’aria.

Ma non si tratta solo di uno scontro diretto fra campioni del progresso e dello sviluppo da un lato, e amici dell’ambiente dall’altro. All’inizio di questa settimana la causa degli oppositori del tunnel ha ricevuto un duro colpo da una direzione inattesa.

Gérard Leras, leader dei Verdi nella regione Rhône-Alpes della Francia sud-orientale, ha rilasciato un’intervista al quotidiano italiano Il Corriere della Sera nella quale accusa i suoi colleghi italiani di aver imboccato una direzione sbagliata opponendosi a un progetto che ridurrà l’inquinamento da autocarri nelle Alpi.

Ha dichiarato al giornale: “Un conto è essere ecologisti, un altro essere localisti. Non si può dire sempre di NO”.

Leras sostiene che la zona di Maurienne sul versante francese del confine “non può più sostenere 5-6000 camion al giorno: gli stessi che attraversano e inquinano la Val Susa”.

Ma il progetto dell’alta velocità ferroviaria li toglierà dalla strada? I contestatori italiani sostengono di no. E all’inizio del mese si sono guadagnati il sostegno di un importante esperto di trasporti, Marco Ponti, che insegna al Politecnico di Milano.

Ha raccontato alla rivista L'Espresso di non riuscire a trovare una “motivazione razionale” per costruire il collegamento Torino-Lione. Ponti dice: “La capacità dell’attuale rete [ferroviaria] è già in eccesso rispetto alla domanda, e le merci che viaggiano su ferrovia non hanno bisogno di muoversi a 300km l’ora”.

Per quanto riguarda i passeggeri, continua, hanno già un collegamento ad alta velocità. Si chiama voli low-cost.

Il vertice del comitato olimpico ha dichiarato questa settimana di contare su una tregua, che impedisca alla protesta di riversarsi sui Giochi. Ma con la tensione ai livelli attuali, non c’è alcuna garanzia.

Nota: il testo originale in Inglese: le opinioni di Marco Ponti citate da Hooper, sono meglio argomentate con dati tecnici nell'articolo scritto in collaborazione con Andrea Boitani sul sito La Voce (f.b.)

La Biennale di Tirana cade negli anni dispari insieme alle biennali di Venezia, Valencia, Mosca, Praga e Istanbul; come se non bastasse, nel 2007 si troverà anche a coincidere con la dodicesima edizione della quinquennale Documenta di Kassel. Un affollamento che certo non contribuisce ad attirare nella capitale albanese l’ormai stremato establishment del circuito internazionale dell’arte, ma che in compenso impone alle manifestazioni più “periferiche” un orientamento fortemente site-specific.

La ricerca di una relazione osmotica con il territorio e la popolazione di un paese o di una determinata area geografica rappresenta di fatto uno dei modi più efficaci di arginare la serialità delle biennali: non ci si limita a passare in rassegna le nuove tendenze o le punte eccellenti della produzione artistica internazionale, ma si organizza un tipo di evento in cui gli artisti sono invitati a reagire criticamente alla situazione sociale e politica del luogo, a intervenire nel contesto ambientale e a interloquire con gli abitanti. Cinicamente, si potrebbe persino ipotizzare che la ragione del successo di questa formula sia un interesse voyeuristico nei confronti di regioni di cui si sa poco, un nuovo genere di esotismo.

L’operazione che ha dato notorietà a Tirana e alla sua biennale risale al 2003, quando gli artisti ridipinsero un numero consistente di palazzi con i colori più chiassosi, concordandoli con i residenti: si trattava di un’opera pubblica partecipata, e per di più con una chiara valenza simbolica (spazzare via la grigia impronta dell’era comunista), che non poteva mancare di suscitare l’entusiasmo generale.

La terza edizione della mostra, Sweet Taboos (10 settembre-10 novembre 2005), scaglionata in cinque episodi, continua a riflettere sul postcomunismo. Gli edifici che ospitano la mostra, la Galleria Nazionale d’Arte, di epoca comunista, e il Kompleksi ‘Vila Goldi’, un enorme centro commerciale ancora in costruzione, sono metafore fin troppo didascaliche del passaggio brusco da un sistema rigido a un vuoto di regole che non accenna a essere colmato.

Il terzo episodio, Democracies, curato dalla slovena Zdenka Badovinac, è quello più strettamente politico. Le opere raccolte mettono in questione il tabù che le economie parallele (dalla privatizzazione selvaggia al traffico di donne, agli insediamenti e mestieri informali) rappresentano per i modelli europei di democrazia. La sezione di Hou Hanrou è focalizzata sul confronto con l’arte del realismo socialista all’interno della galleria (Go Inside), mentre Bittersweet, della svedese Joa Ljungberg, esplora le relazioni tra sesso e potere. I due direttori della biennale, Edi Muka e Gëzim Qëndro, hanno curato Temptations, sul potere come tabù, che mostra in primo piano, tra le infinite interpretazioni del tema, un quadro del 1974 raffigurante il Congresso degli 81 partiti comunisti di Mosca, una sorta di palinsesto della censura: la fitta trama delle cancellature, delle distorsioni e delle segregazioni che ha subito racconta la storia dell’isolamento politico dell’Albania.

Dalle fotografie perturbanti di Annee Oloffson, autoritratti deformati dall’intrusione delle mani del padre o della madre, alle installazioni di Platforma 9.81 o di Rubin Mandija che denunciano l’appropriazione dello spazio pubblico, sono molte le opere interessanti.

Tuttavia l’eccezionalità di questa biennale, l’elemento che la rende un’esperienza del tutto atipica, non è il frutto di una scelta deliberata dei curatori. È, al contrario, un fenomeno di resistenza da parte della città, un’opposizione sorda che impedisce allo spettacolo di realizzarsi. I colori dei palazzi, orgoglio dell’amministrazione del sindaco-artista Edi Rama, sbiadiscono inesorabili, il proiettore del cinema Agimi si inceppa, i lavori stradali rendono impraticabile il viale d’accesso alla Galleria Nazionale il giorno del vernissage, la performance di Regina Galindo – che si fa appendere nuda, in attesa di mestruazioni chimicamente indotte, nel garage del kompleksi Goldi, davanti a operai che sbalorditi continuano a lavorare – fallisce, mentre un guardiano si apposta in una saletta video qualche metro più in là, nella sezione Bittersweet, per molestare le donne sole che gli capitano a tiro.

Roberto Pinto, che nell’episodio To Loose Without Being a Looser propone un’idea della sconfitta come rifiuto di partecipare all’ideologia della competizione e della vittoria a ogni costo, è fortemente tentato di appropriarsi di questa rugosità del reale, di farla sua, ma la specificità di Tirana sfugge anche alla sua presa. Uno spiritello situazionista si aggira per le vie, senza che peraltro nessuno lo abbia chiamato.

Quello che la biennale non coglie, se non in minima parte, è la dialettica tra il rifiuto iconoclasta nei confronti di qualunque spazio, uso od oggetto associabile alla dittatura comunista, condizione comune a tutta l’area postcomunista, e il pensiero che alcune componenti di questo rifiuto appartengano alla sfera degli stereotipi. Uno di questi è certamente lo squallore attribuito alla città comunista: pur non avendo un vero e proprio centro storico, Tirana (e anche una parte di Bucarest, come si evince dall’appassionante libro di Giuseppe Cinà sull’argomento appena pubblicato da Unicopli) possiede un bell’impianto urbano, strade alberate e palazzi di epoca comunista che nonostante l’aspetto scalcinato mostrano un buon design, e l’insieme di questi elementi non ha prodotto solo una città civile, ma anche piena di fascino, in cui i caffè, i locali e i negozi aperti dopo la caduta del regime di Enver Hoxha si sono inseriti nel modo più naturale. Bar e ristoranti sono però solo uno degli aspetti della liberalizzazione: circa un terzo della popolazione rurale si è riversato su Tirana, raddoppiandone la popolazione e trasformandola in una sorta di laboratorio di urbanizzazione accelerata. Nel giro di un decennio la città è stata sommersa prima da baracche e chioschi abusivi – in parte rasi al suolo dal sindaco – poi da una speculazione selvaggia che respinge i poveri ai margini. L’energia convulsa di queste migliaia di persone e automobili in lotta per l’accaparramento dello spazio vitale si osserva ancora meglio dall’alto, dove la prospettiva, invece di aprirsi come di consueto, viene soffocata da alti palazzi color pastello, pieni di archetti e timpani postmoderni, a distanza di cinquanta centimetri l’uno dall’altro.

Di fronte a questo scenario di prevaricazione viene da pensare che il vero tabù, ciò di cui è più difficile parlare e proprio per questo bisogna parlare, sia quel conglomerato di desideri e aspirazioni a una “buona vita”, a un uso pubblico, razionale e condiviso della propria esistenza che, a prescindere dalle sue realizzazioni storiche novecentesche, si è sempre celato e insieme rivelato nella parola “comunismo”.

Titolo originale: The Virtues of Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Dalla Pasco County appena fuori Tampa, alle zone dei ranch a nord di Dallas, fino a Phoenix, e Las Vegas e Boise, i chilometri di lottizzazioni appena costruite sono la scelta ufficiale di milioni di americani. I demografi utilizzano oggi il termine “esurbano” a descrivere questo tipo di localizzazione, in zone aperte nelle fasce più esterne alle zone già suburbane, dove è completamente assente qualunque tipo di relazione tradizionale con una grande città. Pianificatori, ambientalisti, architetti, chiamano tutto questo lo spreco dello sprawl, e spingono per un tipo di urbanizzazione più compatta.

Ma nonostante i prezzi della benzina in crescita, che rendono sempre più costoso accedere a questi paesaggi diffusi, alcuni studiosi e commentatori sostengono che lo sprawl, a dire il vero, non è tanto male.

Alcune realizzazioni recenti fuori Los Angeles, Phoenix, e Dallas sono lontane, ma abbastanza dense, ad esempio, e fanno pensare a qualche tipo di strisciante efficienza che si insinua nella continua suburbanizzazione d’America. Una ricerca della Brookings Institution sull’area di Los Angeles ha rilevato una media di venti abitanti ettaro nelle zone di nova urbanizzazione (1982-1997), ovvero tre volte le quantità dell’area metropolitana di New York. Se si guarda alla popolazione per chilometro quadrato, Los Angeles – che per quanto sia ampia è delimitata dalle montagne e dall’oceano – è più densa di Chicago, secondo il Census Bureau. E le immagini delle case unifamiliari stipate tutte insieme, hanno provocato qualche brontolio sul fatto che questa nuova generazione di suburbi non offra abbastanza spazio.

La densità è solo uno dei fattori, nell’analisi dell’insediamento disperso. Dato che tutte le funzioni della vita quotidiana – case, negozi, divertimenti, posti di lavoro – sono rigidamente separate e diffuse, tutti hanno bisogno dell’auto per muoversi. Ciò significa lunghi spostamenti pendolari, ingorghi stradali, meno tempo da passare con la famiglia. Le amministrazioni locali rischiano la bancarotta tentando di estendere le reti idriche e fognarie o alte infrastrutture verso le aree esterne, anche se poi sono dense, una volta che ci si arriva. Lo sprawl si mangia terre agricole e spazi aperti, e l’investimento verso le zone di insediamento diffuso è avvenuto a spese delle zone centrali urbane, peggiorandone la frammentazione sociale ed economica.

Ma è tutta una storia negativa? Può anche darsi, dice Robert Bruegmann, professore di storia dell’arte, architettura e urbanistica alla University of Illinois di Chicago, che individua alcune buone cose riguardo allo sprawl. “Non è meglio o peggio di altri modi di urbanizzazione” sostiene Bruegmann. “Funziona, perché soddisfa molti bisogni. Quando se lo può permettere, la gente esce dalle città. Ora ci sono decine di milioni di persone che possono fare quello che un tempo era consentito solo a una piccola minoranza.

Bruegmann, il cui nuovo libro Sprawl: A Compact History (Chicago), sarà pubblicato alla fine del mese, si aggiunge allo scrittore e consulente Joel Kotkin, all’editorialista del New York Times David Brooks, e ad altri, nel trovare ispirazione nelle lottizzazioni, quasi fossero delle Jane Jacobs di suburbia. Il sostegno all’insediamento disperso segue una lunga tradizione, iniziata da Thomas Jefferson e proseguita da Frank Lloyd Wright. Oggi, Bruegmann e gli altri sentono come importante individuare ciò che di buono esiste nell’urbanizzazione diffusa, perché lo sprawl è stato martellato per oltre vent’anni da attivisti che auspicano una smart growth, o un New Urbanism, quest’ultimo un movimento architettonico che promuove la progettazione di quartieri tradizionali compatti.

Lo sprawl ci da’ “decentramento e democrazia” sostiene Bruegmann says: un tipo di uso ordinato dello spazio che avvicina classe lavoratrice e ceti medi, consentendo un avanzamento economico e sociale. Le abitazioni nei nuovi insediamenti, nel Sud e nell’Ovest, di solito partono da 120.000 dollari. Tentare di arginare lo sprawl significa mettersi di traverso allo sbocciare del sogno americano.

”È un modo per avere cose un tempo riservate solo a pochi”, prosegue Bruegmann. “ Privacy, mobilità – fisica e sociale – possibilità di scelta”.

E lo sprawl non è un fenomeno nuovo. Dalle antiche Roma e Cina, alla Londra del XIX secolo, a Parigi o Los Angeles oggi, la società si è diffusa sul territorio nei fasi positive dell’economia. “Appena le persone possono permetterselo, si verifica una massiccia migrazione verso le zone esterne” dice Bruegmann. Quindi, può darsi che dovremmo tutti smettere di preoccuparci, e imparare ad amare le lottizzazioni.

Naturalmente, altri osservatori del panorama nazionale di insediamento diffuso vedono un futuro più nero. James Howard Kunstler, campione del New Urbanism e autore di The Long Emergency: Surviving the Converging Catastrophes of the 21st Century (2005), sostiene che quando non sarà più disponibile petrolio a buon mercato, l’economia suburbana collasserà: l’organizzazione fisica che richiede lunghi spostamenti per recarsi ovunque si rivelerà una follia. Kunstler prevede solo erbacce secche rotolanti nelle lunghe strisce commerciali davanti ai Wal-Mart.

”Le nostre città in genere sono organismi ipertrofici: sono diventate troppo grandi nel secolo scorso, grazie alla crescita consentita dall’energia a buon mercato” dice Kunstler. “Qualunque cosa siano oggi, certamente dovranno contrarsi nel XXI secolo. Il processo probabilmente comporterà una densificazione dei vecchi centri o sulle sponde, nella generale contrazione”. L’organizzazione attuale delle nostre vite, sostiene Kunstler, “segue l’incessante logica del cancro, dell’ipertrofia, e si dimostrerà auto-limitante, dato che consuma e distrugge il portatore”.

La gran parte degli attivisti smart-growth oggi non occupa il proprio tempo a criticare lo sprawl o a prevedere la caduta del suburbio. L’attenzione principale è rivolta all’offrire una scelta più ampia a chi non desidera abitare nello sprawl: modificando norme di zoning superate che impediscono insediamenti a funzioni miste vicino a stazioni ferroviarie, per esempio.

”La smart growth non afferma che tutto lo sprawl sia orribile” dice John Frece, direttore associato del National Center for Smart Growth Research all’Università del Maryland. “Non si tratta di impedire la possibilità di costruire sprawl: solo di aggiungere quella di fare cose diverse, e metterla sul medesimo piano. Poi deciderà il mercato”.

Bruegmann sostiene di essere piuttosto aperto all’idea che gli americani scelgano diversi modi di vita in diversi momenti dell’esistenza. E, giusto a complicare ulteriormente le idee di tutti, prevede anche che con l’aumento della ricchezza nelle società, più persone desiderano tornare in città. Si tratta solo di capire in che modo l’agiatezza condiziona la domanda di vari ambienti fisici.

”Se si hanno soldi a sufficienza, la vita nell’alta densità può essere molto attraente” dice. “Credo che ci sarà sempre qualcuno che desidera vivere in spazi di tipo suburbano, comunque. Ma se si ha un appartamento spazioso sulla Fifth Avenue con un portinaio, e se si può prendere un taxi o camminare fino al Metropolitan Museum of Art ... ci sono milioni di persone che adorerebbero farlo”.

In definitiva, sostiene Kotkin, autore di The City: A Global History (2005), “I problemi dello sprawl dovranno essere risolti nel contesto dello sprawl. Non si può fermarlo. Non si può riprogrammare la società facendo tornare tutti a Boston. Dimenticatevelo. Non succederà”.

Lo sprawl sta migliorando, dice Kotkin says: più denso, e alla fine con una migliore combinazione funzionale, e negozi e posti di lavoro più vicini alle abitazioni. Kotkin prevede una crescita di questi villaggi suburbani, che chiama “ new suburbanism”, riecheggiando deliberatamente il New Urbanism. Con l’aiuto della tecnologia, più persone saranno in grado di lavorare da casa, o comunque più vicino a casa. Gli spostamenti in auto saranno ancora necessari, ma potranno essere più brevi, e fatto usando veicoli ibridi e ad uso efficiente dell’energia.

”Nella California meridionale diciamo queste cose da anni: semplicemente, è un nuovo tipo di città” sostiene Kotkin. “È come se qualcuno dalla Firenze rinascimentale arrivasse nella Manchester del XIX secolo. Direbbe: dov’è la chiesa nel mezzo? È semplicemente diverso. L’urbanizzazione di suburbia è la grande sfida della pianificazione all’inizio del XXI secolo in America”.

Nota: il testo originale al sito del Boston Globe (f.b.)

Sotto accusa la attuale maggioranza governativa, e, soprattutto, i comuni ricchi ed egoisti delle banlieues metropolitane, i loro sindaci conservatori e il loro maître-à-penser: l’incauto e provocatorio ministro dell’interno Nicolas Sarkozy che sta boicottando in prima persona l’applicazione della legge. Da leggere per riflettere sulle affinità con la questione abitativa e la emergenza casa in Italia, e sui rischi che si potrebbero correre anche nelle nostre grandi città: se non cambiano le cose (m.c.g.).

Titolo originale: Ces banlieues riches qui poussent au crime - Traduzione per Eddyburg di Maria Cristina Gibelli

Dopo le rivolte urbane nella periferia parigina e in provincia, il problema delle case popolari è tornato in primo piano e, con esso, quello della attuazione della legge SRU (Solidarité et renouvellement urbain). Molti comuni della banlieue parigina, come ad esempio Neuilly-sur-Seyne e Saint-Maur-des-Fossés, preferiscono restare “fra ricchi”, lasciando agli altri il compito di risolvere i problemi di mixité sociale.

Concentrare le famiglie povere, gli stranieri, i disoccupati nei quartieri periferici degradati ha costituito da molto tempo un modo sicuro per non vedere i problemi – pagato con episodi di protesta sociale manifestatisi nel corso del tempo in diverse località. Le violenze che hanno scosso la Francia nel novembre 2005, e che hanno reso necessaria la proclamazione dello stato di emergenza nazionale, costringono ad aprire gli occhi.

Il mensile Alternatives Economiques, in un dossier premonitore pubblicato in ottobre (Pas de rélance pour le logement social), aveva già descritto una situazione allarmante: 100.000 famiglie solo a Parigi sono in attesa di un alloggio (con un ritmo di attribuzione di 12.000 alloggi per anno); ogni anno in Francia vengono resi disponibili soltanto 50.000 alloggi supplementari, di cui 35.000 nuovi (complessivamente, meno dell’1% del parco alloggi esistente). Le risorse finanziarie destinate all’edilizia sociale, che rappresentavano lo 0,4% del PIL all’inizio degli anni ’80, si sono dimezzate dall’inizio degli anni ’90. Un decennio più tardi, nel 2001, si è scesi allo 0,1% del PIL.

Secondo l’INSEE, la Francia contava nel 2002 3,5 milioni di persone in condizione abitativa precaria. Nel settore dell’HLM (edilizia economico-popolare), il 22% degli abitanti sono disoccupati, e più della metà hanno un reddito inferiore al 60% del reddito minimo di accesso .

Per cercare di invertire la tendenza, la legge RSU, adottata nel 2000 dal governo Jospin, ha fisssato un obiettivo a 20 anni: 20% di alloggi sociali per tutti i comuni con più di 1.500 abitanti in regione parigina, e con più di 3.500 abitanti in provincia. I comuni inadempienti si espongono a delle sanzioni pecuniarie, tutto sommato neanche molto elevate.

Così, il ricco comune di Saint-Maur-des-Fossés (Val-de-Marne), già famoso per essere una delle ultime città in Francia ad aver sempre rifiutato la raccolta differenziata, paga soltanto 800.000 euro di ammenda all’anno per l’assenza di un impegno sia pur minimo in materia di edilizia sociale.

“Case popolari” sì, ma per popolazione a buon livello di reddito

In un volantino distribuito agli abitanti di Saint-Maur, il sindaco Jean-Luis Beaumont invita a firmare una petizione per l’abrogazione della SRU (indicata come “legge SRU-Gayssot, dal nome del deputato comunista relatore della legge stessa, per spaventare un po’ di più i suoi elettori). Egli scrive che l’applicazione della legge “darebbe luogo a un saccheggio della buona urbanistica” e che “non vi è niente di sociale nell’addensare le abitazioni, nel momento in cui molti di quelli che ci vivono si augurano la scomparsa dei grands ensembles”. Si gioca sull’accostamento fra paura e un’immagine univoca dell’edilizia popolare: quella della tipologia degli edifici a torre (Creteil è a due passi…)

Saint-Maur propone di favorire l’accesso alla proprietà in 30 o 40 anni per le coppie che “dispongano di 2.000-3.000 euro di reddito mensile” (ricordiamo che il reddito medio lordo mensile è di 1.218 euro!); di “esonerare dal pagamento dei diritti di successione diretta, allorché questa successione o donazione riguardi un alloggio in cui l’erede elegge la sua residenza principale” (misura che favorisce i proprietari agiati e che non incide minimamente sull’edilizia sociale, occupata da affittuari), o ancora “di esonerare dalle spese notarili per l’acquisto della prima casa” (mentre il problema per i più poveri è, appunto, di accedere all’affitto).

E il sindaco di Saint-Maur vanta le realizzazioni in corso di edilizia sociale nel suo comune.. un centinaio di alloggi in tutto. Morale: restiamo in buona compagnia e infischiamocene degli altri…

Ma si deve a Nicolas Sarkozy un record ancora più scandaloso. Neuilly-sur-Seyne, di cui è stato sindaco per lungo tempo, si è data l’obiettivo di un tasso di edilizia sociale del 2.6%. Salutiamo questo sforzo, anche se la quota si è fermata all’1,3% nel 2002. Ecco da chi ci vengono date lezioni su come intervenire sulle periferie…

Felicitazioni anche a Ville-d’Avray (3,1%), Celle-Saint Cloud (3,6%), Vincennes (6,4%), Maisons-Laffitte (6,9%) !

Sempre meno abitazioni, sempre meno edilizia popolare

Non basta certo costruire abitazioni popolari. Occorre che siano accessibili a chi ne ha bisogno. E questo non è il caso dei 4 milioni di alloggi disponibili nel nostro paese (di cui la metà in affitto).

In primo luogo, l’aumento dei valori immobiliari spinge gli affittuari a permanere negli alloggi sociali più a lungo, e il tasso di rotazione è in costante diminuzione. Inoltre, i comuni che hanno accolto la maggiore quota di parco sociale, accumulano le difficoltà che si accompagnano alla concentrazione elevata di popolazione pauperizzata e non possono più costruirne di nuovi. Bisogna dunque contare sui comuni più altolocati che, però, non hanno una grande propensione a dedicarsi all’edilizia sociale (e a rischiare una mutazione del proprio elettorato).

Del resto, l’edilizia sociale più costosa (il cosiddetto PLS: Pret Locatif Social) costituisce oggi più del 20% della nuova offerta, contro il 13% di quattro anni fa. Questi alloggi sociali “haut de gamme”, in un mercato già saturo, attirano anche le classi medie. Il fatto è che, poiché questa offerta garantisce affitti più elevati, richiede minori sovvenzioni statali ed è quindi preferita anche a livello centrale.

Le abitazioni per i gruppi più svantaggiati sono sempre più una questione che riguarda il parco privato più degradato. E, per peggiorare le cose, lo Stato in questi ultimi anni ha fortemente ridotto il suo impegno in favore della riqualificazione del patrimonio abitativo più vetusto.

Aggiungete il fatto che la legge Besson del 1999 è stata rimpiazzata dalla legge Robien del 2002 (che prevede che gli aiuti finanziari alle operazioni di riqualificazione abitativa sono concessi a condizione di un impegno economico molto più elevato da parte degli affittuari destinatari degli aiuti stessi): la situazione dell’edilizia sociale non potrà che peggiorare.

E le sommosse ricominceranno per denunciare questa cecità.

Nota : il testo originale al sito ANNU:ART Sullo stesso argomento su Liberation “ 140 villes restent de marbre face à la loi SRU(m.c.g.)

Titolo originale: Madrid mayor: Visionary or ‘pharaoh’? Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



MADRID – Più o meno ogni due settimane, Alberto Ruiz-Gallardón guida fino a una zona diversa della città, ringrazia gli abitanti per la loro pazienza, e sancisce formalmente l’ultimazione – o la parziale ultimazione – di uno degli oltre 70 grandi progetti di costruzione di Madrid.

Gallardón, sindaco di Madrid serio e che pensa in grande, ha sopportato più di due anni di lamentele e critiche da parte di abitanti stufi per i rinvii, gli ingorghi del traffico, le deviazioni il rumore e la polvere diventati parte della vita quotidiana da quando sono iniziati i grandi progetti, poco dopo la sua elezione nel 2003.

Ma il quarantaseienne Gallardón dice che sarà valsa la pena di questi inconvenienti alla fine dell’opera nel 2007, e Madrid chiede di diritto il suo posto fra le grandi città moderne d’Europa.

”Madrid ha un’ambizione: farsi carico della guida, in Spagna e oltre” ha dichiarato il sindaco giovedì in municipio dopo aver comunicato ai giornalisti la proposta di un nuovo progetto di rinnovamento per un’altra zona della città, stavolta sul margine meridionale del principale parco, la Casa del Campo.

Membro del conservatore Partido Popular, Gallardón sta mantenendo una promessa: è entrato in carica facendo voto di cambiare la faccia di Madrid. La città era considerata da lungo tempo arretrata rispetto ad altre capitali europee: un luogo sovraccarico di tradizione, lento a modernizzarsi.

Anche rispetto al resto della Spagna, la capitale appariva letargica, immobile mentre Barcellona, Bilbao e Valencia si rinnovavano, ravvivavano e reinventavano come città alla moda con appeal globale, alzando il proprio profilo internazionale a attirando turisti.

Ma ora la cronica trascuratezza di Madrid per la sua immagine è finita. Con Gallardón, la città si è trasformata in un grande cantiere, con scavi, gru, martelli pneumatici e cavalletti a bloccare le strade praticamente ad ogni angolo.

”Al momento Madrid sta attraversando il più grande processo di trasformazione urbana della sua storia, e uno dei più ambiziosi d’Europa” ha dichiarato il sindaco in un’intervista via e-mail. “Si sta scrollando di dosso una certa pigrizia del passato”.

E i progetti del sindaco vanno oltre il rinnovo delle infrastrutture. Parla di utilizzare gli enormi tesori artistici della città per proiettare una vivace e seduttiva immagine di Madrid al mondo. Ciò comporta modernizzare l’area attorno al “triangolo d’oro” dei musei d’arte, come il Prado, a creare “uno spazio pubblico veramente unico al mondo” sottolineato da fontane e alberature.

Descrivendo i suoi grandiosi piani, Gallardón si propone come un visionario. Ma i critici lo chiamano “il faraone”.

Proprio come i sovrani dell’antico Egitto, dicono, è ossessionato dall’idea di lasciare un’impronta duratura attraverso mastodontici progetti di costruzioni, senza badare ai costi. Quando terminerà il suo primo mandato nel 2007, si prevede che il debito per la città si avvicini ai 6 miliardi di Euro, circa cinque volte quello di quando è entrato in carica.

I critici contestano che questi progetti non solo stanno portando alla bancarotta la municipalità, ma azzoppano anche l’economia rendendo più difficile per i clienti raggiungere i negozi nelle zone delle costruzioni, e obbligando gli abitanti a impiegare più tempo per gli spostamenti quotidiani. In più, dicono, i lavori danneggiano l’ambiente e peggiorano la qualità della vita.

“La città è collassata” ha dichiarato in un’intervista Trinidad Jiménez, consigliera municipale per il Partito Socialista e probabilmente la critica più radicale del sindaco. “Ha creato il caos assoluto in città, con tutte le sue costruzioni”.

Gli abitanti impiegano in media 30 minuti in più al giorno per spostarsi in città, sostiene la signora, riducendo il tempo a disposizione per lavorare, per la famiglia e per il sonno. “Il problema non sono tanto le costruzioni” aggiunge la Jiménez. “È che ha deciso di fare tutto in una volta”.

La federazione dei tassisti dice che i propri aderenti perdono in media due viaggi al giorno, ovvero l’equivalente di 250 al mese, a causa dei lavori, e ha chiesto al sindaco di sospendere tutte le opere principali sin quando non sarà predisposto un piano per minimizzare gli effetti sul traffico.

Alcune delle critiche più dure si concentrano sulle conseguenze ambientali dei progetti; la signora Jiménez dice che sinora sono andati persi 25.000 alberi. Il sindaco ha promesso di ripiantarne molti, e di raddoppiare quasi il numero di quelli lungo le strade entro la fine del mandato. Ma i critici sostengono che ci vorranno decenni prima che gli alberi crescano maturi a sufficienza per ricostruire il paesaggio.

Gallardón nega che la città sia nel caos, sostenendo che il traffico nelle zone dei cantieri non è più lento che altrove, e che la città è ben lontana dall’essere paralizzata. “Il caos arriverebbe se non modernizzassimo in fretta le nostre infrastrutture, e ci sarebbe un collasso per mancata preveggenza” dice.

Ex procuratore e madrileno di nascita, Gallardón è al centro della politica della città da più di dieci anni, presidente per due mandati della regione madrilena prima di diventare sindaco nel maggio 2003. Conservatore moderato, è popolare in entrambi gli schieramenti ed è stato considerato a lungo un potenziale candidato per la presidenza del consiglio dei ministri.

Ma l’ampiezza della sua popolarità è forse la sua maggior debolezza, dice Carlos Mendo, amico del sindaco e editorialista del quotidiano El País.

”Il guaio con Alberto è che ha più fascino con l’uomo medio che con la base” racconta riferendosi alla base conservatrice del partito. “È un po’ troppo liberal per loro”.

Gallardón ha fatto infuriare i conservatori del partito sostenendo i diritti degli omosessuali. Ha anche suscitato scontento concentrandosi più sull’integrazione degli immigrati che nello scoraggiarli, o invitando alla moderazione nei rapporti con le regioni spagnole a cultura autonomista come quella basca e catalana.

Il sindaco afferma che non ha intenzione di presentarsi come candidato alla presidenza del consiglio alle prossime elezioni parlamentari previste per il 2008. Ma, come ricorda Mendo, Gallardón è abbastanza giovane per poter scegliere il proprio momento, e aspettare un turno in cui il pendolo del partito si sia spostato un po’ più a sinistra.

Gallardón ha dimostrato di aver fascino con gli elettori. Sposato e padre di quattro figli, ama andare in moto e suonare il piano, a sentire gli amici, e le sue conoscenze di musica classica possono rivaleggiare con quelle di uno studioso. Non molto tempo fa, un direttore di El País gli chiese di diventare il critico musicale del giornale: per scherzo, secondo Mendo.

La decisione di Gallardón di concorrere alla carica di sindaco nel 2003 è apparsa come un passo indietro, una mossa sorprendente per un giovane politico in ascesa. Ma sembrava attratto dalla possibilità per un sindaco di incontrare personaggi stranieri importanti e capi di stato, in visita a Madrid tutti gli anni, offrendo un’opportunità ideale per aumentare non solo la propria statura internazionale ma anche quella della città.

Una pietra miliare della sua strategia era vincere la candidatura alle Olimipiadi del 2012, che sosteneva avrebbero fatto alla città quello che era riuscito con i giochi del 1992 a Barcellona:trasformarsi in una delle metropoli più trendy d’Europa. Aver perso la scommessa con Londra in luglio è stato un passo indietro devastante, secondo gli amici.

In molti modi, le trasformazioni di Gallardón riflettono una tendenza. Favorite da una delle più lunghe fasi di espansione economica del continente, le città spagnole hanno ricostruito se stesse per oltre un decennio, modernizzando le infrastrutture e tentando di distinguersi attraverso specifiche architetture.

Seguendo l’esempio di Bilbao e del suo museo Guggenheim, che ha aiutato a trasformare la città da grigio centro industriale a una destinazione turistica di tendenza dopo l’inaugurazione del 1997, centri come Valencia, Barcellona e Córdoba di recente hanno ingaggiato architetti innovativi per aggiungere linee moderne alle proprie skylines.

Il rifacimento di Madrid comprende le immaginose espansioni dell’aeroporto e del museo di arte contemporanea Reina. È uno dei tre, insieme al Prado e al Thyssen-Bornemisza, che formano il “triangolo d’oro” della città e sono al centro del più decantato progetto di Gallardón. Il sindaco sta lavorando con costruttori privati per aggiungere un quarto museo e riunirli tutti in un unico quartiere che possa essere promosso all’estero come emblema delle ricchezze culturali della città.

In molti modi, la visione di Gallardón per Madrid è meno ambiziosa di quel che sembra. La città è ben nota per i suoi musei, l’esuberanza della vita notturna e la quantità praticamente infinita di bar, pochi dei quali sembrano mai vuoti. È anche il motore di una delle più vivaci economie d’Europa, una calamita per un numero crescente di immigrati, dall’unione Europea e da fuori.

Oggi sarebbero in pochi a definire Madrid quelloc he appariva solo qualche decennio fa: una grande città politica, dominata appunto da politici, scrittori, giornalisti e burocrati. Se mancava qualcosa, forse era un venditore: e Gallardón si presenta proprio come the man for the job.

Ai critici dei lavori di rinnovamento il sindaco risponde che non c’è scelta. Senza questi, avverte Gallardón, Madrid rischia di diventare un centro di secondo piano. Con le opere, prevede, Madrid volerà in alto, affermandosi non solo dal punto di vista della forza economica, ma come centro culturale e artistico con pochi rivali in Europa.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune; altri articoli della serie sui sindaci delle grandi metropoli del mondo in questa stessa sezione Eddyburg/Megalopoli (f.b.)

UNA DELEGAZIONE di costruttori edili americani, in visita da Chicago, è stordita dall´ammirazione: «Nel tempo in cui noi costruiamo un grattacielo, qui costruiscono da zero una città intera». È l´exploit estremo mai realizzato dalla Cina, che pure di grandi opere ha un´esperienza unica al mondo. In una zona dove fino a pochi mesi fa c´erano solo campi, tra un anno sorgerà dal nulla una città di centomila abitanti, Nuova Zhengzhou.

In meno di dieci anni sarà diventata una metropoli da un milione e mezzo di persone. È un record assoluto, una Dubai innalzata di colpo come un miraggio sulle rive del Fiume Giallo. E non avrà nulla in comune con altri tour de force della scatenata urbanistica cinese. Stop al gigantismo mostruoso e volgare che ha devastato Pechino, Shanghai e Canton, megalopoli-piovre di ipergrattacieli e autostrade urbane, metastasi impazzite della globalizzazione. Nuova Zhengzhou è la prima Utopia post-comunista della Repubblica popolare, la Venezia del terzo millennio, un´Arcadia ambientalista, oasi d´acqua e di giardini, di università tecnologiche e aria pulita.

Questo sogno meraviglioso, 30.000 operai con centinaia di gru e scavatrici lo stanno già costruendo a tappe forzate di giorno e di notte, senza pause né domeniche né vacanze. Il potere ha scelto un luogo simbolico, il cuore primordiale dell´Impero di Mezzo. La vecchia Zhengzhou è capitale di una provincia (Henan) che ha gli abitanti di Francia e Italia messe assieme. Ha 3.500 anni di storia. È un centro nevralgico all´incrocio esatto fra la ferrovia nord-sud Pechino-Canton e quella est-ovest che dal Mar Giallo arriva in Tibet. Tra quei due assi intasati di traffico, la vecchia Zhengzhou e i suoi 2,5 milioni di abitanti stavano soffocando. Così tre anni fa il governo locale ha partorito un progetto senza precedenti. Creare un´altra città più in là, molto più là, in mezzo alla vasta campagna semivuota. Costruirla da zero, in tutti i sensi. Non farsi vincolare dagli errori del passato, non sovrapporre cemento nuovo sul cemento vecchio. Su una pagina bianca disegnare la città-modello, l´ambiente ideale del nostro tempo. Hanno tradotto in mandarino dei concetti – qualità della vita, sviluppo sostenibile – che sembravano un lusso per la Cina. Con un miliardo e 300 milioni di abitanti, tra cui 800 milioni di contadini ancora fermi nel Terzo mondo, la crescita del Pil ad ogni costo ha avuto la precedenza.


Zhengzhou ha visto Chongqing, Pechino e Shanghai lanciate verso il collasso, proiettate oltre i 20, i 30 milioni di abitanti, strangolate negli ingorghi e nelle nebbie tossiche da inquinamento. Zhengzhou si è ribellata all´ineluttabilità di quel destino. I suoi amministratori hanno organizzato una gara internazionale tra architetti sfidandoli a progettare la Città-Simbiosi: con la natura, con la cultura e la tradizione cinese. Hanno fatto vincere un architetto-filosofo, artista e idealista, per di più giapponese: Kisho Kurokawa, l´autore del museo di arte contemporanea di Hiroshima e del museo Van Gogh di Amsterdam. Kurokawa non li ha delusi. La sua Nuova Zhengzhou è una sapiente e raffinata alternativa alle brutture che sfigurano le megalopoli cinesi. Restaura la civiltà urbana di questo paese: il tessuto dell´antica convivenza sociale favorito dagli hutong, vicoli stretti e nemici delle auto; dai siheyuan, le case familiari a un solo piano, armoniosi quadrilateri col cortile e il giardino interno. Nuova Zhengzhou è una città carosello immersa in un reticolo di canali, eco-corridoi che si collegano a 34 fiumi. Ha un lago artificiale di 800 ettari, il più grande della Cina. Si circonda di parchi e giardini vasti fino a raggiungere le foreste delle vicine montagne per proteggere la biodiversità della regione. Ha anche i suoi bei grattacieli, disposti lungo due girotondi e un arco sinuoso che visto dal cielo, e illuminato di notte, riproduce il carattere cinese riyu, simbolo di appagamento dei sensi. Ha un sistema di trasporti fondato sui vaporetti nei canali, i tram leggeri in superficie, un treno ad alta velocità verso l´aeroporto. Ha un parco tecnologico e tre campus universitari con dieci facoltà, inclusa l´Accademia della medicina tradizionale cinese e un Istituto per la conservazione dell´acqua.


È il Giardino dell´Eden. La potenza industriosa della Cina lo sta creando sotto i nostri occhi alla velocità della luce. Il pedaggio d´ingresso nel paradiso terrestre però è elevato: più di 300.000 euro per un appartamento di 80 metri quadri. I contadini a cui il governo ha espropriato le terre fanno la fila all´ufficio di collocamento, per essere assunti come manovali nell´esercito proletario che innalza l´Utopia metropolitana. Nella Nuova Zhengzhou la legge del mercato ha già escluso che ci sia posto per loro. La vecchia Zhengzhou, intanto, è la città-pilota per un altro esperimento di ingegneria sociale. È la prima municipalità ad avere reclutato i nuovi corpi speciali della polizia cinese, le teste di cuoio anti-sommossa.

APPENDICI (estratti e traduzioni per Eddyburg di Fabrizio Bottini)

Dal sito della Municipalità

La nuova zona di Zhengdong

Col nuovo secolo, Zhengzhou ha saputo cogliere le significative opportunità dell’ingresso della Cina nel WTO, il grande sviluppo della zona occidentale, e l’approvazione da parte dello stato del Piano Generale della Municipalità di Zhengzhou per la Costruzione della Municipalità Centrale Regionale, e ha fissato i propri obiettivi strategici per l’economia nazionale e lo sviluppo sociale nel “Decimo Piano Quinquennale” [...]

Nel quadro degli obiettivi del piano quinquennale, la Nuova Area di Zhengdong sarà costruita con un alto livello, dal punto di partenza ai risultati, in modo da ampliare il quadro generale della città. La zona pianificata di Zhengdong inizia a ovest dalla Strada Statale n. 107, e raggiunge la progettata autostrada di Jing Zhu a est; a nord inizia dalla autostrada di Lian Huo, e arriva sino all’arteria veloce per l’aeroporto. L’Area copre un totale di circa 150 chilometri quadrati, ed è prevista una popolazione di 1,5 milioni di abitanti. Nel progetto e realizzazione sono contemplati concetti avanzati come la Città a sviluppo contemporaneo [ Co-growth City], Città Metabolica [ Metabolistic City] e Città ad Anello [ Ring-shaped City]. E verranno anche osservati principi come eguale attenzione alle traformazioni della città vecchia e sviluppo della nuova, edificazione coordinata, crescita e prosperità condivise, bisogni della popolazione in primo piano, priorità alla pianificazione, nel migliorare l’aspetto della città vecchia e accrescere la qualità dell’ambiente urbano. L’obiettivo finale è di realizzare Zhengzhou passo dopo passo, verso una città moderna, socialista, commerciale e di scambi, con le caratteristiche culturali delle Pianure Centrali, una capitale regionale nelle campagne.


Dal sito Zhenzhou Dahua

Il Nuovo Distretto Orientale di Zhengdong

La realizzazione del nuovo distretto di Zhengdong è un grande progetto a cui partecipano sia la Provincia di Henan che la Municipalità di Zhengzhou, per accelerare lo sviluppo della città. Il giapponese Kisho Kurokawa, maestro dell’architettura e dell’urbanistica apprezzato a livello mondiale, ha redatto il Progetto Concettuale Generale. Il piano adotta i concetti avanzati di città ecologica, simbiotica, metabolica e ad anello. Kisho Kurokawa è stato insignito del Cities Award for Excellence, all’incontro annuale dell’Unione Internazionale degli Architetti. Il nuovo distretto comprende, un Central Business District (CBD) con funzioni finanziarie, di affari, uffici, residenze. A nord-ovest, si prevede lo specchio d’acqua artificiale del Lago del Dragone, su circa 6 chilometri quadrati, circondato da bassi edifici residenziali. Il sub-core della zona degli affari, area principalmente turistica e residenziale, sarà organizzato sulla penisola protesa nel lago del Dragone. Il CBD si collega al sub-core attraverso un lungo canale che diventerà l’asse centrale commerciale e culturale della città su entrambe le rive, sulle quali si collocano alti edifici residenziali; centri logistici e industrie sono raggruppati in una fascia produttiva a forma di “V”. In più, lungo i corsi d’acqua, il lago, le strade trasversali e quella ad anello, ci sono ampi spazi a verde con funzione ecologica.

Ad ora, è stato attuato il piano per l’area iniziale di 45 chilometri quadrati, dove le strutture base come la rete stradale sono state quasi completate. Sono in corso di rapido sviluppo la vendita e organizzazione degli spazi, oltre al lavoro relativo all’immigrazione e ricollocamento entro il nuovo distretto. Fra i 18 progetti previsti nel CBD, sono in corso di costruzione il Centro Esposizioni Internazionale e quello Radio e Televisione; sono nella fase preparatoria del sito il Centro Belle Arti di Henan e la Città Universitaria; la Città della Tecnologia è agli inizi. La promozione degli investimenti ha avuto successo, e il totale ha raggiunto 1,2 miliardi.

Altri particolari disponibil al sito NHBY; di seguito due files immagine e un file estratto da China Daily sullo sviluppo della città (f.b.)

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International Herald Tribune, 4 dicembre 2005; Titolo originale:For Swedish mayor, a monumental task – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

STOCCOLMA – Gli autori della guida di Stoccolma della Time Out descrivono la città “di una bellezza mozzafiato”, “barometro del cool”,persino “meta per buongustai”: in breve, un gran bel posto dove andare e in cui stare.

E questo, dice il sindaco Annika Billstrom, è uno dei più grossi problemi.

”Tendiamo a pensare di condurre una vita la migliore possibile” racconta l’esponente socialdemocratica. “Ma Stoccolma è di fronte a una sfida: come è possibile per una piccola città del nord Europa giocare un ruolo mondiale maggiore di quello attuale? O affrontiamo questa sfida, o restiamo ai margini”.

Anche se l’area metropolitana di Stoccolma è la più popolosa della Scandinavia, con quasi due milioni di abitanti, quelli che abitano in città arrivano solo a circa 750.000.

La signora Billstrom, 49 anni, vuole attirare più residenti e visitatori. La sua idea per rivitalizzare la città comprende la realizzazione di quelli che chiama “edifici monumentali”.

”Un collega mi ha chiesto se potevo nominare due importanti opere terminate negli anni ’90, e non ci sono riuscita” dice la Billstrom, politica di carriera e primo sindaco donna di Stoccolma. “Siamo così incredibilmente nella media. Non ci impegniamo mai a dimostrare quello che sappiamo fare”.

Nel corso dell’intervista, nel suo ufficio dentro l’opulento municipio dove sabato si terrà il banchetto del Nobel, la signora Billstrom delinea i suoi piani per trasformare Stoccolma in una “autentica città mondiale” elencando puntigliosamente quello di cui c’è bisogno: un grosso stadio, una nuova biblioteca pubblica, un museo permanente del Nobel, un centro di mostra e promozione del design svedese. Questi edifici, dice, devono essere “innovativi”: preferibilmente “capolavori”. La maggior parte di questi progetti ha un ampio sostegno, e si prevede siano approvati dal consiglio comunale entro il prossimo anno.

Un secondo caposaldo del programma riguarda il ruolo di Stoccolma come “motore della crescita”. La capitale svedese, sostiene il sindaco suonando più affaristicamente “blairiana” che socialista tradizionale, ha bisogno di sostenere le imprese e stimolare un “tripla spirale” ascendente fatta di imprese, pubblica amministrazione, università. La Billstrom si lancia un po’ anche contro il welfare state svedese – amata creatura del suo partito – per come ha giocato un ruolo fondamentale nel creare il tipo di statica soddisfazione che la preoccupa.

Allo stesso tempo, una delle più discusse porposte della Billstrom da quando è entrata in carica nel 2002 è decisamente di sinistra: sta tentando di proibire qualunque cambiamento nella gestione dei restanti 100.000 alloggi di proprietà municipale ad affitto controllato di Stoccolma. Il suo predecessore, il conservatore Carl Cederschiold, aveva consentito la vendita di un’ondata di questi appartamenti. La Billstrom è stata eletta anche per la sua promessa di fermare la privatizzazione. Ma il potere a Stoccolma passa di mano ad ogni elezione dal 1973, e i sondaggi di opinione indicano che Billstrom e i suoi Socialdemocratici perderanno le elezioni del prossimo anno.

”Quando parlo alle persone che abitano in quegli appartamenti, mi dicono di essere soddisfatti della propria condizione” dice la Billstrom. “E se rinunciassi ad uno dei fondamenti del nostro stato sociale, non svolgere la mia funzione”.

La signora Billstrom si è trasferita a Stoccolma dalla piccola cittadina settentrionale di Harnosand nel 1976. A quel tempo la città era una calamita di immigrati da altre zone della Svezia. Oggi attira ancora nuovi residenti, ma la maggior parte vengono dall’estero: gli immigrati rappresentano il 20% della popolazione della città.

Col numero di abitanti in crescita fra gli anni ’60 e ’70 Stoccolma – come ad esempio Parigi – costruì città satellite lontane dal centro. Ora combatte contro la segregazione.

”Nonostante un avanzato sistema di welfare, abbaimo problemi seri con la segregazione etnica” racconta Roger Andersson dell’Istituto di Ricerche Urbane e per l’Abitazione. Gli immigrati hanno difficoltà a trovar casa nelle aree centrali pià attraenti, dove le occasioni di affitto sono rare e costose (i prezzi dei condomini in centro sono aumentati del 20% lo scorso anno).

Per evitare il crearsi del tipo di situazione che ha infiammato Parigi nell’autunno, dice la Billstrom, c’è bisogno di una migliore istruzione e case a buon mercato. Nel lungo termine, si spera che la città possa integrarsi.

”È un problema serio” dice. “E ci vorrà tempo per risolverlo, forse 15-20 anni, ma credo si possa fare”.

La miscela della Billstrom, di socialismo scandinavo e centrismo orientato al mercato, rispecchia il percorso della sua vita dalla povertà al successo. La minore di sei figli, ha visto i genitori divorziare quando aveva solo tre mesi ed è stata cresciuta dalla sola madre, che lavorava come cameriera. Oggi la Billstrom, che ha svolto attività politica per la maggior parte della propria, vive in un ampio appartamento in una zona alla moda di Stoccolma, e indica il golf come sport preferito. È sposata a un uomo d’affari, Lennart Weiss, e ha un figlio di 21 anni, Alexander.

Anche se definisce il suo stile e filosofia politica “attenti soprattutto ai risultati”, sono evidenti le tracce di un giovanile radicalismo. Colloca la nascita della propria consapevolezza politica agli anni ’70, citando spesso il colpo di stato del 1973 il Cile come momento importante per la propria coscienza.

La sua filosofia composita, e forse il fatto di essere una donna decisa in una posizione tradizionalmente occupata da uomini, l’hanno resa un personaggio discusso, sia tra gli oppositori politici che all’interno del suo stesso partito. Non passa giorno senza che la stampa non riferisca di qualche voce di lotte fra i socialdemocratici riguardo al sindaco. Viene regolarmente attaccata nelle pagine dei commenti, definita “goffa”, “arrogante”, “provocatoria”.

La Billstrom – che appare pacata e intelligente – non cerca di stare sulla difensiva. Sostiene che i fatti parlano da soli, e troverà la sua rivincita il giorno delle elezioni in settembre.

”Voglio diventare un caso storico, rompendo questa tendenza al cambio delle maggioranze” dice. “La gente di Stoccolma capisce quanto abbiamo realizzato”.

Billstrom indica alcune iniziative molto diverse, come l’accesso a internet in banda larga nelle case comunali, le scuole di lingua svedese per gli immigrati più recenti, la migliore pulizia delle neve nei rigidi inverni di Stoccolma.

Ma si prevede che le elezioni saranno dominate da un plebiscito sulla tariffa da congestione del traffico, simile a quella imposta a Londra per ridurre il numero delle auto private circolanti sulle strade. L’esperimento – che qui si chiama “tariffe ambientali” – comincerà il 3 gennaio e continuerà sino a luglio. Gli abitanti di Stoccolma voteranno sul mantenere la tariffa in modo permanente in un referendum contemporaneo all’elezione del sindaco; e la maggior parte degli osservatori ritiene che questo la influenzerà.

Impopolarità della tariffa a parte – circa il 70% degli abitanti di Stoccolma sono contrari, secondo i sondaggi – la Billstrom durante l’ultima campagna aveva promesso che non la si sarebbe applicata. Ha rinnegato la sua promessa cedendo alle pressioni del partito a livello nazionale, che ha bisogno dell’appoggio dei Verdi per il nuovo governo.

Secondo qualcuno, la questione ha qualificato il sindaco come persona debole e poco affidabile.

”Credo che sia orribile quello che ha fatto con questa tassa” dice Eva Wolf, infermiera in pensione di 79 anni, su un marciapiede non lontano dalla casa della Billstrom. “Di solito voto i socialdemocratici, lei ha un bell’aspetto e parla bene: ma è una cosa semplicemente ingiusta”.

La Billstrom, che sembra un po’ provata dalle critiche, è stata evidentemente segnata dal suo turbolento mandato. Se il partito perderà il prossimo anno – uno scenario che dice di non voler nemmeno prendere in considerazione – non è certa di voler continuare la sua battaglia.

”Molti sono stupiti dal fatto che io non sia stata distrutta da quanto accaduto negli ultimi quattro anni” dice. “Ma non ho ancora deciso cosa farò se non dovessimo vincere”.

Poi la “sopravvissuta” – altro nomignolo che si è guadagnato sulla stampa – alza il mento, come ha l’abitudine di fare. “Comunque, per me c’è solo un obiettivo: vincere nel 2006”.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune; per i vari temi citati nell’articolo si veda tra l’altro sul mio sito in costruzione Eddyburg-MALL un esauriente documento degli anni ’60 sul sistema dei centri commerciali di Stoccolma nel quadro delle città satellite di iniziativa pubblica; per il processo di integrazione degli immigrati in Svezia e non solo, su Eddyburg si veda il saggio dell’economista Peter Elmlund sul loro ruolo nella rivitalizzazione urbana ripreso anche sull'ultimo numero della rivista Metronomie (f.b.)

Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che sì, e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perché da noi il luogo del tumulto è la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato «sì, ma». Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si è formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e più cresce più si separa per censo. La città europea è gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro è dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuità urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grande aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi più verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perché in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la città. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi.

E' la città tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il post industriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si può leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantità di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano né scuole né chiese né moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, è finito.

Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli è preclusa. Gli è venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono è l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'età e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non è vero che siano infiltrati dalla criminalità della droga, più che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: «Rispetto, vogliamo rispetto». E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia è stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro è venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui però nessuno è in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella età, mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso.

Non si fa in un giorno quel che si è reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di più tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi è sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo è il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perché le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere. Non succede anche da noi?

Ha ragione il critico William J.R. Curtis a dire che quando sarà scritta la «verità storica» sullo sviluppo dell'architettura della fine del ventesimo secolo, Raj Rewal prenderà il posto che si merita. L'architettura moderna, infatti, ha «radici indiane» e Raj Rewal è di sicuro tra i suoi massimi e originali interpreti. Ne è una dimostrazione la mostra dei suoi progetti in corso a Parma fino al 25 settembre, allestita nei meravigliosi spazi del Teatro Farnese in occasione del Festival dell'Architettura, e curata con passione da Claudio Pavesi. Nato in Punjab nel 1934, Rewal ha studiato a Delhi e a Londra, e ha poi trascorso qualche anno a Parigi nello studio di Michel Ecochard. Di ritorno in India nel 1963, oltre a partecipare e a vincere numerosi concorsi di architettura per edifici pubblici e privati, ha insegnato fino al 1972 Teoria del progetto e Storia dell'architettura indiana a Delhi, presso la locale Scuola di urbanistica e architettura. La sua opera architettonica si concentra per lo più a Nuova Dehli e i suoi esordi rientrano nell'ambito dell'edilizia residenziale: nel corso degli anni firma fra l'altro gli alloggi per il personale di servizio dell'Ambasciata di Francia (1967-69), il complesso di alloggi Sheikh Sarai (1970-82), il complesso di alloggi Zakir Hussain (1979-84).

Raj Rewal sperimenta e realizza una edilizia compatta, ad alta densità, dai forti connotati morfologici, memore delle problematiche del Team Ten e dei «reticoli urbani» di Candilis, Josic e Woods per Tolosa e Berlino. La «trasparenza labirintica» di quei modelli urbani, l'architetto indiano l'ha conosciuta durante il suo soggiorno in occidente, ma è la stessa che egli ritrova in India nelle città di Jaisalmer e Fatehpur Sikri caratterizzate da un ordito orizzontale che - come ha scritto Daniel Treiber - sembra echeggiare i modelli insediativi di Van Eyck e di Hertzberger. Per Rewal è semplice comprendere le profonde ragioni che accomunano le antiche testimonianze indiane e i progetti urbani del Team Ten: entrambi ricercano uno spazio collettivo vivibile, attento alle relazioni tra i residenti, con una identità estetica e funzionale che siano espressione di valori sociali condivisi.

A Nuova Delhi, sia nel villaggio olimpico per i Giochi Asiatici (1980-82) sia negli alloggi per l'Istituto nazionale d'immunologia (1983-85), Rewal chiarisce con precisione la sua idea di architettura fondata sul rispetto della tradizione e dell'ambiente. La sua «architettura climatica», con poche eccezioni, non è mai un oggetto isolato e autoreferente, ma un organismo complesso regolato da una maglia strutturale all'interno della quale si articolano le unità abitative e gli spazi all'aperto: una architettura che si ammira per le sue qualità morfologiche e il suo carattere polifunzionale e per il modo in cui si integra al paesaggio, autentico «guscio-contenitore di umanità».

Nella Biblioteca del Parlamento (1993-2000) Rewal si è confrontato con maggiore decisione con l'architettura coloniale, ma anche in questo caso ha preferito compiere un gesto antidogmatico, al tempo stesso simbolico e del tutto originale. Lo sconosciuto architetto di Fatehpur Sikri gli ha insegnato che per raggiungere Dio ci sono molti modi, e che di conseguenza non bisogna mai restare bloccati a ripetere sempre la stessa soluzione ma ricercarne sempre di diverse.

Abbiamo incontrato Rewal durante il suo breve soggiorno a Parma e con lui abbiamo cercato di comprendere meglio la sua architettura in relazione con quella indiana, tradizionale e contemporanea.

Lei appartiene alla terza generazione degli architetti modernisti indiani. Giovanissimo, ha conosciuto l'eclisse dell'impero coloniale britannico e ha partecipato alle recenti evoluzioni della storia dell'architettura occidentale. Può spiegarci quale è stata la sua formazione di architetto e quali sono i suoi riferimenti culturali?

Come molti architetti della mia generazione, ho appreso che il primo principio della buona architettura è un onesto edificio funzionale, dove i principi costruttivi sono osservati e i materiali vengono espressi francamente. Grazie alle mie osservazioni sull'architettura indiana tradizionale, ho imparato a tenere conto di altri attributi, come i valori umani e le situazioni climatiche. La mia terza scoperta è stata l'espressione architettonica: la Cappella di Ronchamp di Le Corbusier ha certamente incrinato il principio della sincerità funzionale nell'edificio, ma ha introdotto un elemento poetico o - per usare un termine sanscrito - il gusto spirituale « rasa». La corretta espressione per le differenti tipologie di edifici è per me un principio importante, ma rimango fedele agli ideali di una architettura onesta e umana.

Cosa è stata secondo lei l'architettura indiana dopo l'Indipendenza e quali sono le sue relazioni con l'architettura coloniale e lo storicismo, ad esempio, con opere come quella di Lutyens a Delhi?

Sono cresciuto a Nuova Delhi che era stata disegnata come una città-giardino da Lutyens. L'aspetto imperiale della città aveva trasformato il tessuto democratico dell'India. La casa del vicerè britannico viene ora usata come sede del presidente indiano, e la sua sala delle cerimonie è utilizzata per le funzioni democratiche. La biblioteca principale che ho costruito è separata rispetto al complesso di Lutyens, perché rappresenta una estensione dell'edificio del Parlamento. Per me si trattava di una sfida: come elaborare un progetto che tenesse conto della vicinanza con il contesto coloniale, ma affermasse allo stesso tempo i valori democratici indiani? La funzione centrale della Biblioteca del Parlamento è di essere una «casa della conoscenza», simbolicamente un luogo di illuminazione. Poiché ci eravamo prefissi lo scopo di individuare una espressione architettonica di basso tono che esprimesse prudenza e eleganza spirituale, senza cercare di competere con la potenza del Parlamento, il progetto ha quindi concepito un edificio interno che riflettesse la specifica scelta per uno spazio recintato e subalterno, piuttosto che le forme della magnificenza coloniale-imperialistica. Mettendo a confronto la proposta della biblioteca con il Parlamento già esistente, può emergere in certo senso una analogia con la relazione che intercorre tra un guru e il re. In entrambi gli edifici, visivamente e simbolicamente, la sala centrale del Parlamento (che connota il potere dei popoli, il consenso e la democrazia) è unita con la parte centrale del nuovo complesso - emblema di conoscenza - su un asse centrale, attraverso una sequenza di spazi che culminano in un auditorium per 1100 persone. Abbiamo così concepito dentro la tradizione indiana una struttura formale, costruita però con un idioma contemporaneo, allo scopo di catturare l'essenza senza imitare gli stili storici del passato.

A proposito ancora della Biblioteca del Parlamento di Nuova Dehli, Krishna Menon, ha scritto che l'edificio dimostra che si può risolvere il perenne problema di «come è possibile scovare le proprie radici ed essere ancora moderni».

Rispetto alla Biblioteca del Parlamento, le soluzioni progettuali richiedevano che si tenesse conto di alcune importanti considerazioni. In primo luogo, l'edificio era stato costruito in quello che è forse il più importante sito dell'India, le cui ragioni storiche, culturali e urbane non potevano essere ignorate. Il mio obiettivo dunque era di disegnare un edificio che risuonasse con quella idea di istruzione che avevo percepito nelle tradizionali costruzioni buddiste e nei templi jain, ma di costruire con la tecnologia dei nostri tempi. Ho quindi ricercato il rispetto delle dimensioni degli edifici circostanti e ho costruito in armonia con il contesto.

È possibile parlare di una «architettura indiana», con una identità legata alla sua realtà politica di nazione, in presenza di un paese così vasto, che presenta una notevole varietà tra nord e sud, est ed ovest? E potrebbe chiarirci che cosa sia la «identità indiana» in architettura, ammesso che essa esista, e se siano individuabili i suoi principi generali?

L'immensa varietà dell'architettura tradizionale indiana può essere compresa sotto vari aspetti. Le storie dell'architettura l'hanno divisa in periodi: hindu, buddista, islamica e coloniale. Ma nell'architettura indiana alla base di monumenti, complessi civici e edifici vernacolari, esiste anche una secolare tendenza che spesso è stata ignorata nella letteratura, e i cui temi ricorrono in varie fasi dello sviluppo, emergendo nelle forme della contemporaneità. Gli architetti possono quindi guardare al passato per trarre ispirazione, oppure al contrario possono provare essi stessi a contraddire gli antichi modelli. Il metodo del costruire, le condizioni sociali e il clima hanno determinato l'evolversi dell'architettura indiana. E se le tecniche, così come le modalità della vita quotidiana, stanno fortunatamente cambiando, il fattore climatico rimane invece costante. Gli elementi tradizionali del progetto basati sul caldo clima indiano hanno quindi da sempre una forte rilevanza nei caratteri del nostro lavoro. Uno dei miei primi edifici era un complesso per una esposizione permanente di una fiera campionaria, costruito nel 1972 a Nuova Delhi. Lo spazio formato dal sistema strutturale segue le prescrizioni principali dell'architettura moderna per la copertura di ampie sale e la sua costruzione si adattava all'intenso lavoro dell'industria indiana. La pianta è composta di una vasta sala collegata a quattro sale più piccole con rampe intermedie, e include una corte centrale per mostre all'aperto e meeting. Come nei modelli della tradizione indiana degli spazi pubblici, la corte emerge come il punto focale dello schema. La sua geometria spaziale rimanda alla struttura mughal della tomba di Humayun. Personalmente fui sorpreso di aver ripreso, senza neanche rendermene conto, quel particolare riferimento. Ma compresi che le strutture formali indiane di tutti i periodi avevano una certa affinità secondo la disposizione degli spazi o la modulazione dei recinti. In dettaglio, il sistema strutturale del complesso espositivo era impiegato per rifrangere il sole e ideato nei termini della tradizione indiana jali, un modello geometrico di fori che compongono un elemento principale sulla facciata che serve a ostruire i raggi diretti del sole permettendo all'aria di circolare.

Tra la modernizzazione del vernacolare e la monumentalità del moderno - penso ai casi esemplari degli edifici di le Corbusier a Chandigarh e di Kahn a Dhaka - la sua architettura appartiene insieme a quella di Charles Correa a quel «postmodernismo indigeno», come è stato definito, che evoca la tradizione senza rinunciare alla lezione dei maestri dell'architettura occidentale. Cosa significa - e come si esprime nella sua opera architettonica - la modernità a confronto con la storia millenaria dell'India?

Noi abbiamo appreso da Le Corbusier e Kahn l'importante lezione che l'architettura moderna è in grado di esprimere profonde emozioni. Io non so se sia possibile definire la mia architettura come «postmoderna». Spero di avere evitato gli sterili aspetti del modernismo, così come il cliché di imitare il manierismo storico del passato, tipico di certi postmodernisti. Non credo che si possano trasferire i motivi architettonici dal passato negli edifici di oggi, ma sono convinto che l'architettura tradizionale possa darci delle importanti lezioni. Nel campo delle considerazioni climatiche, le città del Rajasthan e le città storiche italiane, con la loro tradizionale morfologia, hanno insegnato moltissimo per la loro bassa altezza e lo sviluppo ad alta densità delle abitazioni, e questo fattore ha direttamente influenzato il mio progetto di cinquecento unità di abitazioni a Nuova Dehli per il Villaggio dei Giochi Asiatici. Viene qui rigettato lo sterile modello istituzionale di abitazioni promosso dagli ingegneri dipartimentali per i lavori pubblici, basato su una infinita ripetizione di uno schema. Al contrario, è stato fatto un tentativo per creare norme urbane da una rete di strade pedonali e piazze. Una strada tangente il complesso consente l'accesso veicolare da due parcheggi terminali, circondati da sentieri pedonali che si collegano ai garage delle abitazioni. Il Villaggio dei Giochi Asiatici reinterpreta molti degli elementi salienti del design vernacolare che ha resistito alla prova del tempo.

Lo scorso anno, al Forum delle Culture di Barcellona lei ha usato parole molto critiche sulla «città verticale» e ha criticato il modello di crescita urbana che si sta sviluppando in Asia, in particolare modo in Cina. Contro la proliferazione dei grattacieli delle mega città di Shangai, Hong Kong e Beijing lei è il più strenuo difensore degli edifici a «scala umana». Ci può spiegare nel dettaglio come immagina la crescita delle città indiane e quali sono i suoi riferimenti teorici e gli esempi già realizzati che considera più interessanti?

Mi rendo conto che le «città verticali» sono inevitabili nelle zone-isola come Manhattan a New York o nelle città-stato come Singapore dove sono richieste eccezionalmente altissime densità abitative. Ma non vedo alcuna logica nella crescita verso l'alto di edifici destinati ad abitazioni in molte città asiatiche. In nome della globalizzazione povere copie dei luccicanti grattacieli made in Usa sono stati imposti a grandi città come Dubai, Beijing o Gurgaon, dove in realtà non hanno alcuna pertinenza né dal punto di vista climatico né da quello culturale. In tutti questi luoghi le forme sembrano seguire la finanza piuttosto che la funzione: ora, è inevitabile che il senso comune veda gli immobiliaristi perseguire la ricchezza, ma ciò non dovrebbe accadere a scapito dei valori umani. La mia opinione è che la bassa altezza e l'alta densità delle abitazioni è la soluzione umana. I nostri progetti per il Villaggio dei Giochi Asiatici o l'Istituto Nazionale di Immunologia sono due possibili esempi. Infatti, la scala delle città potrebbe derivare dai principi di sostenibilità e dagli armoniosi valori del vicinato.

Dai suoi interessi per l'espressione delle strutture deriva quello per lo sviluppo di tipologie e tecnologie per la costruzione di edifici a basso costo per i più poveri. Qual è la situazione in questo momento nel suo paese e a Dehli dove l'attività di Sharma e dell'agenzia Hudco (Housing and Urban Development Corporation) negli anni Ottanta è stata un'esperienza molto importante?

In India noi siamo fortunati a lavorare sotto l'ombrello dell'Hudco e altre organizzazioni pubbliche per progetti di abitazioni a basso costo. Il mio lavoro nel Nuovo Mumbai (Bombay) per abitazioni per poveri è stato un esempio interessante. Invece di costruire larghi blocchi monolitici paralleli di tetre dimensioni, noi abbiamo optato per specie differenti di modelli insediativi. È il caso del progetto per un vasto numero di unità residenziali, frammentato all'interno da più piccole aggregazioni che racchiudono una varietà di spazi e che possono essere congiuntamente ordinate sul versante di una collinetta e disposte insieme con sentieri pedonali. Ma modulando e cambiando le formazioni dei gruppi basati sullo spazio standard, si possono ottenere differenti unità residenziali. A causa del costo dovuto, non è possibile aumentare lo spazio standard per l'abitazione sociale, ma sicuramente un vocabolario di soluzioni progettuali può essere elaborato per gli spazi esterni, al tempo stesso privati e pubblici. Le città del Rajasthan e i villaggi mediterranei forniscono importanti lezioni in questo senso per lo sviluppo ad alta densità. Studi di modelli tradizionali di convivenza forniscono spunti per luoghi che possono promuovere attività collettive, come gli spazi di riunione per gli adulti o le aree per il gioco dei bambini. Il nostro scopo era creare piacevoli recinti di vicinato per la socializzazione e la ricreazione: l'ambiente in casi del genere incoraggia l'amicizia tra le persone di diverse esperienze.

Difficile trattenere la rabbia. Ma forse il modo più coerente per sostenere la straordinaria popolazione della Valle Susa è non farsi spezzare il filo del ragionamento, riuscire ad essere più tenaci dei manganelli; non smettere di argomentare, avere fede nel convincimento.

E se la violenza repressiva del Governo delle destre lesiona i corpi, spezza gli arti, produce dolore fisico (altra forza non conoscono), una sofferenza non meno amara produce l’incomprensione di tanta parte dei rappresentati del centrosinistra, che propugnano una urbanistica e un ambientalismo contrattato, una sorta di compromesso tra le ragioni del vivere e quelle del mercato.

Chiamparino, Bresso, persino Ciampi… che pure sono persone studiate e intelligenti, non riescono a comprendere la novità dei conflitti territoriali di “nuova generazione”che stanno impegnando intere comunità di abitanti in vertenze territoriali di straordinaria radicalità.

Valle di Susa è l’ultimo e più drammatico, ma evidentemente non hanno prestato sufficiente attenzione ai premonitori Scanzano, Acerra, Civitavecchia, Marghera e molti altri che non hanno avuto nemmeno il sostegno delle cronache. Ciò perché non solo le destre, ma anche la cultura tradizionale della sinistra sono così stregate dall’idolatria della crescita, dello sviluppo, del progresso tecnologico, da dimenticare di porsi la più semplice delle domande: "Perchè lo si fa, a quale scopo, a favore di cosa, a discapito di chi altri?". Siamo in un mondo - diceva Rossana Rossanda in Appunti di fine secolo - in cui la febbre del fare strumentale soffoca l’essere.

Insomma, abbiamo perso il senso, il significato, la ragione finale del nostro agire produttivo. Siamo immersi in un mondo che dà per scontato che il bene coincida con la quantità di denari che si riescono ad investire, con la quantità di metricubi che si riescono a costruire, con la quantità di merci che si riescono a produrre, con la velocità con cui le materie prime si trasformano in merci e le merci in rifiuti. Se metti in dubbio questi assiomi ti prendono per pazzo: "Come? Non vuoi che le merci corrano più veloci? che le fabbriche costruiscano più vagoni? che gli ingegneri progettino sistemi sempre più evoluti? Ma allora sei contro il progresso!".

La loro logica è totalizzante, impenetrabile, un “pensiero unico” ossessivamente ripetuto: l’occupazione, il salario, la ricchezza, il benessere… la felicità, in definitiva, dipendono dai capitali investiti e messi a valore in produzione. Il presidente della Patria declama: "Non possiamo essere tagliati fuori dall’Europa". Ma in realtà pensa che non si può rinunciare ad un investimento europeo così grande. Il professor Prodi titola: “Sviluppo o declino” e alle nostre orecchie suona come una minaccia.

Da professoressa di Ecologia ambientale Bresso, spiega: "I treni sono meglio dei Tir". In realtà pensa che la logistica sia il settore strategico per il futuro dell’economia. Come si fa a rifiutare questo ben di Dio? Retrogradi ed egoisti!

Premesso che la prospettiva di vivere in un “corridoio”, per quanto numerato “5” e dalle origini e destinazioni affascinati (Barcellona-Kiev), non può attrarre nessuna persona di buon senso; superato ciò che non si può superare, cioè l’irreversibilità di alcuni impatti ambientali; fingendo di non sentire le bugie francesi secondo cui i Tir viaggerebbero ad Alta velocità; messe da parte le incongruenze progettuali e le alternative mai comparate (Valutazione strategica del progetto) … rimane la questione di fondo: è proprio vero che far transitare più merci e più passeggeri lungo la Pianura padana comporti qualche beneficio ai suoi legittimi abitanti?

Oppure, più crudemente, ci viene chiesto di immolare un ulteriore pezzo della nostra terra e della nostra vita al dio della crescita, del progresso e della redditività dei capitali delle banche europee?

Vista dal satellite la Pianura padana ha l’aspetto di una megalopoli “senza forma e senza sentimento”, una non-città maleodorante, un fenomeno cancrenoso cui insiste permanentemente una nube brunastra di gas tossici, densa solo quanto quella stazionante su Bombay. Vista da dentro la città diffusa padana è un’“ampia poltiglia” di cemento e asfalto a servizio delle più casuali, bizzarre, inquinanti iniziative economiche dove è sempre più difficile muoversi, respirare, vivere.

E’ questo lo sviluppo “effettivamente esistente” che gli abitanti in carne e ossa conoscono. Ed è questo il “modello” che la Tav è destinata a servire e ad incrementare. Non c’è, quindi, nulla da stupirsi se qualche comunità locale non ancora disintegrata nelle sue relazioni umane dall’avanzare della città capitalistica diffusa abbia deciso di opporre un rifiuto (rifiuti analoghi li hanno posti gli svizzeri, gli austriaci, gli sloveni). Se ciò avviene non è per merito dell’ecomarxismo e nemmeno dell’anarcolocalismo. Avviene semplicemente perché la saturazione è un fenomeno naturale conosciuto sia in fisica (ancorché ignorato dagli economisti) che in sociologia (ancorché contrastato con i manganelli della polizia).

In altri termini, molte persone hanno preso coscienza dei propri luoghi e non credono più alla bugia della diffusione del benessere per trickle down effect. Per “sgocciolamento” o per “percolazione” sul territorio arrivano solo i reflui inquinati delle grandi opere.

7 dicembre 2005

Gli abitanti della Val Susa che si oppongono alla costruzione del mega tunnel per l´alta velocità ferroviaria hanno ragione sia in linea teorica che pratica ma temiamo che saranno sconfitti perché le follie e le illusioni dello sviluppo sono irresistibili. Da Rutelli a Fassino la sinistra che dovrebbe difendere gli uomini dalla rincorsa cieca e autolesionista allo sviluppo dissennato, ha già alzato bandiera bianca. Il governo della ragione può aspettare, quello dei sogni e delle illusioni disastrose deve continuare. Che il mito dell´alta velocità si risolva in pratica nel suo contrario se ignora la ragione e segue solo gli interessi di chi ci guadagna sopra, è sotto gli occhi di tutti: nelle grandi città traffico e trasporti sono più lenti oggi che un secolo fa, si passa più tempo nelle code automobilistiche che quando si andava a piedi o in carrozza. Gli abitanti della valle di Susa marciano con bandiere e cartelli per dire no all´alta velocità ferroviaria che per cominciare rovinerebbe la qualità della vita nella valle per almeno quindici anni, lavori in corso con frastuoni, inquinamenti, avvelenamenti. Ma temiamo che dovranno cedere, rassegnarsi, l´opinione pubblica vincente è quella che applaude il Celentano, che celebra il rock scattante, veloce contro il retrogrado lento. È tornato il futurismo, compagno di strada del fascismo.

Ha scritto Hanna Arendt: «Sembra che fra le principali caratteristiche di questo tempo ci sia la mancanza di pensiero. Quello che io propongo è molto semplice, niente di più che pensare a quello che facciamo».

Ma chi ti lascia il tempo per pensare, come puoi pensare se la regola di vita dominante nel capitalismo come nel comunismo è quella di fare ciò che vogliono le élites al potere? La pianura padana da Torino a Novara è stata squarciata, devastata, cementata dalla linea ferroviaria dell´alta velocità.

Non l´abbiamo pensata perché le aziende delle costruzioni e del cemento non avevano alcun interesse a discuterne con gli italiani, e ora in moltissimi siamo di fronte al fatto compiuto, la linea ad alta velocità è quasi pronta.

Per risparmiare un quarto d´ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d´Italia una gigantesca linea Maginot. La più indecente delle speculazioni, milioni di metri cubi di cemento per sovrappassi faraonici, viadotti giganteschi che si torcono, si intrecciano fra cielo e terra senza alcuna utilità come serpenti creati dall´uomo per soffocare la sua specie maledetta, cacciata dall´Eden. Il ministro della devastazione Lunardi ha già percorso la linea su un treno speciale che fra Torino e Novara ci ha messo dieci minuti in meno. Ci sono dei retrogradi che si chiedono se non sarebbe meglio per i cittadini metterci dieci minuti in più ma in carrozze più comode e senza le cimici e magari avere una rete più sicura, ponti che non cadono ad ogni alluvione, treni riscaldati per gli operai, vetture letti e ristoranti decenti.

L´alta velocità della Val Susa, i cinquantadue chilometri in galleria che ne cambieranno gli equilibri hanno il consenso di tutti i rock italiani.

Mussolini queste cose le aveva capite da bravo populista, offrì agli italiani il primato aereo di velocità di un prototipo e poi mandò migliaia di aviatori alla morte su aerei vecchi e mal costruiti. Imitato oggi dai berlusconiani delle grandi opere che scavano una galleria di settanta chilometri sotto gli Appennini da Modena a Firenze per guadagnare venti minuti ma non hanno speso una lira per dare acqua alle regioni assetate del sud. E naturalmente si sono messi sotto accusa per aiutare il finto progresso i politici «lenti», come Sergio Vallero, presidente del Consiglio provinciale di Torino o i sindaci di Condovea e di Chianocco perseguiti per «resistenza a pubblico ufficiale e blocco stradale». Ma non sono di buon senso le cose dette da Sergio Vallero, «Ci hanno messo di fronte a uno scontro istituzionale nocivo mentre noi abbiamo sempre cercato il dialogo e la mediazione»? Bisogna stare attenti con il decisionismo berlusconiano in una valle come quella di Susa delle poche in Piemonte ad essere una valle «urbana», non una società montanara addormentata nella tradizione ma industrializzata, passata per le lotte operaie e per la resistenza che ha conosciuto anche il movimentismo feroce di Prima linea. Non abbiamo alcun rimpianto per i disperati alla Sergio Segio o alla Fabrizio Giai che si autonominarono avanguardia degli sfruttati e seminarono morte nella valle come nei sobborghi torinesi ma un consiglio alla prudenza ci sembra opportuno, la resistenza degli abitanti della Val Susa va affrontata con sapienza politica, con rispetto degli altri, di quelli che per i decisionisti non contano. C´è sempre un ceto di proprietari che pensa in grande alle spalle degli altri, che fa sacrificare gli altri per le sorti progressive dell´umanità, che in pratica sono quasi sempre le sorti progressive del loro potere e dei loro redditi. Forse è arrivata l´ora che il decisionismo assuma la sua responsabilità e fronteggi i suoi rischi. Le rivolte delle periferie parigine come, in piccolo, la resistenza della Val Susa all´alta velocità, dicono che bisogna anche occuparsi del consenso. Ma il buon senso conta nella storia umana?

Titolo originale: Give these people an inch and they take a city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Provate a camminare verso ovest sul lungomare di Brighton. Lasciate perdere l’orrore del centro congressi. Ignorate la triste carcassa del Molo Occidentale in rovina. Ignorate anche tutti i detriti di mezzo secolo di urbanistica fallimentare.

Al vecchio confine di Hove l’umore migliora. L’ordine regna nella solida Brunswick Terrace. Brunswick Square è un’ondata di stucchi travolgente, una delle piazze più nobili d’Inghiliterra. Adelaide Crescent è un crescendo di architetture e spazi verdi che supera qualunque altra cosa a Bath. Hove, sul mare, per usare le parole di Betjeman è una delle poche città inglesi che si possono tranquillamente chiamare “lei”. È bellissima.

Ora, alzate gli occhi verso ovest, ancora, e immaginatevi due grossi “Prescott” che vi colpiscono in faccia (un Prescott è una torre situata ovunque, che piaccia al vicepresidente del consiglio, come quelle da cinquanta piani che ha appena approvato a Vauxhall sul Tamigi). Le due torri di Hove, una di 25 piani, sono intese a coronamento di un piano da 250 milioni di sterline per il lungomare. Il leader del consiglio municipale di Brighton e Hove, Ken Bodfish, sostiene che le torri faranno di Hove “la città di questo secolo”. Presumo che sia questo, quello che vogliono i cittadini, anche se mi suona nuova.

E sin qui la cosa sarebbe ancora di interesse locale. Ma qui non si tratta di edifici normali. Il loro vero senso, sta nell’essere progettati da un architetto davvero ispirato, il canadese Frank Gehry. Avere un edificio di Gehry in qualunque località d’Inghilterra sarebbe un onore (abbiamo solo la sua piccola clinica Maggie’s Centre in Scozia). Ha anche chiesto la collaborazione dello scultore Antony Gormley. Riconosce anche un contributo dal suo “apprendista”, l’attore con la passione dell’architettura Brad Pitt. Da qui la battuta locale che chiama già gli edifici “i Pitt”.

Sarei disposto a dare molto per un progetto di Gehry. Avrei sacrificato la centrale elettrica sulla riva alla Tate Modern per il suo Guggenheim di Bilbao, che a dire il vero costa di meno. Sacrificherei certamente la desolazione cementizia della South Bank per la sua Disney Hall di Los Angeles. Il suo uso esotico delle forme, colori e materiali può essere entusiasmante, e grazie al cielo odia le grandi superfici a vetro. Di sicuro Brighton meritebbe un progetto di Gehry.

Questo, però, non vuol dire qualunque progetto di Gehry, messo in qualunque posto. Un edificio è arte, nel contesto più pubblico possibile. Un piccolo edificio si rivolge ad una strada. Una torre si rivolge a tutta la città. Ciascun cittadino ha diritto ad esprimere un punto di vista sulla sua realizzazione o meno, o dove debba essere costruita. La gran parte del lavoro di Gehry è costituita da un sofisticato intreccio di piani, spesso influenzato da tematiche marine. Possono essere ispiratori, divertenti, acuti, intelligenti.

Le torri di Hove sono solo sciocche. Sembrano fogli di carta appallottolati messi l’uno sull’altro, avvolti in un malsano involucro che riecheggia il World Trade Centre che implode. Gehry le descrive come evocanti “i movimenti di un vestito da dama edoardiana sul lungomare”, rafforzando la mia opinione secondo cui gli architetti, qualunque cosa facciano, non dovrebbero parlare.

Nella maggior parte dei lavori di Gehry ci sono logica e disciplina. Le torri di Hove sembrano non avere né l’una né l’altra. E anche così, le loro superfici sbucciate e i lineamenti caotici non interesserebbero tanto, se il complesso fosse poco sviluppato in altezza. Il vicino centro sportivo King Alfred, ben attaccato al suolo ha un aspetto attraente, e si deve fare. Le torri sono una faccenda diversa. Sono un grido, non un mormorio. Urlano su tutta Hove, impongono attenzione.

Abbiamo perso la sensibilità per regolamentare gli edifici urbani. La catastrofe degli interventi pronti a spuntare dappertutto a Londra è una tragica replica di quanto accadde negli anni ’60 e ‘70. Ogni veduta, per quanto solenne, sarà riempita da una punta di vetro, o una piramide, o una scheggia, cuneo, tubo. Lo skyline di Londra sembrerà il banale recinto da gioco di un bambino sparpagliato di giocatoli geometrici. Le torri non mostrano alcun rispetto per le immediate vicinanze, figuriamoci l’orizzonte. Sono pezzi architettonici da museo, che usano la città come vetrina e catalogo.

Questo museo un tempo era curato dall’urbanistica. Ma in Gran Bretagna l’urbanistica ha perso la sua tradizionale battaglia contro un potere asservito al denaro: in gran parte contro John Prescott e gli interessi della lobby edilizia. A Londra, l’epoca in cui i Very High Buildings (VHB) erano destinati a raccogliersi lontano dalle zone residenziali e storiche, è finita. Architetti e costruttori odiano i raggruppamenti, per la semplice ragione che gli altri VHB sono infernali da avere attorno. Ognuno vuole essere isolato, con la propria visibilità da lontano. Non sanno più tenere un rapporto con le strade, conversare coi quartieri. Sanno solo dare pugni in faccia. La progettazione di ambiente si risolve nel famigerato “stronzo in mezzo alla piazza”.

Bernard Levin auspicava che si sparasse a un architetto all’anno, pour encourager les autres. Non è leale. Gli architetti lavorano. Se affermano di fare arte, allora c’è qualcun altro che deve pagare. La colpa dei cattivi edifici è di chi avrebbe il compito di controllarli in nome del pubblico, approvando quelli buoni e respingendo quelli non buoni. È a loro, e a quelli a cui loro rispondono, che si dovrebbe sparare, quando si verifica un’offesa.

Una buona urbanistica è il segno sicuro di una comunità civile. Senza di essa, resterebbero pochi vecchi edifici nei centri delle città britanniche. L’intera zona centrale di Londra sarebbe il sogno del sindaco Bodfish, una “città di questo secolo”. Sappiamo esattamente che aspetto avrebbe avuto, perché è stata pensata negli anni dopo la seconda guerra mondiale da pianificatori come Abercrombie e Buchanan. Sarebbe stata una città di piastre di cemento e torri, una Stalingrado-sul-Tamigi. Date un dito a questa gente, e si prendono tutta la città.

Guardate cos’hanno fatto con Brasilia, Canberra, Cumbernauld e Milton Keynes.

Le vedute dal lungomare di Hove dovrebbero essere un monumento nazionale. È qui che negli anni ’20 del XIX secolo gli architetti Charles Busby, Amon Wilds e Decimus Burton volevano creare in riva al mare una versione ancora più splendente della contemporanea Regent’s Park di John Nash a Londra. Ci sono riusciti.

Niente dovrebbe intromettersi, in questo splendore. La vista da est verso il centro di Brighton è già stata profanata da tozzi appartamenti, le catapecchie di un centro congressi e divertimenti, un molo in rovina, che tutti farebbero vincere a Brighton qualunque premio “comune delle schifezze”. Ma i meravigliosi complessi di Kemptown e Hove restano intatti. Sono la gloria del sud Inghilterra.

Il genio di Gehry non si diminuisce dicendogli di diminuire la dimensione dei suoi progetti, per restare entro il campo visivo del sito. L’ha già fatto una volta. Se i capolavori di Busby, Wilds e Burton non pretendono di offendere la sua opera, perché dovrebbe farlo lui con le loro? La Tate non mette i lavori di Rothko nella stessa sala di quelli di Turner. E Prescott non mette le sue torri in Parliament Square o i suoi uffici amministrativi a Dovedale (non ancora).

Anche la mente più prosaica ha qualche residuo di DNA che riesce a distinguere il brutto o l’inadeguato dal bello. Sa capire la stupidità della massima secondo cui “la bellezza sta nell’occhio del padrone”. C’è una cosa che si chiama estetica pubblica, ed è il motivo per cui si fa tanto per salvare la grande arte. Eppure, ci importa tanto poco della forma d’arte più pubblica, la forma della città.

Le città moderne stanno diventando come zoo che contengono solo elefanti. Hove ha ancora uccelli del paradiso. Perché calpestarli?

Nota: il testo originale al sito del Guardian ; altri particolari e links sul progetto di Gehry, a questa pagina del sito Europaconcorsi (f.b.)

Allora voi qui siete socialisti? Il vicesindaco Erik Sten, 37 anni, allenta il nodo della cravatta. Si vede che deve far spazio a una risposta che aveva in canna da molto tempo: “Be’, qualcuno dovrà esserlo”. I Bush non hanno mai messo piede a Portland, è come se Berlusconi andasse a Livorno. Nella “repubblica cristiana d’America” dell’era teocon questa è certo la città del Diavolo. Èinvece il paradiso in terra e la mecca laica per l’altra metà degli americani: “ Portland, la città perfetta” ha titolato recentemente il New York Times, per citare solo uno dei grandi giornali che negli ultimi mesi hanno raccontato il fenomeno della piccola - circa 600 mila abitanti -metropoli ribelle del Nord West, nell’Oregon, la nuova frontiera dello spirito “ radical” (ma non chic, perché anche il bostoniano Kerry, che qui l’anno scorso prese l’80 per cento dei voti, “non diventerebbe neanche assessore” garantisce Sten).

Tanto per cominciare, diversamente dal resto degli Stati Uniti, “pubblico” non è una parolaccia a Portland. Anzi, è la parola chiave per scoprire il segreto della sua diversità, e la pronunciano tutti quasi con ostentazione, così che sembra l’ultima trovata tecnologica, una cosa appena scoperta, moderna e rivoluzionaria.

Il 90 per cento dei bambini frequenta la scuola pubblica

Un mese fa, a dichiarazione dei redditi già presentata, il 70 per cento della popolazione ha votato sì a un referendum comunale che chiedeva un aiutino extra per sanare il bilancio delle Superiori pubbliche. Il comune, senza incontrare ostacoli, ha piazzato 900 case popolari nel Pearl District, ex quartiere operaio oggi sofisticato centro artistico e professionale di Portland: “Non siamo contro il privato, ma ci piace di più se c’ è anche una buona dose di pubblico” spiega Sten “il rosso”. Per gli homeless (quelli che qui arrivano in abbondanza, triturati dal liberismo) i servizi sociali hanno costruito fuori porta un villaggio tutto per loro: Dignity Village si chiama, basta rubare una volta per tornare sotto i ponti. Ma è sul fronte energia che Portland fa notizia. Ricordate Enron, il colosso dello scandalo? Ecco: era il maggiore fornitore d’energia in città, ma il comune ha comprato le centrali spendendo un’iradiddio, perche Portland sta diventando il laboratorio ambientale d’America, si gioca tutto sul verde.

Un incubo per Bush: questi rompiscatole hanno avuto il coraggio, unici negli Usa, di applicare gli accordi di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. I dati sono usciti proprio mentre eravamo lì: dal 1993 il livello di emissioni pro capite è diminuito del 13 per cento. “Kyoto avrebbe distrutto la nostra economia” dice Bush. E a Portland rispondono: “Kyoto ci ha resi più ricchi e più sani”. E giù con l’elenco: meno tasse per tutti spese in energia, trasporto pubblico (soprattutto tram) così efficiente ed economico che in quattro anni il traffico è calato del 25 per cento, mille chilometri di piste ciclabili, una generazione di “cervelli verdi” richiesti in tutto il mondo e che è volano per l’eco-economia locale: hanno addirittura inventato lampadine per semafori che consumano l’80 per cento in meno di elettricità e fanno risparmiare un milione di dollari l’anno. “Un successo che va controllato” dice Ken Rost, 32 anni, manager pubblico che ha rinunciato a un megastipendio della portlandese Nike: “C’è la corsa a venire a vivere qui, soprattutto dopo la guerra in Iraq e la rielezione di Bush. E diversamente dalle altre città qui tutti vogliono abitare in centro; i prezzi aumentano e dobbiamo difendere il tessuto comunitario, evitare divari tra ricchi e poveri, continuare a essere l’anti corporated city”.

E il privato? La forza diabolica di Portland (chi legge Chuck Palahniuk, il vate dell’America “altra”, già lo sa) è soprattutto nell’arte di vivere controcorrente. Nelle storie, per esempio, di gente come Naomi e Michael Hebberoy. Sono chef, “chef anarchici”. Se gli chiedi quanti anni hanno rispondono “non abbastanza per ricordarci l’amministrazione Reagan”. Li hanno giudicati tra i dieci più influenti ristoratori d’America. Sei anni fa erano una coppia disoccupata: “Sapevamo solo fare buon sesso. E buoni piatti dopo il sesso”. Concepirono un piano: costruirono un grande tavolo e invitarono a casa trenta amici, il prezzo: una sedia. La volta successiva gli amici degli amici dovevano portare una bottiglia e lasciare cinque dollari. Da quel ristorante clandestino è nato Family Supper, il primo locale per sole famiglie degli Usa. Lì c’è ancora lo stesso tavolo. Ora gli Hebberoy gestiscono tre ristoranti, hanno cento dipendenti e un fatturato annuo di sette milioni di dollari. Eppure Michael sta per pubblicare un libro intitolato Kill the restaurant: “Voglio creare una rete nazionale di ristoranti illegali, underground. Mangiare bene deve essere un diritto per tutti”. Micidiale: ha rifiutato la prenotazione di 15 executive della Monsanto, quella che ha il monopolio mondiale delle coltivazioni Ogm. “Non voglio il nemico in casa” gli ha detto.

Portland è una città slow food. L’85 per cento dei ristoranti acquista prodotti biologici dai contadini della regione. “Qui è difficile trovare i pomodori in dicembre” dice Haward Silverman del centro Ecotrust, nato per difendere le risorse locali: “Prendi il salmone. Con la nostra politica quello non coltivato costa un terzo meno di quello d’allevamento”. Un mondo a parte che richiama sul Pacifico carovane di “pionieri dell’anima” come li definisce Palahniuk, il più famoso tra tanti scrittori adottati dalla città americana che legge di più, tanto che vanta il più grande negozio di libri usati del mondo, Powell’s Books, 15 mila metri quadrati, un intero isolato. “Siamo tutti resistenti, profughi e fuggiaschi” dice il regista Gus van Sant, che come Todd Haynes ha lasciato Los Angeles per venire qui. Viaggi “one way” come quello di Jeffrey Kovel, 32 anni, l’architetto del “costruire sostenibile” più corteggiato degli Usa che ha lasciato New York “perché la noia mi uccideva. Qui - racconta - ho trovato il Rinascimento”.

Ogni ultimo venerdì del mese nel Pearl District banche, poste, fruttivendoli, boutique diventano gallerie d’arte. I nuovi cercatori d’oro sono però soprattutto musicisti in cerca d’ispirazione più che di gloria. Portland è diventata l’ultimo avamposto delle band. C’è chi sfonda come I Pink Martini e ci sono i musicisti sconosciuti della scuderia di John Askew, il più noto dell’etichetta Film-Guerriero, cooperativa che pubblica solo cd di nicchia: “La vita costa poco, nessuno parla mai di soldi e di religione, ci sono duecento locali, comprese le panetterie, dove puoi suonare e poi, se ti viene un cancro, puoi suicidarti in santa pace” dice Askew, riferendosi all’ultima conquista della secolare Portland, l’assisted suicide, legge che permette ai malati terminali di ingoiare una manciata di barbiturici prescritti dal medico. Pare che la Corte Suprema si prepari ad abolirla, come è accaduto per altre leggi progressiste votate nella città del Diavolo. “Non accettiamo il conformismo, fino alla fine” dice Susan Tolle, direttrice del Centro per l’Etica e la Salute. “Siamo diversi. Per tanti americani la morte è una sconfitta. Per noi può essere una conquista. Ma siamo un’isola in un mare d’ipocrisia”.

Nota: qui su Eddyburg molti articoli trattano le politiche urbanistiche e ambientali a Portland, come quello sul Piano 2040; altri testi che contengono riferimenti alla città si possono trovare semplicemente utilizzando il “cerca” del sito con la parola chiave Portland (f.b.)

Supermarket e piccoli negozi alimentari, spesso messi in piedi da immigrati o a gestione familiare. Ma con orari flessibili che prevedono chiusure a tarda ora e attività anche nei fine settimana.

A dispetto delle statistiche, che evidenziano un’avanzata inarrestabile della grande distribuzione organizzata, i negozi di vicinato sono tornati di moda, soprattutto nelle città di mediograndi dimensioni. "Colpa" della congiuntura economica negativa, che spinge le famiglie a spendere solo piccole cifre ogni volta, oltre che di una popolazione sempre più anziana, con mobilità ridotta e quindi impossibilitata a raggiungere con una certa frequenza gli ipermercati situati in periferia.

Tra le città più interessate da questo fenomeno Bologna. Nel capoluogo emiliano sono sorti 140 negozi di vicinato, situati nelle periferie, soprattutto ai margini poco fuori il centro cittadino. Gestiti da immigrati indiani o nordafricani, ma non solo etnici: nella maggior parte si tratta di piccoli market alimentari con prodotti generalisti. «Un fenomeno — osserva Maurizio Gattiglia, amministratore di Sogegross, catena di alimentari presente a Genova e nella maggior parte dei centri del Nord e Centro Italia — che si spiega con la convergenza di ragioni congiunturali e strutturali. I consumatori si trovano a fare i conti con una contrazione della loro capacità di spesa rispetto a qualche anno fa e per questo sono diventati più prudenti nella spesa. Preferiscono affidarsi ai piccoli centri commerciali, dove spendono piccole cifre per volta». Una percezione più psicologica, che reale. Infatti, è un dato di fatto che i prezzi della grande distribuzione sono mediamente più bassi del piccolo commercio. «È così — prosegue Gattiglia — ma la congiuntura negativa spinge i consumatori a diffidare dei "consumi indotti" dagli ipermercati». A questo si aggiunge il mutamento della tipologia di consumatori. «La popolazione italiana anziana — prosegue — è in rapida crescita. Le persone avanti con gli anni hanno difficoltà a spostarsi, utilizzano l’automobile di rado e per questo preferiscono punti vendita sotto casa o situati a breve distanza dall’abitazione».

Dello stesso avviso Paolo Palomba, direttore marketing di Sigma: «Oltre all’innalzamento dell’età media pesa anche la maggiore incidenza di singoli e nuclei familiari di piccole dimensioni rispetto al passato. Così la grande spesa presso l’ipermercato diventa una necessità episodica».

Un ritorno, quello del piccolo commercio, che tuttavia non trova riscontro nei dati statistici. Secondo le ultime rilevazioni di Unioncamere, tra luglio e settembre le vendite al dettaglio hanno registrato complessivamente una flessione pari allo 0,9% rispetto allo stesso trimestre del 2004. In particolare, sono state proprio le imprese commerciali di piccole dimensioni (cioè gli esercizi con meno di sei addetti) a registrare i cali maggiori (—2,2%). Una maggiore capacità di tenuta è stata, invece, evidenziata dagli esercizi di maggiori dimensioni (+1,4% nella grande distribuzione alimentare). "Nonostante questi dati — annota Carlo Mochi, direttore del Centro Studi di Confcommercio — è un dato di fatto che oggi sono sempre più i piccoli esercizi che aprono i battenti nelle aree ad alta densità abitativa. Negozi che intercettano una domanda che vede i consumatori interessati non solo ai prezzi, ma anche alla convenienza in termini logistici della spesa. Resta il fatto — prosegue — che per sopravvivere i negozi di prossimità devono accontentarsi margini di guadagno, ma anche adottare orari di apertura più rigidi del passato». Questo trend fa felici le organizzazioni dei consumatori, che da sempre si battono per il mantenimento dei negozi di quartiere a fianco dei grandi centri commerciali. «L’esperienza della Francia osserva Paolo Landi, presidente dell’Adiconsum insegna che la corsa sfrenata agli ipermercati non risponde alle caratteristiche della domanda, che è molto variegata. Non è un caso, dunque, che molte grandi catene transalpine oggi aprono molti più punti di medie dimensioni rispetto al passato». Per Landi «è sbagliato pensare che ipermercati e supermarket o mercatini rionali siano in competizione fra loro. Le famiglie hanno abitudini di spesa articolate: di solito si recano una volta a settimana nei grandi centri, dove trovano maggiori occasioni di risparmio, mentre per i piccoli acquisti preferiscono i negozi sotto casa».

In questo trend si inserisce anche il ritorno di interesse per i mercati rionali. «Un fenomeno di costume tutto italiano — aggiunge, invece, Carlo Mochi — ogni volta che un’amministrazione comunale decide la chiusura di un mercato scoppia il finimondo perché i cittadini trovano estremamente comodo questo modello di consumo».

Il rinnovato interesse per i negozi di prossimità trova riscontro nelle strategie delle aziende della grande distribuzione. Sia Sogegross che Sigma confermano il maggiore interesse per l’apertura dei classici supermarket, con una forte specializzazione sui prodotti tipici del luogo, rispetto alle grandi strutture. Il mutamento della domanda dei consumatori trova conferma anche nelle strategie di un’azienda specializzata nel mercato delle directory come Seat, che ha messo a punto una guida di copertura del territorio, InZona, riservato ai piccoli acquisti cittadini. Un’iniziativa nata in seguito a uno studio realizzato con la società di ricerca Aaster, da cui è emerso che il contesto sociale delle grandi città è cambiato negli ultimi anni. I piccoli esercizi vengono valutati non più solo in base alle politiche di prezzo che adottano, ma anche per la possibilità di socializzazione che sono in grado di offrire, cosa che manca negli ipermercati. Resta da vedere, infine, se queste nuove dinamiche del mercato avranno influssi sulle politiche di assunzioni delle aziende. «Al momento non riscontriamo grossi discostamenti rispetto al recente passato — annota Antonella Severino, della società di selezione Mcs — né tra i grandi, né tanto meno tra i piccoli. Se la tendenza proseguirà potrebbero però esservi dei mutamenti nei prossimi mesi».

Prodi lancia l'allarme «In Italia rischiamo tante piccole Parigi»

ROMA — Le fiamme che continuano a illuminare i sobborghi di Parigi si propagheranno in Italia? Per Romano Prodi è solo questione di tempo. «Abbiamo le peggiori periferie d'Europa. Non crediamo di essere così diversi da Parigi — ha detto il leader dell'Unione —. Se non facciamo interventi seri, sul piano sociale e con l'edilizia, avremo tante Parigi: ci sono condizioni di vita pessime e infelicità anche dove sono tutti italiani». Prodi proporrà al sindaco di Roma Walter Veltroni una riunione tra amministratori delle grandi città europee «per scambiare informazioni e aiuti riguardo a questi grandi problemi». L'opposizione non ha dubbi: si rischia la rivolta. Nel centrodestra convivono giudizi apocalittici sull'immigrazione irregolare e ottimismo. Il ministro delle Riforme Roberto Calderoli (Lega) ritiene che la guerriglia metropolitana arriverà anche in Italia e propone la linea dura: «Reprimiamo i comportamenti illeciti dei centri sociali, allontaniamo gli irregolari, destiniamo ad altro servizio le toghe colorate politicamente o ideologicamente». Invece il ministro del Welfare, Roberto Maroni, anche lui leghista, osservando quanto accade nella «civilissima» Parigi conclude: «Allora in Italia le condizioni non sono così disperate».

L'emergenza-banlieue infiamma le polemiche. Il deputato di An Enzo Fragalà attacca il leader dell'Unione e punta il dito sulle «miserabili dichiarazioni con le quali Romano Prodi cerca di instillare il seme dell'odio e della violenza nelle giovani generazioni italiane». Una nota di ottimismo viene invece dal direttore generale del Censis, Giuseppe Roma. «Italia e Francia sono contesti diversi. Intanto — spiega — in Italia non abbiamo raggiunto livelli così elevati nè per numero di abitanti nè per percentuale di immigrati. Luoghi come la banlieue parigina non esistono a Roma e neppure a Milano. L'unica dimensione comparabile potrebbe essere l'area napoletana, ma lì il fenomeno ha radici diverse ed è legato soprattutto alla criminalità organizzata».

«Guerriglieri? No, autolesionisti che bruciano le loro scuole»

PARIGI — Se non saranno le scuse di Sarkozy, saranno le sberle dei genitori a fermarli. O nient'altro. Tanto meno la polizia. I piromani notturni delle periferie di Parigi sono in trappola, bloccati in un vicolo cieco almeno quanto il loro grande nemico, il ministro degli Interni Nicolas Sarkozy: più si ostinano a dar fuoco alle polveri, più danno ragione a chi li condanna. Lo pensa e lo scrive Jean Michel Thénard, opinionista del quotidiano di sinistra Libération. «Le auto che incendiano ogni notte, sono le auto dei loro vicini. Le scuole che bruciano, sono le loro scuole. Gli autobus che attaccano, sono quelli che portano al lavoro i loro genitori e a scuola i loro fratelli. La donna disabile che hanno ustionato era anche lei una diseredata di periferia — riflette Thénard —. Prima o poi saranno i loro stessi familiari a imporre di farla finita con la guerriglia urbana».

Ma se non andrà così, la violenza che stringe d'assedio Parigi non farà altro che esasperare sempre più l'opinione pubblica e mettere in imbarazzo la sinistra, che ha sempre difeso gli immigrati.

«È vero, la sinistra ha sempre sostenuto le ragioni di chi è discriminato. Ma aveva cercato di prevenire la violenza con la sicurezza. È stato il governo di destra a smantellare la polizia di quartiere istituita dall'ex primo ministro Lionel Jospin. Gli agenti locali entravano in contatto con la popolazione dei quartieri più difficili, ci vivevano. Conoscevano le persone e si facevano conoscere. Sarkozy, nel 2002, ha stabilito che interpreta la sicurezza solo come repressione».

La via d'uscita?

«Una possibilità è che Sarkozy si scusi delle espressioni usate nei confronti di questi giovani, definiti una "feccia". Ma non sembra intenzionato a farlo, per il momento. La seconda è che siano gli adulti, i genitori a dire basta. E poi c'è un aspetto da non sottovalutare in questa rivolta: quello ludico».

Ludico?

«Certo. Questi ragazzi sono sulle prime pagine di tutti i giornali, ci sono le telecamere, arrivano giornalisti da tutto il mondo. La collera è soltanto uno degli elementi incendiari. Che non ci sia una strategia o una guida politica è dimostrato dai loro obiettivi. Devastano i loro stessi quartieri: se ragionassero politicamente, andrebbero a dar fuoco alle auto parcheggiate a Neully, dove vive il ministro degli Interni».

Ma a sinistra, la coscienza è davvero a posto? Nessuna responsabilità, nessun ripensamento?

«Sul piano della sicurezza direi di no. Sul piano politico invece sì. Il problema delle periferie ha almeno vent' anni e la sinistra ha governato per 15 degli ultimi 24 anni: in materia di integrazione, scuola, servizi sociali, occupazione avrebbe potuto fare di più».

Periferie francesi, la notte più violenta

PARIGI — Nemmeno elicotteri, fotocellule e tremila poliziotti fermano l'onda di violenza nelle periferie francesi. Ripetitiva e preordinata, la guerriglia è ricominciata sabato sera, sfiorando il centro di Parigi, con tre auto incendiate nella terza circoscrizione. Gruppi di giovani (sono stati fermati ragazzini di 10 e 12 anni, con bottiglie incendiarie) hanno assaltato scuole, asili, centri sociali, stazioni di polizia. Una furia cieca, che suscita la reazione della popolazione esasperata, rimette in circolo parole d'ordine xenofobe, destabilizza il governo francese e il suo uomo forte, il ministro dell'Interno Nicolas Sarkozy.

All'ombra di blocchi di cemento uguali, alti e grigi, le carcasse di auto bruciate fanno ormai parte del paesaggio: più di 300, nella decima notte di vandalismi, assalti a negozi e luoghi pubblici, aggressioni a tutto ciò che rappresenta la Francia bianca, dai pompieri agli agenti, dai sindaci agli operatori sociali spediti da queste parti, con una montagna di sussidi, a predicare integrazione nei valori della

République.

Parigi è davvero vicina e lontanissima. La «Nazionale 3» attraversa cittadine appiccicate alla metropoli. Una grande Brianza più povera, zeppa di fabbriche, autosaloni, supermercati, shopping center, depositi. Ma anche di asili nido, campi gioco, licei, ritrovi. Non c'è nulla di più falso dell' immagine di bidonville abitata da disperati. L'apartheid è territoriale. Si traduce nel senso di esclusione di una generazione nata e cresciuta in Francia. Si rafforza con i confini invisibili delle bande, della piccola criminalità, del sommerso che garantisce sopravvivenza e consumi. I proclami di Sarkozy sono stati benzina sul fuoco, hanno prodotto rivalsa e umiliazione generalizzata, attizzato micce in tante altre città della Francia, da Strasburgo a Marsiglia, da Rennes a Tolosa. Ieri sera persino sulla Costa Azzurra, da Cannes a Nizza.

L'effetto moltiplicatore di televisione, blog, cellulari è stato devastante. Estremisti e mestatori hanno trovato facile consenso. Un sindacato di poliziotti denuncia la presenza di islamisti radicali nei disordini, il che è possibile in quartieri da cui sono partiti anche volontari per l'Iraq. Al tramonto, si preparano bottiglie molotov. Le bande si spostano da un quartiere all'altro, decidono obiettivi da colpire. «Sarkozy ci considera tutti teppisti? Glielo abbiamo dimostrato. Adesso ci deve chiedere scusa». Ma la cenere è incandescente da tempo: la mente corre ad un episodio premonitore di tre anni fa, quando la nazionale di calcio, infarcita di campioni maghrebini, venne fischiata da migliaia di giovani che sostenevano la squadra avversaria, l'Algeria.

Clichy-sur-Bois è stato l'avvio della rivolta. Qui è deserto anche il McDonald's. E sembra un angolo di Occidente in un quartiere di donne velate, caffetani colorati e insegne arabe e africane.

Gruppetti di giovani — incappucciati nelle felpe abbondanti da rappeur — tirano dritto, con occhi bassi che tradiscono rancore e paura. Qui sono morti i due adolescenti che si erano rifugiati in una centrale elettrica per sfuggire alla polizia. E qui si è compiuto il misfatto che fa temere una deriva religiosa della protesta: tre lacrimogeni finiti dentro la moschea, mentre la gente pregava. «Incidente», secondo le versioni ufficiali, ma qui tutti credono il contrario. «Non c'era motivo di attaccarci. Questa è una comunità tranquilla. Ci sono piccoli delinquenti, come dappertutto. Sopravviviamo, come hanno fatto i nostri padri venuti dall' Algeria», spiega un giovane. Le cifre parlano per lui: la metà dei 28 mila abitanti ha meno di 25 anni, un quarto sono disoccupati. Ma qui il governo ha stanziato 330 milioni di euro per rinnovare 4.000 alloggi. «Adesso siamo tutti in collera, ma almeno si parla di noi. Cattivi e famosi, evviva».

I soli che sembrano in grado di calmare la rivolta sono gli adulti di questa generazione «no future». Genitori, insegnanti, operatori sociali, capi religiosi, sindaci che stanno dando la più dignitosa dimostrazione di civiltà alla Francia impaurita, ostile, preoccupata per la sua immagine. Anche i genitori delle vittime di Clichy hanno rivolto un appello di pace. A Epinay, una marcia silenziosa, per solidarietà con l'impiegato pestato a morte nelle notti scorse. Una marcia turbata da estremisti di destra, venuti qui a urlare «questa gente odia la Francia». A Aulnay, tremila sono sfilati dietro uno striscione «No alla violenza, si al dialogo». Ci sono anche coraggiosi come Mourad, operatore sociale maghrebino, che ha cercato di fermare una banda con bottiglie incendiarie. Lo hanno insultato e picchiato: «Mi senso umiliato. Il mio lavoro non conta più. Ma di chi è la colpa?».

Meigneux/Ansa

Alcune note firme dell´architettura italiana si sono lamentate per l´invasione nel nostro territorio di architetti stranieri: hanno ragione e hanno torto contemporaneamente. Hanno ragione quando sostengono che gli italiani sono altrettanto se non più bravi degli stranieri: la recente esposizione tenutasi al palazzo della Triennale dimostra che le nostre facoltà di architettura sono capaci di presentare progetti seri, approfonditi, encomiabili.

Merito di studenti impegnati e di docenti preparati. Perché ricorrere a professionisti d´oltralpe, o d´oltre mediterraneo, quando a casa nostra e per cose nostre siamo già eccellenti ed invidiabili?

I protestatari tuttavia hanno torto quando tacciono sul modo con cui vengono dati gli incarichi. La loro protesta è rivolta solamente contro la burocrazia degli organi ufficiali, accusati di frenare e deviare il decorso delle pratiche edilizie, ma non contro la colpevole reticenza degli enti, sia statali che locali, nel promuovere e bandire concorsi pubblici; e contro la deplorevole assenza di questi enti nell´indirizzare e controllare le gare private, quando queste sono di interesse collettivo. Oggi i concorsi pubblici sono evitati con cura; e non sembra che in futuro tornino ad essere adottati con regolarità.

Il più clamoroso intervento monumentale di questi ultimi anni, la ristrutturazione, o meglio il rifacimento quasi integrale, del teatro alla Scala di Milano è stato eseguito dal Comune di Milano senza bandire un concorso.

Peggio: l´intervento di ristrutturazione è stato manovrato in modo tale da sfuggire all´obbligo del concorso, mascherando surrettiziamente i costi di costruzione per evitare i limiti di spesa fissati dalle norme europee. Così facendo si è potuto far progettare l´opera in un primo tempo da un anonimo tecnico, scelto dell´ente scaligero; e in un secondo tempo a un architetto straniero, scelto dal sottosegretario ai Beni culturali. Anche il teatro degli Arcimboldi è stato progettato senza concorso. Battezzato frettolosamente con questo nome solo dopo aver percepito i pericoli che suscitava la iniziale denominazione di "Scala bis", il teatro è stato costruito con notevoli investimenti pubblici; avrebbe quindi dovuto obbligatoriamente sottostare ad un pubblico concorso di progetto, in osservanza alle norme europee. L´infrazione è stata severamente stigmatizzata dagli organi di tutela europea, avvertiti coraggiosamente dal presidente dell´Ordine degli architetti di Milano, Piero De Amicis. I concorsi di progettazione, per effetto di una recente legge capestro relativa agli appalti banditi da enti pubblici, sono condizionati da pesanti ed inique clausole: queste sbarrano la possibilità di accedere ai concorsi anzitutto ai giovani; e in seguito anche a chi non può vantare bilanci professionali stratosferici, o non ha avuto recenti incarichi di dimensione colossale.

Il torto di chi protesta contro gli architetti stranieri, e contro la loro calata da dominatori in Italia, sta proprio in questo: nel tacere la deplorevole prassi degli attuali concorsi di progettazione, nell´ignorare e non richiedere, per ragioni di interesse professionale, procedure più eque, più imparziali, più democratiche. Guerra internazionale di stelle: ma guerra che appunto si svolge in alto, sopra le nostre teste, e che quaggiù lascia i comuni mortali costretti ad arrangiarsi come possono.

Nota: sullo stesso tema, qui su Eddyburg l'articolo di Pierluigi Panza dal Corsera, e la lettera di Filippo Ciccone(f.b.)

"Coinvolgere le popolazioni nelle scelte": è la frase che echeggia dalla Val di Susa fino a Roma, ed è una frase terribile. Non perché sia sbagliata, anzi: "coinvolgere le popolazioni nelle scelte" è solo un modo per dire democrazia, niente di più, niente di meno. La frase è terribile perché, solo a udirla, ci si rende conto della sua totale inapplicabilità, e cioè dell´inapplicabilità della democrazia. I centri di potere economico e tecnocratico sono pochi e impenetrabili, e pianificano il futuro di tutti in superba autarchia: giuste o sbagliate che siano, le famose scelte strategiche arrivano alle "popolazioni" già confezionate e ultimative. E il contraccolpo inevitabile è quasi sempre la rivolta, e il rimedio proposto, quando è oramai tardi, è spesso demagogico e assemblearista, emotivo e insofferente, paralizzante. E´ come se fossero spariti, tra potere e "gente", gli ammortizzatori, i livelli intermedi, i luoghi di discussione e di analisi, dove far decantare i conflitti e costruire senso comune. Quel luogo sarebbe la politica, quel luogo erano i partiti politici quando esistevano e funzionavano. La politica-spettacolo, quella dei leader e dei proclami, del marketing e dei salotti televisivi, è una politica lazzarona: non fa più il suo lavoro, e il prezzo lo paghiamo tutti.

Ne ha parlato il presidente Soru l'altra sera a Ballarò: il valore degli immobili nelle pregiate coste sarde, è argomento finalmente ricorrente anche per via di recenti eccezionali compravendite. Un ricco russo avrebbe acquistato una casa in Costa Smeralda per la somma di 35 milioni di euro, ma la notizia è stata rubricata tra le bizzarrie mondane estive pure nel gran parlare di rendite immobiliari. Una somma notevole, se si pensa che qualche anno fa una casa dello stesso rango poteva essere ceduta per una decina di miliardi di lire, che sembrava, anche a quelli che di case qui ne possiedono sei o sette, un prezzo notevole. Allora per riflettere due conti, che dicono dell'abilità di chi per mestiere compra e rivende case in tempi brevi con vantaggi non comuni. Anche immaginando l'impiego di materiali preziosissimi, il costo di costruzione di un metro quadro finito di casa si può aggirare, esagerando, sui 2000-2500 euro. Ecco: la casa in questione, alcune centinaia di metri quadri, costerebbe, è costata per realizzarla, poco più di un milione di euro.

Il resto del valore - per arrivare a 35 milioni - è dato dalla speciale condizione del paesaggio che noi mettiamo a disposizione. Grande plusvalenza, pure con un lotto accessoriato, una supervista sul mare, dirimpettai molto ma molto altolocati. Per queste merci è così. E ogni giudizio pensando ai tanti senza casa o nel segno della parsimonia, è superfluo. E' così. Anche se sgomenta pensare che una decina di ettari di terra, poco distanti da qui, valgono molto poco e non si vendono neppure con l'aggiunta di un gregge di pecore lattifere.

Per stare alle questioni poste da Soru. È bene ripeterlo: queste ricchezze, prodotte con tanti guasti ai luoghi, non rendono nulla alle comunità locali. Spiccioli a qualche manutentore e spiccioli per l'Ici (le mance che si lasciano da queste parti sono più generose).

Anche questi investimenti stanno nel genere delle delocalizzazioni. Gli stessi che spostano le fabbriche dove il costo del lavoro è più conveniente e i capitali dove torna utile, realizzano case dove il mare non ha rivali.

Convenienza per convenienza, occorre uno sforzo di fantasia perché la finanza creativa non sia a senso unico e tassare adeguatamente questi ingenti patrimoni che devono tutto ai paesaggi che corrompono. Questo per l'esistente.

Poi, occorre dirlo chiaro per chi ritiene ancora di concedere questi privilegi, che una volta fatte le case resta comunque troppo poco alla Sardegna al di là del compiacimento della presenza di tanta bella gente da queste parti ( «ajò a vedere le ville dei ricchi a Porto Cervo»).

La cancellazione dei connotati di spiagge e scogliere procurano vantaggi a pochi che spesso non hanno idea di dove siano le case preziose che possiedono.

Queste concessioni a edificare non c'entrano nulla con l' uso (case che si abitano una settimana all'anno) e che sono appunto nel novero delle speculazioni. Al centro quei beni nel ciclo denaro-merce-denaro ( ne ha scritto Valentino Parlato) che il nuovo capitalismo italiano predilige.

Occorre intensificare l'impegno per tutelare i nostri interessi quelli delle giovani generazioni che vorranno mettere a frutto i nostri beni ambientali.

Attenzione. Perché nella riflessione che si è aperta su questi temi in Sardegna, qualcuno nel centrodestra porta l'argomento dell'incremento dei prezzi delle case esistenti nelle coste, dato dal vantaggio - uno scandalo per i liberisti - che verrebbe da una politica di contenimento delle trasformazioni dei litorali. Quindi: «più case al mare per tutti», come nel comizio di Albanese.

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