SAREBBE un grave errore e un’insopportabile manifestazione di faziosità prendere occasione dal disastro della Louisiana per dare sfogo a sentimenti antiamericani o anche a critiche settarie all’imprevidenza e alla disorganizzazione dell’amministrazione di George W. Bush.
I devoti dell’infallibilità del presidente, più rumorosi in Italia che in qualunque altro paese d’Europa, tuonano da sei giorni contro quest’inesistente fiammata antiamericana della quale non v’è traccia alcuna.
Tuonano contro un bersaglio che non c’è, ma quel cannoneggiamento ha tuttavia un senso: serve ad impedire una riflessione pacata su alcuni problemi di fondo che interessano non solo l’America, ma anche l’Europa e tutto il grande universo mentale che chiamiamo Occidente, cultura e politica liberal-democratica, solidarietà, eguaglianza degli individui e delle comunità di fronte alla legge, di fronte al mercato, di fronte al potere ovunque collocato e gestito.
Serve anche, quel cannoneggiamento preventivo apparentemente privo di bersaglio, a "tentar di" evitare una domanda-chiave che domina dal 1989 il panorama internazionale e cioè la compatibilità di un Impero con il mondo del XXI secolo, con lo stato di diritto, con la globalità della tecnologia, con la convivenza sempre più difficile tra la ricchezza e la povertà.
Eppure quella domanda si è posta e si ripropone con una forza pari all’uragano Katrina che ha seminato morte e rovine su tutta la costa americana che si affaccia sul golfo del Messico.
Questa catastrofe naturale, oltre a scoperchiare migliaia di case, ha messo sotto gli occhi dell’America e del mondo intero una realtà sociale di disuguaglianza estrema, di degrado estremo, di rabbia e frustrazione diffuse tra le moltitudini di colore degli Stati americani del sud e dei ghetti urbani del nord e dell’ovest. Ha messo in evidenza la fragilità profonda del paese-guida dell’Occidente e dei valori che vuole esportare e dei quali si ritiene depositario ma che risultano vistosamente traditi e assenti in casa propria ad un secolo e mezzo di distanza dalla guerra di secessione.
Gli Stati Uniti d’America sono un grande e generoso paese verso il quale l’Europa ha debiti inestinguibili come altrettanto inestinguibili sono i debiti dell’America verso di noi. Sono, al tempo stesso, la più grande potenza economica, tecnologica e militare del mondo, almeno per ora e sicuramente per i prossimi cinquant’anni. L’impero americano, la "pax" americana, sono una comprensibile tentazione. Comprensibile quanto rovinosa.
Almeno metà del popolo americano ne è perfettamente consapevole, ma il terrorismo internazionale con la sua criminale strategia l’ha resa impotente.
Il terrorismo internazionale ha temuto che George W. Bush perdesse il potere, non ottenesse il suo secondo mandato. Il terrorismo internazionale vuole che l’America sia sedotta dal fantasma dell’Impero, dedichi ad esso tutta la sua attenzione, la sua strategia, le sue risorse, contrapponga il dio cristiano al dio dell’Islam, arruoli un esercito di colore contro promesse di cittadinanza e di benefici giudiziari. Questo vuole il terrorismo internazionale, per poter diffondere l’antiamericanismo in tutto il mondo povero, per sollevare le periferie povere del mondo contro il privilegio della ricchezza e del potere.
L’uragano Katrina non è certo colpa di Bush, ma mette a nudo una realtà che conoscevamo sui libri e nei film ma non avevamo ancora mai visto in queste dimensioni con gli occhi impietosi della televisione.
L’America salvò Berlino dal blocco sovietico attraverso il più gigantesco ponte aereo che in quarantott’ore e poi per alcuni mesi tenne in vita centinaia di migliaia di persone altrimenti isolate dal resto del mondo.
L’America ha trasportato in poche settimane un’armata di centinaia di migliaia di soldati in Arabia per la prima guerra del Golfo. Altrettanto ha fatto undici anni dopo per l’invasione dell’Iraq. L’America nel 1969 portò la sua bandiera sulla luna.
Ma sei giorni dopo la catastrofe di Katrina non è ancora riuscita a seppellire i morti di New Orleans, a domare i saccheggi, a sgombrare decine di migliaia di persone abbandonate in un’immensa palude, a far arrivare viveri e medicinali. Ancora ieri il sindaco della città imprecava, piangeva, implorava e bestemmiava di fronte alle telecamere denunciando il caos e l’abbandono. Metà della polizia urbana scomparsa, dileguata, liquefatta, niente autobus, niente soccorsi. «Requisite gli autobus, mandatemi la Guardia Nazionale, se non l’avete mandatemi i caschi blu della fottuta Onu, mobilitate tutti gli elicotteri. Siamo sott’acqua da sei giorni, quanto ancora dobbiamo aspettare?».
È un’invenzione dei giornali antiamericani? Delle tv antiamericane? Del New York Times, del Los Angeles Time, del Washington Post, di tutta la stampa americana convertita improvvisamente al partito antiamericano? Oppure il dio degli eserciti assiste solo i combattenti ma non i volontari della Protezione civile?
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La verità è che gli imperi non sono compatibili con la democrazia.
Deformano la democrazia. Ne concedono il simulacro soltanto a chi faccia atto di sottomissione all’impero e debbono mantenere quel simulacro ponendovi a guardia eserciti permanenti e necessariamente mercenari.
Considerando barbari i popoli che vivono fuori dai confini dell’impero e quelli che, dentro quei confini, non accettano i mores e non pagano il tributo dovuto al centro dell’impero. La storia è piena di esempi e non se ne conoscono eccezioni, da Cesare a Napoleone, passando per Filippo di Spagna, per la Compagnia delle Indie, per le colonie inglesi, olandesi, portoghesi, francesi, belghe, tedesche. Per l’impero ottomano. Per la dominazione russa sulle terre del Caucaso e dell’Asia centrale. Per l’impero asburgico.
Roma non fa eccezione: dalla dinastia Giulio-Claudia fino agli Antonini la guerra ai confini e la repressione dentro i confini fu una costante che accompagnò l’espansione. Poi cominciò il declino. Erano tollerantissimi con gli altri culti, ma non con chi rifiutava il culto alla divinità dell’imperatore. La democrazia negli imperi, quelli antichi ma anche quelli moderni, è stata un lusso riservato ai cittadini di serie A. La libertà privata è stata ampia dentro i confini, ma quella politica è stata di fatto azzerata. Azzerato l’autogoverno. Imbrigliata l’opposizione.
Bisogna dunque maneggiare con estrema cautela il concetto e la pratica dell’impero. Bisogna esser consapevoli che la disparità delle ricchezze inocula virus terribili, tra i quali predomina quello del fanatismo. Dal fanatismo al terrorismo il passo è brevissimo. Il nazionalismo militarista è sempre servito a esportare fuori dai confini i problemi che all’interno non si sapevano o non si volevano risolvere. Il nazionalismo militarista applicato su scala imperiale moltiplica all’ennesima potenza la gravità e l’insolubilità di quei problemi.
Tutto ciò detto, oggi bisognerebbe che il mondo benestante desse una mano alla benestante America per aiutarla a ricostruire New Orleans. Perfino Fidel Castro si è quotato malgrado l’embargo che pesa su Cuba. Siamo tutti louisiani, non è vero?
Ma risolvere il problema delle terribili diseguaglianze della società americana e soprattutto afro-americana non può essere certo compito dell’Europa. Gli amici dell’America possono soltanto segnalarne la gravità.
L’America vive in tutti i sensi con l’Africa in casa. Ma non sembra che questa situazione rappresenti una priorità per la classe dirigente americana.
Questa trascuranza, essa sì, preoccupa fortemente i veri amici dell’America.
LA LETTERA di Carlo De Benedetti pubblicata ieri in questa stessa pagina e indirizzata direttamente a Repubblica, ai suoi lettori e a chi lavora alla sua fattura, contiene una notizia importante. Importante non soltanto per noi ma per tutto il mondo dell´informazione e addirittura per una certa concezione del capitalismo italiano e dell´etica che dovrebbe motivarne i comportamenti.
La notizia è il rifiuto di De Benedetti, dopo una prima accettazione della quale egli stesso ha raccontato il contesto, ad accettare la presenza di Silvio Berlusconi in una sua importante iniziativa economica. La compresenza di due ormai storici avversari, che avevano ed hanno visioni del tutto diverse sul bene comune, i modi e i comportamenti adeguati a realizzarlo e gestirlo, poteva suscitare fraintendimenti, strumentalizzazioni interessate ed anche legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale.
Forse Carlo De Benedetti non aveva valutato a fondo l´ampiezza di tale disagio, forte della sua buona fede e del legame ideale che ha sempre intrattenuto con chi l´ha diretto e chi lo dirige. C´è nella sua lettera di ieri un passaggio in cui ricorda il nostro primo incontro di quasi quarant´anni fa. Lo ricordo benissimo anch´io. Eravamo giovani allora e coltivavamo speranze e illusioni. Le illusioni sono cadute alla dura prova dell´esperienza, ma le speranze e le convinzioni sussistono ancora e le vicende che abbiamo attraversato ne confermano la validità.
Caro Carlo, caro amico nostro, la lettera che ci hai inviato ti rende piena giustizia e rafforza in noi affetti e fiducia, sicché non ci sarebbe null´altro da aggiungere se non fosse, come ho già scritto all´inizio, che questa vicenda e la sua conclusione sono esemplari ben al di là dell´episodio specifico. Ed è su questo che mi sembra opportuno ragionare.Si torna a parlare di questione morale. Ne parlano i giornali, ne parlano gli uomini politici, gli uomini d´affari, gli scrittori e naturalmente i moralisti.
Quest´intenso discutere di morale mi allarma. Sono infatti convinto che quando la morale diventa argomento di vivace discussione, essa stia scomparendo dai comportamenti degli individui e dei gruppi sociali. Sono altresì convinto che l´eccessivo e frequente parlarne crei notevole confusione di concetti e serva a stiracchiare ideali e principi per metterli al servizio di interessi e di egoismi particolari.
Tenterò dunque di fare un po´ di chiarezza rispetto a me stesso e chi ha la bontà di leggere queste mie osservazioni. E comincerò citando un brano d´un mio libro ("Alla ricerca della morale perduta") pubblicato dall´editore Rizzoli nell´ottobre del 1995, che a dieci anni di distanza mi sembra più che mai attuale.
"C´è in tutto lo svolgimento del Novecento e in particolare negli ultimi vent´anni del secolo che ci ha portato sul bordo del terzo millennio, un rigoglioso fiorire di morali che si affermano a detrimento della morale. La morale è sprofondata nell´amore di sé, ma poiché ciascuno vive in relazione con gli altri, con alcuni dei quali fa gruppo per contrastare altri gruppi e imporsi su di loro, ecco che dal profondo egoismo dell´amore di sé è riemersa una morale diciamo così corporativa, una morale deontologica, identificata con le ‘regole dell´arte´. Ciascuno dovrà fare meglio che può ciò che ha scelto di fare, gestire con efficienza la funzione cui è stato chiamato, vivere fino in fondo la vocazione che porta dentro di sé. La sua morale è questa né può essere un´altra. Così la morale dell´artista è identificata con l´opera sua alla cui riuscita tutto può, anzi deve, essere sacrificato e la stessa cosa vale per l´uomo d´affari la cui morale è la buona riuscita degli affari che ha per le mani, e così per il capo di un´impresa la cui morale non ha altra sede che l´impresa stessa e così per il capo e per il militante d´un partito, di un setta, di una corporazione. Ma poiché una persona non realizza se stessa in un solo segmento del proprio vivere, salvo che un´ossessiva nevrosi non lo divori, ecco che le diverse morali si affiancano e convivono tranquillamente tra loro: si indossa la morale impietosa del businessman al mattino, cercando di rovinare il concorrente, e quella filantropica alla sera, nelle riunioni delle parrocchie e del circolo degli scout portando aiuto all´orfano e alla vedova. Le morali si affiancano senza sovrapporsi. Guai se si sovrapponessero; si aprirebbero contraddizioni devastanti e bisognerebbe scegliere tra la morale del mattino e quella della sera. Viceversa convivono: l´uomo e la donna contemporanei somigliano ad un´arancia composta di tanti spicchi, sono animati da varie passioni e da diversi interessi ciascuno dei quali sviluppa una morale. Tante passioni, tanti interessi, tante morali. Come definireste una società di morali conviventi che hanno scacciato il sentimento morale in quanto tale, in quanto impulso a superare il se stesso e occuparsi degli altri? Come la definireste se non una società amorale?".
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Perdonerete questa lunga citazione, che ha tuttavia il pregio di chiarire il contesto sociale e il quadro morale, anzi amorale, entro il quale viviamo.
Nel 2005 questo quadro è diventato ancor più disperante di quanto non fosse dieci anni addietro e le sue linee di tendenza ancor più preoccupanti.
La conferma di quanto dico sta nei fatti recenti e recentissimi che si svolgono sotto i nostri occhi e di fronte ai quali non sai se stupirti, indignarti, resistere o ritirarti sopraffatto dal disgusto. Soprattutto bisogna capire. Individuare le cause. Immaginare i rimedi.
Raccogliere onesti consensi per invertire la tendenza e, pur riconoscendo l´autonomia delle morali, unificarle nel sentimento morale radicato nell´identità della persona e del comune sentire.
La questione morale fu a suo tempo il punto di forza di Enrico Berlinguer durante la tormentata stagione di distacco del Pci dall´alleanza organica con il totalitarismo sovietico. Berlinguer la riassumeva nell´occupazione delle istituzioni effettuata dai partiti della maggioranza.
Chiedeva un passo indietro a tutte le forze politiche e il ritorno alla Costituzione che la prassi aveva in larga misura stravolto a vantaggio degli apparati e delle "arciconfraternite" degli interessi costituiti. Apparve una battaglia moralistica, ma era anche un grido d´allarme contro la manipolazione della democrazia partitocratica che preludeva alla fase di Tangentopoli e alla supplenza della magistratura, con le luci e le ombre che comportò.
Purtroppo, passata quella fase, l´occupazione delle istituzioni è ripresa con rinnovato e impudente vigore, reso ancor più nefasto dal conflitto di interessi in capo al leader politico che ha inquinato il tessuto democratico ben più a fondo di quanto non fosse mai accaduto prima.
Ma quel che è più grave (come ha documentato in un suo recente lavoro Guido Rossi) sta nel fatto che il conflitto d´interessi non è più solo la malapianta estirpabile dal libero mercato; è diventato il connotato principale del capitalismo globale, industriale e soprattutto finanziario, sconvolgendo tutti i rapporti tra le varie categorie di operatori attraverso una rete inestricabile di partecipazioni incrociate tra imprese, banche, consulenti, professionisti, agenzie di rating, agenzie di certificazione dei bilanci, organi societari di controllo, Autorità delegate al controllo esterno e, infine, pubbliche amministrazioni e governi.
Le morali deontologiche che avrebbero almeno dovuto avere il pregio di distinguere i ruoli delle varie parti in causa e preservarne l´efficienza, hanno finito per esser l´alibi a comportamenti illeciti nella totale assenza di un sentimento morale unificante.
Se si pensa che quando il fondatore dell´economia di mercato, Adam Smith, scrisse il suo testo fondamentale sulla "Ricchezza delle nazioni", l´economia politica era considerata una branca della filosofia morale e lo stesso Smith insegnava quella disciplina ed era considerato prima di tutto un filosofo e poi, in seconda battuta, un economista; quando si misurano i mutamenti sopravvenuti da allora, si avrà il senso e la dimensione delle trasformazioni, degli avanzamenti, ma anche delle degenerazioni intervenute nel rapporto tra liberalismo, democrazia e capitalismo.
Su questo rapporto è forse arrivato il momento di una seria e urgente riflessione da parte di tutti gli attori in campo, politici, imprenditori, economisti, giuristi, intellettuali.
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Quanto sta accadendo intorno alla Banca d´Italia in occasione delle scalate alle banche, fornisce la prova delle degenerazioni che sono penetrate nelle midolla del sistema. Ho letto con atterrito sbalordimento i testi delle telefonate intercettate dalla Guardia di finanza tra i protagonisti di quelle scalate, alcuni banchieri e il governatore della Banca centrale. L´assenza d´ogni limite morale e d´ogni regola è devastante. Ma lo è anche l´incertezza dei ministri, la connivenza di alcuni banchieri, la protervia della maggioranza parlamentare, la timidità di gran parte dell´opposizione.
Alte cariche istituzionali hanno cercato di deviare l´opinione pubblica enfatizzando la pretesa fuga di notizie concernente le intercettazioni telefoniche, ignorando volutamente che esse costituivano la documentazione indispensabile degli atti giudiziari disposti dalle Procure e dal Gip e come tali trasmesse in cancelleria a disposizione delle parti e dei loro difensori e non secretate né secretabili.
Questi comportamenti dei presidenti delle Camere, essi sì, andrebbero censurati perché configurano concretamente conflitti di competenza tra poteri dello Stato.
Ho letto con interesse l´intervento di D´Alema sul Sole24Ore.
Tra molte considerazioni che condivido ce ne sono alcune che mi lasciano perplesso. Una in particolare. D´Alema si preoccupa dell´ipotesi che, in caso di presa di controllo di banche italiane da parte di banche straniere (anche se europee) il "cervello decisionale" delle nostre aziende di credito trasmigrerebbe all´estero con le relative conseguenze sulla politica creditizia nazionale.
La preoccupazione di D´Alema ha una sua motivazione cui non basta opporre la semplice trasparenza del mercato. Ma non spetta certo al governatore della Banca centrale darsene carico. Il governatore ha il solo obbligo di controllare la correttezza della procedura delle Opa e delle possibili scalate bancarie nonché i ratios delle banche coinvolte nelle operazioni. Le considerazioni strategiche sulla politica del credito spettano invece al governo e in particolare al ministro del Tesoro, pur sempre nel rispetto delle direttive europee vigenti in materia.
Il governatore deve assicurare piena parità tra gli operatori. Se questo non è avvenuto e se l´immagine dell´arbitro ne esce gravemente inquinata, egli deve trarne le conseguenze, se non le trae spetta al governo supplire a quella lacuna.
Quanto alle altre parti in causa, scalatori di dubbiosissimo conio, la Consob e la magistratura ordinaria hanno già intrapreso inchieste e adottato provvedimenti. Si dovrà andare fino in fondo poiché il credito è un bene pubblico e come tale interessa tutti i cittadini e le istituzioni che li rappresentano.
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Anche la libertà di stampa è un bene pubblico, costituzionalmente garantito.
Pertanto eventuali scalate alle società editrici di giornali debbono avvenire con piena trasparenza degli attori e delle loro fonti di finanziamento.
Dalle – preziose – intercettazioni telefoniche risulta una rete di conversazioni che coinvolgono personaggi d´ogni genere e qualità. Per quanto riguarda la scalata tuttora in corso al Corriere della Sera quelle conversazioni mettono in causa addirittura il presidente del Consiglio. Credo non vi sia bisogno di segnalarne la gravità e la necessità che si proceda all´accertamento dei fatti senza remore di sorta.
Alcuni colleghi di altri giornali e commentatori di varia natura sono intervenuti sul supposto "patto" De Benedetti-Berlusconi e sui possibili effetti che avrebbero potuto derivarne sull´autonomia del nostro gruppo editoriale e in particolare di Repubblica. Se la loro preoccupazione era quella di contribuire alla difesa della nostra autonomia – che peraltro non è mai stata in discussione – a essi ha già risposto con grande chiarezza Ezio Mauro nel suo articolo del 3 agosto. La lettera di Carlo De Benedetti ha posto comunque la parola fine a ogni onesta preoccupazione in proposito. (Delle preoccupazioni non oneste non voglio parlare perché gettano solo disdoro sui loro autori).
Anche noi, per quanto è in nostro potere, cerchiamo di contribuire all´autonomia giornalistica del Corriere della Sera che, esso sì, è esposto al rischio di invasioni da dentro e da fuori dell´assetto proprietario esistente. Così facemmo anche ai tempi in cui l´invasione del Corriere avvenne e la P2 si insediò nelle alte stanze di via Solferino. In quello scontro Repubblica fu al fianco della redazione del Corriere e contro l´assalto che la P2 e i suoi prestanome editoriali avevano sferrato impadronendosi del giornale.
Purtroppo la libertà di stampa è un bene a rischio. Su di essa non ci si può addormentare. Ed è un bene che, come ho già detto, riguarda tutti.
Per questa ragione mi piace qui rinnovare a conclusione di queste mie note i sentimenti di affezione a Carlo De Benedetti, di considerazione della lettera che ci ha indirizzato e della decisione che ha preso e che ci rende più fiduciosi e più forti.
Post Scriptum. Arriva quando ho appena finito di scrivere questo mio articolo la lettera diretta al nostro direttore del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. I lettori giudicheranno direttamente il contenuto delle sue affermazioni ma un punto merita forse una puntuale risposta e riguarda la nomina del direttore generale della Rai effettuata l´altro ieri. In questa nomina e nella designazione del nuovo direttore generale il presidente del Consiglio è direttamente intervenuto come risulta da tutte le cronache, mentre proprio a causa del conflitto d´interessi avrebbe dovuto rigorosamente astenersi da ogni partecipazione a questo importante atto amministrativo.
Resta in tal modo confermato che il presidente del Consiglio dispone della televisione pubblica quanto se non di più di quella che gli appartiene per diritto proprietario. Mi sembra più che sufficiente per giudicare tutto il resto delle sue affermazioni.
A parte le ovvie, sacrosante e scontate reazioni di orrore per le stragi terroriste, pietà per le loro vittime e paura di far parte domani di queste ultime — rischio cui è esposto chiunque, indipendentemente dalle sue scelte politiche e dai suoi sentimenti caritatevoli o astiosi nei riguardi del prossimo — i devastanti attentati di queste settimane e di questi giorni costringono a prender atto che, fra le sconvolgenti trasformazioni che hanno mutato e mutano la nostra realtà, c'è anche la trasformazione della guerra, come avevano genialmente intuito e analizzato già anni fa, ben prima dell'11 settembre, i due generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui. Il terrorismo non è più un episodio isolato, eclatante ma presto sommerso dal corso delle cose; è una guerra e una guerra che non riguarda soltanto roventi situazioni e conflitti locali, come in passato, ma il mondo intero. Non si tratta più di piccoli gruppi che, con mezzi e azioni anomale rispetto alle consuete modalità belliche, colpiscono un avversario e nemmeno di singoli nuclei sovversivi che colpiscono le istituzioni nella speranza di rovesciare l'ordine sociale vigente o di favorire losche manovre politiche, come è avvenuto in anni non lontani in Italia.
Ora si tratta di una guerra, simile o opposta a quella tradizionale: un'organizzazione clandestina attacca rovinosamente New York, cosa che non riuscì e non poteva riuscire all'aviazione del Terzo Reich; bombarda con le sue bombe Londra, come la Luftwaffe di Hitler.
Dinanzi a una guerra — a parte il dolore per i morti e la paura di morire — si possono fare varie considerazioni. La si può inquadrare — e si deve farlo, se ci si propone di discuterne obiettivamente e al di sopra dei propri timori e interessi — nel complesso della storia, collocando la violenza che ci colpisce nella totalità degli eventi che l'hanno preceduta e generata: è quello che ha fatto — con particolare coraggio, dato il momento tragico e il suo ruolo politico — il sindaco di Londra, collega di partito di Blair, ricordando le violenze compiute in passato dall'Occidente e osservando che ognuno combatte con le armi che ha a disposizione, carri armati e aeroplani o bombe. Si può anche ricordare che Begin aveva compiuto sanguinose azioni terroriste e più tardi, in circostanze e funzioni diverse, ricevette il Premio Nobel per la pace, quasi a significare che è la vittoria o la sconfitta a decidere se il terrorismo ha ragione o torto.
Queste osservazioni del Lord Major londinese sono giuste e servono a ricordare, doverosamente e opportunamente, che, accanto alle vittime barbaramente uccise come quelle di questi giorni e giustamente piante da tutto il mondo, ce ne sono state e ce ne sono tante, tantissime altre massacrate altrettanto barbaramente senza che il mondo e la coscienza del mondo ne avessero e ne abbiano rimorso e nemmeno consapevolezza.
Tali considerazioni tuttavia servono a poco dinanzi al fatto che pure chi le fa si trova esposto al rischio di saltare in aria su una bomba messa nella metropolitana; in questo momento, nella piccola Trieste che non attira l'attenzione del mondo, sono probabilmente più al riparo di chi deve attraversare Londra per guadagnarsi il pane, ma, dati i numerosi viaggi cui mi porta il mio lavoro, non sarebbe statisticamente impossibile che toccasse pure a me. Dopo tutto, è stato un caso che mi trovassi a Londra tre mesi e non tre settimane fa.
Dunque, quali siano o possano essere le origini, le motivazioni, le cause, la realtà da cui nasce il terrorismo, debellarlo significa proteggere pure me, i miei amici, tutti. Ma come può essere sconfitto? Certamente occorre rimuovere tutte le cause, e in primo luogo i nostri errori e le nostre colpe, che possono creare situazioni in cui il terrorismo attecchisce più facilmente, ma, a parte questo doveroso disegno del futuro, è necessario stroncare la sua realtà presente, la sua furia che è autonoma e prescinde ormai da ogni genesi storico-politico-sociale. Ma come vincere questa guerra? Sembra talora che l'Occidente si affidi a una visione e a una tattica bellica invecchiate, sorpassate da quella trasformazione globale e capillare della guerra analizzata dai due strateghi cinesi.
L'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, se si proponeva di estirpare il terrorismo, è stata una risposta tecnicamente invecchiata a una situazione nuova; il terrorismo infatti è aumentato e in Iraq le vittime quotidiane sono così numerose da non destare più emozione, come denunciava giovedì Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, forse anche perché si tende a sorvolare su di esse in quanto dimostrano il fallimento dell'impresa. La disastrosa invasione sovietica dell'Afghanistan, che è stata condannata moralmente anziché essere bollata in primo luogo per la sua stupidità, non ha insegnato proprio nulla.
L'altro giorno, chiacchierando a tavola, uno dei miei figli mi faceva osservare come, sino a pochi anni fa, il divario tra il potere e i piccoli gruppi ribelli fosse andato, con lo sviluppo della tecnologia, sempre crescendo, mentre oggi è proprio il progresso tecnologico che permette a un'organizzazione segreta di sfidare la più grande potenza del mondo e di disporre di armi non troppo dissimili, così come nell'età della pietra sia il capo tribù sia l'ultimo ribelle disponevano della clava. Pure chiudere le frontiere o espellere non già, giustamente, individui di accertata pericolosità, bensì indiscriminatamente persone provenienti da zone vagamente accostabili al terrorismo, è non solo ingiusto, ma inefficace e contrasta quella circolazione e quella globalizzazione che sono, in bene e in male, la nostra realtà e che è patetico illudersi di bloccare. Come ha scritto Sergio Romano sul Corriere, si combatte il terrorismo mantenendo fede alla normalità quotidiana, non lasciandosi intimidire, continuando a creare quella vita d'ogni giorno ch'esso vuole distruggere, viaggiando in metropolitana nonostante le bombe, anche perché non è la morte la disgrazia peggiore («morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna», dice un proverbio delle mie parti) bensì una vita tarpata, bloccata.
A una situazione nuova occorre rispondere, per non perdere, con metodi nuovi. Un profano pensa istintivamente che in primo luogo un'efficace rete di infiltrati potrebbe permettere di stroncare il terrorismo sul nascere, ma è ridicolo che un profano dica la sua su queste cose. La reazione inglese, nella sua calma e compostezza, è esemplare, e rappresenta forse una delle risposte migliori. I terroristi hanno assassinato tante persone, ma se la loro strage non incide minimamente sull'atteggiamento degli inglesi, questa è già una loro sconfitta. L'Inghilterra ha vinto la Seconda guerra mondiale anche perché Churchill, mentre Londra veniva selvaggiamente bombardata, si preoccupava ostentatamente della salute di alcune bertucce dello zoo di Gibilterra.
Nell'immagine lo skyline di New York dopo gli attentati alle Torri Gemelle (Jim Graham/Saba)
La sintonia tra il premier Silvio Berlusconi e il segretario deiDs Piero Fassino non è fatto abituale. Ancora di più se l'oggetto è ilmondo della finanza. Ma ieri a trovare d'accordo, almeno apparentemente, i due leader è stato uno degli argomenti più chiacchierati e discussi del momento: gli immobiliaristi. Mentre il premier difendeva le scalate, anche quelle all'Rcs, Fassino intervistato da Sky Tg24 diceva di «non conoscerli» ma di trovare «incomprensibile» la «puzza sotto il naso» che circonda chi costruisce palazzi. Il riferimento è chiaro ed è alle mosse degli immobiliaristi, formula con cui negli ultimi tempi si fa riferimento soprattutto a Danilo Coppola, Stefano Ricucci e Giuseppe Statuto. «Bisogna solo capire se un imprenditore fa bene o meno il suo mestiere» ha aggiunto Fassino. Ma il tema è più ampio. Perché le voci che vogliono un legame tra i Ds e la nuova generazione di immobiliaristi — tra gli altri il settimanale Diario aveva dedicato la copertina al «Compagno Ricucci» — sono state tali da spingere qualche giorno fa il presidente dei Ds Massimo D'Alema a scendere in campo direttamente per smentirle. «Ricucci? Mai visto» aveva detto D'Alema. Che aveva aggiunto di ritenere la stessa sinistra italiana la possibile fonte della voce.
Così Fassino ha concluso definendo «inaccettabile» la campagna fatta «su D'Alema e anche intorno al mio partito» , a proposito di rapporti con ambienti finanziari «che non ci sono» .
C’è una sola parola appropriata per decifrare la situazione dell’economia italiana dopo le cifre fornite quattro giorni fa dall’Istituto di statistica: sfascio. Non ci trastulliamo con termini più o meno tecnici, recessione, stagnazione, «stagflation» e altri consimili. La parola giusta è sfascio. Gli ingranaggi sono fermi, il motore è spento, il treno è immobile su un binario abbandonato.
Si discute quanto di questo sfascio sia dovuto a crisi congiunturale e quanto a crisi strutturale; quanto al ciclo fiacco di Eurolandia e quanto al dilettantismo nostrano.
Discussione oziosa. Nelle crisi profonde che colpiscono un organismo c’è di tutto un po’. Nel caso nostro il «nanismo» delle aziende italiane è antico, la scarsità del capitale di rischio è antica, la mediocrità della ricerca e dell’innovazione è stata una costante dell’industria italiana. Eppure questi handicap non ci hanno impedito di trasformarci in meno di vent’anni da Paese prevalentemente contadino in paese industriale e successivamente post-industriale e terziario.
Non ci hanno impedito di raggiungere un livello di reddito europeo, di accumulare risparmio, di creare nuova e maggiore ricchezza, di entrare a far parte dei sette Paesi più ricchi del mondo, di crescere a ritmi sostenuti, di occupare una posizione cospicua nel commercio internazionale.
Non ci hanno impedito una buona vita, buone vacanze, casa e seconda casa di proprietà, più di un’auto per famiglia, più di una televisione, più di un telefonino. E tante altre cose che fanno il benessere così come ora si concepisce.
Che cos’è dunque che a un certo momento si è inceppato? Perché il giocattolo si è rotto?
Su questo giornale abbiamo raccontato molte volte questa lacrimevole storia di un Paese di furbi che segavano il tronco su cui stavano seduti e sarebbe noioso raccontarla di nuovo. Basti ricordare che il meccanismo si è inceppato quando abbiamo cominciato ad accumulare un debito pubblico dissennato scaricando sulle future generazioni il peso della dissennatezza.
Scaricando gli errori, le camorre, il costo delle disuguaglianze sui figli e sui nipoti.
Ebbene, la cambiale è arrivata al pagamento. I figli e i nipoti siamo noi, visto che quest’andazzo cominciò nei primi anni Ottanta. Dunque venticinque anni fa, giusto il tempo di passaggio di una generazione.
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La crisi ebbe tuttavia un momento di ristoro e di inversione di marcia dopo aver raggiunto quello che allora fu considerato l’acme dello sfascio economico strutturale.
Ricordate? Fu nel 1992, governo Amato, la lira al tracollo, una fuga di capitali paurosa, crollo delle esportazioni, riserve valutarie prossime allo zero, sfiducia profonda dei mercati.
La reazione fu una cura da cavallo, iniziata dallo stesso Amato, proseguita da Ciampi chiamato a succedergli e portata avanti da Prodi con Ciampi al Tesoro. (Deve far riflettere che allo stesso posto dove sedettero Andreatta e Ciampi si siano poi accomodati Tremonti e Siniscalco).
In quel periodo il debito scese dal 130 al 106 del Pil, i tassi di interesse e l’inflazione tornarono a livelli europei, il bilancio registrò un avanzo delle partite correnti del 5 per cento. La politica dei redditi fu concertata dal governo con le parti sociali. La lira si fuse con altre undici monete dando vita all’euro.
Adesso Berlusconi e Tremonti fantasticano di dare una spallata (parole loro) alla Commissione di Bruxelles e attribuiscono all’euro i guai provocati dalla loro insipienza. Dimenticano di dire dove sarebbe oggi la nostra economia già così disastrata se al posto dell’euro ci fosse stata ancora la lira. Dove sarebbero arrivati l’inflazione e i tassi di interesse. Dove si collocherebbe il tasso di cambio tra la lira e il dollaro, la lira e la sterlina, la lira e l’euro, perché la moneta europea sarebbe nata lo stesso anche senza di noi e la lira varrebbe più o meno ciò che vale la moneta libica o quella argentina o quella messicana. E’ semplicemente vergognoso che queste verità siano nascoste da un’ondata di demagogia messa in piedi da «nani e ballerine».
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Dopo la nascita dell’euro gli italiani, o meglio una lieve maggioranza di elettori, preferirono tirare il fiato.
L’inversione di rotta gestita da Amato-Ciampi-Prodi verso la ricostruzione della finanza e dell’economia aveva comportato sacrifici, il risanamento aveva imposto ritmi serrati, una pausa era dunque fisiologica. Ma pesavano ancora sul paese i mali antichi, la debolezza congenita del capitalismo italiano, la scarsa innovazione, il burocratese.
Una pausa, sì, ma senza allentare la vigilanza, avviando la modernizzazione senza promettere la cuccagna; liberalizzando i settori protetti, tutelando energicamente la libera concorrenza contro l’insidia del monopolio specie nei settori della pubblica utilità, tagliando le rendite a favore dei profitti e dei salari, accorciando la catena commerciale, proseguendo la riforma del mercato del lavoro già iniziata da Prodi e D’Alema con buoni frutti, sempre nel quadro della concertazione sociale e di una politica dei redditi equa e responsabile.
Ebbene, le cose non sono andate così. Sappiamo come sono andate perché è storia di questi quattro anni. La congiuntura internazionale ha rallentato il passo. Poi il passo è tornato normale in Usa ma non in Europa. Poi ha ripreso a tirare il Giappone. Infine hanno cominciato a emergere la Cina e l’India. Si sono confrontate e si confrontano strutture economiche con costi elevati con strutture con costi bassissimi, industrie innovative con industrie «convenzionali».
In questa nuova e più difficile temperie il sistema Italia è rapidamente precipitato nelle posizioni di coda, i mali antichi sono riemersi con virulenza, altri se ne sono aggiunti. La pace sociale è stata volutamente spezzata. Si è perseguita una politica economica classista e una finanza cosiddetta creativa ma che meglio si sarebbe dovuta definire imbrogliona.
Risultato: lo sfascio, l’isolamento dall’Europa, la bugia sistematica e il nascondimento dei dati reali. E ora che si fa?
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Il governo ha buttato dalla finestra 12 miliardi di euro l’anno scorso per diminuire le aliquote dell’Irpef (soprattutto sui redditi sopra i 40 mila euro).
Voleva buttarne via altrettanti per beneficiare i redditi massimi diminuendo l’aliquota dal 43 al 39 per cento.
Adesso ci ha ripensato (per fortuna). Il «premier» quei 12 miliardi li vorrebbe destinare all’abbattimento dell’Irap che grava sull’ammontare dei salari pagati dalle aziende.
L’idea sarebbe buona ma purtroppo i soldi non ci sono. Non ci sono neppure per diminuire l’Irap di soli 4 miliardi, mentre pare ci siano, ma non si sa dove stiano, per rimpiazzare gli 11 miliardi per le «una tantum» che vanno in scadenza alla fine dell’anno. Siniscalco dovrebbe spiegare e speriamo lo faccia presto.
Lo sforamento dei parametri di Maastricht è, allo stato attuale, del 4 per cento. E’ previsto che salga al 4,6 per fine anno a legislazione vigente, ma non è spesato il contratto del pubblico impiego oltre i 90 euro, non c’è un soldo per gli ammortizzatori sociali, la Cassa integrazione è già fuori misura, confiscata in gran parte dalla crisi della Fiat; le Ferrovie denunciano esuberi per altri 10 mila dipendenti. Centomila sono i posti a rischio della grande industria (quel che ne resta). I consumi sono al punto più basso degli ultimi quindici anni. Gli investimenti languono. Le esportazioni sono in rosso.
Occorre la «scossa» per ripartire, questo dice l’emergenza: una scossa forte per ripartire subito.
La scossa, diciamolo con onesta franchezza, non può venire dagli investimenti: se il cavallo non beve, le imprese non investiranno, quale che siano gli sconti fiscali. Il cavallo sono i consumi, la domanda interna. Ci vuole dunque un provvedimento di rapido impiego che sostenga i consumi e questo è il solo modo per rimettere la macchina in moto.
Gli sconti sull’Irap puntano sugli investimenti e non entreranno in funzione (anche se decretati subito) che a metà del 2006. Troppo tardi per risollevare una situazione agonica.
Un altro provvedimento sarebbe più appropriato e di quasi immediata utilizzazione: la dimensione del cuneo fiscale, la fiscalizzazione cioè di una parte dei contributi sociali attualmente a carico delle imprese e dei lavoratori.
Agire sul cuneo fiscale è molto più appropriato che agire soltanto sull’Irap. Avvicina il costo del lavoro al salario netto che va in busta paga.
Lo sgravio potrebbe andare per metà a vantaggio delle imprese e per metà a vantaggio dei salari. Uno sconto di 3 miliardi all’Irap ed altri 3 alla fiscalizzazione contributiva: ecco 6 miliardi ben spesi. Con effetti immediati per la metà e con effetti sulle aspettative per l’altra metà che diventerebbe operante nel 2006. La copertura, per la metà immediatamente necessaria, potrebbe essere trovata dall’aumento dell’imposta sulle rendite finanziarie.
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Ma il provvedimento più efficace per restaurare la fiducia riguarda la politica: licenziare questo governo, il suo manovratore e lo stuolo dei suoi ministri-dilettanti.
Prima sarà meglio sarà. Ogni settimana è persa. Questo ormai l’hanno capito tutti. Sarebbe bene che si passasse dalle parole al fatto. Questa maggioranza non esiste più.
Perciò seppellitela prima che la sua decomposizione ammorbi l’aria con i suoi mefitici vapori.
P. S. Nel giorno del sesto anniversario del suo settennato presidenziale desidero inviare gli auguri e la più sentita riconoscenza al nostro presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Confido d’interpretare un sentimento comune e molto diffuso nel dire che la sua presenza al vertice dello Stato è per tutti gli italiani uno dei pochi elementi di fiducia e di speranza in un futuro migliore
Almeno per qualche giorno, almeno in Italia, almeno a Roma, lo strabismo è d'obbligo. Morto un papa se ne fa un altro, morto un governo pure, o forse no. Chiesa e Stato, religione e laicità, autorità e potere. Di là e di qua dal Tevere. Strana contingenza, stesso tempo, scenari abissalmente diversi. Di là dal Tevere, dopo il ciclone Wojtyla, tutto è in ballo, dal rapporto fra fede e scienza al sacerdozio femminile, ma la forma è intatta: come durante i funerali di Giovanni Paolo II, la diretta tv restituisce geometrie e liturgie precise e cadenzate, i giochi per la successione coperti dal silenzio stampa cui sono stati piegati i 115 cardinali riuniti nella Cappella Sistina in rappresentanza del mondo. Di qua dal Tevere, alla fine del ciclone Berlusconi, c'è in ballo molto meno, un cambio di governo e forse di campo politico, ma la forma è sfatta: fra scena e retroscena, fra un conato di decisionismo del Cavaliere e un conato di autonomia di Follini, le cronache restituiscono un'incertezza istituzionale ormai scontata e interiorizzata, come se le procedure costituzionali fossero pura ritualità non vincolante per una prassi impazzita. Di là dal Tevere, finita la preghera inizia il conclave erga omnes; di qua, finito il vertice di maggioranza si aspetta che il presidente del consiglio salga finalmente al Quirinale, nel vocio di Bossi che annuncia tempesta, Buttiglione che vede sereno e Follini che patteggia insidie e ministri. Berlusconi ha passato il weekend a fare gli scongiuri contro il ritorno alla prima Repubblica, scambiando come al solito la sua fede populista per il passaggio alla seconda, che sul piano delle regole non c'è mai stato. Il berlusconismo sembra morto nelle urne regionali, ma non lo è e non smetteremo di farci i conti, sul piano delle regole, dei contenuti e della comunicazione politica: perde ai punti ma non è al tappeto, e finirà ingloriosamente, lasciando strascichi di ogni tipo, malgrado le invocazioni romantiche dell'elefantino sul Foglio al «doppio onirico» di Berlusconi perché lo faccia finire in gloria giocandosi il tutto per tutto nell'ultimo sogno e nell'ultima battaglia. Sommersa dai debiti, l'Italia non sogna più, e non è neanche detto che sia un bene come sarebbe cambiare sogno: al centrosinistra toccherà la gestione del disincanto senza né doppi onirici né doppi sogni (quelli esplosivi, a «occhi completamente aperti», alla Schnitzler riscritto da Kubrick).
Il sogno s'è spostato oltretevere. Lì i fedeli attendono il nuovo papa con un carico di aspettative che la politica laica non conosce più. Lo vogliono: paterno, aperto, comprensivo, ecumenico. I giornali, manifesto compreso, pubblicano la lista dei desideri: dev'essere simpatico come dice il cardinale Schoenborn, mediatico ma non troppo, riformista all'interno della Chiesa, deve continuare il dialogo con le altre religioni, avere a cuore i bambini asiatici oggetto di commercio sessuale, essere sensibile ai problemi dell'ambiente, diventare il paladino dei diritti umani, contrastare le guerre. Poco meno che un programma politico planetario. Molto proiettivo, molto virtuale. Ma al di qua delle proiezioni le poste in gioco, per l'immediato futuro della Chiesa, sono chiare: rapporto fra fede e scienza, permessi e divieti per la ricerca sulle cellule staminali e per la procreazione assistita, preti sposati per combattere la crisi delle vocazioni, sacerdozio femminile per scuotere il sessismo cattolico, meno proibizionismo sulla contraccezione, dialogo effettivo e non di facciata con le altre religioni, rilancio di collegialità in una Chiesa anch'essa troppo tentata, con Wojtyla, dal binomio populismo-leaderismo. Il catalogo è questo. Qualcuno da questa parte del Tevere, a destra e a sinistra, è in grado di stilarne uno altrettanto dettagliato per il governo che verrà?
È impossibile nascondersi la gravità di quanto è accaduto ieri al Senato. Dopo la Camera, infatti, l’assemblea di Palazzo Madama ha approvato definitivamente in prima lettura una riforma della Costituzione italiana che distrugge alcuni aspetti caratterizzanti dell’organizzazione dello Stato repubblicano e modifica in profondità il funzionamento dei massimi organi del suo potere politico nonché lo schema dei loro rapporti. Il panorama delle rovine è presto descritto. Viene estesa a dismisura, anche a campi delicatissimi come quello dell’istruzione e della sicurezza pubblica, la capacità legiferatrice delle Regioni: lo Stato centrale mantiene sì formalmente l’esercizio di un potere d’interdizione, ma in misura attenuata e così ambigua che l’unico risultato prevedibile è una crescita esponenziale del contenzioso Stato-Regioni, già oggi ben oltre il limite di guardia. Nell’ambito del potere centrale, poi, la fine dell’attuale bicameralismo perfetto serve ad installare un Senato di nuovo tipo - presentato come «federale» ma in realtà non eletto in rappresentanza delle Regioni in quanto tali, e con competenze ridotte rispetto ad una vera camera politica - e una Camera dei deputati sovrastata da un primo ministro eletto dal popolo ma che, in barba ad ogni logica costituzionale, potrà a certe condizioni essere sfiduciato dalla stessa ed avrà, insieme, il potere di scioglierla quando gli piacerà. Ciò che in conclusione la riforma costituzionale realizza - per giunta non subito ma, tanto per accrescere la confusione, in varie tappe scaglionate nel tempo - sarà un incrocio contraddittorio e micidiale di accentramento e decentramento, all’insegna dell’istituzionalizzazione della paralisi e dell’apoteosi del ricatto.
Del resto è solo per il ricatto continuo e minaccioso della Lega che l’onorevole Berlusconi e la destra hanno dato il via a un progetto simile. È esclusivamente, cioè, per il proprio immediato tornaconto politico che il presidente del Consiglio e altre forze della sua maggioranza, che al pari di lui non hanno mai manifestato alcun interesse per il federalismo, e anzi sono ideologicamente ai suoi antipodi come Alleanza nazionale, lo hanno improvvisamente abbracciato, accettando così cinicamente di mettere mano al disfacimento del Paese.
Perché di questo si tratta: la riforma della Costituzione voluta dal governo e dalla sua maggioranza costituisce forse il più grave pericolo che l’unità italiana si trova a correre dopo quello terribile corso sessant’anni orsono nel periodo seguito all’armistizio dell’8 settembre. Mentre in misura altrettanto forte sono in pericolo la funzionalità e l’efficienza della direzione politica dello Stato da un lato, e dall’altro alcuni valori di fondo della nostra convivenza, non più garantiti da una tutela pubblica affidabile.
Di fronte a questa prospettiva inquietante, non ci sembra che abbia molto senso unire la nostra voce al coro di quelli che, sia pure con qualche ragione, mettono sotto accusa le responsabilità anche della sinistra per aver aperto la porta al disastro attuale approvando, con una ristrettissima maggioranza, le modifiche del Titolo V della Costituzione nella scorsa legislatura. Anche nelle responsabilità c’è una gerarchia, e oggi quello che appare in modo indiscutibile è il primo posto guadagnato dalla destra e dal suo capo nella corsa a fare il male del Paese. Per realizzare il misfatto hanno bisogno però del consenso dei cittadini nel referendum confermativo da qui ad un anno o quando sarà: vedremo allora se gli italiani sono davvero stanchi di avere una Costituzione e una patria.
Se dovessimo dar retta a Ricardo per regolare l’ economia italiana e quella mondiale, come propongono alcuni economisti e le maggiori organizzazioni internazionali, non dovremmo esitare un istante: constatato che i cinesi ormai producono merci nel settore del tessile e abbigliamento a un costo assai più basso dell’ Italia, questa dovrebbe uscire di corsa da tale settore, e cercare di occupare i lavoratori che così perdono il posto nella produzione di merci che alla Cina convenga comprare. In questo modo sia l’ Italia che la Cina ne trarrebbero vantaggio. Mentre cercare di fermare alla dogana di Gioia Tauro, o di Genova, le merci cinesi nuocerebbe ad ambedue le economie.
Ricardo aveva forse ragione quando suggeriva - nel 1817 - ai portoghesi di comprare panno in Inghilterra, dove lo producevano a minor prezzo, ed agli inglesi di acquistare vino in Portogallo invece che farselo in casa. Purtroppo, trasferita ai giorni nostri, e applicata alle relazioni commerciali Italia-Cina, la sua teoria dei "costi comparati" presenta vari inconvenienti. Il costo del lavoro in Cina è 20-25 volte inferiore a quello italiano. Nelle manifatture delle principali zone industriali il salario medio cinese è di circa 1.200 euro l’ anno, e gli orari molto lunghi; quello italiano si aggira sui 1.200 euro al mese, guadagnato con orari più umani. Inoltre i prelievi obbligatori per l’ assistenza e la previdenza raddoppiano il costo del lavoro in Italia, mentre poco aggiungono in Cina, dove il comunismo capitalista ha soppresso quel che esisteva del vecchio stato sociale, e si è ben guardato dallo svilupparne uno nuovo. Dal che deriva la disuguaglianza indicata. Quanto basta per dire, tra l’ altro, che i cinesi non stanno affatto facendo del dumping, che significa vendere in massa prodotti sottocosto; vendono a prezzi bassi perché i loro costi sono bassissimi.
Di fronte a simili disparità, forse nemmeno Ricardo avrebbe consigliato ai portoghesi di fabbricare vino e comprare panno, e agli inglesi di fare il contrario. Né il problema si chiude con le disuguaglianze salariali. Va infatti notato che anche se volessimo procedere con lo scenario socialmente intollerabile di qualche centinaio di migliaia di lavoratori disoccupati per mesi o per anni, in attesa di essere gradualmente rioccupati in settori più produttivi, in realtà noi non sappiamo più quali prodotti di massa potrebbero oggi interessare alla Cina. I prodotti di massa se li fabbricano sul posto, pure quelli con contenuti tecnologici elevati. In altre parole il trasferimento di grandi quantità di manodopera dal tessile ad altri settori, oltre ad essere impraticabile, sposterebbe soltanto il problema un po’ più a lato, o a un tempo un poco più lontano.
Allora, dazi italiani sulle merci cinesi? Prima di soffermarsi su questa domanda, bisognerebbe formulare altre risposte. Cominciando dal notare che alle migliaia di imprese europee e americane operanti in Cina i bassi salari e le cattive condizioni di lavoro delle zone industriali, che diventano pessime nelle zone franche di lavorazione ed esportazione dove lavorano per loro trenta milioni di persone, in fondo vanno benissimo. Infatti permettono di fare grandi profitti. E vanno bene anche a noi come consumatori, perché senza il lavoro di giovani donne pagato due dollari al giorno, nelle zone franche, noi non avremmo il piacere di comprarci, ad esempio, un PC superdotato per meno di mille euro. Bisognerebbe quindi chiedere alle imprese in questione se non sarebbero disposte a pagare salari un po’ più elevati nelle tante fabbriche cinesi che a loro, in una forma o nell’ altra, fanno capo, come sussidiarie o fornitrici; e magari a permettere addirittura l’ ingresso nelle fabbriche di rappresentanze sindacali. Mentre ciascuno di noi, come consumatore, potrebbe magari ragionare sul fatto che se si pagassero un po’ di più i prodotti che attraverso molte vie vengono dalla Cina, favorendo l’ aumento dei salari in quella parte del globo, si difenderebbero meglio i posti di lavoro da questa parte del medesimo.
Nel caso che le imprese europee fossero disposte a concedere qualcosa in merito ai salari che pagano e alle condizioni di lavoro che offrono in Cina, l’ Italia, o meglio la Ue, sarebbero in una posizione migliore per discutere con i cinesi dei tanti aspetti dei rapporti commerciali che non si esauriscono nel rapporto prezzo/qualità delle merci. Oggi si parla molto di investitori socialmente responsabili, quelli che acquistano azioni di un’ impresa soltanto se essa soddisfa determinati parametri sotto il profilo economico, sociale e ambientale. Sembra difficile negare che i paesi Ue, non in ordine sparso ma con un disegno collettivo, peserebbero di più nella regolazione del commercio mondiale se cominciassero ad agire come partners commerciali socialmente responsabili. Capaci di chiedere alla Cina - o all’ India, o ad altri - il rispetto di diritti umani, sociali, sindacali nell’ industria dei loro paesi. E capaci di chiederlo in modo non ipocrita perché le loro imprese per prime si sono adoperate a rispettare quei diritti non solo in patria, ma anche nelle zone dell’ Asia sud-orientale da cui importano fiumi di materie prime, semilavorati, componenti e prodotti finiti.
E i dazi sui tessili, e perché no sulle mele o i giocattoli provenienti dalla Cina? Per avanzare una simile proposta bisogna veramente non avere alcuna idea di come è organizzata oggi la produzione nel mondo di qualsiasi manufatto, tramite infinite catene transnazionali di creazione del valore. Le merci che, colpite da pesanti oneri doganali, non sbarcherebbero più a Gioia Tauro o a Genova, arriverebbero da Tarvisio o dal Sempione. Senza pagare dazio, perché porterebbero un’ etichetta europea o magari americana. Al confronto, per quanto al momento possa apparire utopistica, è molto più concreta l’ idea di discutere con i cinesi, a livello Ue, di salari, diritti dei lavoratori e condizioni di lavoro. Senza però pretendere di chiedere a loro di introdurre quei mutamenti che tante imprese europee operanti in Cina finora si sono ben guardate dall’ attuare.
L´amnistia ad personam
Un paradosso che illustra la follia della situazione nella quale il potere dei malandrini ha gettato lo Stato. Da la Repubblica del 24 febbraio 2005
Se la soluzione fosse un´altra, a portata di mano e tagliente come l´ascia che trancia di netto il nodo troppo stretto? Se la soluzione fosse una legge d´un solo articolo che reciti: «Con la presente legge si estinguono i reati, quali che siano, commessi dal signor Cesare Previti e dai suoi complici. Entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e si applica ai fatti commessi anteriormente a tale data e ai procedimenti e ai processi pendenti alla medesima data». Sì, un provvedimento legislativo di carattere dichiaratamente personale con cui lo Stato rinuncia all´applicazione della pena nei confronti di un solo uomo, l´avvocato Cesare Previti
Un´amnistia ad personam che salva uno e protegge tutti; invece, di leggi ad personam che, per rispettare il carattere generale e astratto proprio delle leggi, mettono in pericolo tutti per salvare uno solo.
É un paradosso? Sì, lo è. Ma, in fondo, che cosa significa paradoxon se non «oltre l´opinione comune»? L´opinione comune è spesso sbagliata e i paradossi sono quasi sempre delle elementari verità che il tempo nasconde. Si potrebbe dire che quel tempo - il tempo di risolvere finalmente questa assurdità - sembra giunto. Se, dimenticando l´articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge»), ragionassimo in modo concreto e pragmatico; se azzittissimo le tirate sui principi e sulla poliarchia del potere; se tenessimo conto di un responsabile equilibrio costi/benefici, non c´è dubbio che sarebbe questa strada - l´amnistia ad personam - la migliore, la meno pericolosa per gli italiani e la meno tragica per l´equilibrio costituzionale che regge la Repubblica.
Osservate che cosa ci può accadere se ci facessimo imprigionare dalla Costituzione e dalla ostinata petulanza di un capo dello Stato che pretende di proteggere la Carta dagli assalti all´arma bianca. Accadrebbe questo. Il Parlamento, subalterno al governo e al suo Capo, approva una legge che schiere di avvocati e pattuglie di penalprocessualisti hanno definito «criminogena». Non scoraggia il delitto, lo istiga. Approvata la legge (che gli ipocriti chiamano Cirielli-Vitali e non "Salva Previti!") usurai, ladri, pirati della strada, lenoni, corrotti, contrabbandieri legati a mafie e camorre, millantatori, bancarottieri - per dire di qualche categoria di lestofanti beneficiati dal provvedimento - avrebbero la rassicurante garanzia che, beccati con le mani nel sacco, lo Stato non si concede il tempo necessario per processarli. O, per dirla al contrario, concede a loro - ai lestofanti - il tempo di farla franca attraverso l´uscio largo della prescrizione del reato. La prescrizione è il tempo oltre il quale viene meno l´interesse dello Stato ad accertare il reato e a infliggere la pena. É prederminato per legge e la Cirielli-Vitali-Previti questo fa. Definisce il tempo della prescrizione. Lo dimezza. Quel reato che era cancellato (perché prescritto) in quindici anni ora lo si butta via in sette anni e mezzo. Tutti i reati che oggi si puniscono con la pena massima di otto anni sono destinati così ad essere prescritti con le accorte mosse dell´imputato. Buon per lui. Ma per noi? Se non si è usuraio, ladro, pirata della strada, lenone, corrotto eccetera eccetera non c´è nulla di che essere soddisfatti. Si annunciano soltanto pericoli e frustrazioni (se vittime di quei reati). Non basta. Se malauguratamente un reato lo si è già commesso e si è in galera, si può dire addio a ogni speranza di vedere osservato il carattere rieducativo e non punitivo della legge (articolo 27 della Costituzione). La legge che libera Previti condanna quei dannati - recidivi in semilibertà, agli arresti domiciliari, già ammessi al lavoro esterno - a un carcere organizzato come discarica sociale di sconfitti che non meritano un´altra opportunità, che non la meriteranno mai più. É il perverso risultato della manovra che, avvitata intorno al destino di un uomo solo (l´avvocato Previti), deve rendere liberi i delinquenti del futuro e schiacciare senza alternative i deliquenti del passato, qual che sia oggi lo stato della loro «rieducazione».
Ora bisogna sapere che la maggioranza approverà questa legge in Senato entro il 18 marzo (quel giorno il Parlamento chiude in attesa delle elezioni regionali). E il dado sarà tratto. Il gioco comincia e annuncia altre distruzioni questa volta non della nostra sicurezza collettiva, ma dell´equilibrio delle istituzioni che regola la vita collettiva.
Dopo la Cirielli-Vitali-Previti verrà la riforma dell´ordinamento giudiziario che, corretta dalle quattro incostituzionalità rilevate da Ciampi, dovrà restituirci la magistratura di cinquant´anni fa, impiegatizia, burocratizzata, conformista, soprattutto obbediente al potere politico. Questa legge è stata presentata dal governo e dall´imperito ministro della Giustizia come «epocale». Ma, se «epocale», perché ha lasciato il passo alla «Salva Previti!»? É già pronta, è già stata corretta, Ciampi può soltanto approvarla, dice il Guardasigilli. E allora perché non approvarla rapidamente visto che, per la propaganda manipolatoria, risolve tutti i problemi e la lentezza della giustizia italiana? Risolti i problemi della macchinosità della giustizia, si potrebbe forse anche "vendere" meglio i tempi dimezzati della prescrizione e, dunque, non è ragionevole licenziare prima la riforma dell´ordinamento e poi la Cirielli?
Sono domande ragionevoli che non tengono conto della ratio delle riforme. Quella ratio non la si rintraccia nell´organizzazione della giustizia che è disgraziata, nell´ordinamento giudiziario che si può correggere, nelle contorte procedure del processo penale e civile, nell´ipercriminalizzazione, ma nel destino di Cesare Previti. Come liberarlo dal buco nero in cui le scorciatoie professionali lo hanno cacciato? È il nodo: il processo a Previti (sono due, sono in appello, in primo grado è stato condannato a 15 anni di reclusione). Se si tiene ferma la convinzione che quel che conta per il governo (e il suo Capo) è sollevare Previti dalla minaccia del carcere, questa storia istituzionale la si può raccontare in un altro modo e ha il profumo della minaccia o del ricatto, fate voi.
Il governo, di diritto e di rovescio, sopra e sotto il banco, sta dicendo alla magistratura italiana: vedete, signori in toga, ho la forza per proteggere Previti dalle vostre sentenze. Costi quel che costi, sono disposto a farlo, anche al prezzo di rendere l´Italia l´Eldorado dei farabutti. Posso fare di peggio e di più. Posso deformare lo stesso ordine giudiziario piegando la Costituzione. Voi giudici, eravate soggetti soltanto alla legge e l´intera magistratura autonoma e indipendente: bene, diventerete dipendenti dal giudizio del governo. Non volete affrontare queste forche caudine, sapete che cosa fare? Quel che c´è da fare è assolvere Previti in appello o annichilire i processi di primo grado in un modo o in un altro, «tanto il cavillo lo si trova sempre?». Tra il minaccioso oggi e l´approvazione definitiva della "Cirielli" e della riforma «epocale» c´è questa opportunità: distruggere come fossero castelli di carte i processi a Previti. É questo, al di là di ogni tentativo, l´unico terreno di "mediazione" possibile. Perché mettere a repentaglio l´intero sistema giudiziario e, dei magistrati, il lavoro di ieri e le carriere di domani per l´ostinazione di considerare un obbligo che tutti i cittadini siano uguali dinanzi alla legge?
Costi/benefici, si diceva. Dunque. Nella colonna dei costi c´è la deformazione della Costituzione; la subalternità di un potere di controllo all´esecutivo; una giustizia a doppia faccia: crudele con i deboli e generosa con i forti; un magistrato di ridotta imparzialità sia che accusi sia che giudichi. O, nulla di tutto questo, ma una magistratura umiliata, nel caso in cui i giudici cedano alle pressioni. Nella colonna dei benefici c´è soltanto che Cesare Previti è stato giudicato (e condannato) come uguale tra uguali. Vale la pena? In assenza di un Parlamento capace di ritrovare le ragioni del suo ruolo di contrappeso al potere dell´esecutivo, nel deserto di un Palazzo vuoto di spiriti liberi, il paradosso si riaffaccia. Amnistia ad personam per Previti. E´ la migliore delle peggiori soluzioni che vengono proposte.
Che la vittoria in Puglia di Nichi Vendola sia un segnale ottimo è certo. Che abbia dato una scossa più che salutare ai gelidi e perdenti bilancini elettorali dei vertici del centronistra pure. Altrettanto certo è che la decisione di Fausto Bertinotti di candidarsi alle cosiddette primarie nazionali del centrosinistra abbia dato un’altrettanto salutare scossa ai minuetti di riassetto della coalizione e delle sigle del centrosinistra, e che pertanto essa vada mantenuta ferma. Non è altrettanto certo però che da queste premesse - politiche - consegua che le primarie siano la chiave di volta per un radioso futuro - istituzionale - della democrazia italiana e di una rappresentanza com- promessa dalla crisi terminale dei partiti.
Allo stato attuale, com’è evidente, esse sono piuttosto il paravento di conflitti poco trasparenti, anche se decifrabilissimi, fra i leader del centrosinistra, fra diverse concezioni della (e diversi gradi di convinzione sulla) leadership di coalizione fin qui assegnata a Romano Prodi, fra diverse visioni strategiche della cosiddetta Fed riformista e del peso specifico che al suo interno dovrebbero avere Margherita e Ds. E in questa irritante opacità è difficile dividere con un taglio netto torti e ragioni. Bertinotti ha ragione a non recedere dalla sua decisione e ad affidarle un meritato guadagno di peso politico nella coalizione; ma ha torto a coprire questo ragionevole calcolo con una irragionevole mitizzazione delle primarie come decisiva cartina di tornasole del grado di democrazia del paese. I Ds hanno torto a volere delle finte primarie a candidato unico, cioè un’iniezione di sostegno popolare a un candidato deciso dai vertici e senza alternative; ma hanno ragione a temere che delle primarie in cui tutti i leader di partito si candidano tranne un leader Ds, e i Ds figurano solo come grandi elettori di un leader di coalizione della Margherita, finirebbero con lo stritolare quel che resta del loro partito (e, in un solo colpo, con l’assegnare alla Margherita, Prodi o Rutelli, la leadership politica della Fed oltre che quella della coalizione e del governo). Romano Prodi ha ragione a voler essere rincuorato dal consenso popolare; ma ha torto a voler risolvere il suo storico handicap di leader senza partito con una iniezione di plebiscitarismo che lascerebbe comunque un’impronta sulla vicenda futura del centrosinistra e del paese.
E qui siamo al punto. Al di là - ammesso che ci sia un al di là - di questi incastri tattici e di queste tattiche di potere (nessuno si meravigli, come fa Adriano Sofri su Repubblica di ieri, che non ci sono candidate donne: in queste condizioni va da sé), come si prefigurano, sul piano istituzionale, queste primarie all’italiana? E perché dovrebbero essere un sicuro rimedio ai mali della partitocrazia, della crisi della rappresentanza e della democrazia - come su queste colonne ha sostenuto pochi giorni fa Paolo Flores d’Arcais?
Intendiamoci. Può darsi che la degenerazione partitocratica in Italia sia arrivata a un punto tale da rendere obsolete le obiezioni di principio che molti fautori della democrazia dei partiti portano a questo strumento proprio di una democrazia senza partiti come quella americana (le ha illustrate limpidamente, qualche settimana fa, sempre su queste colonne Enrico Melchionda). Mettiamo pure che la crisi dei partiti sia arrivata in Italia a un punto di non ritorno; e che delle consultazioni dal basso aiuterebbero a sbloccare la deriva di autoreferenzialità in cui il ceto politico è caduto. Ma se così fosse, lo strumento delle primarie andrebbe quantomeno approntato e regolato in modo plausibile e convincente, senza le solite, improvvisate e confuse imitazioni di modelli altrui in cui la fantasia istituzionale italiana eccelle. Esempio, già portato alla discussione da Walter Veltroni: si possono importare le primarie americane, che servono a scegliere fra più candidati dello stesso partito in un sistema bipartitico, nella situazione italiana, dove servirebbero a scegliere fra i leader dei diversi partiti in un sistema a due coalizioni? Non si può. Come non si può non vedere la differenza fra le primarie pugliesi, che si sono svolte per decidere fra due possibili candidati sulla base di una platea di volontari, e quelle calabresi, dove la platea era convocata su base rappresentativa.
Quale platea voterebbe alle primarie nazionali? Si può sostenere che una platea convocata dall’alto su base rappresentativa sarebbe troppo controllata dai partiti. Ma si può anche sostenere che una platea di volontari sarebbe priva di qualunque potere legittimante. In tanta confusione solo due elementi sono relativamente chiari. Il primo è l’iniezione di plebiscitarismo che da uno strumento così indefinito di investitura popolare inevitabilmente verrebbe al sistema italiano, che poco ne ha bisogno dopo anni di berlusconismo. Il secondo è la deriva di deregulation istituzionale, se non di de-costituzionalizzazione, in cui questa innovazione andrebbe a collocarsi, assieme ad altre in corso di sperimentazione (giova ricordare che alle prossime regionali si voterà con sistemi diversi da regione a regione, sulla base dei nuovi statuti). Deriva sulla quale converrebbe mettere il freno piuttosto che l’acceleratore. Sostenere che le primarie non vanno più fatte equivarrebbe, a questo punto, a mettere il tappo su un’istanza di partecipazione e sabotaggio dal basso dei giochi di vertice che non può e non deve essere frustrata. Ma sostenere che possano essere fatte come capita, o come risultante dei giochi e dei rapporti di forza all’interno del centrosinistra, sarebbe devastante per la già devastata democrazia italiana. Il minimo che si possa fare è regolarle in maniera non politicamente conveniente, ma istituzionalmente plausibile. Il massimo, sarebbe di azzerare almeno formalmente tutte - tutte - le candidature e ripresentarle da capo, sulla base di qualche idea riconoscibile.
"Più che ai moti studenteschi del Sessantotto, la violenza dei ragazzi di banlieue mi fa pensare alla rivolta dei Ciompi che vide opporsi nella Firenze del Trecento i lavoratori tessili alla borghesia cittadina", dice Jacques Le Goff, grande medievalista, raffinato scrittore ed esperto conoscitore della storia d'Italia. "Mi vengono in mente anche le sommosse dei chartists, durante i primi movimenti operai nell'Inghilterra appena industrializzata". La conversazione di Le Goff spazia da jacqueries a sanguinosissime repressioni, da insurrezioni a teste mozzate. Poi però il celebre studioso comincia a sparare a zero sullo stato francese e sulle colpe del suo massimo rappresentante, il presidente Jacques Chirac, che definisce una "nullità politica". "Non è il governo di centrodestra che ha creato la situazione attuale, ma è lui che l'ha aggravata".
Professor Le Goff, come si è giunti a questa crisi?
"È una situazione latente, che cova sotto le ceneri da diversi anni. Perché è esplosa proprio adesso? Per via delle drammatiche condizioni economiche, sociali e culturali in cui si trovano questi giovani che non sono minimamente integrati e che non hanno avvenire".
Ma che cosa ha scatenato il caos?
"Vede, non è esatto sostenere che la polizia francese sia interamente razzista, però è innegabile che tra le sue forze ci sia un certo numero di uomini razzisti e violenti. Qualche giorno fa due giovani banlieusards sono morti durante gli scontri: ebbene, il ruolo della polizia in quell'incidente è rimasto oscuro. Poi ci sono state le dichiarazioni del ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, che ha trattato questi giovani di racaille (feccia, ndr). Quest'ultimo fatto ha modificato lo stato d'animo dei rivoltosi, i quali adesso si sentono abbandonati e insieme disprezzati".
Quali soluzioni suggerisce per riportare la calma?
"Bisognerebbe anzitutto trovare un lavoro ai disoccupati per integrarli in quella società che vorrebbero distruggere. Ma questo mi sembra un obbiettivo difficilmente raggiungibile perché le politiche sociali del governo francese sono disastrose".
Crede che le scuse del ministro Sarkozy, richieste sia da parte dei rivoltosi sia dall'opposizione, servirebbero a placare gli animi?
"Credo che i problemi di rispetto e di disprezzo siano fondamentali. Del resto, la ricerca del perdono è diventata una consuetudine politica. Va di moda. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per le persecuzioni subite durante l'inquisizione. Chirac, e questo è un punto sul quale si è comportato correttamente, ha chiesto scusa per gli eccessi della colonizzazione francese, soprattutto in Algeria. Molti europei esigono dai turchi che questi chiedano scusa per il genocidio degli armeni. Detto ciò, non credo che basterebbe un "mi dispiace" pronunciato da Sarkozy per risolvere la crisi".
E allora come rispondere a tanta violenza?
"L'ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l'insieme della società. È per questo che, sia pure in modo inconsapevole, scatenano il loro odio contro uno dei simboli del successo nella nostra società: l'automobile. L'atto simbolico della rivolta è incendiare le macchine".
Quindi?
"Le colpe prima del governo Raffarin e poi di quello Villepin sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una "polizia di repressione". Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità".
Sono "organizzati" questi giovani, come sostengono le autorità?
"Non credo. Si tratta piuttosto di fenomeni di contagio, di imitazione, che fanno sì che le violenze si propaghino all'interno della regione parigina".
Come andrà a finire?
"Sono ottimista e ma anche pessimista: ottimista perché non credo che si arriverà a una violenza generalizzata; pessimista perché le cause profonde del disagio di questi giovani dureranno ancora a lungo, almeno fino al 2007, ovvero fino a quando al potere ci sarà Chirac. Fino a quella data, lo stato sarà incapace di trovare soluzioni adeguate".
Da Rio a Nairobi e da Parigi a Roma? Crede che un giorno non troppo lontano si parlerà di mondializzazione della violenza nelle periferie?
"Può darsi. Ma al momento quello che accade nelle favelas brasiliane è molto diverso da quanto accade nelle banlieues parigine. Ma non possiamo escludere che queste differenze vadano assottigliandosi".
Non pensa che nell'era della televisione uno dei motivi che spingono alla devastazione e al saccheggio sia quello di apparire in video?
"Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è «Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è lo strumento di rivendicazione per portare i problemi di una generazione sulla pubblica piazza».
C'è un punto di debolezza nelle posizioni dei fautori del bipolarismo, che in questi giorni sono insorti a gran voce - in nome dell'opportunità dell'alternanza fra due Poli nel governo del paese -, contro l'ipotesi del «terzo polo» o del «nuovo centro», rilanciata con forza da Mario Monti. La debolezza sta nel cattivo, anzi nel pessimo funzionamento del bipolarismo all'italiana: frutto di una raffazzonata legge maggioritaria, che ha compresso il tradizionale pluralismo del sistema politico italiano, ma ha prodotto due schieramenti che per la loro scarsa omogeneità e incoerenza non paiono in grado di svolgere, con incisività ed efficacia, né il ruolo di maggioranza né quello di opposizione. Qui, infatti, sta l'interrogativo fondamentale che si presenta quando si pensa che siamo ormai a meno di un anno dalle nuove elezioni politiche. Dove stanno, nell'attuale situazione di preoccupante crisi della democrazia e di grave declino economico e sociale, le condizioni per sperare che l'Italia possa avere un governo capace di affrontare positivamente questi problemi con chiarezza di idee e con reale capacità operativa?
Che nulla si possa attendere al riguardo dal centro-destra è sin troppo palese. Lo dimostra non solo il disastroso bilancio di questi anni: ma soprattutto il fatto che questo disastro non è casuale, ma è il frutto - oltre che di pochezza politica e culturale - della congenita subordinazione di questo schieramento da un lato ai ricatti dell'estremismo plebeo e sciovinista della Lega, dall'altro alle pressioni degli interessi particolaristici e privatistici di Berlusconi e del suo gruppo. Ma anche la coalizione di centro-sinistra, al di là dell'obiettivo, certamente importante, di porre fine al governo di Berlusconi, non sembra in grado di prospettare con coerenza e con la necessaria unità convincenti obiettivi politici e programmatici di un suo futuro governo. «Non siamo pronti»: con queste parole Alessandro Robecchi riassumeva in modo incisivo questa situazione sulla prima pagina del manifesto di domenica scorsa.
Naturalmente è molto difficile e anzi quasi impossibile dire se possa esservi qualche altra soluzione. Certamente non lo sarebbe una confusa e improvvisata operazione trasformistica che travolgendo i due Poli porti al governo, come qualcuno ha ipotizzato, le forze di centro dei due schieramenti. Ancora più confusa e pressoché impraticabile appare l'ipotesi avanzata da alcuni commentatori (per esempio Ernesto Galli della Loggia), ossia l'ipotesi di una sorta di parallelismo fra due centri, che dovrebbe realizzarsi assicurando che nelle elezioni prevalgano (ma come farlo?) le forze più centrali dell'una e dell'altra coalizione. Per carità di patria non richiamo neppure un'altra eventualità, quella data ricerca di un'intesa fra i due Poli in nome di una comune visione degli interessi nazionali: quell'intesa che già fu tentata nella precedente legislatura, con esito peraltro fallimentare, attraverso la Commissione bicamerale.
In definitiva la strada più realistica sembra restare quella che tutti coloro che chiedono all'Unione di centro-sinistra qualcosa di più che la pur importante vittoria elettorale su Berlusconi, facciano pressione perché i partiti dell'Unione - anziché gingillarsi nel gioco inutile e pericoloso delle primarie o insistere in diatribe interne che servono solamente ad alimentare ambizioni e rivalità - si decidano finalmente a utilizzare con serietà i mesi che ancora restano per ricercare un'intesa su una piattaforma politica e programmatica che entri davvero nel merito dei problemi: che sappia cioè coordinare efficacemente la necessaria azione di risanamento della finanza e dei conti pubblici con le scelte fondamentali per ridare forza agli istituti e alla partecipazione democratica, per riconquistare e consolidare i diritti dei lavoratori, per promuovere un'occupazione seria e qualificata, e per un rilancio efficiente e qualificante dello Stato sociale.Si può ancora sperare che accada qualcosa di simile? O ci si deve invece rassegnare all'idea che un governo di centro-sinistra sia destinato ad essere solo il classico «governo di lacrime e sangue», chiamato a far pagare al paese e soprattutto al lavoro dipendente i sacrifici e i prezzi del necessario risanamento, per cedere subito dopo il passo a un nuovo governo di centro-destra?
Se così fosse, non ci sarebbe davvero da sorprendersi se qualcuno mostra di preferire un'ipotesi alla Mario Monti. Ossia che, una volta eliminato Berlusconi, si possa presto arrivare - con le opportune modifiche elettorali magari favorite da un travaso di voti tra un polo e l'altro - al governo di uno schieramento moderato di centro che si assume l'onere del risanamento e che sia sufficientemente moderato per mediare tra i differenti interessi. Sarebbe, in sostanza, l'operazione neocentrista di cui tanto si parla. Alla quale, però, non si risponde efficacemente difendendo a ogni costo una sbagliata legge maggioritaria, oppure con un ulteriore spostamento verso il centro, come vorrebbe Rutelli. Che i moderati facciano i moderati è del tutto naturale. Ma, per un buon funzionamento della democrazia, occorre che si ricostituisca una robusta forza di sinistra che, dal governo o dall'opposizione, si impegni nella difesa dei diritti del lavoro, delle conquiste in campo sociale, degli istituti di democrazia.
Non si tratta di rimpiangere il passato. Ma anche dal passato c'è qualcosa da imparare. Non è vero, infatti, ciò che ha scritto sul manifesto Valentino Parlato: ossia che «il vecchio Pci, dall'opposizione, aveva governato meglio e di più di quanto i Ds non abbiano fatto da Palazzo Chigi»?
E'una favola quella dei due capitalismi e «non si può fare di ogni erba un fascio», sostiene Massimo D'Alema. In parte è vero: il capitalista è una bestia immorale che pensa unicamente al profitto, spesso in modo truffaldino. Però il presidente D'Alema ha la memoria un po' corta: non ricorda le battaglie condotte nel suo partito - quando aveva un nome migliore dell'attuale - da Claudio Napoleoni, per esempio, per un «patto dei produttori» dove tra i produttori non c'era certo spazio per la speculazione finanziaria. L'intervista del Presidente Ds al Sole-24 Ore è un inno al capitalismo e una rinuncia definitiva a ogni ipotesi di elementi di socialismo. Un'intervista furba, intelligente, spregiudicata, con molto buon senso, ma soprattutto elettorale: i Ds sono pronti a caricarsi il capitalismo italiano sulle spalle regalandogli nuovi margini di libertà, ma con un maggior rispetto delle regole.
Non si può accusare il centro sinistra di non essersi opposto ai vari condoni varati da Tremonti. Però vale la pena ripartire da quei condoni (tombali e anonimi) per cercare di spiegare l'emergere di nuove ricchezze. Fra tutti questi capitalisti emergenti ci sono sicuramente persone per bene. Però gli improvvisi arricchimenti fanno nascere più di un dubbio perché si entra in un'area opaca quella nella quale «si fanno soldi con i soldi», come diceva il protagonista di «8 settimane e mezzo». Per dirla in termini di analisi marxiana: al circuito «merce-denaro-merce» si sostituisce quello «denaro-merce-denaro». E tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fese distributiva; con la seconda c'è il trionfo della solo speculazione, dell'arricchimento individuale.
I capitalisti italiani (produttori di merci) negli ultimi 30 anni sono saltati come birilli: dall'illuminato Olivetti, al patron Borghi (quello della mitica Ignis) abbiamo visto sparire generazioni di industriali che avevano creato ricchezza. Problemi generazionali non sono mancati, ma, molto spesso, la crisi è arrivata dalla finanza (da un sistema bancario incapace di affiancare le imprese italiane) nella quale esplodevano i casi di Sindona e Calvi. Un sistema nel quale la P2 arrivò a controllare subdolamente il Corriere della sera strappato dalle mani del fragile Rizzoli. Questo spiega l'enorme attenzione che da settimane circonda il tentativo di scalata di Stefano Ricucci alla RcS. Possibile che D'Alema non lo capisca e si concentri piuttosto sulla fragilità degli imprenditori che controllano con un Patto la Rcs?
Il sistema bancario italiano oggi - forse - è abbastanza sano: ci sono banchieri che fanno molto bene il loro mestiere e spesso supportano egregiamente (magari anche per difendere i loro interessi come nel caso Fiat) l'attività produttiva. Però il marcio c'è ancora. Gli spregiudicati finanziamenti per favorire scalate e Opa ne sono la dimostrazione. Insomma, i capitalisti non sono tutti uguali: forse perché siamo un po' romantici seguitiamo a preferire il padrone che apre fabbriche, da lavoro e produce merci (ce ne sono molti e D'Alema farebbe bene a valorizzarli) a chi produce «denaro a mezzo di denaro», parafrasando Sraffa.
Il movimento cooperativo ha acquisito tanti meriti: ha creato lavoro e modernità dovendo resistere agli attacchi che con l'ultimo governo si sono intensificati. E' vero: come dice D'Alema l'Unipol è una spa quotata in borsa e quindi i suoi criteri di gestione sono quelli del capitalismo puro. Occorre ricordare, però, che Unipol è diventata grande grazie alla fede di centinaia di migliaia di assicurati che preferivano questa assicurazione ad altre grazie a una identificazione solo ideologica. Di più: la spa Unipol è controllata dal sistema cooperativo e sinceramente i 2,5 miliardi di euro di aumento di capitale finalizzati all'acquisto di Bnl forse potevano essere spesi meglio. Insomma, D'Alema stia attento: a giocare con la grande finanza (Cuccia) e con i «capitani coraggiosi» c'è il rischio di scottarsi e di perdere di vista i valori fondamentali che si vogliono rappresentare.
Titolo originale: Islamising global conflict – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
If you think religion is the source of terrorism you really fail to see the root causes of conflict and extremism
Nonostante i nostri migliori sforzi per non confessarlo, stiamo sperimentando un conflitto di culture politiche di cui i recenti attentati di Londra o l’assassinio dell’inviato egiziano a Baghdad sono solo alcune manifestazioni [gli attentati di Sharm el Sheik non erano ancora avvenuti n.d.T.]. Madrid, Mosca, Istanbul o New York; tutte, insieme al massacro quotidiano in Iraq, sono parte del fenomeno globale del terrore, al momento ideologia politica che accresce il suo impulso.
La polizia di Londra, in risposta alla costernazione e richiesta di risposte pubbliche, ha messo in campo tutte le proprie capacità investigative scoprendo alcune tracce importanti, e concludendo rapidamente che le esplosioni portano il marchio della famigerata Al-Qaeda. Tutti sono curiosi di sapere “chi, dove e come”, e sembra stiano trovando le risposte giuste. Ma nessuno sembra porsi la domanda fondamentale, da cui dipende tutto: perché? Solo ponendoci questa questione, potremmo capire il fervore politico che guida gli atti del terrorismo, le cui onde sismiche hanno fatto sinora tremare i cinque continenti del mondo.
Il terrorismo è una conseguenza dell’ostracismo politico, non del fanatismo religioso. Non fermenta nelle moschee d’Egitto o nei madrassas del Pakistan, ma nelle lontane celle d’isolamento, nelle camere di tortura, nell’atmosfera di paura costruita da regimi dittatoriali come strumento di governo legittimo. L’occupazione militare straniera in Iraq, gli omicidi mirati nei territori palestinesi, la presenza militare in molti stati del Medio Oriente lo alimentano. Chi lo mette in pratica lo considera un metodo di resistenza alla distorsione dell’identità nazionale e dei valori tradizionali, sotto l’egida della globalizzazione. Se il terrorismo fosse un prodotto collaterale della formazione religiosa, pochi dei gruppi neo-conservative giudeo-cristiani potrebbero sfuggire a questa definizione. C’è solo da guardare l’Iraq imbrattato di sangue, per vedere che il terrorismo non ha motivazioni religiose, ma politiche.
Nell’era post 11 settembre, l’amministrazione USA del Presidente George W. Bush ha tratto le conclusione giuste, ma adottato le politiche sbagliate. Il Segretario di Stato Condoleezza Rice ha riconosciuto durante la sua visita in Egitto del mese scorso che per 60 anni la politica estera degli Stati Uniti nel Medio Oriente “ha perseguito la stabilità a spese della democrazia, senza ottenere nessuna delle due”. La stabilità in Medio Oriente, e in molte altre regioni del mondo, non è mai stata tanto sfuggente come ora, e il terrorismo mai tanto letale. Secondo il presidente russo Vladimir Putin, il terrorismo è “la piaga del 21° secolo” e, nonostante le fiere affermazioni pubbliche dei leaders delle nazioni colpite, la gente è davvero spaventata.
Sembra che il dibattito sul terrorismo, che ha prodotto 12 trattati internazionali per combatterlo negli anni ’60 e ’70, si sia congelato nello spazio e nel tempo dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Si è affermata una sola politica: tutto il mondo deve diventare un campo di battaglia contro il terrorismo. Le prospettive si sono offuscate, l’agenda confusa, e gli atti di terrore aumentati in modo esponenziale. Alcuni elementi fondamentali del dibattito sul terrorismo, come la legittimità della resistenza armata contro l’occupazione militare straniera, gli atti illegali di terrorismo di stato contro la gente sotto occupazione, la persecuzione dei singoli da parte delle dittature in nome della sicurezza dello stato, sono stati scavalcati e sostituiti da un’ampia e indiscriminata nozione di terrorismo. E così l’intera questione è stata ridotta a come proteggere la civiltà occidentale contro assalitori musulmani incitati da un culto religioso assassino. Una definizione che è stata speranzosamente gestita dai leaders israeliani che hanno utilizzato il trauma dell’11 settembre per convincere l’amministrazione Bush che i combattenti palestinesi erano contigui agli assalitori suicidi di Al-Qaeda: sono tutti musulmani, fanatici, tesi alla distruzione dei simboli della civiltà occidentale.
Sollevare la questione del perché? è, sempre, legittimare le velleità terroristiche, o indebolire il fronte della sicurezza. Quando sono in gioco le vite delle persone la tutela delle cose, la protezione di entrambi è la principale responsabilità di qualunque governo. Ma ridurre un fenomeno globale ad una questione di sicurezza, significa perdere di vista un punto focale, e chiaramente non diminuisce il pericolo. Un punto di partenza, potrebbe essere rivolgere lo sguardo e l’analisi alle radici etno-politiche come cause del terrorismo. È qui che i decenni di sforzi delle Nazioni Unite di coniare una definizione impermeabile di terrorismo hanno cominciato a vacillare, e il dibattito si è fermato. Può darsi che il tentativo di costruire una definizione onnicomprensiva fosse obiettivo troppo ambizioso per le variopinte componenti dell’ONU. Ad ogni modo la questione centrale del dibattito era la distinzione fra movimenti di liberazione nazionale, in lotta per l’indipendenza dall’occupazione militare straniera, e atti indiscriminati di terrorismo commessi da bande criminali per motivi di intimidazione politica o vantaggio economico. Mentre le nazioni in via di sviluppo in gran parte appoggiavano questa distinzione, alcuni paesi occidentali – con in testa gli Stati Uniti e Israele – si opponevano ad essa. Questo negava sostegno alla lotta anti- apartheid in Sud Africa, dove si processavano e imprigionavano militanti dello African National Congress accusandoli di “terrorismo”, e alla lotta dell’OLP contro l’occupazione israeliana. Quando fallì questo tentativo di dialogo, lo scenario mondiale divenne aperto a tutti, portatori di buone o cattive intenzioni.
Alcuni potrebbero dire che abbiamo già attraversato momenti del genere, e che il terrorismo è stato sconfitto. Ricorderebbero gli anni ’60 e ’70, quando movimenti pseudo-rivoluzionari guidati da pseudo-ideali marxisti scossero la società globale. Erano i giorni dei Chicago Black Panthers, dell’Esercito di Liberazione Simbionese, degli Weathermen, del gruppo Baader Meinhof e delle Brigate Rosse, fra altra marmaglia di movimenti in USA, Europa, Asia e Medio Oriente. Una forte reazione delle forze di sicurezza, e la mancanza di radici a sostegno di queste ideologie estremiste, li schiacciarono tutti. Quello che vediamo oggi non è lo stesso panorama.
Ci sono buoni motivi per ritenere che collegare l’Islam col terrorismo politico non sia una coincidenza. È un’idea dei neo-conservative di Washington, spalleggiati da Israele, per forzare uno scontro con le forze del mondo arabo che vedono nella propria fede musulmana un punto di riferimento per la propria salvezza. Per stimolare questo scontro, l’Islam viene presentato come sinonimo di terrorismo, e la reazione anti-islamica sta salendo, particolarmente in Europa. Ma, se potesse prevalere un approccio più freddo, potrebbe non imporsi come inevitabile uno scontro.
Quello di cui c’è bisogno ora, è di far rivivere il dibattito sul terrorismo, le radici delle sue cause, i mezzi per contenerlo ed eliminarlo. Questo dibattito dovrebbe svilupparsi non a livello di ministeri degli interni, ma fra i gruppi inter-culturali, religiosi e per i diritti umani della società civile. La gamma delle questioni da affrontare deve essere il più ampia possibile, per evitare la possibilità di escludere aspetti e soggetti, il che rappresenta già una delle cause alla radice di tutto. Si tratterebbe di un dialogo parallelo a quello delle conferenze intergovernative, che di solito cercano di definire strumenti più operativi per affrontare il terrorismo. Aiuterebbe a mettere a fuoco – e forse anche a isolare – le cause di terrorismo, e a sviluppare un consenso di base sulle varie questioni.
Fare l’equazione Islam uguale terrorismo, e combattere entrambi a livello globale, non solo creerà un parallelismo artificioso, ma porterà ad un conflitto sempre più vasto e pericoloso, come dimostra il caso dell’insanguinato Iraq. E d’altra parte, solo mettere insieme le “teste fredde” ci potrà salvare da questo flagello.
Nota: l’Autore è ex corrispondente da Washington, D.C. per Al-Ahram, ed ex direttore della Radio/Televisione delle Nazioni Unite a New York. Qui il testo originale al sito di Al-Ahram Weekly online (f.b.)
E Hollywood scrive la storia d’Europa
Da poche settimane, le Crociate . Immediatamente prima Troia , Alessandro e il Gladiatore . Come tutti sanno, sono i titoli di altrettanti film apparsi negli ultimi anni: l’ordine in cui li ho citati non è quello della loro uscita effettiva, bensì quello cronologico degli eventi in essi narrati, il che serve a dare un’idea dell’ampiezza dell’arco storico coperto. Si va dal paradigma omerico di tutte le guerre alla dimensione dell’impero, a quella dello scontro tra grandi civiltà (le crociate, appunto) passando per la luminosa figura del giovane capo vittorioso, figlio dell’Ellade, Alessandro, cui toccò in sorte di unire simbolicamente sotto il suo genio l’Asia e l’Europa.
Come si vede, ciò a cui ci troviamo davanti è né più né meno che il primo tratto degli snodi fondamentali di quello che potremmo chiamare il canone occidentale. La narrazione, cioè, degli eventi, dei personaggi e delle situazioni chiave che hanno definito l’identità storico-culturale di questa parte del mondo. Naturalmente di film sull’antica Roma o sulla cavalleria medioevale ne sono stati sempre fatti, la novità sta nella rapida successione con la quale questi film di cui sto parlando sono usciti e nel fatto che raccontano sì storie, ma fin dal titolo ambiscono a prendere (e prendono effettivamente) di petto gli archetipi codificati della memoria storica dell’Occidente.
Credo che non sia affatto un caso che questi film siano tutti di produzione americana. Essi, infatti, sono l’indizio di cose profonde che si muovono oggi al fondo della società americana, dell’immagine di sé degli Usa e che modellano il ruolo anche culturale dell’America in rapporto al resto del mondo. Ciò che si muove è soprattutto l’idea che nella nuova temperie storica apertasi l’11 settembre - ma i cui segni premonitori si addensavano già da tempo - gli Usa sono qualche cosa di assai più grande di una sia pur gigantesca superpotenza. Sono i campioni di un’intera civiltà. Come già avvenne nel 1945, quando dall’altra parte c’era l’Unione Sovietica, l’impressione che l’opinione pubblica americana percepisce è non solo che si tratta di una sfida mortale, ma che essa proviene da un totalmente «altro», intrinsecamente ostile; ed è ciò che, proprio come allora, provoca nell’animo americano una sorta di autorappresentazione superidentitaria, in cui vocazione nazionale e universalismo si intrecciano strettamente. L’Occidente è per l’appunto questa superidentità, puntualmente riscoperta e riproposta. Ed è la condizione degli Stati Uniti come Impero d’Occidente e dunque come eredi attuali in prima persona di un’intera lunghissima parabola storico-culturale, che i film come Il gladiatore , Alexander o Le crociate più o meno apertamente rivendicano e illustrano.
Certo, l’analogia tra l’America attuale e una o l’altra delle vicende narrate non è esplicita, ma basta e avanza, mi pare, il fatto che quelle vicende con tutta la loro ovvia carica identitaria, percepibilissima da qualunque spettatore dell’emisfero Nord del pianeta, tornino oggi a circolare per iniziativa di quel massimo organo della cultura americana che è Hollywood, e dunque con la sua inconfondibile «aura», con il plot , le tipizzazioni umane, i modi emotivi, che da sempre sono nel tipico registro di quella grande macchina ideativo-produttiva.
Con in più qualcosa d’altro, assolutamente decisivo: l’afflato etico, la proposizione, per così dire, dell’esemplarietà morale della trama e dei personaggi, l’intento consapevolmente pedagogico tipico di ogni autentica prospettiva nazionalpopolare, com’è appunto quella di Hollywood. Non per nulla al centro della produzione cinematografica americana post 11 settembre c’è un film come The Passion di Mel Gibson. In The Passion la riproposizione del canone occidentale tocca un apice, vuoi per l’ovvio carattere fondante di quel canone medesimo che ha la narrazione cristiana, ma vuoi anche perché ne illustra il valore ultimo, che non può che essere un valore religioso. Tra l’altro il cristianesimo gibsoniano, intriso di fisicità e di dolore, tutto ridotto quasi al sanguinoso sacrificio di sé del Dio-uomo e al martirio inflittogli dai suoi carnefici, si presta bene a essere sentito come il più congruo ai tempi di ferro verso i quali forse siamo avviati. Non solo: di certo è anche quello che meglio è in grado di rappresentare una linea divisoria netta tra «noi e loro», tra i cristiani e gli altri.
Dopo l’11 settembre, insomma, gli Usa avvertono il bisogno e si assumono il compito di raccontare l’identità occidentale, di percorrerne le tappe con ovvio orgoglio identitario. C’è bisogno di aggiungere che si tratta di un’identità democratica, attenta agli obblighi del politicamente corretto? No, naturalmente: si pensi per esempio a certe ridicolaggini «multiculturali» delle Crociate , ovvero alla trattazione del tema omosessuale in Alexander o a certe autocensure presenti pure in Gibson.
La portata ideologico-culturale dell’impresa si manifesta in pieno se si pensa alla situazione che c’è da quest’altra parte dell’Atlantico. Da quanto tempo gli europei non fanno non già un grande film «in costume», ma un grande film storico? Cioè un film che affronti complessivamente una pagina decisiva della nostra storia, dandocene altresì un’interpretazione «forte»? Se si sta alla produzione cinematografica, si direbbe che l’unico uso della storia che è ormai possibile alla cultura di massa del Vecchio Continente è quello che consiste o nella rivisitazione del passato generazionale (tipo La meglio gioventù ), ovvero nel ricordo delle catastrofi belliche e dei connessi nazismi e fascismi. La nostalgia e la deprecatio , insomma, sembrano essere le uniche due dimensioni memoriali consentite al discorso pubblico europeo, gli unici usi possibili del passato.
In America, invece, il passato è ancora pienamente legittimato a fungere da ispirazione identitaria positiva, da grande ispirazione identitaria. È decisivo, naturalmente, il fatto di non avere alle spalle i crimini e gli abbagli che invece ha avuto l’Europa e che ne hanno determinato la sconfitta epocale riassunta simbolicamente nelle due date del 1945 e del 1989. A differenza dell’Europa, l’immagine positiva della storia americana significa, invece, la possibilità di una lettura altrettanto positiva dell’intero, lungo processo che ha portato fino all’oggi: lettura che si estende all’intero percorso storico dell’Occidente, con relativa appropriazione-identificazione nel medesimo.
È precisamente ciò che consente agli Usa di fare i film storici di cui si sta dicendo, perché è precisamente l’insieme della positività e della possibile appropriazione-identificazione che ne consegue, è questo insieme dei due fatti che consente di esperire adeguatamente il registro epico, connaturato a quei film stessi e che a sua volta produce nuova costruzione di identità.
Hollywood si riconferma così ciò che essa è da oltre mezzo secolo: la sola, incontrastata, depositaria dell’immaginario complessivo dei popoli dell’emisfero settentrionale del pianeta. Non solo per ciò che riguarda il presente, ma pure per il passato: anzi, si direbbe, sempre di più proprio per quel che riguarda il passato. Anche in questo ambito, infatti, l’Europa, la sua anima, la sua cultura e la sua arte, non sembrano capaci di dire più nulla. Mortificata dalla storia e privata di ogni autentico ruolo sulla scena del mondo, essa non sa neppure se possiede o no un’identità, e semmai quale sia, né di conseguenza sa più cosa fare del proprio passato. Se proprio vuole averne un’idea, non le resta che andare al cinema a vedere un film americano.
L’Italia è come un bellissimo Meccano, purtroppo è montato male. Ci sono qua e là negli ingranaggi dei cunei che bloccano i movimenti; il risultato è che il Meccano brilla, ma non si muove e se cerchi di spingerlo si capovolge. Non c’è altro da fare che smontarlo, e poi rimontarlo pezzo per pezzo. Credo che questa bella similitudine sia di Romano Prodi, nove anni fa, in uno dei primi giorni del suo governo. Poi, per entrare nell’euro, dovette occuparsi, giustamente, di macroeconomia e non ebbe più tempo per dar seguito a quell’intuizione intelligente.
Berlusconi ci promise di capovolgere il Paese come un guanto: la misura del suo fallimento la si legge, prima ancora che nei dati dell’Istat, nella relazione che l’Autorità Antitrust ha inviato al Parlamento a commento delle norme sulla competitività approvate definitivamente ieri. Riferendosi agli Ordini professionali, l’Autorità scrive: «La competitività dei professionisti italiani richiede un profondo rinnovamento del sistema degli Ordini, ma dal provvedimento del governo non emerge alcun ripensamento del loro ruolo».
Piccole cose, qualcuno dirà. Nulla di più sbagliato. Il bel Meccano è bloccato da una moltitudine di cunei, alcuni grandi e solidissimi come le posizioni dominanti di Enel, Telecom ed Eni, (e l’annullamento da parte del Tar del Lazio della multa comminata dall’Antitrust a Telecom Italia per abuso di posizione dominante lascia assai perplessi), altri piccoli come il monopolio dei farmacisti sulla vendita dell’aspirina, ma non meno dannosi.
Forse dovremmo anche chiederci come mai, all’improvviso, è spuntato tanto denaro accumulato nel settore immobiliare. Come si sono create le ricchezze dei nuovi padroni della finanza, signori fino a ieri sconosciuti, e che oggi sono in grado di acquistare partecipazioni importanti in banche e società quotate in Borsa. Anche questo dipende, in parte, da un sistema che non funziona. Incapaci di ridurre il numero dei dipendenti pubblici, abbiamo fatto quadrare i conti tagliando i trasferimenti ai Comuni, e questi, per sopravvivere, hanno usato il solo strumento di cui dispongono: le licenze edilizie e la possibilità di monetizzare le aree verdi, cioè chiedere a chi costruisce contanti, anziché standard. Il risultato è un uso estensivo del territorio e forse anche qualche transazione non proprio trasparente tra immobiliaristi e amministratori pubblici.
Berlusconi attribuisce la profonda crisi in cui siamo piombati all’euro e al patto di stabilità. Ora che il patto è stato modificato annuncia una Finanziaria per lo sviluppo e oggi incomincerà tagliando l’Irap senza preoccuparsi di come far fronte alla perdita di gettito. È evidentemente la strada sbagliata. Il rischio è che il Meccano si capovolga, travolto dalla perdita di credibilità nei mercati finanziari.
Molti temono le sparate di Bertinotti sulla proprietà privata e l’ipoteca che la sinistra estrema potrebbe esercitare su un governo Prodi. Non è questo, secondo me, il vero rischio per la nostra economia. Bensì che le mille piccole rendite che si arricchiscono spostando il Meccano e impedendogli di funzionare l’abbiano vinta anche con il professor Prodi.
CRONISTI nelle ultime quarantott’ore hanno dato fondo a tutte le risorse del lessico e dell’immaginazione per descrivere quanto sta accadendo tra Palazzo Chigi, il Quirinale e gli altri palazzi della politica. E anche in Vaticano e nelle sacre cappelle dove si amministra la religione da parte di un gerontocomio nel quale i settantenni sono considerati giovani e i sessantenni poco più che ragazzi.
Alcuni ci sono egregiamente riusciti. Francesco Merlo, commentando l’irre-orre dell’Udc ha scoperto l’inedita prassi di dimettersi il venerdì lasciando aperta la porta al re-immettersi il lunedì. Concita De Gregorio ha evocato Fellini per descrivere una città che di botto si è trovata con due sedi vacanti, percorsa da cortei di suorine, preti in clergyman, cappuccini in sandali e saio che incrociavano all’altezza della galleria Colonna intitolata ad Alberto Sordi fitte schiere di portaborse e di «peones» provenienti o diretti verso Montecitorio, circondati da paparazzi come ai tempi della Dolce vita. Mancava Anita Ekberg; in compenso furoreggiavano le tre veline di «Striscia» dedite al rito della «baceria», che consiste nell’amorosa aggressione del Vip di giornata per potergli stampare sulle guance il rossetto d’un bacio-ricordo. Ad evitare quel rischio Follini pare abbia usato l’automobile tre volte di seguito per percorrere centocinquanta metri dalla Camera all’ufficio di Gianni Letta che nel frattempo tagliava la torta e stappava spumante per festeggiare il suo settantesimo compleanno nel bel mezzo d’una rissa politica in salsa berlusconese (auguri).
Va detto come ultimo tocco che le lettere di dimissioni firmate venerdì dai ministri e sottosegretari dell’Udc e indirizzate al presidente del Consiglio e al capo dello Stato sono rimaste sulla scrivania di Follini fino alla tarda mattinata di ieri, quando finalmente sono state rimesse ai destinatari istituzionali e la crisi di governo si è formalmente aperta.
In questo quadro dai lineamenti comici e grotteschi si è tuttavia consumato un evento non privo di elementi drammatici. Eccone l’elenco. La solitaria e insolita fermezza dei moderati post-democristiani, costretti a rompere un sodalizio decennale con il capo del populismo italiano e con il gruppo di avventura che lo circonda. La disperazione di Berlusconi, costretto alle dimissioni ma aggrappato fino all’ultimo minuto alla sua postazione di capo di governo, dal quale 15 milioni di elettori l’hanno strappato con la forza del voto.
Il declino malinconico (per lui) e inarrestabile di Gianfranco Fini, ormai ex aspirante al titolo di delfino e successore del re, stretto e quasi schiacciato tra Forza Italia e Lega, con un partito penalizzato dagli elettori e dilaniato da una lotta senza quartiere tra i suoi colonnelli.
Infine (e soprattutto) gli italiani che dopo quattro anni di governo berlusconiano, tessuto di promesse non mantenute e di annunci mai seguiti dai fatti, si trovano ora al centro di un disastro economico, politico, istituzionale e morale, causato dalla leggerezza con la quale la maggioranza degli elettori rilasciò nel 2001 una sorta di delega in bianco a quel gruppo avventuroso e dilettantesco che ha portato il paese a queste distrette.
Sì, ci vorrebbe Fellini per raccontare in immagini il rapido procedere d’un simile degrado, ma ci vorrebbe la penna di Gogol per penetrare al fondo d’una vera e propria mutazione antropologica che ha colpito una società intera facendole perdere i frutti d’un lungo e faticoso cammino che l’aveva portata a gareggiare con i paesi più ricchi e sviluppati del mondo e che ora la fa galleggiare al fondo delle classifiche internazionali da dove potrà risollevarsi solo prendendo coscienza di quanto è accaduto e pagando con severi sacrifici l’errore compiuto quattro anni fa.
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Quanto sta per accadere nei prossimi giorni è ancora alquanto oscuro. Una sola cosa è certa: Silvio Berlusconi dovrà salire nelle prossime ore al Quirinale e presentare a Ciampi le dimissioni del suo governo. Secondo la prassi il presidente della Repubblica lo inviterà a restare in carica per l’ordinaria amministrazione e aprirà le consultazioni con i presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari. Il reincarico è certo, ma credo non possa esser conferito prima di un incontro sia pur brevissimo di Ciampi con i rappresentanti del Parlamento: il ritiro di un’importante componente politica del governo pone infatti il problema di accertare se vi sia ancora una maggioranza o se anch’essa, insieme al governo, non si sia dissolta. Accertamento che non basta leggere nei giornali e nelle dichiarazioni televisive ma che deve essere registrato nelle forme istituzionalmente previste.
I seguiti, lo ripeto, sono ancora oscuri. Dipendono infatti dal negoziato sul programma e sulla composizione del governo, che è già in corso all’interno della ex coalizione di centrodestra, finora con esiti negativi, ribaditi ancora una volta da Follini in una dichiarazione resa alla stampa alle 17.30 di ieri.
Programma. I due documenti finora redatti da Berlusconi - Letta e consegnati il primo a Fini la scorsa settimana e il secondo (che ne è quasi la fotocopia) a Follini venerdì, impostano assai genericamente i lineamenti di una politica economica che è esattamente l’opposto di quella fin qui seguita nei quattro anni trascorsi dal 2001. Non entriamo nel merito di quelle proposte, ma ciò che conta per la storia deriva dal fatto che i due principali membri della coalizione hanno imposto questa svolta programmatica addebitando alla politica fin qui adottata la responsabilità della recente sconfitta elettorale. Non ci potrebbe essere conferma più lampante che la linea precedente altro non è stata che un cumulo di errori, di vacui annunci, di successi vantati ma inesistenti e di impegni non mantenuti.
A un presidente del Consiglio credibile sarebbe sufficiente presentare a un suo (ex) alleato un documento accettabile pur nella sua genericità, ma a un personaggio antropologicamente bugiardo e riconosciuto come tale questo non basterà per riguadagnare il consenso della sua maggioranza parlamentare (quello popolare è un altro paio di maniche molto più arduo da riconquistare).
L’Udc e forse anche Alleanza nazionale pretenderanno un testo parlamentare molto più concretamente impegnativo e soprattutto una struttura di governo che modifichi alcuni punti particolarmente sensibili: l’Economia, le Riforme, l’assetto della Rai e la politica delle telecomunicazioni.
Se il negoziato andrà a buon fine è anche possibile (anche se alquanto grottesco) che l’Udc si re-immetta nel governo.
Altrimenti non resta altra strada che quella dell’appoggio esterno e probabilmente delle elezioni immediate entro la fine di giugno. Il tempo è dunque strettissimo e il negoziato tra le rissose correnti del centrodestra non ha molti margini. Dovrà essere intenso quanto breve. Se ci sarà fumata bianca torneranno tutti insieme e procederanno fino alla fine. Si riaffideranno così alle mani di un «boss» la cui antropologia non è correggibile.
Credo che questo sia il vero rovello di Follini: l’ipotesi di rientrare nella gabbia sia pur dorata dalla quale è riuscito ad evadere per il bene della sua parte e del Paese.
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Post Scriptum. Queste convulse vicende politiche hanno inevitabilmente lasciato in seconda fila altri due grotteschi eventi la cui importanza, di fatto e di principio, è tuttavia di grande rilievo. Si tratta delle due Opa rispettivamente lanciate da una grande banca olandese sulla Antonveneta e da una grande banca spagnola sulla Banca Nazionale del Lavoro. La cronaca di queste operazioni è stata ovviamente seguita con l’attenzione dovuta dai giornali e un aspetto è balzato in piena evidenza: la volontà del governatore della Banca d’Italia di far fallire le due operazioni e la sua attiva partecipazione a conciliaboli continui da lui stesso promossi per organizzare cordate «nazionali» in opposizione al possibile ingresso delle due banche europee nel mercato italiano del credito.
Se le manovre guidate dal governatore sboccassero in altrettante Opa più favorevoli agli azionisti delle banche contese, non ci sarebbero obiezioni di merito anche se non rientra nei compiti della Banca d’Italia di discriminare gli operatori europei non italiani. Ma qui non si tratta di contro-Opa, bensì di cordate camuffate ma assolutamente evidenti. Per di più, nel caso Antonveneta, alla testa della cordata ispirata dal governatore c’è la Banca Popolare di Lodi, la quale sta bruciando nella fornace d’un rastrellamento a prezzi altissimi del titolo Antonveneta gran parte delle proprie risorse fino al punto ormai prossimo se già non superato di impegnare l’intero suo capitale che dovrebbe invece garantire i depositanti.
Un governo e un ministro dell’Economia nel pieno delle loro attribuzioni avrebbero dovuto richiamare fermamente il governatore il quale sembra usare la preziosa indipendenza garantita al suo Istituto per interferire su terreni che non sono di sua competenza bensì del mercato, regolato sul tema specifico da apposite leggi. E, aggiungo e sottolineo, un’opposizione consapevole avrebbe dovuto far sentire energicamente la sua voce in difesa del mercato, delle sue regole, degli azionisti e soprattutto dei principi della libera concorrenza tra imprenditori europei. Il fatto che ciò non sia avvenuto con la dovuta energia suscita in noi stupefatta preoccupazione.
La lunga ed estenuante transizione italiana è arrivata al suo approdo. Vista dalla fine, la storia si vede sempre meglio. Vista dalla fine, e caduti uno dopo l'altro i veli che nei primi anni `90 fecero brindare molta sinistra al «nuovo inizio», la transizione mostra con chiarezza la sua posta in gioco più vera. Che è stata, dall'inizio, la rottura e la riscrittura del patto costituzionale fondativo della Repubblica. Non questo o quel punto, questo o quel potere, questo o quel diritto, ma l'impianto, la concezione della democrazia, la storia novecentesca e antifascista di quel patto. Non a caso la maggioranza che ha messo al mondo la proposta della nuova Carta è fatta di tre forze fin dall'inizio eterogenee, ma fin dall'inizio cementate dalla loro comune estraneità e ostilità alla Carta del `48. Nel voto del Senato di ieri non c'è, per il centrosinistra, una sconfitta politica: c'è una sconfitta, e una verità, storica. Bisogna guardare in faccia questa sconfitta e questa verità senza diminuirle. Perché è vero che l'ultima parola non è ancora detta e spetta al referendum, ma è vero altresì che il referendum non si potrà vincere senza questa cruda consapevolezza, derubricando la posta in gioco o smussando le ragioni dello scontro. L'esito di oggi si poteva evitare? Sì, si poteva evitare; o almeno si poteva lottare con convinzione per evitarlo. Si poteva evitare, dagli anni ottanta in poi, di interiorizzare l'idea che la democrazia italiana avesse bisogno solo di qualche iniezione di governabilità. Si poteva evitare, negli anni novanta, di abbracciare il sistema maggioritario come la panacea di tutti i mali, senza nemmeno preoccuparsi di dotarlo delle garanzie necessarie a non farlo funzionare (oggi e anche in passato, quando fu il centrosinistra a riformare da solo il titolo V) come onnipotenza della maggioranza. Si poteva evitare di innamorarsi con frivolezza di tutti i figurini istituzionali disponibili sul mercato internazionale, dividendosi sul premierato israeliano e sul semipresidenzialismo francese invece di arginare e ribaltare il sovversivismo di Berlusconi, Bossi e Fini. Si poteva evitare di giocare a dadi con la Costituzione e con le istituzioni per risolvere problemi di natura squisitamente politica interni ai partiti e alle coalizioni. Ci voleva una politica costituzionale; non c'è stata.
Bisogna ricostruirla e comunicarla all'opinione pubblica con la convinzione che serve nelle battaglie decisive. Non è vero che la materia è astrusa quanto sembra e non è detto che sia meno coinvolgente di un Porta a Porta su Sanremo. Intrattenere gli elettori sui dispositivi tecnici della riforma può essere difficile, ma spiegarne il senso è semplice. E il senso è questo: una riforma che dà tutti i poteri al premier, riduce il parlamento a una camera di consultazione medievale, sovrappone quattro fonti legislative, altera le funzioni di garanzia del presidente della Repubblica e della Corte. E soprattutto, svuota la rappresentanza e fa a pezzi i diritti fondamentali. Ce n'è abbastanza per mobilitare chiunque.
Esiziale sarebbe invece, per l'opposizione, restare paralizzata dall'annosa paura che difendere il patto del `48 significhi macchiarsi di conservatorismo, e che riformarlo significhi riscriverlo nello stesso senso, solo un po' più moderato, del centrodestra. La Costituzione non va né difesa come un totem né stracciata come un certificato scaduto: va rilanciata, nel suo spirito originario, all'altezza del presente. Magari con un occhio puntato alla Costituzione europea, cornice necessaria, ancorché a sua volta controversa, per smarcarsi dal talk show della transizione nazionale e compiere il salto che la storia impone davvero dal Novecento al secolo nuovo.
La stampa italiana, la politica italiana, non usciranno mai dal loro vizio di fondo: considerare qualunque episodio, o grande fatto, che avvenga in un luogo qualsiasi del mondo, solo come una variante della politica interna, un'occasione per polemiche domestiche, per colpire l'avversario, per guadagnare o perdere consensi. La liberazione di Giuliana Sgrena e l'uccisione di Nicola Calipari non hanno fatto eccezione.
La stampa italiana, la politica italiana, non usciranno mai dal loro vizio di fondo: considerare qualunque episodio, o grande fatto, che avvenga in un luogo qualsiasi del mondo, solo come una variante della politica interna, un'occasione per polemiche domestiche, per colpire l'avversario, per guadagnare o perdere consensi.
La liberazione di Giuliana Sgrena e l'uccisione di Nicola Calipari non hanno fatto eccezione. Giuliana, un paio d'ore dopo il suo arrivo a Roma, era già sotto accusa. Un giornale a diffusione nazionale, come "Libero", che è la punta di lancia dello schieramento politico di centro-destra, ha iniziato una campagna contro di lei come l'aveva condotta, senza risparmio di mezzi e di denari, contro Simona Torretta e Simona Pari. Nella prima pagina di "Libero" di ieri c'è un titolo grandissimo, in testata, con la foto di Giuliana, e iltitolo dice così: "Non si dia più un euro per riavere gli ostaggi ingrati". Non so se vi rendete subito conto del significato esatto di questo titolo. Potrebbe essere tradotto in questo modo: "Il governo doveva lasciare morire la Sgrena perché lei è comunista". "Libero" sostiene che una persona che si rispetti, se qualcuno paga un riscatto per lei - per liberarla - una volta libera deve fare abiura dei suoi pensieri, della sua personalità, delle idee che ha, e deve assumere il pensiero (e gli interessi) di chi ha pagato. Naturalmente dentro questa polemica c'è molta strumentalità, molto provincialismo (del tipo del quale parlavamo prima) ma c'è anche un principio al quale, in realtà, difficilmente la destra riesce a sfuggire (e spesso noi non ne teniamo conto): la convinzione, sincera, che la cosa che vale più di tutte, al mondo, è il denaro, perché il denaro è l'unica rappresentazione totale delle merci, delle terre, delle materie prime, del lavoro e del pensiero. Il denaro è lo strumento di organizzazione e di remunerazione di tutte queste cose, e dunque tutte le rappresenta e a tutte è superiore. Pagando il riscatto per Giuliana Sgrena il governo ha comprato Giuliana.
Per fortuna non è così. E per fortuna la destra italiana, che riesce spesso a vincere le elezioni e anche a imporre pezzi fondamentali del suo pensiero e del suo senso comune (il bigottismo, il gerarchismo, il machismo, il forcaiolismo, l'egoismo) su alcuni temi resta minoritaria e perdente. Per esempio su questo tema: la superiorità del denaro sul pensiero e sullo spirito.
Gli attacchi a Giuliana però non sono venuti solo da "Libero" e da destra. Si sono aperte su di lei discussioni sconclusionate sostenute anche da giornalisti valenti e autorevolissimi. Persino il principe di tutti i giornalisti, Scalfari, è intervenuto e ha rimproverato a Giuliana Sgrena alcuni errori professionali. Quale è stato l'errore di Giuliana? Essere rimasta troppo tempo nello stesso posto (era stata lei stessa, peraltro, a riflettere su questa sua ingenuità). Ma cosa cosa c'entrano le ingenuità coraggiose, come quella di Giuliana, con gli errori professionali? Credo che abbiamo perso del tutto il senso e lo scopo della nostra professione. Fare i giornalisti - mi hanno insegnato da ragazzo, e io ci avevo creduto - serve a informare, a diffondere notizie, conoscenze, verità. L'errore professionale è quando si ignora una notizia importante o se ne da una falsa, o quando si usa in modo arrogante il proprio potere di informare perseguitando qualcuno. Non è un errore professionale - sapevo io - rischiare qualcosa di proprio, forse anche la vita, per scoprire delle cose ancora segrete e per raccontarle ai propri lettori. Per esempio - era questo lo scopo di Giuliana - le infamie di Falluja. Anzi, è segno di grande coraggio, di intrepidezza, di passione. Sono doti delle quali noi giornalisti non sempre siamo ricchi. Non so se ne è ricco Scalfari, io poco. Non so come è abituato lui a comportarsi nei teatri di guerra. Credo però che dovremmo essere grati a Giuliana per averci fatto vedere come si fa. Invece di insolentirla, potremmo dirle: grazie. E' abbastanza facile, non costa niente.
Liberazione cambia giornale, l' Unità cambia direttore. Quella di ieri è stata una giornata alquanto movimentata per i due giornali facenti capo ai due principali partiti della sinistra - l'uno con un rapporto proprietario diretto con Rifondazione comunista, l'altro con un meccanismo indiretto che garantisce alla testata fondata da Gramsci i fondi pubblici per l'editoria dei Ds. Ma mentre il cambio della grafica e del formato di Liberazione era stato annunciato, un po' più a sorpresa è arrivata la soluzione alla lunga guerriglia che da mesi ha contrapposto la direzione dell' Unità all'azionista-ombra dei Ds: il direttore Furio Colombo, difeso dalla stragrande maggioranza della redazione, ha ceduto il passo al suo ex-vice e fedelissimo Antonio Padellaro. «Abbiamo vinto», hanno detto entrambi presentandosi all'assemblea della redazione; lasciando tutti soddisfatti sull'esito della vicenda ma alquanto dubbiosi sulla risposta alla domanda: ma allora chi ha perso? Liberazione è arrivata in edicola in formato «lungo»: l'addio al tabloid per il ritorno a un giornale «più scritto, più da leggere» è proposto dal direttore Piero Sansonetti - ex giornalista de L'Unità, da qualche mese chiamato a rilanciare il giornale bertinottiano in concomitanza con la svolta e il transito del partito verso Unione e governo - come la risposta a un cambiamento di fase e contesto politico. Il tabloid per la battaglia, il «giornalone» per pensare, leggere, portare materiali: una filosofia che ha il suo risvolto pratico-giornalistico più evidente nel ritorno della terza pagina di cultura. A una prima pagina più mobile - con un'apertura, un lungo articolo e due commenti - segue una foliazione più rigida (con la classica partizione tra esteri, politica, economia e lavoro, ecc.). L'articolo scritto in prima pagina ieri dava conto di numeri e schieramenti del congresso di Rifondazione, oggi sarà sulla Cina: «non è di norma legato al `fatto del giorno'», spiega Sansonetti. Che dice di aver avuto ieri solo complimenti, racconta quasi stupito di non aver avuto eccessive ingerenze né pressioni dal partito nelle sue varie correnti e chiede qualche giorno di tempo per fare bilanci.
A qualche chilometro di distanza, nella nuova redazione romana vicino Porta Portese, l'Unità viveva una delle giornate più intense dal 28 marzo 2001, giorno del ritorno in edicola dopo la clamorosa chiusura dell'estate precedente. Il consiglio di amministrazione della Nie (Nuova Iniziativa Editoriale), terminato all'una di notte, aveva emanato il verdetto: Antonio Padellaro è il nuovo direttore dal 15 marzo, Furio Colombo resta come editorialista. Mesi e mesi di braccio di ferro più o meno silenzioso con i Ds, e infine ore e ore di consiglio, per giungere alla più naturale delle successioni? Padellaro ammette che qualcosa non torna: «Eravamo d'accordo per una staffetta, ma non adesso: nel 2006, dopo le elezioni politiche. C'è stata un'accelerazione, il perché non lo so. Oggi Furio scriverà un articolo sul 'perché?', che resta una domanda senza risposta. So però che restiamo tutti e due, che la proprietà ha garantito il rispetto dell'autonomia del giornale, e piena libertà d'azione nella riorganizzazione della redazione a partire dalle strutture di vertice». Il direttore uscente all'assemblea che si è svolta ieri in redazione l'ha spiegata con una metafora: «Per tornare dall'America all'Italia ci vogliano più ore che per tornare dall'Italia in America. Questione di venti contrari». Venti contrari che hanno imposto al direttore che ha riportato in edicola l'Unità un passo indietro.
«Il perché? Chiedetelo ai Ds», ha detto meno diplomaticamente lo stesso Colombo in un'intervista al sito affaritaliani.it. I Ds, insoddisfatti del tono «urlato» del giornale di Colombo-Padellaro già all'indomani della vittoria di Berlusconi, e poi via via più insofferenti nella stagione dei movimenti, quel 2002 dei girotondi cavalcato da l'Unità lancia in resta; i Ds, che per l'Unità (come del resto per l'Unione) temono di essere «portatori d'acqua» senza ricevere niente in cambio; i Ds, che passano all'attacco non appena il vento editoriale cambia un po' e le copie vendute in edicola cominciano a scendere. I Ds, che fino all'ultimo hanno provato a imporre altri nomi, e che alla fine hanno ottenuto la testa di Colombo ma per ritrovarsela solo spostata un po' più in là (come editorialista in esclusiva per il «loro» giornale) e sostituita senza radicali cambiamenti di linea. Che abbiano perso anche stavolta? «In cinque ore di consiglio di amministrazione, non si è parlato mai di Ds», dice Giorgio Poidomani, amministratore delegato della Nie, che ieri sprizzava soddisfazione da tutti i pori. «Il cambiamento del giornale ci sarà, ma con la redazione unita», spiega. Un cambiamento affidato a Padellaro, «che è un ottimo professionista, tutti gli dobbiamo dare l'opportunità di provare la sfida». Dal punto di vista grafico, è pronta una riforma in più tappe, che arriverà al full-color. Quanto ai toni, «già da un po' stavamo sostituendo con un registro più ironico quell'aggressività iniziale che era necessaria per imporci, per far riaffermare l'Unità nelle edicole», spiega Padellaro. Un cambiamento che non sembra una de-colombizzazione. Reggerà? Nella redazione, che è rimasta compatta nella difesa della linea Colombo-Padellaro, serpeggia l'incertezza e il sospetto che tra qualche mese il partito tornerà all'attacco e la proprietà lo seguirà più decisamente. Ma, ammettono in molti, tutto dipende dal verdetto delle edicole. L'idea che il nuovo direttore sia in prova è invece del tutto smentita dal Cdr, che incassa la soluzione trovata ieri come una propria vittoria: «Colombo ha ripristinato all' Unità l'etica di un giornalismo libero, questo resta», dice Enrico Fierro del Cdr, che annuncia anche una «vigilanza» sulla riforma grafica («la fascia rossa resta») e un'iniziativa inedita: l'attivazione di «meccanismi scientifici di controllo sulla diffusione in edicola».
Due settimane fa, esattamente il 16 gennaio scorso, scrissi un articolo pubblicato con il titolo "La lunga battaglia intorno all’embrione". L’occasione era stata la sentenza della Corte costituzionale che, respingendo uno dei quesiti proposti dai promotori del referendum abrogativo della legge numero 40 sulla fecondazione assistita e ammettendone gli altri quattro, ha dato il via alla consultazione referendaria. In quell’articolo facevo alcune considerazioni sulla predetta sentenza e soprattutto sulla controversa questione denominata "i diritti dell’embrione" potenzialmente confliggenti con i diritti dei genitori.
Non tornerò su questo aspetto; tutto ciò che si poteva dire in proposito è stato detto e sarà certamente ripetuto quando si entrerà nel vivo della campagna elettorale referendaria. Ma nel frattempo, il 17 gennaio, si è riunita a Bari la Conferenza episcopale italiana che ha ascoltato e approvato la prolusione del suo presidente, cardinale Camillo Ruini. È proprio di questa prolusione che desidero oggi occuparmi; nelle sue dieci pagine a stampa essa compie una vasta rassegna dei fatti accaduti nei tre mesi trascorsi dalla precedente sessione della Cei toccando temi ardui dal punto di vista teologico e filosofico, per passare a temi di rilevante importanza etica e pastorale, affrontando infine argomenti più propriamente politici sia a livello europeo sia italiano.
Avviene di solito che quando la Cei si riunisce i mezzi di comunicazione, dandone notizia, concentrano la loro attenzione su qualche giudizio, indicazione, prescrizione, concernenti fatti di stretta attualità, trascurando il resto. Raramente la pubblica opinione conosce nella sua interezza gli atti delle riunioni episcopali e il testo della prolusione del presidente.
All’ombra di questo (inevitabile) silenzio della stampa è accaduto nel corso degli anni che l’attenzione della Cei si espandesse quasi senza più confini e coinvolgesse l’attività episcopale in temi del tutto estranei all’evangelizzazione e alla catechesi che sono propri della funzione episcopale.
È anche accaduto che i temi toccati non fossero soltanto estranei ma addirittura preclusi all’intervento della gerarchia ecclesiastica, senza però che tali e a volte macroscopiche interferenze venissero colte per quel che in realtà sono e cioè invasioni di campo da parte della Chiesa di domini di stretta competenza dello Stato e quindi lesivi di quel principio di laicità accettato e solennemente ribadito anche nel concordato che recita infatti: «La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono nel proprio ordine indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti» e ancora: «La Repubblica Italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione».
Questi sono dunque i temi sui quali la Chiesa esercita il suo magistero, ovviamente in concorrenza con altre religioni e culti presenti sul territorio della Repubblica: evangelizzazione, carità, santificazione. Altre questioni che riguardano l’organizzazione della comunità civile, sono viceversa di pertinenza dello Stato e della società che esso rappresenta. Nulla vieta che la Chiesa fornisca ai suoi fedeli (che sono parte integrante della società civile) tutte le indicazioni di principio giudicate coerenti con la fede e la morale cattolica, mentre le è invece vietato ogni sorta di intervento sui comportamenti e le iniziative politiche, riguardanti una sfera di attività di esclusiva competenza delle istituzioni e dei cittadini, siano essi credenti nella fede cattolica o in altre religioni o non credenti affatto.
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Alla luce di queste elementari distinzioni di campo tra attività religiosa e attività diciamo così temporale, sono rimasto sorpreso, dico la verità, dalla versatilità della Cei su una quantità di temi che non la riguardano.
Mentre la prima parte della prolusione Ruini apre la discussione su un argomento del massimo interesse religioso e cioè quello della sofferenza subita senza colpa dall’umanità e del rapporto tra Dio e gli uomini rispetto alla presenza del male nel mondo; e mentre questo tema eterno viene giustamente riproposto dal cardinal Ruini in concomitanza con il maremoto di recente avvenuto nel sud dell’Asia e delle immani rovine da esso cagionate; subito dopo si passa a discutere della Costituzione europea e in particolare della possibile ammissione della Turchia nella Ue e a quali condizioni una decisione in merito potrebbe avvenire.
Capisco che l’ammissione nella Ue d’un Paese quasi esclusivamente musulmano possa destare preoccupazione nella gerarchia cattolica la quale tuttavia, nel testo di Ruini, si limita a chiedere reciprocità in tema di libertà religiosa. Mi pare che ne abbia pieno diritto e che questa richiesta resti nell’ambito dei suoi legittimi interessi.
Molto più stravaganti sono altri temi. Li enumero citando il testo. «Negli ultimi mesi è stata ancora alta la tensione tra gli schieramenti politici ed anche, a fasi alterne, all’interno di ciascuno di essi come pure non di rado tra le diverse istituzioni... L’approvazione di alcune riforme è avvenuta in questa chiave di conflittualità che condiziona inevitabilmente la loro accoglienza e il loro concreto valore».
Personalmente posso anche condividere questo giudizio, più volte del resto enunciato dal presidente della Repubblica. Ma mi domando a che titolo ne parli il presidente della Cei sulla cui bocca parole di questo genere risultano improprie e stonate. Che cosa direbbe il cardinale Ruini se un ministro della Repubblica nel corso di un dibattito parlamentare si esprimesse in merito ad un conflitto, che so, tra la Curia vaticana e l’Ordine dei gesuiti o tra la medesima Curia e l’associazione degli Ordini delle suore, a proposito delle rispettive iniziative e/o dell’autonomia e/o delle competenze richieste da una parte e negate dall’altra? Non griderebbe, e giustamente, il Vicario del Papa alla violazione dei principi concordatari che vietano allo Stato di occuparsi di questioni attinenti alla vita interna della Chiesa? E non si pongono così le premesse, con l’aria di formulare opinioni di comune buonsenso, al progressivo ampliamento della presenza ecclesiale in campi che non la riguardano affatto?
Così per quanto riguarda la legge finanziaria «tesa a stimolare lo sviluppo» ma «sul versante delle famiglie, pur in presenza di alcune misure apprezzabili, i criteri impiegati rimangono però poco idonei a perseguire quella politica organica che sarebbe meglio promossa dall’adozione del quoziente familiare».
Lo ripeto: non contesto il merito di tali indicazioni; ne contesto l’ammissibilità da parte di un’istituzione ecclesiastica la quale non solo non ha titolo ma alla quale è espressamente precluso di inoltrarsi su questo terreno, anche a salvaguardia dell’autonomia e della laicità degli stessi cattolici politicamente impegnati. Ad essi è lecito che la Chiesa ricordi il suo interesse verso la famiglia ma non che prescriva addirittura le specifiche norme che il Parlamento e il governo dovrebbero adottare per render contento l’episcopato italiano.
Stesse osservazioni mi sento di dover fare sulla legge "salva-Previti" nella prolusione di Ruini esplicitamente citata e criticata. Quando ho letto quelle righe me lo sarei abbracciato, il cardinale; ma poi mi sono detto: io posso scrivere dieci articoli contro quell’obbrobrio di legge, ma la Conferenza episcopale non ha alcun diritto di occuparsene ed è dunque mio dovere di cittadino difendere la separazione del potere civile da quello religioso. In un solo caso quest’ultimo può denunciare una legge dello Stato: quando essa violi il principio della libertà religiosa, i diritti dell’uomo e la sua dignità. Può darsi (non sono lontano dal pensarlo) che la "salva-Previti" leda quei diritti violando in particolare quello dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Ma allora bisogna dirlo esplicitamente e non ripararsi dietro «la diffusa perplessità di una legge che genera il sospetto d’aver di mira situazioni di singole persone». È un giudizio troppo severo o troppo poco per giustificare l’intervento della Chiesa su un provvedimento in discussione nel Parlamento della Repubblica.
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Ma vengo all’aspetto più eclatante della prolusione Ruini, fatta propria da tutti i vescovi della Cei. Riguarda il referendum abrogativo della legge 40. Lo ripeto: non entrerò nel merito della questione ma mi limiterò all’analisi del documento del cardinale.
Egli parte da un’affermazione: la legge 40 non soddisfa appieno le esigenze della Chiesa in materia di fecondazione medicalmente assistita; è troppo permissiva per i gusti della gerarchia ecclesiastica. Tuttavia disegna un impianto apprezzabile che, allo stato dei fatti, è il massimo che si possa raggiungere. Ne consegue che ogni modifica di quella legge non può che peggiorarne la qualità dal punto di vista della Chiesa. Perciò essa non va emendata. Bisogna invece mobilitare le coscienze affinché il referendum abrogativo fallisca. La Chiesa farà di tutto perché ciò avvenga e si riserva di decidere, in prossimità della consultazione, quale sia la via migliore da seguire: se votare "no" oppure disertare dal voto e impedire così il raggiungimento del "quorum" necessario per la validità del referendum.
Eminentissimo cardinale, mi auguro che lei e i suoi confratelli non vi siate resi conto d’esservi inoltrati su un terreno all’ingresso del quale è scritto in caratteri cubitali che a voi, proprio a voi, è precluso l’ingresso.
Voi potete dire e ridire fino alla noia che l’embrione è una persona, così come i vostri confratelli di quattrocento anni fa sostenevano che il sole gira intorno alla Terra e misero in catene il grande scienziato che sosteneva il contrario. Ciò che invece non potete assolutamente fare è di prescrivere agli elettori quale sia il modo più efficace per impedire l’abrogazione (parziale) d’una legge attraverso il legittimo esercizio del voto popolare.
Qualche dubbio deve averlo avuto anche lei, caro Ruini, quando a conclusione del suo testo ha scritto: «Siamo consapevoli delle difficoltà che ci attendono e delle critiche cui potremo essere sottoposti. È però doveroso per noi esprimerci con sincerità e chiarezza e siamo sostenuti dalla coscienza di adempiere alla nostra missione».
Lei sarà pur convinto di adempiere alla sua missione prescrivendo agli elettori se debbano votare o no. Ma sta di fatto che con il documento letto a Bari il 17 gennaio lei, presidente della Cei, ha violato gli articoli 1 e 2 del Concordato Lateranense. Se avessimo un presidente del Consiglio di normale sensibilità per le prerogative e la dignità dello Stato, lei avrebbe già ricevuto una nota di protesta dall’ambasciatore italiano presso la Santa Sede.
Ma noi non abbiamo purtroppo un presidente del Consiglio che senta questo tipo di doveri. E infatti egli è proprio colui che ad una Conferenza episcopale così poco riguardosa dei principi di laicità fa più comodo di avere come frontaliere. Posso capirla, caro cardinale, ma deploro profondamente questo modo di procedere.