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Chi crede che Marcello Pera, con un attacco che non ha precedenti nella storia repubblicana, abbia voluto colpire l´odiata «lobby» delle toghe, non ha capito nulla. Il Consiglio superiore della magistratura è solo un finto bersaglio. L´obiettivo vero di questa violenta offensiva del presidente del Senato, stavolta sorprendentemente spalleggiato dal presidente della Camera, sta molto più in alto. Si chiama Carlo Azeglio Ciampi. Contestando il diritto costituzionalmente e giuridicamente garantito del Csm ad esprimere un parere «tecnico» sulla riforma dell´ordinamento giudiziario, il più alto rappresentante delle assemblee degli eletti del popolo delegittima il Capo dello Stato. Di fatto, lo accusa di attentare alla Costituzione.

Secondo Pera, il Csm non può valutare e discutere gli effetti dei provvedimenti di legge discussi o approvati dal Parlamento. Se lo fa, si pone fuori dal perimetro della Costituzione. Si trasforma in una «terza Camera». Si eleva, in quanto potere giudiziario, allo stesso livello del potere legislativo. Viceversa, com´è ormai tristemente noto e come dimostra la rovinosa campagna contro le toghe ingaggiata in questi quattro anni dal Polo, la magistratura è poco più che un «ordine professionale» (come pretendono gli azzeccagarbugli della destra) e non certo un «potere dello Stato» (come invece prevede l´ordinamento costituzionale). Dunque, con i pareri negativi emessi sulla riforma Castelli, e da ultimo con la decisione di mettere all´ordine del giorno anche il cosiddetto «emendamento Bobbio» (aggiunto alla riforma solo per impedire a Giancarlo Caselli di concorrere alla nomina di procuratore nazionale anti-mafia) il Consiglio superiore della magistratura ha compiuto un atto sedizioso. Uno strappo eversivo dell´ordine costituzionale.

Il presidente del Senato sbaglia due volte. Sbaglia la prima volta perché, mentre richiama in chiave restrittiva le competenze attribuite al Csm dall´articolo 105 della Costituzione, si guarda bene dal menzionare l´articolo 10 della legge istitutiva dell´organo di autogoverno dei magistrati, che nel 1958 ha conferito allo stesso Consiglio la facoltà di esprimere pareri su leggi e decreti al ministro Guardasigilli. A questa grave e quanto mai singolare «amnesia» ha dovuto porre rimedio, con tanto di nota ufficiale, il vicepresidente del Csm. Ma Pera non si accontenta. E sbaglia la seconda volta perché, accusando le toghe di aver violato la Carta del ´48, fa finta di dimenticare che è stato proprio Ciampi, appena una settimana fa, ad autorizzare con tanto di firma autografa l´inserimento del parere sull´emendamento Bobbio nell´ordine del giorno della riunione del Csm. Anche a questo ennesimo e inquietante svarione ha dovuto rimediare Rognoni, rammentando un paio di questioni dirimenti che il presidente del Senato non poteva certo ignorare. Quell´emendamento rappresenta un «nuovo innesto» nel corpo di una riforma della giustizia che il Capo dello Stato aveva già rinviato alle Camere per quattro, fondati e rilevanti motivi di incostituzionalità. La discussione del Csm su quell´emendamento, proprio per questo, ha ricevuto «l´assenso formale» del Capo dello Stato.

Nella sortita di Pera si nasconde un sillogismo velenosissimo: 1) il parere del Csm viola la Costituzione; 2) Ciampi ha autorizzato il parere del Csm; 3) Ciampi viola la Costituzione. Non serve essere un cultore di Aristotele per seguire la logica devastante di questo ragionamento. Non serve essere un dotto filosofo della scienza per capire la portata destabilizzante di un´accusa del genere. Semmai c´è da chiedersi perché, in un momento così incerto sulle prospettive del Paese e in una fase così complessa per i suoi equilibri politici, il presidente del Senato accetti il rischio di aprire un conflitto istituzionale irreparabile. C´è da chiedersi perché, dopo aver fatto da sponda misurata e responsabile al Quirinale in questi tormentati quattro anni di legislatura, stavolta persino Casini si sia schierato con Pera, lasciando che sul Colle piovano gli schizzi di fango della delegittimazione. C´è da chiedersi perché, dopo aver incarnato anche sulla giustizia l´anima «moderata» in una coalizione di destra radicale, sfascista e populista, adesso anche l´Udc di Marco Follini abbia cominciato a cantare nel coro insieme a Pera. Alla stessa stregua degli sguaiati «professionisti dell´anti-giustizia». Dei Castelli o dei Cicchitto. Degli Schifani o dei Bondi.

Ogni sospetto è legittimo. Non mancano spiegazioni plausibili, se si volesse limitare la posta in gioco al solo tema della giustizia. Sulla riforma dell´ordinamento siamo alla vigilia di un confronto parlamentare durissimo. Il governo Berlusconi ha appena annunciato la richiesta del voto di fiducia sul provvedimento. Ciampi l´ha già bocciato una volta, per palese incostituzionalità. Da qualche tempo sul Colle trapela anche l´eventualità di un secondo rinvio alle Camere, proprio per la dubbia costituzionalità dell´emendamento Bobbio, nel frattempo inserito nel testo dai falchi della Cdl. L´altolà di Pera, condiviso non più solo da Forza Italia An e Lega ma ora anche dai centristi, potrebbe essere un avvertimento lanciato al Capo dello Stato: se rifiuti per la seconda volta di promulgare la legge, stavolta rischi l´impeachment, perché hai attentato alla sovranità del Parlamento.

L´ipotesi ha una sua indubbia consistenza. Ma vi si colgono i segni di una qualche sproporzione. La riforma Castelli, anche dentro il Polo, non interessa più a nessuno. A parte il ministro-ingegnere che ci si è giocato il cognome, nessuno sembra convinto della sua impellente necessità. Se è così, la sensazione è che Pera, e Casini che gli è andato dietro, abbiano sparato con un cannone per colpire un passerotto. Per capire meglio, è forse più utile ampliare l´orizzonte. E valutare la posta in gioco in una prospettiva più lunga. Ciampi, con la sua saggia fermezza e la sua credibile equidistanza, si è rivelato alla fine della legislatura come il più solido argine alle scorrerie politiche e alle forzature istituzionali del Cavaliere e i suoi «bravi». Ha manifestato una ferrea determinazione a tenere duro fino all´ultimo giorno del suo settennato. Ha palesato una convinta intenzione di sciogliere le Camere a febbraio, per portare l´Italia la voto il 9 aprile e dare al Paese un governo nel pieno delle sue funzioni già a giugno del 2006. Berlusconi è un leader in declino. Umanamente annoiato e politicamente azzoppato. Se ha ancora una chance di sopravvivenza, dopo Palazzo Chigi e oltre la Casa delle Libertà, quella chance si chiama Quirinale. Dietro di lui, chi nutre la speranza di succedergli nella leadership è disposto a dargli una mano, per cercare di sfrattare anzitempo il riottoso inquilino del Colle.

Le ragioni del naufragio laico

Un ragionamento a tutto campo sui risultati dei referendum. Da la Repubblica del 14 giugno 2005

Il risultato del referendum non è solo una sconfitta: è il naufragio di un´Italia laica che si proponeva di cambiare una legge ideologica, per regolare poi diversamente in Parlamento la materia della fecondazione assistita. Questo era il senso della chiamata alle urne, fuori dagli schieramenti, dagli integralismi, dalla retorica apocalittica che ha trasformato assurdamente il voto in uno scontro di civiltà. Le urne sono rimaste deserte. Chi ha trasformato il confronto in uno scontro tutto italiano tra il Bene e il Male, ha poi chiesto ai difensori del Bene di non scendere in campo, per mandare a vuoto la battaglia. Non sappiamo dunque chi sarebbe prevalso, in uno scontro aperto di valori contrapposti, tra il "sì" e il "no". Un dato solo è certo: ha perso chi (come questo giornale) voleva cambiare la legge. Ha vinto chi voleva conservarla e per prevalere ha affondato con ciò che resta del laicismo anche il vecchio istituto del referendum, che per molto tempo scomparirà dalla scena italiana.

Molto era prevedibile, in questa vicenda, tutto era stato annunciato. Proviamo a vedere come, quando e perché. Passata in minoranza, per ammissione dei vescovi, nel Paese «naturalmente cristiano», la Chiesa italiana negli ultimi dieci anni ha preso coscienza di trovarsi «in una terra di missione» e dunque ha deciso di impegnarsi «a rievangelizzare una società che è stata colpita da una vera amnesia della sua storia e della sua identità cristiana». Da qui, un cambio non soltanto di metodo e di strategia, ma di sostanza. La Chiesa, come dice Ruini, «non fa più leva su un soggetto politico di riferimento, ma sui contenuti», dunque agisce politicamente alla luce del sole, senza mediazione. La si "vede" cioè far politica, senza lo scudo dc, che tra le altre cose serviva evidentemente anche a questo.

Fuori dal corridoio protetto in cui scambiavano il partito-Stato democristiano (con le sue autonomie, e le sue obbedienze) e la Curia, nel mondo scoperto di oggi la Chiesa passa da essere tutto a essere parte, in una sorta di moderna "lobbizzazione" che la porta a competere nel confronto politico-culturale come una grande agenzia di valori e di tradizioni, in competizione e in concorrenza con le agenzie che già occupavano il mercato.

Non riuscendo più a parlare all´insieme maggioritario della società, la Chiesa italiana si rivolge alle sue parti sensibili, prima fra tutti la politica che legifera muovendosi tra interessi legittimi e valori di riferimento, e che ha in mano le cinque leve dell´organizzazione sociale che nel febbraio 2001 il Cardinale Segretario di Stato fissò come essenziali per giudicare dal Vaticano la politica italiana: si tratta delle leggi «sulla vita, la famiglia, la gioventù, la libertà scolastica, la solidarietà».

Davanti a sé la Chiesa ha trovato i partiti della Seconda Repubblica, tutti nati o trasformati nel corso dell´ultimo decennio, senza un deposito di storia e di tradizione, un portato di valori consolidati a cui far riferimento. Una politica dove molto è prassi, tutto è contemporaneo, l´identità è incerta. A sinistra, per la tragica eredità del comunismo, la tradizione è inservibile, come se fosse tutta radioattiva. Nel nuovismo, non mancano solo i nomi, ma anche i riferimenti culturali della sinistra europea moderna e risolta, e dunque la battaglia delle idee diventa insicura, senza visione e senza certezza, con il rischio di essere in ogni momento gregaria delle mode culturali dominanti. A destra, il berlusconismo ha fallito l´unica vera ricerca dell´immortalità, che non sta nelle ricette antirughe del dottor Scapagnini, ma nel progetto di dare alla destra una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l´ha mai avuta, democristiano com´era.

In questo quadro, arriva il Dio italiano predicato dalla Cei, una sorta di via italiana al cattolicesimo che non c´era mai stata, nella nazione della "totalità" democristiana e della surroga papale. Fatalmente, o almeno facilmente, la Chiesa a questo punto viene vista da una parte del mondo politico come l´ultima e l´unica agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie terrene del Novecento e il deperimento fisico delle storie politiche che le avevano incarnate. Dall´altro lato, Chiesa e Vaticano vedono l´Italia improvvisamente come un gregge senza guida e senza rotta, soprattutto senza più idee forti, incapace di tradurre la laicità dello Stato in uno spirito repubblicano libero e autonomo: il terreno ideale per sperimentare - ed è la prima volta in cinquant´anni - una sorta di "protettorato dei valori", l´esercizio di un potere non più temporale ma culturale della Chiesa.

Due elementi in più rafforzano questo quadro. Da un lato, come fa notare Habermas, il ritorno in tutta Europa della religione dal dialogo privato al dibattito pubblico, un ritorno che prende in contropiede il laicismo e che papa Ratzinger aveva già annunciato da cardinale, negando che il cattolicesimo sia solo un sentimento privato: «È una verità proclamata in ambito pubblico, che pone per la società delle norme e che, in una certa misura, è vincolante anche per lo Stato e per i potenti di questo mondo». Dall´altro lato, l´avanzare nel nostro Paese di quel nuovo soggetto che tre anni fa ho chiamato "lo strano cristiano", l´ateo clericale che cerca di saldare la destra politica italiana ad un pensiero forte che non ha, e lo trova nel deposito di tradizione della Chiesa, ignorando sia i suoi comandamenti che la sua trascendenza che la sua predicazione sociale, cavalcando però la sua legge morale tradotta in norma, come creatrice di un´identità collettiva e di una società del Bene.

È il rifiuto della distinzione tra la legge del Creatore e la legge delle creature, che sta a fondamento di ogni moderna concezione della laicità. È il rifiuto ratzingeriano del relativismo tradotto dal linguaggio culturale nel linguaggio politico, persino legislativo: superando l´idea del Parlamento come luogo dove le leggi si fanno con l´unica regola della maggioranza, e dove ogni verità è parziale, come ogni credo in democrazia. Al fondo, c´è la denuncia della nuova religione europea del "politicamente corretto", dell´adorazione "pagana" per i diritti subentrati ai valori, del cuore socialdemocratico del Novecento che ha messo per troppo tempo in circolo lo statalismo e la laicità, mentre la nuova cultura cristiana di destra è la vera interprete di un senso comune del post-moderno. È l´idea di Ruini del cristianesimo come seconda "natura" italiana: che può dunque essere trasgredito e rinnegato solo da leggi in qualche modo contro natura, quindi contestabili alla radice.

Ecco il quadro in cui è nata non la legge sulla fecondazione artificiale, ma "questa" legge, che ha un valore ideologico e di bandiera ben superiore al valore d´uso. Ed è lo stesso quadro in cui è fallito il referendum. Sarebbe certo sbagliato dare alla Chiesa e ai nuovi atei clericali il potere di mobilitare nel silenzio il 75 per cento degli italiani, ed è ridicolo pensarlo. Da dieci anni i referendum non raggiungono il quorum, l´astensionismo fisiologico è altissimo. In questo caso, c´è probabilmente un riflesso automatico in più, che esce dalle logiche della politica: la legge sulla fecondazione è stata vista dagli italiani come una complicata questione di piccola minoranza, che non li riguardava e che non riuscivano a padroneggiare nei suoi aspetti etici e scientifici. Se questo è vero, l´astensionismo più che difendere la legge ha voluto lasciare la parola al Parlamento, dove oggi dovrebbe riaprirsi un confronto finalmente non più propagandistico.

Ma detto questo, non si è detto tutto. Nel disorientamento degli italiani davanti alla materia del referendum, le parole della Chiesa, dei neo-con italiani, degli atei clericali hanno pesato di più delle parole di quel pezzo di sinistra che ha sostenuto il "sì", dei suoi leader, dei suoi scienziati. Il centrosinistra, tutto insieme, dovrebbe riflettere: o trova un´identità culturale, visto che è incapace di trovare quella politica, oppure perderà le grandi sfide di questa fase, che nascono tutte dalla battaglia delle idee, più che dagli schieramenti. Non si può reggere una partita in cui la sinistra parla di sé, mentre la destra parla della vita e della morte. Esistono valori, esistono diritti che la sinistra può testimoniare a testa alta nel mondo di oggi, anche dopo la sconfitta del referendum, perché fanno parte della sua storia: sfidando la destra ad una vera battaglia culturale in campo aperto, senza l´aiuto pagano di Ponzio Pilato.

Franz Muntefering, presidente del Partito Socialdemocratico tedesco, intervenendo nel dibattito sul Capitalismo e riferendosi in particolare al funzionamento della finanza, ha descritto gli operatori finanziari come “sciami di locuste che piombano sulle imprese spogliandole prima di spostarsi altrove”. Commentando criticamente quell'uscita e quel dibattito “The Economist” arriva a confrontarli con la retorica nazista contro il Capitalismo. Tanta violenza sorprende in una pubblicazione di orientamento liberale che, pur manifestando sempre con nettezza il proprio pensiero, usa in genere, moderare i toni.

Un paio di anni fa Claud Bèbèar, gran Patron di Axa e principe della finanza mondiale, ha rilasciato una lunga intervista in un libro dal titolo “Uccideranno il Capitalismo”.

E non si riferiva ai comunisti ma proprio ai capitalisti ed in particolare al mondo della finanza, che conosce benissimo e della quale narrava tutte le storture e le nefandezze.

Ma per trovare una critica così dura del capitalismo contemporaneo gli uomini di “The Economist” non avevano bisogno di andare lontano bastava leggessero… “The Economist”, ed in particolare il supplemento del Giugno del 2003 dal titolo “Capitalism and Democracy”. In esso venivano anche citati una serie di testi di orientamento liberale, i titoli di alcuni dei quali - “Salvare il Capitalismo dai capitalisti”, “Stato prigioniero”, “Fine del Governo”, “Ricchezza e Democrazia” - di per sé danno conto di una critica del Capitalismo contemporaneo non meno radicale del riferimento alle locuste.

In quel supplemento “The Economist” sottolineava una serie di fenomeni - “Un mucchio di scandali societari, risentimento per una straordinario ampliamento delle ineguaglianze di reddito e di ricchezza nei paesi ricchi, un terrificante buco nei conti pensionistici di milioni di persone e, più cruciale di tutto, una montante disillusione sulla capacità delle Istituzioni democratiche di fare rispondere i colpevoli delle loro colpe” - che, a suo parere, rimettono in discussione il rapporto tra Capitalismo e Democrazia. È cambiato così tanto il Capitalismo in questi ultimi mesi secondo “The Economist”?

Ciò detto bisogna anche dire che un problema per la Sinistra probabilmente esiste e sta nel divario tra una critica del capitalismo contemporaneo, che diventa sempre più dura, e la capacità di portare avanti proposte di riforma adeguate. Si potrebbe anche dire che c'è il rischio di passare da un atteggiamento di riformismo debole e, tutto sommato, subalterno, incapace di mobilitare il consenso di persone afflitte da un crescente senso di insicurezza, alla semplice denuncia demagogica e populista.

Per riformismo debole si può intendere l'accettazione dell'idea che le “riforme strutturali” si riducano a quella del mercato del lavoro e a quella dei sistemi pensionistici. Non per dire che questi problemi non esistono. Ma già a tal proposito bisognerebbe distinguere nettamente la strada seguita per la riforma del mercato del lavoro da Thatcher e Reagan da quella seguita, con successo, per esempio, dai socialdemocratici svedesi.

Per quanto riguarda le pensioni bisognerebbe tener presente che proprio i paesi che per primi hanno avviato e predicato la riforma attraverso la parziale privatizzazione dei sistemi pensionistici, sono ora costretti a riformare la riforma anche a causa dei famosi “buchi terrificanti”. Bush tenta di farlo puntando a demolire definitivamente il sistema di sicurezza sociale seguendo una concezione della democrazia per la quale, come diceva la Thatcher, la società non esiste ed esiste soltanto l'individuo. Ma non è detto che il Governo inglese non segua un'altra strada che fa leva sulla ridefinizione ed il rilancio del ruolo redistributivo della componente pubblica del sistema.

In ogni caso non è su queste questioni che si focalizzano le spietate analisi di orientamento liberale ma su fenomeni quali l'aumento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza, il modo come vengono governate le imprese, i meccanismi di incentivazione degli executives, il distacco tra finanza e economia reale e la tendenza ad operare con un'ottica di breve periodo, i conflitti di interesse, lo scarso bilanciamento del potere nella struttura economica e la conseguente tendenza del mondo degli affari a prevaricare la politica dalla quale scaturisce la menomazione della democrazia. A questo complesso di problemi, dei quali la Sinistra sta prendendo consapevolezza con un certo ritardo, si può rispondere non semplicemente con la riforma delle pensioni o del mercato del lavoro ma con una riforma del Capitalismo.

Per la Sinistra sarebbe importante ora definire una teoria positiva dell'impresa e del mercato che vada oltre il riconoscimento del loro ruolo, quasi come un male necessario, fatto decenni fa a Bad-Godesberg dalla socialdemocrazia tedesca. Il mercato è uno spazio di libertà, luogo insostituibile dove gli individui possono promuovere e convalidare, nel rapporto con la società, le proprie aspirazioni ed i propri talenti ed è perciò in grado di produrre incessantemente innovazione. Ma la misura in cui esso può esercitare una tale funzione dipende dalla volontà di porre limiti alla concentrazione della ricchezza e del potere. Formulare una tale teoria dell'impresa e del mercato implica perciò la consapevolezza che essa risulterà opposta a quella dominante da un paio di decenni, che riduce l'impresa ad una semplice sommatoria di contratti individuali governati dalla proprietà, il cui unico scopo sarebbe quello di produrre profitto.

Il grande merito del Riformismo del Novecento è stato di dimostrare che l'alternativa “il Capitalismo o si gestisce così come è o si abbatte” era infondata. Il Capitalismo si può riformare. E se il motore della riforma nel Novecento fu la Sinistra politica e sindacale, personaggi liberaldemocratici quali Keynes e Beveridge dettero un contributo di idee determinante. E non è detto che un tale incontro non possa ripetersi nella risposta ai problemi di oggi.

la società non esiste ed esiste soltanto l'individuo. Ma non è detto che il Governo inglese non segua un'altra strada che fa leva sulla ridefinizione ed il rilancio del ruolo redistributivo della componente pubblica del sistema.

In ogni caso non è su queste questioni che si focalizzano le spietate analisi di orientamento liberale ma su fenomeni quali l'aumento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza, il modo come vengono governate le imprese, i meccanismi di incentivazione degli executives, il distacco tra finanza e economia reale e la tendenza ad operare con un'ottica di breve periodo, i conflitti di interesse, lo scarso bilanciamento del potere nella struttura economica e la conseguente tendenza del mondo degli affari a prevaricare la politica dalla quale scaturisce la menomazione della democrazia. A questo complesso di problemi, dei quali la Sinistra sta prendendo consapevolezza con un certo ritardo, si può rispondere non semplicemente con la riforma delle pensioni o del mercato del lavoro ma con una riforma del Capitalismo.

Per la Sinistra sarebbe importante ora definire una teoria positiva dell'impresa e del mercato che vada oltre il riconoscimento del loro ruolo, quasi come un male necessario, fatto decenni fa a Bad-Godesberg dalla socialdemocrazia tedesca. Il mercato è uno spazio di libertà, luogo insostituibile dove gli individui possono promuovere e convalidare, nel rapporto con la società, le proprie aspirazioni ed i propri talenti ed è perciò in grado di produrre incessantemente innovazione. Ma la misura in cui esso può esercitare una tale funzione dipende dalla volontà di porre limiti alla concentrazione della ricchezza e del potere. Formulare una tale teoria dell'impresa e del mercato implica perciò la consapevolezza che essa risulterà opposta a quella dominante da un paio di decenni, che riduce l'impresa ad una semplice sommatoria di contratti individuali governati dalla proprietà, il cui unico scopo sarebbe quello di produrre profitto.

Il grande merito del Riformismo del Novecento è stato di dimostrare che l'alternativa “il Capitalismo o si gestisce così come è o si abbatte” era infondata. Il Capitalismo si può riformare. E se il motore della riforma nel Novecento fu la Sinistra politica e sindacale, personaggi liberaldemocratici quali Keynes e Beveridge dettero un contributo di idee determinante. E non è detto che un tale incontro non possa ripetersi nella risposta ai problemi di oggi.

EScalfari Perché vogliono un Papa subito

Il commento di un laico con il senso del religioso. Da la Repubblica del 10 aprile 2005

IL GIORNO dopo la vita continua e ci mancherebbe che non continuasse. In San Pietro si celebra la seconda messa dei Novendiali in suffragio del Papa morto. Il Comune di Roma informa che in due ore sono state sgomberate 250 tonnellate di rifiuti (e sarebbe una bellezza se miracoli del genere accadessero tutti i giorni). Non ci sono stati per tutta la giornata e la notte dei funerali né furti né atti di violenza. Il presidente dello Stato di Israele ha dato la mano all´iraniano Khatami e al siriano Assad, ma nessun fotografo è riuscito purtroppo a immortalare l´avvenimento.

La vita continua. Appena tornati in patria sia Khatami sia il ministro degli Esteri di Israele hanno vigorosamente smentito che la supposta stretta di mano sia mai avvenuta e comunque – precisano a Gerusalemme – l´Iran degli ayatollah resta il nemico numero uno dello Stato ebraico. Bush, attraverso il suo portavoce, ha censurato Clinton per aver rilasciato a Roma un´intervista sul Papa defunto. Carter dal canto suo attacca Bush per non averlo incluso nella delegazione americana ai funerali.

La vita continua. Berlusconi spedisce a Fini una lettera redatta da Gianni Letta e da Matteoli (ministro di An), rivista preventivamente dallo stesso Fini e letta al telefono anche a Bossi per averne l´approvazione.

Tutti contenti: il presidente del Consiglio promette ai riottosi alleati tutto quanto essi domandano e considera perfino l´ipotesi di una meditazione sulla devolution. Seguiranno gli atti alle parole? Riprende la telenovela della verifica permanente? Quello che sembra purtroppo certo è che il Paese continuerà ad essere sgovernato.

La vita continua. Le televisioni mandano in onda le immagini del matrimonio tra Carlo d´Inghilterra e Camilla.

Dopo i paramenti rossi dei cardinali sono di scena i deliziosi cappellini multicolori delle dame invitate alla cerimonia reale.

Nel frattempo in Vaticano si moltiplicano i contatti tra i porporati in vista dell´imminente Conclave. Sembra che il cardinal Tettamanzi perda terreno come pure il brasiliano Hummes e l´arcivescovo di Vienna.

Guadagna invece qualche posizione Ratzinger, settantottenne con molti acciacchi e principe di dottrina della fede. Il "totopapa" dilaga.

Alcuni giornali interpellano e stampano i responsi dei propri redattori sul nome del successore di Wojtyla. Il Foglio scrive che la risposta alla sconfitta della destra nelle elezioni regionali è data dai tre milioni di pellegrini accorsi a Roma per rendere omaggio a Wojtyla; l´articolo è ironico ma il nesso resta incomprensibile.

La vita, per grazia di Dio, continua.

* * *

La settimana che si è chiusa ieri è stata densa di emozioni e di premonizioni.

Quella che si apre domani non lo sarà di meno perché l´orbe cattolica aspetta il Papa nuovo.

Il funerale di Giovanni Paolo II ci ha dato uno spettacolo liturgico irripetibile, una dimostrazione di forza spirituale e temporale senza eguali, il senso plastico di un´autorità con duemila anni di storia alle spalle che ora è arrivata all´incontro-scontro con la modernità.

Appuntamento suggestivo, di dimensioni planetarie, dominato dal messaggio evangelico del "Dio c´è" e del "Christus regnat" in contrasto con il contromessaggio latente del "Dio è morto" e dell´assunzione della coscienza individuale di guidare le proprie azioni e dare un senso alla vita e alla morte prescindendo dalle verità rivelate delle religioni.

Al di là della forza liturgica che ribadisce la continuità della tradizione e del cambiamento, al di là della premonitrice tempesta di vento che ha sconvolto e ravvivato i mantelli purpurei dei cardinali e le pagine del Vangelo deposte sul feretro del Papa morto, il tocco conclusivo di quella giornata è stato il coro di centomila voci in gran parte giovani che hanno scandito per tredici minuti «Santo subito», rimbalzando su un miliardo di persone incollate ai teleschermi in tutte le parti del mondo.

«Santo subito». La richiesta cozzerà contro le norme canoniche che richiedono, per beatificare e santificare un Papa, procedure ancora più complesse e lente di quanto previsto per una semplice persona in odore di santità. Ma non è questo il punto.

Karol Wojtyla sarà proclamato beato e santo molto rapidamente rispetto ai tempi finora in uso nella Chiesa.

Il punto è quello di capire perché sia stata scandita e gridata quella richiesta da un coro immenso propagatosi dovunque e dovunque condiviso. A quale bisogno urgente e profondo quella richiesta corrisponda. Quale vuoto essa debba colmare. Perché una cosa è certa: l´invocazione del «Santo subito» denuncia un vuoto immenso che Giovanni Paolo II ha cercato di colmare con la sua predicazione itinerante e che si è immediatamente riaperto nel momento della sua morte, vissuta dalla moltitudine come un abbandono.

«Santo subito» per colmare quel vuoto, per superare quell´abbandono, per indirizzare verso di lui il flusso delle preghiere. Ma non c´è Dio cui i fedeli possano rivolgersi? Non c´è Cristo, suo figlio "che vive e regna nei secoli dei secoli"? Non c´è la madre di Gesù, assunta immacolata in cielo, possente intermediaria tra mondo e paradiso? Perché dunque una richiesta così martellante, così imperativa, così disperatamente gridata verso i porporati allineati in perfette composizioni geometriche sul sagrato della Basilica e verso un cielo gravido di pioggia e di vento? Ho letto l´articolo pubblicato ieri di Pietro Scoppola, che conosco come cattolico d´intensa fede e dottrina. Ne riporto un passo che mi ha molto colpito.

"Dopo l´ossessione mediatica dei giorni della malattia e poi di fronte alla solenne celebrazione in piazza San Pietro e alla città invasa dai pellegrini di ogni parte del mondo, sentivo un inconfessabile desiderio alternativo e ho tentato di realizzarlo. Sono andato a messa nella mia parrocchia; in una chiesa quasi deserta un giovane prete ha letto il Vangelo di Giovanni nel quale si narra il famoso episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

«La gente diceva: questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo. Ma Gesù, capendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo». Mi pare che quel «tutto solo» sia lo spazio della coscienza, del rapporto interiore con il mistero di Dio; mi pare quello sia l´antidoto alla tentazione di trasformare una manifestazione di fede spontanea, bella e vissuta, in un segno di potenza".

Questo è, se andiamo al nocciolo della questione, il bivio di fronte al quale si trova ora la Chiesa dopo Wojtyla: come porsi di fronte alla modernità del mondo di oggi. Come riempire il vuoto di tante anime colpite da un sentimento di abbandono del quale la morte di Giovanni Paolo è soltanto l´ultimo segnale, ma che è nato molto prima di lui.

La risposta dei laici è nota e non starò qui a ripeterla ancora una volta.

Ma la risposta degli uomini e delle donne di fede qual è? Morto un Papa se ne fa un altro. Dopo un santo se ne fa un altro ancora e da questo punto di vista Giovanni Paolo ha creato santi e beati in tale quantità da aver intasato i recessi del Paradiso. Ma qui, nel caso che direttamente lo riguarda, la questione è diversa. Giovanni Paolo si è identificato con Cristo al punto di averne rivissuto il calvario in tutte le sue stazioni. Nell´omelia funebre pronunciata in presenza della sua bara ancora insepolta il cardinale Ratzinger ha portato questa identificazione fino al punto estremo, configurandolo affacciato alla finestra che dal paradiso si apre sul mondo, insieme alla Madonna cui la Chiesa lo affida. A pochi metri di distanza dal sagrato della basilica il gruppo michelangiolesco della Pietà raffigura nel marmo la madre di Gesù che stringe tra le braccia il corpo straziato del Figlio senza vita.

In realtà il popolo di Dio sente il vuoto della coscienza e invoca, per riempirlo, il ritorno d´un Cristo incarnato.

«Subito». Questa in realtà è la sfida che la Chiesa del dopo Wojtyla ha dinanzi a sé. Per la salute delle anime c´è da augurarsi che non cada in tentazione e segua piuttosto l´esempio del Gesù del Vangelo di Giovanni che di fronte alla folla osannante si ritira sulla montagna tutto solo a pregare il Padre.

Non si cura il vuoto delle coscienze creando altri idoli, ma svegliando nelle persone il senso della responsabilità di fronte alla vita, che la morte restituisce come cenere alla cenere.

Caro Direttore,

la questione, posta da un intervento di Franco Cardini sul vostro giornale, della trasversalità di alcuni intellettuali italiani, che non si capisce se sian di destra, di sinistra o di nulla, ha varie cause fra loro intrecciate.

In Italia esistono due nodi prepolitici, che attengono all’essenza stessa delle liberaldemocrazie, che riguardano, o dovrebbero riguardare tutti i cittadini in quanto tali e quindi di qualunque ispirazione politica.

La liberaldemocrazia, com’è noto, rinuncia, a differenza della democrazia socialista, all’uguaglianza sociale, anzi la aborre, ma è ferma, come un macigno, su quella formale, cioè sull’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che del resto è la premessa di ogni Stato di diritto. Il governo Berlusconi ha varato numerose leggi «ad personam», per salvare il premier e i suoi amici da quelli che, eufemisticamente, vengono chiamati i loro «guai giudiziari», instaurando così un doppio diritto, uno per lorsignori l’altro per i poveracci, com’era in epoca feudale. Già solo per questo si può dire che noi non viviamo più in una democrazia.

La seconda questione riguarda l’assetto dell’informazione televisiva. In un’epoca in cui tutti si dichiarano liberali e liberisti, fanno visite genuflesse alla City londinese a Wall Street, inneggiando al libero mercato anche in settori in cui gli si dovrebbe tagliare un po’ le unghie, il libero mercato manca proprio nel ganglio più delicato e decisivo per una moderna democrazia: quello televisivo. Da anni esisteva un oligopolio che, nel corno pubblico, era occupato, del tutto arbitrariamente, da partiti, e che dalle elezioni del 2001 è diventato un monopolio sotto il diretto controllo del premier.

Una mostruosità che esiste solo nelle dittature e che dovrebbe far rizzare i capelli in testa innanzitutto ad ogni animuccia liberale e liberista. E invece abbiamo visto liberali patentati, come Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ostellino, non fare un plissé.

Ma anche l'establishment di sinistra è stato debole, debolissimo, sia sulla questione della concentrazione televisiva sia su quella delle leggi «ad personam». Ad opporsi sono stati piuttosto i cosiddetti «girotondi». In piazza San Giovanni, contro la Cirami eravamo a un milione di persone che non appartenevano certo tutte al «popolo della sinistra». Si trattava di cittadini, di varie ideologie o di nessuna, che ritenevano umiliante ed inaccettabile essere considerati dei paria invece che dei pari. Eppure ho sentito più volte autorevoli esponenti della sinistra parlare con disprezzo dei «girotondini» («Non mi avrà mica preso per un girotondino?»). A costoro, come alle destre, va ricordato che si può, ovviamente, non essere d’accordo con i «girotondi», ma che «il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi» per manifestare le proprie opinioni (art. 17 Cost.) è un diritto politico primario del cittadino, più importante ancora del voto, perché vi agisce direttamente, in prima persona, mentre col voto indirettamente, attraverso rappresentanti che, spesso, per non dir quasi mai, lo rappresentano.

E qui ci avviciniamo alle altre cause di quella che viene definita «trasversalità» e che io chiamo piuttosto «distanza» sia dalla destra che dalla sinistra. Nella «democrazia reale», che sta a quella ideale come il socialismo reale sta a quello ideale, le leadership dei partiti politici si sono venute configurando come delle minoranze organizzate, delle oligarchie, che schiacciano e opprimono proprio quel cittadino singolo, libero, che non accetta umilianti assoggettamenti feudali di cui il pensiero liberale voleva valorizzare, capacità, meriti, potenzialità e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Le oligarchie politiche democratiche sono delle aristocrazie senza qualità (l’unica loro qualità è quella, tautologicamente, di fare politica) e senza nemmeno gli obblighi delle aristocrazie. Divenuto il grosso dell’elettorato un indifferenziato ceto medio, quella politica è l’unica classe rimasta su piazza e il suo interesse primario, e quasi unico, è autotutelarsi, con i privilegi connessi (si pensi ai vergognosi salvataggi in Parlamento di Previti e Dell’Utri).

Infine destra e sinistra, liberalismo e marxismo, con le varie declinazioni, sono categorie vecchie ormai di due secoli e non più in grado di comprendere, nè tantomeno di gestire, la realtà e le mutate esigenze degli individui. non che siano del tutto obsolete. Io faccio l’esempio del treno. Noi siamo su un treno che va a 800 all’ora e che è costretto, per esigenze interne al suo meccanismo, ad aumentare costantemente la velocità. Su questo treno c’è chi è seduto su comode poltrone (ma anche costui è sballottato e frastornato dalla velocità del treno), chi in seconda classe, chi sugli strapuntini, chi sta nei corridoi, chi nei cessi, chi mezzo fuori dai finestrini mentre molti rotolano giù nella scarpata. Per cui una migliore e più equa sistemazione dei viaggiatori ha ancora un senso. Ma la domanda di fondo è diventata un’altra: dove sta andando il treno? Dove ci sta portando la missilistica locomotiva chiamata Modernità, con le sue stritolanti esigenze produttiviste, economiciste, globalizzanti? Destra e sinistra, figlie entrambi della Rivoluzione industriale, non sono in grado di mettere in discussione la Modernità perché in essa sono nate e in essa si sono affermate e quindi per loro significherebbe tagliare le proprie radici. Io sto invece proprio all’interno di quella domanda, oltre la destra e la sinistra. E non credo di essere il solo se devo dar retta al successo «trasversale» dei miei libri e al pubblico, trasversale, che è venuto a vedere a teatro il mio Cyrano, se vi pare..., che questi temi tratta.

Poiché, in Italia, pressocché tutti i giornali sono schierati, a destra o a sinistra, sono costretto ad essere «trasversale», accettando di scrivere per chiunque mi dia ospitalità. Come, in questo caso l’Unità. Cosa di cui ti sono grato.

Drammatizzare. Bisogna drammatizzare la posta in gioco, il conflitto, il risultato che si vuole ottenere, se si ha a cuore la qualità della democrazia italiana: bocciare col referendum la riscrittura della Costituzione che il centrodestra sta facendo in parlamento. E che porterà a compimento, perché sua è la maggioranza, suo il calendario, sua la scelta di quando approvare in senato il testo emendato alla camera - prima delle regionali, se la Lega ne ha bisogno - e di quando fissare il referendum - magari non prima ma dopo le politiche del 2006.

In parlamento, l'opposizione è impotente: «in commissione noi contestiamo ogni articolo, loro tacciono e votano», questa è la situazione descritta dal capogruppo ds Gavino Angius. Seminario fra costituzionalisti e politici organizzato dal Centro studi per la riforma dello Stato: due ore di discussione intensa e senza rete. Alla drammatizzazione invita già il presidente del Crs, Mario Tronti. Tutti gli altri, giuristi e senatori, accettano l'invito senza riserve. Unanime è infatti il giudizio sul progetto di revisione della Cdl: un' aggressione alla storia e alla pace costituzionale, secondo Andrea Manzella; un mutamento di regime in cui ne va della democrazia, secondo Luigi Ferrajoli; una svolta in senso non democratico e non liberale, secondo Umberto Allegretti. Meno unanime, si capirà via via, è l'idea di come argomentare la battaglia referendaria: perché se gli argomenti contrari alla riforma sono comuni, sul che fare della Costituzione del `48, se difenderla e basta o proporne una revisione diversa da quella del centrodestra, e quale, a sinistra ci si divide come ormai da una quindicina d'anni in qua.

Perché la riforma sia da respingere in toto si sa, e comunque Manzella ne illustra uno per uno tutti i punti che, presi insieme, fanno saltare ogni garanzia costituzionale: un bipolarismo «feroce», un parlamento derubricato a mera funzione consultiva del governo come nel Medioevo, un premier che assomma tutti i poteri («quelli del presidente americano e quelli del cancelliere tedesco», sintetizza Leopoldo Elia), un presidente della Repubblica e una corte costituzionale alterati, la magistratura privata della sua autonomia. Massimo Luciani sottolinea: con questa riforma il potere di revisione passa anch'esso nelle mani della maggioranza; il procedimento legislativo diventa impraticabile; i diritti fondamentali, regionalizzati, diventano ineguali. Vere e proprie frane dell'equilibrio sociale, oltre che istituzionale, che non dovrebbe essere difficile «comunicare» all'opinione pubblica nella battaglia referendaria. Purché ci si arrivi, dice Elia, «con meno ingegneria costituzionale e più costituzionalismo».

Il che vuol dire con una sana autocritica, domanda senza mezzi termini Ferrajoli, di come il problema della Costituzione è stato affrontato nell'ultimo quindicennio anche nella parte maggioritaria del centrosinistra. Che non solo ha via via partorito progetti di revisione simili anch'essi improntati alla governabilità e alla personalizzazione della leadership. Ma più in profondità, argomenta Mario Dogliani, ha subordinato la revisione dell'ordinamento alla risoluzione del problema della forma della coalizione, dei rapporti fra i partiti al suo interno, della costruzione della leadership: cruciale e imperdonabile confusione fra il piano istituzionale e il piano politico. Confusione analoga a quella che, secondo Pierluigi Petrini della Margherita, ha fatto sì che nei primi anni `90 si attribuisse alla revisione costituzionale il potere di risolvere il terremoto politico della transizione. Senza peraltro arrivare neanche ad arginare con adeguati correttivi istituzionali il mutamento innescato da quel terremoto. Sicché il maggioritario ha fatto fuori molti dei vecchi dispositivi di garanzia senza che ne venissero inventati di nuovi. E il parlamento, tanto per parlare dell'istituzione che più uscirebbe compromessa dalla riforma della Cdl, già adesso e non da adesso, sottolinea Massimo Villone, si trova a essere esautorato di molti suoi poteri.

Che fare dunque, oltre che bloccare la riforma della Cdl? Attestarsi sulla difesa della Costituzione del '48 è secondo i più l'unica strada percorribile(«resistenza costituzionale», la chiama Domenico Gallo). Non così però secondo Gavino Angius. Che pure è convinto che «la posta in gioco storica e politica di fondo» della riforma costituzionale sia stata sottovalutata a sinistra; ma sostiene - e come lui Antonio Cantaro - che una pura posizione di resistenza sarebbe perdente, e significherebbe «dire che per vent'anni abbiamo preso solo un grosso abbaglio» con le ipotesi di riforma via via avanzate. Il fatto è che la direzione di una riforma alternativa a quella della Cdl è tutt'altro che chiara e condivisa. Sostiene Angius che un punto di mediazione, nel centrosinistra, è stato ormai raggiunto e si chiama bozza Amato. La stessa di cui Ferrajoli aveva chiesto, «per carità di patria, di non parlarne più».

La relazione di apertura di Mario Dogliani

A vederla così smagrita, addosso un abituccio verde che nessuno le conosce, pallida e certo spaventata, il cuore ci si stringe, in redazione molti non trattengono le lacrime. Ma il video firmato da un'improbabile sigla - mujaheddin senza frontiere (quasi un'ironia verso le tante organizzazioni occidentali che si nominano così ) - è stato recapitato all'hotel Palestine a Baghdad: è un segnale che Giuliana è viva. Dopo due settimane di silenzio e incertezza totale è già qualche cosa. Di più di quanto non abbia fino ad ora ottenuto Libération per Florence Aubenas, sparita da quaranta giorni con il suo interprete Hussein Hanoun, senza che mai nessuno si sia fatto vivo. Ci chiedono se in questa immagine così drammatica la ritroviamo. Direi senz'altro di sì: le prime parole che pronuncia sono proprio sue, quelle che ha sempre detto: «Sono venuta qui per testimoniare di questo popolo che muore ogni giorno». E poi parla dei bambini, dei vecchi, delle donne violate, delle cluster bombs. Sono le stesse parole che ha scritto fino a quando non è stata rapita, ogni giorno dando voce a chi in Iraq non ce l'ha. Per far capire che a non voler l'occupazione è il popolo, tutto il popolo iracheno, quelli che hanno deciso di esprimersi con le armi, quelli che hanno scelto di dirlo con il voto, quelli che hanno perduto tutto e restano a piangere i loro morti nelle tende dove, a migliaia, sono stati collocati i rifugiati. Gli ultimi che Giuliana ha visto, prima di esser portata via nei pressi della moschea dove stanno ammassati quelli di Falluja. Ripete che la presenza straniera porta sofferenze e violenza, che occorre porre fine all'occupazione se si vuole porre fine alla violenza.

Nonostante il timbro turbato della sua voce, che a momenti rompe in un singhiozzo, è proprio la nostra Giuliana.

L'angoscia più forte ce la dànno le ultime frasi, quando si appella direttamente al suo compagno, Pier. Non perché non sia naturale - chi non lo farebbe in quelle condizioni? - ma perché in questa particolare richiesta di aiuto al suo uomo emerge con maggior evidenza la sua personale, umanissima condizione di donna prigioniera, sul collo il fiato pesante della condanna a pagare per le colpe di chi pure lei stessa ha sempre combattuto.

Le ultime frasi di Giuliana si rivolgono a chi è impegnato a preparare la manifestazione, per liberare lei e con lei la pace: quelli- dice - «con cui ho sempre lottato». Sembra quasi che Giuliana sappia di sabato 19. Da questo tristissimo video è lei stessa che ci invita tutti a raddoppiare gli sforzi per porre fine alle sofferenze del popolo iracheno e alle sue, per liberare ambedue.

Noi non possiamo decidere di ritirare le truppe italiane dall'Iraq, i rapitori di Giuliana lo sanno benissimo. Possiamo però dimostrare, con l'ampiezza della protesta, che la grande maggioranza del popolo italiano vuole porre fine all'occupazione.

L'Europa dei governi è divisa, o reticente. Ma l'Europa dei popoli - lo hanno dimostrato i sondaggi - è tutta, persino all'est dove i governi sono i meno autonomi dal ricatto americano - unita nel dire no alla guerra. Se non tutti i governi hanno recepito questa richiesta; se non hanno espresso quel che vuole la maggioranza dei loro cittadini; se solo una minoranza in alcuni parlamenti - ma in quello italiano una minoranza assai larga e per la prima volta unita - si è fatta interprete della propria opinione pubblica, vuol dire solo che c'è qualcosa che non funziona nella nostra democrazia.

Chi ha insistito per tanto tempo e con tanta petulanza sulla necessità che la sinistra si dia un progetto di governo ambizioso e concreto non può non esprimere soddisfazione di fronte all´accoglienza che la proposta di una Conferenza programmatica disegnata sul modello della "Convenzione" per la Costituzione europea sta avendo nel partito dei Democratici di sinistra.

Mi pare chiaro ormai il senso della proposta: non un dizionario esaustivo dell´universo mondo ma un´intesa chiara e salda raggiunta prima nel partito e poi presentata all´Alleanza come impegno solenne su poche grandi riforme da proporre al Paese: prodotto non solo di un gruppo di esperti, ma di una vasta interrogazione delle istanze economiche, sociali e culturali che gravitano nel mondo della sinistra.

Poche, perché attorno a queste occorre concentrare la più ampia possibile volontà politica. E anche per una ovvia esigenza realistica. Una legislatura che necessariamente dovrà affrontare il flusso degli eventi imprevedibili, oltre che il disbrigo dell´amministrazione ordinaria, non ha - specie tenendo conto delle nostre procedure decisionali - spazi per grandi iniziative di riforma, oltre quelle che si possono contare sulle dita di una mano: diciamo, al massimo, una all´anno.

Il partito laburista, quello che trionfò alla fine della guerra, con la rivoluzione del welfare state (prima che Tony Blair nascesse), ne varò non più di tre o quattro, fondamentali.

Ciò che conta, oltre a concentrare il fuoco su obiettivi davvero strategici, è una procedura mobilitante e rigorosa. La scelta dei temi fondamentali, anzitutto, che deve essere definita in sede politica: il prossimo congresso Ds può trovare in questa, oltre che nella reinvestitura del suo segretario, ormai felicemente scontata, un significato davvero storico. Inoltre: la proposta, a tutta la coalizione, della procedura "convenzionale": soggetti da coinvolgere, interrogazione sulla stampa e in rete sulle principali scelte, sondaggi da svolgere, tempi da osservare, regole per la elaborazione del messaggio finale da sottoporre alla decisione dell´Alleanza. Il rigore, soprattutto per la delimitazione dei temi, è decisivo per evitare che il topolino partorisca una montagna di chiacchiere.

Quali temi? Dovrebbe intendersi che il congresso dei Ds li formulerà come proposte per l´Alleanza, e che la decisione finale spetterà alle direzioni dei partiti che ne fanno parte, e soprattutto a Romano Prodi, leader dell´Alleanza stessa. Ciascuno può avere in proposito le sue preferenze. Per parte mia, le riassumerei in cinque punti:

1) ridestare la crescita di un Paese economicamente prostrato da una maggioranza incompetente e inconcludente ottenendo, non una revisione "magliara" del patto di stabilità, ma una sua integrazione con un vero patto di sviluppo secondo le linee del piano Delors, che rilanci l´Europa e l´Italia sulla via della crescita, risuscitando la politica della domanda; e attraverso un patto tra governo, imprese e sindacati su concorrenza e innovazione, che elabori una vera politica dell´offerta;

2) puntare alla piena e buona occupazione attraverso la creazione, anch´essa concordata con imprese e sindacati, di una rete permanente di informazione, formazione, qualificazione, riqualificazione e collocamento di lavoratori ai quali sia garantita la continuità della protezione sociale;

3) trasformare la scuola, dal livello primario dell´obbligo all´Università, in un sistema centrale della società: inteso non come distribuzione di titoli e avviamento professionale, ma, soprattutto, come palestra permanente per la diffusione e l´avanzamento della cultura;

4) far convergere il risanamento e la tutela ambientale con la valorizzazione del patrimonio storico e artistico in un piano di sviluppo del territorio: il più straordinariamente ricco del mondo;

5) orientare lo sviluppo non esclusivamente alla monomaniaca e fuorviante crescita del Pil, ma alla realizzazione di un sistema di obiettivi economici e sociali rappresentati da indicatori specifici; e riorganizzare la spesa pubblica non sulla base primitiva "del più e del meno", ma su quella razionale della programmazione.

C´è una seconda questione altrettanto rilevante e complementare del riorientamento programmatico: ed è l´approfondimento culturale da cui l´azione progettuale deve attingere la sua forza. Tra i ricordi del primo centrosinistra, il più vivo è la ricca vena di elaborazione culturale che ne animò la gestazione. C´erano i convegni di San Pellegrino delle forze progressiste cattoliche, animati da Pasquale Saraceno. C´erano, nel campo comunista, quelli dell´Istituto Gramsci. C´era la ricerca sulla programmazione, nata dal fresco contributo della sinistra socialista di Lombardi e di Giolitti e innescata sulla riflessione culturale di Fuà, di Sylos Labini, di tanti altri; c´erano, non certo ultimi, i convegni del Mondo della sinistra liberale. Spero di non indulgere alle tentazioni della laudatio temporis acti se constato che, al confronto, questo nuovo centrosinistra è in difetto di respiro. Non certo perché manchino intelligenze, ragioni, passioni. Ma forse perché sono impegnate più nel consumo che nell´investimento politico; distratte dalla quotidianità, dalla pobre semilla di una politica che si sbriciola, giorno per giorno, in glosse e risse sterili. E forse anche perché mancano istituzioni culturali giovani, popolari, aperte, attorno alle quali animare un dibattito politico alto, degno delle grandi tradizioni della sinistra di questo Paese.

Ricordate la Freien Universität di Berlino? Nata nel 1948 sull´onda di una secessione contestativa promossa da tre studenti di sinistra, sostenuta dalla amministrazione socialdemocratica della città, fu una sferzata di giovinezza per l´Università accademica e diventò una fucina di ricerca oltre che un´occasione per innovazioni architettoniche, organizzative, funzionali di alto livello e per la tessitura di una vasta rete di collegamento con l´Europa della cultura. Esiste e opera ancora oggi, sebbene sensibilmente "istituzionalizzata".

Intendiamoci: fondazioni e associazioni culturali esistono oggi anche da noi: nel mondo della sinistra ce ne sono tante. Ma quante hanno il respiro di una grande impresa culturale aperta, popolare, capace di fungere da terreno di scambio di idee e laboratorio di progetti, anziché da occasione per la pubblicazione di riviste, certo prestigiose, ma limitate alla raccolta di saggi all´interno di cerchie intellettuali ristrette? Una rigenerazione della sinistra accanto a un´iniziativa politica programmatica, avrebbe grande bisogno di un approfondimento culturale che la nutrisse continuamente. Perché non pensare a una "Libera Università Popolare" che realizzi un modello educativo innovativo, capace di fermentare i nuovi germi per una grande istituzione altrimenti morente?

Vedo subito insorgere il pedante di turno, che ci ammonisce sul rischio dell´illuminismo politico. Beh, francamente, se ci fosse in giro un gruppetto di redivivi Diderot, d´Alambert, Voltaire e Rousseau, io li scambierei volentieri contro i glossatori della terza via. Non propongo la nuova Encyclopedie: ma solo uno spazio aperto di dibattito permanente, di insegnamento accademicamente disinibito e di vasta sperimentazione culturale. Questa sì, mi parrebbe un´impresa utile e alla portata: un atto di investimento e non di consumismo politico.

Illuminismo? Magari! L´Illuminismo è stato il terreno culturale dal quale è nata l´unica rivoluzione politica vittoriosa della modernità.

Titolo originale: New Islam in an old English town – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

LEICESTER – Mentre l’Europa annaspa alla ricerca di risposte alle sempre più numerose questioni riguardo alla propria ampia e crescente comunità di immigrati, molti dei quali musulmani, uno dei posti da guardare potrebbe essere questa cittadina un po’ scalcagnata nel bel mezzo dell’Inghilterra.

Leicester, circondata da dolci colline, era da sempre una piccola e prosperosa città manifatturiera, con radici nelle tradizioni della campagna inglese. I contadini ci portavano mucche e pecore da vendere sul selciato nel cuore della città medievale, dove gli edifici di mattoni rossi di epoca vittoriana richiamano un’epoca meno complicata.

Ma ora l’immagine è cambiata. Leicester oggi è una città multiculturale di 300.000 abitanti dove i discendenti degli operai tessili e dei contadini dividono le strade con indù, sikh, e sempre di più con musulmani dal subcontinente indiano, dall’Africa orientale e dai Balcani.

Negli ultimi trent’anni gli immigrati si sono riversati su Leicester: e sono stati i benvenuti, grazie alle politiche progressiste degli amministratori locali, che hanno convinto gli abitanti dei valori di un futuro multiculturale. I nuovi arrivati hanno iniziato una nuova e pacifica esistenza, trasformando Leicester in un modello, che dimostra al resto dell’Europa come funziona una mixed city.

Ma ora Leicester subisce la sfida di nuove preoccupanti dinamiche, come ammettono gli amministratori, una delle quali è la crescente identità musulmana. Il successo della città in termini di multiculturalismo sembra contraddetto dalle tensioni etniche fra musulmani e indù, con la nuova immigrazione musulmana da paesi come Somalia e Bosnia, e un risentimento contro gli immigrati che cova fra i bianchi poveri. Questo ultimo aspetto assume significati oscuri nella mutata atmosfera della Gran Bretagna dopo le bombe dei terroristi islamisti a Londra in luglio.

Nel frattempo l’amministrazione locale prevede che Leicester – la cui popolazione bianca rappresenta ora il 65% - potrebbe diventare la prima città britannica con una maggioranza non-bianca all’inizio del prossimo decennio.

Questo farebbe di Leicester un campo di battaglia ancora più importante nei tentativi dell’Europa di abbozzare un progetto di multiculturalismo, con uno spazio per l’Islam nella società occidentale.

”Quello che appare in superficie è piuttosto fragile” avverte Manzoor Moghal, importante leader musulmano a Leicester e self-made-man di successo arrivato dall’Uganda negli anni ‘70. “Ci sono diverse correnti sommerse che minacciano di frammentare”.

Moghal, presidente del Muslim Forum, un gruppo-ombrello che si occupa di problemi dei musulmani nel Leicestershire, è uno dei molti preoccupati che la tradizione di Leicester di coesistenza pacifica venga minacciata dalla velocità delle trasformazioni.

Trasformazioni razziali avvenute a ritmi mozzafiato. La cittadina di trent’anni fa, dove nonni e nipotini sedevano insieme a guardare il mercato delle mucche e delle pecore, è diventata una città dove uffici e negozi si svuotano al tramonto in ottobre per il Ramadan, mentre i quartieri indiani si preparano al Diwali, la festa invernale indù della luce.

A Leicester oggi, nei quartieri settentrionali come Melton Road c’è una profusione di templi indù, centri musulmani, macellai halal, ristoranti indiani e pakistani, e poi gioiellerie, banche, negozi di abbigliamento. Nel mercato coperto ortofrutticolo, vecchio di 700 anni, una mescolanza multirazziale di clienti fruga tra mucchi di funghi e papaye, banconi disordinati di cinture, biancheria e aggeggi cinesi. Il mercato del bestiame è sparito anni fa, e questo adesso è un supermercato.

La resistenza locale a questa trasformazione ha raggiunto il massimo negli anni ’70 e ‘80, quando i nazionalisti marciavano per la città. Ma l’amministrazione locale di sinistra di Leicester, affermando che il futuro era multiculturale, rispose con una politica progressista di successo, che è ancora ben sintonizzata sulle sensibilità culturali dei nuovi arrivati.

”Non parliamo di cosa devono fare gli immigrati per adattarsi a noi” dice Trish Roberts-Thomson, responsabile per le politiche al consiglio comunale. “Leicester ha un approccio molto softly-softly “.

L’amministrazione coinvolge i leaders etnici in una molteplicità di comitati e gruppi interrreligiosi. Questa integrazione cittadina si è unita a quella economica, e Leicester ha un’ampia forza lavoro per le fabbriche tessili e calzaturiere, gli ospedali e altre aree del settore pubblico. Si è presto prodotta una prospera middle class etnica di imprenditori, che hanno cominciato a spostarsi verso i verdeggianti sobborghi esterni.

”Alcuni hanno accumulato parecchia ricchezza, e comprato alberghi o altre proprietà” dice Jiva Odedra, direttore della Asian Business Association di Leicester.

Il risultato della integrazione civica ed economica è che a Leicester sono assenti le manifestazioni estreme del suo più grosso vicino nelle Midlands, Birmingham, dove gli scontri fra le bande asiatiche e afro-caraibiche di questo mese hanno provocato due morti, lasciando amministratori ed esponenti delle comunità a chiedersi il perché.

Quando sono scoppiati gli scontri razziali nella fascia dei centri inglesi del nord – Bradford, Oldham e Burnley – nell’estate del 2001, Leicester è rimasta tranquilla.

”Leicester funziona” racconta Robert Colls, professore di storia inglese alla Leicester University. “Ci sono persone di molte etnie che sono venute a vivere qui nel giro di meno di una generazione, e non ci sono e non ci sono mai stati disordini in città, nonostante i tentativi già dagli anni ’70 per fomentarli”.

Sono gli indù a dominare tradizionalmente le politiche etniche della città, ma la popolazione musulmana è cresciuta negli anni recenti sia per l’alta natalità che per l’immigrazione; ciascuno dei due gruppi ora conta per un 15% della popolazione di Leicester.

I musulmani “stanno differenziandosi” dice Paul Winstone, consigliere municipale arrivato a Leicester negli anni ‘60, che si è impegnato contro le prime reazioni razziste, importante testimone e guida nella trasformazione multiculturale della città.

I musulmani rivendicano una maggior quantità di fronti, come le scuole su base religiosa o la libertà di indossare i propri abiti sul lavoro, o di avere cibo halal negli ospedali cittadini, e insieme poteri politici più ampi all’interno del consiglio. Winstone sostiene che queste trasformazioni conducono alla “sensazione che gli indù potrebbero abbandonare la città: e gli indù sono stati il suo motore economico”.

Una ulteriore sfida alla equanimità di Leicester è il rischio di riemergenza dell’opposizione bianca nei confronti degli immigrati.

Nel 2002, sulla scia delle rivolte nei centri settentrionali, l’amministrazione di Leicester aveva commissionato una ricerca, che aveva rilevato inusitati e preoccupanti livelli di ostilità fra i bianchi dei quartieri operai, nei confronti dei propri vicini di diversa etnia. Ciò avveniva principalmente a causa di una percepita eccessiva generosità in termini di risorse pubbliche rivolte ai quartieri asiatici. “La minaccia principale al multiculturalismo viene dalla classe operaia bianca, perché il multiculturalismo suscita un’attenzione maggiore rispetto ai problemi dei ceti operai bianchi” dice Roberts-Thomson.

I leaders asiatici temono che il risentimento possa essere rinfocolato dalla legislazione antiterrorismo proposta dal governo britannico, pensata per schiacciare l’estremismo islamico. Fra le altre azioni, il governo propone di coinvolgere alcuni gruppi islamici, ma alcuni esponenti temono che questo spinga il pubblico britannico a considerarli come stranieri anziché inglesi.

La reputazione di Leicester di città senza conflitti non è certo migliorata quando due abitanti originari dell’Algeria sono stati arrestati e condannati nel 2003 per aver sostenuto finanziariamente Al Qaeda. Un altro è stato estradato in Francia.

Anche oggi, osservatori come Winstone notano alcuni tentativi di estremisti musulmani di città vicine – come Nottingham o Derby – di infiltrarsi nelle moschee di Leicester, “anche se sono stati malmenati e rimandati indietro” racconta.

Colls, della Leicester University, dice che secondo la sua esperienza esiste un forte bisogno dei giovani musulmani di Leicester, per insegnamenti più illuminati e di rigetto della linea dura islamista: una lezione tenuta all’università da un insegnante musulmano su questi temi, ha attirato centinaia di persone, dice.

Uno dei motivi per cui l’esperimento multiculturale di Leicester ha funzionato tanto bene nel passato, dicono gli esperti, è che molti di questi indù e musulmani sono arrivati indirettamente via Africa orientale, da paesi come Uganda o Malawi, dove le loro famiglie si erano stabilite da generazioni. Arrivati a Leicester, erano già imprenditori, urbanizzati, abituati all’amministrazione britannica.

Per contro, città inglesi come Bradford hanno accolto musulmani direttamente dalle zone rurali del Pakistan.

Ma la nuova ondata di arrivi a Leicester – somali, bosniaci, kosovari – rappresenta un nuovo tipo di immigrazione: piccoli gruppi, diversificati, là dove un tempo indù e musulmani arrivavano in massa.

Quello più numeroso al momento è dalla Somalia, paese musulmano. Più di 10.000 somali si sono trasferiti a Leicester negli scorsi due-tre anni, secondo gli amministratori. Molti venivano dall’Olanda dove, lamentano, non si riusciva a trovare lavoro e si rischiava di venir separati a causa delle rigide politiche sulla casa.

Alcuni dei somali sono lavoratori altamente specializzati e si integrano bene nella comunità economica. Ma altri si sono collocati nei quartieri più poveri della città, come le squallide strade dietro la stazione ferroviaria, destinazione abituale dei nuovi arrivati più poveri dove, secondo Winstone, alcuni si sono scontrasti violentemente con originari delle Indie Occidentali.

Secondo Roberts-Thomson, che ha lavorato insieme ai somali, molti sono ancora fortemente colpiti dalla guerra civile nel loro paese, il che rende più difficile l’integrazione.

Nella nuova, febbrile atmosfera, è iniziato un dibattito – anche qui, nella multiclturale Leicester – sul livello di assimilazione che si deve chiedere agli immigrati.

”Quando si vuole vivere in una società, quando si vuole esserne parte, si ha l’obbligo di inserirsi” dice Moghal, che indossa un impeccabile completo da uomo d’affari.

Altri, come Ibrahim Mogra, giovane musulmano e uno dei più seguiti imam di Leicester, hanno una linea più rigida, e credono che ai musulmani debba essere consentito vivere e lavorare nelle città britanniche in modi propri.

”Non voglio vivere in una Gran Bretagna dove la mia cultura è di seconda classe” dice Mogra, che riceve i visitatori della sua piccola casa a schiera in uno dei quartieri a maggioranza asiatica di Leicester indossando turbante, tunica e lunga barba fluente. “Mi sono integrato meglio che potevo. Ho fatto qualunque cosa”.

Mogra, tra i componenti del piccolo gruppo di leaders musulmani chiamati agli incontri col Primo Ministro Tony Blair dopo le bombe di luglio, crede che le imprese dovrebbero consentire l’abbigliamento islamico sul lavoro. Ma le sue opinioni non si limitano ai vestiti: definisce Blair un “tiranno oppressore” per la sua politica in Iraq ed è ugualmente aspro riguardo alla politica occidentale di blocco del programma nucleare iraniano.

Punti di vista tanto contrastanti sull’assimilazione riflettono le attuali domande ed esperimenti sul modello multiculturale nell’Europa occidentale che sta attraversando il continente.

È questione aperta, se l’esperienza degli ultimi trent’anni farà di Leicester un faro per il resto dell’Europa, o se i contraccolpi del conflitto di popoli inevitabilmente porteranno la battaglia anche in questo luogo, un tempo tranquillo.

Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune ; altri testi su questioni simili, se pur forse meno drammatiche, sono stati tempo fa presentati qui su Eddyburg, e sono ora raccolti e ampliati sul numero 30 della rivista Metronomie (f.b.)

Per l’Italia di Ciampi senza se e senza ma

Una panoramica, attorno alla leggetruffa, che “perché rimette in sella gli apparati dei partiti tagliando ogni comunicazione con la società civile”, Da la Repubblica del 9 ottobre 2005

LA DEMOCRAZIA è inclusiva per definizione. Il suo fondamento è quello di includere, non di escludere. Il suo unico «assoluto» (e tutto il resto è relativistica altrimenti non potrebbe includere) è d’impedire che le culture dell’assolutismo distruggano il sistema democratico. Il suo canone. Il suo presidio di libertà.

Vorrei partire da questa definizione per leggere correttamente quanto sta avvenendo in questi giorni nell’Italia politica e nell’Italia sociale, due piani di ascolto e di analisi che consentono di esaminare la nostra società nella sua interezza in una fase particolarmente agitata.

La campagna elettorale ormai in corso vede infatti la mobilitazione di tutti i gruppi di pressione, partiti, sindacati, associazioni economiche, movimenti culturali, istanze religiose, con l’obiettivo di posizionarsi per ottenere i migliori risultati possibili dal voto popolare e dagli effetti che potrà produrre sulla dislocazione del potere, la distribuzione delle risorse, la dinamica dei valori in gioco.

Nei momenti culminanti della vita democratica (il voto è uno di essi) è normale che i gruppi di pressione si mobilitino. Per interpretare i bisogni e le speranze dei cittadini. Per raccoglierne il consenso attorno ai valori e agli interessi dei quali ciascuno di loro è portatore. Per affermare la loro visione del bene comune. Per marcare differenze e negoziare alleanze.

Lo spettacolo d’una democrazia operosa, nella quale valori e interessi si confrontano con energica e onesta chiarezza, può essere esaltante. Oppure può essere avvilente e frustrante quando i messaggi sono trasmessi da lingue biforcute e impastati di menzogna e ipocrisia.

Chi osserva con occhi sgombri dal velo del pregiudizio e con animo partecipe ha dunque come obiettivo di contribuire alla chiarezza decifrando i messaggi delle parti in causa e misurando il loro contributo, positivo o negativo, rispetto all’interesse generale dei cittadini, affinché non trionfino i nemici della democrazia e il voto popolare non sia distorto dalla demagogia, dalla prevalenza del danaro, dal dominio dei mezzi di comunicazione, da tutto ciò che possa insidiare e alterare l’autonoma e consapevole determinazione del popolo, sovrano almeno ogni cinque anni.

In quella preziosa occasione compete al popolo giudicare il consuntivo e valutare le proposte di preventivo. Decidere se i gruppi e le persone che ha delegato a governare in suo nome abbiano operato bene o male. Confermarli o sceglierne altri.

La democrazia non è altro che questo. Ma è molto per chi vuole vivere libero, aspiri alla felicità possibile per sé e per la generazione che seguirà.

* * *

Dovessimo compilare la graduatoria dei personaggi che tengono la scena di questi giorni dovremmo mettere (come sempre del resto) Berlusconi al primo posto, seguito a non molta distanza da Ruini, Casini, Montezemolo. Seguiti a una certa distanza da Rutelli e Bertinotti. Poi D’Alema e Fassino. Poi Prodi.

Poi Pezzotta. Gli altri, a destra al centro e a sinistra, nel gruppone.

Questa graduatoria non riguarda il merito di ciò che dicono e fanno, ma semplicemente la quantità e l’intensità delle loro pubbliche esternazioni e interventi politici.

In ciascuno di loro ci vedi quel tanto di partigianeria che è inevitabile per chiunque parteggi. In alcuni essa è temperata da una visione più o meno organica del bene comune. Purtroppo non è il caso del presidente del Consiglio. La sua incapacità di concepire un sia pur generico disegno del bene comune è patologica, o meglio innata nella sua natura come è innato nello scorpione l’istinto di colpire col suo pungiglione ogni creatura che incontri sul suo cammino.

Berlusconi non sa quale sia il concetto stesso del bene comune. Infatti passa indifferentemente dall’antipolitica al politichese, dal liberismo al dirigismo, dal moderatismo alla radicalità, dall’ossequio verso l’establishment confindustriale alla lotta aperta contro, da Fini a Casini e viceversa. Detesta la magistratura (e questo è un punto fermo per lui). Vuole concentrare nelle sue mani tutto il potere possibile. Promette tutto il promettibile e anche più. Naturalmente non è in grado di mantenere quanto ha promesso anche perché spesso le sue promesse rasentano il favolistico e il miracoloso.

La sua vitalità è prorompente quanto la sua egolatria. Ha ridotto Follini ad un tappetino sul quale ormai si pulisce le scarpe quando rincasa. Adesso ha deciso di far approvare dalla maggioranza la legge elettorale, la riforma costituzionale, la «salva-Previti». E naturalmente la Finanziaria proposta dal fantasista Tremonti.

Dopo due anni di sconquassi interni al centrodestra ha recuperato il dominio del suo campo. Sette vite come i gatti. Fini è diventato afono. Casini si è allineato. Ragazzo spazzola. Bossi aspetta defilato. E il popolo? «Se gratta» avrebbe detto Trilussa. Ma con delusione e rabbia.

Almeno così sembra.

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Giorni fa Casini ricevette a Montecitorio un Follini triste, accorato, sconfitto nel suo stesso partito. Gli disse: «Se rompiamo e andiamo da soli alle elezioni avremo al massimo 18 deputati. Col proporzionale ne avremo una trentina e saremo noi a indicare i nomi. Poi, a elezioni fatte, si farà finalmente politica. Che si vinca o che si perda».

Non so che cosa significhi «far politica» nel lessico del presidente della Camera. Temo che l’etica c’entri assai poco, come da tradizione storica del doroteismo del buon tempo andato. Anche Casini ha i suoi punti fermi. Il beneplacito del cardinale Ruini è uno di essi. La propensione a collocarsi al di sopra delle parti standone dentro fino al collo è un altro. Blandire l’opposizione quando sembra più forte e legnarla quando appare indebolita. A Follini vuol bene sinceramente. Quando il mare s’è messo a buriana l’ha gettato fuoribordo per alleggerire la zavorra. Però gli è dispiaciuto.

* * *

Anche la Confindustria si sta riposizionando. È interessante seguirne i movimenti perché è un pesce pilota e si imparano molte cose. Non muove molti voti ma funge da cartina di tornasole per segnalare gli umori dell’Italia produttiva e benestante. Più benestante che produttiva (ma la responsabilità non è mai la sua né dei suoi soci; è sempre di qualcun altro).

Nel centrosinistra molti pensarono, dall’elezione di Montezemolo in poi, d’aver acquistato un nuovo alleato. Ho scritto in tempi non sospetti che si trattava di un errore: la Confindustria non può identificarsi con una parte politica; quando l’ha fatto (con Alighiero De Michelis, col secondo Costa, con Giorgio Valerio e da ultimo con il D’Amato del convegno di Parma) è stata per lei una catastrofe.

La Confindustria deve difendere gli interessi degli industriali, questo è legittimo e utile. Non dovrebbe tuttavia pensare che quegli interessi coincidano interamente con quelli del paese. Invece purtroppo lo pensa e ci crede veramente. Si appoggia a parecchi luoghi comuni che fanno breccia tra gli ingenui.

Uno di essi, il più usato, è: prima bisogna produrre la ricchezza e poi si può pensare a redistribuirla. Sembra una verità assolutamente ovvia. Per cui ogni programma di ogni governo dovrebbe avere come base quell’elementare verità. Prima produrre poi distribuire. È terribilmente simile alla questione dell’uovo e della gallina. Quale dei due viene prima dell’altro? Produrre e poi distribuire. Se camminiamo in fila in linea retta sai chi sta davanti a te e chi dietro di te, ma se camminiamo in circolo sei davanti e contemporaneamente dietro a ciascuno dei girotondisti.

Per produrre al massimo possibile e con i migliori risultati devi partire da una certa distribuzione delle risorse. Per esempio da un mercato sostenuto da un potere d’acquisto diffuso. Ecco un caso in cui la distribuzione è un prius e la nuova ricchezza prodotta viene dopo. Gran parte della «Teoria generale» di Keynes si basa su questa tesi sia per quanto riguarda la domanda sia l’efficienza marginale degli investimenti e il tasso dell’interesse.

La piena occupazione viene prima o dopo? Il salario è una variabile indipendente o lo è il profitto?

Si tratta, amici della Confindustria, di verità ideologiche e quindi relative e soggettive, non di verità assolute. Le decide il potere, non il mercato il quale può tranquillamente funzionare sia con un salario indipendente sia con un profitto indipendente. Statisticamente il capitalismo ha quasi sempre funzionato in presenza della seconda condizione, ma le sue crisi ricorrenti sono derivate proprio da lì.

Dunque Montezemolo deve mantenersi lontano dai protagonisti politici.

Ma di una cosa la Confindustria dovrebbe invece preoccuparsi moltissimo perché riguarda direttamente gli interessi dei suoi associati oltre che quelli di tutto il paese: dovrebbe opporsi con tutti i mezzi all’avvelenamento dei pozzi da parte degli attori della vicenda politica. Avvelenare i pozzi significa infatti rendere impossibile il funzionamento del sistema democratico.

In realtà questa è stata l’essenza del berlusconismo in questi cinque anni di governo: l’avvelenamento dei pozzi. Nella dilapidazione della pubblica finanza. Nella politica fiscale. Nello smantellamento della fiducia pubblica all’interno e all’estero. Nel conflitto d’interessi d’un capo di governo padrone e con la mentalità del padrone. Nel vilipendio sistematico della magistratura e nello smantellamento dell’ordinamento giudiziario.

Nell’indebolimento delle Autorità di garanzia.

Da ultimo «but not least» la riforma elettorale che costituisce l’avvelenamento dei pozzi definitivo, perché rimette in sella gli apparati dei partiti tagliando ogni comunicazione con la società civile e perché rende il paese tecnicamente ingovernabile più di quanto già non sia stato.

Ho invece sentito nel discorso di Montezemolo a Capri una bocciatura dell’attuale sistema maggioritario. Che cosa vuol dire? Un via libera a una riforma proporzionale? Qui non si tratta di giudicare in astratto, ma di valutare questa legge specifica con liste bloccate, tre soglie di sbarramento, un premio di coalizione che contenga la maggioranza al minimo possibile, la designazione del nuovo capo del governo fatta dai partiti a dispetto dei poteri costituzionali del Quirinale. Poteri di ricatto di partiti e partitini moltiplicati per cento rispetto alla già dolente situazione attuale. Questo è l’avvelenamento dei pozzi: l’ingovernabilità sancita per legge per contenere i danni della sconfitta temuta dal Cavaliere. Questo piace alla Confindustria?

Casini vuole anche lui e lavora per questo risultato che gli darà mano libera coi suoi trenta deputati. Mi dicono che a Capri sia stato applaudito per oltre due minuti.

Male, caro Cordero di Montezemolo. Non per gli applausi a Casini, che è uomo giovane bello e simpatico. Male perché avete capito - temo - molto poco di quanto sta accadendo.

Poi vi lamenterete perché la competitività scende. Ma rassicuratevi, non scenderà più perché siete arrivati in fondo alla classifica mondiale.

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C’è una sola istituzione e una sola persona che adempie ai suoi doveri senza fare mai niente di più e niente di meno di quanto non gli sia assegnato dalla Costituzione e dalle leggi: il presidente della Repubblica. Nel generale marasma, se c’è un uomo e un’istituzione che tengano dritta la barra del timone, li troviamo al Quirinale. Quello è, lo scrivo ancora una volta, il punto di raccolta delle tantissime persone perbene e di buona volontà di questo paese.

Tempo fa fu pubblicata su questa pagina una vignetta del grande Altan che ancora ricordo per la sua incisività.

Diceva, l’omino da lui disegnato: «Ho voglia di vomitare, senza se e senza ma». Farò una perifrasi più speranzosa: «Ho voglia che vinca l’Italia di Ciampi senza se e senza ma». Me lo auguro di tutto cuore per tutti noi.

È stato calcolato da esperti che le sette società che hanno ceduto a Unipol le azioni Bnl in loro possesso hanno realizzato complessivamente, senza muovere un dito, o usandolo solo per cliccare sul mouse, un guadagno di 1,2 miliardi di euro. Hanno rastrellato circa un miliardo di dette azioni tra uno e due anni fa, pagandole 1-1,3 euro l’una; le hanno cedute a Unipol al prezzo convenuto di 2,7 euro. Da qui il guadagno, che gli addetti ai lavori chiamano plusvalenza. Ma la vera notizia non è la rilevante entità di questo, o la facilità con cui sarà conseguito. Essa va vista piuttosto nella entità risibile delle tasse che su tale guadagno le società cessionarie legalmente pagheranno: forse 20 milioni di euro, nel migliore dei casi, pari all’1,7 per cento della somma in questione.

Un simile regalo dello Stato è reso possibile da una specifica norma, denominata Pex (da participation exemption), contenuta nel Testo unico della legislazione fiscale. Essa prevede che siano totalmente esentate da ogni tassa le cessioni di azioni possedute da imprese a titolo di partecipazione in altre società, purché sussistano un paio di condizioni: che le azioni stesse siano state tenute in portafoglio per almeno un anno, e che la società partecipata esista davvero, né sia iscritta nella lista dei paradisi fiscali. Tali condizioni sussistono tutte nel caso Bnl, con alcune eccezioni personali alle quali si deve se il fisco incasserà almeno una ventina di milioni.

Se il cerchio si chiudesse qui, per evitare il ricorrere di analoghi doni alle società - sui quali si dovrebbe forse chiedere un parere ai milioni di persone che al fisco versano ogni mese un terzo del loro reddito come imposte dirette, e ogni giorno un altro 15% (in media) in forma di imposte indirette - basterebbe cancellare quanto prima la Pex. Come già hanno proposto esponenti del centrosinistra, nel caso in cui questo vincesse le elezioni. Il cerchio è invece molto più ampio, e di esso la Pex è solamente un capitolo modesto. La vicenda del capitale Bnl apre in realtà una finestra su una pratica delle imprese tra le più diffuse e gravide di conseguenze in Italia come nel mondo intero. Al di là di espressioni tecniche quali elusione fiscale o "minimizzazione delle imposte", tale pratica si può definire come l’arte di schivare le tasse.

L’esercizio di tale arte non presuppone soltanto l’abilità di sfruttare le pieghe della legge per pagare meno tasse, che è il significato comune di elusione fiscale. Richiede la capacità di organizzare la produzione a livello internazionale in modo che ciascuno dei suoi anelli sia assoggettabile a prelievi fiscali minimi o inesistenti. È quanto si fa, ad esempio, con il prezzo di trasferimento: le società di un gruppo dichiarano di vendere ad altre società dello stesso gruppo dei beni a un prezzo talora alto, talora basso, ma sempre determinato in modo che i profitti vengano a cadere giusto nel paese in cui l’imposizione fiscale è minore. Una procedura dalle enormi ricadute, a vantaggio delle imprese e a danno dei bilanci pubblici, posto che oltre la metà del commercio mondiale è costituito da simili scambi. La stessa arte presuppone la possibilità di pagare legioni di consulenti legali ed economici aventi una potenza di fuoco, nei tribunali, tale da schiacciare quella contrapposta del fisco. In Gran Bretagna, per dire, le quattro maggiori società di revisione contabile fatturavano nel 2002 quasi 6 miliardi di sterline, mentre il bilancio dell’ufficio centrale del dipartimento delle finanze che doveva tenere loro testa ammontava a meno di 40 milioni. In Usa, poco prima del crollo la Enron aveva speso 88 milioni di dollari di consulenze per evitare di pagare 2 miliardi di tasse federali. L’arte di schivare le tasse comporta infine di avere la capacità politica, ideologica e mediatica sufficiente per convincere i governi a emanare norme fiscali adatte a ridurre drasticamente l’imponibile, in modo da fare in pratica evaporare le aliquote sul reddito delle società – tipo, nel suo piccolo, la Pex.

Negli ultimi decenni l’arte di schivare le tasse, che si compendia nella contrapposizione tra pagare quanto si riesce a fare apparire formalmente legale e quanto invece sarebbe sostanzialmente equo, giusto, legittimo pagare, ha provocato in gran parte del mondo una forte erosione della base fiscale dei bilanci pubblici. Inoltre è stato operato su larga scala un trasferimento della tassazione dai redditi da capitale ai redditi da lavoro. In Italia, le tasse pagate da individui e famiglie rappresentano ormai il 43% delle entrate primarie dello stato; quelle delle imprese, il 6%. Dato non sorprendente, ove si pensi che secondo i dati della Cgia di Mestre oltre il 48% delle 723.000 società di capitali hanno dichiarato nel 2001, ai fini dell’imposta sulle società, un reddito negativo o pari a zero. D’altra parte negli Stati Uniti individui e famiglie pagano l’80% delle imposte federali; le imprese il 20%. Negli anni ‘50 il contributo di queste ultime superava il 40%. Per quanto attiene all’Unione Europea, già qualche anno fa la società di revisione Deloitte & Touche stimava che lo schivamento delle tasse fosse dell’ordine di 140 miliardi di euro l’anno. È in cifre di questo genere che andrebbero cercate alcune ragioni almeno dei deficit dei bilanci pubblici, che costringono in molti paesi a ridurre prestazioni sanitarie e servizi scolastici, insegnamento e ricerca universitaria, trasporti collettivi e pensioni, indennità di disoccupazione e protezione sociale per le famiglie.

Il cerchio si può quindi chiudere con il richiamo a una contraddizione. Dopo i tanti scandali societari del periodo 2000-2003, dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat, si è registrato uno straordinario sviluppo del dibattito e delle iniziative in tema di responsabilità sociale delle imprese (Rsi). Centinaia di codici, a livello internazionale, nazionale e societario, sono stati redatti al fine dichiarato di introdurre maggiori quote di moralità, di attenzione ai portatori di interesse che non si collocano tra gli azionisti, nella gestione delle imprese. Ora si nota che in tali codici - ma lo stesso può forse dirsi di gran parte degli innumeri articoli sulla Rsi - il dovere per i manager di astenersi dall’arte di schivare le tasse utilizzando tutti i mezzi disponibili per fare rientrare nella legalità tale comportamento, in contrasto stridente con una comune nozione di equità e giustizia sociale, non è quasi mai menzionato. Alla fine, persino la vicenda del capitale Bnl, presa qui come spunto per toccare un tema ben più generale, potrebbe risultare utile alla collettività se fosse l’occasione per provare a inscrivere nei codici societari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa, magari a pagina uno, articolo uno, il suddetto fondamentale dovere.

«Dalla Rai alle banche troppe commistioni tra la politica e l'economia» «Su Unipol esitazioni dei Ds. Inevitabile la supplenza della magistratura»

È da tempo che non si sentiva parlare di questione morale. Lo fa Arturo Parisi con toni assai preoccupati e tirando in ballo la stessa qualità della democrazia. «Il pericolo più grande resta a mio parere il populismo e il qualunquismo — sostiene il presidente dell'Assemblea federale della Margherita —. Ma l'unico modo per evitarlo è mettersi dal punto di vista del cittadino comune. Se la politica non interviene tempestivamente rischia di riaprirsi una nuova questione morale. L'esito può essere una rivolta populistica o il cinismo di massa».

Da dove deriva tanto pessimismo?

«Guardi alle vicende di queste settimane, dalla Rai a Bankitalia passando per l'accordo Berlusconi-De Benedetti e la scalata alla Rcs, con un occhio limpido e ingenuo e vedrà il fondamento della mia preoccupazione. I partiti si sono ripresi la scena ma la confusione è tanta e c'è il rischio che la domanda di alternativa che sale dalla società abbia come risposta null'altro che un'offerta di alternanza».

Cominciamo dalla Rai. Come giudica la presidenza Petruccioli?

«Come non vedere una confusione di ruoli tra maggioranza e opposizione, tra le responsabilità del vigilante e l'ente vigilato?».

Ma Petruccioli era il candidato ufficiale dell'Unione e la legge prevede un voto bipartisan per il via libera parlamentare.

«Da un punto di vista formale l'obiezione è ineccepibile così come è fuori discussione il giudizio sulle qualità personali di Petruccioli. Ma che dire dei comportamenti? A cominciare dall'incontro con Berlusconi che certo è il presidente del Consiglio ma prima ancora il padrone di Mediaset. Come meravigliarsi se un giornale sicuramente non estremista, Avvenire, poi titola "Alla Rai Petruccioli, a Mediaset la serie A"? Come non farsi carico della sensazione di baratto che un titolo come questo non può non ingenerare nel parroco o nel ragazzo di oratorio che lo ha letto?».

Si possono rassicurare parroci e giovanotti dicendo loro che Petruccioli ha già dichiarato di voler riportare in video Biagi e Santoro.

«Ma ha anche detto che Berlusconi al governo "non ha fatto troppo bene"! E comunque quella su Biagi è per ora solo una dichiarazione di intenti. Il punto all'ordine del giorno del Cda della Rai di oggi è la nomina del direttore generale, la cui voce non è certo irrilevante nel decidere chi va in video e chi no. Una nomina per la quale ho sentito Petruccioli dichiarare che avrebbe votato qualsiasi direttore generale a patto che non fosse un delinquente o un incapace, quasi che il ruolo del Presidente fosse quello del notaio o del succube e non invece quello di un protagonista attivo».

Se il presidente della Rai fosse diventato Giulio Malgara vicinissimo a Berlusconi l'elettore dell'Unione sarebbe stato più contento?

«No di certo, ma sarebbero state più chiare le reciproche responsabilità».

Anche la partnership tra Berlusconi e De Benedetti le sembra censurabile?

«Dal punto di vista del codice civile è ineccepibile. Ma le norme più importanti della Repubblica sono quelle non scritte. E la più importante di esse è quella che, per dirla con le parole di Carlo Cattaneo, ci ricorda che "la libertà è una pianta con molte radici", una pianta che si fonda sulla distinzione tra piani diversi. Quello della morale, della politica, della religione, degli affari, della informazione. Anche da questo punto di vista l'alleanza sarebbe ineccepibile perché riguarda uomini di affari che fanno affari nel mondo degli affari. Ma come ci si può alleare con chi è responsabile della confusione e del conflitto tra i diversi piani senza alimentare peraltro la confusione che fino ad ieri è stata aspramente denunciata? Come si può immaginare che l'alleanza appaia confinata al solo mondo e alla sola logica degli affari? E quindi non farsi carico del profondo sconcerto che l'episodio produce agli occhi del cittadino comune?».

Anche Prodi dopo l'Iri e prima dell'Ulivo è stato a lungo consulente della Goldman Sachs.

«Attenzione, in momenti diversi della sua vita. E comunque è un principio che se si dovesse dare il caso non potrebbe che valere anche per lui come per ognuno di noi».

E nell'Opa che Unipol sta lanciando sulla Bnl vede anche lì puzza di bruciato?

«Ci sono domande alle quali non sono state date risposte convincenti. L'ispirazione mutualistica che sta alla base dell'esperienza cooperativa non può essere trasposta in una condizione e su una scala diversa, non ci si può trasformare in raider di Borsa con l'aiuto del fisco».

I vertici dei Ds hanno dunque sbagliato ad appoggiare i progetti dell'Unipol?

«In nome del realismo hanno esitato nel farsi le domande giuste. E così guidati dall'istinto che porta ognuno a difendere il proprio mondo hanno dato l'impressione di avallare una regressione neo-corporativa. Il vero virus è ed è stato il conflitto di interessi alla Berlusconi. Dobbiamo assolutamente evitare di esserne in qualche modo contagiati tutti».

E il leader del suo partito Rutelli ha fatto bene a criticare i Ds?

«In questo caso ho condiviso e condivido le sue posizioni. L'impossibilità di affrontare il tema col respiro che merita ha consentito purtroppo di far passare il confronto per una "polemichetta"».

Banche e governatore. Anche a Palazzo Koch gli interessi le sembrano aver la meglio?

«Da cittadino comune ho letto sui giornali quello che hanno letto tutti. Di fronte allo spettacolo al quale siamo stati costretti ad assistere, dire che le dimissioni del governatore sono opportune è eccessivamente riduttivo. Sono doverose. Se dovesse prevalere un atteggiamento irragionevole spero proprio che il Consiglio superiore della Banca d'Italia si faccia carico della sua responsabilità ed eserciti i suoi poteri. Lo dico pensando alle persone autorevoli che lo compongono. Basti per tutti Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale».

Nel centro-sinistra c'è chi dice «teniamoci Fazio sennò Berlusconi ci mette un altro Marzano».

«È un argomento che di fronte alla enormità dei fatti appare misero. Che vantaggio potrebbe mai cogliere il centro-sinistra dalla delegittimazione ulteriore dell'istituzione Bankitalia e dalla conseguente perdita di credibilità del nostro Paese?».

Vede con preoccupazione anche la scalata degli immobiliaristi alla Rcs?

«Il sistema dell'informazione deve restare autonomo. È evidente invece che lo si vuole destabilizzare con fini che non so se siano prima politici o finanziari. O tutti e due insieme».

Ma stiamo andando verso una nuova supplenza della magistratura? La questione morale riporta le toghe a diventare protagoniste?

«È l'esito inevitabile quando la politica e le istituzioni non fanno la loro parte o peggio fanno parti che non sono le proprie. Come non comprendere in questi casi il cittadino comune che pensa "meno male che ci sono i giudici"? La democrazia è responsabilità dialettica, se l'immagine che proponiamo è quella della commistione dei ruoli e degli interessi e dell'omologazione tra schieramenti ridiamo fiato al populismo che avevamo pensato di aver sconfitto».

Immagino che lei sia portato a guardare con sospetto alle trasmigrazioni del centro-destra verso l'Unione e segnatamente verso la Margherita?

«Il fine della politica è far cambiare opinione agli avversari. È trasformismo quando non c'è un cambiamento evidente e manifesto delle opinioni. Noi dobbiamo invece dimostrare ai cittadini che siamo alternativi al sistema di potere berlusconiano e conquistare alle nostre ragioni anche chi è stato in passato nostro avversario. Guai se la gente pensasse che ci stiamo acconciando al "una volta per uno non fa male a nessuno"».

Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos'altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr'anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all'Occidente, di culto della morte, di suicidio dell'Europa. Un'Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr'anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell'Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr'anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.

Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L'Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all'Occidente, Culto-della-Morte, Suicidio-dell'Europa, Sveglia-Italia-Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi-terroristi-vogliono-distruggere-i-nostri-valori, che questo- stragismo-è-di-tipo-fascista-ed-esprime-odio-per-la-nostra-civiltà». Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla.

Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell'immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l'errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l'essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell'Islam. Io in questi quattr'anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell'impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell'impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell'ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull'Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l'ho capito e...

*** Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull'ecumenismo e sul comandamento Ama-il-nemico-tuo-come-te-stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l'altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell'autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c'erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l'assedio di Kara Mustafa, c'era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l'immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell'autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l'intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti?

Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d'accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l'Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no. La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D'ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim'ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant'Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch'io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un'eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.

***

La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l'intervista a Saad Al-Faqih, l'esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l'attacco all'Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l'Italia l'anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi-costringerete-i-romani-alla-resa. E vuole costringer l'Italia ad abbandonare l'alleanza con l'America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c'è solo l'imbarazzo della scelta».

Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all'erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d'arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell'«Apocalisse», l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d'essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall'indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l'autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d'essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l'attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa-degli-americani, colpa-di-Bush.

*** Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all'attacco contro l'Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s'intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s'intende anche di Arte. L'arte che il loro presunto Faro-di-Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d'arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta.

Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.

(Afp/Huguen) Copyright Oriana Fallaci Riproduzione vietata

Si' dall'Accademia dei Lincei all'uso degli embrioni congelati in sovrannumero per ottenere cellule staminali a fini di ricerca. E' quanto emerge dal documento sulle cellule staminali approvato oggi nell'adunanza delle Classi riunite dell'Accademia con 58 voti favorevoli, 8 contrari e 14 astenuti.

''L'Accademia Nazionale dei Lincei - si legge nel documento - si augura che sia evitata la perdita o l'eliminazione, invece dell'utilizzazione, degli embrioni soprannumerari congelati attualmente esistenti, e che il Parlamento approvi rapidamente leggi che consentano, in condizioni severe, controllate e protette da abusi, la donazione dei suddetti embrioni soprannumerari''. Secondo gli esperti dei Lincei ''verranno in tal modo accresciute le conoscenze scientifiche e, di conseguenza, alleviate le gravi sofferenze prodotte dalle malattie degenerative''.

Nel documento, in tre punti, si rileva che ''non e' ancora noto in quale misura le cellule staminali derivate dai tessuti adulti e dai cordoni ombelicali potranno sostituire, in tutto o in parte, quelle derivate dalle cellule fetali ed embrionali'' e che ''in seguito alle critiche sviluppatesi in numerose sedi, la ricerca con le cellule staminali derivate da embrioni soprannumerari congelati e' oggi di fatto vietata in Italia''. Ma secondo gli accademici ''esistono tuttavia validi argomenti in favore della rimozione di tali divieti''.

In primo luogo, si osserva nel documento, il divieto dell'uso degli embrioni congelati ''non sembra giustificabile dal momento che gli embrioni in questione sono comunque destinati a essere eliminati, e che lo scopo dell'uso e' quello di curare le malattie e cioe' di diminuire le sofferenze umane''. Inoltre gli studiosi osservano che il no alla sperimentazione con cellule staminali derivate da embrioni soprannumerari ''e' in conflitto con due dispositivi gia'esistenti nella legislazione italiana relativi all'interruzione della gravidanza e alla vendita, dietro prescrizione medica, della cosiddetta ''pillola del giorno dopo''. In terzo luogo il documento rileva che la Convenzione di Oviedo approvata dal Consiglio d'Europa nel 1997 e ratificata dal Parlamento italiano nel 2001 vieta la produzione di embrioni umani esclusivamente a fini di ricerca, ma non la produzione di embrioni a fini fecondativi ne' il loro uso a fini di ricerca di base ''nel caso il fine fecondativo divenga superfluo e gli embrioni siano destinati alla eliminazione''.

Il terzo punto del documento riguarda, infine, le ricadute positive della ricerca sulle cellule staminali e della medicina rigenerativa in generale per la terapia di malattie degenerative come quelle cardiovascolari e autoimmuni, diabete, osteoporosi, tumori, morbo di Alzheimer e di Parkinson.

Dal sito Molecularlab

Si stravolge la storia, quando si prepara, o si tenta, una radicale svolta politica. E questo è quel che ha clamorosamente affermato Bush nel suo discorso di Riga: «Gli Usa e la Russia sono ancora una volta in guerra» ha scritto Sergio Romano sul Corsera di domenica. Lo stravolgimento della storia è clamoroso: senza l'Urss, l'Armata rossa e i suoi 27 milioni di morti, Hitler avrebbe vinto la 2° guerra mondiale. La Germania nazista che aveva battuto la Francia e messo sotto scacco l'Inghilterra, libera da altri impegnativi fronti militari, scatenò tutta la sua forza contro l'Unione sovietica, registrando all'inizio successi clamorosi: la caduta di Mosca era nelle previsioni non solo di Hitler ma anche di Churchill. Tutto il potenziale militare nazista si avventò sull'Urss. Ma l'Unione sovietica non crollò, anzi. Nel febbraio del 1943 ci fu la resa di von Paulus a Stalingrado, indiscutibile annuncio della caduta di Berlino.

Solo dopo, nel luglio 1943 e nel giugno del 1944, gli sbarchi degli anglo americani in Sicilia e in Normandia e fecero fatica ad avanzare: la famosa linea gotica resistette.

Solo rimuovendo e stravolgendo questa verità storica si può dire che Yalta fu un errore. Le armate angloamericane avrebbero dovuto e potuto aprire il fronte dell'Est? Non sarebbe stato possibile militarmente (tra l'altro il Giappone era ancora in piedi) e tanto meno politicamente e culturalmente. Ma oggi Bush fa intendere che la guerra avrebbe dovuto continuare e così non andò per colpa di Roosevelt e Churchill, sciocchi e vili.

Ma che cosa significa nel contesto attuale la dichiarazione di Riga, la condanna di Yalta? Una cosa sola e tremenda: che Bush vuole riprendere la guerra stupidamente interrotta a Yalta. Non sono un apologeta di Yalta, che fu sempre un accordo tra potenze, ma non può non allarmare la dichiarazione di Bush che dopo Riga va in Georgia, pensa all'Ucraina e minaccia la Bielorussia. Siamo alla sostanza di una dichiarazione di guerra con l'obiettivo di un impero mondiale.

Il disegno annunciato è questo. Finita la guerra fredda si stanno mettendo le premesse per un'azione di conquista. E qui c'è della follia, che non si spiega neppure con le leggi più terribili del capitalismo.

In queste condizioni è naturale che Putin, e questa volta con lui la Russia, reagiscano con l'orgoglio della guerra patriottica e con le bandiere rosse dei veterani, che hanno battuto Hitler e che sono entrati per primi a Berlino. Inevitabile e senza, almeno per ora, un ripensamento di quel che è stata l'esperienza dell'Unione sovietica e di come potrebbe e dovrebbe essere corretta senza dare spazio agli oligarchi e a un capitalismo selvaggio. Ma è inevitabile. Quello di Bush è un appello alla guerra che non dà spazio e tempo a pensare a un progresso socialista e democratico, non staliniano. Annuncia solo guerre, repressioni e violenze generalizzate.

MANCANO le parole per dire le impressioni e l´emozione di fronte alla grandezza di quella liturgia per i funerali di Papa Wojtyla: lì c´era l´eco dei secoli e dei millenni; c´era una Chiesa che per un suo Papa, al momento della morte, usa le stesse parole, le stesse preghiere che per uno qualsiasi dei suoi fedeli e invoca da Dio misericordia perché tutti sono peccatori. E c´era un popolo venuto da ogni parte del mondo, e soprattutto dalla sua Polonia, che ha fatto irruzione nella celebrazione liturgica con numerosi applausi e con la richiesta di una beatificazione immediata.

come nei primi secoli cristiani, quando le beatificazioni non erano regolate dalle norme del diritto canonico: "santo subito" c´era scritto su un grande cartello.

Qualcuno ha notato che nella omelia del cardinale Ratzinger, a differenza che nel testamento di Wojtyla, non c´era il Concilio Vaticano II; ma quello del cardinale era un discorso affettuoso e aristocratico, preoccupato di non apparire un programma da successore. È difficile in ogni caso immaginare ipotesi di restaurazione di fronte a un popolo immenso che interviene nella liturgia, che fa sentire la sua voce: sarà impossibile tornare indietro rispetto alla acquisizione fondamentale del Concilio della Chiesa come "popolo di Dio". E poi, si sa, le restaurazioni falliscono sempre…

Per mio conto, dopo l´ossessione mediatica dei giorni della malattia, e poi di fronte alla annunciata solenne celebrazione in piazza San Pietro e alla città invasa e schiacciata dai pellegrini di ogni parte del mondo sentivo un inconfessabile desiderio alternativo: quello di una celebrazione non concentrata tutta fisicamente in San Pietro, che avesse, sì, in Roma il suo punto dominante di riferimento, ma fosse articolata, nel mondo, nelle diverse comunità cristiane, quasi a sottolineare che la Chiesa è fatta di tante comunità locali, che la Chiesa è realtà complessa, unita, sì, nel Papa ma non è il Papa. Perché un rischio di questo papato è stato proprio, a mio avviso, quello della identificazione del Papa con la Chiesa stessa, di un soffocamento delle chiese locali, di un sacrificio della collegialità…

E allora ho tentato di realizzare il mio disegno alternativo e sono andato a Messa nella mia parrocchia: in una chiesa quasi deserta un giovane prete ha letto il Vangelo di Giovanni nel quale si narra il famoso episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci per sfamare la folla che aveva seguito Gesù. L´episodio si conclude così: "Allora la gente visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: ‘Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo´. Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo nella montagna tutto solo".

Mi pare che quel "tutto solo" sia lo spazio della coscienza, del rapporto interiore con il mistero di Dio, sia l´antidoto alla tentazione di trasformare una manifestazione di fede, spontanea, bella e vissuta, di popolo, in un segno di potenza. Questa manifestazione di popolo c´è stata e come dicevo all´inizio ne sono stato anch´io affascinato e coinvolto, anche se solo attraverso uno schermo televisivo. Non c´è dubbio: Papa Wojtyla, con il suo pontificato e con la sua morte, lascia una Chiesa più potente, più ascoltata, più riverita: il presidente americano, che tanto poco aveva ascoltato il monito di Wojtyla contro la guerra era presente, primo fra i potenti del mondo, ai suoi funerali.

Ma, paradossalmente, la condizione di questo prestigio, di questa capacità di presa sul popolo è proprio negli spazi di quel "tutto solo" nei quali Gesù si rifugiava, spazi del resto ben noti al grande Papa che ci ha lasciati. Forza e debolezza nella Chiesa sono strettamente intrecciate: la Chiesa, è stato detto acutamente, è un forza debole

La tentazione della Chiesa mi sembra, oggi, quella di affidarsi alla forza che Wojtyla le ha assicurato, di affidarsi alla comunicazione mediatica (ma chi saprebbe usarla come il Papa scomparso ha saputo fare?) dimenticando l´ascolto e il rapporto diretto con gli uomini del nostro tempo, come condizione dell´annuncio. La manifestazione trionfale in San Pietro è anche una grande sfida per la Chiesa di domani.

Mancato l’obiettivo che era stato fissato per l’8 marzo (le donne non avrebbero gradito) il Senato voterà la nuova Costituzione mercoledì prossimo, che una volta si chiamava mercoledì santo. Ciò facendo il Senato voterà non solo contro l’ordinamento della Repubblica, per dare vita a un nuovo regime, ma voterà anche contro se stesso; infatti nel nuovo sistema il Senato non avrà più alcuna funzione politica di controllo del governo del Paese, e perderà anche il suo ruolo nella formazione delle leggi, tranne di quelle che, attraverso un complicato gioco di competenze gli verrebbero ancora date in esame in quanto interessanti le regioni. Il Senato pertanto, benché col nuovo nome pretenzioso di “Senato federale”, diverrebbe una “Camera muerta”, come ha detto il sen. D’Amico della Margherita, alludendo al nome irriverente con cui è chiamata la seconda Camera spagnola.

Forse è per questa riluttanza al suicidio che i senatori hanno fatto mancare più volte il numero legale, provocando l’ira di Calderoli e facendo scattare l’ennesimo ricatto della Lega, che vuole a tutti i costi la riforma prima delle elezioni regionali, e perciò prima di Pasqua. Se dunque anche questa volta il ricatto funzionerà (“bastano cinque ore e mezzo di lavoro”, ha detto Berlusconi), la nuova Costituzione completerà tra poche ore la sua prima lettura parlamentare, quella nella quale le storture più vistose della riforma potevano ancora essere corrette. Dopo il voto del Senato, o la nuova Costituzione, con la sua seconda parte interamente rifatta, arriverà fino in fondo in questa forma, o non ci arriverà affatto. Ma quando questo avverrà dipende esclusivamente dai calcoli elettorali del presidente del Consiglio (si chiama ancora così) che deciderà se accorciare o allungare i tempi della seconda lettura parlamentare, da tre mesi ad un anno, unicamente in base a quelle che ritiene le sue convenienze, come del resto accade per tutto il resto, truppe in Iraq, tasse, ponte sullo Stretto ecc., che andranno avanti o indietro a seconda dei sondaggi e dei supposti vantaggi elettorali per il cavaliere.

Così anche la Costituzione della Repubblica è pronta ad essere scambiata per un piatto di lenticchie; se sarà elettoralmente conveniente, il trofeo sarà consegnato a Bossi prima dell’estate, così che il referendum costituzionale si svolgerebbe prima delle elezioni politiche del 2006; altrimenti i tempi della seconda lettura saranno ritardati, e la Lega continuerà a minacciare sfracelli.

Questo gioco sui tempi, che agita le acque della maggioranza di governo, è molto significativo, perché vuol dire che l’illusione della destra di un cambio di regime indolore, fatto senza che la gente se ne accorga, senza rischiare l’impopolarità, sta tramontando. La tattica dell’occultamento, del silenzio, della dissimulazione del sovvertimento della Repubblica dietro la maschera della “devolution” e del federalismo, ha funzionato per mesi, per anni, grazie anche alla complicità, o alla trascuratezza, o alla incredulità dei giornali, della TV, e della stessa sinistra; ma basta che il velo si squarci, che la vera natura della riforma si venga a sapere, perché l’opinione pubblica si allarmi, chieda di essere informata, si accorga di avere nella Costituzione un bene che sta per perdere e si prepari a combattere nel referendum, come possono attestare tutti quelli che in questi giorni girano l’Italia per difendere la Costituzione, a cominciare dal presidente Scalfaro, gratificato dal più totale silenzio-stampa. E mentre la gente si sveglia, l’operazione coperta, clandestina, intrapresa dalla destra si rivela perdente e indifendibile.

Una clamorosa conferma di ciò si è avuta nelle reazioni furenti che si sono scatenate contro Prodi quando infine ha denunciato questo “assalto alle istituzioni” proprio perché “nessuno possa dire domani che non sapeva, che non vedeva, che non capiva”. La virulenza delle contumelie rovesciate su Prodi, l’irrisione, la caricatura, la volontà di screditarlo e delegittimarlo, senza in nessun modo entrare nel merito della sua critica, da Berlusconi a Fini a Schifani, sono state così esacerbate e adirate da mostrare che non ce l’avevano con quello che Prodi aveva detto, ma col fatto che l’avesse detto, cioè che avesse rotto l’omertà, la finzione, l’inganno, e avesse detto: il Re è nudo.

Dunque è essenziale che si faccia chiarezza su quello che è il vero obiettivo della riforma: questo obiettivo è la Repubblica. Si è creduto o si è fatto finta di credere che la Lega avesse rinunziato al suo proposito di scardinare lo Stato, passando dal programma secessionista ai più miti consigli del federalismo. Ma il 12 marzo scorso Bossi ha detto al Corriere della Sera: “La devoluzione è la leva per scardinare il sistema. Fatto il federalismo politico, sarà difficile tornare indietro. Quando la gente potrà decidere i programmi, reclamerà i soldi per realizzarli”. Il fisco come tessuto connettivo dello Stato moderno; distrutto il fisco, è distrutto lo Stato. E nella manifestazione leghista di Verona contro il giudice Papalia, una lapide in marmo celebrava insieme la morte metaforica del procuratore-capo Guido Papalia, “con la morte della Repubblica italiana”.

Berlusconi invece non vuole dividere la Repubblica, ma unificarla sotto il proprio potere sovrano. Tale è la riforma che, proprio come ha detto Prodi, esautora il Presidente della Repubblica, umilia le Camere, limita il ruolo delle istituzioni di garanzia, espropria le opposizioni (perfino del voto in Parlamento), instaura la dittatura del primo ministro, e insomma trasforma la Repubblica parlamentare e rappresentativa nel feudo inalienabile di un monarca, benché ancora formalmente elettivo. Sicché non sarà nemmeno proponibile il paragone tra la nuova Costituzione e quella del 47 oggi vigente; il vero confronto dovrà farsi per analogia col precedente della legge 24 dicembre 1925 in cui venne istituito “il governo del re” esercitato dal “capo del governo, primo ministro, segretario di Stato”, che sanciva la subordinazione del Parlamento al potere esecutivo, sicché il capo del governo, primo ministro e segretario di Stato (e Mussolini aggiunse di suo: duce del fascismo), poteva far di nuovo votare e approvare senza discussione una proposta di legge rigettata da una Camera; fu quello l’inizio del regime. Quando Brecht si chiedeva nel suo dramma come era potuta avvenire “la resistibile ascesa di Arturo Ui”, ecco, era avvenuta così. E a chi non vuol sentir parlare di regime, basti dire che secondo la nuova Costituzione i poteri del primo ministro non incontrerebbero limiti istituzionali; e ciò è tanto vero che un difensore della riforma, il senatore di Forza Italia Vizzini, intervenendo al Senato ha esortato a non preoccuparsi per la “deriva bonapartista”, perché in ogni caso a frenare “il potere governante” interverrebbero “altri fattori di natura extraistituzionale, quale ad esempio la cultura politica dominante nel Paese”. Questo è dunque l’avversario nei cui confronti vuole affermarsi il nuovo potere, questo è l’antagonista contro cui la riforma è fatta: “la cultura politica dominante”, cioè la cultura democratica del Paese.

E in effetti è proprio questa che deve salvare la Repubblica. Anche ricordando che c’è uno specifico divieto costituzionale che rende radicalmente illegittima la riforma in corso d’opera: è l’art. 139 della Costituzione, l’ultimo, il quale stabilisce che ”la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Ciò non riguardava i Savoia, a cui pensava un’altra norma, transitoria e finale, della Costituzione. Riguardava la forma repubblicana, cioè parlamentare e rappresentativa dello Stato, che è appunto quella che la riforma demolitrice, il cui obiettivo è la Repubblica, verrebbe a travolgere.

Da quando ci siamo messi a fare le guerre per gli altri, lo stato della nostra conoscenza è una quotidiana accettazione della menzogna o del silenzio, una quotidiana condanna a prendere per vere notizie che sappiamo false o manipolate.

Sappiamo che la verità grossomodo esiste, nelle sue grandi linee, nei suoi grandi dati di fatto e soprattutto nei suoi effetti, come esiste un´etica, uno stile, un buongusto, ma oggi stanno sempre in un luogo irraggiungibile. Si può al massimo rimpiangerli, evocarli, celebrarli fra pianti e sospiri ma non riportarli fra le normalità della vita. Se si tenta di farlo si finisce immediatamente in qualche infame "anti": antiamericano, antidemocratico, antimoderno e da qualche tempo anche antifascista, l´ "anti" che non piace alla maggioranza sdoganata. La morte di Nicola Calipari a Bagdad è solo l´ultimo atto di una storia che parte da lontano. Si è cominciato con la guerra del Golfo. Per sapere come stavano le cose dovevamo accontentarci di ciò che passava il Pentagono. Una strana guerra di finte immagini che venne interrotta nel giorno in cui era vinta, per ragioni non spiegabili perché non confessabili, inerenti al mercato del petrolio. Poi a queste guerre non confessabili abbiamo cominciato a partecipare, a iniziare dalla guerra ai talebani in Afghanistan. Partì per l´Oceano Indiano la nostra flotta, per farci che nessuno ce lo spiegò, e a ragione perché non poteva muoversi di un metro senza il permesso degli americani, aveva una mini-portaerei che pareva una zanzara al confronto delle gigantesse Usa. Finì che un bel giorno la squadra fece ritorno a Taranto e a salutarla c´erano solo i parenti dei marinai. Certo non è facile dire la verità quando la verità è scomoda. Non era facile raccontare che il nostro corpo di spedizione alpino in Afghanistan mandato a caccia di ribelli e di terroristi sulle montagne deserte di Tora Bora dipendeva dagli americani per i trasporti aerei, dai loro magazzini per i rifornimenti e che avevamo come arma migliore un mortaio, arma di rado usata nelle guerre partigiane. Anche gli alpini sono tornati a casa quasi di nascosto perché non c´era nulla da celebrare. E´ piuttosto deludente, piuttosto umiliante, e perciò poco confessabile ripetere in peggio le già magre figure del fascismo quando per restare qualche mese in più in Libia dovettero arrivare i tedeschi dell´Afrika Korps.

Raccontare le cose come stanno nell´Iraq è più che mai impossibile. I nostri tremila soldati non possono uscire dal campo trincerato di Nassiriya. Il governo dice che stanno lì per aiutare la pace e la ricostruzione ma appena gli insorti, come li chiamano, entrano in città arrivano gli aerei americani a bombardare i quartieri civili, alla faccia della ricostruzione. Su tutte le nostre vicende irachene scende una coltre di omissioni. Trattiamo con il nemico insorto per non essere attaccati, per liberare i nostri sequestrati, ma ci sdegniamo se gli americani detestano questo doppio gioco.

Vogliamo fare la guerra ma fingendo che essa sia indolore.

Non abbiamo molta simpatia per Edward Luttwak, esperto dell´arte militare contemporanea, ma quando ci ricorda che in guerra si muore e che i morti per fuoco «amico» sono quasi pari a quelli morti in battaglia ha perfettamente ragione, e sbaglia la nostra abitudine di coprire questa realtà con la retorica, le bandiere, i riti funebri. Di chi è stanco di questa tragica recita dice che è un antiamericano. Un insulto ai millecinquecento americani che ci hanno perso la vita, e una sacrosanta distinzione da una guerra sbagliata, che non ha risolto nessuno dei problemi del Medio Oriente e tutti li ha aggravati. La frase che più è ripetuta fra gli italiani è: «Non ci capisco più niente». Non si capisce perché un governo «del fare» contrario al «giochino della politica» faccia quel che fa a scopi prevalentemente elettorali cioè basati sulla propaganda che è l´arte della menzogna di massa. Che differenza con quel catastrofista di Winston Churchill, che, in tempi difficili, ai suoi diceva: «Posso promettervi solo lacrime e sangue». Alla fine fu il catastrofista a vincere.

Lunedì sera, ospite su Raiuno della trasmissione «Conferenza Stampa», Silvio Berlusconi ha accusato l’Unità di averlo definito un «mostro bavoso». Data la profonda gravità e volgarità dell’ingiuria abbiamo subito proceduto a una ricerca di archivio per verificare l’esattezza della citazione che se confermata ci avrebbe naturalmente imposto di rivolgere le più sentite scuse al presidente del Consiglio.

La ricerca ha effettivamente confermato che in data 7 dicembre 2004 la rubrica «Bananas» di Marco Travaglio aveva come titolo «Qua la mano mascalzone (non mostro, ndr) bavoso». Il testo, effettivamente, contiene una serie incredibile di insulti, offese, oltraggi, contumelie che sommati l’uno con l’altro determinano un’aggressione personale senza precedenti nei confronti di un leader politico. Si parla nell’ordine di «leader rottamato», «fior di mascalzone», «uomo dal passato cupo di ombre», «amico dei golpisti», «bavoso», «vergognoso», uno che «ha fatto a pezzi il Paese», «salame», «come chi in America latina adorava il mitra», «disastro», «medium da retrobottega», «capo di uno schieramento demenziale e violento» fatto di «poveracci» e da «squadristi da far valere alle manifestazioni», «canagliesco», «attrezzo per disperati», «figura indegna», uno che «è entrato in una cabina telefonica, si è tolto il liso panciotto, si è spolverato la forfora, si è spogliato ed è rimasto nel costume con mantellina con la grande “M” di Mascalzone». Solo che l’oggetto di tanto odio non è Silvio Berlusconi bensì Romano Prodi. Travaglio, infatti, si è limitato a riportare tutte le infamanti citazioni contenute nell’articolo pubblicato il giorno prima sul «Giornale» di proprietà della famiglia Berlusconi, a firma di Paolo Guzzanti, vicedirettore del quotidiano e senatore di Forza Italia.

Da notare che l’altra sera, su Raiuno, Berlusconi ha potuto diffamare l’Unità a colpi di citazioni false (attingendole dal dossier già distribuito alla stampa, che definisce questo giornale affetto da «sindrome nazicomunista») senza che la conduttrice Anna La Rosa e i quattro colleghi presenti, certamente a conoscenza delle farneticazioni prodotte dagli appositi uffici del premier, abbiano potuto obiettare alcunché. È veramente paradossale (per non dire altro) che il Berlusconi che si presenta in televisione con l’aria della vittima costretta a subire ingiurie e derisione è lo stesso Berlusconi che un giorno sì e l’altro pure insulta pm e giudici (”toghe rosse”, “eversori”, “golpisti”, “comunisti”, “fascisti”, “come la banda della Uno Bianca”, “criminali”, “matti”),giornalisti e attori (Biagi, Santoro e Luttazzi “criminosi”), capi di Stato (Scalfaro “golpista e ribaltonista”) e semplici cittadini (”faccia da stronza”, alla signora di Rimini che lo invitava a tornare a casa).

A questo punto ci aspettiamo che Berlusconi renda, se ne è capace, le sue più sentite scuse a Romano Prodi, all’Unità e alla verità.

Magari non sarà proprio « enorme » come sostiene Fausto Bertinotti.

Ma di sicuro la vittoria di Nichi Vendola nelle primarie pugliesi del centrosinistra è un evento politico di grandissimo rilievo che va assai oltre la Puglia. In primo luogo perché segnala nel modo più clamoroso alcune evidenze sin qui sottaciute o sottovalutate, ponendo i riformisti della coalizione - in primo luogo i Ds che stanno per riunirsi a congresso - di fronte a questioni non più rinviabili.

Piaccia o no, i 40mila e passa elettori di centrosinistra che hanno decretato di misura la vittoria di Vendola sul moderato Francesco Boccia testimoniano dell'esistenza in Italia, e non soltanto in Puglia, di una realtà ben più significativa, più diffusa e più radicata di quanto lascino intendere espressioni come " sinistra radicale" o " sinistra antagonista"; o di quanto dicano le sole percentuali elettorali di Rifondazione comunista.

Esiste cioè il popolo assai più vasto e più variegato ( così vasto e variegato da comprendere anche molti militanti ed elettori della Quercia, poco o per nulla inclini al radicalismo e all'antagonismo) di una « sinistra sinistra » che, nonostante tutte le divisioni, su alcune questioni fondamentali parla lo stesso linguaggio, coltiva gli stessi sentimenti, nutre le stesse passioni. In una parola, trova una sua identità comune.

Questa « sinistra sinistra » , radicata e identitaria, fatica a pesare fin quando il luogo della decisione resta circoscritto nei partiti e tra i partiti.

Ma se la scelta viene demandata a quello che potremmo definire l'elettorato attivo dell'Alleanza, chiamandolo a scegliere non solo tra diverse persone, ma tra diverse concezioni dell'Alleanza medesima, il suo peso si fa sentire, eccome. E' successo in Puglia con Nichi Vendola, che non è affatto un improvvisato estremista, ma un professionista politico che ha fatto studi regolari in una scuola seria quale fu il Pci. Succederà, o è assai probabile che succeda, in altre e più importanti primarie, quelle per incoronare il candidato premier della coalizione, alle quali Bertinotti si è iscritto da mesi. Non per vincere, certo, ma per far pesare i ( molti) consensi che raccoglierà. Non da segretario di partito, ma da leader di una componente decisiva della coalizione.

Romano Prodi, al suo ritorno in Italia, è stato criticato neanche troppo implicitamente da vari esponenti moderati del centrosinistra per aver dato quanto meno l'impressione di considerare Bertinotti un suo interlocutore previlegiato, o forse addirittura il suo interlocutore più importante. Queste primarie pugliesi confermano che si è trattato di critiche tanto comprensibili quanto infondate. Prodi, semmai, è stato lucido: questa sinistra c'è, conta, non mette in discussione in alcun modo la sua leadership, anzi, la investe del compito di rappresentare in prima persona il punto di vista dei moderati. Semmai sono gli altri leader riformisti e i loro partiti a farsi sentire flebilmente. Come se la ricomparsa della « sinistra sinistra » avesse svelato tutta la debolezza dell'identità politica e culturale di un riformismo, quello italiano, da sempre restio a dare battaglia in campo aperto, quasi che la primazia nell'Alleanza gli toccasse di diritto.

Ha posto e continua a porre la questione Francesco Rutelli: a modo suo, tirando qualche calcio negli stinchi e parecchi sassi in piccionaia. E Piero Fassino teme che ogni uscita di Rutelli dia un aiuto, di fatto, a Bertinotti e compagni, perché radicalizza, per reazione, l'elettorato di sinistra. In parte è anche vero. Per far valere le sue ragioni riformiste, se lo vuole, ha però la migliore delle occasioni, il congresso. Non sarà facile. I numeri congressuali sono tutti dalla sua. Ma il maggior partito della coalizione comincia a sentirsi un po' stretto.

MILANO - L´estate calda di Gianpiero Fiorani, che stava per diventare uno dei banchieri più potenti d´Italia, è durata veramente poco. Nel giro di meno di sei mesi è passato dai trionfi azionari alle dimissioni e al carcere. Se a luglio era convinto di aver già in mano il controllo della Banca Antoveneta (contesa anche dagli olandesi della Abn-Ambro), all´inizio di agosto si trovava sotto inchiesta da parte della magistratura, con le azioni Antoveneta sequestrate, e, da lì a poco, spinto alle dimissioni da tutte le sue cariche nel gruppo Banca Popolare di Lodi (nel frattempo ribattezzata Popolare Italiana per prepararla ai più alti destini a cui sembrava destinata).

In Italia Fiorani non è il primo raider che conclude la sua carriera in modo drammatico, ma è certamente quello che è durato meno e, in un certo senso, è stato anche il primo raider istituzionale. Nel senso che si è mosso sotto l´ala protettrice della Banca d´Italia, cosa mai successa in questo paese.

La sua carriera è molto semplice e lineare fino al gennaio dello scorso anno. Sbarcato quasi per caso nella Popolare di Lodi, sonnolenta banca di provincia per facoltosi agricoltori e vivaci commercianti locali, ne cambia rapidamente la natura, facendone un istituto molto dinamico che si lancia nell´acquisto di altre banche di periferia.

Cattolico, tutto casa, ufficio e famiglia, entra presto nelle grazie del governatore della Banca d´Italia, Antonio Fazio, che non è molto diverso. Se Fiorani ha l´animo del grande conquistatore di banche, Fazio ha quello del monarca assoluto. E quindi gli va bene questa specie di colonnello che si incarica di terremotare la geografia bancaria del Nord.

Al Governatore i grandi banchieri di Milano e di Torino stanno francamente sulle scatole. Sono bravi, girano il mondo e hanno l´aria di essere un po´ troppo indipendenti. E, soprattutto, pensano. Una volta sono arrivati addirittura al progetto di fare un´Opa sulla Comit e sulla Banca di Roma. Lui li ha fermati, grazie ai suoi super- poteri, ma da quel giorno non si è più fidato.

Da lì l´idea di trovare qualcuno che prendesse le misure ai Signori del Nord. Insomma, Fiorani. Un uomo con un pedigree bancario quasi ridicolo (la Lodi e basta, mai stato in una banca più grande), ma spregiudicato e fedele. E allora via con il sostegno pubblico, ostentato, nelle riunioni dei banchieri e, privatamente, l´invito a procedere.

Quando all´inizio del 2005 gli olandesi dell´Abn-Ambro (stufi di sentirsi dire di no dal governatore), decidono di lanciare la loro Opa sulla Banca Antoveneta, Fiorani e Fazio sono già pronti. Il primo si mette a comprare azioni di nascosto (servendosi di una rete di complici ai quali assicura lauti guadagni), il secondo tira tardi nella concessione delle autorizzazioni agli olandesi. Quando finalmente queste arrivano (perché non si può fare altrimenti), Fiorani e i "furbetti del quartierino" sono già pieni di azioni Antoveneta e sono in grado di far fallire l´Opa.

Ma gli olandesi presentano un esposto alla magistratura nel quale parlano dei loro sospetti. Scattano le indagini che porteranno prima al sequestro delle azioni Antoveneta comprate di nascosto (senza lanciare una regolare Opa), e poi alla rovina dello stesso Fiorani.

Nello stesso periodo erano partite altre due scalate: quella (insensata) di Stefano Ricucci alla Rcs e quella di vari immobiliaristi romani alla Bnl (che era sotto Opa da parte degli spagnoli della Bbva). Il Ricucci, un ex odontoiatra romano diventato ricco con palazzi comprati e venduti, si impantana quasi subito. E la stessa cosa capita agli immobiliaristi romani (fra cui c´è anche Ricucci) fino a quando non arriva l´Unipol, la punta di diamante della "finanza rossa" a rilevare la loro impresa.

Intanto le indagini dei magistrati proseguono a ritmo sostenuto e ben presto salta fuori che le tre scalate della calda estate del 2005, se non sono la stessa cosa, sono molto vicine. Un po´ tutti (compresi gli uomini dell´Unipol) hanno partecipato agli stessi affari e si sono fatti diversi favori. Nel caso di Ricucci e Fiorani i legami sono addirittura imbarazzanti. Se Ricucci ha rastrellato azioni Antoveneta (tenute, ovviamente, a disposizione di Fiorani), Fiorani ha finanziato quasi per intero la stupida scalata dello stesso Ricucci alla Rcs (e infatti quelle azioni stanno, come inutili e costosi rottami, nei forzieri della banca lodigiana).

Insomma, sul piano politico i più avvertiti si rendono conto che c´è stato un piano per dare l´assalto alle banche del Nord (attraverso la creazione di un mega-gruppo guidato da Fiorani) e alla Rcs (e quindi al Corriere della Sera), cioè a quello che si è soliti definire come l´establishment del Nord, poco in sintonia con il Governatore (ma anche con la maggioranza di governo).

Non a caso gli scalatori dell´estate ottengono un appoggio entusiasta da parte della Lega, un appoggio più moderato dagli altri settori della maggioranza e, purtroppo, anche da qualche esponente dei Ds (fra i raider dell´estate c´è la finanza rossa dell´Unipol, alla ricerca di un po´ di gloria e di promozione nella scena finanziaria).

Il dibattito politico sull´estate degli scalatori non fa molta strada, per la verità. Si muove invece molto velocemente la magistratura. Prima vengono accertate palesi violazioni delle norme che devono regolare il mercato azionario (acquisti clandestini delle azioni delle società contese), poi accertano arricchimenti illeciti di Fiorani e dei suoi amici. Saltano fuori conti segreti, finanziamenti occulti e conti "a rendimento garantito" (solo per gli amici, compresi alcuni parlamentari strenui difensori di Fazio).

È probabile che non tutto sia venuto alla luce e che i "furbetti del quartierino" avessero ancora la possibilità di manovrare, nascondere risorse, imbrogliare le carte, benché allontanati da tempo dalle loro cariche. E così alla guardia di Finanza è stato impartito l´ordine di radunare i più esposti e di accompagnarli in carcere.

Finisce così una stagione complicata e segnata da molte, troppe complicità ai maggiori livelli. Adesso si aspetta che, prima o poi, venga a galla tutta la storia di un assalto che per qualche settimana ha fatto tremare le roccaforti del capitalismo italiano e che da mesi continua a suscitare interrogativi. Possibile che nessuna delle autorità di controllo si sia mai resa conto di niente?

Ci sono almeno due poste in gioco nel caso-Bologna che vanno aldilà del caso-Bologna. Una riguarda l'idea di governo, l'altra l'idea di legalità. Comincio dalla prima, che è più semplice. Secondo uno dei refrain che imperversano in questi giorni, l'esperimento Cofferati ha dimostrato una volta per tutte un teorema lapalissiano, questo: la sinistra può fare l'estremista finché sta all'opposizione e parla dalla piazza, ma una volta che va al governo deve governare, levarsi i grilli dalla testa e fare le cose che si devono fare quando si governa. Di qualsiasi colore sia il governo, la governabilità è governabilità, la governance è governance, la sicurezza è sicurezza, la responsabilità è responsabilità, l'equilibrio è equilibrio e se ci vogliono le ruspe contro gli immigrati o il pugno forte contro i centri sociali ci vogliono le ruspe e il pugno forte. Il teorema non è nuovo; nuovo è che a farsene portatori siano molti paladini del bipolarismo come garanzia dell'alternanza. Domanda: se il governo è governo a prescindere dal colore che ha, a che servono il bipolarismo e la competizione fra due schieramenti alternativi? Tanto varrebbe farla finita con questa finzione e computerizzare la funzione di governo, un bel robot e via, con gli stessi imput, le stesse priorità, la stessa bussola fissa sul centro moderato e sulle sue ossessioni.

Ma che dovrebbe fare un robot con la legalità? Facile, applicare le leggi, senza se e senza ma, così come sono e senza guardare in faccia nessuno.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe, non in un campo di rom ma fra i proprietari di case in affitto in una città come Bologna, o, per guardare più in alto, nei vertici di governo in un paese come l'Italia. E qui si dimostra un altro teorema lapalissiano, questo: che la legalità è legalità, ma i criteri e le priorità con cui la si applica, a livello locale, nazionale e internazionale sono politici. Si può cominciare dai lavavetri o dai proprietari di case. Dalle bottiglie di birra o dalla mafia. Dai clandestini o dal cpt di Agrigento. Dai ladri di biciclette o dal conflitto d'interessi. Dai centri sociali o dalle guerre preventive: questione di scelte.

Questo per dire che siamo tutti d'accordo che la legalità è uno dei due pilastri (l'altro è la legittimazione popolare, ovvero il voto) di una repubblica costituzionale, ma non siamo affatto tutti d'accordo sul rapporto che c'è fra legalità, potere e politica della trasformazione (se ancora ce n'è una).

In un paese come l'Italia in cui l'illegalità è al potere, e chi è al potere urla da alcuni lustri che gli bastano i voti e della legalità se ne infischia, è giusto e dovuto pretendere che il potere si sottoponga al vincolo della legge. Ma non è né giusto né dovuto imbrigliare nella legalità qualsiasi forma di pressione sociale o di politica, per quanto moderata, del cambiamento, che ha l'obbligo non di subire ma di spostare i confini della norma e gli equilibri sociali che la norma produce.

Sergio Cofferati è convinto del contrario, tanto da sostenere, contro un paio di secoli di storia, che tutta la vicenda del movimento operaio è una vicenda di lotta dentro le regole, per le regole. Il che inquieta ma non stupisce, se si considera la vicenda politica di Cofferati scremandola dall'investimento immaginario di cui la sua figura era stata fatta oggetto pochi anni or sono. Ma dovrebbe interrogare molti che a quell'investitura avevano partecipato agitando in buona fede la bandiera della legalità non contro i rom ma contro palazzo Chigi. Forse quella bandiera è venuto il momento di issarla con qualche criterio.

idomini@ilmanifesto.it

L´odierna discussione della «questione cattolica» è resa particolarmente difficile da una comune ma opposta disposizione d´animo diffusa sia nel mondo cattolico che in quello laico. La si potrebbe dire una sindrome da accerchiamento. È stupefacente constatare che molti cattolici, in perfetta buona fede, considerano la propria religione insidiata nella sua stessa esistenza dalla laicità, identificata con relativismo etico, edonismo, materialismo, scientismo; che per molti laici, altrettanto in buona fede, è invece l´attivismo politico della Chiesa a minacciare i principi stessi su cui il loro mondo si fonda: pluralismo di fedi, convinzioni e modi di vivere, rispetto delle coscienze, autonomia del diritto dalla morale, libertà della scienza. Per ognuna delle parti, l´altra è una minaccia. È la condizione più favorevole allo scontro e meno favorevole al dialogo. Ma il dialogo, tuttavia, per preservare le fondamenta, è tanto più necessario quanto più difficile. Benemerito chi, nell´uno e nell´altro campo, opera per tenerlo vivo.

La «questione cattolica» è una messe di questioni: cristianesimo e identità, Chiesa e Stato, Chiesa e democrazia. Iniziamo dal primo binomio.

Identità è la parola magica di tutti coloro che pensano al Cristianesimo come religione civile, come strumento di governo delle società. Le discussioni sul Preambolo del fallito progetto di Costituzione europea sono state dominate dalla questione dell´identità cristiana. La stessa idea si riaffaccia ogni volta che, nel nostro Paese, si parla della posizione materiale e simbolica che è giusto assegnare alla religione nella vita pubblica. Nella controversia circa l´esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, alla libertà e uguaglianza delle coscienze si contrappone l´identità religiosa come valore nazionale. I privilegi che la Chiesa rivendica come diritti (insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, finanziamenti diretti e indiretti, agevolazioni tributarie, posti nelle più diverse istituzioni, ecc.) si vogliono giustificare con l´essenza cattolica dell´identità nazionale. Ancora l´identità è invocata tutte le volte che si toccano temi di morale tradizionale, come la famiglia e la procreazione. Infine l´identità in pericolo è l´argomento principe di coloro che – cattolici e non cattolici – propugnano una politica di difesa aggressiva nei confronti dell´Islam.

In tutti i casi, identità è la cittadella assediata, l´ultimo fortino da difendere, magari attaccando, prima della capitolazione. Questa resistenza unisce cristiani credenti e cristiani non credenti che si dicono tali per ragioni politiche (teo-con, atei-devoti o come altrimenti li si denominino).

La spendita politica del Cristianesimo va di pari passo con una triplice riduzione: A) dell´identità a storia; B) della storia europea a Cristianesimo e C) del Cristianesimo a Chiesa. In tal modo, il gioco è fatto: la difesa dell´identità finisce con l´allineamento alla Chiesa. Vediamo.

A). Identità è un modo per dire «carattere essenziale». Nel dibattito pubblico, la parola è stata banalizzata. Quasi non c´è «opinionista» o uomo politico che non se ne serva a piene mani. Ma la banalità nasconde le ambiguità. Soprattutto, occulta la domanda se l´identità sia un fatto oppure, nei limiti in cui siamo capaci di elaborare e selezionare culturalmente il nostro passato e progettare un avvenire, un´elezione. Come se non potesse essere altrimenti, la si assume come fatto o, meglio, insieme di fatti, cioè storia. La questione dell´identità, nella sua essenza, è una questione di filogenesi storica, di competenza della storiografia.

Siamo prodotti della storia e non possiamo negare la storia senza negare noi stessi. Quante volte si è detto: non possiamo recidere le radici! E le radici sono un dato della vita naturale.

Questa concezione dell´identità è acritica e aggressiva e corrisponde all´idea di sé propria delle società tribali. E´ acritica, perché nell´identità in cui dovremmo riconoscerci starebbero, allo stesso titolo e col medesimo valore, il centurione che presso il Colosseo ci ricorda il panem et circenses, l´Accademia dei Lincei che rinnova il ricordo dell´Umanesimo italiano, la Marcia su Roma e le Fosse Ardeatine, per fare qualche esempio. Non è forse una coincidenza se una certa storiografia revisionista che, tramite assoluzioni generalizzate e appiattimento dei valori, chiede l´assunzione in blocco del passato nella nostra identità «nazionale» è la stessa che difende il Cristianesimo come religione civile. Ma questa concezione è anche aggressiva. Di fronte alle sfide, non ci possiamo mettere in discussione. Se lo facessimo, tradiremmo noi stessi o il gruppo cui apparteniamo. L´unica possibilità è l´autodifesa e qualunque mezzo è a priori legittimo, anzi santo. Appellarsi all´identità equivale a battere il pugno sul tavolo contro gli estranei che sono o si affacciano tra noi.

Una volta «chiarita» la nostra autentica identità, che cosa dovrebbe fare chi non vi si riconosce o, peggio, non vi è riconosciuto dagli altri? Dovrebbe accettarla obtorto collo, per non essere meno cittadino? O dovrebbe addirittura scomparire, se i caratteri dell´identità (come l´etnia o la «razza») non permettessero adattamenti? E´ una storia antica. Non si è compreso che, dietro una parola apparentemente dotta, minacciosamente fa di nuovo capolino il nazionalismo etico. Ma non dovrebbe essere la Chiesa a rifiutare questa idea di identità: proprio la Chiesa cattolica che, tra tutte le chiese, è la più orientata all´azione missionaria? Il proselitismo nel campo occupato da tutte altre tradizioni religiose non si basa forse sull´idea che ogni persona e i popoli interi possono essere artefici della loro identità, che non l´ereditano come un fagotto obbligatorio?

B). La civiltà europea come storia solo cristiana è un´idea onnivora, già a prima vista bizzarra. Eppure, è proprio questo che gli apologeti della religione civile cristiana sostengono quando attribuiscono al cristianesimo la primogenitura in tutto ciò che oggi ci pare buono e bello. Si dice, ad esempio, che la democrazia - vanto dell´Occidente - non vive senza condizioni: fiducia reciproca, pari dignità degli esseri umani, senso di responsabilità e di giustizia, tolleranza e rispetto; che tutto ciò è ethos cristiano e che dunque la democrazia è figlia del Cristianesimo. Così, però, si gioca sull´equivoco. L´affermazione può valutarsi diversamente a seconda che per Cristianesimo s´intenda messaggio cristiano o storia della Chiesa.

Limitiamoci al rispetto e alla tolleranza. Certamente, il messaggio cristiano non giustifica nulla che faccia violenza alla libertà. Il Cristo non obbliga nessuno. Nella grande tentazione satanica del deserto (Mt 4, 1-11; Lc 4, 1-13), egli rifiuta la coercizione delle coscienze: rifiuta il comando che costringe, il miracolo che seduce, i beni materiali che corrompono. Nessuna sanzione colpisce chi rifiuta la chiamata, se non un poco di tristezza (Mt 19, 23; Mc 10, 22; Lc 18, 23). La conversione è, per antonomasia, l´atto di libertà della coscienza. Ma chi oserebbe negare che nei secoli la Chiesa abbia invece piuttosto avversato la democrazia e appoggiato ogni sorta di autocrazia, che abbia praticato più l´imposizione che il rispetto delle coscienze? Chi potrebbe dimenticare la violenza di cui è stata dispensatrice in nome della fede che custodiva? Chi può avere la memoria così breve da ignorare che l´unica «libertà» riconosciuta è stata a lungo quella di aderire alla vera religione e che ogni rivendicazione di libertà diversamente indirizzata è stata oggetto di dure condanne?

Le libertà provengono piuttosto dalla contestazione dell´autorità della Chiesa: una contestazione che, in taluni casi, ha preso a base lo spirito evangelico dell´uguale dignità dei figli di Dio per rivolgergliela contro ma, in molti altri, ha avuto radici apertamente razionaliste, immanentiste, teiste, scientiste, atee: in genere a - o anti-cristiane. Senza di ciò, la Chiesa stessa non sarebbe quella che è: la Chiesa che si è disposta ad accettare la sfida del «mondo moderno», cioè del nemico contro il quale per molti secoli aveva militato.

La storia d´Europa non è dunque storia solo cristiana, nemmeno storia cresciuta tutta entro le contraddizioni generate dalle possibilità del logos cristiano.

Non ci sono ragioni d´opportunità o d´opportunismo che giustifichino autentiche appropriazioni indebite, per esempio in tema di diritti umani. Secondo la tradizione cattolica, aristotelico-tomista, il diritto è l´ordine naturale oggettivo, al quale il singolo deve conformarsi. Per la tradizione moderna, che inizia col Rinascimento, la prospettiva si rovescia addirittura e il diritto diventa prerogativa dell´individuo che autonomamente agisce nella società. Scavando nelle controversie tra papato e ordini monastici, nelle glosse dei giuristi medievali e nella filosofia della cosiddetta seconda scolastica, qualche studioso ha rintracciato qua e là rari e sempre discutibili indizi di uso del termine ius in senso soggettivo, invece che oggettivo, e ha concluso che nemmeno la concezione moderna dei diritti può ascriversi a un pensiero diverso da quello cristiano. Tali tentativi di revisione storiografica hanno avuto una ragione di politica culturale precisa, legittimare quella che a molti, all´interno del mondo cattolico, poteva apparire una cesura nelle radici: l´adesione del Concilio Vaticano II allo spirito moderno dei diritti umani.

La fondatezza di questi studi, pur mossi dalle migliori intenzioni, è però più che dubbia. Ma è bastato il tentativo perché ci si sia buttati senza discernimento, non temendo di relegare in secondo piano, quasi come sottoprodotto, i diritti umani sorti dalle comunità riformate, dal razionalismo, dal liberalismo, dal socialismo: diritti che la dottrina della Chiesa ha per secoli condannato e, sotto certi aspetti, ancor oggi condanna nei suoi massimi documenti normativi.

Questa cedevolezza fondata sulla dimenticanza non è solo fastidiosa. È è anche dannosa, perché appiattisce le cose nel più insulso degli accomodamenti, concettualmente e moralmente privo di nerbo. Tutto sembra la stessa cosa. Invece, la dottrina laica dei diritti non è quella cattolica, come risulta da un punto cruciale: per la prima, il limite dei diritti è l´uguale diritto altrui; per la seconda, l´ordine naturale giusto. La differenza è capitale. La prima dottrina mira alla libertà; la seconda, alla giustizia.

Valori diversi e, in certi casi, anche in conflitto, come constatiamo, ad esempio, a proposito del riconoscimento delle unioni al di fuori della famiglia tradizionale: per gli uni, non fanno male a nessuno; per gli altri, sono comunque «disordinate».

Solo mantenendo le differenze si può salvare la ricchezza delle diverse tradizioni: nella specie la tensione alla libertà (contro il quietismo oppressivo della giustizia) e la tensione alla giustizia (contro la prepotenza senza limiti).

C). In ogni caso, il Cristianesimo non è solo istituzione mondana. La riduzione dell´uno all´altra ucciderebbe lo spirito cristiano, espressione della parola divina trascendente ogni concretizzazione storica. Lo spirito cristiano non è una cultura dominante, una scala di valori temporali definita o una forma politico-culturale realizzata. Addirittura, non può nemmeno mai identificarsi pienamente con un´organizzazione confessionale, una chiesa o una «comunione di santi» storicamente determinate.

Sarebbe comunque riduzione mondana, culturale, etica, politica o chiesastica, nella quale il finito pretenderebbe di costringere l´infinito. Una tale riduzione ucciderebbe la speranza nello spirito e la Chiesa, secondo un monito di Soren Kierkegaard, sarebbe addirittura «annientata».

Il Cristianesimo è «spada che divide» il mondo (Mt 10, 34-35; Lc 12, 51-53); è «dal mondo» ma non «del mondo» (Gv 15, 19). Il Cristianesimo come «religione civile» sarebbe una confusione letteralmente anti-cristiana. Il messaggio di Gesù di Nazareth diventerebbe un´ideologia come un´altra, un collante sociale ambiguo e mellifluo, al servizio di ordinamenti costituiti. Per questo, è segno di totale sbandamento, è anzi motivo di scandalo, l´applauso opportunistico che certi «cristiani per fede» (chierici e laici) tributano oggi a certi «cristiani solo per politica».

«La Chiesa è una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino»; essa «è visibile ma dotata di realtà invisibili [...], presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina»: dice il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 771), aggiungendo una splendida citazione da Bernardo di Chiaravalle ove, a commento del Cantico dei cantici, si paragona così la donna amata alla Chiesa: «corpo di morte, tempio di luce [...] Bruna sei, ma bella, o figlia di Gerusalemme [Ct 1,5]: se anche la fatica e il dolore del lungo esilio ti sfigura, ti adorna tuttavia la bellezza celeste». Su questa doppia natura, proprio la Chiesa cattolica ha costruito la dottrina che le consente di passare indenne attraverso errori e anche nefandezze dei suoi uomini.

Essi, per quanto infedeli al Vangelo di Cristo, non ne intaccano lo spirito. Non si giudica il Cristianesimo solo a partire dai cristiani: nonostante i loro peccati, la Chiesa è santa e non per la virtù dei suoi figli ma in virtù dello spirito. Questa tensione è ciò che immunizza la Chiesa - institutio divina ma «sempre bisognosa di purificazione» (Catechismo, n. 827) - dall´effetto mortifero dei suoi peccati. Ma se la Chiesa rinnega la sua dualità? Se i suoi uomini si attribuiscono il pieno possesso dello spirito confondendolo così con quel mondo che essi sono, come potrà non valere anche per la Chiesa la legge inesorabile di tutte le istituzioni «secolarizzate» che si insudiciano della corruzione dei loro membri e, alla fine, ne sono travolte?

All´inizio del terzo Millennio, il papa Giovanni Paolo II ha ritenuto necessario chiedere perdono a Dio per un´impressionante sequela di misfatti della Chiesa cattolica, tutti dovuti a commistioni di fede e potenza mondana. È stata un´ammissione di colpa rivolta al passato ma nulla impedisce di ipotizzare che altre ammissioni domani dovranno ripetersi con riguardo al nostro presente, quando sarà anch´esso passato. Questa è umiltà cristiana. Sbagliare compromettendo nell´errore lo spirito divino, oltre che se stessi, sarebbe invece il massimo dell´orgoglio.

In breve, ricapitolando i tre punti, possiamo dire che la riduzione dell´identità a mera storia è una seduzione tribale; la riduzione della storia europea a storia cristiana, un falso storico; la riduzione del Cristianesimo a Chiesa, un peccato contro lo spirito. Che ne viene, allora? Allora, non limitiamoci a confrontarci su ciò che siamo stati ma ragioniamo soprattutto di quel che vogliamo essere; diamo al Cristianesimo il posto che gli spetta nella storia spirituale europea, non come tutto bensì come parte di un tutto assai più vasto e composito; riconosciamo alla Chiesa il pieno diritto di partecipare, insieme agli altri, alla definizione delle nostre identità collettive, ma in parità morale con ogni interlocutore, senza che il nome cristiano giustifichi una pretesa d´incontestabilità.

Ci sono dei periodi, nella storia di un Paese, in cui la decisione, sia personale che politica, è quella di stare da una parte o dall’altra, perché le strade del percorso comune si dividono e non c’è modo di sovrapporle in un punto benevolmente chiamato “centro”.

Per esempio, a un certo punto della nostra vita personale, l’Italia ha dovuto scegliere tra la monarchia e la Repubblica. Il problema non era se demonizzare il re o celebrare come sola salvezza la forma repubblicana dello Stato. Il problema era se continuare su una strada che aveva portato a risultati tragici, o se intraprendere una strada nuova. Molti onestamente erano incerti. Da ragazzino (e repubblicano) quale ero allora, ricordo che certi adulti preoccupati definivano la Repubblica “un salto nel buio”. Avrebbero voluto stroncare la discussione sul passato sostenendo che un’altra strada verso il futuro era troppo pericolosa.

Altri erano certi, e lo erano con passione, che una nuova Italia libera e democratica doveva per forza buttare dalla finestra, come in un simbolico 31 dicembre, le ingombranti masserizie della monarchia colpevole. Nessuno fingeva che ci fosse un più quieto e giudizioso rifugio a mezza strada. Certe volte il centro non esiste.

Vogliamo un esempio solo in apparenza meno drammatico? È il no di De Gasperi alla alleanza con i neofascisti per le elezioni comunali di Roma del 1946, voluta fermamente da Pio XII per timore che la “città santa” avesse un sindaco comunista. Quel no è stato lacerante e immensamente costoso per il leader centrista De Gasperi. La sua saggezza è stata di capire il senso devastante che avrebbe avuto, sull’Italia appena rinata alla libertà, una decisione che gli veniva raccomandata come “moderata” e protettrice del centro.

De Gasperi non sarebbe mai più stato ricevuto in udienza dal Papa. Non poteva cedere e non ha ceduto. Si è spostato, ha lasciato vuoto il mitico spazio “centro” e ha salvato il Paese. Certe volte il centro non esiste.

Prendiamo il non dimenticato 18 aprile, la clamorosa vittoria elettorale della Democrazia cristiana contro il Fronte popolare dei Comunisti dei Socialisti. In quel momento il mondo andava da una parte o dall’altra, ed era in gioco la dislocazione dell’Italia sull’orlo di quattro rischiosi decenni di guerra fredda. In quella campagna elettorale nessuno ha finto di fare il moderato. Sono stati messi in campo argomenti estremi perché non c’erano punti di sovrapposizione possibile fra una offerta politica e l’altra. Certe volte il centro non esiste.

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Quando esiste? Forse quando ci sono elezioni (e campagne elettorali e situazioni esistenziali e politiche) talmente noiose che è possibile immaginarle come la bilancia di un farmacista, sposti gli ingredienti un pochino di qua o un pochino di là e ottieni la giusta posizione. Se a quella posizione fosse stato aggiunto un pizzico in più di estremismo, sarebbe diventata veleno.

Nella vera vita io non ricordo situazioni simili, e non credo che sia a causa di una mia interpretazione drammatica degli eventi. Per farmi capire faccio ricorso alla esperienza americana. Tutte le campagne elettorali che ho vissuto in quel Paese sono state contrapposizioni dure, nette, senza mezze misure e sono avvenute anche al costo di spezzare all’interno l’una o l’altra o entrambe le parti politiche.

Si devono accettare i neri e proclamare uguali diritti civili di tutti nella società americana, o tenerli fuori per non fare “un salto nel buio” e rischiare “il meticciato” (era una delle accuse a John Kennedy)? Si deve fare o fermare la guerra nel Vietnam? Bob Kennedy e Johnson, Humphrey e Goldwater si sono giocati la loro vita fisica e politica. Si può tollerare che un presidente (Nixon) menta al Paese, consenta il furto con scasso a danno del partito avversario e violi la Costituzione?

L’America Latina con cui stabilire nuovi legami è quella del generale Videla e del generale Pinochet o è quella della “Alleanza per il progresso” di Carter, che restituisce ai panamensi il Canale di Panama? Volete l’America dei sindacati, del Welfare, delle cure mediche garantite o l’America dei potentati economici che diventano sempre più grandi, delle imprese gigantesche, delle immense bolle speculative, dei lavoratori e dei risparmiatori che devono proteggersi e arrangiarsi da soli nella speranza di diventare ricchi come i ricchi e di ritrovare i diritti perduti attraverso “il merito” dell’accumulo di denaro?

John Kennedy è stato combattuto con odio, al punto che poche ore prima del suo assassinio a Dallas, un ex generale (uno di quelli che avrebbe voluto sganciare la bomba atomica su Cuba) ha piantato davanti alla sua casa la bandiera confederale (quella degli schiavisti) rovesciata, segno di condanna capitale. Carter è stato accusato con disprezzo per non avere fatto la guerra all’Iran che aveva catturato e teneva in ostaggio 68 diplomatici e impiegati dell’ambasciata americana a Teheran. Clinton è stato perseguitato e accusato con decine di inchieste giudiziarie e parlamentari per avere progettato una riforma sanitaria che avrebbe tolto potere all’impero delle assicurazioni private. Nixon, Reagan e Bush figlio hanno diviso (i commentatori americani dicono spesso: “spaccato”) l’America a metà. Bush figlio ha vinto le ultime elezioni attraverso una violentissima campagna di accuse personali al suo avversario John Kerry che pure era un eroe pluridecorato del Vietnam. Non c’è stata in lui o nei suoi consiglieri la minima preoccupazione di smorzare i toni e cooptare un po’ di elettori democratici nell’area mitica del centro. La parola era “guerra”. Guerra in Iraq, come strumento di difesa dal terrorismo. E guerra alla figura, alla vita, alla reputazione del candidato avversario.

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Credo che i lettori capiscano che in questa riflessione non ha importanza il giudizio su George Bush figlio e sulla sua scelta di campagna elettorale. È solo l’esempio più recente che viene dal Paese del bipartitismo perfetto. Dimostra che vince l’estrema determinazione di mettere fuori gioco il contendente, di far capir forte e chiaro chi è il vero leader, chi ha il controllo del campo. C’era di tutto con Bush, comprese le retrovie del conservatorismo fondamentalista cristiano, politicamente estremista e impegnato in furibonde e antiche campagne contro chiunque non creda nell’insegnamento letterale di una Bibbia pietrificata. Eppure c’è chi ti spiega che ha vinto perché Bush “è moderno”. La modernità consisterebbe nella totale libertà lasciata alle imprese che galoppano indisturbate sopra il diritto di tutti puntando verso un paleocapitalismo privo di argini e diretto verso un mondo alla Dickens.

Questa presunta “modernità” giova a quanto pare al presidente più antico dell’America contemporanea, che viene percepito - nonostante la teoria estrema dell’unilateralismo in politica estera e della assenza di regole in politica economica - come “centrista”. In altre parole, “il centro” viene visto come l’occhio del tifone, un punto limitato e silenzioso dove non tira vento, mentre intorno le trombe d’aria spazzano il territorio.

È ciò che si legge in un interessante articolo di Michele Salvati, economista di valore, sul Corriere della Sera del 17 agosto. Per costruire “il centro” che, lui pensa, sarebbe salvifico in Italia, fa alla fotografia del centrosinistra italiano ciò che si fa in certe famiglie dopo brutte liti: si tagliano le figure degli zii, cugini e suoceri indesiderabili, in modo che i bambini non li vedano più nell’album di famiglia, nemmeno in immagine.

Nella fotografia del centrosinistra italiano che forma, tutto insieme, la coalizione guidata da Romano Prodi, Salvati taglia via i sindacati (dalla Cisl alla Cgil), taglia via un pezzo dei Ds («che si annidano nella pancia del partito ed esprimono le domande di protezione delle regioni rosse, del pubblico impiego, degli artigiani, delle cooperative, del sindacato»), taglia via i militanti «romantici e tradizionalisti della sinistra radicale che ostacolano un processo di riforma adeguato alla bisogna». Taglia via una buona metà della Margherita, taglia via tutta Rifondazione. E lui stesso, da intellettuale e da economista, sa quanta parte della cultura e della visione del mondo sta tagliando, da Paul Krugman ad Amartya Sen, da Alain Minc a Luciano Gallino.

Il metodo della fotografia tagliata è curioso perché svela il legame tra sogno del centro e sistema proporzionale, una vistosa nostalgia emergente. È un luogo di pace instabile e inesistente come l'occhio del tifone (adesso c’è ma poi all’improvviso si sposta) che si realizza solo con sistemi elettorali che ti inchiodano a un “prima” che ben pochi rimpiangono. L’unico pregio di Berlusconi è di averci fatto sbattere la faccia sul “dopo”. In quel dopo, come in tutti i momenti importanti della Storia, e in tutte le situazioni cruciali del sistema maggioritario, le strade si dividono. Con la legalità, con la Costituzione, con la legge uguale per tutti. Oppure con il mondo dei condoni, della grande evasione, dei conti falsi.

Certe volte il centro non esiste. E se esiste, fa bene ad allearsi con una grande coalizione decisa a vincere, senza tagliare le foto di famiglia.

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