Titolo originale: George Bush: God told me to end the tyranny in Iraq – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
George Bush ha affermato di essere in missione per conto di Dio, mentre lanciava le invasioni di Afghanistan e Iraq, secondo un anziano politico palestinese in un’intervista che sarà trasmessa nei prossimi giorni dalla BBC.
Bush ha rivelato l’intensità del suo fervore religioso incontrando una delegazione palestinese durante il vertice israelo-palestinese tenuto nella località turistica egiziana di Sharm el-Sheikh, quattro mesi dopo l’invasione dell’Iraq guidata nel 2003 dagli USA.
Uno dei delegati, Nabil Shaath, a quell’epoca ministro palestinese, ha rivelato: “Il Presidente Bush ci disse: ‘Sono spinto a questa missione da Dio’. Lui mi ha detto, ‘George, vai e combatti questi terroristi in Afghanistan’. E io l’ho fatto. Poi ancora mi ha detto ‘George, vai e metti fine alla tirannia in Iraq’. E io l’ho fatto”.
Bush continua: “E ora, sento di nuovo la parola di Dio che si rivolge a me, ‘Vai a dare ai palestinesi il loro stato, a Israele la sua sicurezza, e fai la pace in Medio Oriente’. E per Dio io lo farò”.
Bush, diventato un Cristiano Rinato a 40 anni, è uno dei leaders più religiosi di tutti i tempi ad occupare la Casa Bianca, e il fatto gli da’ parecchio sostegno tra le media degli americani.
Poco dopo questo incontro, il quotidiano israeliano Haaretz riportò una trascrizione palestinese dell’evento, che conteneva una versione delle parole di Bush. Ma la delegazione palestinese era riluttante a riconoscerne pubblicamente l’autenticità.
La BBC ha convinto Shaath a registrare per la prima volta quella che sarà la prima puntata di una serie di tre sulla diplomazia israelo-palestinese: Elusive Peace, che inizia lunedì.
L’elemento religioso emerge come questione importante anche quando si dice che Bush e Tony Blair avrebbero pregato insieme nel 2002 al ranch di Crawford, Texas, durante il vertice in cui si concordò in via di principio l’invasione dell’Iraq. Blair ha seccamente rifiutato di confermare o smentire la notizia.
Mahmoud Abbas, primo ministro palestinese e componente della delegazione di Sharm el-Sheikh, ha dichiarato al programma della BBC che Bush aveva detto: “Ho un obbligo morale e religioso. Devo darvi uno stato palestinese. E lo farò”.
I commenti di Shaath arrivano contemporaneamente al discorso pronunciato da Bush ieri, allo scopo di rafforzare il sostegno americano alla guerra in Iraq.
Ha rivelato che USA e alleati hanno evitato almeno 10 gravi tentativi attentati da parte di Al Qaeda dopo l’11 settembre, fra cui tre contro gli USA. “Grazie a questi progressi, il nemico è ferito: ma è ancora in grado di sviluppare manovre a livello mondiale” ha detto. Ha poi aggiunto che i gruppi radicali islamici hanno usato una serie di scuse per giustificare i propri attacchi, dal conflitto con Israele alla Crociate di mille anni fa.
“Siamo di fronte ad una ideologia radicale con obiettivi immutabili: mettere in schiavitù intere nazioni e intimidire il mondo” ha proseguito.
Ha ammesso che Al Qaeda, guidata in Iraq da Abu Musab al-Zarqawi, e altri gruppi, hanno guadagnato terreno, ma che gli USA non se ne andranno sinché non sarà ristabilita la sicurezza. “Alcuni osservatori commentano che l’America farebbe meglio ad uscirne, diminuendo il numero delle vittime. È un’illusione pericolosa, da respingere con una semplice domanda: saranno più, o meno sicuri, gli Stati Uniti e le altre nazioni, con Zarqawi e Bin Laden che controllano l’Iraq, la sua gente, le sue risorse?”.
Nota: il testo originale di questo altrettanto originale pezzo, al sito del Guardian (f.b.)
Londra ancora sotto attacco. La stessa scena del 7 luglio: tre bombe nei vagoni della Tube, un quarto ordigno su un autobus, esattamente come due settimane fa. Lo stesso esplosivo. Probabilmente la stessa «rete» locale jihadista. Il significato simbolico è evidente: siamo noi, siamo molti, possiamo colpirvi ancora. E possiamo farlo nello stesso modo. Una sfida che solo l´imperizia dei nuovi stragisti non ha trasformato in una nuova terribile tragedia.
L´intento è evidente: seminare il panico. Colpire in uno dei suoi gangli vitali, il sistema dei trasporti, una metropoli occidentale: riuscire a paralizzare con il terrore chi aveva fatto della frase "Non abbiamo paura", una parola d´ordine sentita e condivisa da tutti.
È il terrore a lungo annunciato da Osama bin Laden nei suoi proclami, quando sosteneva che gli occidentali non sapevano che cosa volesse dire, contrariamente ai popoli musulmani, vivere nella paura. Ora, sembrano dire gli jihadisti di Londra, lo sapete. Il luglio londinese sembra, dunque, il segnale che l´attacco massiccio all´Europa è iniziato.
Piccoli gruppi locali possono causare, con i loro attacchi diffusi, enormi danni e vittime. Un esempio che, purtroppo, può essere seguito da altre cellule. Nel resto d´Europa e in Italia. Il rischio è che questo terrorismo a «bassa intensità simbolica», diventi endemico. La strategia di contrasto è quella più volte indicata dallo stesso Blair: prevenzione, intelligence, integrazione delle comunità musulmane in Europa. Ma il ciclo politico dello jihadismo europeo potrebbe essere solo all´inizio. La sua struttura cellulare ne favorisce la riproduzione. Il XXI secolo si apre con un problema enorme: estirpare le radici dell´odio verso l´Occidente di quanti hanno scelto la strada del radicalismo islamico. La natura della sfida è chiara: solo se si riuscirà a debellare il terrorismo jihadista si riuscirà a evitare che le sirene xenofobe intonino il canto della criminalizzazione dell´intera comunità islamica europea.
In caso contrario il rispettivo richiamo identitario inasprirà il conflitto. Anche questo è l´obiettivo degli jihadisti londinesi: fare dell´Europa il terreno dello scontro tra civiltà all´interno di un medesimo spazio sociale. Una prospettiva terrificante, che va scongiurata con ogni mezzo.
Al terrorismo di Al Qaeda rischia di non mancare la manodopera: c´è una gioventù islamica che si sente umiliata da un senso di inadeguatezza della propria appartenenza religiosa e culturale, che teme ossessivamente la contaminazione con il sistema di valori occidentale. Sensazione che coinvolge anche parte dei musulmani in Occidente, incapaci di vivere una non facile identità plurima. E che di fronte a un integrazione che può apparire, talvolta. soddisfacente sul piano economico e sociale ma non su quello culturale, fanno ricorso, saccheggiandone il repertorio simbolico, alla loro identità originaria. Un´identità di riserva, talvolta inabissata, ma come in un fiume carsico, pronta a riemergere impetuosamente nel momento in cui vi è bisogno di marcare una differenza antagonista. Identità rivisitata non secondo i canoni tradizionali ma attraverso quelli islamisti radicali, capaci di parlare a individui che vivono nella modernità, anche spuria, e di fornire risposte che semplificano la complessità di un ambiente sempre più permeato dal "politeismo dei valori". Quando quei giovani, occidentali o meno, si arruolano nelle file qaediste e decidono di "sacrificarsi" il loro obiettivo non è tanto la nascita o la liberazione di una nazione ma la ricostituzione della comunità. O meglio di una neo-comunità. Una neo-umma continuamente agognata ma impossibile da ricostituire, minata com´è in partenza dal suo essere comunque contaminata dalla quotidianità e dal contatto con l´Occidente divenuto globale. Il "martirio" diventa così, anche, l´inconscio tentativo di sfuggire alla morte della comunità impossibile; di spargere lutto per evitare di elaborare, nuovamente, il lutto. Quando questa "infelicità con desiderio" incontra la filiera organizzativa che la mette in forma, come nel caso londinese, il risultato è devastante. È il terrore.
Anche per questa sua funerea natura, per il suo "essere per la morte", il "martirio" neo-ummista è un alto fattore di rischio. La sua volontà autodistruttiva diventa collettivamente distruttiva. Il solo contrasto poliziesco o di intelligence non è sufficiente a impedire il proliferare e l´attivazione delle bombe umane. La battaglia delle idee, quella per l´interpretazione della tradizione religiosa, la ricostituzione di un senso della vita tra i giovani fedeli di Allah nel mondo islamico e in Occidente, diventa così parte integrante delle esigenze di sicurezza di ciascuno di noi.
Quindici anni e più di spoliticizzazione della società italiana precipitano in quella cristallina cifra del 25,9% di cittadini e cittadine italiani che hanno ritenuto utile esprimersi sulla legge sulla procreazione assistita. Cifra cristallina, e sconfitta cristallina per chi, noi compresi, aveva creduto nel referendum non solo per correggere una pessima legge, ma anche per imporre all'attenzione pubblica un tema importante e i suoi importanti risvolti politici. Tecnicamente, sarebbe stato meglio attendere che la legge venisse bocciata - come prima o poi accadrà - da una pronuncia della Corte. Tatticamente, sarebbe stato meglio affidarsi al solo quesito abrogativo complessivo, quello proposto dai radicali e bocciato dalla Consulta, più chiaro e più comunicabile dei quattro quesiti parziali, troppo oscuri e troppo tecnici. Ma ormai non è questo il punto. E non è nemmeno l'usura dello strumento referendario, che pure c'è e pure domanda una riforma, ma non può diventare un alibi - l'ennesimo alibi da ingegneria istituzionale - per non leggere più spietatamente il risultato. Il punto è che la valenza generale, culturale e politica, del referendum non è passata nell'opinione pubblica, che evidentemente l'ha vissuto come una marginale consultazione su una questione di pochi e per pochi (fatti loro), o peggio, come un sibillino regolamento di conti interno alle due coalizioni che si contendono il governo del paese. Il che vuol dire però che il fronte referendario non è riuscito a comunicare nemmeno al suo elettorato di riferimento l'importanza dirimente delle poste in gioco che la materia della procreazione assistita trascinava con sé: libertà personali, laicità dello Stato, qualità della legiferazione, statuto della maternità, della paternità e della famiglia, rapporto fra politica, scienza e diritto nel governo della vita. S'era già visto del resto negli otto anni di iter della legge: a sinistra mancava un discorso all'altezza della sfida bioetica, non subalterno al moralismo cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione o dalla mediazione con le gerarchie vaticane.
E' in questo vuoto che i fondamentalismi attecchiscono, non solo in Italia; è in questo vuoto che le «guerre culturali» prosperano, seminando certezze sull'Embrione, la Vita, Frankenstein, e gettando nel discredito l'intera tradizione critica della modernità. Non è l'antico conflitto fra laici e cattolici, Repubblica e Vaticano, Peppone e Don Camillo. E' una nuova mappa delle appartenenze in cui il tradizionalismo cattolico si salda con la rivoluzione conservatrice dei teo-con: una miscela aggressiva che consente alla Cei di cantare vittoria contro «l'assioma modernizzazione-secolarizzazione», spalleggiata dai nuovi intellettuali atei che recitano cinicamente il Verbo di Dio.
L'America che ha premiato Bush è arrivata in Italia? Si direbbe di sì, ma con molta convinzione in meno e molta indifferenza in più: lì si contavano voti con le percentuali di partecipazione in salita, qui contiamo astensioni con i quorum in discesa. Il nuovo fondamentalismo germoglia nel deserto dell'apatia e del disincanto. Malgrado la convinzione spesa nella campagna referendaria dalle principali testate nazionali della carta stampata, segno inequivocabile di una rottura allarmante nel circuito di formazione dell'opinione pubblica, forse ormai irreversibilmente prigioniera dell'audience televisiva. E segno altresì di una crisi di rappresentazione, prima che di rappresentanza, della società, diventata imperscrutabile nei suoi umori e nelle sue oscillazioni. Quand'è così, è da un paziente lavoro culturale che la politica deve ripartire: preoccupandosi di incollare le parole all'esperienza, prima che i leader alle sigle di partito e di coalizione.
L’Europa sta tornando a combattere per il proprio Lebensraum, il suo spazio vitale? Al tempo dei nazisti Lebensraum voleva dire espansione, assoggettamento e annientamento di altri popoli: un processo culminato con il programma di schiavizzazione degli slavi e di annientamento "scientifico" di ebrei e zingari. Oggi la rivendicazione di uno spazio vitale significa barriere sempre più alte contro l’immigrazione di uomini e donne (non popoli, né nazioni; e meno che mai eserciti o Stati in armi); e poi, segregazione; internamento; cacciata e deportazioni, che sempre più spesso si concludono con l’eliminazione delle persone coinvolte: a volte fisica (in un naufragio o in un abbandono in mezzo al deserto); quasi sempre civile e umana.
Si associa alla rivendicazione del nostro Lebensraum, e della sua legittimità, proprio come allora, una vantata superiorità, etnica e culturale, della "civiltà" occidentale (su cui ci richiama, con martellante ripetizione, un’aspirante senatrice della Repubblica); o, più banalmente, la difesa oltranzista di un benessere, vero o presunto, fatto coincidere con il nostro stile di vita; stile di vita "non negoziabile", per usare un’espressione di Bush; anche se per lo più sotto attacco da parte di quegli stessi Governi che se ne dichiarano paladini.
Al posto dei forni verso cui venivano convogliati come mandrie gli "uomini di troppo" che i nazisti dovevano annientare, ecco ora aprirsi le discariche del deserto, verso cui risospingere, senza alcuna preoccupazione per la loro sopravvivenza, gli "uomini di troppo" che l’Europa, e per suo conto l’Italia, non vuole accogliere (Rimandiamo chi trova questo paragone eccessivo ai reportage sul tema che Claudio Gatti ha pubblicato recentemente su L’Espresso). Certo per ora si tratta di poche migliaia di refoulés, deportati in Libia e in Egitto, contro i milioni annientati nei campi di sterminio nazisti o sovietici. Ma quanto a misura, i profughi provvisoriamente sistemati in campi da cui non possono più uscire sono ormai oltre 20 milioni; alcuni dei quali da ormai tre e più generazioni. Che ne sarà di loro?
Per gli ebrei caduti sotto il tallone del Terzo Reich non c’era via di fuga possibile; le frontiere erano chiuse e la disponibilità ad accoglierli degli Stati che mantenevano con i territori di provenienza dei canali aperti si faceva di giorno in giorno più stretta: di qui la forza assunta dal sogno di Israele, di un territorio fisico dove ricostruire la propria Gerusalemme: un sogno dalle radici tanto forti, profonde e legittimate, da resistere al peggiore logoramento; fino a costituire probabilmente l’elemento di maggiore continuità tra il disordine dell’Europa di ieri e quello del mondo di oggi. Ma gli immigrati deportati perché per loro non c’è posto nel Lebensraum europeo magari dopo essere fortunosamente scampati a un naufragio, essere stati accatastati e violati come topi in un centro di permanenza temporanea (CPT), essere stati imbarcati in un viaggio verso il nulla dentro velivoli sigillati, sorvolando le coste da cui si erano imbarcati per un percorso di sola andata, perché il loro paese di origine non li vuole, non li sa nutrire, li massacra, li usa come carne da cannone – quegli "immigrati", dove troveranno mai la loro Gerusalemme?
D’altronde non è difficile immaginare che le dinamiche che si sviluppano in una barca che affonda, in un CPT sottratto a qualsiasi ispezione, o ai piedi della scaletta di imbarco per un volo di deportati, non siano molto differenti da quelle che si potevano innescare in un lager o in un gulag: mors tua, vita mea. La dottrina dell’annientamento dei clandestini non è ancora stata enunciata e forse non lo sarà mai (anche se già nella recente campagna elettorale c’è stato chi si è fatto raffigurare con la spada in mano, sopra un mucchio di cadaveri con su scritto "immigrati, terroristi, centri sociali, criminalità"); ma la pratica, quella sì, è già iniziata.
E’ merito di Zygmunt Bauman (Vite di scarto, Laterza, 2005) aver dato risalto, affrontando questo problema centrale del nostro tempo, all’analogia tra i rifiuti materiali dei processi di produzione e di consumo e i "rifiuti umani" generati dai processi storici. Le successive modalità di smaltimento dei rifiuti umani si rivelano in questo saggio una potente chiave di interpretazione della storia: lo sviluppo capitalistico, durante la fase di accumulazione originaria, aveva creato un "esercito industriale di riserva" (è il termine utilizzato da Marx), cioè una massa di popolazione "superflua" che il colonialismo e l’imperialismo classico si erano incaricati di "smaltire", almeno per la parte eccedente il fabbisogno potenziale di una fase espansiva del ciclo economico, in territori conquistati in continenti lontani (per rendere più problematico il ritorno) e considerati "vuoti", solo perché abitati da popoli cui non si voleva riconoscere il titolo di membri del consesso umano.
Ma oggi il mondo è "pieno". Come non esiste più una noman’s land in cui abbandonare gli scarti della produzione e del consumo, perché la popolazione è cresciuta, si è sparpagliata e le infrastrutture hanno saturato il territorio – e per questo il problema dello smaltimento dei rifiuti, quasi ignorato agli albori dell’era industriale, ha acquistato un’importanza crescente – così non esistono più "frontiere", West, continenti, paesi, territori "spopolati": cioè privi, più ancora che di abitanti, di attività economiche e di presenze istituzionali (siano esse Stati legittimati dalla cosiddetta Comunità internazionale, ovvero "Signori della guerra" locali) verso cui convogliare la popolazione eccedente. Eccedenze che oggi e questa è la novità del nostro tempo si generano a ritmi molto più rapidi nei paesi già coloniali che nei paesi già colonizzatori. La discarica permanente, come sistema di smaltimento dei rifiuti, non è più praticabile. E’ stata sostituita, per ora, e in attesa di una soluzione definitiva, dal "deposito temporaneo", di cui i CPT, in Italia o all’estero, sono un esempio emblematico. Ma si tratta di un palliativo, perché all’orizzonte si delinea con sempre maggiore chiarezza la prospettiva del campo di sterminio: possibilmente gestito da una schiera di stati "ascari" – gli stessi verso cui alcuni servizi segreti inviano i sospetti che non possono torturare in patria disponibili a fare i kapo in conto terzi.
E noi? Il popolo dei non refoulés? Ci ritroviamo beneficiari, se non anche difensori, del nostro Lebensraum protetto contro le torme degli immigrati "invasori": pronti ad accettare i costi di questa protezione, per lo meno finché a pagarli saranno altri e a noi sarà data la possibilità di ignorarli. Sappiamo però come è finita in altri tempi la storia del Lebensraum; non solo per le sue vittime designate, ma anche per chi ne avrebbe dovuto beneficiare; e quali costi abbia comportato per tutti la pretesa superiorità di un popolo. Così, il parallelismo tra rifiuti umani e rifiuti materiali sviluppato da Bauman (la cui visione artigianale e preindustriale del riciclaggio, tuttavia, ancora legata più allo stato dell’oggetto dismesso che alle sue potenzialità, poco ci aiuta in questa ricerca) lascia comunque, intravedere una possibile via di uscita.
Sono stati i costi di smaltimento (non solo economici, ma anche ambientali, sociali e politici) sempre più alti, e non certo il desiderio di mantenere integre le risorse della natura, a sospingere, seppure con molta ritrosia, industria e governi lungo la strada del recupero e del riciclaggio, strumenti essenziali di salvaguardia del pianeta. Una valutazione rigorosa dei costi economici, ma soprattutto sociali, culturali e umani della difesa del Lebensraum europeo potrebbe sospingerci verso atteggiamenti più rispettosi delle "risorse umane" che la globalizzazione sta mettendo in circolazione in tutto il pianeta.
Crepuscolo del Cavaliere
Da Titano a Titanic. Da la Repubblica del 16 aprile 2005
IMPALLINATO come un qualsiasi governo Forlani, impastoiato nei riti peggiori della Prima Repubblica, Silvio Berlusconi conosce la seconda crisi della sua alterna parabola ultradecennale da presidente del Consiglio. Nel ‘94 lo affondò Umberto Bossi, urlando contro i «porci democristiani» che osarono minacciare le «pensioni padane», propiziando la lunga e dolorosa traversata nel deserto del governo Dini. Nel 2005 lo affonda il post-democristiano Marco Follini, rompendo con "il fronte del Nord" leghista che ha preso in ostaggio la coalizione, snaturando irreparabilmente il progetto di un centrodestra responsabile e presentabile.
Manca il sigillo "tecnico" delle dimissioni del primo ministro. Ma dopo il ritiro della delegazione Udc dal governo, per Berlusconi è già, a tutti gli effetti, crisi politica. Il Cavaliere avrebbe un solo dovere. Recarsi dal Capo dello Stato per riferirgli l´esito negativo del vertice della Cdl, come aveva promesso di fare nell´incontro al Quirinale di tre giorni fa. Rimettere nelle mani di Ciampi il suo mandato. E poi chiedere immediatamente le elezioni anticipate. Sarebbe la soluzione più corretta e lineare sul piano istituzionale. E invece Berlusconi la rifiuta, confermando la sua natura "aliena", al sistema di regole e alla prassi costituzionale: la crisi di governo non è un suo affare personale, che può regolare nei modi e nei tempi che gli convengono di più, come se si trattasse di un consiglio di amministrazione della Fininvest.
Ma a questo punto, il voto sarebbe anche la soluzione più sensata e conveniente dal punto di vista politico. Il Cavaliere non può governare senza l´Udc. Non si può illudere nemmeno di tirare a campare con l´appoggio esterno dei centristi. Sarebbe uno stillicidio estenuante per quel che resta della Cdl, e un´agonia insopportabile per il Paese. Senza Udc e Nuovo Psi il perimetro del centrodestra si riduce a 298 seggi alla Camera (rispetto a una maggioranza di 309) e a 140 seggi al Senato (rispetto a una maggioranza di 161). Con le riforme, il Dpef e una Finanziaria delicatissima da varare, in appena 59 giorni utili di lavori parlamentari, il governo sarebbe costretto al Vietnam quotidiano dei franchi tiratori.
Pur nel suo incurabile delirio di onnipotenza, anche il premier, almeno di questo, si deve essere convinto. Tenta di recuperare Follini anche a costo di sottostare a quello che gli deve apparire come un «ricatto intollerabile». Ma cerca di farlo a modo suo. Nascondendo la verità, a se stesso e al Paese. Manda Letta sul Colle, e si dichiara pronto ad andarci a sua volta, dimissionario, solo con la soluzione "chiavi in mano" della crisi. Con un Berlusconi-bis che finga di recepire le richieste programmatiche dell´Udc (le stesse scritte inutilmente un anno fa sul famoso "preambolo", che avrebbe dovuto chiudere la verifica). E che finga di esaudire la pretesa di «discontinuità» con correzioni marginali alla squadra di governo. Marco Follini non ci sta. E per ora tiene duro. Gli va dato atto, questa volta, di aver dimostrato coraggio e coerenza. Un "partitino" del 5%, per salvare almeno in apparenza la tradizione dorotea ma più nobile del cattolicesimo democratico, ha fatto saltare gli ingranaggi di quella che fu la felice "fabbrica del consenso" berlusconiana. Il coraggio e la coerenza che invece, ancora una volta, sono mancati a Gianfranco Fini. Ha le stesse perplessità di Follini sulla gestione "padronale" del Polo. Coltiva la stessa idiosincrasia politica rispetto al frontismo dittatoriale dell´asse Forza Italia-Lega. Ma di nuovo si è sfilato dalla resa dei conti. Confermando la cultura gregaria di An. Un "partitone" del 12%, immobile e imprigionato tra il suo passato (che lo risucchia nel gorgo impresentabile della destra sociale post-missina) e il suo presente (che lo costringe a un´adesione puramente utilitaristica alla "catena di comando" del premier). Una forza inutile, che risulta sdoganata per la storia (anche se con tanta, troppa fretta), ma non ancora per la politica. Una forza debole, che non riesce quasi ad esistere se non come sbiadito "correntone" del partito azzurro.
Su quali gambe potrà mai camminare allora una maggioranza del genere, quand´anche riuscisse a uscire da questa crisi? È questa la domanda vera, che oggi dovrebbe guidare le scelte del Cavaliere. Molto più che lo spirito di vendetta, sempre più dannoso per il Paese. O il falso mito dell´invincibilità, ormai offuscato da troppe cadute. Quello che è successo ieri, in fondo, era insieme inevitabile e impensabile. Inevitabile, perché il tracollo delle regionali ha solo sancito la fine conclamata di un modello politico, il berlusconismo, che in realtà era in stato comatoso già da un pezzo, e che solo l´irriducibile vocazione al combattimento del Cavaliere e l´ingestibile "vincolo di coalizione" dei suoi alleati tenevano ancora artificialmente in vita. Impensabile perché solo tre anni e mezzo fa questo stesso centrodestra, sotto le insegne trionfali dell´Imprenditore d´Italia, aveva conquistato nel Paese e in Parlamento la più ampia maggioranza della storia repubblicana, e aveva sbaragliato un centrosinistra costretto a vagare tra le macerie post-uliviste. In quel giugno del 2001, nell´opposizione lacerata da una sconfitta rovinosamente subìta e nell´altra metà dell´Italia inebriata dal "sogno azzurro" finalmente compiuto, il dibattito ruotava intorno a un unico dubbio: Berlusconi al governo durerà "solo" dieci anni, oppure andrà avanti per non meno di tre legislature?
Non è inutile ricordarlo, nel giorno in cui quella maggioranza si sfascia tra le spinte rivendicative di un´identità irrisolta e quel sogno naufraga sugli scogli di una leadership inaridita. Comunque vada a finire questa crisi, resta un dato politico, che pesa fino quasi a schiantarla sulla biografia berlusconiana: il Cavaliere ha fallito. È costretto a rinunciare alla sua grande ambizione (restare negli annali come il primo premier di un governo durato l´intera legislatura) perché ha dilapidato un patrimonio politico enorme. Ha demeritato per le ragioni esattamente opposte a quelle che Angelo Panebianco gli ha riconosciuto qualche giorno fa sul Corriere della Sera: non ha creato «una destra di governo», non ha «dato a questa destra un´ideologia spendibile contro la sinistra», non ha contrapposto «la visione dinamica e ottimista di chi scommette sul liberalismo economico, sulle virtù dell´individualismo, sulla moralità del profitto, sulla centralità, civile e non solo economica, dell´impresa e del mercato». Con lui è salita alla guida del Paese una destra avventurista e populista, totalmente diversa e "altra" rispetto a tutte le destre al governo in Europa. Con lui, attraverso il patto di ferro con il Senatur, si è affermato un ideologismo socialmente "contundente" e politicamente radicale, nel quale non si può riconoscere quell´area "di mezzo", quell´elettorato moderato senza il quale non si governa un Paese in eterna transizione come l´Italia.
Con lui è andato al potere un premier che, attraverso l´esasperazione del suo conflitto di interessi, ha fatto strame del liberalismo economico. Un premier che, attraverso la pubblicizzazione della sua vicenda giudiziaria privata, ha ridotto fin quasi ad annullarla la soglia della moralità del profitto. Un premier che, come ha ripetuto proprio ieri il leader della Confindustria, non si è mai occupato seriamente della "centralità dell´impresa" (se non della sua Mediaset) e non ha mai praticato davvero le virtù del mercato (dove sono le privatizzazioni, dove sono le liberalizzazioni e le riforme degli ordini professionali?). Inchiodato a una formula improduttiva che Luca Lanzalaco (nel suo libro appena uscito dal Mulino, "Le Politiche istituzionali") chiama "riformismo declamatorio", Berlusconi non ha saputo rispondere alla domanda di modernizzazione che arrivava proprio dai suoi elettori. Di fatto, ha tradito il "blocco sociale" che lo aveva mandato a Palazzo Chigi, come ha riconosciuto perfino Sandro Bondi, sul Riformista di ieri.
Adesso, per uscire dalla crisi, il Cavaliere potrà anche farsi tentare ancora una volta dalle soluzioni più estreme. Potrà anche ricadere nell´azzardo, in puro stile dannunziano, di cui ieri scriveva Giuliano Ferrara sul Foglio («c´è un anno di contratto ancora, e via, fino in fondo, fino al fondo»). Potrà anche rinchiudersi un´altra volta in trincea, sfidando tutto e tutti insieme alla Lega e ad An, fino alla fine della legislatura. Da solo, come ha sempre fatto, nella sua visione titanica, messianica e irrimediabilmente egotistica della politica. Ma ormai niente sarà più come prima. «Non vi libererete tanto facilmente di me...», ha tuonato ieri, all´apice della sua rabbia di monarca autocratico e spodestato. Per l´Italia è più una minaccia che una rassicurazione. La metafora è usurata, ma stavolta ci sta tutta: questo non è più Titano, è solo Titanic.
Mario Pirani Costituzione sfasciata
Non tutto è perduto; a condizione che l’opposizione cambi strada. Das la Repubblica del 23 marzo 2005
OGGI è una giornata tra le più nere per la nostra Patria da quando essa è risorta a vita democratica. Il Senato approverà, infatti, in queste ore, così come ha già fatto la Camera, una riforma costituzionale devastante. Entro tre mesi, quindi, il Parlamento potrà procedere alla seconda lettura, poco più di una formalità, poiché non saranno ammessi emendamenti e un rapido voto a maggioranza sancirà un esito scontato in partenza. Resterà, come ultima speranza, il referendum popolare che, peraltro, Berlusconi vorrebbe far slittare a una data posteriore alle elezioni politiche.
Quando in un discorso ai capi gruppo dell’Unione (11 marzo us) Romano Prodi mise in guardia gli astanti, ma altresì l’opinione pubblica, contro l’incombente pericolo di un testo che conteneva le premesse di una dittatura della maggioranza e, ancor più, di una dittatura del premier, non mancò chi considerò il suo intervento eccessivo e allarmistaPurtroppo Prodi aveva perfettamente ragione non solo per l’impianto dirompente di una riforma alla cui discussione e approvazione sono state imposte poche ore contingentate di dibattito parlamentare ma per la sostanziale timidezza e disattenzione con cui il centro sinistra ha affrontato un passaggio istituzionale di una gravità senza precedenti. È pur vero che a palazzo Madama i senatori del centro sinistra avevano durante tutto l’iter della legge esercitato una tenace azione di contrasto, ma questa non aveva trovato alcun riscontro esterno. In questo contesto persino i cartelli di protesta e la bagarre di ieri a palazzo Madama danno ormai solo l’impressione di un tardivo risveglio all’ultima ora dell’opposizione.
Esaminerò più avanti quelle che a me appaiono le colpevoli motivazioni di un simile comportamento. Ora vorrei partire dalla via d’uscita suggerita in extremis da Michele Salvati (Corriere del 19 us), a mio avviso del tutto improponibile. Il prestigioso economista (ormai anche politologo di valore) reputando fondato lo "sconcerto di fronte a un altra Costituzione, né più né meno... radicalmente riscritta... che modifica in profondità le funzioni e i poteri di tutti gli organi dello Stato... attraverso tempi strettamente contingentati, tanto che il maggior partito di opposizione si è visto assegnare un’ora e mezza per discutere i 57 articoli del testo", suggerisce all’Ulivo di giocare una carta: approvare con voto bi-partisan gli articoli sulla devoluzione e mettere così al riparo la Lega dal pericolo di un referendum abrogativo, chiedendo, in cambio, il rinvio del resto della riforma a una futura assemblea costituente, in concomitanza con la prossima Legislatura. Se questa idea, peraltro tecnicamente del tutto problematica, dovesse trovare uno sbocco, magari alla vigilia delle riletture al Senato e alla Camera, l’Ulivo non giocherebbe una carta "illuministica", come crede Salvati, ma si giocherebbe la faccia, per usare un eufemismo gentile.
La devoluzione, nella nuova formulazione, approfondisce le crepe all’unità d’Italia già inferte in una stagione di pulsione suicida dal centro sinistra al termine della passata Legislatura, allorquando modificò unilateralmente il Titolo V della Costituzione. Ora il nuovo testo non solo assegna la competenza legislativa esclusiva alle Regioni in settori decisivi quali la scuola, la sanità, l’assistenza (con la disarticolazione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale), con allegata la costituenda polizia regionale, ma vi aggiunge tutte quelle materie non comprese fra quelle riservate esplicitamente allo Stato, e, cioè, commercio, agricoltura, artigianato, turismo, industria (con eccezione per l’energia). Or bene, nei grandi e piccoli Stati federali, dalla Germania alla Spagna, dal Belgio al Canada la competenza non è mai esclusiva delle regioni ma è sempre mitigata da qualche clausola che legittima la potestà d’intervento federale anche nelle materie attribuite alla legislazione decentrata. La Costituzione tedesca, ad esempio, afferma che il Parlamento federale ha diritto di legiferare in ogni campo qualora questo sia necessario per tutelare l’unità giuridica o economica del Paese e l’eguaglianza nell’esercizio dei diritti dei cittadini. Negli Stati Uniti sono indicate solo le competenze federali esclusive, ma quando Washington lo ritenga necessario la Casa Bianca e il Campidoglio le estendono a piacimento: così, pur non essendo la Sanità compresa fra le materie federali, le fondamentali leggi sull’assistenza sanitaria (Medicaid e Medicare) sono approvate e finanziate su scala federale.
Tralascio altri esempi solo per ragioni di spazio. Comunque non vi è una costituzione federale paragonabile a quella che l’Italia si appresta a darsi e che ci trasformerà, se le cose andranno nel senso voluto da Berlusconi e Bossi, con l’acquiescenza imperdonabile dei loro alleati, in una specie di confederazione di regioni indipendenti. Basta riflettere ai contenuti della devoluzione per respingere, quindi, ogni idea di scambio che, oltretutto, determinerebbe un affievolimento del deterrente referendario, privato del potente anelito a salvare e ricomporre l’unità d’Italia.
Quanto al resto della cinquantina di articoli riscritti essi sconvolgono e in buona parte annullano la Costituzione repubblicana del 1947: definiscono una nuova forma di governo, cambiano la struttura del Parlamento, modificano i caratteri dello Stato, rivedono al ribasso i poteri degli organi di garanzia (Presidenza della Repubblica, Magistratura, Corte costituzionale, ecc.), rendono quasi ingestibile la formazione delle leggi. Non è poi vero che la riforma lasci integra la prima parte della vecchia Costituzione che riguarda i diritti fondamentali del cittadino. Questi diritti, formulati in linea di principio nella prima parte, formalmente non toccata, della Carta costituzionale, trovano concreta applicazione nella legislazione corrente che è regolata attraverso la cosiddetta riserva di legge. Il suo depotenziamento mette ora a rischio il diritto di famiglia, compresa la disciplina del divorzio e dell’aborto, il diritto del lavoro, compreso lo sciopero, le libertà sindacali, ecc, il diritto penale e quello civile, l’ordinamento giudiziario e la giustizia amministrativa. D’ora in avanti, se la riforma non verrà affossata dai cittadini, le leggi in moltissimi casi saranno il prodotto della volontà della sola Camera dei deputati, nella quale il premier, in forza del sistema maggioritario (costituzionalizzato dal nuovo art. 92) avrà, comunque, una maggioranza sicura (anche nel caso non abbia ottenuto la maggioranza dei voti). Le disposizioni del nuovo art. 94 forniscono al premier uno strumento fortissimo di ricatto sulla sua stessa maggioranza. Egli, infatti, è in grado di esigere l’approvazione in blocco di una legge da lui proposta, abbinandola alla questione di fiducia che, se negata, condannerebbe la Camera all’automatico scioglimento anticipato. Neppure una eventuale maggioranza sostitutiva, con l’apporto dell’opposizione, eviterebbe il decreto di scioglimento, anche se è pur vero che questa spada puntata contro eventuali dissenzienti ha due lame: in una coalizione con ali estreme riottose (ad esempio la Lega, ma analogo discorso può farsi per un governo dell’Ulivo con Rifondazione) se una di queste vuol far saltare il banco, le basta votare anche da sola la sfiducia per ottenere lo scioglimento del Parlamento. Come si vede ad occhio nudo è un testo che trasuda prepotenza e diffidenza, accompagnate da uno scambio improprio tra speculari poteri di ricatto.
Il tutto in un quadro che assomma il massimo della destrutturazione dello Stato unitario al massimo del centralismo autoritario. Berlusconi, se i suoi piani avranno successo, godrà dei poteri congiunti di Bush e di Blair senza le garanzie e i contrappesi che condizionano l’operato del presidente americano e del premier inglese.
Il primo, infatti, non dipende dalla fiducia del Congresso, può opporre il suo veto alle leggi, nomina i giudici della Corte suprema, ma, in cambio, non può sciogliere le Camere, mettere la fiducia sulle leggi, emanare decreti, far passare le sue nomine senza il severo vaglio del Senato; il secondo è sottoposto alla sua maggioranza che può mandarlo a casa e sostituirlo, come è accaduto alla Thatcher ed anche impedirgli di sciogliere i Comuni senza il suo consenso.
Si potrebbe continuare a lungo nell’analisi di questo osceno rifacimento costituzionale. Resta da chiedersi perché il centro sinistra sia rimasto tanto inerte e perché l’opinione pubblica sia stata lasciata praticamente all’oscuro (si è arrivati al cambio della Costituzione senza neppure chiedere un dibattito a Porta a porta, a Ballarò o a l’Infedele). Le spiegazioni potrebbero essere più di una: in primo luogo il complesso di colpa, senza il coraggio di una salutare autocritica, per aver, con la modifica del Titolo V, aperto il varco allo sfascio successivo, nel vacuo proposito di agganciare la Lega o di tagliarle l’erba sotto i piedi: in secondo luogo la speranza balorda che la CdL non avrebbe portato fino in fondo il disegno, una sottovalutazione che dimostra come non si sia pienamente afferrato quanto congeniale ad ambedue i soggetti sia l’alleanza tra Berlusconi e Bossi; in terzo luogo uno scadimento culturale che ha condotto, sia durante la Bicamerale che dopo, ad affrontare i temi del necessario aggiornamento della Carta senza un forte e coerente impianto costituzionale in testa, concependo i punti fondamentali come oggetto di possibile e fortuito scambio politico (così si è arrivati, ad esempio, da parte di autorevoli esponenti del centrosinistra ad abbracciare l’idea del premierato); qualche inespresso pensiero sui vantaggi, comunque, di una Costituzione "forte" nel caso di un futuro cambio di governo; infine l’idea sbagliata che della questione poco importi alla gente (i successi di pubblico delle iniziative volontarie dei Comitati per la Costituzione animati dalla Fondazione Astrid, da "Libertà e Giustizia", dai Gruppi Dossetti con l’adesione convinta delle tre Confederazioni sindacali provano come, viceversa, siano sensibili i cittadini non appena messi in condizione di percepire quale nefandezza si stia compiendo quasi all’insaputa).
Se fino a oggi le battaglie costituzionali sono state tutte perdute dal centro sinistra, è ancora possibile rovesciare le sorti finali del confronto. A condizione di svegliarsi e di cambiare linea.
Non credo che chi detiene Giuliana Sgrena sia così addentro alle cose italiane da aver voluto intervenire con il video e la sua supplica: «lasciate l'Iraq», quattro ore prima del voto al Senato sul rifinanziamento al contingente italiano. Saprebbe che in quella seduta ci sarebbe stata comunque una maggioranza per mantenere le truppe. Eppure la prima interpretazione dei giornali e delle tv è stata quella d'una super operazione preparata a fini italiani. Con quale fondamento? Nessuno. Tanto più se è vero che la consegna del video non è avvenuta ieri l'altro all'hotel Palestine, ma per strada a un giornalista che lo consegnò al comando americano e che questo l'ha passato, non senza esaminarlo, ai servizi italiani. La verità è che dei sequestratori non si sa nulla. E non si vuole ammetterlo, né ammettere che il ritiro sarebbe del tutto ragionevole, come hanno capito altri tredici paesi. Si preferisce discettare sull'abilità della nostra intelligence, scordandosi che quella che fa parte della «missione di pace» si guarda bene dal tenere d'occhio i nostri pochi giornalisti che sbarcano a Bagdad. Forse non ne chiedono l'assistenza, ma che intelligence è se non sa vigilare con discrezione? Certo non vigilava l'uscita dell'università da cui sarebbe necessariamente emersa Giuliana Sgrena, non ha notato le due auto ferme con otto uomini armati dentro, né è intervenuta mentre sequestravano la nostra compagna e le guardie di quel democratico paese sparavano in alto. Se - dice il governo - il contingente deve restare in Iraq per garantire la sicurezza, certo non è quella dei nostri concittadini. Che pure è il primo obbligo dello stato, quello per cui in cambio si sta alle sue leggi e si pagano le tasse. E' sciocca la battuta virtuosa: «Dai terroristi non ci si fa dettare la politica». Nessuno lo pretende. Dai terroristi lo stato deve proteggerti e se non ci riesce deve riscattarti. Lo pensava Moro, lo penso anch'io.
Ma nel pianto della nostra Giuliana c'era l'angoscia di chi non spera che il suo paese la ascolterà. E assieme l'amarezza del capire che qualunque cosa abbia fatto per il popolo iracheno ai suoi sequestratori non importava niente. Perché hanno sicuramente veduto Al Jazeera e sentito la condanna degli Ulema e di Al Sistani, ma lei resta per loro una occidentale e basta. Questo Giuliana ci ha detto: più forte di tutto è l'odio per gli occupanti. E questo dicono tutti quelli che testimoniano dell'Iraq, incluso gli ultimi mercenari americani - nella privatizzazione crescente della guerra sono, secondo Le Monde, oltre 30.000.
E' in questo quadro che, anche a non sentire pietà per la nostra amica, mantenere le nostre truppe in Iraq è privo di senso. Accresce l'odio e basta. Possono riempirsi la bocca di missioni di pace i nostri governanti, coprendosi sotto l'ala del poco glorioso comunicato 1.546 dell'Onu, di fatto avallante una guerra che aveva condannato. L'Italia è andata in Iraq soltanto per essere gradita a George W. Bush. La scarsa quantità dei nostri militari rende loro impossibile far altro che tenersi acquartierati, con scarse sortite per timore degli spari della guerriglia. Alle molto più numerose truppe americane non va molto meglio. I nostri uomini non servono né come pacificatori né come mediatori in una nazione sconquassata fra gli sciiti dell'iraniano Al Sistani, i curdi pieni di rancore, i sunniti esclusi o autoesclusi. In quel tumulto di furore e sangue l'occupazione unifica le etnie soltanto nell'odio che nutrono per essa, del quale il governo Allawi ha pagato il prezzo alle elezioni.
A che serve dunque il nostro contingente se non a garantire all'Italia uno spazietto nel bottino del dopoguerra, sul quale è ormai scesa la zampata americana? Andarsene non è soltanto salvare la vita di Giuliana. Se quel paese potrà risorgere e vincere le sue frange terroriste, lo potrà fare solo a occupazione finita.
Caso Sicilia, la Rai sconfessa Report
di ALESSANDRA ZINITI
PALERMO - Ora la patata bollente passa nelle mani di Giovanni Masotti e Daniela Vergara. Trasmissione "riparatrice" sulla Sicilia quella di "Punto e a capo" della prossima settimana su Rai 2 promessa dal direttore generale della Rai Flavio Cattaneo per placare l'ira del presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro, indignato per l'immagine dell'isola venuta fuori dall'inchiesta sulla mafia mandata in onda sabato sera da "Report" su Rai 3. Così almeno ha raccontato ieri Cuffaro ai giornalisti chiamati anche per annunciare l'invio di una lettera di protesta al presidente della Repubblica Ciampi e la richiesta di immediata convocazione della commissione di vigilanza della Rai.
Tanto indignato Cuffaro da resistere a stento alla tentazione di lanciare una sorta di rivolta del canone: "Certo, non potrò mai dire ai siciliani di non pagare il canone, ma mi rendo conto che dopo la trasmissione faranno un grosso sforzo nel continuare a pagare il servizio pubblico".
"Dire che la Sicilia di oggi è quella in cui l'80 per cento degli imprenditori pagano il pizzo o se ne vanno e quelli che restano sono costretti a vivere sotto scorta è un falso - ha detto il governatore - . Che ci provoca un grosso danno di immagine proprio in un momento in cui decine di grossi imprenditori del nord vengono ad investire nell'Isola e non certo perché sono collusi con la mafia. Quelli che pagano il pizzo saranno il 5-10 per cento. I magistrati dicono cose diverse? E io non ci credo. I dati veri dicono che il prodotto interno lordo in Sicilia nel 2003 è cresciuto dell'1,8 per cento, ben di più della media nazionale dello 0,4 per cento, e questa è la riscossa di un territorio, della sua voglia di impresa, della cultura della legalità".
Alle proteste di Cuffaro si aggiungono anche quelle dei ministri La Loggia e Giovanardi (ieri a Palermo) e quelle degli imprenditori. In una lettera al direttore di Rai 3, il vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno Ettore Artioli stigmatizza gli "odiosi luoghi comuni secondo i quali tutta la Sicilia sarebbe governata dalla delinquenza organizzata e tutti quelli che si ostinano a vivere e a lavorare in questa regione sono inevitabilmente complici e collusi con la criminalità". E mentre il sindaco forzista di Catania e medico personale di Berlusconi Umberto Scapagnini annuncia "la sospensione di ogni rapporto ufficiale con il servizio pubblico" e un fitto scambio di telefonate Palermo-Roma ventila anche una "ospitata" di Cuffaro in una delle prossime trasmissioni mattutine della Rai, il direttore della terza rete Paolo Ruffini respinge gli attacchi: "Questa polemica proprio non la capisco. Io sono siciliano e la Sicilia la amo veramente. E il programma della Gabanelli, che era assolutamente antiretorico, ha dato voce alla Sicilia perbene, mostrando proprio il contrario di quello che gli viene imputato, ovvero che esistono molti siciliani che si battono contro la mafia. Non è che vietando di parlarne si sconfigge la mafia, la si sconfigge anche denunciandola e dando voce a chi la combatte e la denuncia. Dando voce alla Sicilia perbene".
E a fianco della redazione di Report scende anche il segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi: "Un reportage giustamente e fortemente impegnato ad analizzare la recente evoluzione del fenomeno mafioso in Sicilia. Solo fatti e realtà, per qualcuno forse scomodi".
Da sinistra il commento sconsolato dell'eurodeputato ds Claudio Fava: "Da presidente della Regione siciliana è accusato di aver favorito Cosa nostra, da spettatore televisivo si indigna per un documentario di denuncia sulla mafia. La psicologia del signor Totò Cuffaro è davvero bizzarra...".
Scoppia lo scandalo: parla di mafia
di CURZIO MALTESE
UNA bella inchiesta di Report su Raitre ha interrotto per una sera gli anni di omertà televisiva sulla mafia, con l'eccezione di qualche buona ma innocua fiction.
Puntuale è scattata la censura della maggioranza. Tutti in prima fila, gli esponenti siciliani di Forza Italia, il presidente della Regione Cuffaro, il sindaco di Catania Scapagnini, non per combattere la mafia ma il giornalismo anti-mafia.
Per difendere la "loro" Sicilia "diffamata e offesa" con "vecchie storie", frutto di pregiudizio politico. Senza neppure rendersi conto di usare gli argomenti, il linguaggio, le frasi fatte di un Totò Riina o di tanti mafiosi da film.
In verità i legami fra Cosa Nostra e politica erano stati appena sfiorati dal programma di Raitre, forse nell'illusione di scampare alla mannaia. Ma ormai nella maggioranza dei "61 collegi su 61" basta la sola parola "mafia" per scatenare reazioni isteriche, violente e a volte ridicole. Come la richiesta di ottenere una "trasmissione riparatrice" su Raidue per "mostrare l'altro volto della Sicilia", avanzata da Cuffaro e prontamente accolta dallo spaventapasseri di destra piazzato alla direzione generale della tv pubblica, Flavio Cattaneo. Che ci faranno vedere, carretti e balli folcloristici? Sono anni che in tv, Rai o Mediaset, ci fanno vedere l'altro volto della Sicilia, quello falso, dove la mafia non esiste.
Il torto di Milena Gabanelli e degli inviati di Report è di aver ricordato che la mafia invece esiste ed è tornata a controllare il territorio. Non si sono visti scoop o rivelazioni clamorose nella puntata dell'altra sera.
Soltanto l'ostinato, intelligente racconto di che cos'è la nuova criminalità organizzata, attraverso episodi piccoli e grandi. I tre incendi al locale gestito dal capo dei commercianti anti racket del siracusano, scanditi ogni nove mesi esatti, nell'incredibile impotenza delle forze dell'ordine. Le strane fughe a un passo dall'arresto di Bernardo Provenzano, che dev'essere da trent'anni l'uomo più fortunato del pianeta oppure uno che ha buoni informatori nelle istituzioni. Un'inchiesta seria, documentata, equilibrata, che ha dato voce per una volta alla Sicilia del coraggio e dell'onestà, l'ha fatta sentire meno sola. Un ottimo esempio di quel servizio pubblico che tutti, a parole, invocano dalla Rai.
La censura a Report è l'ultimo episodio di una lunga storia di televisione di regime, cominciata nel 2001 con la vittoria di Berlusconi e il proclama di Sofia contro Biagi e Santoro, proseguita con l'epurazione della satira e dell'informazione indipendente, fino alla grottesca sospensione del Molière di Paolo Rossi domenica scorsa. Ma è anche l'episodio più grave e triste, nella sua cinica prevedibilità.
E' prevedibile ma deprimente che un personaggio come Totò Cuffaro, che deve rispondere alla giustizia dell'accusa di favoreggiamento alla mafia, scateni pubblicamente l'ennesima campagna contro l'antimafia. E' altrettanto scontato ma triste che Forza Italia, il cui fondatore Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, metta alla gogna chi indaga sulla mafia. Possibile che nessuno, nel centrodestra, provi imbarazzo per questo processo alla rovescia? Non ci aspettiamo grandi prove di senso dello Stato dalla maggioranza. Ma se è vero che "la Sicilia non è soltanto mafia" neppuro lo è tutta l'Udc o Forza Italia.
E dunque perché lasciar parlare su questi temi soltanto una compagnia di indagati o condannati?
Quanto al danno che queste inchieste e perfino alcuni sceneggiati produrrebbe all'immagine della Sicilia e dell'Italia, vecchia accusa di Berlusconi, bisogna mettersi d'accordo. Un episodio come questo è destinato a fare il giro del pianeta, portando l'immagine più desolante di un'Italia omertosa, governata da amici degli amici.
Qualche mese fa le Monde ha rappresentato una vignetta con Berlusconi che presentava la sua squadra. Da una parte un gruppo di ciechi col bastone e i cani: "I miei elettori". Dall'altra un pugno di ceffi con coppola e occhiali da sole: "I mie collaboratori". La battuta è stata ripresa da tutte le televisioni del mondo, tranne una. Davvero un bel colpo d'immagine, altro che "La Piovra".
Dunque lo Scandalo. Lo scrivo con la maiuscola perché è grosso. Grave. Ma non si deve considerare come uno scandalo che riguarda le banche intese come sistema. Le più grandi ma anche le medie e le piccole ne sono fuori. E quindi tirarcele dentro è improprio e pericoloso.
Riguarda invece due operazioni pubbliche di acquisto (Opa) tentate una su Antonveneta e l´altra su Banca Nazionale del Lavoro che ne sono state oggetti (passivi) e Banca Popolare di Lodi e Unipol che ne sono stati invece i soggetti (attivi). Ma ciò che lo rende grave, anzi gravissimo, deriva dal coinvolgimento evidente della Banca d´Italia, del governatore Fazio, del capo della Vigilanza e (per omissione) del Consiglio Superiore e del Direttorio dell´Istituto. E questo è il primo aspetto della questione.
Il secondo aspetto da considerare è l´inesistenza del governo protrattasi per quasi sei mesi fino ad oggi. Il ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, ci ha fatto sapere l´altro ieri che questa inspiegabile e colpevole inesistenza cesserà martedì prossimo quando si riunirà un Consiglio dei ministri straordinario, tutto dedicato all´argomento e finalizzato all´approvazione di una norma da inserire nella legge sul risparmio, che è rimasta insabbiata per due anni nelle aule parlamentari perché la maggioranza aveva altro da fare.
Questa norma dovrebbe introdurre il mandato a termine del governatore per cinque anni e contenere anche un´appendice transitoria in forza della quale Fazio potrebbe essere licenziato istantaneamente dal governo unito per la prima volta del potere di nomina e di revoca sul governatore e sul Direttorio.
Il terzo aspetto riguarda alcuni partiti, con diverse gradazioni di responsabilità. Nell´ordine: la Lega, il partito trasversale pro-Fazio, Forza Italia, i Ds.
Ciascuno di questi aspetti merita un´analisi attenta che cercheremo di fare con la massima chiarezza e obiettività. Ma prima di addentrarci nel groviglio che si è creato è necessario cominciare da un preliminare che riguarda la magistratura.
Su questo tema osservo una (sospetta) uniformità di giudizio da parte dei politici, sia quelli di governo a cominciare dal presidente del Consiglio sia gran parte di quelli dell´opposizione. Quasi tutti concordano nel sottolineare che la magistratura di oggi
Insomma non è quella di Mani pulite, con l´evidente sottinteso che non commetterà analoghi errori, non sarà analogamente faziosa e giustizialista, non farà tintinnare manette.
Quella triste stagione (aggiungono) che fece tanto male all´Italia si è chiusa per sempre. Questo dicono i politici e ad essi fanno coro molti e importanti giornali, anch´essi "rinsaviti" rispetto ad allora.
Ebbene, io penso onestamente che i magistrati oggi all´opera sullo scandalo delle Opa non facciano altro che muoversi sul tracciato di Mani pulite, che poi non fu altro che un più incisivo funzionamento delle Procure e della magistratura giudicante dopo anni di fin troppo evidente sonnolenza della giurisdizione nei confronti dei reati contro la corruzione pubblica elevata a sistema di governo.
Errori e forzature furono certo commessi nelle inchieste di tredici anni fa e potranno esser commessi anche nello scandalo che abbiamo ora sott´occhi. Ma non tali da inficiare il risultato complessivo e finale. La magistratura di allora bonificò un terreno che la politica aveva lasciato imputridire per tutto il decennio degli anni Ottanta. Così oggi, perché anche oggi dobbiamo ai procuratori di Milano e di Roma e non certo alle forze politiche e al governo, se lo scandalo è emerso in tutti i suoi connotati e se il personaggio che ne è al centro si trova ormai in un angolo dal quale sarà assai difficile che possa uscire.
La magistratura italiana dunque una volta ancora ha reso un servizio al paese il quale deve avere sempre più a cuore la difesa della sua indipendenza.
E questa è la prima conclusione che lo scandalo ci suggerisce.
***
Sul primo aspetto, quello delle due Opa, esiste un tratto unificante e un altro che le fa invece radicalmente diverse una dall´altra.
Il tratto unificante deriva dalla circostanza che le prime Opa sulle due prede furono lanciate da due banche europee non italiane: la Abn Amro (olandese) su Antonveneta, la Banca di Bilbao sulla Bnl. Ad entrambe si oppose il governatore Fazio con affannato moltiplicarsi di appelli, incontri, incoraggiamenti, affinché si formassero cordate e intervenissero "cavalieri bianchi" a difesa dell´italianità del sistema, passando allegramente sopra alle direttive europee in materia di Opa.
In ossequio (interessato) alla difesa del tricolore bancario, nacquero due iniziative: si fece largo la Popolare di Lodi per Antonveneta e la Unipol per Bnl. Fazio fece tutto quanto gli era possibile fare per favorire sia l´una che l´altra, manipolando il calendario delle autorizzazioni e chiudendo tutt´e due gli occhi quando "l´italianità" gli suggeriva di chiuderli.
Qui però finisce il tratto comune e cominciano le differenze tra le due operazioni. Quella promossa da Fiorani si è configurata fin dall´inizio come un´azione truffaldina di manipolazione del mercato, uso di fondi illeciti, ruberie vere e proprie a danno dei depositanti, uso di prestanome e di società offshore e di complici.
Insomma, come si dice un po´ alla greve, un porcaio nel quale Fiorani e soci hanno inzuppato abbondantemente il pane a vantaggio di se stessi oltre che della banca di Lodi della quale da anni avevano fatto il centro delle loro malversazioni.
Niente di paragonabile è accaduto nell´operazione Unipol. Se ne possono non condividere gli obiettivi e l´adeguatezza delle garanzie, ma sulla liceità dell´operazione nessuno finora ha avanzato dubbi. E del resto l´atteggiamento della Bilbao è stato molto diverso da quello della Abn Amro, penalizzata quest´ultima con ben altra durezza dalle scorrettezze del concorrente e dalla complicità della Banca d´Italia.
Quando alcuni esponenti dei Ds difendono il diritto del movimento cooperativo a operare sul mercato alla pari con gli altri soggetti economici «nel rispetto delle regole», sostengono dunque una tesi perfettamente legittima, impugnabile solo per ragioni animate da faziosità politica.
Diverso tuttavia è il caso personale dell´amministratore delegato di Unipol. Risulta dall´inchiesta giudiziaria in corso su di lui che Consorte abbia ottenuto favori personali da Fiorani e lucrato vantaggi illeciti e personali da tali favori. Siamo ancora ben lontani dal rinvio a giudizio e ancor più da un processo vero e proprio, ma queste prime risultanze dovrebbero indurre i dirigenti Ds alla massima cautela e lontananza dal soggetto incriminato.
C´è di più. Già nello scorso agosto in un articolo sull´argomento avevo scritto che un dirigente politico deve osservare un rigoroso silenzio di fronte ad operazioni lanciate sul mercato e regolate da apposite norme, come è il caso di un´Opa. In questi casi la politica deve solo controllare che le norme in vigore siano rispettate e poi, come nelle gare di qualunque tipo, vinca il migliore scelto come tale dal mercato. Quando questo metodo non viene rigorosamente osservato ne derivano soltanto confusione e coinvolgimenti che, essi sì, costituiscono inframmettenze e recano danni di sostanza e di immagine. Ciò vale per tutti i politici, per tutti i partiti. Non capisco perché comportamenti così elementari siano troppe volte ignorati e contraddetti.
***
Sulla grave latitanza del governo durata oltre sei mesi non c´è altro da aggiungere. Fecero eccezione sia Tremonti sia Siniscalco, che chiesero per motivi diversi le dimissioni di Fazio. Ambedue ci rimisero il posto e questo dice già molto sull´intera questione.
Ora si annuncia un provvedimento che dia al governo il potere di nominare e revocare il governatore, a cominciare da subito. E si profila in materia un accordo tra governo e opposizione, ovviamente senza che sia posta la questione di fiducia che renderebbe impraticabile quell´accordo.
Tutto bene perché se c´è un tema bipartisan è quello che riguarda la Banca d´Italia e la sua credibilità scesa ai più bassi livelli, che dev´essere senza ulteriore indugio recuperata.
Tuttavia un provvedimento che dia al governo poteri di nomina e revoca sulla più alta istituzione monetaria nazionale nel quadro, addirittura, della Banca centrale europea, investe una materia delicatissima sulla quale le forze politiche debbono osservare la massima attenzione.
Finora la nomina del governatore è stata un atto "plurimo"; ha implicato infatti il concorso sostanziale di tre distinte autorità: il Consiglio superiore della Banca, il governo, il presidente della Repubblica la cui firma del decreto di nomina non è (ripeto non è) un atto burocraticamente dovuto.
E´ buona l´idea che si individui nel governo anziché nel Consiglio superiore l´organo di iniziativa e di proposta.
Buona anche l´idea di sottoporre la proposta all´approvazione delle Commissioni parlamentari competenti, le quali dovrebbero votare con maggioranza qualificata associando quindi alla nomina e alla revoca anche l´opposizione. Ma è evidente che dev´essere altresì mantenuto il peso specifico della firma del capo dello Stato, cioè della più alta autorità di garanzia esistente nel nostro ordinamento. Il capo dello Stato rappresenta il garante di tutte le altre autorità di garanzia; per quanto riguarda la Banca d´Italia il suo ruolo deve perciò restare determinante dal momento stesso in cui comincia a prender corpo la scelta da compiere.
* * *
Concludo. A differenza di Tangentopoli, dove l´intero sistema pubblico era entrato in crisi deformando la struttura stessa della democrazia, lo scandalo di oggi poteva e doveva essere evitato. Bastava l´azione preventiva degli organi di controllo; invece è stata necessaria quella repressiva della magistratura.
Auguriamoci che serva di lezione. A chi governa oggi e a chi governerà domani. Auguriamoci la sconfitta dei furbi e la vittoria degli intelligenti.
Finora è troppo spesso accaduto il contrario. Il vero cambiamento che attendiamo è proprio questo e speriamo che avvenga.
Cominciamo con l’eliminare le bassezze. Un esponente della comunità ebraica romana ha dichiarato che chiunque non sarà al suo fianco a manifestare davanti all’ambasciata dell’Iran giovedì sera non soltanto è nemico di Israele ma di tutti gli ebrei, e deve sapere che sarà tenuto sotto osservazione. Il saggio amico Amos Luzzatto ha cercato di rimediare osservando che qualcuno sarà impedito di esserci perchè ammalato o all’estero. Io sono in questa condizione. E però non a Pacifici, che una voltami ha additato come terrorista alle sassate dei suoi seguaci, ma a Luzzatto voglio dire che non sarei andata alla fiaccolata neanche se fossi a Roma e sana come un pesce. Primo, perchè nessuno mi farà andare o non andare a una manifestazione sotto minaccia di essere schedata, e non preciserò che cosa questo mi ricordi; secondo, perchè non vedo ragioni di essere a fianco di Calderoli e di Fini e sotto l’egida del Foglio. E con ciò chiuso. Che qualcuno della comunità ebraica possa definirmi per questo antisemita è un problema della medesima comunità. Delle intemperanze del Foglio, che sta varcando il limite tra provocazione e stupidità, non meriterebbe parlare se troppi e troppe non fossero frementi di frequentarne la scena.
E veniamo alle cose serie. Politicamente grave è stata l’uscita di Ahmadinejad sulla necessità di cancellare Israele dalla carta geografica, e miserrimo il rattoppo: ´Ma non sarà l’Iran a cominciare, e del resto sono cose che Khomeini e Khamenei hanno detto per vent’anniª. Grave che una folla di giovani emeno giovani e financo di donne, trattate come sono da quel regime, si sia inebriata per le strade di Tehran di questaminaccia simbolica.
Perchè è un mero simbolo, ancorchè pessimo. Non solo Israele è uno degli stati più difesi, più armati e per certi versi più aggressivi del mondo, e quindi non è certo messa in pericolo dall’Iran, ma quel che gli ebrei hanno subito nel ‘900 fa dell’esistenza di una terra loro, dove non possano mai sentirsi perseguitati o indesiderati, il minimo che l’umanità deve a se stessa. Se c’è qualcosa da cancellare è l’incapacità di molte comunità della diaspora di liberarsi dal senso di essere in un ghetto, di essere isolata e perseguitata, e la parallela incapacità di Israele di presentarsi come in stato d’assedio e quindi di agire in modo conseguente per uscire da quel conflitto in medioriente, nel quale sia ebrei sia palestinesi, spossessati della loro terra, hanno perduto troppe vite e stanno dando il peggio di sé. Non è vero che un forsennato presidente iraniano voglia cancellare lo stato di Israele mente il saggio Sharon riconosce pienamente l’esistenza di uno stato palestinese. Ambedue rifiutano di riconoscersi, si rilanciano minacce di sterminio che fortunatamente non possono mettere in atto, svicolano dai loro problemi reali e danno corda ai reciproci fondamentalismi.
Su questo l’appello a partecipare al presidio di giovedì non dice nè solo nè tutta la verità. E’ una manovra che fa comodo alla destra, viene da uno dei suoi uomini, pretende di misurare la temperatura democratica della sinistra di fronte a uno dei problemi più dolorosi del tempo nostro. Soprattutto è una misera cosa davanti al vero problema di civiltà dal quale è impossibile stornare ormai lo sguardo. Da tutte le parti del mondo ci viene infatti un’analoga immagine: al venir meno di un conflitto civilizzato come è stata e vissuta nel ‘900 la lotta di classe e quella di emancipazione dei popoli, sono conseguite da parte della sinistra l’abbandono di ogni principio, e nei paesi terzi la retrocessione dalla emancipazione all’identità di sangue e terra. È giocoforza constatare che alla fine di un messianesimo terrestre per ingenuo che fosse, dai primi illuministi all’ambizione di creare un soggetto sociale rivoluzionario internazionalista, è sopravvenuta non altro che una regressione dell’una e dell’altra molto al di qua del punto da cui si era partiti.
La fine dei laicismi arabi Ë una catastrofe per quei paesi: davvero solo gli ayatollah potevano liberare l’Iran dalla modernità poliziesca e filoamericana dello scià? Davvero solo la disperazione dei kamikaze può ormai far fronte a Sharon? O Al Qaeda e la sue ramificazioni al venire meno di ogni progressismo arabo? E sono lo sette fondamentaliste, musulmane o indu, che si danno reciprocamente fuoco ma convincono e spesso organizzano i reietti della crescita indiana. Ma anche in occidente sembra che alla mera forza della tecnica del mercato non possa opporsi che la mera visceralità. Non è questa che ha dato spazio negli Stati Uniti ai neocons, in Francia a Le Pen, a Bossi in Italia, ai Kaczynski in Polonia, e si potrebbe continuare? Il modello occidentale trionfante moltiplica i reietti, e i reietti non sono - su questo ha ragione Dahrendorf - il terreno delle rivoluzioni. Sono terreno del populismo.
Così quel che potrebbe essere stato, anche nel caso del presidente iraniano, un dibattito serio nel conflitto politico italiano degenera di colpo in una brutta commedia. Bisognerà pure che qualcuno si decida a dirlo.
Ma davvero è stato il Generale Agosto a sconfiggere l’appello di Paolo Flores d’Arcais e di altri intellettuali a candidare alle primarie un esponente della «stagione dei movimenti»? E davvero di quella stagione non è rimasto quasi più niente, poche gocce di benzina e basta per un centrosinistra destinato a vivere ormai di apparati di partito? Antonio Padellaro ha già dato la risposta fondamentale: il popolo protagonista di quella stagione ha scelto di votare Romano Prodi.
Ma è utile aggiungere qualche altra nota su passato e presente per dare un senso più preciso agli scenari attuali; e per aiutarci a non consegnare né a Berlusconi né alle oligarchie di partito l’immagine di un’Unione senza ossigeno civile.
Torniamo dunque per un attimo all’origine: all’urlo di Moretti, ossia al canonico punto di svolta (e di lancio) di quella stagione. Quella sera di febbraio del 2002 a Piazza Navona le migliaia di persone presenti non erano venute a sentire il regista, il cui intervento fu in realtà uno spettacolare fuori programma. Avevano invece raccolto l’invito alla mobilitazione per una «legge uguale per tutti» di quaranta parlamentari dell’Ulivo. I quali da mesi percepivano il rischio di farsi risucchiare da quello che Gramsci chiamava il «cretinismo parlamentare», ossia la conta imbelle di maggioranze e minoranze mentre la democrazia viene spolpata. Una risposta all’altezza della prima sequenza di leggi della vergogna, così si pensava, sarebbe stata possibile solo con il sostegno di un movimento di popolo. Era il ritorno sulla piazza (come a Firenze e Milano nelle stesse settimane) dopo una lunga stagione di latitanza. Per quei tempi fu un successo, che si avvalse anche dell’aiuto organizzativo di una sezione Ds del centro di Roma. Sul palco venne dato ampio spazio agli esponenti della società civile. Chiuse Moretti con la sua frase iconoclasta («Con questi dirigenti non vinceremo mai»). E suscitò un’ovazione ed effetti tonificanti. Ma resta il dato di fatto: sin dall’inizio parlamentari e società civile procedettero appaiati (nelle loro espressioni più vitali) nell’impegno per difendere le ragioni della democrazia e della decenza istituzionale.
La stessa manifestazione di piazza San Giovanni nacque sull’onda di una forte mobilitazione intorno al Senato (anche allora era agosto...) in cui, dopo un’occupazione notturna dell’aula della commissione Giustizia, si realizzò una indimenticabile fusione tra rappresentanti delle istituzioni e movimento. Di più: l’appuntamento del 14 settembre vide un impegno diretto di tutta l’opposizione (che saggiamente rinunciò a promuoverlo in proprio per facilitare una partecipazione dei cittadini trasversale agli schieramenti politici).
Come dimenticarlo? Per preparare la manifestazione in molte città vennero messe a disposizione le sedi politiche, le feste de l’Unità brulicavano di banchetti per l’organizzazione del viaggio a Roma, non ci fu associazione vicina a questo o quel partito che non si sentisse direttamente impegnata a portare almeno «un pullman a Roma». Non ci fu insomma, quella volta, la nascita di un popolo alla ricerca di una nuova rappresentanza politica. Semplicemente, da un lato si mobilitò un’Italia più incline all’associazionismo civile; dall’altro si espresse al meglio la nuova natura dei partiti, assai più fluidi e sciolti di una volta. Più disposti a «stare nei movimenti» in virtù di una somma di convinzioni individuali e in virtù di direttive centrali.
Non fu l’unico grandioso momento di quella stagione. Il sabato primaverile dei tre milioni di Cofferati, il febbraio successivo con altri tre milioni per la pace, segnarono un ciclo di partecipazione senza precedenti nella storia d’Italia, con cifre da fare impallidire il pur mitico Sessantotto.
Poteva durare all’infinito? Certamente no. I grandi movimenti si formano per combinazioni chimiche irripetibili allestite dalla Storia (da noi, pare, a cicli quasi decennali: ’68-’72, ’77, ’90-’93, 2002-’03). Questo spiega perché, fuori da quelle combinazioni chimiche, una nuova san Giovanni oggi non sia pensabile neanche per la SalvaPreviti, che pure è dieci volte peggio della Cirami. E perché oggi, diciamo dal lodo Schifani in poi, si lamentino vuoti politici su una sponda o sull’altra.
Talvolta con i cittadini più attivi che si sentono privi di una adeguata rappresentanza politica. Altre volte con i parlamentari più sensibili che si percepiscono, nei vuoti di attenzione dell’opinione pubblica, alla stregua di liberi professionisti dell’opposizione. E tuttavia sarebbe sbagliato non cogliere il dato di fondo di questa quiete apparente dell’agosto 2005. Essa in fondo si è prodotta anche perché, da quel 2002, il centrosinistra ha infilato una vittoria elettorale dopo l’altra così che oggi il popolo dei movimenti guarda soprattutto a come potrà, dopo quella dura fase di resistenza, portare al governo i propri valori.
Certo, se qualcuno scommise, dopo il Palavobis, all’interno e all’esterno dei movimenti, sulla frana dei partiti del centrosinistra e dei suoi gruppi dirigenti anziché su un rapporto dialettico tra partiti e movimenti, puntò cioè su un processo di sostituzione affinché su un processo di scambio e osmosi, allora la delusione è legittima. Perché quei famosi dirigenti, nonostante tutto, anche grazie alla (provvidenziale) spinta critica dei movimenti, hanno vinto per ora tutte le prove. Non solo, ma proprio uno dei protagonisti del Palavobis, Roberto Zaccaria, è stato recentemente eletto a Milano nel collegio di Bossi a testimonianza che il rapporto dialettico c’è stato e ha funzionato anche a distanza di tempo.
Ma se la delusione nasce dall’atteggiamento attuale verso le primarie, essa davvero non appare giustificata. Per il semplice e solare fatto che quel popolo dei movimenti che per decine di manifestazioni ci ha chiesto unità (e rispetto per il patrimonio di entusiasmo che ci offriva) ha già deciso di votare Romano Prodi. Perché lo considera il punto di unità più avanzato possibile e dunque, anche per questo, il candidato che offre più possibilità di vittoria. E perché vuole, con il proprio voto alle primarie, metterlo al riparo da eventuali, sempre possibili, «congiure di palazzo» o pretestuose divisioni una volta che dovesse andare al governo.
Quanto alla presenza, nella competizione di ottobre, di esponenti della «stagione dei movimenti», essa, per onore di cronaca, ci sarà comunque. Ivan Scalfarotto (e gliel’ho detto con sincera chiarezza) non avrà il mio voto. Ma è indubbio che con «adottiamo la Costituzione» è stato attivo in tutta l’esperienza milanese nei momenti dell’onda alta e ha poi continuato a Londra con «Libertà e Giustizia»; non avrà notorietà o influenza mediatica, ma mi sembra onesto riconoscergli i titoli acquisiti sul campo, fra cui quello di averci messo almeno la faccia direttamente.
Su un punto decisivo Flores ha però ragione. Ed è che occorre fare di tutto perché gli elettori del centrosinistra sentano che il loro voto non servirà solo a battere Berlusconi. Che sentano che «vale la pena» votare per l’Unione. È questa una preoccupazione condivisa da molti, anche nei partiti, se è vero che iniziano a essere un po’ troppe, sia in sede locale sia in sede nazionale, le docce fredde che arrivano addosso a chi non aspetta altro che una svolta nei valori e nei metodi della politica. Che le primarie siano dunque il luogo giusto per dire che il popolo del centrosinistra c’è, partecipa ed è attento. Dopo sarà più facile, o meno problematico, ottenere che le scelte delle candidature esprimano una domanda di cambiamento.
Dopo sarà più facile, o meno problematico, avere un governo in cui possa riconoscersi il popolo che in quel cruciale 2002-2003 ha chiesto a voce più alta un’Italia civile, libera e pulita.
Titolo originale: Knowing me, knowing you – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
George Orwell sarebbe rimasto scioccato dal sostegno popolare alla diffusione delle tecnologie della sorveglianza.
non c’è dubbio sul fatto che il mondo sia entrato nell’era della sorveglianza: con il Regno Unito in testa. La Gran Bretagna ora ha oltre 4 milioni di telecamere CCTV operanti, angeli custodi della società secolarizzata. Se si tenesse un referendum sulla scia degli attacchi terroristici per sistemare telecamere in ogni strada, probabilmente vincerebbe a soverchiante maggioranza. Ciò sorprende lievemente, non solo per le implicazioni di lungo termine riguardo alle libertà civili, ma perché le videocamere non sembrano aver agito come deterrente per i terroristi, anche se hanno reso più facile identificarli dopo, vivi o morti.
Il metodo principale per rintracciare i sospetti di terrorismo è stato il monitoraggio delle conversazioni sui telefoni cellulari. Non solo gli operatori possono localizzare gli utenti con un margine di qualche metro “triangolando” il segnale da tre stazioni base, ma – secondo un’indagine del Financial Times – gli operatori (autorizzati dalla magistratura) possono installare da postazione remota un software sull’apparecchio, che attiva il microfono anche quando l’utente non sta chiamando. Chi ha più bisogno di una carta d’identità, se possono far questo?
Al vertice di tutta questo scrutamento ufficiale, c’è la moda crescente della sorveglianza personale da milioni di telefonini “ smart” dotati di telecamera e funzioni video, che diventano più potenti ogni settimana. Non passerà molto tempo, indubbiamente, prima che vengano inserite telecamere miniaturizzate dentro occhiali, con riprese che poi saranno spedite a un sito remoto per l’archiviazione.
La tecnologia ha indubbiamente aiutato i terroristi ad organizzarsi. Internet è uno strumento per il proselitismo dei fondamentalisti, per informazioni su attività come costruirsi le bombe, per tenersi in contatto con persone con gli stessi orientamenti, mentre i telefoni mobili offrono comunicazione costante e, in alcuni casi, un detonatore.
La tecnologia offre anche metodi senza precedenti per rintracciare i criminali. Ma ogni avanzamento nelle indagini tecnologiche genera una contro-reazione da parte dei terroristi. Nello stesso modo in cui c’è stato uno spostamento dal riciclaggio di denaro attraverso il sistema bancario internazionale (verso le transazioni in contanti) a causa dei migliorati controlli governativi, così gli eventi dello scorso mese potrebbero persuadere i terroristi ad abbandonare i telefonini a favore di forme di comunicazione più primitive, come le conversazioni dirette faccia a faccia.
Mentre la tecnologia continua a progredire a grande velocità, il modo di sapere chi siamo diventa spaventoso. Il numero in edicola di Business Week elenca i modi attraverso cui possiamo essere identificati esattamente a partire dal DNA e dalle schede di identificazione per frequenze radio (RFID) all’odore del corpo, al respiro, alla saliva. Ci sono anche scienziati al lavoro sul “riconoscimento da andatura”, in modo tale che in futuro le videocamere ci possano individuare in mezzo alla folla dal modo in cui camminiamo.
Il pericolo di tutto ciò è che poche persone obiettano, finché esiste una seria minaccia di terrorismo. Ma una volta (se?) passato il pericolo, l’infrastruttura della sorveglianza resterà. E allora potrebbe non essere la polizia a ricostruire un’immagine sfocata dalla folla per catturare un terrorista, ma un dipendente dell’impresa responsabile delle immagini a estorcere denaro da qualcuno trovato in situazioni compromettenti. Come osserva un redattore di Business Week “Traiamo la maggior parte della nostra sicurezza dalla libertà”. Se George Orwell fosse vivo oggi (21 anni dopo la Londra che aveva descritto in “ 1984”) rimarrebbe esterrefatto vedendo che il tipo di sorveglianza che temeva è sostenuto non da un governo che lo impone a milioni di abitanti ignari, ma da una spontanea approvazione popolare. Questo non costituisce un problema al momento. Ma lo sarà in futuro, sia che accettiamo di rinunciare alle libertà civili in modo permanente come risposta ad un’emergenza temporanea, sia che il costo di installazione delle infrastrutture divenga tanto enorme da erodere la nostra ricchezza personale. In ogni caso, Bin Laden avrebbe vinto.
Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Chi crede che Marcello Pera, con un attacco che non ha precedenti nella storia repubblicana, abbia voluto colpire l´odiata «lobby» delle toghe, non ha capito nulla. Il Consiglio superiore della magistratura è solo un finto bersaglio. L´obiettivo vero di questa violenta offensiva del presidente del Senato, stavolta sorprendentemente spalleggiato dal presidente della Camera, sta molto più in alto. Si chiama Carlo Azeglio Ciampi. Contestando il diritto costituzionalmente e giuridicamente garantito del Csm ad esprimere un parere «tecnico» sulla riforma dell´ordinamento giudiziario, il più alto rappresentante delle assemblee degli eletti del popolo delegittima il Capo dello Stato. Di fatto, lo accusa di attentare alla Costituzione.
Secondo Pera, il Csm non può valutare e discutere gli effetti dei provvedimenti di legge discussi o approvati dal Parlamento. Se lo fa, si pone fuori dal perimetro della Costituzione. Si trasforma in una «terza Camera». Si eleva, in quanto potere giudiziario, allo stesso livello del potere legislativo. Viceversa, com´è ormai tristemente noto e come dimostra la rovinosa campagna contro le toghe ingaggiata in questi quattro anni dal Polo, la magistratura è poco più che un «ordine professionale» (come pretendono gli azzeccagarbugli della destra) e non certo un «potere dello Stato» (come invece prevede l´ordinamento costituzionale). Dunque, con i pareri negativi emessi sulla riforma Castelli, e da ultimo con la decisione di mettere all´ordine del giorno anche il cosiddetto «emendamento Bobbio» (aggiunto alla riforma solo per impedire a Giancarlo Caselli di concorrere alla nomina di procuratore nazionale anti-mafia) il Consiglio superiore della magistratura ha compiuto un atto sedizioso. Uno strappo eversivo dell´ordine costituzionale.
Il presidente del Senato sbaglia due volte. Sbaglia la prima volta perché, mentre richiama in chiave restrittiva le competenze attribuite al Csm dall´articolo 105 della Costituzione, si guarda bene dal menzionare l´articolo 10 della legge istitutiva dell´organo di autogoverno dei magistrati, che nel 1958 ha conferito allo stesso Consiglio la facoltà di esprimere pareri su leggi e decreti al ministro Guardasigilli. A questa grave e quanto mai singolare «amnesia» ha dovuto porre rimedio, con tanto di nota ufficiale, il vicepresidente del Csm. Ma Pera non si accontenta. E sbaglia la seconda volta perché, accusando le toghe di aver violato la Carta del ´48, fa finta di dimenticare che è stato proprio Ciampi, appena una settimana fa, ad autorizzare con tanto di firma autografa l´inserimento del parere sull´emendamento Bobbio nell´ordine del giorno della riunione del Csm. Anche a questo ennesimo e inquietante svarione ha dovuto rimediare Rognoni, rammentando un paio di questioni dirimenti che il presidente del Senato non poteva certo ignorare. Quell´emendamento rappresenta un «nuovo innesto» nel corpo di una riforma della giustizia che il Capo dello Stato aveva già rinviato alle Camere per quattro, fondati e rilevanti motivi di incostituzionalità. La discussione del Csm su quell´emendamento, proprio per questo, ha ricevuto «l´assenso formale» del Capo dello Stato.
Nella sortita di Pera si nasconde un sillogismo velenosissimo: 1) il parere del Csm viola la Costituzione; 2) Ciampi ha autorizzato il parere del Csm; 3) Ciampi viola la Costituzione. Non serve essere un cultore di Aristotele per seguire la logica devastante di questo ragionamento. Non serve essere un dotto filosofo della scienza per capire la portata destabilizzante di un´accusa del genere. Semmai c´è da chiedersi perché, in un momento così incerto sulle prospettive del Paese e in una fase così complessa per i suoi equilibri politici, il presidente del Senato accetti il rischio di aprire un conflitto istituzionale irreparabile. C´è da chiedersi perché, dopo aver fatto da sponda misurata e responsabile al Quirinale in questi tormentati quattro anni di legislatura, stavolta persino Casini si sia schierato con Pera, lasciando che sul Colle piovano gli schizzi di fango della delegittimazione. C´è da chiedersi perché, dopo aver incarnato anche sulla giustizia l´anima «moderata» in una coalizione di destra radicale, sfascista e populista, adesso anche l´Udc di Marco Follini abbia cominciato a cantare nel coro insieme a Pera. Alla stessa stregua degli sguaiati «professionisti dell´anti-giustizia». Dei Castelli o dei Cicchitto. Degli Schifani o dei Bondi.
Ogni sospetto è legittimo. Non mancano spiegazioni plausibili, se si volesse limitare la posta in gioco al solo tema della giustizia. Sulla riforma dell´ordinamento siamo alla vigilia di un confronto parlamentare durissimo. Il governo Berlusconi ha appena annunciato la richiesta del voto di fiducia sul provvedimento. Ciampi l´ha già bocciato una volta, per palese incostituzionalità. Da qualche tempo sul Colle trapela anche l´eventualità di un secondo rinvio alle Camere, proprio per la dubbia costituzionalità dell´emendamento Bobbio, nel frattempo inserito nel testo dai falchi della Cdl. L´altolà di Pera, condiviso non più solo da Forza Italia An e Lega ma ora anche dai centristi, potrebbe essere un avvertimento lanciato al Capo dello Stato: se rifiuti per la seconda volta di promulgare la legge, stavolta rischi l´impeachment, perché hai attentato alla sovranità del Parlamento.
L´ipotesi ha una sua indubbia consistenza. Ma vi si colgono i segni di una qualche sproporzione. La riforma Castelli, anche dentro il Polo, non interessa più a nessuno. A parte il ministro-ingegnere che ci si è giocato il cognome, nessuno sembra convinto della sua impellente necessità. Se è così, la sensazione è che Pera, e Casini che gli è andato dietro, abbiano sparato con un cannone per colpire un passerotto. Per capire meglio, è forse più utile ampliare l´orizzonte. E valutare la posta in gioco in una prospettiva più lunga. Ciampi, con la sua saggia fermezza e la sua credibile equidistanza, si è rivelato alla fine della legislatura come il più solido argine alle scorrerie politiche e alle forzature istituzionali del Cavaliere e i suoi «bravi». Ha manifestato una ferrea determinazione a tenere duro fino all´ultimo giorno del suo settennato. Ha palesato una convinta intenzione di sciogliere le Camere a febbraio, per portare l´Italia la voto il 9 aprile e dare al Paese un governo nel pieno delle sue funzioni già a giugno del 2006. Berlusconi è un leader in declino. Umanamente annoiato e politicamente azzoppato. Se ha ancora una chance di sopravvivenza, dopo Palazzo Chigi e oltre la Casa delle Libertà, quella chance si chiama Quirinale. Dietro di lui, chi nutre la speranza di succedergli nella leadership è disposto a dargli una mano, per cercare di sfrattare anzitempo il riottoso inquilino del Colle.
Le ragioni del naufragio laico
Un ragionamento a tutto campo sui risultati dei referendum. Da la Repubblica del 14 giugno 2005
Il risultato del referendum non è solo una sconfitta: è il naufragio di un´Italia laica che si proponeva di cambiare una legge ideologica, per regolare poi diversamente in Parlamento la materia della fecondazione assistita. Questo era il senso della chiamata alle urne, fuori dagli schieramenti, dagli integralismi, dalla retorica apocalittica che ha trasformato assurdamente il voto in uno scontro di civiltà. Le urne sono rimaste deserte. Chi ha trasformato il confronto in uno scontro tutto italiano tra il Bene e il Male, ha poi chiesto ai difensori del Bene di non scendere in campo, per mandare a vuoto la battaglia. Non sappiamo dunque chi sarebbe prevalso, in uno scontro aperto di valori contrapposti, tra il "sì" e il "no". Un dato solo è certo: ha perso chi (come questo giornale) voleva cambiare la legge. Ha vinto chi voleva conservarla e per prevalere ha affondato con ciò che resta del laicismo anche il vecchio istituto del referendum, che per molto tempo scomparirà dalla scena italiana.
Molto era prevedibile, in questa vicenda, tutto era stato annunciato. Proviamo a vedere come, quando e perché. Passata in minoranza, per ammissione dei vescovi, nel Paese «naturalmente cristiano», la Chiesa italiana negli ultimi dieci anni ha preso coscienza di trovarsi «in una terra di missione» e dunque ha deciso di impegnarsi «a rievangelizzare una società che è stata colpita da una vera amnesia della sua storia e della sua identità cristiana». Da qui, un cambio non soltanto di metodo e di strategia, ma di sostanza. La Chiesa, come dice Ruini, «non fa più leva su un soggetto politico di riferimento, ma sui contenuti», dunque agisce politicamente alla luce del sole, senza mediazione. La si "vede" cioè far politica, senza lo scudo dc, che tra le altre cose serviva evidentemente anche a questo.
Fuori dal corridoio protetto in cui scambiavano il partito-Stato democristiano (con le sue autonomie, e le sue obbedienze) e la Curia, nel mondo scoperto di oggi la Chiesa passa da essere tutto a essere parte, in una sorta di moderna "lobbizzazione" che la porta a competere nel confronto politico-culturale come una grande agenzia di valori e di tradizioni, in competizione e in concorrenza con le agenzie che già occupavano il mercato.
Non riuscendo più a parlare all´insieme maggioritario della società, la Chiesa italiana si rivolge alle sue parti sensibili, prima fra tutti la politica che legifera muovendosi tra interessi legittimi e valori di riferimento, e che ha in mano le cinque leve dell´organizzazione sociale che nel febbraio 2001 il Cardinale Segretario di Stato fissò come essenziali per giudicare dal Vaticano la politica italiana: si tratta delle leggi «sulla vita, la famiglia, la gioventù, la libertà scolastica, la solidarietà».
Davanti a sé la Chiesa ha trovato i partiti della Seconda Repubblica, tutti nati o trasformati nel corso dell´ultimo decennio, senza un deposito di storia e di tradizione, un portato di valori consolidati a cui far riferimento. Una politica dove molto è prassi, tutto è contemporaneo, l´identità è incerta. A sinistra, per la tragica eredità del comunismo, la tradizione è inservibile, come se fosse tutta radioattiva. Nel nuovismo, non mancano solo i nomi, ma anche i riferimenti culturali della sinistra europea moderna e risolta, e dunque la battaglia delle idee diventa insicura, senza visione e senza certezza, con il rischio di essere in ogni momento gregaria delle mode culturali dominanti. A destra, il berlusconismo ha fallito l´unica vera ricerca dell´immortalità, che non sta nelle ricette antirughe del dottor Scapagnini, ma nel progetto di dare alla destra una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l´ha mai avuta, democristiano com´era.
In questo quadro, arriva il Dio italiano predicato dalla Cei, una sorta di via italiana al cattolicesimo che non c´era mai stata, nella nazione della "totalità" democristiana e della surroga papale. Fatalmente, o almeno facilmente, la Chiesa a questo punto viene vista da una parte del mondo politico come l´ultima e l´unica agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie terrene del Novecento e il deperimento fisico delle storie politiche che le avevano incarnate. Dall´altro lato, Chiesa e Vaticano vedono l´Italia improvvisamente come un gregge senza guida e senza rotta, soprattutto senza più idee forti, incapace di tradurre la laicità dello Stato in uno spirito repubblicano libero e autonomo: il terreno ideale per sperimentare - ed è la prima volta in cinquant´anni - una sorta di "protettorato dei valori", l´esercizio di un potere non più temporale ma culturale della Chiesa.
Due elementi in più rafforzano questo quadro. Da un lato, come fa notare Habermas, il ritorno in tutta Europa della religione dal dialogo privato al dibattito pubblico, un ritorno che prende in contropiede il laicismo e che papa Ratzinger aveva già annunciato da cardinale, negando che il cattolicesimo sia solo un sentimento privato: «È una verità proclamata in ambito pubblico, che pone per la società delle norme e che, in una certa misura, è vincolante anche per lo Stato e per i potenti di questo mondo». Dall´altro lato, l´avanzare nel nostro Paese di quel nuovo soggetto che tre anni fa ho chiamato "lo strano cristiano", l´ateo clericale che cerca di saldare la destra politica italiana ad un pensiero forte che non ha, e lo trova nel deposito di tradizione della Chiesa, ignorando sia i suoi comandamenti che la sua trascendenza che la sua predicazione sociale, cavalcando però la sua legge morale tradotta in norma, come creatrice di un´identità collettiva e di una società del Bene.
È il rifiuto della distinzione tra la legge del Creatore e la legge delle creature, che sta a fondamento di ogni moderna concezione della laicità. È il rifiuto ratzingeriano del relativismo tradotto dal linguaggio culturale nel linguaggio politico, persino legislativo: superando l´idea del Parlamento come luogo dove le leggi si fanno con l´unica regola della maggioranza, e dove ogni verità è parziale, come ogni credo in democrazia. Al fondo, c´è la denuncia della nuova religione europea del "politicamente corretto", dell´adorazione "pagana" per i diritti subentrati ai valori, del cuore socialdemocratico del Novecento che ha messo per troppo tempo in circolo lo statalismo e la laicità, mentre la nuova cultura cristiana di destra è la vera interprete di un senso comune del post-moderno. È l´idea di Ruini del cristianesimo come seconda "natura" italiana: che può dunque essere trasgredito e rinnegato solo da leggi in qualche modo contro natura, quindi contestabili alla radice.
Ecco il quadro in cui è nata non la legge sulla fecondazione artificiale, ma "questa" legge, che ha un valore ideologico e di bandiera ben superiore al valore d´uso. Ed è lo stesso quadro in cui è fallito il referendum. Sarebbe certo sbagliato dare alla Chiesa e ai nuovi atei clericali il potere di mobilitare nel silenzio il 75 per cento degli italiani, ed è ridicolo pensarlo. Da dieci anni i referendum non raggiungono il quorum, l´astensionismo fisiologico è altissimo. In questo caso, c´è probabilmente un riflesso automatico in più, che esce dalle logiche della politica: la legge sulla fecondazione è stata vista dagli italiani come una complicata questione di piccola minoranza, che non li riguardava e che non riuscivano a padroneggiare nei suoi aspetti etici e scientifici. Se questo è vero, l´astensionismo più che difendere la legge ha voluto lasciare la parola al Parlamento, dove oggi dovrebbe riaprirsi un confronto finalmente non più propagandistico.
Ma detto questo, non si è detto tutto. Nel disorientamento degli italiani davanti alla materia del referendum, le parole della Chiesa, dei neo-con italiani, degli atei clericali hanno pesato di più delle parole di quel pezzo di sinistra che ha sostenuto il "sì", dei suoi leader, dei suoi scienziati. Il centrosinistra, tutto insieme, dovrebbe riflettere: o trova un´identità culturale, visto che è incapace di trovare quella politica, oppure perderà le grandi sfide di questa fase, che nascono tutte dalla battaglia delle idee, più che dagli schieramenti. Non si può reggere una partita in cui la sinistra parla di sé, mentre la destra parla della vita e della morte. Esistono valori, esistono diritti che la sinistra può testimoniare a testa alta nel mondo di oggi, anche dopo la sconfitta del referendum, perché fanno parte della sua storia: sfidando la destra ad una vera battaglia culturale in campo aperto, senza l´aiuto pagano di Ponzio Pilato.
Franz Muntefering, presidente del Partito Socialdemocratico tedesco, intervenendo nel dibattito sul Capitalismo e riferendosi in particolare al funzionamento della finanza, ha descritto gli operatori finanziari come “sciami di locuste che piombano sulle imprese spogliandole prima di spostarsi altrove”. Commentando criticamente quell'uscita e quel dibattito “The Economist” arriva a confrontarli con la retorica nazista contro il Capitalismo. Tanta violenza sorprende in una pubblicazione di orientamento liberale che, pur manifestando sempre con nettezza il proprio pensiero, usa in genere, moderare i toni.
Un paio di anni fa Claud Bèbèar, gran Patron di Axa e principe della finanza mondiale, ha rilasciato una lunga intervista in un libro dal titolo “Uccideranno il Capitalismo”.
E non si riferiva ai comunisti ma proprio ai capitalisti ed in particolare al mondo della finanza, che conosce benissimo e della quale narrava tutte le storture e le nefandezze.
Ma per trovare una critica così dura del capitalismo contemporaneo gli uomini di “The Economist” non avevano bisogno di andare lontano bastava leggessero… “The Economist”, ed in particolare il supplemento del Giugno del 2003 dal titolo “Capitalism and Democracy”. In esso venivano anche citati una serie di testi di orientamento liberale, i titoli di alcuni dei quali - “Salvare il Capitalismo dai capitalisti”, “Stato prigioniero”, “Fine del Governo”, “Ricchezza e Democrazia” - di per sé danno conto di una critica del Capitalismo contemporaneo non meno radicale del riferimento alle locuste.
In quel supplemento “The Economist” sottolineava una serie di fenomeni - “Un mucchio di scandali societari, risentimento per una straordinario ampliamento delle ineguaglianze di reddito e di ricchezza nei paesi ricchi, un terrificante buco nei conti pensionistici di milioni di persone e, più cruciale di tutto, una montante disillusione sulla capacità delle Istituzioni democratiche di fare rispondere i colpevoli delle loro colpe” - che, a suo parere, rimettono in discussione il rapporto tra Capitalismo e Democrazia. È cambiato così tanto il Capitalismo in questi ultimi mesi secondo “The Economist”?
Ciò detto bisogna anche dire che un problema per la Sinistra probabilmente esiste e sta nel divario tra una critica del capitalismo contemporaneo, che diventa sempre più dura, e la capacità di portare avanti proposte di riforma adeguate. Si potrebbe anche dire che c'è il rischio di passare da un atteggiamento di riformismo debole e, tutto sommato, subalterno, incapace di mobilitare il consenso di persone afflitte da un crescente senso di insicurezza, alla semplice denuncia demagogica e populista.
Per riformismo debole si può intendere l'accettazione dell'idea che le “riforme strutturali” si riducano a quella del mercato del lavoro e a quella dei sistemi pensionistici. Non per dire che questi problemi non esistono. Ma già a tal proposito bisognerebbe distinguere nettamente la strada seguita per la riforma del mercato del lavoro da Thatcher e Reagan da quella seguita, con successo, per esempio, dai socialdemocratici svedesi.
Per quanto riguarda le pensioni bisognerebbe tener presente che proprio i paesi che per primi hanno avviato e predicato la riforma attraverso la parziale privatizzazione dei sistemi pensionistici, sono ora costretti a riformare la riforma anche a causa dei famosi “buchi terrificanti”. Bush tenta di farlo puntando a demolire definitivamente il sistema di sicurezza sociale seguendo una concezione della democrazia per la quale, come diceva la Thatcher, la società non esiste ed esiste soltanto l'individuo. Ma non è detto che il Governo inglese non segua un'altra strada che fa leva sulla ridefinizione ed il rilancio del ruolo redistributivo della componente pubblica del sistema.
In ogni caso non è su queste questioni che si focalizzano le spietate analisi di orientamento liberale ma su fenomeni quali l'aumento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza, il modo come vengono governate le imprese, i meccanismi di incentivazione degli executives, il distacco tra finanza e economia reale e la tendenza ad operare con un'ottica di breve periodo, i conflitti di interesse, lo scarso bilanciamento del potere nella struttura economica e la conseguente tendenza del mondo degli affari a prevaricare la politica dalla quale scaturisce la menomazione della democrazia. A questo complesso di problemi, dei quali la Sinistra sta prendendo consapevolezza con un certo ritardo, si può rispondere non semplicemente con la riforma delle pensioni o del mercato del lavoro ma con una riforma del Capitalismo.
Per la Sinistra sarebbe importante ora definire una teoria positiva dell'impresa e del mercato che vada oltre il riconoscimento del loro ruolo, quasi come un male necessario, fatto decenni fa a Bad-Godesberg dalla socialdemocrazia tedesca. Il mercato è uno spazio di libertà, luogo insostituibile dove gli individui possono promuovere e convalidare, nel rapporto con la società, le proprie aspirazioni ed i propri talenti ed è perciò in grado di produrre incessantemente innovazione. Ma la misura in cui esso può esercitare una tale funzione dipende dalla volontà di porre limiti alla concentrazione della ricchezza e del potere. Formulare una tale teoria dell'impresa e del mercato implica perciò la consapevolezza che essa risulterà opposta a quella dominante da un paio di decenni, che riduce l'impresa ad una semplice sommatoria di contratti individuali governati dalla proprietà, il cui unico scopo sarebbe quello di produrre profitto.
Il grande merito del Riformismo del Novecento è stato di dimostrare che l'alternativa “il Capitalismo o si gestisce così come è o si abbatte” era infondata. Il Capitalismo si può riformare. E se il motore della riforma nel Novecento fu la Sinistra politica e sindacale, personaggi liberaldemocratici quali Keynes e Beveridge dettero un contributo di idee determinante. E non è detto che un tale incontro non possa ripetersi nella risposta ai problemi di oggi.
la società non esiste ed esiste soltanto l'individuo. Ma non è detto che il Governo inglese non segua un'altra strada che fa leva sulla ridefinizione ed il rilancio del ruolo redistributivo della componente pubblica del sistema.
In ogni caso non è su queste questioni che si focalizzano le spietate analisi di orientamento liberale ma su fenomeni quali l'aumento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza, il modo come vengono governate le imprese, i meccanismi di incentivazione degli executives, il distacco tra finanza e economia reale e la tendenza ad operare con un'ottica di breve periodo, i conflitti di interesse, lo scarso bilanciamento del potere nella struttura economica e la conseguente tendenza del mondo degli affari a prevaricare la politica dalla quale scaturisce la menomazione della democrazia. A questo complesso di problemi, dei quali la Sinistra sta prendendo consapevolezza con un certo ritardo, si può rispondere non semplicemente con la riforma delle pensioni o del mercato del lavoro ma con una riforma del Capitalismo.
Per la Sinistra sarebbe importante ora definire una teoria positiva dell'impresa e del mercato che vada oltre il riconoscimento del loro ruolo, quasi come un male necessario, fatto decenni fa a Bad-Godesberg dalla socialdemocrazia tedesca. Il mercato è uno spazio di libertà, luogo insostituibile dove gli individui possono promuovere e convalidare, nel rapporto con la società, le proprie aspirazioni ed i propri talenti ed è perciò in grado di produrre incessantemente innovazione. Ma la misura in cui esso può esercitare una tale funzione dipende dalla volontà di porre limiti alla concentrazione della ricchezza e del potere. Formulare una tale teoria dell'impresa e del mercato implica perciò la consapevolezza che essa risulterà opposta a quella dominante da un paio di decenni, che riduce l'impresa ad una semplice sommatoria di contratti individuali governati dalla proprietà, il cui unico scopo sarebbe quello di produrre profitto.
Il grande merito del Riformismo del Novecento è stato di dimostrare che l'alternativa “il Capitalismo o si gestisce così come è o si abbatte” era infondata. Il Capitalismo si può riformare. E se il motore della riforma nel Novecento fu la Sinistra politica e sindacale, personaggi liberaldemocratici quali Keynes e Beveridge dettero un contributo di idee determinante. E non è detto che un tale incontro non possa ripetersi nella risposta ai problemi di oggi.
EScalfari Perché vogliono un Papa subito
Il commento di un laico con il senso del religioso. Da la Repubblica del 10 aprile 2005
IL GIORNO dopo la vita continua e ci mancherebbe che non continuasse. In San Pietro si celebra la seconda messa dei Novendiali in suffragio del Papa morto. Il Comune di Roma informa che in due ore sono state sgomberate 250 tonnellate di rifiuti (e sarebbe una bellezza se miracoli del genere accadessero tutti i giorni). Non ci sono stati per tutta la giornata e la notte dei funerali né furti né atti di violenza. Il presidente dello Stato di Israele ha dato la mano all´iraniano Khatami e al siriano Assad, ma nessun fotografo è riuscito purtroppo a immortalare l´avvenimento.
La vita continua. Appena tornati in patria sia Khatami sia il ministro degli Esteri di Israele hanno vigorosamente smentito che la supposta stretta di mano sia mai avvenuta e comunque – precisano a Gerusalemme – l´Iran degli ayatollah resta il nemico numero uno dello Stato ebraico. Bush, attraverso il suo portavoce, ha censurato Clinton per aver rilasciato a Roma un´intervista sul Papa defunto. Carter dal canto suo attacca Bush per non averlo incluso nella delegazione americana ai funerali.
La vita continua. Berlusconi spedisce a Fini una lettera redatta da Gianni Letta e da Matteoli (ministro di An), rivista preventivamente dallo stesso Fini e letta al telefono anche a Bossi per averne l´approvazione.
Tutti contenti: il presidente del Consiglio promette ai riottosi alleati tutto quanto essi domandano e considera perfino l´ipotesi di una meditazione sulla devolution. Seguiranno gli atti alle parole? Riprende la telenovela della verifica permanente? Quello che sembra purtroppo certo è che il Paese continuerà ad essere sgovernato.
La vita continua. Le televisioni mandano in onda le immagini del matrimonio tra Carlo d´Inghilterra e Camilla.
Dopo i paramenti rossi dei cardinali sono di scena i deliziosi cappellini multicolori delle dame invitate alla cerimonia reale.
Nel frattempo in Vaticano si moltiplicano i contatti tra i porporati in vista dell´imminente Conclave. Sembra che il cardinal Tettamanzi perda terreno come pure il brasiliano Hummes e l´arcivescovo di Vienna.
Guadagna invece qualche posizione Ratzinger, settantottenne con molti acciacchi e principe di dottrina della fede. Il "totopapa" dilaga.
Alcuni giornali interpellano e stampano i responsi dei propri redattori sul nome del successore di Wojtyla. Il Foglio scrive che la risposta alla sconfitta della destra nelle elezioni regionali è data dai tre milioni di pellegrini accorsi a Roma per rendere omaggio a Wojtyla; l´articolo è ironico ma il nesso resta incomprensibile.
La vita, per grazia di Dio, continua.
* * *
La settimana che si è chiusa ieri è stata densa di emozioni e di premonizioni.
Quella che si apre domani non lo sarà di meno perché l´orbe cattolica aspetta il Papa nuovo.
Il funerale di Giovanni Paolo II ci ha dato uno spettacolo liturgico irripetibile, una dimostrazione di forza spirituale e temporale senza eguali, il senso plastico di un´autorità con duemila anni di storia alle spalle che ora è arrivata all´incontro-scontro con la modernità.
Appuntamento suggestivo, di dimensioni planetarie, dominato dal messaggio evangelico del "Dio c´è" e del "Christus regnat" in contrasto con il contromessaggio latente del "Dio è morto" e dell´assunzione della coscienza individuale di guidare le proprie azioni e dare un senso alla vita e alla morte prescindendo dalle verità rivelate delle religioni.
Al di là della forza liturgica che ribadisce la continuità della tradizione e del cambiamento, al di là della premonitrice tempesta di vento che ha sconvolto e ravvivato i mantelli purpurei dei cardinali e le pagine del Vangelo deposte sul feretro del Papa morto, il tocco conclusivo di quella giornata è stato il coro di centomila voci in gran parte giovani che hanno scandito per tredici minuti «Santo subito», rimbalzando su un miliardo di persone incollate ai teleschermi in tutte le parti del mondo.
«Santo subito». La richiesta cozzerà contro le norme canoniche che richiedono, per beatificare e santificare un Papa, procedure ancora più complesse e lente di quanto previsto per una semplice persona in odore di santità. Ma non è questo il punto.
Karol Wojtyla sarà proclamato beato e santo molto rapidamente rispetto ai tempi finora in uso nella Chiesa.
Il punto è quello di capire perché sia stata scandita e gridata quella richiesta da un coro immenso propagatosi dovunque e dovunque condiviso. A quale bisogno urgente e profondo quella richiesta corrisponda. Quale vuoto essa debba colmare. Perché una cosa è certa: l´invocazione del «Santo subito» denuncia un vuoto immenso che Giovanni Paolo II ha cercato di colmare con la sua predicazione itinerante e che si è immediatamente riaperto nel momento della sua morte, vissuta dalla moltitudine come un abbandono.
«Santo subito» per colmare quel vuoto, per superare quell´abbandono, per indirizzare verso di lui il flusso delle preghiere. Ma non c´è Dio cui i fedeli possano rivolgersi? Non c´è Cristo, suo figlio "che vive e regna nei secoli dei secoli"? Non c´è la madre di Gesù, assunta immacolata in cielo, possente intermediaria tra mondo e paradiso? Perché dunque una richiesta così martellante, così imperativa, così disperatamente gridata verso i porporati allineati in perfette composizioni geometriche sul sagrato della Basilica e verso un cielo gravido di pioggia e di vento? Ho letto l´articolo pubblicato ieri di Pietro Scoppola, che conosco come cattolico d´intensa fede e dottrina. Ne riporto un passo che mi ha molto colpito.
"Dopo l´ossessione mediatica dei giorni della malattia e poi di fronte alla solenne celebrazione in piazza San Pietro e alla città invasa dai pellegrini di ogni parte del mondo, sentivo un inconfessabile desiderio alternativo e ho tentato di realizzarlo. Sono andato a messa nella mia parrocchia; in una chiesa quasi deserta un giovane prete ha letto il Vangelo di Giovanni nel quale si narra il famoso episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
«La gente diceva: questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo. Ma Gesù, capendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo». Mi pare che quel «tutto solo» sia lo spazio della coscienza, del rapporto interiore con il mistero di Dio; mi pare quello sia l´antidoto alla tentazione di trasformare una manifestazione di fede spontanea, bella e vissuta, in un segno di potenza".
Questo è, se andiamo al nocciolo della questione, il bivio di fronte al quale si trova ora la Chiesa dopo Wojtyla: come porsi di fronte alla modernità del mondo di oggi. Come riempire il vuoto di tante anime colpite da un sentimento di abbandono del quale la morte di Giovanni Paolo è soltanto l´ultimo segnale, ma che è nato molto prima di lui.
La risposta dei laici è nota e non starò qui a ripeterla ancora una volta.
Ma la risposta degli uomini e delle donne di fede qual è? Morto un Papa se ne fa un altro. Dopo un santo se ne fa un altro ancora e da questo punto di vista Giovanni Paolo ha creato santi e beati in tale quantità da aver intasato i recessi del Paradiso. Ma qui, nel caso che direttamente lo riguarda, la questione è diversa. Giovanni Paolo si è identificato con Cristo al punto di averne rivissuto il calvario in tutte le sue stazioni. Nell´omelia funebre pronunciata in presenza della sua bara ancora insepolta il cardinale Ratzinger ha portato questa identificazione fino al punto estremo, configurandolo affacciato alla finestra che dal paradiso si apre sul mondo, insieme alla Madonna cui la Chiesa lo affida. A pochi metri di distanza dal sagrato della basilica il gruppo michelangiolesco della Pietà raffigura nel marmo la madre di Gesù che stringe tra le braccia il corpo straziato del Figlio senza vita.
In realtà il popolo di Dio sente il vuoto della coscienza e invoca, per riempirlo, il ritorno d´un Cristo incarnato.
«Subito». Questa in realtà è la sfida che la Chiesa del dopo Wojtyla ha dinanzi a sé. Per la salute delle anime c´è da augurarsi che non cada in tentazione e segua piuttosto l´esempio del Gesù del Vangelo di Giovanni che di fronte alla folla osannante si ritira sulla montagna tutto solo a pregare il Padre.
Non si cura il vuoto delle coscienze creando altri idoli, ma svegliando nelle persone il senso della responsabilità di fronte alla vita, che la morte restituisce come cenere alla cenere.
Caro Direttore,
la questione, posta da un intervento di Franco Cardini sul vostro giornale, della trasversalità di alcuni intellettuali italiani, che non si capisce se sian di destra, di sinistra o di nulla, ha varie cause fra loro intrecciate.
In Italia esistono due nodi prepolitici, che attengono all’essenza stessa delle liberaldemocrazie, che riguardano, o dovrebbero riguardare tutti i cittadini in quanto tali e quindi di qualunque ispirazione politica.
La liberaldemocrazia, com’è noto, rinuncia, a differenza della democrazia socialista, all’uguaglianza sociale, anzi la aborre, ma è ferma, come un macigno, su quella formale, cioè sull’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che del resto è la premessa di ogni Stato di diritto. Il governo Berlusconi ha varato numerose leggi «ad personam», per salvare il premier e i suoi amici da quelli che, eufemisticamente, vengono chiamati i loro «guai giudiziari», instaurando così un doppio diritto, uno per lorsignori l’altro per i poveracci, com’era in epoca feudale. Già solo per questo si può dire che noi non viviamo più in una democrazia.
La seconda questione riguarda l’assetto dell’informazione televisiva. In un’epoca in cui tutti si dichiarano liberali e liberisti, fanno visite genuflesse alla City londinese a Wall Street, inneggiando al libero mercato anche in settori in cui gli si dovrebbe tagliare un po’ le unghie, il libero mercato manca proprio nel ganglio più delicato e decisivo per una moderna democrazia: quello televisivo. Da anni esisteva un oligopolio che, nel corno pubblico, era occupato, del tutto arbitrariamente, da partiti, e che dalle elezioni del 2001 è diventato un monopolio sotto il diretto controllo del premier.
Una mostruosità che esiste solo nelle dittature e che dovrebbe far rizzare i capelli in testa innanzitutto ad ogni animuccia liberale e liberista. E invece abbiamo visto liberali patentati, come Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ostellino, non fare un plissé.
Ma anche l'establishment di sinistra è stato debole, debolissimo, sia sulla questione della concentrazione televisiva sia su quella delle leggi «ad personam». Ad opporsi sono stati piuttosto i cosiddetti «girotondi». In piazza San Giovanni, contro la Cirami eravamo a un milione di persone che non appartenevano certo tutte al «popolo della sinistra». Si trattava di cittadini, di varie ideologie o di nessuna, che ritenevano umiliante ed inaccettabile essere considerati dei paria invece che dei pari. Eppure ho sentito più volte autorevoli esponenti della sinistra parlare con disprezzo dei «girotondini» («Non mi avrà mica preso per un girotondino?»). A costoro, come alle destre, va ricordato che si può, ovviamente, non essere d’accordo con i «girotondi», ma che «il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi» per manifestare le proprie opinioni (art. 17 Cost.) è un diritto politico primario del cittadino, più importante ancora del voto, perché vi agisce direttamente, in prima persona, mentre col voto indirettamente, attraverso rappresentanti che, spesso, per non dir quasi mai, lo rappresentano.
E qui ci avviciniamo alle altre cause di quella che viene definita «trasversalità» e che io chiamo piuttosto «distanza» sia dalla destra che dalla sinistra. Nella «democrazia reale», che sta a quella ideale come il socialismo reale sta a quello ideale, le leadership dei partiti politici si sono venute configurando come delle minoranze organizzate, delle oligarchie, che schiacciano e opprimono proprio quel cittadino singolo, libero, che non accetta umilianti assoggettamenti feudali di cui il pensiero liberale voleva valorizzare, capacità, meriti, potenzialità e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Le oligarchie politiche democratiche sono delle aristocrazie senza qualità (l’unica loro qualità è quella, tautologicamente, di fare politica) e senza nemmeno gli obblighi delle aristocrazie. Divenuto il grosso dell’elettorato un indifferenziato ceto medio, quella politica è l’unica classe rimasta su piazza e il suo interesse primario, e quasi unico, è autotutelarsi, con i privilegi connessi (si pensi ai vergognosi salvataggi in Parlamento di Previti e Dell’Utri).
Infine destra e sinistra, liberalismo e marxismo, con le varie declinazioni, sono categorie vecchie ormai di due secoli e non più in grado di comprendere, nè tantomeno di gestire, la realtà e le mutate esigenze degli individui. non che siano del tutto obsolete. Io faccio l’esempio del treno. Noi siamo su un treno che va a 800 all’ora e che è costretto, per esigenze interne al suo meccanismo, ad aumentare costantemente la velocità. Su questo treno c’è chi è seduto su comode poltrone (ma anche costui è sballottato e frastornato dalla velocità del treno), chi in seconda classe, chi sugli strapuntini, chi sta nei corridoi, chi nei cessi, chi mezzo fuori dai finestrini mentre molti rotolano giù nella scarpata. Per cui una migliore e più equa sistemazione dei viaggiatori ha ancora un senso. Ma la domanda di fondo è diventata un’altra: dove sta andando il treno? Dove ci sta portando la missilistica locomotiva chiamata Modernità, con le sue stritolanti esigenze produttiviste, economiciste, globalizzanti? Destra e sinistra, figlie entrambi della Rivoluzione industriale, non sono in grado di mettere in discussione la Modernità perché in essa sono nate e in essa si sono affermate e quindi per loro significherebbe tagliare le proprie radici. Io sto invece proprio all’interno di quella domanda, oltre la destra e la sinistra. E non credo di essere il solo se devo dar retta al successo «trasversale» dei miei libri e al pubblico, trasversale, che è venuto a vedere a teatro il mio Cyrano, se vi pare..., che questi temi tratta.
Poiché, in Italia, pressocché tutti i giornali sono schierati, a destra o a sinistra, sono costretto ad essere «trasversale», accettando di scrivere per chiunque mi dia ospitalità. Come, in questo caso l’Unità. Cosa di cui ti sono grato.
Drammatizzare. Bisogna drammatizzare la posta in gioco, il conflitto, il risultato che si vuole ottenere, se si ha a cuore la qualità della democrazia italiana: bocciare col referendum la riscrittura della Costituzione che il centrodestra sta facendo in parlamento. E che porterà a compimento, perché sua è la maggioranza, suo il calendario, sua la scelta di quando approvare in senato il testo emendato alla camera - prima delle regionali, se la Lega ne ha bisogno - e di quando fissare il referendum - magari non prima ma dopo le politiche del 2006.
In parlamento, l'opposizione è impotente: «in commissione noi contestiamo ogni articolo, loro tacciono e votano», questa è la situazione descritta dal capogruppo ds Gavino Angius. Seminario fra costituzionalisti e politici organizzato dal Centro studi per la riforma dello Stato: due ore di discussione intensa e senza rete. Alla drammatizzazione invita già il presidente del Crs, Mario Tronti. Tutti gli altri, giuristi e senatori, accettano l'invito senza riserve. Unanime è infatti il giudizio sul progetto di revisione della Cdl: un' aggressione alla storia e alla pace costituzionale, secondo Andrea Manzella; un mutamento di regime in cui ne va della democrazia, secondo Luigi Ferrajoli; una svolta in senso non democratico e non liberale, secondo Umberto Allegretti. Meno unanime, si capirà via via, è l'idea di come argomentare la battaglia referendaria: perché se gli argomenti contrari alla riforma sono comuni, sul che fare della Costituzione del `48, se difenderla e basta o proporne una revisione diversa da quella del centrodestra, e quale, a sinistra ci si divide come ormai da una quindicina d'anni in qua.
Perché la riforma sia da respingere in toto si sa, e comunque Manzella ne illustra uno per uno tutti i punti che, presi insieme, fanno saltare ogni garanzia costituzionale: un bipolarismo «feroce», un parlamento derubricato a mera funzione consultiva del governo come nel Medioevo, un premier che assomma tutti i poteri («quelli del presidente americano e quelli del cancelliere tedesco», sintetizza Leopoldo Elia), un presidente della Repubblica e una corte costituzionale alterati, la magistratura privata della sua autonomia. Massimo Luciani sottolinea: con questa riforma il potere di revisione passa anch'esso nelle mani della maggioranza; il procedimento legislativo diventa impraticabile; i diritti fondamentali, regionalizzati, diventano ineguali. Vere e proprie frane dell'equilibrio sociale, oltre che istituzionale, che non dovrebbe essere difficile «comunicare» all'opinione pubblica nella battaglia referendaria. Purché ci si arrivi, dice Elia, «con meno ingegneria costituzionale e più costituzionalismo».
Il che vuol dire con una sana autocritica, domanda senza mezzi termini Ferrajoli, di come il problema della Costituzione è stato affrontato nell'ultimo quindicennio anche nella parte maggioritaria del centrosinistra. Che non solo ha via via partorito progetti di revisione simili anch'essi improntati alla governabilità e alla personalizzazione della leadership. Ma più in profondità, argomenta Mario Dogliani, ha subordinato la revisione dell'ordinamento alla risoluzione del problema della forma della coalizione, dei rapporti fra i partiti al suo interno, della costruzione della leadership: cruciale e imperdonabile confusione fra il piano istituzionale e il piano politico. Confusione analoga a quella che, secondo Pierluigi Petrini della Margherita, ha fatto sì che nei primi anni `90 si attribuisse alla revisione costituzionale il potere di risolvere il terremoto politico della transizione. Senza peraltro arrivare neanche ad arginare con adeguati correttivi istituzionali il mutamento innescato da quel terremoto. Sicché il maggioritario ha fatto fuori molti dei vecchi dispositivi di garanzia senza che ne venissero inventati di nuovi. E il parlamento, tanto per parlare dell'istituzione che più uscirebbe compromessa dalla riforma della Cdl, già adesso e non da adesso, sottolinea Massimo Villone, si trova a essere esautorato di molti suoi poteri.
Che fare dunque, oltre che bloccare la riforma della Cdl? Attestarsi sulla difesa della Costituzione del '48 è secondo i più l'unica strada percorribile(«resistenza costituzionale», la chiama Domenico Gallo). Non così però secondo Gavino Angius. Che pure è convinto che «la posta in gioco storica e politica di fondo» della riforma costituzionale sia stata sottovalutata a sinistra; ma sostiene - e come lui Antonio Cantaro - che una pura posizione di resistenza sarebbe perdente, e significherebbe «dire che per vent'anni abbiamo preso solo un grosso abbaglio» con le ipotesi di riforma via via avanzate. Il fatto è che la direzione di una riforma alternativa a quella della Cdl è tutt'altro che chiara e condivisa. Sostiene Angius che un punto di mediazione, nel centrosinistra, è stato ormai raggiunto e si chiama bozza Amato. La stessa di cui Ferrajoli aveva chiesto, «per carità di patria, di non parlarne più».
La relazione di apertura di Mario Dogliani
A vederla così smagrita, addosso un abituccio verde che nessuno le conosce, pallida e certo spaventata, il cuore ci si stringe, in redazione molti non trattengono le lacrime. Ma il video firmato da un'improbabile sigla - mujaheddin senza frontiere (quasi un'ironia verso le tante organizzazioni occidentali che si nominano così ) - è stato recapitato all'hotel Palestine a Baghdad: è un segnale che Giuliana è viva. Dopo due settimane di silenzio e incertezza totale è già qualche cosa. Di più di quanto non abbia fino ad ora ottenuto Libération per Florence Aubenas, sparita da quaranta giorni con il suo interprete Hussein Hanoun, senza che mai nessuno si sia fatto vivo. Ci chiedono se in questa immagine così drammatica la ritroviamo. Direi senz'altro di sì: le prime parole che pronuncia sono proprio sue, quelle che ha sempre detto: «Sono venuta qui per testimoniare di questo popolo che muore ogni giorno». E poi parla dei bambini, dei vecchi, delle donne violate, delle cluster bombs. Sono le stesse parole che ha scritto fino a quando non è stata rapita, ogni giorno dando voce a chi in Iraq non ce l'ha. Per far capire che a non voler l'occupazione è il popolo, tutto il popolo iracheno, quelli che hanno deciso di esprimersi con le armi, quelli che hanno scelto di dirlo con il voto, quelli che hanno perduto tutto e restano a piangere i loro morti nelle tende dove, a migliaia, sono stati collocati i rifugiati. Gli ultimi che Giuliana ha visto, prima di esser portata via nei pressi della moschea dove stanno ammassati quelli di Falluja. Ripete che la presenza straniera porta sofferenze e violenza, che occorre porre fine all'occupazione se si vuole porre fine alla violenza.
Nonostante il timbro turbato della sua voce, che a momenti rompe in un singhiozzo, è proprio la nostra Giuliana.
L'angoscia più forte ce la dànno le ultime frasi, quando si appella direttamente al suo compagno, Pier. Non perché non sia naturale - chi non lo farebbe in quelle condizioni? - ma perché in questa particolare richiesta di aiuto al suo uomo emerge con maggior evidenza la sua personale, umanissima condizione di donna prigioniera, sul collo il fiato pesante della condanna a pagare per le colpe di chi pure lei stessa ha sempre combattuto.
Le ultime frasi di Giuliana si rivolgono a chi è impegnato a preparare la manifestazione, per liberare lei e con lei la pace: quelli- dice - «con cui ho sempre lottato». Sembra quasi che Giuliana sappia di sabato 19. Da questo tristissimo video è lei stessa che ci invita tutti a raddoppiare gli sforzi per porre fine alle sofferenze del popolo iracheno e alle sue, per liberare ambedue.
Noi non possiamo decidere di ritirare le truppe italiane dall'Iraq, i rapitori di Giuliana lo sanno benissimo. Possiamo però dimostrare, con l'ampiezza della protesta, che la grande maggioranza del popolo italiano vuole porre fine all'occupazione.
L'Europa dei governi è divisa, o reticente. Ma l'Europa dei popoli - lo hanno dimostrato i sondaggi - è tutta, persino all'est dove i governi sono i meno autonomi dal ricatto americano - unita nel dire no alla guerra. Se non tutti i governi hanno recepito questa richiesta; se non hanno espresso quel che vuole la maggioranza dei loro cittadini; se solo una minoranza in alcuni parlamenti - ma in quello italiano una minoranza assai larga e per la prima volta unita - si è fatta interprete della propria opinione pubblica, vuol dire solo che c'è qualcosa che non funziona nella nostra democrazia.
Chi ha insistito per tanto tempo e con tanta petulanza sulla necessità che la sinistra si dia un progetto di governo ambizioso e concreto non può non esprimere soddisfazione di fronte all´accoglienza che la proposta di una Conferenza programmatica disegnata sul modello della "Convenzione" per la Costituzione europea sta avendo nel partito dei Democratici di sinistra.
Mi pare chiaro ormai il senso della proposta: non un dizionario esaustivo dell´universo mondo ma un´intesa chiara e salda raggiunta prima nel partito e poi presentata all´Alleanza come impegno solenne su poche grandi riforme da proporre al Paese: prodotto non solo di un gruppo di esperti, ma di una vasta interrogazione delle istanze economiche, sociali e culturali che gravitano nel mondo della sinistra.
Poche, perché attorno a queste occorre concentrare la più ampia possibile volontà politica. E anche per una ovvia esigenza realistica. Una legislatura che necessariamente dovrà affrontare il flusso degli eventi imprevedibili, oltre che il disbrigo dell´amministrazione ordinaria, non ha - specie tenendo conto delle nostre procedure decisionali - spazi per grandi iniziative di riforma, oltre quelle che si possono contare sulle dita di una mano: diciamo, al massimo, una all´anno.
Il partito laburista, quello che trionfò alla fine della guerra, con la rivoluzione del welfare state (prima che Tony Blair nascesse), ne varò non più di tre o quattro, fondamentali.
Ciò che conta, oltre a concentrare il fuoco su obiettivi davvero strategici, è una procedura mobilitante e rigorosa. La scelta dei temi fondamentali, anzitutto, che deve essere definita in sede politica: il prossimo congresso Ds può trovare in questa, oltre che nella reinvestitura del suo segretario, ormai felicemente scontata, un significato davvero storico. Inoltre: la proposta, a tutta la coalizione, della procedura "convenzionale": soggetti da coinvolgere, interrogazione sulla stampa e in rete sulle principali scelte, sondaggi da svolgere, tempi da osservare, regole per la elaborazione del messaggio finale da sottoporre alla decisione dell´Alleanza. Il rigore, soprattutto per la delimitazione dei temi, è decisivo per evitare che il topolino partorisca una montagna di chiacchiere.
Quali temi? Dovrebbe intendersi che il congresso dei Ds li formulerà come proposte per l´Alleanza, e che la decisione finale spetterà alle direzioni dei partiti che ne fanno parte, e soprattutto a Romano Prodi, leader dell´Alleanza stessa. Ciascuno può avere in proposito le sue preferenze. Per parte mia, le riassumerei in cinque punti:
1) ridestare la crescita di un Paese economicamente prostrato da una maggioranza incompetente e inconcludente ottenendo, non una revisione "magliara" del patto di stabilità, ma una sua integrazione con un vero patto di sviluppo secondo le linee del piano Delors, che rilanci l´Europa e l´Italia sulla via della crescita, risuscitando la politica della domanda; e attraverso un patto tra governo, imprese e sindacati su concorrenza e innovazione, che elabori una vera politica dell´offerta;
2) puntare alla piena e buona occupazione attraverso la creazione, anch´essa concordata con imprese e sindacati, di una rete permanente di informazione, formazione, qualificazione, riqualificazione e collocamento di lavoratori ai quali sia garantita la continuità della protezione sociale;
3) trasformare la scuola, dal livello primario dell´obbligo all´Università, in un sistema centrale della società: inteso non come distribuzione di titoli e avviamento professionale, ma, soprattutto, come palestra permanente per la diffusione e l´avanzamento della cultura;
4) far convergere il risanamento e la tutela ambientale con la valorizzazione del patrimonio storico e artistico in un piano di sviluppo del territorio: il più straordinariamente ricco del mondo;
5) orientare lo sviluppo non esclusivamente alla monomaniaca e fuorviante crescita del Pil, ma alla realizzazione di un sistema di obiettivi economici e sociali rappresentati da indicatori specifici; e riorganizzare la spesa pubblica non sulla base primitiva "del più e del meno", ma su quella razionale della programmazione.
C´è una seconda questione altrettanto rilevante e complementare del riorientamento programmatico: ed è l´approfondimento culturale da cui l´azione progettuale deve attingere la sua forza. Tra i ricordi del primo centrosinistra, il più vivo è la ricca vena di elaborazione culturale che ne animò la gestazione. C´erano i convegni di San Pellegrino delle forze progressiste cattoliche, animati da Pasquale Saraceno. C´erano, nel campo comunista, quelli dell´Istituto Gramsci. C´era la ricerca sulla programmazione, nata dal fresco contributo della sinistra socialista di Lombardi e di Giolitti e innescata sulla riflessione culturale di Fuà, di Sylos Labini, di tanti altri; c´erano, non certo ultimi, i convegni del Mondo della sinistra liberale. Spero di non indulgere alle tentazioni della laudatio temporis acti se constato che, al confronto, questo nuovo centrosinistra è in difetto di respiro. Non certo perché manchino intelligenze, ragioni, passioni. Ma forse perché sono impegnate più nel consumo che nell´investimento politico; distratte dalla quotidianità, dalla pobre semilla di una politica che si sbriciola, giorno per giorno, in glosse e risse sterili. E forse anche perché mancano istituzioni culturali giovani, popolari, aperte, attorno alle quali animare un dibattito politico alto, degno delle grandi tradizioni della sinistra di questo Paese.
Ricordate la Freien Universität di Berlino? Nata nel 1948 sull´onda di una secessione contestativa promossa da tre studenti di sinistra, sostenuta dalla amministrazione socialdemocratica della città, fu una sferzata di giovinezza per l´Università accademica e diventò una fucina di ricerca oltre che un´occasione per innovazioni architettoniche, organizzative, funzionali di alto livello e per la tessitura di una vasta rete di collegamento con l´Europa della cultura. Esiste e opera ancora oggi, sebbene sensibilmente "istituzionalizzata".
Intendiamoci: fondazioni e associazioni culturali esistono oggi anche da noi: nel mondo della sinistra ce ne sono tante. Ma quante hanno il respiro di una grande impresa culturale aperta, popolare, capace di fungere da terreno di scambio di idee e laboratorio di progetti, anziché da occasione per la pubblicazione di riviste, certo prestigiose, ma limitate alla raccolta di saggi all´interno di cerchie intellettuali ristrette? Una rigenerazione della sinistra accanto a un´iniziativa politica programmatica, avrebbe grande bisogno di un approfondimento culturale che la nutrisse continuamente. Perché non pensare a una "Libera Università Popolare" che realizzi un modello educativo innovativo, capace di fermentare i nuovi germi per una grande istituzione altrimenti morente?
Vedo subito insorgere il pedante di turno, che ci ammonisce sul rischio dell´illuminismo politico. Beh, francamente, se ci fosse in giro un gruppetto di redivivi Diderot, d´Alambert, Voltaire e Rousseau, io li scambierei volentieri contro i glossatori della terza via. Non propongo la nuova Encyclopedie: ma solo uno spazio aperto di dibattito permanente, di insegnamento accademicamente disinibito e di vasta sperimentazione culturale. Questa sì, mi parrebbe un´impresa utile e alla portata: un atto di investimento e non di consumismo politico.
Illuminismo? Magari! L´Illuminismo è stato il terreno culturale dal quale è nata l´unica rivoluzione politica vittoriosa della modernità.
Titolo originale: New Islam in an old English town – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
LEICESTER – Mentre l’Europa annaspa alla ricerca di risposte alle sempre più numerose questioni riguardo alla propria ampia e crescente comunità di immigrati, molti dei quali musulmani, uno dei posti da guardare potrebbe essere questa cittadina un po’ scalcagnata nel bel mezzo dell’Inghilterra.
Leicester, circondata da dolci colline, era da sempre una piccola e prosperosa città manifatturiera, con radici nelle tradizioni della campagna inglese. I contadini ci portavano mucche e pecore da vendere sul selciato nel cuore della città medievale, dove gli edifici di mattoni rossi di epoca vittoriana richiamano un’epoca meno complicata.
Ma ora l’immagine è cambiata. Leicester oggi è una città multiculturale di 300.000 abitanti dove i discendenti degli operai tessili e dei contadini dividono le strade con indù, sikh, e sempre di più con musulmani dal subcontinente indiano, dall’Africa orientale e dai Balcani.
Negli ultimi trent’anni gli immigrati si sono riversati su Leicester: e sono stati i benvenuti, grazie alle politiche progressiste degli amministratori locali, che hanno convinto gli abitanti dei valori di un futuro multiculturale. I nuovi arrivati hanno iniziato una nuova e pacifica esistenza, trasformando Leicester in un modello, che dimostra al resto dell’Europa come funziona una mixed city.
Ma ora Leicester subisce la sfida di nuove preoccupanti dinamiche, come ammettono gli amministratori, una delle quali è la crescente identità musulmana. Il successo della città in termini di multiculturalismo sembra contraddetto dalle tensioni etniche fra musulmani e indù, con la nuova immigrazione musulmana da paesi come Somalia e Bosnia, e un risentimento contro gli immigrati che cova fra i bianchi poveri. Questo ultimo aspetto assume significati oscuri nella mutata atmosfera della Gran Bretagna dopo le bombe dei terroristi islamisti a Londra in luglio.
Nel frattempo l’amministrazione locale prevede che Leicester – la cui popolazione bianca rappresenta ora il 65% - potrebbe diventare la prima città britannica con una maggioranza non-bianca all’inizio del prossimo decennio.
Questo farebbe di Leicester un campo di battaglia ancora più importante nei tentativi dell’Europa di abbozzare un progetto di multiculturalismo, con uno spazio per l’Islam nella società occidentale.
”Quello che appare in superficie è piuttosto fragile” avverte Manzoor Moghal, importante leader musulmano a Leicester e self-made-man di successo arrivato dall’Uganda negli anni ‘70. “Ci sono diverse correnti sommerse che minacciano di frammentare”.
Moghal, presidente del Muslim Forum, un gruppo-ombrello che si occupa di problemi dei musulmani nel Leicestershire, è uno dei molti preoccupati che la tradizione di Leicester di coesistenza pacifica venga minacciata dalla velocità delle trasformazioni.
Trasformazioni razziali avvenute a ritmi mozzafiato. La cittadina di trent’anni fa, dove nonni e nipotini sedevano insieme a guardare il mercato delle mucche e delle pecore, è diventata una città dove uffici e negozi si svuotano al tramonto in ottobre per il Ramadan, mentre i quartieri indiani si preparano al Diwali, la festa invernale indù della luce.
A Leicester oggi, nei quartieri settentrionali come Melton Road c’è una profusione di templi indù, centri musulmani, macellai halal, ristoranti indiani e pakistani, e poi gioiellerie, banche, negozi di abbigliamento. Nel mercato coperto ortofrutticolo, vecchio di 700 anni, una mescolanza multirazziale di clienti fruga tra mucchi di funghi e papaye, banconi disordinati di cinture, biancheria e aggeggi cinesi. Il mercato del bestiame è sparito anni fa, e questo adesso è un supermercato.
La resistenza locale a questa trasformazione ha raggiunto il massimo negli anni ’70 e ‘80, quando i nazionalisti marciavano per la città. Ma l’amministrazione locale di sinistra di Leicester, affermando che il futuro era multiculturale, rispose con una politica progressista di successo, che è ancora ben sintonizzata sulle sensibilità culturali dei nuovi arrivati.
”Non parliamo di cosa devono fare gli immigrati per adattarsi a noi” dice Trish Roberts-Thomson, responsabile per le politiche al consiglio comunale. “Leicester ha un approccio molto softly-softly “.
L’amministrazione coinvolge i leaders etnici in una molteplicità di comitati e gruppi interrreligiosi. Questa integrazione cittadina si è unita a quella economica, e Leicester ha un’ampia forza lavoro per le fabbriche tessili e calzaturiere, gli ospedali e altre aree del settore pubblico. Si è presto prodotta una prospera middle class etnica di imprenditori, che hanno cominciato a spostarsi verso i verdeggianti sobborghi esterni.
”Alcuni hanno accumulato parecchia ricchezza, e comprato alberghi o altre proprietà” dice Jiva Odedra, direttore della Asian Business Association di Leicester.
Il risultato della integrazione civica ed economica è che a Leicester sono assenti le manifestazioni estreme del suo più grosso vicino nelle Midlands, Birmingham, dove gli scontri fra le bande asiatiche e afro-caraibiche di questo mese hanno provocato due morti, lasciando amministratori ed esponenti delle comunità a chiedersi il perché.
Quando sono scoppiati gli scontri razziali nella fascia dei centri inglesi del nord – Bradford, Oldham e Burnley – nell’estate del 2001, Leicester è rimasta tranquilla.
”Leicester funziona” racconta Robert Colls, professore di storia inglese alla Leicester University. “Ci sono persone di molte etnie che sono venute a vivere qui nel giro di meno di una generazione, e non ci sono e non ci sono mai stati disordini in città, nonostante i tentativi già dagli anni ’70 per fomentarli”.
Sono gli indù a dominare tradizionalmente le politiche etniche della città, ma la popolazione musulmana è cresciuta negli anni recenti sia per l’alta natalità che per l’immigrazione; ciascuno dei due gruppi ora conta per un 15% della popolazione di Leicester.
I musulmani “stanno differenziandosi” dice Paul Winstone, consigliere municipale arrivato a Leicester negli anni ‘60, che si è impegnato contro le prime reazioni razziste, importante testimone e guida nella trasformazione multiculturale della città.
I musulmani rivendicano una maggior quantità di fronti, come le scuole su base religiosa o la libertà di indossare i propri abiti sul lavoro, o di avere cibo halal negli ospedali cittadini, e insieme poteri politici più ampi all’interno del consiglio. Winstone sostiene che queste trasformazioni conducono alla “sensazione che gli indù potrebbero abbandonare la città: e gli indù sono stati il suo motore economico”.
Una ulteriore sfida alla equanimità di Leicester è il rischio di riemergenza dell’opposizione bianca nei confronti degli immigrati.
Nel 2002, sulla scia delle rivolte nei centri settentrionali, l’amministrazione di Leicester aveva commissionato una ricerca, che aveva rilevato inusitati e preoccupanti livelli di ostilità fra i bianchi dei quartieri operai, nei confronti dei propri vicini di diversa etnia. Ciò avveniva principalmente a causa di una percepita eccessiva generosità in termini di risorse pubbliche rivolte ai quartieri asiatici. “La minaccia principale al multiculturalismo viene dalla classe operaia bianca, perché il multiculturalismo suscita un’attenzione maggiore rispetto ai problemi dei ceti operai bianchi” dice Roberts-Thomson.
I leaders asiatici temono che il risentimento possa essere rinfocolato dalla legislazione antiterrorismo proposta dal governo britannico, pensata per schiacciare l’estremismo islamico. Fra le altre azioni, il governo propone di coinvolgere alcuni gruppi islamici, ma alcuni esponenti temono che questo spinga il pubblico britannico a considerarli come stranieri anziché inglesi.
La reputazione di Leicester di città senza conflitti non è certo migliorata quando due abitanti originari dell’Algeria sono stati arrestati e condannati nel 2003 per aver sostenuto finanziariamente Al Qaeda. Un altro è stato estradato in Francia.
Anche oggi, osservatori come Winstone notano alcuni tentativi di estremisti musulmani di città vicine – come Nottingham o Derby – di infiltrarsi nelle moschee di Leicester, “anche se sono stati malmenati e rimandati indietro” racconta.
Colls, della Leicester University, dice che secondo la sua esperienza esiste un forte bisogno dei giovani musulmani di Leicester, per insegnamenti più illuminati e di rigetto della linea dura islamista: una lezione tenuta all’università da un insegnante musulmano su questi temi, ha attirato centinaia di persone, dice.
Uno dei motivi per cui l’esperimento multiculturale di Leicester ha funzionato tanto bene nel passato, dicono gli esperti, è che molti di questi indù e musulmani sono arrivati indirettamente via Africa orientale, da paesi come Uganda o Malawi, dove le loro famiglie si erano stabilite da generazioni. Arrivati a Leicester, erano già imprenditori, urbanizzati, abituati all’amministrazione britannica.
Per contro, città inglesi come Bradford hanno accolto musulmani direttamente dalle zone rurali del Pakistan.
Ma la nuova ondata di arrivi a Leicester – somali, bosniaci, kosovari – rappresenta un nuovo tipo di immigrazione: piccoli gruppi, diversificati, là dove un tempo indù e musulmani arrivavano in massa.
Quello più numeroso al momento è dalla Somalia, paese musulmano. Più di 10.000 somali si sono trasferiti a Leicester negli scorsi due-tre anni, secondo gli amministratori. Molti venivano dall’Olanda dove, lamentano, non si riusciva a trovare lavoro e si rischiava di venir separati a causa delle rigide politiche sulla casa.
Alcuni dei somali sono lavoratori altamente specializzati e si integrano bene nella comunità economica. Ma altri si sono collocati nei quartieri più poveri della città, come le squallide strade dietro la stazione ferroviaria, destinazione abituale dei nuovi arrivati più poveri dove, secondo Winstone, alcuni si sono scontrasti violentemente con originari delle Indie Occidentali.
Secondo Roberts-Thomson, che ha lavorato insieme ai somali, molti sono ancora fortemente colpiti dalla guerra civile nel loro paese, il che rende più difficile l’integrazione.
Nella nuova, febbrile atmosfera, è iniziato un dibattito – anche qui, nella multiclturale Leicester – sul livello di assimilazione che si deve chiedere agli immigrati.
”Quando si vuole vivere in una società, quando si vuole esserne parte, si ha l’obbligo di inserirsi” dice Moghal, che indossa un impeccabile completo da uomo d’affari.
Altri, come Ibrahim Mogra, giovane musulmano e uno dei più seguiti imam di Leicester, hanno una linea più rigida, e credono che ai musulmani debba essere consentito vivere e lavorare nelle città britanniche in modi propri.
”Non voglio vivere in una Gran Bretagna dove la mia cultura è di seconda classe” dice Mogra, che riceve i visitatori della sua piccola casa a schiera in uno dei quartieri a maggioranza asiatica di Leicester indossando turbante, tunica e lunga barba fluente. “Mi sono integrato meglio che potevo. Ho fatto qualunque cosa”.
Mogra, tra i componenti del piccolo gruppo di leaders musulmani chiamati agli incontri col Primo Ministro Tony Blair dopo le bombe di luglio, crede che le imprese dovrebbero consentire l’abbigliamento islamico sul lavoro. Ma le sue opinioni non si limitano ai vestiti: definisce Blair un “tiranno oppressore” per la sua politica in Iraq ed è ugualmente aspro riguardo alla politica occidentale di blocco del programma nucleare iraniano.
Punti di vista tanto contrastanti sull’assimilazione riflettono le attuali domande ed esperimenti sul modello multiculturale nell’Europa occidentale che sta attraversando il continente.
È questione aperta, se l’esperienza degli ultimi trent’anni farà di Leicester un faro per il resto dell’Europa, o se i contraccolpi del conflitto di popoli inevitabilmente porteranno la battaglia anche in questo luogo, un tempo tranquillo.
Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune ; altri testi su questioni simili, se pur forse meno drammatiche, sono stati tempo fa presentati qui su Eddyburg, e sono ora raccolti e ampliati sul numero 30 della rivista Metronomie (f.b.)
Per l’Italia di Ciampi senza se e senza ma
Una panoramica, attorno alla leggetruffa, che “perché rimette in sella gli apparati dei partiti tagliando ogni comunicazione con la società civile”, Da la Repubblica del 9 ottobre 2005
LA DEMOCRAZIA è inclusiva per definizione. Il suo fondamento è quello di includere, non di escludere. Il suo unico «assoluto» (e tutto il resto è relativistica altrimenti non potrebbe includere) è d’impedire che le culture dell’assolutismo distruggano il sistema democratico. Il suo canone. Il suo presidio di libertà.
Vorrei partire da questa definizione per leggere correttamente quanto sta avvenendo in questi giorni nell’Italia politica e nell’Italia sociale, due piani di ascolto e di analisi che consentono di esaminare la nostra società nella sua interezza in una fase particolarmente agitata.
La campagna elettorale ormai in corso vede infatti la mobilitazione di tutti i gruppi di pressione, partiti, sindacati, associazioni economiche, movimenti culturali, istanze religiose, con l’obiettivo di posizionarsi per ottenere i migliori risultati possibili dal voto popolare e dagli effetti che potrà produrre sulla dislocazione del potere, la distribuzione delle risorse, la dinamica dei valori in gioco.
Nei momenti culminanti della vita democratica (il voto è uno di essi) è normale che i gruppi di pressione si mobilitino. Per interpretare i bisogni e le speranze dei cittadini. Per raccoglierne il consenso attorno ai valori e agli interessi dei quali ciascuno di loro è portatore. Per affermare la loro visione del bene comune. Per marcare differenze e negoziare alleanze.
Lo spettacolo d’una democrazia operosa, nella quale valori e interessi si confrontano con energica e onesta chiarezza, può essere esaltante. Oppure può essere avvilente e frustrante quando i messaggi sono trasmessi da lingue biforcute e impastati di menzogna e ipocrisia.
Chi osserva con occhi sgombri dal velo del pregiudizio e con animo partecipe ha dunque come obiettivo di contribuire alla chiarezza decifrando i messaggi delle parti in causa e misurando il loro contributo, positivo o negativo, rispetto all’interesse generale dei cittadini, affinché non trionfino i nemici della democrazia e il voto popolare non sia distorto dalla demagogia, dalla prevalenza del danaro, dal dominio dei mezzi di comunicazione, da tutto ciò che possa insidiare e alterare l’autonoma e consapevole determinazione del popolo, sovrano almeno ogni cinque anni.
In quella preziosa occasione compete al popolo giudicare il consuntivo e valutare le proposte di preventivo. Decidere se i gruppi e le persone che ha delegato a governare in suo nome abbiano operato bene o male. Confermarli o sceglierne altri.
La democrazia non è altro che questo. Ma è molto per chi vuole vivere libero, aspiri alla felicità possibile per sé e per la generazione che seguirà.
* * *
Dovessimo compilare la graduatoria dei personaggi che tengono la scena di questi giorni dovremmo mettere (come sempre del resto) Berlusconi al primo posto, seguito a non molta distanza da Ruini, Casini, Montezemolo. Seguiti a una certa distanza da Rutelli e Bertinotti. Poi D’Alema e Fassino. Poi Prodi.
Poi Pezzotta. Gli altri, a destra al centro e a sinistra, nel gruppone.
Questa graduatoria non riguarda il merito di ciò che dicono e fanno, ma semplicemente la quantità e l’intensità delle loro pubbliche esternazioni e interventi politici.
In ciascuno di loro ci vedi quel tanto di partigianeria che è inevitabile per chiunque parteggi. In alcuni essa è temperata da una visione più o meno organica del bene comune. Purtroppo non è il caso del presidente del Consiglio. La sua incapacità di concepire un sia pur generico disegno del bene comune è patologica, o meglio innata nella sua natura come è innato nello scorpione l’istinto di colpire col suo pungiglione ogni creatura che incontri sul suo cammino.
Berlusconi non sa quale sia il concetto stesso del bene comune. Infatti passa indifferentemente dall’antipolitica al politichese, dal liberismo al dirigismo, dal moderatismo alla radicalità, dall’ossequio verso l’establishment confindustriale alla lotta aperta contro, da Fini a Casini e viceversa. Detesta la magistratura (e questo è un punto fermo per lui). Vuole concentrare nelle sue mani tutto il potere possibile. Promette tutto il promettibile e anche più. Naturalmente non è in grado di mantenere quanto ha promesso anche perché spesso le sue promesse rasentano il favolistico e il miracoloso.
La sua vitalità è prorompente quanto la sua egolatria. Ha ridotto Follini ad un tappetino sul quale ormai si pulisce le scarpe quando rincasa. Adesso ha deciso di far approvare dalla maggioranza la legge elettorale, la riforma costituzionale, la «salva-Previti». E naturalmente la Finanziaria proposta dal fantasista Tremonti.
Dopo due anni di sconquassi interni al centrodestra ha recuperato il dominio del suo campo. Sette vite come i gatti. Fini è diventato afono. Casini si è allineato. Ragazzo spazzola. Bossi aspetta defilato. E il popolo? «Se gratta» avrebbe detto Trilussa. Ma con delusione e rabbia.
Almeno così sembra.
* * *
Giorni fa Casini ricevette a Montecitorio un Follini triste, accorato, sconfitto nel suo stesso partito. Gli disse: «Se rompiamo e andiamo da soli alle elezioni avremo al massimo 18 deputati. Col proporzionale ne avremo una trentina e saremo noi a indicare i nomi. Poi, a elezioni fatte, si farà finalmente politica. Che si vinca o che si perda».
Non so che cosa significhi «far politica» nel lessico del presidente della Camera. Temo che l’etica c’entri assai poco, come da tradizione storica del doroteismo del buon tempo andato. Anche Casini ha i suoi punti fermi. Il beneplacito del cardinale Ruini è uno di essi. La propensione a collocarsi al di sopra delle parti standone dentro fino al collo è un altro. Blandire l’opposizione quando sembra più forte e legnarla quando appare indebolita. A Follini vuol bene sinceramente. Quando il mare s’è messo a buriana l’ha gettato fuoribordo per alleggerire la zavorra. Però gli è dispiaciuto.
* * *
Anche la Confindustria si sta riposizionando. È interessante seguirne i movimenti perché è un pesce pilota e si imparano molte cose. Non muove molti voti ma funge da cartina di tornasole per segnalare gli umori dell’Italia produttiva e benestante. Più benestante che produttiva (ma la responsabilità non è mai la sua né dei suoi soci; è sempre di qualcun altro).
Nel centrosinistra molti pensarono, dall’elezione di Montezemolo in poi, d’aver acquistato un nuovo alleato. Ho scritto in tempi non sospetti che si trattava di un errore: la Confindustria non può identificarsi con una parte politica; quando l’ha fatto (con Alighiero De Michelis, col secondo Costa, con Giorgio Valerio e da ultimo con il D’Amato del convegno di Parma) è stata per lei una catastrofe.
La Confindustria deve difendere gli interessi degli industriali, questo è legittimo e utile. Non dovrebbe tuttavia pensare che quegli interessi coincidano interamente con quelli del paese. Invece purtroppo lo pensa e ci crede veramente. Si appoggia a parecchi luoghi comuni che fanno breccia tra gli ingenui.
Uno di essi, il più usato, è: prima bisogna produrre la ricchezza e poi si può pensare a redistribuirla. Sembra una verità assolutamente ovvia. Per cui ogni programma di ogni governo dovrebbe avere come base quell’elementare verità. Prima produrre poi distribuire. È terribilmente simile alla questione dell’uovo e della gallina. Quale dei due viene prima dell’altro? Produrre e poi distribuire. Se camminiamo in fila in linea retta sai chi sta davanti a te e chi dietro di te, ma se camminiamo in circolo sei davanti e contemporaneamente dietro a ciascuno dei girotondisti.
Per produrre al massimo possibile e con i migliori risultati devi partire da una certa distribuzione delle risorse. Per esempio da un mercato sostenuto da un potere d’acquisto diffuso. Ecco un caso in cui la distribuzione è un prius e la nuova ricchezza prodotta viene dopo. Gran parte della «Teoria generale» di Keynes si basa su questa tesi sia per quanto riguarda la domanda sia l’efficienza marginale degli investimenti e il tasso dell’interesse.
La piena occupazione viene prima o dopo? Il salario è una variabile indipendente o lo è il profitto?
Si tratta, amici della Confindustria, di verità ideologiche e quindi relative e soggettive, non di verità assolute. Le decide il potere, non il mercato il quale può tranquillamente funzionare sia con un salario indipendente sia con un profitto indipendente. Statisticamente il capitalismo ha quasi sempre funzionato in presenza della seconda condizione, ma le sue crisi ricorrenti sono derivate proprio da lì.
Dunque Montezemolo deve mantenersi lontano dai protagonisti politici.
Ma di una cosa la Confindustria dovrebbe invece preoccuparsi moltissimo perché riguarda direttamente gli interessi dei suoi associati oltre che quelli di tutto il paese: dovrebbe opporsi con tutti i mezzi all’avvelenamento dei pozzi da parte degli attori della vicenda politica. Avvelenare i pozzi significa infatti rendere impossibile il funzionamento del sistema democratico.
In realtà questa è stata l’essenza del berlusconismo in questi cinque anni di governo: l’avvelenamento dei pozzi. Nella dilapidazione della pubblica finanza. Nella politica fiscale. Nello smantellamento della fiducia pubblica all’interno e all’estero. Nel conflitto d’interessi d’un capo di governo padrone e con la mentalità del padrone. Nel vilipendio sistematico della magistratura e nello smantellamento dell’ordinamento giudiziario.
Nell’indebolimento delle Autorità di garanzia.
Da ultimo «but not least» la riforma elettorale che costituisce l’avvelenamento dei pozzi definitivo, perché rimette in sella gli apparati dei partiti tagliando ogni comunicazione con la società civile e perché rende il paese tecnicamente ingovernabile più di quanto già non sia stato.
Ho invece sentito nel discorso di Montezemolo a Capri una bocciatura dell’attuale sistema maggioritario. Che cosa vuol dire? Un via libera a una riforma proporzionale? Qui non si tratta di giudicare in astratto, ma di valutare questa legge specifica con liste bloccate, tre soglie di sbarramento, un premio di coalizione che contenga la maggioranza al minimo possibile, la designazione del nuovo capo del governo fatta dai partiti a dispetto dei poteri costituzionali del Quirinale. Poteri di ricatto di partiti e partitini moltiplicati per cento rispetto alla già dolente situazione attuale. Questo è l’avvelenamento dei pozzi: l’ingovernabilità sancita per legge per contenere i danni della sconfitta temuta dal Cavaliere. Questo piace alla Confindustria?
Casini vuole anche lui e lavora per questo risultato che gli darà mano libera coi suoi trenta deputati. Mi dicono che a Capri sia stato applaudito per oltre due minuti.
Male, caro Cordero di Montezemolo. Non per gli applausi a Casini, che è uomo giovane bello e simpatico. Male perché avete capito - temo - molto poco di quanto sta accadendo.
Poi vi lamenterete perché la competitività scende. Ma rassicuratevi, non scenderà più perché siete arrivati in fondo alla classifica mondiale.
* * *
C’è una sola istituzione e una sola persona che adempie ai suoi doveri senza fare mai niente di più e niente di meno di quanto non gli sia assegnato dalla Costituzione e dalle leggi: il presidente della Repubblica. Nel generale marasma, se c’è un uomo e un’istituzione che tengano dritta la barra del timone, li troviamo al Quirinale. Quello è, lo scrivo ancora una volta, il punto di raccolta delle tantissime persone perbene e di buona volontà di questo paese.
Tempo fa fu pubblicata su questa pagina una vignetta del grande Altan che ancora ricordo per la sua incisività.
Diceva, l’omino da lui disegnato: «Ho voglia di vomitare, senza se e senza ma». Farò una perifrasi più speranzosa: «Ho voglia che vinca l’Italia di Ciampi senza se e senza ma». Me lo auguro di tutto cuore per tutti noi.
È stato calcolato da esperti che le sette società che hanno ceduto a Unipol le azioni Bnl in loro possesso hanno realizzato complessivamente, senza muovere un dito, o usandolo solo per cliccare sul mouse, un guadagno di 1,2 miliardi di euro. Hanno rastrellato circa un miliardo di dette azioni tra uno e due anni fa, pagandole 1-1,3 euro l’una; le hanno cedute a Unipol al prezzo convenuto di 2,7 euro. Da qui il guadagno, che gli addetti ai lavori chiamano plusvalenza. Ma la vera notizia non è la rilevante entità di questo, o la facilità con cui sarà conseguito. Essa va vista piuttosto nella entità risibile delle tasse che su tale guadagno le società cessionarie legalmente pagheranno: forse 20 milioni di euro, nel migliore dei casi, pari all’1,7 per cento della somma in questione.
Un simile regalo dello Stato è reso possibile da una specifica norma, denominata Pex (da participation exemption), contenuta nel Testo unico della legislazione fiscale. Essa prevede che siano totalmente esentate da ogni tassa le cessioni di azioni possedute da imprese a titolo di partecipazione in altre società, purché sussistano un paio di condizioni: che le azioni stesse siano state tenute in portafoglio per almeno un anno, e che la società partecipata esista davvero, né sia iscritta nella lista dei paradisi fiscali. Tali condizioni sussistono tutte nel caso Bnl, con alcune eccezioni personali alle quali si deve se il fisco incasserà almeno una ventina di milioni.
Se il cerchio si chiudesse qui, per evitare il ricorrere di analoghi doni alle società - sui quali si dovrebbe forse chiedere un parere ai milioni di persone che al fisco versano ogni mese un terzo del loro reddito come imposte dirette, e ogni giorno un altro 15% (in media) in forma di imposte indirette - basterebbe cancellare quanto prima la Pex. Come già hanno proposto esponenti del centrosinistra, nel caso in cui questo vincesse le elezioni. Il cerchio è invece molto più ampio, e di esso la Pex è solamente un capitolo modesto. La vicenda del capitale Bnl apre in realtà una finestra su una pratica delle imprese tra le più diffuse e gravide di conseguenze in Italia come nel mondo intero. Al di là di espressioni tecniche quali elusione fiscale o "minimizzazione delle imposte", tale pratica si può definire come l’arte di schivare le tasse.
L’esercizio di tale arte non presuppone soltanto l’abilità di sfruttare le pieghe della legge per pagare meno tasse, che è il significato comune di elusione fiscale. Richiede la capacità di organizzare la produzione a livello internazionale in modo che ciascuno dei suoi anelli sia assoggettabile a prelievi fiscali minimi o inesistenti. È quanto si fa, ad esempio, con il prezzo di trasferimento: le società di un gruppo dichiarano di vendere ad altre società dello stesso gruppo dei beni a un prezzo talora alto, talora basso, ma sempre determinato in modo che i profitti vengano a cadere giusto nel paese in cui l’imposizione fiscale è minore. Una procedura dalle enormi ricadute, a vantaggio delle imprese e a danno dei bilanci pubblici, posto che oltre la metà del commercio mondiale è costituito da simili scambi. La stessa arte presuppone la possibilità di pagare legioni di consulenti legali ed economici aventi una potenza di fuoco, nei tribunali, tale da schiacciare quella contrapposta del fisco. In Gran Bretagna, per dire, le quattro maggiori società di revisione contabile fatturavano nel 2002 quasi 6 miliardi di sterline, mentre il bilancio dell’ufficio centrale del dipartimento delle finanze che doveva tenere loro testa ammontava a meno di 40 milioni. In Usa, poco prima del crollo la Enron aveva speso 88 milioni di dollari di consulenze per evitare di pagare 2 miliardi di tasse federali. L’arte di schivare le tasse comporta infine di avere la capacità politica, ideologica e mediatica sufficiente per convincere i governi a emanare norme fiscali adatte a ridurre drasticamente l’imponibile, in modo da fare in pratica evaporare le aliquote sul reddito delle società – tipo, nel suo piccolo, la Pex.
Negli ultimi decenni l’arte di schivare le tasse, che si compendia nella contrapposizione tra pagare quanto si riesce a fare apparire formalmente legale e quanto invece sarebbe sostanzialmente equo, giusto, legittimo pagare, ha provocato in gran parte del mondo una forte erosione della base fiscale dei bilanci pubblici. Inoltre è stato operato su larga scala un trasferimento della tassazione dai redditi da capitale ai redditi da lavoro. In Italia, le tasse pagate da individui e famiglie rappresentano ormai il 43% delle entrate primarie dello stato; quelle delle imprese, il 6%. Dato non sorprendente, ove si pensi che secondo i dati della Cgia di Mestre oltre il 48% delle 723.000 società di capitali hanno dichiarato nel 2001, ai fini dell’imposta sulle società, un reddito negativo o pari a zero. D’altra parte negli Stati Uniti individui e famiglie pagano l’80% delle imposte federali; le imprese il 20%. Negli anni ‘50 il contributo di queste ultime superava il 40%. Per quanto attiene all’Unione Europea, già qualche anno fa la società di revisione Deloitte & Touche stimava che lo schivamento delle tasse fosse dell’ordine di 140 miliardi di euro l’anno. È in cifre di questo genere che andrebbero cercate alcune ragioni almeno dei deficit dei bilanci pubblici, che costringono in molti paesi a ridurre prestazioni sanitarie e servizi scolastici, insegnamento e ricerca universitaria, trasporti collettivi e pensioni, indennità di disoccupazione e protezione sociale per le famiglie.
Il cerchio si può quindi chiudere con il richiamo a una contraddizione. Dopo i tanti scandali societari del periodo 2000-2003, dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat, si è registrato uno straordinario sviluppo del dibattito e delle iniziative in tema di responsabilità sociale delle imprese (Rsi). Centinaia di codici, a livello internazionale, nazionale e societario, sono stati redatti al fine dichiarato di introdurre maggiori quote di moralità, di attenzione ai portatori di interesse che non si collocano tra gli azionisti, nella gestione delle imprese. Ora si nota che in tali codici - ma lo stesso può forse dirsi di gran parte degli innumeri articoli sulla Rsi - il dovere per i manager di astenersi dall’arte di schivare le tasse utilizzando tutti i mezzi disponibili per fare rientrare nella legalità tale comportamento, in contrasto stridente con una comune nozione di equità e giustizia sociale, non è quasi mai menzionato. Alla fine, persino la vicenda del capitale Bnl, presa qui come spunto per toccare un tema ben più generale, potrebbe risultare utile alla collettività se fosse l’occasione per provare a inscrivere nei codici societari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa, magari a pagina uno, articolo uno, il suddetto fondamentale dovere.
«Dalla Rai alle banche troppe commistioni tra la politica e l'economia» «Su Unipol esitazioni dei Ds. Inevitabile la supplenza della magistratura»
È da tempo che non si sentiva parlare di questione morale. Lo fa Arturo Parisi con toni assai preoccupati e tirando in ballo la stessa qualità della democrazia. «Il pericolo più grande resta a mio parere il populismo e il qualunquismo — sostiene il presidente dell'Assemblea federale della Margherita —. Ma l'unico modo per evitarlo è mettersi dal punto di vista del cittadino comune. Se la politica non interviene tempestivamente rischia di riaprirsi una nuova questione morale. L'esito può essere una rivolta populistica o il cinismo di massa».
Da dove deriva tanto pessimismo?
«Guardi alle vicende di queste settimane, dalla Rai a Bankitalia passando per l'accordo Berlusconi-De Benedetti e la scalata alla Rcs, con un occhio limpido e ingenuo e vedrà il fondamento della mia preoccupazione. I partiti si sono ripresi la scena ma la confusione è tanta e c'è il rischio che la domanda di alternativa che sale dalla società abbia come risposta null'altro che un'offerta di alternanza».
Cominciamo dalla Rai. Come giudica la presidenza Petruccioli?
«Come non vedere una confusione di ruoli tra maggioranza e opposizione, tra le responsabilità del vigilante e l'ente vigilato?».
Ma Petruccioli era il candidato ufficiale dell'Unione e la legge prevede un voto bipartisan per il via libera parlamentare.
«Da un punto di vista formale l'obiezione è ineccepibile così come è fuori discussione il giudizio sulle qualità personali di Petruccioli. Ma che dire dei comportamenti? A cominciare dall'incontro con Berlusconi che certo è il presidente del Consiglio ma prima ancora il padrone di Mediaset. Come meravigliarsi se un giornale sicuramente non estremista, Avvenire, poi titola "Alla Rai Petruccioli, a Mediaset la serie A"? Come non farsi carico della sensazione di baratto che un titolo come questo non può non ingenerare nel parroco o nel ragazzo di oratorio che lo ha letto?».
Si possono rassicurare parroci e giovanotti dicendo loro che Petruccioli ha già dichiarato di voler riportare in video Biagi e Santoro.
«Ma ha anche detto che Berlusconi al governo "non ha fatto troppo bene"! E comunque quella su Biagi è per ora solo una dichiarazione di intenti. Il punto all'ordine del giorno del Cda della Rai di oggi è la nomina del direttore generale, la cui voce non è certo irrilevante nel decidere chi va in video e chi no. Una nomina per la quale ho sentito Petruccioli dichiarare che avrebbe votato qualsiasi direttore generale a patto che non fosse un delinquente o un incapace, quasi che il ruolo del Presidente fosse quello del notaio o del succube e non invece quello di un protagonista attivo».
Se il presidente della Rai fosse diventato Giulio Malgara vicinissimo a Berlusconi l'elettore dell'Unione sarebbe stato più contento?
«No di certo, ma sarebbero state più chiare le reciproche responsabilità».
Anche la partnership tra Berlusconi e De Benedetti le sembra censurabile?
«Dal punto di vista del codice civile è ineccepibile. Ma le norme più importanti della Repubblica sono quelle non scritte. E la più importante di esse è quella che, per dirla con le parole di Carlo Cattaneo, ci ricorda che "la libertà è una pianta con molte radici", una pianta che si fonda sulla distinzione tra piani diversi. Quello della morale, della politica, della religione, degli affari, della informazione. Anche da questo punto di vista l'alleanza sarebbe ineccepibile perché riguarda uomini di affari che fanno affari nel mondo degli affari. Ma come ci si può alleare con chi è responsabile della confusione e del conflitto tra i diversi piani senza alimentare peraltro la confusione che fino ad ieri è stata aspramente denunciata? Come si può immaginare che l'alleanza appaia confinata al solo mondo e alla sola logica degli affari? E quindi non farsi carico del profondo sconcerto che l'episodio produce agli occhi del cittadino comune?».
Anche Prodi dopo l'Iri e prima dell'Ulivo è stato a lungo consulente della Goldman Sachs.
«Attenzione, in momenti diversi della sua vita. E comunque è un principio che se si dovesse dare il caso non potrebbe che valere anche per lui come per ognuno di noi».
E nell'Opa che Unipol sta lanciando sulla Bnl vede anche lì puzza di bruciato?
«Ci sono domande alle quali non sono state date risposte convincenti. L'ispirazione mutualistica che sta alla base dell'esperienza cooperativa non può essere trasposta in una condizione e su una scala diversa, non ci si può trasformare in raider di Borsa con l'aiuto del fisco».
I vertici dei Ds hanno dunque sbagliato ad appoggiare i progetti dell'Unipol?
«In nome del realismo hanno esitato nel farsi le domande giuste. E così guidati dall'istinto che porta ognuno a difendere il proprio mondo hanno dato l'impressione di avallare una regressione neo-corporativa. Il vero virus è ed è stato il conflitto di interessi alla Berlusconi. Dobbiamo assolutamente evitare di esserne in qualche modo contagiati tutti».
E il leader del suo partito Rutelli ha fatto bene a criticare i Ds?
«In questo caso ho condiviso e condivido le sue posizioni. L'impossibilità di affrontare il tema col respiro che merita ha consentito purtroppo di far passare il confronto per una "polemichetta"».
Banche e governatore. Anche a Palazzo Koch gli interessi le sembrano aver la meglio?
«Da cittadino comune ho letto sui giornali quello che hanno letto tutti. Di fronte allo spettacolo al quale siamo stati costretti ad assistere, dire che le dimissioni del governatore sono opportune è eccessivamente riduttivo. Sono doverose. Se dovesse prevalere un atteggiamento irragionevole spero proprio che il Consiglio superiore della Banca d'Italia si faccia carico della sua responsabilità ed eserciti i suoi poteri. Lo dico pensando alle persone autorevoli che lo compongono. Basti per tutti Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale».
Nel centro-sinistra c'è chi dice «teniamoci Fazio sennò Berlusconi ci mette un altro Marzano».
«È un argomento che di fronte alla enormità dei fatti appare misero. Che vantaggio potrebbe mai cogliere il centro-sinistra dalla delegittimazione ulteriore dell'istituzione Bankitalia e dalla conseguente perdita di credibilità del nostro Paese?».
Vede con preoccupazione anche la scalata degli immobiliaristi alla Rcs?
«Il sistema dell'informazione deve restare autonomo. È evidente invece che lo si vuole destabilizzare con fini che non so se siano prima politici o finanziari. O tutti e due insieme».
Ma stiamo andando verso una nuova supplenza della magistratura? La questione morale riporta le toghe a diventare protagoniste?
«È l'esito inevitabile quando la politica e le istituzioni non fanno la loro parte o peggio fanno parti che non sono le proprie. Come non comprendere in questi casi il cittadino comune che pensa "meno male che ci sono i giudici"? La democrazia è responsabilità dialettica, se l'immagine che proponiamo è quella della commistione dei ruoli e degli interessi e dell'omologazione tra schieramenti ridiamo fiato al populismo che avevamo pensato di aver sconfitto».
Immagino che lei sia portato a guardare con sospetto alle trasmigrazioni del centro-destra verso l'Unione e segnatamente verso la Margherita?
«Il fine della politica è far cambiare opinione agli avversari. È trasformismo quando non c'è un cambiamento evidente e manifesto delle opinioni. Noi dobbiamo invece dimostrare ai cittadini che siamo alternativi al sistema di potere berlusconiano e conquistare alle nostre ragioni anche chi è stato in passato nostro avversario. Guai se la gente pensasse che ci stiamo acconciando al "una volta per uno non fa male a nessuno"».