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Alcune note firme dell´architettura italiana si sono lamentate per l´invasione nel nostro territorio di architetti stranieri: hanno ragione e hanno torto contemporaneamente. Hanno ragione quando sostengono che gli italiani sono altrettanto se non più bravi degli stranieri: la recente esposizione tenutasi al palazzo della Triennale dimostra che le nostre facoltà di architettura sono capaci di presentare progetti seri, approfonditi, encomiabili.

Merito di studenti impegnati e di docenti preparati. Perché ricorrere a professionisti d´oltralpe, o d´oltre mediterraneo, quando a casa nostra e per cose nostre siamo già eccellenti ed invidiabili?

I protestatari tuttavia hanno torto quando tacciono sul modo con cui vengono dati gli incarichi. La loro protesta è rivolta solamente contro la burocrazia degli organi ufficiali, accusati di frenare e deviare il decorso delle pratiche edilizie, ma non contro la colpevole reticenza degli enti, sia statali che locali, nel promuovere e bandire concorsi pubblici; e contro la deplorevole assenza di questi enti nell´indirizzare e controllare le gare private, quando queste sono di interesse collettivo. Oggi i concorsi pubblici sono evitati con cura; e non sembra che in futuro tornino ad essere adottati con regolarità.

Il più clamoroso intervento monumentale di questi ultimi anni, la ristrutturazione, o meglio il rifacimento quasi integrale, del teatro alla Scala di Milano è stato eseguito dal Comune di Milano senza bandire un concorso.

Peggio: l´intervento di ristrutturazione è stato manovrato in modo tale da sfuggire all´obbligo del concorso, mascherando surrettiziamente i costi di costruzione per evitare i limiti di spesa fissati dalle norme europee. Così facendo si è potuto far progettare l´opera in un primo tempo da un anonimo tecnico, scelto dell´ente scaligero; e in un secondo tempo a un architetto straniero, scelto dal sottosegretario ai Beni culturali. Anche il teatro degli Arcimboldi è stato progettato senza concorso. Battezzato frettolosamente con questo nome solo dopo aver percepito i pericoli che suscitava la iniziale denominazione di "Scala bis", il teatro è stato costruito con notevoli investimenti pubblici; avrebbe quindi dovuto obbligatoriamente sottostare ad un pubblico concorso di progetto, in osservanza alle norme europee. L´infrazione è stata severamente stigmatizzata dagli organi di tutela europea, avvertiti coraggiosamente dal presidente dell´Ordine degli architetti di Milano, Piero De Amicis. I concorsi di progettazione, per effetto di una recente legge capestro relativa agli appalti banditi da enti pubblici, sono condizionati da pesanti ed inique clausole: queste sbarrano la possibilità di accedere ai concorsi anzitutto ai giovani; e in seguito anche a chi non può vantare bilanci professionali stratosferici, o non ha avuto recenti incarichi di dimensione colossale.

Il torto di chi protesta contro gli architetti stranieri, e contro la loro calata da dominatori in Italia, sta proprio in questo: nel tacere la deplorevole prassi degli attuali concorsi di progettazione, nell´ignorare e non richiedere, per ragioni di interesse professionale, procedure più eque, più imparziali, più democratiche. Guerra internazionale di stelle: ma guerra che appunto si svolge in alto, sopra le nostre teste, e che quaggiù lascia i comuni mortali costretti ad arrangiarsi come possono.

Nota: sullo stesso tema, qui su Eddyburg l'articolo di Pierluigi Panza dal Corsera, e la lettera di Filippo Ciccone(f.b.)

"Coinvolgere le popolazioni nelle scelte": è la frase che echeggia dalla Val di Susa fino a Roma, ed è una frase terribile. Non perché sia sbagliata, anzi: "coinvolgere le popolazioni nelle scelte" è solo un modo per dire democrazia, niente di più, niente di meno. La frase è terribile perché, solo a udirla, ci si rende conto della sua totale inapplicabilità, e cioè dell´inapplicabilità della democrazia. I centri di potere economico e tecnocratico sono pochi e impenetrabili, e pianificano il futuro di tutti in superba autarchia: giuste o sbagliate che siano, le famose scelte strategiche arrivano alle "popolazioni" già confezionate e ultimative. E il contraccolpo inevitabile è quasi sempre la rivolta, e il rimedio proposto, quando è oramai tardi, è spesso demagogico e assemblearista, emotivo e insofferente, paralizzante. E´ come se fossero spariti, tra potere e "gente", gli ammortizzatori, i livelli intermedi, i luoghi di discussione e di analisi, dove far decantare i conflitti e costruire senso comune. Quel luogo sarebbe la politica, quel luogo erano i partiti politici quando esistevano e funzionavano. La politica-spettacolo, quella dei leader e dei proclami, del marketing e dei salotti televisivi, è una politica lazzarona: non fa più il suo lavoro, e il prezzo lo paghiamo tutti.

Ne ha parlato il presidente Soru l'altra sera a Ballarò: il valore degli immobili nelle pregiate coste sarde, è argomento finalmente ricorrente anche per via di recenti eccezionali compravendite. Un ricco russo avrebbe acquistato una casa in Costa Smeralda per la somma di 35 milioni di euro, ma la notizia è stata rubricata tra le bizzarrie mondane estive pure nel gran parlare di rendite immobiliari. Una somma notevole, se si pensa che qualche anno fa una casa dello stesso rango poteva essere ceduta per una decina di miliardi di lire, che sembrava, anche a quelli che di case qui ne possiedono sei o sette, un prezzo notevole. Allora per riflettere due conti, che dicono dell'abilità di chi per mestiere compra e rivende case in tempi brevi con vantaggi non comuni. Anche immaginando l'impiego di materiali preziosissimi, il costo di costruzione di un metro quadro finito di casa si può aggirare, esagerando, sui 2000-2500 euro. Ecco: la casa in questione, alcune centinaia di metri quadri, costerebbe, è costata per realizzarla, poco più di un milione di euro.

Il resto del valore - per arrivare a 35 milioni - è dato dalla speciale condizione del paesaggio che noi mettiamo a disposizione. Grande plusvalenza, pure con un lotto accessoriato, una supervista sul mare, dirimpettai molto ma molto altolocati. Per queste merci è così. E ogni giudizio pensando ai tanti senza casa o nel segno della parsimonia, è superfluo. E' così. Anche se sgomenta pensare che una decina di ettari di terra, poco distanti da qui, valgono molto poco e non si vendono neppure con l'aggiunta di un gregge di pecore lattifere.

Per stare alle questioni poste da Soru. È bene ripeterlo: queste ricchezze, prodotte con tanti guasti ai luoghi, non rendono nulla alle comunità locali. Spiccioli a qualche manutentore e spiccioli per l'Ici (le mance che si lasciano da queste parti sono più generose).

Anche questi investimenti stanno nel genere delle delocalizzazioni. Gli stessi che spostano le fabbriche dove il costo del lavoro è più conveniente e i capitali dove torna utile, realizzano case dove il mare non ha rivali.

Convenienza per convenienza, occorre uno sforzo di fantasia perché la finanza creativa non sia a senso unico e tassare adeguatamente questi ingenti patrimoni che devono tutto ai paesaggi che corrompono. Questo per l'esistente.

Poi, occorre dirlo chiaro per chi ritiene ancora di concedere questi privilegi, che una volta fatte le case resta comunque troppo poco alla Sardegna al di là del compiacimento della presenza di tanta bella gente da queste parti ( «ajò a vedere le ville dei ricchi a Porto Cervo»).

La cancellazione dei connotati di spiagge e scogliere procurano vantaggi a pochi che spesso non hanno idea di dove siano le case preziose che possiedono.

Queste concessioni a edificare non c'entrano nulla con l' uso (case che si abitano una settimana all'anno) e che sono appunto nel novero delle speculazioni. Al centro quei beni nel ciclo denaro-merce-denaro ( ne ha scritto Valentino Parlato) che il nuovo capitalismo italiano predilige.

Occorre intensificare l'impegno per tutelare i nostri interessi quelli delle giovani generazioni che vorranno mettere a frutto i nostri beni ambientali.

Attenzione. Perché nella riflessione che si è aperta su questi temi in Sardegna, qualcuno nel centrodestra porta l'argomento dell'incremento dei prezzi delle case esistenti nelle coste, dato dal vantaggio - uno scandalo per i liberisti - che verrebbe da una politica di contenimento delle trasformazioni dei litorali. Quindi: «più case al mare per tutti», come nel comizio di Albanese.

Titolo originale: Scaling Back New Orleans – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il portavoce Dennis Hastert ha imparato nel modo peggiore i pericoli che si corrono prendendo a calci una città quando è già a terra. Un quotidiano dell’Illinois riferisce che poco dopo l’uragano Katrina abbia detto come New Orleans “poteva essere spianata con le ruspe”, e gli oppositori l’hanno presto zittito con accuse di insensibilità e spietatezza.

L’uragano ha mostrato chiaramente come New Orleans ospiti infrastrutture di trasporto ed energetiche vitali per l’economia nazionale. È città ricca di storia, con un ambiente culturale vivace (e festoso) che tutta la nazione tiene in alta considerazione. Ed è la casa di quasi 500.000 persone legate alla propria comunità. Tutti questi, sono argomenti decisivi per stimolare una grande sforzo affinché la città si riprenda velocemente. La storia dimostra, tra l’altro, che le città hanno la forza di reagire dopo le crisi (pensiamo al grande incendio di Chicago più di un secolo fa).

Ma alcuni economisti iniziano a chiedersi se Mr. Hastert non abbia in qualche modo colto il segno, sull’essere cauti parlando della ricostruzione di New Orleans, per quanto rozzamente l’abbia espresso. Non sono solo gli svantaggi naturali della città (la cui gran parte sta sotto il livello del mare) a preoccupare gli studiosi. È anche il suo stato economico – povertà crescente, e un esodo di persone e imprese già prima che l’uragano colpisse – e la necessità di evitare nuovi incentivi che possano portare ad uno sviluppo non meno vulnerabile.

”Abbiamo degli obblighi nei confronti della popolazione, non dei luoghi” ha detto Edward Glaeser, professore di Harvard specializzato in economia urbana. “Calcolato quanto costerebbe pro-capite ricostruire New Orleans in tutta la sua gloria precedente, sarebbe molto meglio consegnare a parecchi dei residenti un assegno da 10.000 dollari e un biglietto d’autobus per Houston”.

Il paradosso del Buon Samaritano

Gli economisti si misurano da anni coi modi di affrontare le conseguenze dei disastri naturali. Gary Becker, economista premio Nobel che insegna all’Università di Chicago, dice che i decisori politici devono prendere in considerazione quello che lui chiama il “paradosso del Buon Samaritano”. L’istinto di chiunque dopo una calamità naturale è quello di soccorrere le vittime. “È difficile per un paese stare lì seduto a guardare gente in condizioni miserabili dopo un disastro”, dice. “Non è auspicabile”.

Ma gli aiuti, le promesse di ricostruzione, sono anche un incentivo perché le persone continuino a risiedere in località pericolose. Come Glaeser, anche Becker è favorevole agli aiuti. Ma anche a limitarne gli incentivi perversi. Becker sostiene che qualunque sforzo di ricostruzione dovrebbe essere gestito con mano amorosa ma ferma dal governo, ad esempio con rigidi vincoli urbanistici nelle aree a rischio di alluvione, e con altrettanto rigide norme sulle assicurazioni.

E non si tratta del solo premio Nobel che sostiene la cautela nella ricostruzione di New Orleans. “La migliore politica è quella di non consentire la ricostruzione di New Orleans nelle zone dove è possibile l’allagamento” dice Edward Prescott, ricercatore alla Federal Reserve Bank di Minneapolis, famoso per aver utilizzato gli investimenti nelle pianure alluvionate come esempi di politiche di breve termine che invece innescano incentivi di lungo periodo. Richard Posner, giurista conservatore che condivide un sito web con Becker, propone che la città diventi qualcosa come la Williamsburg coloniale: un sito turistico a sé senza una vera città.

Naturalmente, ci sono alte probabilità che la città venga comunque ricostruita. Oltre l’inerzia della decisione politica, i vari oppositori non possono non valutare le pressioni delle attività economiche al ritorno, dice Loren Scott, economista a Baton Rouge. Le imprese chimiche, i cantieri navali, le aziende energetiche, hanno enormi investimenti nell’area, privi di valore quando non operativi: “Torneranno molto velocemente” dice.

Ma le persone potrebbero non farlo. Secondo i calcoli del censimento, la popolazione di New Orleans è diminuita del 4%, pari a 21.000 unità, fra il 2000 e il 2004, agli attuali 462.000 abitanti. Fra le città più popolose della nazione, l’unica con un declino più pronunciato in quell’arco di tempo è stata Detroit. Circa il 24% delle famiglie di New Orleans vivono al di sotto del livello di povertà secondo il Census Bureau, contro il 9% a livello nazionale.

Fuga dalla Città

Molti se ne sono andati nei suburbi in cerca di scuole migliori. Anche alcuni grossi investitori se ne sono andati. ExxonMobil, Shell e ChevronTexaco, per esempio, hanno eliminato o spostato centinaia di posti di lavoro verso Houston negli ultimi anni, proseguendo un esodo dalla città che dura da vent’anni. Risultato: anche se il settore energetico sta attraversando una fase di boom, New Orleans non ne ha beneficiato gran che. Nel 2004, i livelli occupazionali nel settore privato in città erano ancora sotto a quelli del 1997.

Mr. Glaeser sostiene che ci sono problemi di lungo periodo dietro le difficoltà pre-Katrina. Negli anni ’40 del XIX secolo New Orleans era una delle tre città più popolose, insieme a New York e Philadelphia. A quei tempi, il trasporto via acqua era il modo dominante di spostare persone e merci, e l’economia era in gran parte agricola. I collegamenti col Sud e col Mississippi facevano di New Orleans un polo fondamentale e integrale del commercio. Secondo Glaeser, l’ascesa dei trasporti ferroviari e automobilistici, insieme all’industrializzazione del secolo successivo, hanno cambiato tutto questo e innescato il lungo, lento declino della città. Quelle che oggi crescono più rapidamente, nota, sono posti come Las Vegas o Atlanta, organizzate sullo sprawl suburbano e non circondate dall’acqua.

”New Orleans è un luogo che ha raggiunto il proprio massimo livello economico negli USA 160 anni fa” dice Glaeser. “Certo ora non offriva un grande futuro, alla maggioranza dei propri abitanti”.

C’è anche una questione di tempi. Solo due settimane dopo Katrina, città come Baton Rouge o Houston fremono di persone e imprese che tentano di continuare vita e lavoro. Quando il piano di ricostruzione per New Orleans sarà stato steso e attuato, probabilmente migliaia di persone si saranno già stabilite altrove. Come promemoria di quanto lungo – e dibattuto – possa diventare un processo di ricostruzione, resta ancora vuoto, quattro anni dopo l’attacco terroristico su New York dell’11 settembre, lo spazio che era il World Trade: una cicatrice di terreno inedificato.

I questi primi giorni di crisi, Washington non sembra orientata verso la circospezione. Lo stanziamento di 62 miliardi per soccorrere le vittime è solo il primo passo di una spesa che potrebbe raggiungere i 200 miliardi. Ma prima di impegnare questi miliardi a rimediare alla tragedia urbana, questi economisti sostengono che i decisori politici dovrebbero pensare meglio alla condizione in cui era New Orleans, ed essere ben certi di non ricacciarcela.

Nota: il testo originale ripreso dal sito Sito Real Estate Journal ; qui su Eddyburg, tra i molti articoli su New Orleans dopo l'uragano, dubbi sui modi di ricostruzione sono espressi ad esempio da Drake Bennet del Boston Globe (f.b.)

La lettera di Luigi Burla

Prendo spunto dalla recente proposta di legge di riforma urbanistica in discussione in Parlamento.

Mi viene in mente, in contrapposizione, il tentativo di riforma del ministro Fiorentino Sullo nel 1963.

Se la riforma fosse stata approvata avrebbe in un sol colpo eliminato la speculazione edilizia e tutta la corruzione politica a essa legata e avvicinato l'Italia alle nazioni più civili nel governo del territorio. Perché, la «rivoluzionaria» riforma Sullo è stata tanto osteggiata anche da esponenti del suo stesso partito, la Dc?

La risposta di Sergio Romano

Caro Burla, non credo che la riforma proposta da Sullo avrebbe eliminato «in un solo colpo» la speculazione edilizia e la corruzione. Ma l'episodio evocato nella sua lettera fu effettivamente un passaggio importante della storia repubblicana e merita di essere ricordato. Fiorentino Sullo fu per alcuni anni uno degli uomini politici più promettenti della Democrazia cristiana. Era nato nel 1921, aveva partecipato ai lavori dell'Assemblea costituente e apparteneva alla «corrente di base», vale a dire alla sinistra del suo partito. Fu ministro dei Trasporti nel 1960, dei Lavori pubblici nel 1962, della Pubblica istruzione nel 1968. Nel gennaio 1969, mentre dirigeva il ministero di Viale Trastevere, firmò una circolare con la quale veniva riconosciuto il diritto di assemblea degli studenti nelle scuole medie superiori e riformò gli esami di maturità. Negli anni Settanta non condivise la posizione del suo partito sul divorzio e passò ai socialdemocratici con cui si candidò alle elezioni del 1979. Ma ritornò alla Dc nel 1985 e morì nel 2000. Il progetto di riforma urbanistica risale a quella fase della politica italiana in cui Amintore Fanfani e Aldo Moro stavano spostando la Dc a sinistra e incontravano forti opposizioni nell'ala moderata del partito. Il momento cruciale fu la formazione del quarto governo Fanfani nel febbraio 1962. Per dare un segnale di fedeltà all'Alleanza atlantica e agli Stati Uniti, il presidente del Consiglio autorizzò l'installazione dei missili Polaris in Italia. Per ottenere l'appoggio esterno del partito socialista italiano, assunse una serie di impegni «progressisti»: la scuola media unica, l'obbligo scolastico a 14 anni, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la istituzione di una commissione antimafia, una riforma urbanistica. Il compito di scrivere quest'ultima spettò per l'appunto a Fiorentino Sullo che si ispirò a certe misure adottate dal governo laburista di Clement Attlee in Gran Bretagna subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. I sindaci avrebbero avuto il diritto di espropriare i terreni destinati allo sviluppo delle loro città e avrebbero concesso ai privati la licenza di costruire dopo avere realizzato le opere di urbanizzazione. I primi malumori per il programma del governo Fanfani cominciarono a manifestarsi dopo la nazionalizzazione della energia elettrica soprattutto negli ambienti della Confindustria. Quando il presidente dell'associazione, Furio Cicogna, disse nella sua relazione annuale che alcune riforme del centrosinistra avevano scosso la fiducia degli imprenditori, la Dc capì che correva il rischio di perdere, nelle elezioni politiche previste per la fine di aprile del 1963, buona parte del voto moderato e corse ai ripari. Il 16 aprile il Popolo, quotidiano della Democrazia cristiana, pubblicò una nota della segreteria del partito che sconfessava, di fatto, il progetto di Fiorentino Sullo. Il fallimento della riforma ebbe certamente l'effetto di dare mano libera alle urbanizzazioni selvagge di cui soffrirono, da allora, quasi tutte le città italiane. Ma l'esproprio, nel momento in cui la Democrazia cristiana si apprestava a concludere un patto di governo con il partito socialista, suscitava la preoccupazione di molti cittadini che non erano necessariamente speculatori e palazzinari. Se la classe politica italiana avesse voluto impedire gli eccessi e i maneggi degli anni successivi avrebbe potuto farlo con altri mezzi giuridici e amministrativi, più rispettosi della proprietà privata.

Postilla

L’ex ambasciatore, nell’ultima parte della risposta, accredita la tesi che Sullo volesse espropriare “molti cittadini”. La tesi che la proposta dell’esproprio generalizzato significasse l’esproprio delle case non trova alcun riscontro nella proposta di legge. Fu propalata dalla stampa (primo fra tutti il Tempo ), e non sufficientemente contrastata. In effetti, Sullo proponeva ciò che veniva da decenni praticato nell’Europa progredite: la preliminare espropriazione delle aree inedificate, fuori dal perimetro urbano, là dove il PRG aveva deciso di espandere la città costruendo nuovi quartieri. Era una norma, tra l’altro, già in parte presente nella legge urbanistica del 1942 che, all’articolo 18, prevedeva la possibilità dei comuni di espropriare le aree d’espansione. La proposta Sullo trasformava questa possibilità nella regola generale di espansione della città. Non venivano perciò “colpiti” i proprietari di case, ma solo quelli di aree agricole o lasciate incolte “in attesa di edificazione”, ed erano “colpite” con un congruo indennizzo commisurato al valore reale dell’area e alla sua redditività. L’indennizzo non riconosceva la capacità edificatoria dell’area, ma questa dipende da una decisione pubblica, quindi non si capisce perchè il vantaggio debba spettare al proprietario dell’area in aggiunta al valore reale. "Rispettare la proprietà privata", come ammonisce Sergio Romano, significa forse consentirle di approfittare delle decisioni pubbliche senza impiegare nè lavoro nè rischio nè imprenditorialità? I liberali e i liberisti non la pensavano così, signor ambasciatore!

Purtroppo in Italia si era costituito in quegli anni (come ha accuratamente analizzato Valentino Parlato in un suo famoso saggio del 1970) il “blocco edilizio”: un blocco sociale, molto composito, che aggregava attorno agli interessi della speculazione tutti gli interessi proprietari, grandi e piccoli e piccolissimi. Questo blocco allora vinse, grazie a una profonda campagna di disinformazione debolmente contrastata. Non è stato dissolto negli anni successivi, si è trasformato e rafforzato grazie alla "distrazione" della politica e della cultura, sta vincendo di nuovo, con la legge Lupi, alla grande, approfondendo ulteriormente il distacco tra l’Italia e il resto d’Europa

Fiorentino Sullo raccontò la vicenda della legge in un libro oggi introvabile, Lo scandalo urbanistico, Vallecchi 1964. Uno stralcio è qui

Val di Susa è una valle stretta. E anche molto bella, o almeno di questo sono convinti gli abitanti, che amano molto le loro montagne, intorno. Ora questa bellezza e questo bene comune sono messi a rischio dalla costruzione di una nuova linea ferroviaria, cui proprio ieri si sarebbe dovuto dare inizio, piantando i primi pali. E contro queste prime attività concrete di recinzione, per l’appunto una prima sottrazione di territorio, simbolo di tutto il resto che dovrebbe seguire, c’erano i sindaci della Val di Susa a manifestare, insieme alla popolazione, contro la Tav, la linea ad alta velocità-capacità, tra Torino e Lione.

Le ragioni degli abitanti della Valle sono vere e sono profondamente radicate in quindici anni di lotta. Rifiutano la linea Tav e il modello di sviluppo connesso che consiste nell’occupazione del territorio da parte del Corridoio 5 e la sostanziale estromissione di tutti loro. E ancora; è previsto un cantiere lungo dodici o quindici anni, molto costoso, e utile soltanto per arricchire gli impresari e i costruttori. Oltre tutto, la strada ferrata c’è già e potrebbe essere aggiornata per soddisfare le nuove esigenze di trasporto; invece la si lascia deperire, spostando tutto il traffico su gomma, lungo un’autostrada che insiste anch’essa nella valle e comporta un passaggio di migliaia di camion ogni giorno. Una eventuale nuova via ferroviaria avrebbe un periodo di costruzione effettiva di una dozzina di anni, nel corso dei quali il traffico e il disordine aumenterebbero ancora di molto, proprio per le esigenze dei cantieri, senza portare alla valle – stretta come prima, fragile come prima – alcun vantaggio.

Ma non è tutto. Il monte Ambin, sotto cui dovrebbe passere il tracciato, è notoriamente ricco di amianto. Il minerale, scavato in grande quantità, darebbe luogo a molte polveri e le polveri avrebbero buon gioco nel disperdersi lungo tutta la valle e anche più in là, molto più in là. C’è poi un’altra ricchezza nelle viscere della montagna: l’uranio. E anche questo verrebbe portato alla luce, con la sua bassa intensità radioattiva. Poi c’è l’acqua. O meglio c’era perché gli scavi precedenti, per l’autostrada, per la centrale elettrica dell’Aem, hanno intaccato le falde, creando un vero lago sotterraneo che poi è stato riassorbito; ma ormai il sistema di raccolta delle acque, ricchezza della terra, era irrimediabilmente sconvolto.

La montagna, la valle, il suolo, l’acqua, lo spazio stesso nel territorio, sono tutti beni comuni. Tutti li devono rispettare. Non sono in particolare degli abitanti della valle, ma essi ne sono i custodi e per ora hanno svolto bene il loro compito, anche se hanno subìto molti attacchi. Ora c’è questa forza contro di loro, travestita da progresso, ma in realtà capace solo di fare buchi costosi, buchi osceni nella montagna, buchi lunghi 50 chilometri; e si serve della menzogna quando dice di avere ottenuto l’autorizzazione del Cipe che invece non c’è ancora, come non c’è la delibera della Corte dei conti per la spesa distruttiva. Si dirà che i sindaci e gli abitanti della valle sono contro il progresso: non credeteci. Sono gli altri che vogliono solo giocare ai trenini; e farseli anche pagare – e da noi – molto cari.

Nota: al sito di Legambiente Val di Susa una cronaca illustrata delle manifestazioni popolari contro l'Alta Velocità del 31 ottobre 2005, e altre informazioni sul progetto; per il problema generale dei collegamenti Torino-Lione si vedano anche gli interventi di vari Autori sul sito LaVoce (f.b.)

Titolo originale: Among the Ruins, Something to Build On – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

NEW ORLEANS – È difficile immaginare che una città abbia mai avuto un aspetto del genere. Se si prendesse una città del mondo famosa per i suoi canali – diciamo Amsterdam, o Venezia in Italia – e la si scuotesse violentemente girandola di lato, in modo tale da allagare metà dei quartieri, e lasciare l’altra metà a marcire e puzzare nel sole di fine estate, ecco, così si potrebbe cominciare ad avvicinarsi a quello che l’uragano Katrina e la successiva inondazione hanno fatto a New Orleans e ai suoi begli edifici scrostati e poliglotti.

Nascosta sotto lo strato di acque putride che copre ancora più di mezza città, c’è una quantità di danni che non potrà essere valutata per settimane, forse mesi. Ma sembra chiaro che la gran parte, se non tutta la città a nord e a est del centro dovrà essere rasa al suolo.

Ancora giovedì, nella zona di Lakeview, c’erano intere schiere di isolati fatti di case suburbane in stile ranch, costruite soprattutto dagli anni ’40 in poi, dentro a un paio di metri d’acqua. Intanto le parti asciutte della città – l’intero Quartiere Francese e Faubourg Marigny, insieme al Garden District, Uptown e gran parte dell’area terziaria centrale – non hanno subito molto più di qualche albero o linea elettrica abbattuti.

Nel Quartiere Francese, Jackson Square e i decantati edifici ad appartamenti Pontalba sono in buono stato, sorvegliati da militari svogliati che stanno seduti all’ombra sui gradini della Cattedrale di St. Louis. Solo un sinistro senso di vuoto impedisce ad alcuni isolati sulla Bourbon Street di apparire totalmente normali. Lungo St. Charles Avenue, sul lato occidentale, gli edifici rustici universitari delle Tulane e Loyola, o le grandi case private, mostrano a malapena qualche graffio.

Lo stato di queste zone in gran parte non danneggiate, e che contengono quasi tutti gli elementi più famosi caratterizzanti New Orleans e le attrazioni turistiche, fanno propendere per l’ottimismo riguardo al futuro della città. Sono i mattoni su cui edificare la sua possibili rinascita, e sembrano sorprendentemente solidi.

Ma questa è una città il cui fascino, come posto da visitare e per vivere, ha sempre avuto più a che fare con un complesso e diffuso tessuto di quartieri residenziali, che con poche icone architettoniche. Tennessee Williams sottolineava proprio queste qualità nelle indicazioni teatrali per Un Tram chiamato Desiderio: la parte di città attorno alla Elysian Fields Avenue, scriveva, “è povera, ma a differenza dei quartieri del genere in altre città americane possiede un fascino dissoluto”.

E in verità, profonde divisioni razziali e di classe a parte, New Orleans è uno dei pochi posti d’America che dimostra la sua età, nel senso migliore del termine.

Anche se molto vulnerabile alle calamità, quasi tutti i quartieri sono riusciti nel tempo a evitare tutti i progetti di rinnovo urbano o crassamente commerciali di cui altrove si è pagato il prezzo. Ciò si deve in parte all’intrattabile povertà di qui, che ha reso grandi parti di New Orleans poco attraenti per i grandi costruttori nazionali, e in parte a un movimento di conservazione di lunga data.

Katrina, in altre parole, è riuscita a fare a questa città quello che non sarebbe riuscito a una palla da demolizione.

E se esiste un obiettivo per cui architetti e urbanisti americani si sono battuti negli ultimi decenni, è il tentativo di creare dalle macerie edifici legati alla storia urbana, senza per questo apparire banali o sdolcinati. Una volta seppelliti i morti e con la città in ripresa – non dimentichiamo che sta di fronte a quello che probabilmente è il più grosso problema di ripulitura da veleni della storia americana – questo sarà l’obiettivo per New Orleans.

Di solito, vagabondare attorno e guardare gli edifici è esperienza completamente visuale. Ma farsi una breve passeggiata architettonica qui, questa settimana, significava avere tutti i cinque sensi all’erta, spesso letteralmente aggrediti.

C’erano i suoni degli elicotteri, delle imbarcazioni, dei cani randagi nell’aria. Gli antifurto delle auto e dei sistemi di sicurezza degli edifici suonavano incessantemente. Gli aeratori su una moderna torre a uffici su Lafayette Square rombavano come un 747. L’acqua ferma puzzava di fogna, o peggio; avvicinandosi, bisognava badare a dove si mettevano i piedi, a qualunque cosa si toccasse. Quando gli edifici prendevano fuoco – e accadeva spesso all’inizio della settimana – la prima sensazione dell’incendio era un sapore acido sulla lingua.

Solo verso il margine sud-occidentale della città, vicino a Audubon Park, c’era una sensazione di calma. La stupefacente assenza di qualunque danno, lì, non era ovviamente un caso: le famiglie che ci hanno costruito le case più ricche della zona erano pienamente consapevoli della differenza fra terre alte e terre basse, a New Orleans.

Su Chestnut Street nel Garden District, su una delle finestre del secondo piano in una casa dall’aspetto particolarmente solido col tetto a abbaini, era inchiodato un pezzo di compensato con scritto: No Way, Ivan. A quanto pare non solo la casa, ma anche l’asse di compensato erano usciti intatti dall’uragano dell’anno scorso, Ivan.

Sono gli edifici più nuovi ad aver subito il peggio dalle frustate di vento di Katrinae dalla successiva alluvione. Il Superdome traballava già prima che migliaia di sfollati si piazzassero lì. Decine di finestre all’ultimo piano dell’albergo Hyatt sono state spazzate via. Lungo la Interstate 10 a ovest della città, almeno una delle nuove torri con pareti a specchio aveva avuto strappate via dalla tempesta intere parti delle facciate.

La maggior parte dei più noti edifici di New Orleans del XX secolo, però, non ha subito danni significativi. Si tratta ad esempio dei due palazzi per uffici di Gordon Bunshaft dello studio Skidmore, Owings & Merrill, o della Piazza d’Italia di Charles Moore del 1978, uno spazio postmoderno il cui colori vivaci e stile impertinente la fanno sembrare a casa, qui.

L’idea della scorsa settimana del portavoce della Camera J. Dennis Hastert (dell’Illinois) secondo cui “non ha senso” usare fondi federali per ricostruire la città sul sito attuale può non essere stata ben ponderata riguardo ai tempi, ma non è completamente illogica. New Orleans continua ad affondare, un po’ di più ogni anno, il che significa che proteggerla dagli uragani futuri può richiedere non solo argini più solidi, ma sollevare l’intera città.

Ma sarebbe peggio che macabro, lasciare semplicemente vuoti i quartieri più colpiti, o addirittura restituirli per sempre al fondo del lago. Una delle possibilità che si stanno discutendo è di realizzare un enorme parco – magari estendendo City Park lungo il lago a est e ovest per la maggior parte dell’area che ora è sommersa- sostenendo contemporaneamente il trasferimento degli abitanti altrove, in città o nella regione (ci sarà anche bisogno, certamente, di un monumento commemorativo).

La promessa di sostanziosi aiuti federali e privati fa già sognare architetti e urbanisti, su cosa potrebbe diventare, questo parco: oltre che ad altri interventi sulla città e i trasporti già contemplati.

Queste fantasticherie hanno un precedente nella storia di New Orleans: fu il denaro federale – per essere esatti, quello della Works Progress Administration durante il New Deal – a sostenere la realizzazione di gran parte di City Park. E lo stesso vale per i primi sforzi di restauro nel Quartiere Francese. E fu quando l’interesse di Washington per la città declinò, che i progetti infrastrutturali, come quelli per gli argini, restarono disastrosamente abbandonati.

Nota: il testo originale al sito del Los Angeles Times ; su temi analoghi di carattere storico, tradotto qui su Eddyburg si veda almeno l'articolo di Gary Strauss da USA Today sul "genius loci" di New Orleans (f.b.)

C’è la Matera dei Sassi e c’è la Matera nuova. Questa si espande in larghezza, ma soprattutto in altezza, accatastando pezzi su pezzi in modo sconclusionato, consumando terreno e aria, sfidando i dislivelli e imponendosi a chi arriva da fuori, dalla statale che attraversa i campi di ulivi e di quercioli della Murgia, con uno spettacolo vertiginoso. E contro un paravento di cemento va a sbattere lo sguardo di chi aveva letto che Matera era diversa da molte città del Mezzogiorno, divorate dalla speculazione. Qui aveva lavorato Adriano Olivetti. Poi, muovendosi nella sua scia, alcuni architetti hanno studiato come risanare i Sassi e come cucire le due parti della città, quella moderna e quella antica, con le caverne trogloditiche e le case costruite con il tufo cavato dalla roccia calcarenitica - senza che la prima tracimasse nella seconda e senza che questa si ritirasse in una riserva, diventando un museo a cielo aperto.

Molte speranze sono nate allora e poi si sono esaurite. Ora la città nuova cresce senza regole e sui Sassi incombono alcune vistose manipolazioni. La denuncia vibra dalle pagine di un numero speciale della rivista Basilicata, un periodico che ha cinquant’anni di vita e padri illustri (lo stesso Olivetti, gli azionisti, Guido Dorso, Carlo Levi, Tommaso Fiore, Manlio Rossi-Doria), ma che ora esce con cadenza irregolare. E diretto da Leonardo Sacco, ottantadue anni spesi quasi tutti studiando, lavorando in case editrici, inventando giornali e facendo opposizione ai fascisti, ai democristiani di Emilio Colombo e ora a un centrosinistra che nella regione supera il sessanta per cento, a Matera il settanta.

La prima tappa nei Sassi minacciati è lungo i suoi bordi, dove un tempo sorgeva un mulino che negli anni Cinquanta venne ampliato con una torre. Serviva più spazio, si disse, servivano posti di lavoro. Il proprietario era il sindaco di Matera e anche se i Sassi ne uscivano deturpati, in quegli anni pochi si preoccupavano dell’integrità di quelle costruzioni che anzi venivano abbandonate perché, si diceva, erano indegne come abitazioni. Passarono i decenni e un giorno il mulino chiuse. Era l’occasione per demolire la torre e ripristinare l’integrità paesaggistica. E infatti nei primi anni Novanta i redattori di una variante al piano regolatore avevano previsto di buttarla giù. Ma una commissione regionale ai beni ambientali sancì che quella torre aveva «carattere storico», venendo così incontro ai desideri della nuova proprietà che al posto del mulino voleva farci appartamenti e altre residenze. La torre la stanno ultimando in queste settimane, l’edificio è ancora avvolto dalle impalcature, e con la sua mole e le finestre a strapiombo continuerà a opprimere i Sassi.

I Sassi occupano un’area di trenta ettari. Si distendono lungo il fianco di una rupe che scende verso il torrente Gravina. A sinistra è il Sasso Barisano, che guarda verso Bari, a destra il Caveoso. Non sono solo caverne. La costruzione dei Sassi iniziò alla fine del Cinquecento, quando sempre più numerose le case presero a disporsi come un collare intorno alla Chiesa Madre, costruita nel 1270. E un paesaggio aspro, un anfiteatro che sembra uscire dal ventre della terra. Pier Paolo Pasolini lo scelse per girarvi il Vangelo secondo Matteo, Mel Gibson per ambientarvi La Passione. Per secoli ha custodito la vita, il lavoro, i culti dei materani. Una strada sinuosa lo attraversa, tocca il limite basso del Gravina e poi torna a inerpicarsi. Dopo una curva sbuca davanti alla chiesa cinquecentesca di Sant’Agostino. Nel convento che è annesso ha sede la Soprintendenza ai beni architettonici e ambientali e proprio davanti agli uffici c’era un grande giardino con alcuni filari di cipressi secolari. C’era: al suo posto ci sono grandi buche e montagne di terra rimossa e tutto intorno corre la recinzione di un cantiere. Cos’è successo lo spiega Raffaele Giura Longo, storico dell’età moderna all’Università di Bari, per tre legislature prima deputato e poi senatore come indipendente nel Pci: «La Soprintendenza, alla quale spetta la tutela dei Sassi, ha pensato bene di costruirsi un parcheggio per non so quanti posti, senza neanche consultare il Comune. Ha avviato i lavori, ma per fortuna siamo riusciti a bloccarli e il cantiere è rimasto così, abbandonato. Però i cipressi non ci sono più».

Giura Longo fa parte con Sacco del gruppo che pubblica Basilicata, viene da una storica famiglia materana. Dal terrazzo di casa sua mi mostra una torretta sorta sul tetto di un edificio proprio lì davanti. «E alta quattro metri», insiste Giura Longo, «l’ha costruita il figlio del presidente del Tribunale di Matera per rivestire l’impianto di un ascensore. Noi abbiamo fatto un esposto e il Comune ha fermato i lavori. Il proprietario ha pagato una multa e i lavori sono ripresi». Ci infiliamo nelle strade che portano al Duomo. Da una loggia Giura Longo indica un cantiere sulla sommità di un palazzo seicentesco, il Palazzo Venusio. E una struttura con delle aperture ad archi. «Guardi lì, quella sopraelevazione non c’era, ora è quasi completa. Il proprietario del palazzo è il fratello di Guido Viceconte, Forza Italia, sottosegretario al ministero delle Infrastrutture. Si dice che voglia farne un albergo e un centro congressi».

La percezione dei Sassi non è stravolta da queste costruzioni. Ma in un contesto così delicato ogni piccola trasformazione produce effetti a catena, sono ferite che inducono un senso di impunità. I Sassi sono tutelati da una legge del 1986 che affida il loro risanamento al Comune. Ma la storia moderna dei Sassi è più lunga, inizia nel dopoguerra ed è densa di progetti e di illusioni. E’ un laboratorio in cui si fondono discipline antiche come l’archeologia e modernissime come l’urbanistica, che in quegli anni andava rifondandosi, o come la sociologia urbana appena approdata da oltreoceano in un Mezzogiorno di grandi fermenti. L’Italia scoprì i Sassi dalla descrizione che ne fece Carlo Levi e venne a sapere che quasi ventimila persone abitavano quelle case, ammassandosi spesso insieme alle bestie in tuguri senza luce. Su mille bambini nati, si calcolò, ne morivano 436. Vennero alimentate pulsioni opposte: quella regressiva di un ritorno a condizioni di esistenza premoderne e quella semplificatoria, contratta nello slogan: svuotiamo i Sassi.

La via più impegnativa la percorse Olivetti che nel 1951 istituì una commissione di studi di cui fecero parte gli urbanisti Federico Gorio e Ludovico Quaroni e che era ispirata dal sociologo americano Frederick Friedmann (dal 1948 l’imprenditore di Ivrea era presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica e Quaroni era il suo vice). L’indagine accertò che solo una parte del patrimonio edilizio dei Sassi era irrecuperabile, mentre la maggioranza delle case, quasi duemilacinquecento, aveva bisogno solo di interventi di recupero per essere restituita a chi l’abitava, perché solo abitandoli i Sassi sarebbero sopravvissuti. Contemporaneamente bisognava costruire moderni quartieri popolari.

Seguendo queste linee fu approvato un ambizioso piano regolatore redatto da Luigi Piccinato, figura illustre dell’urbanistica di quegli anni. Ma già dal 1952, quando venne varata la prima legge per Matera, i Sassi cominciavano a essere abbandonati. Furono allestiti quartieri-modello, almeno sulla carta, come La Martella, un borgo rurale progettato da Quaroni che avrebbe dovuto conservare un legame stretto con la campagna e che invece appassì, riducendosi al rango di periferia disagiata. Nel frattempo i Sassi, ormai vuoti, erano diventati un ferro vecchio, un muto documento etnologico.

Soltanto nel 1977 l’attenzione sui Sassi si concretizzò in un concorso internazionale che aveva lo scopo di arrestarne il degrado. Ma il concorso ebbe un esito paradossale. Prevalse, ma senza che venisse proclamato vincitore (l’amministrazione comunale volle continuare a mantenersi le mani libere), il gruppo guidato dall’urbanista Tommaso Giura Longo, fratello di Raffaele, che insieme a Luigi Acito, Carlo Melograni, Lorenzo Rota e altri, misero a punto un progetto di risanamento in linea con gli studi olivettiani: i Sassi dovevano tornare a vivere e ospitare abitazioni restaurate e servizi per circa quattromila persone.

Qualche progetto fu avviato, ad opera del pubblico e di privati. Molti manifestarono interesse a tornare nei Sassi. Ma mancò un piano sistematico. Il Comune aveva più a cuore l’espansione della Matera moderna che non la cucitura dei nuovi insediamenti con l’anima rupestre della città.

A quasi trent’anni dal progetto Giura Longo molte abitazioni sono restaurate e in esse vivono duemilacinquecento persone, molte attività di pregio vi si sono insediate, gallerie d’arte, centri culturali, la sede dell’Ente Parco della Murgia. Ma tantissimi, troppi, sono gli edifici trasformati in alberghi o in bed and breakfast (si calcolano circa ottocento posti letto, anche se molte ristrutturazioni sono state realizzate correttamente). Tantissimi sono i ristoranti, i pub, le pizzerie, che producono uno straniante effetto luna-park, tantissime le macchine, tanti i materani che si improvvisano imprenditori e che ottengono licenze per impiantare nei Sassi attività molto effimere. «Alle regole di una corretta urbanistica», spiega Tommaso Giura Longo, «si preferisce un’urbanistica "creativa", dando credito a interventi singoli e disaggregati, che favoriscono il profitto privato e scartano invece le iniziative unitarie, dirette dalla mano pubblica».

Ma i Sassi deperiscono anche perché su di essi incombe la Matera moderna, quella che in questi anni sta divorando tutto lo spazio disponibile. Dopo quello di Piccinato, un nuovo piano regolatore è stato avviato, ma ancora non se ne vede la fine. Nel frattempo il Comune e i costruttori hanno contrattato in questi anni interventi imponenti, come il Centro direzionale o la cosiddetta Zona 33, una smisurata foresta di grattacieli che sperimentano gli stili più disparati e i materiali più fantasiosi. Le vicende edilizie hanno conosciuto anche tribolazioni giudiziarie. Nell’aprile scorso è finito agli arresti domiciliari (poi revocati) il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune, l’architetto Francesco Gravina, accusato di peculato, abuso d’ufficio e falso ideologico nella gestione dei Pisu (Progetti integrati di sviluppo urbano), una trentina di interventi finanziati con 32 milioni di euro. E un mese fa si è dimesso l’architetto Mimmo Fascella assunto al Comune neanche un anno prima per rimettere ordine dopo lo scandalo dei Pisu: se n’è andato sbattendo la porta e contestando le scelte urbanistiche dell’amministrazione.

La Matera «nuova» cresce sfiorando altezze da capogiro e sfoggiando architetture pretenziose. In alcune zone lo scarto provoca un sapore acido. Come in quel lembo di città che sfila verso la campagna, dove un esercito di palazzoni con i vetri a specchio sovrasta un piccolo, ordinato quartiere di edilizia popolare. Li divide una strada che qualcuno, ingenuamente, ha voluto intitolar

Marina Lecis, minuta, iperattiva, occhi brillanti sotto una cascata di riccioli rossicci, sarda trapiantata in Cadore, corrispondente da Cortina d'Ampezzo per il Corriere delle Alpi, scopre, il giorno di ferragosto di quest'anno, che circa un mese prima, il 21 luglio era stato pubblicato su Repubblica e Gazzettino un avviso che annunciava la procedura di partecipazione alla valutazione d'impatto ambientale di un'opera di cui nessuno, fino a quel momento, aveva segnalato l'esistenza. Un'opera che avrebbe stravolto l'Ampezzano e l'intero territorio di Cortina: una circonvallazione di 11,328 km, chiamata «Ss 51 di Alemagna-Variante all'abitato di Cortina d'Ampezzo».

Tutti i no della Soprintendenza

La mattina del 16 agosto si precipita in Comune dove però non riesce a farsi consegnare il progetto. Si appella al capogruppo della minoranza in Comune, Francesco De Menego, ma anch'egli non ne sa nulla. Decide allora di agire in proprio e si precipita a Venezia presso la Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, dove, oltre a prendere visione della documentazione e della sintesi non tecnica della valutazione d'impatto percepisce che la Soprintendenza sta per redigere un parere tutt'altro che favorevole all'opera. Il parere avrà la data del 23 agosto. Marina Lecis ne scrive, verificando poi sul territorio gli impatti segnalati dalle osservazione della Soprintendenza che ha scritto, nudo e crudo: «Per quanto riguarda l'impatto paesaggistico della variante proposta, si rileva che questo risulta eccessivo e tale da comportare l'alterazione dei tratti caratteristici della località protetta che sono la ragione stessa per la quale l'intero territorio comunale di Cortina d'Ampezzo è stato sottoposto a vincolo, ai sensi della normativa di tutela ambientale attualmente vigente».

La Soprintendenza segnalava problemi per la galleria Zuel (impatto su frane attive, falde e biotopi), impatti paesistici del viadotto-bretella di collegamento tra lo svincolo di Cortina Sud e l'Albergo Miramonti, l'irrimediabile alterazione di una delle poche aree naturali cortinesi con lo svincolo di Cortina Sud, la compromissione della sinistra orografica e ripariale del fiume Boite con la bretella di collegamento tra Cortina Sud e la statale 48 per il passo Falzarego, la compromissione della frazione di Alverà. Lecis si reca ad Alverà per capire se la popolazione ne sa qualcosa e si rende conto che nessuno sa dell'opera.

Nel frattempo, i suoi articoli allarmano la giunta forzista di Cortina che aveva cercato di occultare il progetto. Il sindaco avvocato Giacomno Giacobbi e l'ex sindaco, ora assessore, Paolo Franceschi immediatamente invitano consiglieri comunali e stampa a una seduta di presentazione del progetto Anas. Un'ufficializzazione che non sarebbe mai avvenuta senza il lavoro della Lecis.

Nel corso dell'incontro, gli amministratori non prestano attenzione ai problemi ambientali. Si dichiarano in perfetta sintonia con il ministro Lunardi, attivo frequentatore di Cortina. Una sola idea hanno per la testa: i soldi, quei 441 milioni di euro per la realizzazione dell'opera che vanno subito reperiti nei fondi europei, collocando il progetto nell'ambito del «Corridoio 5» e nulla importa se, nella realtà, la realizzazione di quest'opera rappresenterebbe il completo sconvolgimento della valle e la negazione di alcuni fondamentali principi di metodo e analisi cui la valutazione d'impatto ambientale dovrebbe attenersi.

Il tracciato non tiene assolutamente conto dei concetti base della legge 97/1994 (Nuove disposizioni per le zone montane), i quali ribadiscono come lo sviluppo della montagna debba avvenire tramite tutela-valorizzazione delle qualità ambientali e delle potenzialità endogene dell'habitat montano e prescinde da una delle fondamentali leggi regionali del Veneto, la 11/2004 (Norme per il governo del territorio), la quale prevede il non avvio di interventi progettuali impattanti in assenza di una valutazione strategica dei piani, sulla base della Direttiva 2001/42 Ce del 27 giugno 2001. Me lo ricorda l'arch. Marco Stevanin dello Studio Terra di San Donà di Piave. Lo stesso presidente della Provincia di Belluno, Sergio Reolon, a capo di una giunta di centro-sinistra mi ribadisce che questo genere di infrastrutture dovrebbe essere pianificato sulla base di un piano strategico che, per ora, manca e che la Provincia dovrebbe varare entro 6 mesi.

Marco Stevanin, con l'avvocato Luigi Ceruti, si è posto completamente al servizio dei cittadini di Cortina insorti contro un tale scempio, grazie all'impegno ed al coordinamento di un pensionato, ex fondista, Sergio Maioni, la cui placida serenità nel porsi in posizione antagonista al potere forzitaliota e la cui costante dedizione alla salvaguardia e alla tutela del territorio, lo renderebbero degno di sfidare gli attuali, compromessi amministratori, per la carica di sindaco, nel 2007.

L'analisi ecosistemica

Maioni ha imparato molto dalla frequentazione di Lecis, Stevanin e Ceruti. Sa che il territorio interessato dall'infrastruttura, nel suo delicato equilibrio tra ambiente naturale ed ambiente antropico, disegnato dalle «Regole», non può essere esaminato e valutato prescindendo dai principi stessi della Landscape Ecology, ovvero da un'analisi ecosistemica delle relazioni dinamiche che esistono tra le fondamentali componenti naturali, aree cotonali, aree sorce-sink e l'insieme della rete ecologica. Sa che quest'inutile infrastruttura lineare, in un ambito segnato dal delicato equilibrio uomo-natura, interromperà fondamentali connessioni ecologiche, distruggerà habitat e biotopi.

Mi ricorda che il progetto non tiene conto dei numerosi impatti già esistente in valle, come il campo da golf di 18 buche di Fraina-Noulù, in comune di Cortina e della centrale idroelettrica del Rio Falzarego-Ponte di Landries. «Certo - dice - a nessuno degli amministratori di Cortina importa degli impatti cumulativi. Vedono solo la possibilità di meglio collegarsi con il corridoio europeo numero 5, sul tracciato Lisbona-Kiev, per accogliere le nuove, possibili clientele invernali ed estive dell'est».

C'è anche dell'altro. Il progetto, in sé non considera alcuno scenario alternativo, quale il ripristino della linea ferroviaria Calalzo di Cadore-Cortina d'Ampezzo-Dobbiaco o il progetto della viabilità presentato dalla minoranza in consiglio comunale, un'ipotesi di modesto impatto ambientale, teso a migliorare la circolazione nell'Ampezzano.

L'amministrazione forzista di Cortina dovrebbe ricordarsi, nel suo accecato sostenere l'infrastruttura e nel suo negarsi a qualsiasi confronto con i cittadini, del fatto che le opere più impattanti del progetto, la galleria Piè Rosà, la galleria Meleres, lo svincolo Cortina Sud, le gallerie Riva e Zuel, sono localizzate nei margini cotonali di sistemi ambientali dalla forte criticità, identificati, dal Piano regolatore generale, quali aree di interesse naturalistico: la zona umida di Noulù, il lago Marzo ed il bosco in località Fraina, la zona umida del Pisandro di Fiames, il biotopo lungo le sponde del fiume Boite.

Anche le opere di cantiere non debbono essere sottovalutate in un ambito come quello Ampezzano. Come reagirà il turismo ad almeno 6 anni di cantieri e a un feroce andirivieni di un totale di 160.000 camion che sposteranno non meno di un milione e mezzo di metri cubi di smarino? Che ne sarà della frazione di Alverà e delle residenze prossime all'imbocco della galleria sud del Piè Rosà, irreversibilmente segnate da queste opere? Cortina perderà anche il percorso storico della passeggiata Convento a Campo di Sopra, trasformata in strada di collegamento del cantiere.

Infine il problema clou, il vero problema. La geologa Maria Luisa Perissinotto della Società Terra ed il professor Rinaldo Genevois dell'Università di Padova, sottolineano la gravità delle problematiche geologiche dell'area. Genevois da 8 anni si occupa delle colate detritiche dell'area di Cortina. Ne ha censite ben 329. Le gallerie si inseriranno in questi corpi di frana. La testimonianza di Genevois che ha al suo attivo 35 anni di docenza in geologia applicata presso una prestigiosa università come Padova, non sembra interessare gli amministratori. Lui non sapeva nulla di questo progetto e sconsolato mi dice: «La soluzione, come presentata, non è buona».

1400-1600 tir al giorno

La giunta di Cortina resta indifferente, anche al fatto che se, dopo la realizzazione dell'opera, anche solo il 20% del traffico del Brennero prendesse la via della Val Punteria e della Valle del Boite, nell'Ampezzano si riverserebbe un traffico di transito di 1.400-1.600 tir/giorno. Forza Italia non ascolta neppure il commissario all'urbanistica della minoranza in consiglio, Stefano Verocai, il quale ricorda come il Consiglio comunale abbia deliberato la creazione di un gruppo di lavoro ad hoc che discutesse sulla realizzazione non di una tangenziale, ma di una strada di scorrimento. Per Verocai il progetto Anas è figlio di un input preciso della giunta: la realizzazione del parcheggio scambiatore in area Convento. Verocai confessa, anche per smentire il sindaco, che non si dispone di dati specifici sul traffico in entrata e uscita da Cortina e che una viabilità più adeguata per la valle del Boite non è certo quella disegnata dal progetto Anas.

Forse sarebbe utile che l'amministrazione di Cortina fosse meno spocchiosa, che si confrontasse con la gente, (non lo ha fatto nel corso dell'incontro voluto dai cittadini e patrocinato dalla Università Iuav di Venezia, presso il PalaVolkswagen, sabato 26 novembre,) e che si acculturasse un pochino, magari leggendo il bel libro Managing Mountain Protected Areas: Challanges and Responsures for the 21st Century, curato da David Harmon e Grame Worboys per l'Editrice Andromeda, dove sono raccolti gli atti del Convegno promosso a Durban nel 2003 dalla Uicn. I testi che il volume raccoglie rappresentano quanto di più avanzato sia stato prodotto nell'ultimo decennio dagli operatori tecnico-scientifici e dalla gestione del territorio sul tema della tutela del territorio montano, temi e problemi affrontati oggi dai cittadini di Cortina a fronte di un'opera infrastrutturale distruttiva dell'ambiente montano.

Titolo originale: New homes plan thrown into chaos – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

I progetti per costruire milioni di abitazioni in tutto il Regno Unito sono stati messi in dubbio dopo le osservazioni fortemente critiche di due importanti organismi governativi.

La notizia colpisce al cuore i piani del Labour per risolvere la crisi abitativa della Gran Bretagna costruendo case su ampie distese di campagna, e sarà fonte di grave imbarazzo per il governo.

Si devono realizzare oltre 4 milioni di nuove case in tutto il paese. Uno dei progetti nella regione orientale dell’Inghilterra – che riguarda 500.000 abitazioni – è considerato l’esempio simbolo.

Ma la Countryside Agency e English Nature in un rapporto reso pubblico questa settimana mettono in guardia sul fatto che questo piano mette “ seriamente a rischio” “ paesaggi e habitat di rilevanza nazionale”.

Se attuato il piano causerebbe “ danni significativi” degradando i caratteri del paesaggio inglese, frammentando gli habitat naturali, inducendo prelievi d’acqua con impatti insostenibili sull’ambiente.

Il rapporto è un grave colpo alla credibilità delle promesse governative di mettere a disposizione case a prezzi accessibili.

Le due agenzie complessivamente condannano il Sustainable Communities Plan del Labour, e altre politiche nazionali su cui si basano le strategie di sviluppo regionale. L’approccio governativo è “ contrario al concetto di sostenibilità”, affermano.

”Sembra [il governo] poco serio riguardo allo sviluppo sostenibile e alla tutela dell’ambiente, perché a quanto pare ritiene di poter fare progetti e poi attuarne dei pezzi. Le conseguenze sono un probabile degrado della qualità ambientale e di quella della vita nella regione” dice Henry Oliver della Campaign to Protect Rural England.

Ma l’Ufficio di Vicepresidenza del Consiglio difende la sua politica. “La pressione per nuove abitazioni non è determinata dal governo, ma da una popolazione in crescita e invecchiata, da più persone che abitano da sole” sostiene un portavoce. “Negli ultimi trent’anni abbiamo visto un incremento del 30% nel numero dei nuclei familiari, contro una caduta del 50% delle abitazioni realizzate. Questo non è sviluppo sostenibile”.

Il rapporto sarà allegato alla documentazione ufficiale della riunione sui piani per l’est Inghilterra, prevista dalla regional spatial strategy (RSS), che si inaugura martedì. Il progetto, il principale e il primo ad essere sottoposto a vaglio ufficiale completo, propone quasi mezzo milione di nuove abitazioni, impianti produttivi e spazi per attività terziarie, oltre a 67 piani stradali.

A livello nazionale i progetti del governo sono stati criticati per aver sovrastimato le dimensioni dell’intervento necessario, concentrando troppe costruzioni nelle già affollate zone del sud-est inglese, e per non aver insistito sufficientemente su rigidi standard ambientali, come la progettazione a basso consumo energetico.

Lo Environmental Audit Committee – dominato dal Labour – ha anche ricordato che gli impatti ambientali “meritano un’attenzione molto maggiore”.

In quest’ultimo rapporto le due agenzia, che presto si fonderanno, riconoscono “ la necessità di prevedere e localizzare costruzioni” e lodano anche alcuni aspetti di una strategia “ raccomandabile e che deve essere sostenuta”. Ma affermano anche che “ non c’è alcuna traccia” della verifica che questi progetti non possano danneggiare “ elementi ambientali di base”, e che la valutazione indipendente di sostenibilità li aveva giudicati di “ danno significativo” per paesaggi, habitat naturali e acque.

Il rapporto continua: “ Raggiungere un equilibrio implica uno scambio fra due obiettivi concorrenti, dove è necessario accettare il fatto che una perdita dal punto di vista di una componente sia necessaria per avere vantaggi un un’altra”. E aggiunge: “ Secondo gli obiettivi di crescita proposti l’effetto finale del RSS potrebbe NON [enfatizzazione degli Autori ] garantire un futuro sostenibile per la regione. Questo risultato sarebbe contrario agli obiettivi istituzionali del sistema di pianificazione ... In più le presenti agenzie ritengono che alcune delle basi del progetto non diano sufficiente conto delle questioni ambientali e di qualità della vita, e di conseguenza definiscano un contesto inadeguato su cui basare le strategie”.

Il rapporto chiede invece che le regioni valutino quanta crescita sia sopportabile dal proprio ambiente, e poi prevedano misure per la mitigazione degli impatti “ giustificati”.

”Non stiamo dicendo che non vogliamo edificazione” dice Graham Smith, responsabile di area per English Nature. “Si deve adeguare il ritmo di realizzazione, per non sacrificare un obiettivo sull’altare di un altro”.

Il gruppo di verifica indipendente, nominato dal governo, riferirà al Vicepresidente del Consiglio, che si prevede renderà pubbliche le eventuali modifiche nel rapporto finale atteso per il 2007.

Nota: il testo originale al sito del Guardian/Observer (f.b.)

Titolo originale: EL PORTAL: Laredo envisions huge retail project – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

LAREDO – il Rio Grande separa due città, una con aspettative economiche e l’altra che porta il peso dei cartelli della droga, violenti e armati. Il destino dell’una potrebbe plasmare il futuro dell’altra.

Laredo, negli Stati Uniti, progetta di realizzare un progetto commerciale da 85 milioni di dollari, con al un mall, che dovrebbe attirare clienti messicani, principalmente da Monterrey, città industriale a due ore di distanza con la più grossa percentuale di milionari del Messico.

Nuevo Laredo rappresenta la faccia messicana di questo “portale”, con 120 morti quest’anno e una quarantina di rapimenti in tempi recenti, attribuibili ai cartelli della droga.

La violenza ha devastato l’attività turistica di Nuevo Laredo.

I tentativi della città di contrastare il crimine devono avere successo, perché anche sul versante messicano del confine si realizzino i benefici economici del mall, chiamato El Portal, dice Octavio Almanza, direttore della promozione turistica a Nuevo Laredo.

“La gente qui in Messico è attratta dai centri commerciali degli Stati Uniti, perché offrono prezzi più bassi” continua Almanza.

”Stiamo facendo piccoli passi in avanti per quanto riguarda il problema della violenza, così che i clienti possano sentirsi sicuri nell’attraversare il confine a Nuevo Laredo”.

Gli investitori del Mall non hanno comunicato i marchi dei negozi con cui sono in trattative.

Comunque, gli operatori commerciali nei pressi del futuro complesso credono che sia necessario attirare grossi nomi per creare il tipo di flussi e benefici economici sperati.

Alcuni consiglieri comunali osservano però che colpisce la priorità conferita al progetto El Portal quando appena oltre confine c’è tanta violenza incontrollata.

”Speriamo che sia di vantaggio alla città, ma forse dovremmo fare qualcosa a proposito della violenza, e solo dopo iniziare a parlare di sviluppo economico” dice Joe Guerra, ex consigliere di Laredo.

Mike Garza, direttore dei servizi allo United Independent School District di Laredo, suggerisce altri modi di investimento per le risorse della città.

”Le infrastrutture mi sembrano un elemento critico. E per la violenza, c’è bisogno di più polizia per proteggerci” dice Garza.

Ma certo gli investitori non ci metterebbero milioni, se la zona non fosse sicura per i clienti, dice Allan Davidov, investitore in questo progetto e socio della Morgan Stern Realty di Beverly Hills, California.

Il piano El Portal è un investimento misto pubblico-privato rivolto ai 9 milioni di pedoni e 17 milioni di veicoli che annualmente attraversano questo punto del confine.

Il potenziale, sostengono gli interessati, comprende la rivitalizzazione del centro città, un nuovo gettito fiscale per le casse municipali, e il rafforzamento delle relazioni col Messico per lo sviluppo economico della fascia di confine.

Le costruzioni, per quanto riguarda la parte della città, sono già iniziate, e si stima una spesa di 25 milioni di dollari, che saranno pagati da emissioni garantite dai pedaggi di attraversamento del ponte. La Horizon Group Properties di Chicago, proprietaria di 10 complessi commerciali in tutto il paese, rappresenta in con la consociata Morgan Stern Realty la parte privata del progetto.

Una volta completato, il complesso commerciale metterà a disposizione circa 40.000 metri quadrati, a 50 negozi.

Nota: il testo originale ripreso dalla Associated Press, al sito Houston Chronicle ; un altro caso di "funzione anomala" dei centri commerciali riportato su Eddyburg, era quello sudafricano di Soweto (f.b.)

Ormai è stato detto tutto, o quasi tutto, sulla questione dei territori meno favoriti della Repubblica; perciò non avrei voluto aggiungere la mia voce al concerto delle spiegazioni. La violenza non è legittima, e qualunque spiegazione, che lo si voglia o meno, diventa una giustificazione. Comprendere vuol già dire scusare. Ma il fenomeno presenta la particolarità di chiamare in causa vari attori, ciascuno dei quali ha i suoi torti: gli architetti, per aver concepito luoghi di vita mostruosi; lo Stato, per aver lasciato che la segregazione urbana si sviluppasse fino a limiti estremi; i "giovani" delle banlieues per le violenze commesse.

L´etnicizzazione dei conflitti comporta due atteggiamenti contraddittori: da un lato, il rifiuto delle minoranze definite non integrabili, e dall´altro la compassione per le fasce di popolazione nei cui confronti la Repubblica avrebbe mancato ai suoi doveri. Da parte mia vorrei però scegliere un´altra strada, lontana dai buoni sentimenti e a distanza abissale dalla bestia immonda del razzismo. Quali sono i fattori obiettivi che conducono alla segregazione e alla dissociazione? Nel 2003, insieme ad altri due economisti (Eloi Laurent e Joël Maurice) ho consegnato al primo ministro un rapporto dal titolo "Segregazione urbana e integrazione sociale". Uno dei tanti documenti su questo tema. L´industria dei rapporti è tanto più fiorente, quanto più i problemi trattati restano irrisolti.

Da almeno un quarto di secolo, la principale disfunzione delle nostre società è la disoccupazione di massa. Certo, è una realtà nota a tutti; ma dato che il problema persiste, chi ne parla rischia di suscitare una forte impressione di déjà vu, tanto da non produrre più altro che la noia dovuta alla ripetizione. Da tempo ormai la disoccupazione è divenuta parte del paesaggio, e questo ci fa pensare che la società possa continuare a conviverci. Di fatto però, come abbiamo scritto nel rapporto sopra citato, "nel cuore del nostro sistema la disoccupazione di massa è come un buco nero in espansione, che inghiotte tutte le logiche di integrazione". Allungare la distanza tra la popolazione e la possibilità di trovare lavoro vuol dire contribuire a dissociare i luoghi della vita attiva dalle periferie, e il presente dal futuro. Per comprenderlo dobbiamo pensare alla disoccupazione come a una serie di file d´attesa ai diversi sportelli delle imprese e delle amministrazioni, ordinati a seconda delle qualificazioni e dei diplomi. Le file d´attesa più lunghe corrispondono ai titoli più modesti. Il perdurare della disoccupazione di massa significa che la lunghezza delle file d´attesa rimane più o meno costante nel tempo (con qualche variazione a seconda delle fluttuazioni congiunturali). Ma queste file non funzionano secondo il principio della precedenza garantita ai primi arrivati, bensì in base ai criteri di reclutamento delle imprese. Se prendiamo ad esempio lo sportello dei lavoratori qualificati, il posto che ciascuno occupa nella fila dipende dal prestigio del suo diploma, dalle precedenti esperienze di lavoro, dagli indirizzi collezionati nella sua rubrica o in quella dei suoi genitori, dalla durata dei periodi di disoccupazione pregressi, dal genere, dall´età e talvolta da criteri ancor meno pronunciabili.

A parità di titoli di studio, una donna di cinquant´anni avrà minori probabilità di raggiungere lo sportello dei suoi coetanei maschi, che però a loro volta si vedranno passare davanti i pari grado trentacinquenni. Nella fila d´attesa più lunga - quella dei lavoratori meno qualificati - continueranno a valere tutti i criteri precedenti, ma un peso molto maggiore sarà attribuito a considerazioni che esulano dalla capacità lavorativa del candidato: si terrà conto dell´indirizzo, del cognome, dell´aspetto fisico ecc. Ora, si dà il caso che gli stranieri, o "ritenuti tali" (terribile espressione, pure correntemente ammessa!) sono rappresentati in percentuali molto superiori alla media nella categoria dei lavoratori meno qualificati, i quali ultimi si concentrano in determinate aree del territorio. Uno squilibrio sociale durevole come quello legato alla disoccupazione non è mai astratto, nel senso che ha inevitabilmente una connotazione spaziale. Di conseguenza i lavoratori meno qualificati, che abitano nelle zone periferiche delle città e per di più hanno nomi stranieri, si ritrovano sistematicamente relegati agli ultimi posti delle file d´attesa, con scarsissime probabilità di arrivare davanti allo sportello. Questo fenomeno di discriminazione non ha molto a che fare con l´immigrazione, ma piuttosto con la perdurante lunghezza delle file d´attesa. Anche se la popolazione fosse perfettamente omogenea dal punto di vista delle origini, si inventerebbero altri criteri di differenziazione. Di fatto, ogni processo di selezione diventa tanto più complesso e arbitrario, quanto più ampia è la possibilità di scelta tra i candidati (ossia la lunghezza della fila d´attesa). In altri tempi la discriminazione sarebbe avvenuta sulla base della regione d´origine, della professione dei genitori, del luogo di residenza, della religione, o magari di altre caratteristiche meno confessabili.

Il problema è che quando il fenomeno all´origine delle discriminazioni perdura nel tempo, queste ultime possono trovare una giustificazione ex-post. Gli individui stigmatizzati, concentrati (per ragioni imperative di costi) in determinate aree, ove i tassi di disoccupazione sono molto superiori alla media nazionale e i posti di lavoro meno remunerati, percepiscono di avere possibilità sempre più scarse di integrarsi negli spazi sociali, che sono quelli del lavoro, della scuola, delle strutture collettive e della laicità. E alcuni sono tentati da forme di integrazione sostitutiva - economia sotterranea, bande organizzate, comunitarismo ecc. - che in qualche modo convalidano la loro segregazione. Anche perché in quelle aree è più problematico il funzionamento dei servizi pubblici, primo tra tutti la scuola. L´istruzione, per la sua stessa essenza, è una promessa di futuro, ma al suo adempimento fanno ostacolo le discriminazioni. E gli incoraggiamenti allo studio perdono la loro efficacia quando gli adolescenti si sentono presi in giro, vedendo così svalutate le loro prospettive. La condizione particolare dell´immigrato può insegnarci qualcosa sul funzionamento complessivo della nostra società: il patto repubblicano riposa sia sull´integrazione civica che su quella sociale.

Per il problema della segregazione urbana non esistono risposte chiavi in mano. Tutte le possibilità di cui si è discusso in seguito ai noti episodi vanno nella direzione giusta, ma sono sempre risposte parziali. Se non bastano i posti a sedere al grande banchetto occupazionale, e se troppi devono accontentarsi di uno strapuntino, bisognerà pure che nelle nostre società civilizzate si trovi qualche territorio dove mandare le persone "in eccedenza". Ma in questo modo, per le categorie meno favorite si allungherebbe ancora la distanza, non solo sociale ma anche fisica, dalla possibilità di un posto di lavoro. E´ un fatto che in ogni epoca le città sono state caratterizzate da quartieri ricchi e quartieri poveri; ma la segregazione non subentra se non nel momento in cui la mobilità tra queste realtà viene ridotta o impedita. Ora, è precisamente questa la conseguenza dell´allungamento delle distanze dai posti di lavoro. Occorre dunque agire su tutte le dimensioni della mobilità per restituire dinamismo alla società. E soprattutto impegnare tutte le energie per combattere la nostra accettazione implicita della disoccupazione, poiché contribuisce a rendere effettive le discriminazioni che altrimenti sarebbero rimaste virtuali.

Traduzione di Elisabetta Horvat Français

Questione a margine dei tumulti periferici di Francia, ma per niente marginale: perché in Italia le periferie non sono più un soggetto politico? Perché sono sempre più lontane dell'attenzione, oltre che della città? Perché non producono segnali, culture, dissenso, come avveniva nel Novecento? Ci volevano gli incendi nelle lontane notti parigine per ricordarsi che anche da noi ci sono quartieri dormitorio desolati e potenzialmente esplosivi? Ed è un incendiario Romano Prodi, quando dichiara che abbiamo le peggiori periferie d’Europa, che non dobbiamo crederci cosi diversi da Parigi, perché è solo questione di tempo?



“Macché incendiario: Prodi è uno dei pochi con del sale in zucca. Questo disinteresse ha un’unica ragione: la politica ha rinunciato al governo dell’urbanistica, delegandolo agli immobiliaristi, cioè al mercato. E le città senza un governo pubblico diventano agglomerati di costruzioni” dice Edoardo Salzano, che ha insegnato urbanistica all’Università di Venezia ed è stato consulente per la pianificazione territoriale di molti Comuni. “Nella capitale del capitale, New York, lo capirono nel 1811, quando fu steso il primo piano regolatore al mon do. Lo richiesero i commercianti, i costruttori, gli imprenditori: il mercato, insomma. Razionalizzare significava lavorare meglio e guadagnare di più”.

Il piano di edilizia popolare del dopoguerra, su cui Fanfani investiva per l’avanzata del Paese e della Dc. La trombatura anni ‘60 di un altro notabile bianco, Fiorentino Sullo, sostenitore di una riforma urbanistica un po’ lesiva degli interessi fondiari. Gli immani scioperi per la casa. L’utopia anni ‘70 che, monumentalizzando la casa popolare, produsse anche quelli che oggi definiamo ecomostri. Per molto tempo, a partire dal Ventennio, le case per i lavoratori, e quindi le periferie, sono state materia di conflitto, progettazione, creatività. È bastato il mercato a uccidere tanta vitalità? Tutti a casa, finita la grande edificazione negli anni 80? “No. La caduta del muro di Berli no si è portata dietro quella delle ideo logie. Negli anni ’60-‘70 le periferie non costituivano solo serbatoi di voti, ma la speranza di dare cittadinanza ai diseredati. Speranza oggi caduta” sentenzia Salzano, che nel suo sito di urbanistica, società, politica eddyburg.it, tiene un’eroica sezione banlieues.

Tutti a casa fino a un certo punto: “Ne1 1984 si costruirono 35 mila alloggi sovvenzionati; nel 2004, 1400” osserva Giovanni Caudo, ricercatore di Urbanistica a Roma Tre. E la recente promessa di Silvio Berlusconi, 500 mila alloggi, segnala che l’emergenza torna elettorale. “La nostra edilizia sociale è l’ultima in Europa” continua Caudo. “In Olanda è al 35 per cento, da noi al 4”.

Le cartolarizzazioni hanno diviso le periferie fra proprietari e sfrattati: chi poteva ha comprato, gli altri, il 25 per cento, ha ripiegato sugli alloggi popolari fuori mercato, di qualità quasi nulla. Gianni Belli, segretario dell’Unione inquilini della Lombardia, dice che i quartieri della cintura milanese scoppiano. Di casi limite: immigrati senza risorse, abusivi, pensionati con la mini ma, dissociati. “Se metti uno schizofrenico fra dieci sani puoi controllarlo, ma se riempi un ghetto di disperazione non puoi far nulla. Prevale il senso di impotenza, se poni i problemi nessuno li raccoglie”. Sulla solidarietà prevale la diffidenza, e la periferia non produce più un’identità coesa. “I vecchi se la prendono con gli ecuadoriani che fanno festa, i comitati di quartiere chiedono cancellate invece che spazi comuni, c’è stato l’imborghesimento: conta il posto macchina, non la vivibilità” commenta Vincenzo Simoni, che dell’unione inquilini è segretario nazionale. Un tempo, specie al Nord, iquartieri popolari sorgevano Intorno alle fabbriche, vero fulcro della socialità. Con la deindustrializzazione, sono saltati i fulcri. "Venti, trent’ anni fa, le periferie avevano un proletariato giovane, politicizzato. Comitato di quartiere e consiglio di fabbrica lavoravano insieme” ricorda Simoni. “La casa del popolo, diretta da un ex partigiano, era il centro: i giovani ci litigavano ma c’era affetto. Oggi è tutto più silenzioso, non è sempre un disastro: le periferie delle città fino a 400 mila abitanti sono dignitose, però nessuna riesce a essere propulsiva. Ma non so dire cos’è propulsivo, oggi”.

La caduta della speranza è un elemento ricorrente. “Un disagio senza coscienza non colmato da niente” secondo Ascanio Celestini, cantastorie antropologo che nonostante il successo non ha lasciato Casal Morena, ex borghetto tra Roma e i Colli Albani. “A settembre, ho organizzato un festival al X Municipio: ci siamo accorti che l’i dea di spazi comuni non è stata proprio concepita. Che funzione avevano se la gente torna qui solo per mangiare e dormire? Trent’anni fa, in periferia si pensava che le cose sarebbero migliorate, oggi si sa che non c’è futuro: figli del benessere senza benessere”.

Eppure ironia della sorte e regime del suoli seminano al margini delle città totem del benessere: i centri commercialI. Dalla finestra di un mio amico di Tor Vergata si vedono ben due Carrefour”, ride amaro Celestini. Se un tempo Dario Fo stabiliva la Comune nella cintura milanese, oggi in tutt’Italia tocca a Ikea, agli outlet, agli ipermercati. “I Comuni, impoveriti, cedono i terreni in cambio di un po’ di servizi. La manovra a volte può produrre un circolo virtuoso, molte altre no” spiega Giovanni Caudo, che critica anche certi recuperi: “Fanno nuove piazze senza indagare dove la gente preferisce raggrupparsi”.

Quando era assessore all’Urbanistica della prima giunta Bassolino, a Napoli, Vezio De Lucia voleva trasferire due facoltà universitarie alle Vele di Scampia: “Non so come è finita, ma abbatte re certa edilizia pubblica mi sembra un’idiozia. Non sono costruzioni abusive, demolirle conferma ulteriormente la defezione dello Stato. E basta discutere se è giusto costruire belle architetture moderne nei centri storici: lascia moli come sono e portiamo un po’ di bellezza ai margini delle città. Ritenere frivola la bellezza, quando si parla di edilizia sociale, da’ l’idea di come vengono consideriate le periferie”.

Anche Renato Nicolini che, quando era assessore alla Cultura prima a Roma e poi a Napoli, fu il primo ad attrarre con i suoi eventi gli abitanti dei sobborghi in centro, pensa sia ora di invertire la direzione. “E va rivisto il concetto di periferia, quel che un tempo lo era, oggi non lo è più. Possiamo definire periferia ciò che somiglia a un non luogo: stazioni, grandi alberghi, aero porti. Solo nei film di Spielberg si può vivere negli air terminal.

Quindi la sospensione, l’estraneità. Allora anche Corviale, a Roma, dove bisognò dipingere i corridoi di colori diversi sennò i bambini si perdevano, o lo Zen di Palermo, vent’anni senza fogne, o le Vele di 13 piani con l’ascensore fermo, erano non luoghi. Il dibattito si accende. Gli architetti che li hanno realizzati accusano di latitanza lo Stato: nessun servizio, né vigilanza sulla legalità. Salzano ribatte che l’architetto deve prendersi le sue responsabilità, controllare se la committenza è affidabile. Il sociologo Franco Ferrarotti taglia corto: “Le amministrazioni pubbliche hanno colpe enormi, ma chi ha fatto quelle case alveare ha confuso la responsabilità sociale con la libertà individuale”.

In Italia “i periferici” sono quattro milioni, contro i sei francesi, di cui circa 5,5 stretti intorno a Parigi. E le nostre banlieues sono abitate prevalentemente da italiani: è il caso di chiedere al sociologo se le previsioni di Prodi sono incendiarie. “Il sottosuolo sociale si riproduce più lontano delle periferie strutturate. Il problema vero degli immigrati è avere punti di ritrovo e culto interetnici. Ma il nuovo povero non è l’extracomunitario, è l’impiegato, il maestro che non può mandare la moglie a servizio. Nei sobborghi la ricchezza slitta dai locali agli stranieri, che hanno più iniziativa autonoma e adattabilità”.

Un tessuto più difficile da raccontare, rispetto ai tempi di Pasolini. Ma Antonio Bocola, regista con Paolo Vari di Fame chimica, piccolo cult sull’hinterland milanese, prepara un altro film: sulla predestinazione criminale di un adolescente. Tra periferie e politica, dice, c’è disinteresse reciproco: “Il modello fabbrica è sconfitto, l’associazionismo pure. Oggi diventi leader se spacci. Io racconto questa poetica a chi non vede o non vuol vedere. Non la assolvo, però le riconosco dignità di cultura giovanile. Di unico modo per affermarsi”. Forse ce n’è un altro: a Roma, il primo dicembre, Sandro Medici, presi dente del X Municipio, indagato per aver requisito e consegnato 12 appartamenti sfitti a famiglie disagiate, ha organizzato, con altri sei Municipi, la prima marcia delle periferie.


Orio al serio (Bergamo) - La ragazza con le trecce biondissime e le gote infuocate che si guarda intorno sperduta arriva da Tallin, Estonia. Deve andare a cercare la sua scuola di design, via Amatore Sciesa. Ma a Milano. Questo è Orio al Serio, l´aeroporto dei miracoli, il primo centro italiano della rivoluzione low cost. 149 euro l´andata, altrettanto il ritorno. Mezz´ora da Bergamo, quarantacinque minuti da Milano, ma non si va troppo per il sottile. La tratta si chiama Tallin-Milano lo stesso, e pazienza se dopo il volo, tre ore, più una di fuso, c´è un´ora di pullman: è comodissimo, il piazzale davanti all´aerostazione è piccolo che non serve andarlo tanto a cercare e costa 11 euro. Dallo sbarco al ritiro bagagli non passano più di quindici minuti. Al bar, ad assaggiare gli spuntini a base di taleggio, il formaggio locale, coppie non più giovanissime arrivate da Amburgo; studenti di Barcellona in gita e anche manager da Dublino le cui aziende hanno adottato la politica del risparmio.

I numeri del miracolo di Bergamo sono materia di studio: la Sacbo, la società privata di gestione dell´aeroporto, ha commissionato una ricerca sull´impatto socio-economico dell´impresa. Risulta che dal 2002, data del precedente rapporto, a oggi, il milione e poco più di passeggeri sono diventati i 4,3 dell´anno in corso con una crescita complessiva di traffico del 300 per cento. L´occupazione è passata da 3.601 dipendenti diretti a 9.639; quelli totali, compreso quindi l´indotto, erano 7.290 e ora sono 17.751. La produzione complessiva sfiora i 2,2 miliardi di euro; tenendo conto dell´inflazione, la crescita reale dell´impatto economico è stata del 785 per cento. Nemmeno l´Italia del boom economico aveva potuto fare tanto. E neppure la bergamasca, terra tradizionalmente di piccola impresa, avrebbe mai potuto immaginare di inventarsi negli anni più duri una vocazione turistica.

Bergamo è solo un esempio, il "caso" da laboratorio. Ma Ciampino, Pisa, Treviso, Brindisi, Reggio Calabria, Bolzano, seguono lo stesso, tumultuoso sviluppo. Il motore portante di questa avanzata è - come accade per Orio, Ciampino, da un mese anche Pisa - essere "base" di una compagnia aerea, in questo caso la Ryanair. Che deposita 4, 5 e 1 velivolo anche la notte e di giorno si sbizzarisce in 18, 21 e 10 rotte, destinazioni da Londra (Stansted), a Eindhoven (Dublino); da Skavsta (Stoccolma), a Santander (Bilbao) fino a Beauvais (Parigi). Per altri, Olbia, ad esempio, il moltiplicatore del traffico si chiama Easyjet e Hapag Lloyd. Per Treviso, Alpi Eagles. Paghi poco e vai dove vuoi.

Al ceck-in, pronti alla partenza, ci sono diciassette studenti della facoltà di economia dell´Università di Lubecca. A Bergamo erano già stati tre anni fa, ma il viaggio, allora, lo avevano fatto sul pullman. «Ora - spiega uno di loro - abbiamo speso meno così». Si sono fermati una settimana; hanno dormito al Nuovo Ostello della Gioventù di Monterosso; approfittato della gentilezza di Alessandra, la ragazza che sta al desk dell´agenzia per lo sviluppo e la promozione turistica e che ha imparato a "vendere" il museo di Donizetti come fosse la pinacoteca di Brera, la piazza vecchia, costruita per volontà della famiglia Colleoni in Città Alta, come fosse piazza della Scala. Ma, dove è arrivato il low cost, è accaduto ovunque così: a Girona, cento chilometri da Barcellona; ad Hahn, proposto come l´aeroporto di Francoforte da cui invece dista quasi due ore di autobus.

Il fenomeno low cost ha cambiato la geografia dei luoghi; ha dato un impulso straordinario all´economia locale; è diventato - come dicono gli studiosi incaricati dalla Sacbo a proposito di Orio - «uno strumento di marketing, capace di agire come un magnete nei confronti di un´ampia gamma di imprese industriali e commerciali e di costituire un significativo asset strategico per la regione in cui opera». Ma ha cambiato anche il modo di vivere: i nuovi clienti del traffico aereo sono persone che prima viaggiavano in pullman, in treno, oppure se ne stavano a casa. «Con i voli a bassa tariffa - dice il direttore commerciale di Orio - è accaduto quel che è successo coi treni quando dall´Orient Express si è passati all´Intercity». Tornano dall´estero in aereo gli emigranti; ma vanno in vacanza in posti lontani anche i pensionati che prima mai avevano volato. Ha raccontato L´Eco, il giornale locale, che un pompiere londinese innamorato della Città Alta vive a Bergamo e va a lavorare a Londra, come un pendolare qualsiasi. Mentre a Olbia è normale che durante l´inverno atterrino coppie da Hannover per trascorrere il week-end al tepore (per loro, s´intende) della Sardegna.

Sarebbe stata venduta ( secondo l’Espresso e La Nuova Sardegna) a un ricco russo una casa in Costa Smeralda, località Romazzino, per la somma di 35 milioni di euro.

Nel tempo della finanza d’invenzione e del consumismo più spettacolare è lecito aspettarsi di tutto. Così succede che l’indiscrezione stia nel registro delle bizzarrie mondane d’estate, proprio mentre si fa un gran parlare di rendite immobiliari, meglio d’immobiliaristi. Il clamore è giustificato, se si pensa che ai tempi della lira una casa più o meno dello stesso rango poteva essere venduta per una decina di miliardi, che pure sembrava, anche a quelli più avvezzi a questo genere di transazioni, un prezzo notevole.

La notizia potrebbe essere capziosa, utile per fare crescere i valori delle case (da anni d’estate si diffondono notizie di supervendite a uno dei soliti sceicchi sauditi, messe in giro da intermediari che mirano a sollevare le quotazioni anche di bilocali in terza fila). D’altronde l’abilità degli immobiliaristi (qualcuno fa notare in questi giorni che sono altra cosa rispetto ai costruttori), sta proprio in questa capacità di comprare e rivendere fruttuosamente in tempi brevi.

Le vicende che riguardano i vari Coppola e Ricucci, dicono appunto anche di queste cose, di speculazioni che alimentano investimenti finanziari, di scalate, di bolle possibili, ecc. E il fatto stesso che si possa solo parlare di somme così rilevanti la dice lunga su cosa gira nel mondo del mercato immobiliare di fascia alta. Anche in Sardegna, ovviamente.

Allora due conti. Il costo di costruzione di queste tipologie di edifici non è diverso da quello che si può riscontrare in altri luoghi del Paese. Anche a immaginare l’impiego di materiali preziosi ( escludendo i metalli nobili ) il costo di un metro quadro finito di casa si può aggirare, esagerando un po’, sui 2000-2500 euro.

Ecco: la casa in questione, pare di alcune centinaia di metri quadri, costa, costerebbe per realizzarla, poco più di un milione di euro.

Il resto del valore – per arrivare a 35 milioni – è dato dalla magica condizione del contesto Un grande salto, si converrà, pure con un notevole lotto di pertinenza più accessori, un’impareggiabile vista sul mare, un vicinato molto ma molto altolocato, ecc. Così è per questo genere di merci e ogni giudizio, come dire, dalla parte dei poveri o nel nome della parsimonia, è del tutto superfluo. E a poco serve osservare che qualche ettaro di terreno agricolo a una trentina di chilometri da qui vale molto poco e non si vende anche con l’aggiunta di un buon gregge di pecore lattifere. Come si legge in tanti sconsolati annunci che dicono di quei “naufraghi di terra” di cui ha scritto nel suo libro recente Salvatore Niffoi.

Qui si vuole solo osservare, per chi non lo avesse ancora capito, che di queste ricchezze, prodotte senza rischi, con notevole danno ai paesaggi sardi, non resta quasi nulla alle popolazioni locali. Spiccioli a qualche manutentore e giardiniere e l’Ici che, come è facile intuire, è del tutto scriteriata in questi casi. Andrebbe meglio un corrispettivo lasciato al buon cuore: le mance che si lasciano da queste parti sono più generose.

Occorre tenerne conto nel caso si volesse ancora concedere questi privilegi, che una volta fatte le case fatte resta il solo compiacimento della presenza di tanta bella gente da queste parti ( “ajò a vedere le ville dei ricchi in Costa …”). L’ alterazione irreversibile dei connotati di spiagge e scogliere, la chiusura degli accessi al mare, la preclusione di un uso produttivo di vaste aree, procurano grandi vantaggi a pochi che spesso neppure sanno dove sono le case preziose che possiedono,

Queste concessioni a edificare non c’entrano neppure nulla con l’ uso (spesso si tratta di case che si abitano una settimana all’anno) e che sono nel novero degli investimenti ( e c’è chi appunto ne possiede sei o sette di villone in Gallura). Si tratta di quei beni nel ciclo denaro-merce-denaro che il nuovo capitalismo italiano predilige, come spiegano bene le cronache di questa stagione.

E’ singolare che nella riflessione che si è aperta su questi temi in Sardegna qualcuno porti l’argomento dell’incremento dei prezzi delle case esistenti nelle coste, cioè del favore – scandaloso per i liberisti – che viene loro da una linea di contenimento delle trasformazioni ambientali. Così – è il suggerimento sottinteso – per non avvantaggiare gli immobiliaristi spazio ai costruttori. Come se per impedire l’incremento di valore di residenze esclusive nel centro di Roma, per ampliare l’offerta come di dice, si lasciasse via libera ai palazzinari di densificare Trastevere. Gli esempi potrebbero essere tanti e si sa che i paesaggi naturali più pregiati e le cosiddette città d’arte sono ai primi posti nell’attenzione di speculatori molto potenti. Per questo occorre intensificare e affinare l’impegno per tutelare i beni comuni.

Nei giorni immediatamente successivi agli attentati terroristici islamici a Londra in cui morirono 56 persone, le autorità britanniche stabilirono che tutti gli uomini bomba erano integralisti islamici nati cittadini britannici. Nell'immaginario collettivo i terroristi erano al contrario forestieri, stranieri, alieni. Ciò doveva spiegare perché ai fautori di attacchi suicidi non importava nulla delle vite che si accingevano a distruggere. Invece i terroristi londinesi erano connazionali, membri della stessa comunità cui appartenevano le loro vittime. Ma dove è andata a finire la coesione dovuta alla cittadinanza? Perché i legami che ci uniscono sono così deboli?

Questo autunno le stesse domande si sono riproposte anche in Francia, quando i quartieri abitati da immigrati nelle grandi città sono stati sconvolti da settimane di rivolta. Gli europei incominciarono a interrogarsi se il loro modello di integrazione, basato sulla garanzia della concessione della cittadinanza, fosse definitivamente andato in crisi oppure no.

Prima di tutto è bene chiarirsi le idee su ciò che non è andato male. Milioni di immigrati musulmani in Europa e in America del Nord hanno superato le resistenze e il risentimento trasformando la loro immigrazione in un'esperienza positiva. La stragrande maggioranza di queste persone evita i disordini e disprezza la violenza terrorista.

Secondo, è importante distinguere i tumulti dagli attentati di Londra. Gli attacchi con le bombe erano guidati dall'integralismo islamico, gli incidenti di Parigi erano causati da rabbia a oltranza. Mentre gli attentati suicidi mirano a distruggere la società libera democratica, la maggior parte dei poveri, disoccupati o sottopagati dei sobborghi urbani che hanno bruciato macchine nelle periferie di Parigi protestano perché vogliono l'integrazione. Ma proprio riuscire ad integrarsi è stato praticamente impossibile per molti. L'errore è stato di presumere che i diritti all'assistenza offrono sempre una via d'uscita dalla povertà, oppure che i sussidi per l'affitto possano conferire un senso di appartenenza.

Il welfare potrebbe essere in realtà parte del problema, non della soluzione: l'assistenza intrappola gli immigrati nel risentimento e nella dipendenza. In Gran Bretagna il 63 per cento dei figli di pachistani o bangladesi vivono nella miseria. Laddove la razza, la classe sociale, la religione e la povertà messe insieme producono emarginazione, la sola concessione della cittadinanza non può funzionare.

I teorici hanno definito le nazioni «comunità immaginarie». Gli attentatori che hanno attaccato i loro concittadini a Londra potrebbero aver scelto di arruolarsi nella jihad per battersi in favore di una comunità immaginaria in grado di offrire loro un maggiore senso di appartenenza. Per la gioia di essere accettati e il piacere di sentirsi coinvolti, piuttosto di accontentarsi della misera consolazione di acquisire la cittadinanza in una società democratica. Gli attentatori suicidi si uniscono a ciò che loro considerano la comunità internazionale degli Umma, i credenti musulmani. Essa offre al giovane cittadino una causa nobile per cui battersi — la difesa dei musulmani ovunque — e un ideale brillante, il martirio in difesa di una fede. Considerare gli uomini-bomba dei fanatici vuol dire non cogliere il più profondo fascino morale di questa forma alternativa di appartenere.

Grazie a Internet e ai prezzi bassi dei voli internazionali, gli immigrati e i loro figli non devono più legarsi una volta per tutte ai nuovi Paesi adottivi.

Possono avere doppi passaporti e passare mesi a respirare l'atmosfera politica di Peshawar, Qetta o Algeri piuttosto che quella di Bedford, Leeds o Clichy- sous-Bois.

Nessuno con un minimo di buon senso potrebbe pensare di eliminare i benefici della globalizzazione, tra cui Internet e i viaggi a basso costo, soltanto perché ciò potrebbe indebolire i legami che ci uniscono come cittadini. Ma è importante capire che per una piccola minoranza di giovani musulmani i rimedi attuali — più programmi di assistenza per gli immigrati poveri, l'espulsione per coloro che violano le leggi e le penalità più severe per i mullah e i predicatori dell'odio — non offrono più il modello di una città terrena che può competere con la promessa di una città divina proposta dai sostenitori della violenza.

L'unica causa che offre la democrazia è il motto storico «libertà, eguaglianza e fratellanza». Ma queste parole svaniscono se i sindacati forti escludono i lavoratori immigranti, se i professionisti si oppongono all'entrata di nuovi cittadini specializzati e se le istituzioni elitarie non reclutano nuovi talenti emergenti, provenienti da Paesi stranieri.

Il problema fondamentale non è il fatto che i governi europei non hanno speso cifre sufficienti per aiutare gli immigrati. Il problema è che non hanno aperto i battenti delle loro scuole elitarie, della burocrazia e dei partiti politici ai migliori e ai più brillanti tra i nuovi cittadini. L'ostacolo insormontabile è la mancata inclusione dei nuovi arrivati nei ceti più alti della società. Quando si vedono foto di gruppo dei leader europei nei loro conclavi dell'Ue non si notano volti di colore, donne con i capelli nascosti sotto i foulard o personalità della fede musulmana. Ci vorrà molto tempo prima che questo accada.

Fino a quando i cittadini immigrati non vedranno alcuni dei loro ai vertici, saranno scettici — e a ragione — nei confronti delle promesse della democrazia. La democrazia è in concorrenza con le ideologie fondamentaliste per la salvezza dell'anima, e in questo momento sta perdendo la sfida.

Nota: il sito del corriere: Città invisibili

Titolo originale: Ski in the desert? It could only happen in Dubai ... – Traduzione di Fabrizio Bottini

Ci sono 35 gradi, fuori, ed è appena cominciato a nevicare. Non contento delle spiagge a temperatura controllata, degli alberghi a sette stelle e di un arcipelago artificiale, l’emirato cotto dal sole di Dubai ha deciso di introdurre condizioni climatiche alpine in pieno deserto. Il luogo di questa stranezza meteorologica è Ski Dubai, la terza discesa al coperto del mondo, dove i visitatori presto potranno concedersi un rapido slalom fra le sessioni di abbronzatura.

Due settimane prima della prevista apertura del 2 dicembre, siamo stati invitati per una rapida visita preliminare. Mentre il feroce sole di mezzogiorno arrostisce i turisti sulle vicine spiagge di Jumeirah, noi indossiamo scarponi da sci, guanti e abiti termici. Equipaggiati in perfetto stile Scott-eroe-dell’Antartico ci avviciniamo alle colossali porte del complesso, con gran divertimento dei clienti del vicino centro commerciale, in calzoncini e sandali.

Mentre attraversiamo l’entrata una folata di vento glaciale si fa strada sino alla base dei nostri polmoni, e sentiamo lo scricchiolare alieno della neve fresca sotto le suole. Davanti a noi sta una scena strappata direttamente da una cartolina di Natale. Due giovani eccitati si tirano palle di neve, alberi di pino pesanti di brina e una manciata di visitatori vestiti di nero che si arrampicano su una ripida altura bianca di neve, come un branco di pinguini migratori. Al centro di questa istantanea di perfezione invernale ci sono due Emiri in tuniche bianche e fazzoletti a scacchi rossi inginocchiati in venti centimetri di polvere, che lasciano scivolare la neve tra le dita ridacchiando alla semplice gelida follia di tutto questo.

Anche in questa città dalle ambizioni sconfinate, portare temperature di 45° sino a sotto zero sembrava una pazzia. Ma questo è un posto che rifiuta di essere chiuso dentro a bazzecole come la logica, la fisica, la geografia. La momento la città è impegnata in una serie di superprogetti surreali: realizzare il primo albergo subacqueo, completo di sala per spettacoli pure subacquei; costruire un parco a tema (fantasiosamente chiamato Dubailand) più grande della stessa città; erigere la torre più alta del mondo (il Burj Dubai, la cui altezza è un segreto gelosamente custodito). Il prossimo anno vedrà l’inaugurazione del primo complesso dell’Isola delle Palme, un vasto arcipelago artificiale che si estende nel Golfo Persico. A Dubai, “moderazione” è una parolaccia sporca.

Ski Dubai sporge dal Mall degli Emirati – il più grosso centro commerciale fuori dagli USA – come un gigantesco gomito metallico. Di fianco alla via Sceicco Zayed, la strada principale di Dubai, le strutture a forma di tubo sono piuttosto lontane dall’essere carine, cosa insolita in questa città esteticamente consapevole. Ma l’interno è una meraviglia. Allungando il collo per vedere tutto il cavernoso spazio da 22.500 metri quadrati (che dichiara di contenere oltre 6.000 tonnellate di neve), arranchiamo attorno a finte montagne e veri igloo ai piedi della complessa arena a quattro discese. A differenza dello snow park – la zona dove non si scia ai piedi della collina – le discese non sono ancora aperte al pubblico e la vista di questo bianco manto vergine che si estende verso l’alto fino a sparire alla vista è magica e intimidante. Mentre ci spingiamo oltre snowmobiles abbandonate e una colossale seggiovia incrostata di ghiaccioli, la sensazione è più da apocalisse dell’era glaciale che da nuova attrazione turistica alla moda. Ma entro un paio di settimane questa neve vergine sarà incisa da 1.500 sciatori e snowboard.

Raggiungiamo la metà del percorso sorridenti ma senza fiato. È il punto dello Avalanche Cafe, in stile Zermatt, uno chalet con balconi che presto riscalderà gli sciatori con fonduta, cioccolata bollente, e il piacere piuttosto dubbio del vino speziato analcolico (“la nostra deliziosa ricetta della casa di Vimto caldo e sciroppo di zucchero in infusione di spezie”).

Per ora ci lasciano arrivare solo fin qui, ma dietro l’angolo, in cima agli 85 metri dell’edificio, sta la pista più lunga di Ski Dubai. Presentata come il primo percorso “nero” al coperto, è lunga 400 metri con un dislivello di 60: qualcosa in meno delle terribili pendenze di Portes du Soleil, e probabilmente più una rossa o blu, per uno sciatore esperto.

Lì vicino, la zona della rampa per snowboard – che purtroppo manca di qualunque ostacolo, ringhiera, piano di tavolo – e le due piste toboga non basteranno a soddisfare i tossicodipendenti da neve a caccia di adrenalina.

Ma la parte per bambini – caverna di ghiaccio da 3.000 metri quadrati, decantata come “il più grande snow park del mondo” – è una fantasia infantile degna dello squisito ingegno di un Roald Dahl. Collocata dietro le pendenze e già aperta al pubblico, questa sezione offre slitte-bob, collinette artificiali per toboga, un campetto per giocare a palle di neve e spazi dedicati alla costruzione di pupazzi di neve. Dentro la “caverna della neve” bambini infreddoliti si aprono barcollando la strada in un labirinto ghiacciato, tentando di restare in equilibrio su un ondeggiante “ghiaccio galleggiante”, e facendo amicizia con un enorme dragone fatto di enormi blocchi di ghiaccio scolpito.

Una patina di didattica è fornita dalla sala proiezioni della caverna di neve, che secondo le nostre guide “mostrerà alcuni film divertenti e al tempo stesso istruttivi ... sui pinguini, gli orsi polari, informando sul clima e cose di questo tipo”.

Completato il nostro giro tra le varie strutture, torniamo al calore di una poltroncina nel San Moritz Cafe, affacciato sul grande spazio. Guardando attraverso gli alberi di plastica – quelli veri sarebbero stati pericolosi per gli incendi – e le scritte giganti che proclamano le virtù delle Vacanze negli Emirati, è stupefacente osservare la semplice dimensione dell’opera di ingegneria che si presenta.

Utilizzando tecniche simili a quelle che si trovano nei sistemi di condizionamento d’aria che rendono abitabile la città, la temperatura è stata abbassata fino a – 8° per il periodo iniziale, di formazione della neve. A questa temperatura minima, l’acqua allo stato liquido viene spruzzata fino a creare una nube all’interno dell’edificio, a cui vengono aggiunti minuscole particelle di ghiaccio, a formare neve che cade in forma di fiocchi: neve artificiale allo stato puro. Fortunatamente, quando Ski Dubai sarà aperto al pubblico il ciclo di formazione della neve avverrà solo di notte, e nei normali periodi di sci ci sarà una meno feroce temperatura di soli due gradi sotto zero.

Gli abitanti di Dubai annoiati dal lusso senza alcun dubbio si abitueranno rapidamente a considerare lo sci a temperature estive di 45° come un’attività corrente. Nondimeno, Ski Dubai sta facendo ogni sforzo per trasformare gli abitanti del deserto in abili slalomisti. Ci sono almeno 25 maestri di sci a portata di mano per le lezioni, e un paio di immigrati dalla Scandinavia ha preventivamente organizzato uno Dubai Ski Club per organizzare gite sociali sulle piste. Ha già più di 300 soci. Una volta diventati appassionati di questo prestigioso nuovo passatempo, i dubaiani possono iniziare ad attrezzarsi adeguatamente, scegliendo fra tavole Rossignol, scarponi Sidas e giacconi Barts nel negozio Snow Pro interno.

Cosa ci riserva il futuro per Ski Dubai? Potrebbe iniziare a erodere il primato delle tradizionali mete sciistiche del Medio Oriente, in Libaro e Iran? Susan Mikloska, direttrice per il marketing, ne è convinta. “Certamente ne ha il potenziale” dice “perché Dubai ora offre un’ampia gamma di attrazioni ai visitatori, e la possibilità di sciare nel pomeriggio e stare all’esterno sulla sabbia o in acqua il resto della giornata è molto attraente”. E possiamo aspettarci che le nuove piste in città creino una rivoluzione stile Cool Runnings nella comunità sportiva? Mikloska ne è certa. “In Europa molti dei migliori sciatori e atleti olimpici hanno iniziato su alture più piccole delle nostre, quindi abbiamo un ottimo potenziale per formare ottimi atleti” afferma. “C’è speranza che entro qualche anno potremo far partecipare qualcuno a delle gare”.

Anche se le glorie olimpiche possono essere piuttosto lontane, gli abitanti si godono in pieno la novità di stare al freddo. “È piuttosto strano, ma meraviglioso” dice Raed Al Yousofi, meravigliato alla vista dei primi fiocchi di neve. “Ora Dubai ha tutto, e tutti vorranno visitarla. Io sono troppo vecchio per imparare, ma nostri figli saranno buoni sciatori”.

Nota: il testo originale (con schede tecniche informative dettagliate sul progetto e sull’operazione Dubai) al sito dell’Observer; qui su Eddyburg, sull’argomento si veda almeno il bell’articolo di Mike Davis proposto qualche tempo fa (f.b.)

L'ONU inserisce il diritto alla casa fra i diritti umani universali (art. 25). In Italia oltre l'11% delle famiglie vive in povertà relativa (Istat 2005), le famiglie sotto sfratto sono 600.000, gli allogi sfitti circa 2 milioni...C'è chi manda le ruspe contro le baracche degli immigrati e chi cerca soluzioni immediate per calmierare situazioni di disagio sociale ormai al limite in molte nostre città: legalità da un lato, giustizia dall'altro. La questione della casa, a Roma come a Bologna non è un problema di ordine pubblico, ma un'emergenza sociale che va allargandosi. (m.p.g.)

Briciole di welfare

GALAPAGOS

Soldi ce ne sono pochi: è l'alibi di Berlusconi e Tremonti per giustificare la pochezza della finanziaria e i tagli alla spesa sociale necessari per centrare gli impegni con Bruxelles. Soldi, invece, ce ne sono tanti. D'altra parte lo stesso Berlusconi ci ha ossessionato negli ultimi tempi con lo slogan «gli italiani sono ricchi». E' vero: i ricchi da quando c'è lui al governo sono aumentati di molto, ma sono aumentati ancora di più i poveri. Certo, l'Istat parla di «povertà relativa», però quanto c'è di relativo per una famiglia a dover vivere, anzi sopravvivere, con poche centinaia di euro al mese in città come Roma o Milano? L'Italia è ricca, ma milioni di italiani sono poveri. Non è una contraddizione: è il risultato di una politica economica che tende a esasperare le differenze. E la povertà è il risultato di un sistema fiscale iniquo - nel quale il lavoro paga più tasse della rendita - e inefficiente, visto che sfuggono ogni anno al fisco redditi per un ammontare superiori ai 150 miliardi di euro (300 mila miliardi di lire per semplificare). Ieri un quasi ignoto deputato di An - Giampaolo Landi di Chiavenna, come specificava l'Agi - ha sostenuto che «tassare i patrimoni e le rendite è un errore che la Casa delle libertà non può permettersi». Perché non può permetterselo? Non certo in base alla teoria economica; sicuramente non in base all'evidenza empirica che ci dice che sono i paesi del Nord Europa a guidare la classifica dell'efficienza economica, del benessere, della solidarietà e quindi della civiltà. Il problema è che anche An è diventata schiava di Berlusconi e della ideologia di classe che il cavaliere rappresenta.

Eppure spazi per fare e fare bene ce ne sono. Invece si litiga sulle briciole, con l'Udc che minaccia la rottura per circa 200 milioni di euro tagli alle famiglie. Ma perché poi «famiglie»? Perché non chiamarli tagli ai «cittadini», ai diritti di ognuno di noi, a cominciare di chi è diverso, da chi non vuole farsi o non può farsi una famiglia?

L'Italia è un paese di contraddizioni: ricchezza e povertà; cittadini di serie A e di serie B. Ma anche proprietari di case e cittadini che la casa non ce l'hanno, ne hanno bisogno, ma non riescono a averla. Le statistiche dicono che ci sono 600 mila cittadini sotto sfratto. Molti di loro sono «morosi», ma nessuno lo è per hobby: il mercato li strangola con affitti mostruosi. Le case non mancano: sono circa 2 milioni quelle sfitte. Ma in questo caso la legge della domanda e dell'offerta non funziona. Il livello degli affitti è determinato dal prezzo delle abitazioni; i prezzi delle case sono imposti dagli immobiliaristi che fanno rimpiangere i vecchi palazzinari. Il mercato delle abitazioni è un mercato asimmetrico dove il potere ce l'ha solo il proprietario e dove l'inqulino deve prendere o lasciare. E lasciare significa spesso finire in mezzo a una strada o in precarie coabitazioni con umiliazioni pesanti per quanto riguarda i giovani .

Il tutto favorito da una offerta pubblica quasi inesistente; da cartolarizzaioni dismissioni fatte solo per fare cassa e non per dare nuovo impulso al'attività edilizia come suggeriscono giustamente anche quelli dell'Ance, i costruttori. Sandro Medici ha fatto un gesto coraggioso anche se qualcuno dice che non ha fatto che «copiare» quello che alcuni decenni fa aveva deciso di fare Giorgio la Pira indifesa dei senza casa fiorentini. Per i benpensanti non è questo il sistema per risolvere il problema della casa. Forse, anche se in situazioni di emergenza si ricorre a misure di emergenza. In ogni caso Medici ci ha insegnato una cosa: la soluzione per risolvere i problemi degli emarginati non può essere la legalità invocata da Cofferati.

CASA

Giusta causa

SANDRO MEDICI

Fino a qualche tempo fa circolava una convinzione: che saremmo diventati tutti proprietari delle nostre case. Risolvendo così, alla radice, uno dei problemi sociali che ciclicamente emergono nelle nostre città, a Roma più che altrove. Quello dell'abitare, di avere un tetto sulla testa, di poter soddisfare quell'elementare bisogno di due camere e cucina. Nell'acme della stagione del furore liberista, si pensò infatti di avviare quello sciagurato processo di dismissioni delle proprietà immobiliari degli enti pubblici (para o semi che fossero): di quell'enorme patrimonio di edifici d'abitazione che per decenni erano riusciti (e non completamente) a calmierare il mercato. La chiamarono cartolarizzazione. Aveva il duplice obiettivo di accumulare risorse per la spesa pubblica e consentire al popolo dei locatari di realizzare il sogno della casa in proprietà.

Obiettivo raggiunto per una parte, e anche cospicua, ma fallito per un'altra, seppur minore. In molti aderirono all'offerta di vendita, indebitandosi allo stremo, mettendo a rischio il proprio stesso futuro. Ma in molti altri restarono fuori, impossibilitati ad acquistare a causa di redditi insufficienti e/o precari. E ora sono proprio questi ultimi, esclusi e impoveriti, a ritrovarsi sotto sfratto: cacciati dalle case in cui hanno vissuto per decenni, senza alcuna prospettiva di ricambio perché schiacciati da un mercato per loro irraggiungibile.

Sono tuttavia solo gli ultimi arrivati nell'ampia schiera dei senzacasa, quell'insieme di sfuggenti figure sociali che cronicamente vivono nell'insicurezza economica. Gente che campa sbattendosi tra un alloggio di fortuna e un'ospitata da amici e parenti, famiglie povere annidate in appartamenti che nel frattempo sono stati messi in vendita o già venduti, immigrati vecchi e nuovi alla continua ricerca di una sistemazione decorosa. Sono quelli che affollano le liste dei destinatari di alloggi popolari che i Comuni non sono in grado d'offrire perché semplicemente mancanti. C'è poi un ultimo flusso che va a completare questa preoccupante massa critica. Sono l'acido frutto dell'impoverimento progressivo delle nostre società.

Quelli che non riescono più a pagare il mutuo o l'affitto, le coppie che non mettono su casa perché non ce la fanno a star dietro al mercato, così come i giovani che restano dai genitori, i pensionati non più autosufficienti costretti a convivere con figli e nipoti, ecc. ecc. Se non fossero passati esattamente cinquant'anni, sembrerebbe di essere tornati ai tempi degli sfollati di via Donna Olimpia raccontati da Pier Paolo Pasolini in Ragazzi di vita. E il peggio è che di tutto ciò non si accorgono che in pochi: i sindacati, qualche sindaco e poco più. Siamo di fronte a una clamorosa smentita delle strategie privatizzatrici, ingannevoli quanto feroci, che sta producendo un accumulo di disagio sociale angosciante, che qua e là già si manifesta con occupazioni e conflitti. E non c'è traccia di una politica una per attenuare questa pressione. Anzi, anno dopo anno, il governo sforna leggi finanziarie che riducono i contributi sociali per l'affitto, lasciando sole e indebolite le amministrazioni locali, che s'arrangiano come possono.

Affrontare e risolvere questo acutissimo problema avrebbe bisogno di ripensare alla radice una politica per la casa, che riconsegni centralità al diritto sociale all'abitare, un diritto che l'Onu ha dichiarato universale. Ci vorranno anni e sicuramente un altro governo. Ma nel frattempo tutti i senzacasa che vagano penosamente nelle nostre città, dove li mettiamo?

L'ordinanza di requisizione di alcuni alloggi sfitti e inutilizzati recentemente emanata nel X Municipio di Roma, peraltro prontamente messa sotto inchiesta dalla magistratura, non sarà certo la soluzione. Ma non è più possibile tollerare gli indecenti interessi della rendita immobiliare proveniente dalle migliaia e migliaia di case vuote, che s'accumula parassitariamente solo grazie al tempo che passa, senza per questo venir minimamente tassata. L'egoismo sociale, la smania accumulatrice non può tener sequestrati beni necessari alla collettività, soprattutto di fronte a un'emergenza che sta per travolgerci tutti.

Diritto alla casa, la cura di Medici

Sabato a Roma manifestazione nazionale contro l'emergenza abitativa. I promotori: «Sfiliamo anche per il presidente del X Municipio». Che ha requisito alloggi per gli sfrattati come fece La Pira a Firenze ma è finito sotto inchiesta. Silenzio di Veltroni e dell'Unione

ANGELO MASTRANDREA



ROMA - E'attaccato dalla stampa di destra che lo accusa di «esproprio proletario» e violazione della proprietà privata, a qualcuno della sua maggioranza la mossa non è piaciuta particolarmente e anche il sindaco Veltroni per il momento tace su una vicenda che pone il centrosinistra di fronte a un bivio: se privilegiare il diritto di proprietà a quello alla casa, la speculazione immobiliare rispetto agli sfrattati. Ma Sandro Medici, presidente del X municipio, non demorde e conquista le organizzazioni di inquilini, cartolarizzati, sfrattati e senza casa che da tempo denunciano le speculazioni immobiliari e l'esistenza di un vasto patrimonio abitativo privato che rimane inutilizzato. Tanto che l'Unione inquilini invita a partecipare in massa alla manifestazione nazionale per il diritto alla casa che si svolgerà sabato a Roma. E così, nei giorni in cui il sindaco di Bologna Cofferati fa a pugni con studenti e occupanti di case e rompe con Rifondazione sul tema della legalità, da un municipio romano arriva un esempio che si pone all'estremo opposto. Il presidente del X Municipio ha infatti requisito con un'ordinanza 12 dei 50 appartamenti di un palazzo di proprietà di una società privata, la 3A, e abbandonato da 15 anni. Un provvedimento dettato dall'esigenza di dare un tetto a una quarantina di sfrattati, in maggioranza persone anziane e malate.

In questo Medici ha un precedente illustre nel sindaco di Firenze Giorgio La Pira, democristiano e beatificato, che negli anni `60 requisì temporaneamente alcuni palazzi del centro per dare un alloggio agli sfrattati dell'Isolotto. Attaccato in consiglio comunale, dichiarò che il diritto all'abitazione viene prima di quello alla proprietà. Ma questa volta il presidente del popolare municipio romano di Cinecittà è finito sotto inchiesta per abuso d'ufficio.

«Il reato contestatogli si risolverà in un boomerang nei confronti della rendita immobiliare speculativa e parassitaria», dice il segretario dell'Unione Inquilini Massimo Pasquini, che cita a favore di Medici, ex giornalista del manifesto ed eletto come indipendente nelle file del Prc, l'articolo 11 del Trattato internazionale sui diritti umani che garantisce il diritto alla casa. E forse non a caso, visto che proprio qualche mese fa una commissione dell'Onu ha visitato la capitale proprio per monitorare il problema casa. «Ci auguriamo che i giudici mettano mano anche ai quotidiani abusi d'ufficio perpetrati da proprietari che tutti i giorni affittano, senza averne apposita licenza, stanze e posti letto a canoni neri e perseguano anche quei proprietari, piccoli e grandi, che eseguono, previo sfratto anche di anziani e portatori di handicap, cambi di destinazione d'uso illegali, nel centro storico, per trasformare i propri immobili in redditizi bed and breakfast», dice ancora Pasquini. Anche Giovanni Russo Spena del Prc difende l'operato di Medici: «Mi sembra che dal punto di vista sia sociale che giuridico abbia indicato la strada per risolvere un problema, mentre l'accusa è semplicemente un atto repressivo che non risponde nemmeno all'applicazione corretta del sistema di garanzie dello stato di diritto».

La giunta capitolina appena pochi mesi fa ha approvato una delibera sull'emergenza abitativa elaborata dalle organizzazioni dei senza casa, e già quando militanti di Action erano finiti sotto inchiesta per associazione a delinquere per aver occupato edifici abbandonati di proprietà privata, ne aveva invece riconosciuto l'importante funzione sociale. Il ruolo di mediazione del sindaco era stato importante anche nella risoluzione di alcuni sgomberi che rischiavano di provocare tensioni sociali. Del resto, che il problema casa a Roma sia una questione di carattere sociale più che di ordine pubblico era stato lo stesso prefetto Achille Serra a dirlo.

Per questo Cento chiede all'Unione e a Veltroni «un atto esplicito di sostegno alla iniziativa del presidente del X Municipio». Anzi, per l'esponente dei Verdi «requisire le case abbandonate e destinate alla speculazione immobiliare è un atto di civiltà, soprattutto di fronte all'emergenza casa di Roma e delle altre grandi città».

E'normale che il tempo rompa verso la fine di agosto e quindi ci siano perturbazioni e temporali. E' molto meno normale che, ormai da anni, maltempo e piogge, che annunciano la fine dell'estate, abbiano sempre conseguenze così devastanti e drammatiche. Quest'anno è successo nell'Europa centrale e orientale, Austria, Svizzera e Romania purtroppo già contano morti, dispersi e migliaia di sfollati. Già sappiamo, però, che se i venti spingessero in Italia quella perturbazione le devastazioni e le conseguenze sarebbero altrettanto gravi. Di fronte al ripetersi di quelle che, una classe dirigente incolta e incapace, si ostina a chiamare calamità naturali, un interrogativo si pone: perché mai qualsiasi pioggia cada, normale o eccezionali che sia, le conseguenze per persone e cose sono sempre le più gravi? Intensità delle precipitazioni e loro concentrazione (in pochi giorni cade la pioggia di una stagione) ci dicono che è in corso un cambiamento climatico. Anche quest'estate abbiamo avuto segnali forti che evidenziano che il cambio di clima non è il futuro a cui dobbiamo prepararci, ma un drammatico presente da fronteggiare. Non ce ne parla solo la tragedia rumena, svizzera ed austriaca di questi giorni o il moltiplicarsi di tifoni ed uragani, che purtroppo colpiscono i paesi più poveri e meno responsabili delle alterazioni al clima, ma anche il drammatico scioglimento di un'area ghiacciata della Siberia grande come la Francia e la Germania, a cui la stampa nazionale non ha dedicato alcuno spazio. Insomma i fatti ci confermano che le previsioni del terzo rapporto Onu sul clima sono ormai una realtà con cui fare i conti. A nulla serve però attribuire al clima che cambia la responsabilità della tragedia che ha colpito l'Europa centro-orientale, soprattutto non è accettabile che il cambiamento climatico venga invocato come giustificazione da chi avrebbe dovuto agire e non l'ha fatto per fronteggiarlo.

Alle popolazioni rumene, svizzere ed austriache così duramente colpite la migliore solidarietà che si può esprimere è la denuncia delle inadempienze e del vuoto di strategie politiche con cui le classi dirigenti non solo politiche e non solo di governo hanno affrontato il cambiamento del clima. Kyoto, che rappresenterebbe solo un piccolo segnale di inversione di tendenza è sì entrato in vigore, ma per ora le emissioni che alterano il clima aumentano anziché diminuire. In realtà il mito dell'eterna crescita continua ad essere l'orizzonte culturale delle politiche economiche delle destre come delle sinistre, senza alcuna preoccupazione di quanti gas climalteranti si manderanno in atmosfera per realizzarla. Ed allora si dia un segnale alle popolazioni colpite convocando un vertice europeo in cui si prendano decisioni su una nuova politica energetica basata sul risparmio e sulle fonti rinnovabili. Ma non è solo il cambiamento climatico e l'incapacità evidente di governarne le manifestazioni la causa di tante devastazioni. Anzi più si guarda e si va a fondo della questione e più emergono le colpe: di territori incapaci di assorbire le piogge perché la speculazione li ha ricoperti di cemento, asfalto e costruzioni, o di fiumi le cui aree di pertinenza, quelle in cui dovrebbero espandersi le piene risultano invece costruite, coltivate, infrastrutturate pesantemente, o di colline rase al suolo da un'agricoltura industriale parassitaria ed eccedentaria, o di un'attività edificatoria senza soste e di un'abusivismo sempre tollerato e sanato.

Da più parti si invocheranno nuove opere idrauliche per governare fiumi e frane e piogge senza capire che se non si mettono in discussione gli usi sbagliati e speculativi del territorio non si potrà governare le conseguenze del maltempo e del cambio di clima. Anche qui servono segnali chiari e non solo parole. Il centro sinistra che si avvia alle primarie dichiari che il riassetto idrogeologico del territorio è la principale ed unica opera pubblica che intende realizzare se governerà, un'opera pubblica fatta non di cemento e asfalto, ma di conoscenza dei territori manutenzione e cura della terra e perché no di qualche demolizione.

Titolo originale: The regional revolution – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Prezzi delle case da far piangere, pendolarismo caotico e ritmi di vita surriscaldati: Londra ha parecchi degli svantaggi che vi aspettereste da una metropoli. Così molte imprese britanniche e i loro dipendenti stanno iniziando a capire che esiste vita anche fuori dalla capitale.

Mentre il governo cerca di rimediare ai problemi e riattirare posti di lavoro e investimenti verso Londra, le agenzie di sviluppo regionale del paese lavorano per convincere le imprese provviste di risorse che esiste la possibilità di avere di più in cambio di quel denaro – oltre ad una migliore qualità della vita per i dipendenti – in Scozia, Galles, o nell’Inghilterra del nord.

Gli uffici governativi hanno promesso di dare l’esempio, con decine di migliaia di posti di lavoro rilocalizzati da Whitehall ad altre parti del paese nei prossimi anni.

Molte delle capitali regionali del Regno Unito - Manchester, Birmingham, Leeds, Glasgow – stanno rinascendo, riprendendo dal punto in cui avevano lasciato quando iniziò il lungo e lento declino della loro tradizione industriale più di 50 anni fa.

Oggi spuntano imprese della comunicazione là dove un tempo c’erano fabbriche (spesso anche letteralmente, quando gli edifici industriali abbandonati del XIX secolo vengono riaggiustati e rioccupati). E l’eredità della tradizione imprenditoriale, dell’assunzione di rischi e dell’innovazione che aveva contribuito alla rivoluzione industriale sta trovando nuovi sbocchi nella scienza, nella ricerca e sviluppo, nella progettazione d’avanguardia.

Appartamenti di città all’ultima moda attirano di nuovo giovani professionisti nei quartieri centrali, dove un tempo stavano zone inaccessibili, e attorno sono spuntati bar, ristoranti, negozi. Compagnie di venerabile tradizione stanno spostando parte delle proprie attività verso zone del paese dove non avrebbero mai pensato di andare vent’anni fa; e nascono nuove imprese, qualche volta con un pizzico di denaro pubblico.

Costi inferiori degli immobili e della manodopera, spesso solo una frazione di quelli della Capitale, e lavoratori formati, contribuiscono ad offrire solide basi economiche a questo trasferimento di interesse da Londra. Aiutano anche i solidi collegamenti nei trasporti, e la congestione inferiore a quella della Capitale. E l’alta qualità della vita, la vicinanza alla costa, i magnifici parchi naturali del Lake District o del Peak District, ad esempio, possono essere un enorme incentivo.

Questo rinascimento urbano non è arrivato certo dappertutto, ovviamente: ci sono ancora sacche di alta disoccupazione e stenti sparse per il Regno Unito, non toccate dalla ripresa economica degli ultimi anni.

E nonostante la quantità di impressionanti vicende positive, sarebbe pericoloso dare per scontata la ripresa di queste regioni. Le RDA [ Regional Development Authorities n.d.T.] sono in concorrenza per gli investimenti non soltanto con Londra o Francoforte, ma anche con la Repubblica Ceca, la Polonia, che ora fanno parte della nuova Unione Europea allargata: oltre che con la Cina o l’India, i giganti low-cost in rapida crescita economica nell’estremo oriente.

Le capacità dei lavoratori britannici, l’inventività degli imprenditori, la qualità della vita, diventeranno sempre più importanti perché le attività arrivate in questi luoghi possano mettere radici profonde e prosperare.

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Nei giorni in cui la banlieue della sua Parigi bruciava, Renzo Piano lavorava alla nuova sede della Columbia University a Harlem, il simbolo dei ghetti che sta diventando uno dei motori del rilancio di New York. L’immagine basta a illustrare l’abisso di attenzione che separa gli Stati Uniti e la vecchia Europa sul problema delle periferie. Passata la rivolta, il rischio è di dimenticare, in attesa del prossimo incendio. Il ruolo di ambasciatore Unesco per le città e le decine di progetti sparsi in quattro continenti, hanno portato Piano a conoscere come forse nessun altro le periferie del mondo. O come dice lui, «un mondo di città spesso ridotte a una sconfinata periferia».

Cominciamo naturalmente dalla banlieue francese, una rivolta annunciata. Si è citato molto un bel film, L’Odio, ma si potrebbe parlare anche di decine di tesi di laurea. Lei stesso, l’anno scorso, aveva lanciato l’allarme.

«È spiacevole fare ora il grillo parlante ma non occorreva essere profeti. Il problema delle banlieues è che sono ghetti di cui quasi nessuno in Francia si vergogna. Non la destra ma nemmeno la sinistra. È raro trovare un paese dove l’intera classe dirigente rimane così indifferente ai problemi dell’integrazione. È un dramma che la Francia vive dai tempi della guerra d’Algeria. Ogni tanto esplode, se ne discute un po’ e si torna a rimuoverlo. La rivolta è già stata archiviata da Sarkozy come "opera della solita feccia". Ora non dico che non ci siano i teppisti. Ma la feccia esiste anche nella Parigi borghese o nella Milano bene. Se diventa la guida di una rivolta, è evidente che il problema non si risolve soltanto con una brillante operazione di polizia».

La banlieue parigina non è più povera di altre periferie europee, per non dire delle bidonville di mezzo pianeta. E allora perché tanta disperazione?

«Non è una questione di estrema povertà ma di esclusione, di negazione dell’identità che produce odio. Tutte le città sono egoiste, tendono a trattenere nel centro le attività d’interesse e a relegare le periferie nel ruolo di dormitori. Ma le città francesi sono particolarmente ingenerose nei confronti delle periferie, ridotte a deserti affettivi dove non c’è nulla da fare, nulla in cui sperare. Sarebbe facile dire che si tratta di un fallimento della politica della destra, ma ripeto che neppure ai tempi di Jospin s’era fatto molto. Magari le rivolte servissero a far nascere una sinistra nuova»

Romano Prodi ha detto che una rivolta potrebbe scatenarsi anche nelle periferie italiane. È d’accordo?

«No. Con tutta la stima che ho per Prodi, stavolta sbaglia. Anche se l’approssimazione della politica rischia di innescare la miccia. Bisognerebbe cercare di non ripetere gli errori dei francesi. Ma almeno i nostri politici si pongono il problema, sia pure in maniera maldestra».

Più che altro si fanno grandi annunci, splendidi convegni, pose di prime pietre. Sono vent’anni che si sente parlare del recupero dell’hinterland milanese o delle barriere torinesi ma il paesaggio delle periferie del Nord rimane un dopoguerra industriale, con gli stabilimenti ormai ruderi. E fra le rovine s’avanza una nuova umanità di mutanti, dimenticati da tutti.

«Il problema in Italia è che la politica fa molto spettacolo. Quando Umberto Veronesi era ministro avevamo studiato insieme un progetto per portare nelle periferie gli ospedali. Un lavoro magnifico, avevamo raccolto un consenso entusiastico e bipartisan, poi al cambio di ministero si sono dileguati. Con i sindaci va un po’ meglio. Per esempio i progetti di Ponte Lambro a Milano e soprattutto del recupero del waterfront di Genova - una specie di risarcimento storico del Ponente industriale - vanno avanti, magari lentamente. Soltanto che la politica italiana è scandita dai tempi elettorali e queste non sono faccende da taglio dei nastri alla vigilia del voto. Dove si lavora meglio è nei piccoli centri. A Sesto San Giovanni per esempio, l’ex Stalingrado d’Italia, ho trovato finalmente la libertà di progettare un nuovo modello di trasformazione, con grandi centri di ricerca, parchi, vivaio d’imprese ad alta tecnologia. Soprattutto la libertà di cominciare il lavoro rifiutando la soluzione convenzionale per il recupero delle aree industriali: il centro commerciale. Per carità, basta con gli shopping center»

Le periferie che in Europa sono un problema in America diventano un’occasione. La metamorfosi di Harlem è affascinante, da ghetto a nuova frontiera di Manhattan, con i politici che fanno la fila per aprire i loro uffici, a partire da Bill Clinton, la Columbia University che progetta una grande sede. Che cosa è successo?

«È vero, Harlem è in qualche modo la risposta alle banlieue. È successo che la politica ha imboccato decisamente la strada opposta, quella dell’apertura, dell’investimento nel futuro. Forse perché gli americani hanno avuto le rivolte prima di noi, hanno imparato la lezione. Oppure perché la cultura delle periferie ha avuto successo, pensiamo al rap, alla street dance di West Harlem. Conta anche il coraggio della classe dirigente. A chiamarmi per la nuova sede di Harlem è stato il presidente della Columbia, Lee Bollinger. È stata sua l’idea di portare l’università dove scorre la vita, nel cuore della realtà, piuttosto che in un bel campus con parchi e piscine. Ed è un’emozione straordinaria costruire una biblioteca nella piazza che negli anni Sessanta fu il quartier generale dei Black Panthers. Ma anche il sindaco di Atlanta, Sherley Franklyn, una donna di colore che conosce bene i ghetti, sta puntando tutte le risorse nella creazione di un campus culturale. Lo stesso accade a Los Angeles, che è una specie di metafora della periferia universale, una città gigantesca e senza centro. Qui per la prima volta togliamo un immenso parcheggio sul Wilshire Boulevard per fare una piazza e un parco intorno al museo»

E in Europa invece non si muove nulla. Ma c’è anche una responsabilità degli architetti?

«Il dibattito in architettura di questi ultimi anni è deprimente. Troppo ruota intorno all’equazione fra architettura e scultura. Una colossale perdita di tempo oltre che un’idiozia pericolosa. Sarebbe bene troncare questi tormenti da artistoidi e tornare a occuparsi di faccende serie come appunto le periferie. Il mestiere di architetto serve in definitiva a far vivere meglio la gente, non a mettere il proprio segno sul paesaggio. Un architetto deve parlare con la gente, esplorare la città, capire i cambiamenti, altrimenti a che diavolo dà forma?»

Lei parla di periferie del mondo, di periferia universale contrapposta all’idea stessa di città.

«Non è un’astrazione ma un richiamo ai valori che formano la città e dunque la nostra civiltà. Lo stesso termine periferia ormai è ambiguo, più aggettivo che sostantivo. Che cos’è, dov’è la periferia? È il luogo dove i valori della città muoiono. Può esserci periferia anche nel cuore di una metropoli. Nella mia esperienza, il plateau Beaubourg prima del centro Pompidou, oppure Postdamerplatz a Berlino o ancora la zona dell’Auditorium a Roma, pur non essendo ai margini, erano pezzi di periferia imprigionati nel tessuto urbano. Luoghi dove erano spariti i valori della città, l’incontro, il lavoro, lo scambio fisico. Quei valori della città che per estensione diventano urbanità, civitas. E quando mancano producono odio. A Beabourg, Postdamer, l’Auditorium c’è un tratto comune che si potrebbe definire di allegria urbana. Sono luoghi allegri, vitali, al di là delle diverse e legittime opinioni estetiche dei critici».

Esiste un sistema per ridare vita a luoghi spenti?

«La questione è considerare una piazza, una strada, un parco dal punto di vista di chi ci deve andare. Non da quello del committente o del critico o dell’architetto che progetta. Le città sono lo specchio della nostra società e dunque oggi stanno perdendo i luoghi d’appartenenza, di partecipazione. Diventano città virtuali, dove ci si limita a guardare e a essere guardati. Allora le differenze diventano una minaccia. La banlieue è il punto in cui questo processo di negazione dell’identità collettiva è massimo e disperato. Perché stupirsi se in questo deserto di confine avanzano i barbari?»

Postilla

Renzo Piano è certamente un bravo architetto e un uomo intelligente. Dovendo intervistare un architetto, la scelta del giornale è ragionevole. Ma possibile che sulle periferie ci si appelli esclusivamente a questi professionisti e non, per esempio, a sociologi o, addirittura, ad urbanisti? Poi è inevitabile che il problema delle periferie venga presentato come necessità di buone architetture (magari entrando in contraddizione con la critica al formalismo dell’architettura di oggi). O che si arrivi ad auspicare come modello una Harlem che ha assunto certamente maggiore vivibilità, ma solo perchè si è lasciata mano libera al mercato, il quale ha esportato un po’ più in là i ghetti. Il problema delle periferie, italiane o francesi che siano, è quello della capacità di governare il territorio con una pianificazione efficace e dotata di risorse, non di costruire qua e là qualche oggetto più o meno bello.

Come Robin Hood non ha voluto sentire ragioni. Ha preso ai ricchi, quelli che in piena emergenza abitativa si permettono il lusso di tenere le case sfitte, per destinarli ai poveri, i tanti sfrattati che nella zona di Cinecittà chiedono un tetto dove dormire. E così ieri Sandro Medici, minisindaco del X municipio, si è beccato un´accusa per abuso d´ufficio: la procura ha aperto un fascicolo sulla vicenda dei 12 appartamenti vuoti in via Lucio Calpurnio Bibulo 13 requisiti temporaneamente dal municipio, iscrivendo nel registro degli indagati il presidente, firmatario dell´ordinanza. Gli accertamenti, affidati ai pm Vitello e Palaia, sono partiti sulla base di una segnalazione della Digos.

«Vedremo come va a finire», replica Medici per nulla intimorito, «anche se la tempestività dell´inchiesta dice almeno una cosa: che abbiamo toccato l´intoccabile, ovvero il patrimonio immobiliare inutilizzato, uno scandalo tutto italiano che consente ad alcune persone di non rispondere a una responsabilità sociale per godere di fonti di reddito e di guadagno parassitarie». Ostenta serenità il minisindaco eletto come indipendente nelle fila di Rifondazione: «Io penso di aver fatto solo il mio dovere di amministratore: da qui a giugno nel mio municipio dovrebbero essere eseguiti qualcosa come 2.000 sfratti. Sono convinto che i diritti sociali non possono essere trattati come gli altri diritti, perciò non è giusto che siano oggetto di inchieste giudiziarie».

Un´iniziativa però sostenuta solo da Rifondazione e dal consigliere comunale "disobbediente" Nunzio D´Erme. La Cdl ha chiesto le immediate dimissioni di Medici. E anche il Campidoglio, per bocca dell´assessore al Patrimonio Claudio Minelli, prende le distanze: «I provvedimenti di requisizione hanno un significato di protesta di fronte al dramma acutissimo dell´emergenza casa, ma non possono rappresentare, in fatto di politica abitativa, una scelta di governo».

Titolo originale: Bursting boom town holds key to a stable China – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



KORLA, CINA – L’aeroplano a elica pieno di uomini d’affari plana su questa un tempo sonnolenta città-oasi nell’estremo ovest della Cina, volando basso sulla spettacolare catena delle montagne Tian Shan, ora coperte di neve.

Nel minuscolo, primitivo aeroporto, dove si deve aspettare all’aperto nel freddo pungente per i bagagli, un cartellone sopra lo scassato terminal annuncia chiaramente che qualcosa è cambiato: dice “ Hotel Petrolio”, in cinese, inglese, e nella grafia araba usata dalla minoranza regionale etnica Uighur.

Di notte, le fiamme dai nuovi campi petroliferi accendono l’orizzonte lungo strade desolate che si diramano in ogni direzione da questa città sui margini di uno dei più vasti deserti del mondo, il Taklimakan.

Di giorno, i treni scaricano passeggeri: i nuovi arrivati migranti cinesi dalle affollate campagne dell’est, o nella stagione dei raccolti i lavoratori giornalieri a decine di migliaia, per raccogliere il cotone e la frutta che cresce nelle distese di proprietà dei grandi investitori della costa orientale.

Queste brulicanti “ insta-cities” sono piuttosto comuni sulla prospera costa orientale. Ma in molti modi quello che sta accadendo a Korla e nelle altre città simili nella Regione Autonoma dello Xinjiang Uighur è molto più impressionante. E a un livello che pochi sospettano la nell’est, il futuro del paese dipende dal successo qui.

La Cina ha una sete inesauribile di petrolio e gas, e lo Xinjiang li produce entrambi in quantità sempre maggiori. In più, grazie alla vicinanza all’Asia Centrale, la regione è diventata il percorso preferito degli oleodotti dal Kazakhstan e oltre.

Dato che questa è la regione o provincia più vasta della Cina in termini di superficie, abitata dalla principale minoranza di popolazione musulmana, quello che succede in Xinjiang è cruciale per la futura stabilità del paese. Come per il Tibet a sud, il controllo cinese sullo Xinjiang è piuttosto recente. Molti delle minoranze Uighur e Kazakh aspirano da lungo tempo all’indipendenza.

Pechino ha represso duramente il separatismo e ha vietato le scuole religiose in Xinjiang, per paura che potessero fomentare radicalismo e separatismo islamico. Ma ora, come accade altrove in Cina, il governo sembra scommettere sulla forte crescita economica come il modo migliore per consolidare il proprio controllo.

Le recenti scoperte petrolifere nella regione hanno certamente creato un’atmosfera di fiducia fra politici e mondo degli affari, in gran parte proveniente dall’est. La produzione di gas naturale è raddoppiata negli ultimi cinque anni, e quella di petrolio sta pure crescendo velocemente, in particolare nel vicino bacino del Tarim.

”Questo posto pompa e brilla” racconta Jim Scott, esuberante americano che trascorre la maggior parte dell’anno in Xinjiang, a vendere valvole ad alta pressione e altri macchinari per l’industria estrattiva alle compagnie cinesi. “Ve lo garantisco, qui c’è un boom in corso. Ci sono più trivellazioni e ricerche di quanto possiate immaginare”.

Oltre agli stranieri del petrolio, l’esplosione estrattiva sta attirando migliaia di imprenditori cinesi dalle città costiere, come Shanghai.

Alcuni arrivano già ricchi, pronti a investire. Altri, come Qian Bolun, 36 anni, che abita qui da 15, cercava fortuna a Korla quando era poco più di un villaggio polveroso.

Un tempo il livello di affari auspicato da Qian era passare da bevande per un quinto di yuan (15 cents), a quelle da uno yuan. Ora tratta esclusivamente prodotti come generatori industriali, trattori, attrezzature per l’estrazione.

La nuova economia del petrolio ha lasciato il segno dappertutto a Korla, dai grandi magazzini e centri commerciali allineati lungo l’ampia via del centro, fino al grande quartiere dei locali notturni immerso nella luce dei neon dopo il tramonto.

Ora la città ha 420.000 abitanti, e cresce di 20.000 all’anno.

Con tutti questi successi economici, i problemi con le minoranze a Korla non sono stati risolti, ma semplicemente accantonati. Lungo le strade del quartiere centrale, i negozi gestiti da Uighur sono una rarità, e gli stessi Uighur in giro sono pochi. Al di là del fiume che taglia la città in due, tra parte vecchia e nuova, la proporzione si inverte.

”Gli Uighur di solito non tengono una vetrina. Affittano uno spazio d’angolo” dice Hao Lin, 32 anni, commerciante di personal computer in un nuovo centro commerciale specializzato in informatica. “I loro clienti sono Uighur. Molto pochi di loro fanno affari con la compagnia petrolifera Tarim. Quelli li fanno gli Han”, ovvero membri, come lui, del principale gruppo etnico cinese.

In una bottega di barbiere al di là del fiume rispetto al centro città, tre uomini Uighur siedono davanti a una stufa a carbone.

”Ho studiato all’università di Urumqi” la capitale provinciale “per tre anni, ingegneria meccanica” dice il barbiere Uighur, Yasen Keyimu, 25anni, “ma non riesco a trovare un lavoro nell’industria petrolifera. Tanta formazione superiore, e non trovo lavoro”.

here English version

La metropoli di ieri che contiene quella di domani, è la sua filosofia, l'assunto per dare un futuro vivibile al nostro passato. Pier Luigi Cervellati ha legato il suo nome a grandi progetti di recupero dei centri storici e dedicato la vita a salvare l'anima alle città per una modernità non da perseguire, ma da proiettare culturalmente.

Una giustizia senza debolezza. È questa la soluzione per arginare la rivolta delle banlieues parigine?

La giustizia, che non deve essere né forte né debole, ma solo giustizia, dev'essere fatta nei confronti degli emarginati. Violenza è la stessa banlieue. L'unica soluzione è eliminare il degrado, l'emarginazione, invece si continua a produrre periferie anche nei centri.

Quali invece le cause di disagio delle città italiane?

La perdita del senso della città intesa come bene comune, la massiccia privatizzazione di ciò che apparteneva alla comunità. Cattive amministrazioni locali, pessimi indirizzi statali, fameliche speculazioni, immobiliaristi che si arricchiscono producendo periferia e piani regolatori sbagliati hanno finito per omogenizzare i centri urbani. Siamo uno dei paesi con il maggior numero di case in proprietà. Le strade un tempo luogo di convivenza sono occupate da auto in sosta o in movimento. I luoghi pubblici sono scarsi e in genere lontani, squallidi.

E allora in che modo si possono fare interventi seri con l'edilizia?

In realtà bisognerebbe per almeno un decennio non produrre edilizia, ma recuperare, riqualificare.

Nelle città italiane esiste un disegno urbanistico complessivo?

No purtroppo. E la legge cosiddetta “Merli” [evidentemente Lupi - es] discussa da un ramo del parlamento, senza troppa opposizione, è una tale catastrofe da far temere che se sarà approvata, l'urbanistica italiana sarà materia solo di storia del recente passato.

Qualità dell'architettura e condono. Sarebbe interessante capire la relazione considerato che si profila il terzo condono edilizio in 18 anni.

La bella architettura è un miserabile paravento. Quando non si ha un'idea del futuro della città si ricorre alla bella architettura. Quando si vuol far passare indenne un nuovo condono edilizio, si ricorre al concorso di bella architettura. Chissà perché non si parla mai di città bella, perché non si parla di città. Di che significato, oggi, attribuiamo a questo termine. Eppure siamo in una fase cruciale per il futuro dei centri urbani per il nostro stesso avvenire.

Priva di zone d'espansione, Cagliari vede riempito con il cemento ogni suo spazio. Parcheggi multipiano, centri commerciali, zone residenziali. Quale futuro?

Cagliari ha rinunciato (o non ha saputo o voluto) alla costruzione della città metropolitana. Eppure era avvantaggiata dalla separazione di alcuni comuni che erano stati incorporati nei primi decenni del Novecento. Le cause sono molte. Il Comune maggiore non vuole raccordarsi con quelli minori che ha trattato per decenni come discariche. Sarebbe indispensabile pianificare - e Cagliari potrebbe diventare un esempio straordinario - la città di città. Città metropolitana non significa “grande città” bensì, città mad re . Ma il capoluogo stenta a decentrare quello che ritiene la sua forza, il suo potere, economico soprattutto, e così paga il prezzo della congestione. Produce solo periferia e non capisce che sta diventando essa stessa banlieue. La città di città richiede saggezza amministrativa, volontà pianificatoria, capacità di coordinarsi nell'interesse comune, nel bene della collettività. La perdita di abitanti che si sta registrando nel centro costituisce la premessa per accentuare la perdita del senso di città. Il centro non può essere scambiato per un super mercato con parcheggi, così operando, Cagliari, come luogo di convivenza civile, non esisterà più. Ma non diventerà neanche un centro direzionale e commerciale importante, ma solo uno dei tanti luoghi sparsi nel mondo soffocato dalla periferia. Il capoluogo sardo nell'ultimo decennio ha perduto la sua identità, la sua anima. Ci dobbiamo chiedere: in cambio di cosa?

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